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Macbeth Cura e introduzione di Gabriele Baldini Con un testo di Harold Bloom Chiederemo al cielo e persuaderemo gli dèi a mandar giù la Giustizia, affinché i torti da noi subiti siano vendicati. William ^ ^ C D Tito Andronico Estratto della pubblicazione
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William...Macbeth Cura e introduzione di Gabriele Baldini Con un testo di Harold Bloom Chiederemo al cielo e persuaderemo gli dèi a mandar giù la Giustizia, affinché i torti da

Mar 19, 2020

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Macbeth

Cura e introduzione di Gabriele Baldini

Con un testo di Harold Bloom

Chiederemo al cielo e persuaderemo gli dèi

a mandar giù la Giustizia, affinché i torti da noi subiti

siano vendicati.

William

C D

TitoAndronico

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Opere

William

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Gabriele Baldini (Roma, 1919-1969), saggista, traduttore, critico

letterario e cinematografico, è stato direttore dell’Istituto Italiano di

Cultura a Londra e docente di Letteratura inglese a Roma.

La sua fama, in Italia e all’estero, è legata ai suoi meriti accademici

in anglistica e americanistica: dai suoi studi sono nati saggi di rilie-

vo, come Poeti Americani 1662-1945, Melville o le ambiguità, John Webster e il linguaggio della tragedia. È stato il primo curatore di

una rigorosa edizione dell’intero corpo degli scritti di Shakespeare,

in tre volumi: Opere Complete nuovamente tradotte e annotate

(Classici Rizzoli, 1963). Fanno ancora scuola la sua storia del teatro

inglese – Teatro inglese della Restaurazione e del ’700, La tradizio-ne letteraria dell’Inghilterra medioevale, Il dramma elisabettiano –,

le sue lezioni su Le tragedie di Shakespeare e il fortunatissimo Ma-nualetto shakespeariano.

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WILLIAM SHAKESPEARE - OPERE

Edizione speciale su licenza per Corriere della Sera

© 2012 RCS MediaGroup S.p.A. Divisione Quotidiani, Milano

Direttore responsabile Ferruccio de Bortoli

Proprietà letteraria riservata

© 1963-2012 RCS Libri S.p.A., Milano

Titolo originale dell’opera:

Traduzione di Gabriele Baldini

Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore.È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

via Sol erino 28, 20121 Milano

Sede Legale via Rizzoli 8, 20132 Milano

f

Prima edizione digitale da edizione LLIAM SHA ESPEARE - OPERE WI2012 2012K

e note

24 – Tito Andronico

ISBN 9788861261617

Titus Andronicus

Per il testo di Harold Bloom

© 2012 RCS Libri S.p.A., Milano

Tratto da Shakespeare: the Invention of the Human© 1998 by Harold Bloom

Traduzione di Roberta Zuppet

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PRESENTAZIONEdi Harold Bloom

Le due rappresentazioni del Tito Andronico cui ho assistito – una a New York, l’altra a Londra – ebbero effetti analoghi sugli spettatori, che non sapevano mai quando inorridire e, seppure con un certo disagio, quando ridere. Forse il giovane Shakespeare, reduce dalla composizione del Riccardo III, si ribellò all’influenza ancora schiacciante di Marlowe tentando una parodia del rivale, oltre a una sorta di terapia d’urto per se stesso e per il pubblico. Il Tito Andronico ha un che di ar-caico, nel senso più sgradevole del termine. Sul palco, tutto e tutti – in particolare il rigido Tito – sono molto lontani da noi, a eccezione dell’irresistibile Aronne il Moro, che è un perfezionamento di Riccardo III nell’impossibile tentativo di superare Barabba, l’ebreo di Malta, il più autoconsapevole e il più autocompiaciuto dei cattivi.

Il miglior studio su Marlowe continua a essere The Over-reacher (1952) di Harry Levin, che esordisce ricordandoci come Marlowe sia stato accusato da molti contemporanei di essere insieme ateo, machiavelliano ed epicureo. Come dice Levin, l’ateismo era pagano o naturale (anziché rivelato, co-me la religione), mentre il machiavellismo viene oggi consi-derato puro realismo politico. Aggiungerei che l’epicureismo, nella nostra età freudiana, si integra facilmente con il diffuso materialismo metafisico. Marlowe inventò tutti gli elementi fondamentali dell’arte di Shakespeare, tranne la rappresenta-zione dell’uomo, che era al di fuori sia del suo interesse sia del suo genio. Tamerlano e Barabba sono superbe caricature che recitano iperboli straordinarie. Le iperboli di Marlowe si distinguono in certa misura una dall’altra, ma non vi so-

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no e non possono esservi distinzioni tra i suoi personaggi. Provo un profondo entusiasmo nei confronti di Barabba, ma ciò che mi affascina è un atteggiamento irriverente, non una personalità appena abbozzata. Sotto l’influsso di Marlowe, Shakespeare si accostò molto lentamente alla rappresentazio-ne autentica della personalità. Se, come sostiene Peter Ale-xander e come io ho cercato di dimostrare, l’Amleto originale fu uno dei primi drammi shakespeariani, il suo protagonista sarebbe stato solo una voce. Il servitore Launce dei Due genti-luomini di Verona fu la personalità inaugurale di Shakespeare, ma la maggior parte degli studiosi ritiene che sia venuta dopo il Tito Andronico.

Il giovane Shakespeare divertì se stesso e il pubblico con-temporaneo schernendo e sfruttando Marlowe nel Tito An-dronico. «Se vogliono magniloquenza e sangue, li avranno!» pare essere l’impulso interiore che mette in moto questa car-neficina, l’equivalente shakespeariano di ciò che leggiamo nei libri di Stephen King o che vediamo in molti film. Esiterei ad affermare che nel dramma vi sia un verso insieme ingegnoso e diretto, perché ogni battuta briosa e memorabile è chiara-mente una parodia. Oggi questo giudizio verrebbe contestato da molti studiosi, le cui reazioni al Tito Andronico mi sembra-no piuttosto sconcertanti. Frank Kermode, per esempio, nega che il dramma sia burlesco, anche se ne riconosce le «possibi-lità farsesche». Jonathan Bate, la cui edizione del testo è la più utile ed elaborata, tenta una difesa estetica dell’indifendibile che forse avrebbe sbalordito lo stesso Shakespeare. Pur essen-do affascinato dal Tito Andronico, mi rendo conto che l’opera è una parodia basata sullo sfruttamento, con il fine nascosto di distruggere il fantasma di Christopher Marlowe. Se si leg-ge il dramma come una tragedia autentica, si condivide la disapprovazione del dottor Johnson: «La barbarie delle scene, e il massacro generale che vengono qui rappresentati, non possono ritenersi tollerabili per il pubblico». Vedere Laurence Olivier e Brian Bedford arrancare nel ruolo di Tito, a molti

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anni di distanza uno dall’altro, mi ha dato l’impressione che il dramma non fosse rappresentabile se non come parodia.

Gli spettatori elisabettiani erano assetati di sangue almeno quanto gli individui grossolani che oggi affollano i cinema e guardano la televisione, perciò il dramma godette di grande popolarità e fu una vittoria per Shakespeare, un successo che forse egli accettò con notevole ironia interiore. Nell’attuale critica erudita di Shakespeare confluiscono gli elementi più disparati, dalle difese della sagacia politica del Tito Andronico alle tesi femministe secondo cui le sofferenze della sventurata Lavinia, la figlia stuprata e mutilata di Tito, testimoniano la suprema oppressione delle donne da parte della società patriarcale. Alcuni vi scorgono seriamente alcune prefigura-zioni del Re Lear e del Coriolano, e paragonano persino Ta-mora, la malvagia regina dei goti, a Lady Macbeth e Cleo-patra. Io, che sono forse l’ultimo adoratore tardoromantico del Bardo, rimango incredulo e continuo a rimpiangere che Shakespeare abbia perpetrato questa atrocità poetica, seppur a mo’ di catarsi. A eccezione dello spassoso Aronne il Moro, il Tito Andronico è spaventosamente brutto se lo si prende così com’è, ma io dimostrerò che Shakespeare sapeva che si trattava di uno strafalcione, e voleva che i più perspicaci vi si crogiolassero con una certa autocoscienza. Se siete inclini al sadomasochismo, il Tito Andronico fa al caso vostro, e potete partecipare al banchetto cannibale di Tamora con lo stesso slancio che proverete violentando Lavinia, tagliandole la lin-gua e amputandole le mani. A prescindere dai gusti persona-li, una questione più interessante è l’interpretazione di Tito. Siamo davvero tutti destinati ad avere compassione delle sue interminabili sofferenze, che si prolungano per l’intero dram-ma e in confronto alle quali i tormenti di Giobbe sono solo piagnistei fastidiosi?

Shakespeare fa attenzione a estraniare Tito da noi all’inizio e alla fine; Brecht non avrebbe potuto fare di meglio, e il suo famoso «effetto di alienazione» è un plagio da Shakespeare.

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Il dramma è appena cominciato quando Tito ordina che il figlio maggiore di Tamora venga sacrificato in memoria dei suoi figli morti, di cui ventuno su venticinque sono periti coraggiosamente in battaglia. Il sacrificio consiste nel gettare il principe dei goti su una catasta di legno e poi nel mozzargli le membra per tener vive le fiamme. Dopo che «le membra di Alarbo son tagliate in pezzi / e le sue viscere alimentano il fuoco sacrificale», non trascorre molto tempo prima che Tito uccida suo figlio, colpevole di averlo contraddetto durante una lite su chi avrebbe dovuto prendere in moglie Lavinia. Prima che finiscano i trecento versi dell’atto I, scena i, Tito appare dunque come un mostro bizzarro, una parodia del Tamerlano di Marlowe. Da qui fin quasi alla conclusione del dramma, i crimini vengono commessi contro il protagonista, compresi i travagli di Lavinia, l’esecuzione di due dei tre figli sopravvissuti di Tito e il suo consenso al fatto che Aronne gli tagli la mano in cambio delle loro vite. Queste sofferenze clamorose non ci preparano tuttavia all’omicidio della sfor-tunata Lavinia nell’ultima scena:

Tito. Muori, dunque, o Lavinia, muori! E, muoia con te la tua vergogna, e con la tua vergogna la pena di tuo padre![Uccide Lavinia.]Saturnino. Che hai fatto, padre barbaro e snaturato?Tito. Ho ucciso colei ch’è stata causa ch’io divenissi cieco a forza di piangere.

[V.iii.46-49]

Come minimo, si ha la sensazione che la povera Lavinia avrebbe dovuto avere voce in capitolo! Shakespeare, in ogni caso, ha fatto tutto il possibile per risvegliare la nostra an-tipatia nei confronti di Tito, che è un mostro quasi quanto Tamora e Aronne. Tamora non ha qualità positive, ma Aron-ne sì, perché è molto divertente e addirittura ci commuove con il suo amore per il bambino nero che ha generato con la

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regina. La difesa estetica del Tito Andronico è possibile solo se è imperniata su Aronne, il suo personaggio più marlowia-no, e solo se si considera il dramma una farsa cruenta, come L’ebreo di Malta.

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Gli studiosi e i contemporanei di Shakespeare sono sempre stati affascinati dalle tragedie romane attribuite a Seneca, il tutore di Nerone, poiché quelle gelide declamazioni ebbero un effetto innegabile sul teatro elisabettiano. Il primo Amleto di Shakespeare aveva sicuramente alcune caratteristiche sene-chiane, e senza dubbio il Tito Andronico trae gran parte della propria bruttezza da Seneca. Non possiamo immaginare co-me gli spettatori romani abbiano accolto le tragedie di Sene-ca, perché, a quanto ne sappiamo, non furono rappresentate in pubblico. La loro popolarità tra gli elisabettiani dipendeva certamente dalla mancanza di concorrenti: la tragedia ate-niese non era disponibile e bisognava accontentarsi della sua imitazione burlesca nella produzione senechiana. I drammi di Seneca non sono esattamente ben scritti, ma gli interessi del loro autore avevano poco a che fare con la forma dramma-tica; la retorica intensa era quasi il suo unico scopo. Marlowe, e Shakespeare dopo di lui, ricorsero a Seneca come stimolo per ostentare il linguaggio e le idee neostoiche, ma Marlowe superò facilmente l’insegnamento di Seneca. Shakespeare non era riuscito a sbarazzarsi di Marlowe nel Riccardo III; il Tito Andronico è, dal mio punto di vista, un rituale di esorci-smo in cui Shakespeare ingaggia un agone con Marlowe. La competizione consiste nel portare il linguaggio marlowiano a un punto così estremo che esso inizia a parodiare se stesso, raggiungendo così il limite, e dunque la fine, della modalità senechiana. Aronne il Moro, come Riccardo III una versione del Barabba di Marlowe, è l’arma principale di Shakespeare

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in questo scontro, come emerge chiaramente quando si giu-stappongono i discorsi di Barabba e di Aronne.

Barabba. Quanto a me, io m’aggiro di notte sotto le mura, là dove tanti infermi gemono, e li uccido; spesso vado attorno ad avvelenare i pozzi; talvolta anche, per dimostrar quanto bene io voglia ai ladri cristiani, sono ben contento di privarmi di un po’ del mio denaro pur di vederli – mentr’io passeggio sulla mia loggia – passar di lì prigionieri, in catene. Quand’ero giovane studiai medicina ed incominciai a praticarla in Italia; là resi ricchi i preti con funerali su funerali, e per opera mia le mani de’ sagrestani eran sempre in moto a scavar tombe ed a sonar campane a morto. Dopo di ciò fui ingegnere e nella guerra tra Francia e Germania, col pretesto d’aiutar Carlo V, feci strage d’amici e nemici con le mie invenzioni. Poi fui usuraio; e a furia d’estorsioni, di truffe, di confische, facendo il sensale, accettando pegni, in un anno popolai di falliti le prigioni e di piccoli orfani gli ospizi. Ogni mese qualcuno impazziva per causa mia; v’era persino chi s’impiccava pel dolore, appuntandosi al petto un gran cartiglio ove stava scritto com’io l’avessi torturato con l’esigere gli interessi. Ma guarda come, dal rendere infelici tutti costoro, è venuta a me la felicità! oggi io son tanto ricco che potrei comperare la città intiera. E tu come hai trascorso la vita? Dimmelo.

[II.i.177-204]

Aronne. Sì, provo il dispiacere di non averne compiuti altri mille, e pur ora maledico il giorno – ma penso

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che siano in pochi a cadere nell’àmbito della mia maledizione – nel quale io non ho compiuto un qualche notorio misfatto, come potrebbe essere: l’uccidere un uomo o almeno architettarne la morte, violare una vergine ovvero divisare un modo di violarla, accusare un qualche innocente e giurare il falso, mettere inimicizia mortale fra due amici e fare in modo che il bestiame della povera gente si schianti il collo, dar fuoco, alla notte, ai granai e ai fienili e chiedere ai proprietari di spegner l’incendio con le loro lagrime. Spesso ho tratto fuor dalle tombe i morti e li ho posti ben ritti sulla porta di casa dei loro amici più cari proprio quando costoro prendevano a scordarsi di piangerli, ed ho inciso in lettere romane, col mio pugnale, sulla loro pelle, come fosse corteccia d’albero: «Che il tuo dolore non muoia, pure se morto son io». E ho compiute migliaia di spaventose azioni con la stessa noncuranza con cui si ucciderebbe una mosca e nulla tanto mi affligge ora quanto il non poterne compiere altre diecimila.

[V.i.124-44]

Vince Shakespeare (anche se l’agone resta di Marlowe), per-ché il magnifico impiccato marlowiano con il gran cartiglio appuntato sul petto viene eclissato dal Moro che incide i suoi saluti direttamente sulla pelle dei morti e pone questi ultimi ben ritti sulla porta dei loro amici più cari. Aronne unisce ai farneticamenti di Tamerlano la capacità, tipica di Barabba, di rendere gli spettatori suoi complici. Il risultato è un mostro marlowiano più irriverente di chiunque altro in Marlowe. Senza Aronne, il Tito Andronico sarebbe insop-portabile; il primo atto sembra non finire mai, perché que-sto personaggio non parla pur essendo presente sul palco. Nell’atto secondo suggerisce ai figli di Tamora di risolvere

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la disputa su Lavinia con uno stupro di gruppo. Loro sono felici di dargli ascolto, prima uccidendo lo sposo di Lavinia e poi usando il cadavere a mo’ di letto per violentarla. Moz-zandole le mani e la lingua, le impediscono di accusare i suoi aguzzini, e Aronne riesce a far ricadere la colpa dell’omicidio su due dei tre figli sopravvissuti di Tito. Basta un breve rias-sunto di questi eventi per farci vacillare tra lo shock e la risata nervosa, anche se non abbiamo ancora la reazione antitetica che esterniamo quando Tito chiede a suo fratello e a Lavinia di aiutarlo a portare via dalla scena le teste decapitate dei suoi due figli e la sua mano tagliata:

Tito. Vieni, o fratello, prendi una testa: l’altra io la porterò con questa mia mano. E anche tu, Lavinia, sarai impiegata: porta tu la mia mano, fanciulla diletta, tra i tuoi denti.

[III.i.279-82]

Questi versi si sottraggono a ogni commento, ma invito gli studiosi convinti che il Tito Andronico sia una tragedia seria e sincera a leggerli ad alta voce più volte di fila, con particolare enfasi su «Porta tu la mia mano, fanciulla diletta, tra i tuoi denti». Shakespeare, dopotutto, aveva già scritto La comme-dia degli errori e La bisbetica domata e stava per comporre Pene d’amor perdute; il suo genio per la commedia era palese, sia per il pubblico sia per lo stesso drammaturgo. Definire il Tito Andronico una mera parodia di Marlowe e di Kyd non sembra sufficiente; il dramma è piuttosto un’esplosione, una scarica di ironia rancorosa portata ben oltre i limiti della pa-rodia. Nella produzione shakespeariana non vi è nient’altro che esprima una follia così sublime; quest’opera non prefigu-ra il Re Lear o il Coriolano, bensì Artaud.

Man mano che il Tito Andronico si avvicina alla sua assur-da conclusione, diventa più surrealistico, se non addirittura irrealistico. Nell’atto III, scena ii, Tito e suo fratello si acca-niscono con i coltelli su una mosca; il loro dialogo sull’argo-

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mento occupa trenta versi di pura pazzia. Per quanto questo passo sia barocco, è tuttavia insulso rispetto all’atto IV, scena i, dove Lavinia, cui hanno già tagliato la lingua, usa i mon-cherini per girare le pagine di un volume delle Metamorfosi di Ovidio, finché arriva alla storia di Filomela, violentata da Tereo. Tenendo in bocca un bastoncello e guidandolo con i moncherini, scrive sulla sabbia la parola stuprum e i nomi dei figli colpevoli di Tamora, ossia Chirone e Demetrio. Tito reagisce citando la Fedra di Seneca, lo stesso dramma da cui Demetrio aveva tratto una citazione che preludeva allo stupro e alla mutilazione di Lavinia.

Ovidio e Seneca non fungono tanto da allusioni lette-rarie quanto da strumenti per aumentare la distanza tra il realismo mimetico e le sofferenze illogiche di Tito e della sua famiglia. Sembra opportuno, pertanto, che Tito metta in scena un attacco al palazzo imperiale in cui piovono frecce immaginarie, ciascuna delle quali indirizzata a una particola-re divinità. Per quanto questo passo sia curioso, Shakespeare ne supera l’irrealtà quando Tamora, travestita da Vendetta personificata, fa una visita di cortesia a Tito, accompagnata dai due figli: Demetrio, travestito da Assassinio, e Chirone, mascherato da Stupro. Il loro presunto scopo è convincere Tito a organizzare un banchetto per Tamora e suo marito, l’equivoco imperatore Saturnino, cui intervenga anche Lu-cio, l’unico figlio sopravvissuto del protagonista. Riassumere questi fatti è come raccontare la trama di una soap opera, ma l’intreccio del Tito Andronico è essenzialmente una storia dell’orrore, Stephen King che imperversa tra i romani e i goti. Tito lascia andare Tamora-Vendetta, sicuramente af-finché si metta in ghingheri per il banchetto, ma trattiene Assassinio e Stupro. Legati e imbavagliati, costoro aspettano mentre noi apprezziamo il brivido di una splendida didasca-lia teatrale: Rientrano Tito Andronico con un coltello e Lavinia con un bacile. Il discorso di Tito, la sua prima esternazione allegra dell’intero dramma, non ci delude:

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Tito. Ed ora state bene a sentire che intendo riservare per il vostro martirio. Questa mia unica mano mi è lasciata perché io possa tagliar le vostre gole, nel mentre che la mia Lavinia terrà, con i suoi moncherini, il bacile che dovrà ricevere il vostro sangue immondo. Voi sapete bene che vostra madre, l’imperatrice Tamora, ha intenzione di cenar meco e, credendomi pazzo, fa chiamare se stessa col nome di Vendetta. Ebbene, scellerati, io macinerò le vostre ossa e le ridurrò in polvere, e questa la impasterò con il vostro sangue, e ne farò una sfogliata per cucinarvi, al forno, in due pasticci, entrambe le vostre teste infami, e poi chiederò a quella sgualdrina della vostra empia madre di rimangiarsi, così come fa la terra, la sua stessa progenie. Questo è il banchetto a cui l’ho invitata, e questo è il cibo del quale intendo ch’ella s’ingozzi fino alla nausea. Poiché voi avete trattata mia figlia peggio che Filomela ed io voglio vendicarmi in modo più crudele che Progne. Preparate, adunque, le vostre gole, e tu, Lavinia, raccogli il loro sangue. Quando saranno morti, macinerò le loro ossa e le ridurrò in una sottilissima polvere e poi le impasterò con questo liquido detestato, e cuocerò dentro al forno le loro teste vili in due pasticci. Andiamo, andiamo; che ognuno faccia del suo meglio per approntare il banchetto, il quale io desidero che possa dimostrarsi più sanguinoso e crudele che quello dei Centauri. [Tito taglia la gola a Chirone e Demetrio]. E così portateli dentro, poiché voglio esserne io stesso il cuoco e fare in modo che ogni cosa sia pronta innanzi che ritorni la madre loro. [Exeunt con i cadaveri.

[V.ii.180-205]

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Come dichiara Tito, egli ha un precedente ovidiano nella ce-na servita da Progne, la sorella di Filomela, allo stupratore Tereo, che mangiò il proprio figlio senza saperlo, e potrebbe esservi anche un riferimento al Tieste di Seneca, con il suo cli-max nel sinistro banchetto imbandito da Atreo. Shakespeare supera le sue fonti, ideando una sfogliata simile a una bara (coffin) e l’amabile visione delle teste di Demetrio e Chirone ridotte a gustosi pasticci di carne. Siamo pronti per il ban-chetto, con Tito che apparecchia la tavola indossando un cap-pello da chef. Dopo aver eliminato la povera Lavinia, Tito pugnala la ben più detestabile Tamora, ma solo dopo averla informata che ha mangiato i propri figli. Indubbiamente un po’ disgustato, Shakespeare non concede al protagonista una grandiosa scena di morte. Saturnino uccide Tito e a sua volta viene trucidato da Lucio, l’ultimo di venticinque fratelli e il nuovo imperatore di Roma. Aronne il Moro, dopo aver coraggiosamente salvato la vita del bambino nero partorito da Tamora, viene sepolto nella terra fino al petto e lasciato morire di fame. Shakespeare, che probabilmente condivide il nostro affetto disperato per questo personaggio, gli concede la dignità di queste ultime parole impenitenti, sulla falsariga del Barabba di Marlowe:

Aronne. Perché mai la collera dovrebbe essere muta? Perché ha da esser muta la furia? Io non sono un bambino che, con preghiere vigliacche, sia buono a pentirsi dei delitti compiuti. Se potessi fare a modo mio, commetterei diecimila colpe anche peggiori di queste, e se mai è accaduto che nella mia vita abbia compiuto una qualche buona azione, me ne pento fin nel profondo dell’anima.

[V.iii.184-90]

La produzione inglese del Tito Andronico cui ho assistito era la versione astrattamente stilizzata proposta da Peter Brook nel 1955, che perlomeno aveva il pregio di tenere la violenza

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a distanza simbolica, anche se a scapito dell’eccesso parodisti-co di Shakespeare. Non credo che sarei disposto a rivedere il dramma a meno che il regista non fosse Mel Brooks con la sua compagnia di buffoni, o forse si potrebbe trasformare l’opera in un musical. Benché vi sia una forza sgradevole evidente in tutto il testo, non riesco ad attribuire un valore intrinseco al Tito Andronico. Questo dramma conta solo perché Shake-speare, ahimè, ne è l’autore indiscusso e perché, scrivendolo, purificò in gran parte la propria immaginazione da Marlowe e Kyd. Come abbiamo visto, una traccia di Marlowe perdurò abbastanza a lungo per rovinare il Re Giovanni, ma con Pene d’amor perdute nella commedia, con il Riccardo II nel dram-ma storico e con Romeo e Giulietta nella tragedia, Shakespeare si allontanò finalmente dal suo precursore brillante e crudele. Il Tito Andronico svolse una funzione essenziale per Shake-speare, ma non può fare granché per noialtri.

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