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Massimiliano Cappuccio I NEURONI SPECCHIO SONO I “CORRELATI NEURONALI” DELL’EMPATIA? Pubblicato in Mauro Maldonato (ed.), Pensare la scienza, Bruno Mondadori, Milano 2009, pp. 260-‐‑292. Neuroni specchio ed empatia I neuroni specchio sono i correlati neuronali dell’empatia? Per fornire una risposta chiara e univoca è necessario interrogare anzitutto i presupposti che rendono la domanda possibile, e questo non può essere fatto se non si affronta una preventiva indagine filosofica sulle nozioni di “empatia” e di “correlati neuronali”. Affrontiamo pertanto questa domanda considerando che il nodo concettuale maggiormente problematico non concerne, in sé e per sé, la legittimità di una correlazione tra i neuroni specchio e le dinamiche della coscienza empatica (correlazione che pare legittimamente documentabile e, all’interno di un quadro metodologico sperimentale, addirittura incontrovertibile); piuttosto, esso riguarda anzitutto il significato metafisico che, in maniera per lo più inconsapevole, viene attribuito dal registro esplicativo del naturalismo alle corrispondenze verificabili tra i sostrati neuroanatomici e la vita di coscienza dei soggetti empatici. In questo lavoro avrò modo di sostenere che la compromissione metafisica tipica delle spiegazioni di questo tipo deriva in primo luogo dai presupposti rappresentazionalistici e riduzionistici con i quali, per lo più, viene semplificata la correlazione tra eventi neurobiologici e fenomeni della vita di coscienza. Cominciamo con l’introdurre, anzitutto, che cosa sono i neuroni specchio. Si tratta di strutture della corteccia premotoria la cui attivazione è legata selettivamente a specifiche tipologie di atti motori finalizzati, caratterizzabili come azioni intenzionali: la peculiarità dei neuroni specchio di un soggetto consiste nel fatto che essi si attivano sia quando il soggetto compie l’azione, sia quando il soggetto osserva qualcun altro compiere la medesima azione (Rizzolatti et al. 1996). Si può parlare, per estensione, di “sistemi specchio” o “sistemi risonanti” di un soggetto per indicare tutte le strutture neuronali che si attivano sia in concomitanza del prodursi di una certa modificazione intenzionale nel soggetto (intenzionalità motoria, affettiva, ecc.), sia quando il soggetto riscontra la medesima modificazione in un altro agente intenzionale (si parla pertanto di sistemi specchio motori per le azioni finalizzate, sistemi specchio somatosensoriali per le sensazioni tattili e per il dolore, sistemi specchio emotivi per la paura, la rabbia, il disgusto, ecc.1). Essendo coinvolti tanto nei processi inerenti l’esperienza vissuta in prima persona (eseguo un’azione, provo una sensazione, vivo un’emozione) quanto nei processi riscontrabili in terza persona (osservo qualcuno compiere un’azione, provare una sensazione, vivere un’emozione), i sistemi specchio sono stati indicati come i correlati neuronali di funzioni che sono ad un tempo performative e percettive, ovvero di controllo esecutivo e di riconoscimento2. Questo ha condotto a supporre che i neuroni specchio
1 Si veda ad esempio Singer et al. (2004) per gli studi sull’empatia per il dolore e Wicker et al. (2003) per i fenomeni di contagio legati alle espressioni di disgusto. 2 Gallese (2002). Si veda anche Rizzolatti e Sinigaglia (2006) per un’esposizione comprensiva delle problematiche inerenti i neuroni specchio e l’action recognition.
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rivestano il ruolo di mediare la comprensione dell’attività intenzionale dell’altro; siccome assolvono funzioni percettive e interpretative utilizzando la medesima struttura che viene utilizzata per lo svolgimento di funzioni motorie o affettive, si ritiene che la loro attivazione testimoni un processo di simulazione interiore dell’esperienza dell’altro (cfr. Gallese 2006, Iacoboni 2008). Gallese ha chiamato questa forma di conoscenza dell’altro “Simulazione incarnata”, per sottolineare la sua natura pre-‐‑categoriale e pre-‐‑riflessiva, e per prendere le distanze dagli approcci teorici (Teoria della mente) che intendono l’empatia ancora in termini di schemi di inferenze rivolte all’intendimento razionale (mind reading) delle scelte degli altri3. Secondo la teoria simulazionista di Gallese la base di esperienze personali collegata all’attivazione dei miei neuroni specchio viene da me utilizzata per comprendere il senso del gesto e dell’espressione corporea del soggetto che mi sta di fronte; la simulazione consisterebbe nell’utilizzare il mio patrimonio esperienziale come regola di variazioni possibili del mio vissuto corporeo, ovvero come modello proiettivo utile per replicare il significato interiore, personale, dell’esperienza che sta vivendo l’altro; ciò permetterebbe quindi di attribuire a quest’ultimo – attraverso un meccanismo economico ed adattivo -‐‑ quell’intenzionalità e quella struttura coscienziale che appartiene alla mia vita personale e con la quale sono già famigliare in virtù della mia storia e delle mie esperienze pregresse. Si parla di simulazione perché, mentre empatizzo con l’altro, accedo ai miei vissuti di coscienza come se essi costituissero il vissuto attuale dell’altro che mi sta di fronte. Per giudicare se i neuroni specchio rappresentino effettivamente i correlati neuronali della comprensione pre-‐‑riflessiva dell’altro, occorre ovviamente affidarsi a un concetto attendibile di empatia; la mia ricerca si è concentrata sulla dottrina fenomenologica di Edmund Husserl, perché (sebbene variamente interpretabile e aperta a una lettura critica) essa ci consente di abbozzare un modello rigoroso di come si articolino i processi empatici4. Per Husserl l’empatia è un atto di coscienza soggettivo che consiste nello stabilire un’equivalenza tra il vissuto corporeo di un soggetto e il vissuto corporeo degli altri soggetti ai quali il primo si relaziona. L’equivalenza viene ricavata attraverso un’analogia che si radica nella basilare dualità fenomenologica tra Leib e Koerper. Il primo dei due termini indica il corpo attraverso il quale si percepisce, si vive e si desidera; il secondo ha a che fare, invece, con il corpo di cui si possono avere riscontri solo esteriori, oggettivi, neutri, o addirittura naturalistici. Gli schemi che caratterizzano il Leib di un soggetto vengono dinamicamente a corrispondere agli schemi che caratterizzano il suo Koerper, sebbene questa corrispondenza non sia mai completa e definitiva. Il rapporto dinamico tra il Leib e il Koerper di un soggetto si riversa nella comprensione dell’altro duranti i processi empatici: questa correlazione, concernente l’esperienza fenomenologica di un soggetto, è esportabile agli altri corpi nei suoi elementi costitutivi, per cui la rete di rapporti che concretamente sussiste tra il vissuto corporeo personale del soggetto empatizzante (il suo Leib, ovvero il suo corpo vivo 3 In particolare con lo scopo di elaborare una teoria alternativa rispetto a quella della Simulazione moderata, precedentemente difesa da Gallese e Goldman (1998). 4 Facciamo riferimento, in particolare, alla Quinta meditazione cartesiana e al secondo libro di Ideen. E’ certamente difficile parlare di una teoria compiuta ed esaustiva dell’empatia in questi testi (Hussel 2002a, 2002b) . Nella Quinta meditazione cartesiana, l’attenzione dell’autore è rivolta in massima parte alla fondazione fenomenologica del mondo oggettivo di fronte all’intersoggettività costitutiva già da sempre operante nello sguardo del singolo; in Idee II, Husserl utilizza invece l’empatia come dispositivo di collegamento tra gli strati ontologici del mondo fisico naturale e di quello animale psichico. In nessuno dei due casi Husserl si prefigge di compiere una disamina fenomenologica dell’atto empatico considerato nei termini di attività di comprensione dell’altro; non è illegittima, però, né sembrerebbe azzardata, l’operazione teorica che intende ricavare da questi testi un modello perfettamente operativo – sebbene minimale -‐‑ dell’atto empatico, visto che i caratteri di quest’ultimo vengono esposti, e poi riconfermati in maniera sempre coerente, nei vari contesti in cui Husserl torna a parlarne.
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fenomenologico,) e la situazione oggettiva del suo corpo (il suo Koerper, appunto) può essere trasposta su di un altro soggetto; in questo modo il corpo-‐‑oggetto dell’altro, sebbene appercepito unicamente attraverso modalità esteriori, può essere appreso attraverso una profondità fenomenologica che lo caratterizza come corpo vivo, ovvero come corpo analogo al mio, attraverso il quale si esprimono una intenzionalità, una coscienza, una volontà, e un potere costituente sopra la realtà. Il procedimento analogico implicato nell’atto empatico non consiste in un’inferenza, non si esplica in un giudizio sullo stato mentale dell’altro e non richiede complesse procedure di calcolo o di confronto. Il procedimento analogico è riscontrabile nella struttura del vissuto di coscienza dell’atto empatico, ma è pre-‐‑riflessivo e non necessariamente consapevole. Secondo la lettura data da Ricoeur (1950) e, più recentemente, da Depraz (1994) esso si articola essenzialmente in quattro momenti costituenti. Questi momenti mi sono resi possibili, rispettivamente: (1) dalla mia capacità di riconoscere le sembianze esteriori del corpo dell’altro, riscontrando una somiglianza immediata con la struttura del mio corpo (il Koerper dell’altro e le sue azioni possibili possono essere appresi come variazioni virtualmente ottenibili a partire dallo schema originario del mio Koerper e delle mie azioni); (2) dalla capacità di appercepire per il tramite del mio corpo il senso dell’esperienza che io stesso avrei vissuto se mi fossi trovato nella situazione corporea attuale dell’altro, attribuendo quindi implicitamente all’altro corpo il contenuto schematico di un vissuto che già mi apparteneva e con il quale ero famigliare (attribuisco pertanto alle variazioni del Koerper dell’altro quegli schemi di modificazione del Leib che sono originariamente associati alle variazioni del mio Koerper); (3) dalla capacità di riempire lo schema del vissuto empatizzato, attraverso un procedimento di esplorazione immaginativa delle catene motivazionali che strutturano il vissuto di coscienza dell’altro (desumo quindi le modificazioni possibili nel Leib dell’altro a partire dalla regola psichica che definisce i miei rapporti associativi Leib-‐‑Korper). Ciò consente la ricostruzione del mondo dell’altro come orizzonte orientato a partire dalla presenza situata della sua psiche operante attraverso il suo corpo. Infine, (4) gli animali dotati di capacità empatiche sviluppate conducono una vita personale all’interno di un contesto intersoggettivo, tale per cui ogni individuo che partecipa alle relazioni sociali del gruppo può essere considerato – in senso fenomenologico -‐‑ un soggetto psichico equiparabile agli altri, dotato di una regola comportamentale che è analoga a quella che governa le loro vite di coscienza (con questo passaggio si costituisce la possibilità di una comunità ideale di monadi soggettive concrete, ciascuna delle quali dotata di una propria regola psichica che ne definisce gli schemi possibili di variazione Leib-‐‑Koerper). Il procedimento empatico, pertanto, resta radicato in un primissimo atto di natura sensibile e in una forma di quasi-‐‑percezione del vissuto dell’altro; è un procedimento articolato in molteplici momenti logicamente distinguibili, che costituiscono lo sfondo sul quale viene stabilendosi il rapporto analogico; è un procedimento mediato dal bagaglio delle esperienze sedimentate nel mio corpo e nel grado di famigliarità morfologica e comportamentale che riesco a stabilire tra il mio corpo e quello dell’altro, nella misura consentita dalla prossimità sussistente tra i loro rispettivi schemi di modificazioni Leib-‐‑Koerper possibili. Solo successivamente, in maniera derivata, l’empatia può eventualmente esplicarsi attraverso un procedimento conoscitivo che riempie di determinazioni concrete lo schema del vissuto empatizzato dell’altro attraverso una serie di esplorazioni immaginative, includenti o meno inferenze, interpolazioni, costruzioni simboliche e linguistiche. La costituzione empatica del vissuto corporeo dell’altro è mediata quindi da schemi mutuati dalla mia esperienza corporea acquisita ontogeneticamente, filogeneticamente o socialmente; ciò che io vedo e sento accadere nel corpo dell’altro coincide in maniera semplice e perfettamente congruente
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con ciò che sarebbe potuto accadere nel mio stesso corpo se mi fossi trovato al suo posto. Il dispositivo di trasposizione empatica, essendo basato sull’assunzione di una prospettiva “come se”, sembra costituire sul piano del vissuto fenomenologico ciò che il dispositivo della Embodied simulation tematizzata da Vittorio Gallese rappresenta al livello dell’attività cognitiva e dei processi logico-‐‑simbolici sub-‐‑personali; siccome, a sua volta, il dispositivo della Simulazione incarnata viene istanziato a livello fisiologico dai sistemi specchio, sembra legittimo – e anzi necessario -‐‑ parlare di una qualche forma di correlazione dinamica tra processi empatici e sistemi specchio (Gallese 2006a, 2006b, 2006c). I neuroni specchio costituiscono dunque le basi biologiche dell’empatia? La funzione empatica può essere ridotta al funzionamento dei neuroni specchio? Occorre comprendere questo punto con chiarezza, perché l’ipotesi appena presentata si espone al rischio di molteplici fraintendimenti. Se da una parte sembra convincente l’affermazione che l’attivazione dei neuroni specchio è correlata a fenomeni della vita di coscienza inerenti la comprensione degli altri, resta problematico affermare che i neuroni specchio costituiscano il “correlato neuronale” o la “base” causale del processo empatico, soprattutto se a questi termini si attribuisce il valore di localizzazioni funzionali esaustive del procedimento empatico, e soprattutto se si persevera nel riconoscere in esse una valenza rappresentazionale o una funzione di “controllo” o di “codifica” in senso informatico. Questa affermazione è problematica nella misura in cui essa si accompagna alla convinzione che i sistemi specchio “codifichino”, “producano” o “contengano” la semantica dei vissuti empatizzati5; nel momento in cui un significato viene oggettivamente attribuito al sostrato neuronale, nel momento -‐‑ cioè – in cui si afferma che il sostrato neuronale costituisce una “rappresentazione” del vissuto esperienziale empatizzato, è possibile vedere emergere una serie interminabile di complicazioni. Queste complicazioni ineriscono per lo più la struttura del processo semiotico che dovrebbe rendere possibile, reperibile e interpretabile un tale significato “rappresentato”, cioè oggettivamente conservato nel sostrato neuronale. Il primo e più grave di questi problemi è costituito dal fatto che non sembra esistere alcun interprete adeguato per rapportarsi naturalmente alle supposte rappresentazioni istanziate dall’attività neuronale medesima, la quale è strutturata in maniera tale da rimanere materialmente inaccessibile allo sguardo di qualsiasi interprete e alle sue capacità dirette di comprensione; ed è poco plausibile che il cervello possa essere considerato come l’interprete di se stesso, ovvero il destinatario delle proprie “rappresentazioni”, visto che non è chiaro per quale scopo il sistema nervoso centrale dovrebbe essere tenuto a interpretare i propri processi. A questo proposito, il filosofo della mente e fenomenologo Hubert Dreyfus (2002) aveva già efficacemente osservato – in una prospettiva merleau-‐‑pontiana -‐‑ che, per poter guidare ed eseguire efficacemente la propria attività cognitiva, il corpo non ha bisogno di rappresentazioni che costituiscano dei modelli interni da confrontare con l’esperienza, perché l’esperienza stessa è il modello rispetto al quale il corpo deve riferirsi per agire efficacemente nel mondo6, e le
5 L’attribuzione di significato esperienziale ai sostrati neuronali può essere motivata da istanze filosofiche diverse, alcune delle quali rivolte programmaticamente a ricomporre la frattura tra coscienza e cervello imposta storicamente dalla metafisica dualistica della mente. Anche nel linguaggio neuroscientifico utilizzato da Gallese (2000), ad esempio, è talvolta rintracciabile un’istanza di semantizzazione di tipo anti-‐‑dualistico. Nel prosieguo del presente articolo si cercherà – almeno in forma embrionale -‐‑ di argomentare come, per quanto ragionevolmente motivata, l’istanza di ricomposizione basata su presupposti riduzionistici e rappresentazionalistici sia destinata a eludere, in ultima istanza, il problema della reale collocazione della coscienza rispetto al cervello. 6 Si veda su questo punto l’analisi condotta da Recchia-‐‑Luciani (2007, p. 220), in massima parte – sebbene non interamente -‐‑ analoga alla nostra: “Il cervello con le sue mappe somatotopiche produce proiezioni o
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rappresentazioni neuronali non sono altro che spiegazioni costruite a posteriori dagli scienziati che intendono studiare il funzionamento del cervello. Seguire la via del rappresentazionalismo, e retrocedere quindi le facoltà interpretative al livello sub-‐‑personale dei processi neuronali avrebbe soltanto la conseguenza di trascinare l’intero processo di significazione nel classico problema del regresso infinito della cognizione, che è peculiare delle teorie omuncolari della cognizione e che emerge come la lineare conseguenza degli approcci cognitivistici. La semantizzazione dei processi neuronali (per come essa viene comunemente intesa dal pensiero riduzionistico delle neuroscienze, in complicità con il rappresentazionalismo dell’epistemologia naturalistica), e la conseguente attribuzione alle strutture neuronali di un ruolo causale statico e localizzato nella produzione dei fenomeni di coscienza, diventano rapidamente l’oggetto di perplessità gravi e molteplici. In primo luogo, la concomitanza dell’attivazione dei sistemi specchio e dell’esperienza empatica non può valere come garanzia, in alcun modo, del fatto che il sistema specchio rappresenti, riproduca o controlli, a livello organico, il contenuto dell’esperienza empatica. Se anche i sistemi specchio fossero condizione necessaria e sufficiente per il prodursi dei fenomeni empatici (e non è detto che lo siano), resterebbe comunque problematico affermare che l’empatia possa ridursi a un evento fisico-‐‑chimico localizzabile anatomicamente e contenibile in una delimitata porzione estesa del sistema nervoso centrale, principalmente in ragione della discontinuità radicale, e non risolvibile, che permane tra le descrizioni qualitative che sono proprie degli eventi di coscienza, come appunto l’empatia, e le misurazioni quantitative con le quali si rende conto degli eventi neuronali. La fenomenologia ha abbondantemente interrogato l’assurdità implicita in conclusioni di questo tipo, mentre le teorie della mente estesa e le istanze dell’epistemologia di orientamento ecologico hanno sottolineato il ruolo integrato, e non meramente supplementare, del contesto ambientale e sociale nel prodursi dei fenomeni di coscienza e delle funzioni cognitive superiori; questi approcci hanno messo a nudo che un evento neuronale non può essere considerato, in sé e per sé, latore di una valenza semantica o rappresentazione di un contenuto esperienziale e, tanto meno, di un valore intenzionale. Questo risulta valido in generale per tutti i fenomeni della vita di coscienza, per i quali è molto spesso difficile – sia dal punto di vista teorico, sia dal punto di vista empirico – stabilire criteri di corrispondenza uno-‐‑ad-‐‑uno con le regioni del cervello. Esistono alcune motivazioni generali che impediscono una localizzazione in senso riduzionistico delle funzioni cognitive emergenti nei sostrati neuronali sottostanti. Queste motivazioni sono state prese in considerazione da Thompson e Noë in un articolo di qualche anno fa (2004) e, prima ancora, da Varela e Thompson (2001). Concentriamoci per il momento sugli argomenti portati da Thompson e Noë, utilizzandoli per discutere il nostro problema di partenza: consideriamo pertanto che i neuroni sono agenti inintenzionali, mentre l’atto empatico ha sempre come protagonista una soggettività cosciente. I neuroni specchio non sono elementi dell’esperienza corporea intuitiva; essi piuttosto, dal punto di vista fenomenologico, sono oggetti teorici che acquisiscono il loro senso di fronte all’atteggiamento astraente delle scienze mediche: sono inerti dal punto di vista motivazionale e meramente reattivi rispetto ai processi fisico-‐‑naturali, proprio come tutte le altre strutture fisiologiche; operano al livello sub-‐‑personale dei processi fisico-‐‑naturali, mentre l’empatia e la simulazione incarnata sono processi riferibili unicamente a un agente personale, sebbene quest’ultimo possa essere coinvolto anche soltanto a livello pre-‐‑conscio e pre-‐‑riflessivo (inconsapevole, ma sempre almeno in parte cosciente, dunque). Per questo motivo, se anche risultasse confermato – come sembra plausibile, da una prospettiva naturalistica -‐‑ che i neuroni specchio partecipano necessariamente al prodursi di corrispondenze tra enti, NON rappresentazioni dotate di senso, di valore semantico […] Il valore semantico manca alle mappe neurali per se.”
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un atto intenzionale, nondimeno essi non possono essere considerati, in sé e per sé, come rappresentazioni o centri di controllo degli atti intenzionali, ovvero come depositari o responsabili del senso di intenzionalità o del contenuto motivazionale che è fenomenologicamente intrinseco a quegli atti. I limiti della rappresentazione mentale La fragilità della nozione di “rappresentazione neuronale”, la quale rimane sempre più o meno esplicitamente in debito nei confronti delle metafisiche di stampo adeguativo, e l’impossibilità di una mappatura uno-‐‑ad-‐‑uno del livello fenomenologico in quello fisico-‐‑neuronale costituiscono difficoltà inaggirabili per la tesi del riduzionismo neuronale applicata alla semantica dei vissuti di coscienza. Per questo Evan Thompson e Alva Noë hanno sottoposto a una critica radicale i presupposti metafisici che implicitamente animano il rappresentazionalismo delle scienze cognitive. La loro critica si rivolge sia alla “tesi dell’isomorfismo” (che sostiene che la struttura degli atti di coscienza è conforme alla struttura degli eventi neuronali correlati), sia alla “tesi della corrispondenza minimale” (che sostiene che per ogni atto di coscienza sia in linea di principio identificabile un evento neuronale determinato). Nella prospettiva dell’emergentismo radicale che essi difendono7, infatti, e nel contesto esplicativo della mente estesa e dell’enazione, non esiste alcun principio che garantisca a priori che per ogni atto di coscienza sia rintracciabile un definito evento neuronale correlato, sebbene evidentemente – di volta in volta – possiamo riscontrare la presenza più o meno manifestamente regolare di concomitanze tra gli eventi neuronali e gli eventi della vita di coscienza. Un principio di corrispondenza rappresentazionalistico risulterebbe in effetti implausibile perché l’evento neuronale non è una copia o un calco dell’evento psichico, iscritto nella materia cerebrale, e viceversa il vissuto di coscienza non è meramente un riflesso prodotto da una serie di concatenazioni fisico-‐‑chimiche. Tra i due piani si offre sempre un rapporto di mutua presupposizione e di dinamica co-‐‑determinazione, ovverosia entrambi dipendono, nella loro essenza, da un unico evento “enattivo” dal quale emerge la possibilità di riscontrare una loro continua e reciproca causazione; al tempo stesso ciascuno dei due piani continua a offrirsi come eccedente rispetto all’altro, asimettrico e inconcluso, e non puntualmente riducibile ad esso, perché provvisto di qualità e di regole esclusive. Questa osservazione critica mette in discussione il presupposto su cui si basano i tentativi di circoscrivere all’interno di localizzazioni sempre più specifiche del cervello le matrici causali dei fenomeni della vita di coscienza, come ad esempio i fenomeni empatici. Per di più, questa osservazione suggerisce di interrogare radicalmente l’idea tradizionale di causazione fisico-‐‑psichica tipica del discorso riduzionistico, con lo scopo di mettere in questione la sua tendenza a intersecare indiscriminatamente, e senza opportune distinzioni, le categorie sperimentali e naturalistiche -‐‑ inerenti i fenomeni fisico-‐‑chimici del mondo neuronale -‐‑ con le categorie dell’esperienza inerenti la vita di coscienza soggettiva -‐‑ con le sue necessarie implicazioni sociali e quindi con il valore contestuale che esso può acquisire unicamente maturando nel piano intersoggettivo e sociale; il pensiero dell’enazione suggerisce di porre attenzione alle articolazioni complesse e multi-‐‑direzionali che tengono unite, e che al tempo stesso mantengono qualitativamente irriducibili, le molteplici modalità della descrizione nei suoi diversi piani di sviluppo. Fin qui abbiamo esposto alcuni motivi critici generali nei confronti del rappresentazionalismo, del riduzionismo e dei tentativi di semantizzazione dell’attività neuronale. Esistono poi ragioni
7 Si veda la proposta contenuta nell’articolo di Varela e Thompson (2001) relativa al radical embodiment.
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particolari, inerenti la specificità dei neuroni specchio, che impediscono di attribuire loro -‐‑ riduzionisticamente -‐‑ un ruolo causale esclusivo nel prodursi dei processi “empatici” (su questo punto si veda in particolare Boella 2006). Rivolgendoci più specificamente ai neuroni specchio, bisogna osservare in primo luogo che il concetto di empatia tiene insieme atti di coscienza molto diversi tra di loro, e questo dipende anche dal fatto che tale concetto è il risultato di un percorso filosofico frastagliato e complesso, scandito anche da scelte culturali precise. L’atto empatico, nella sua complessità, risulta tanto articolato dal punto di vista della fenomenologia della comprensione dell’altro da eccedere sempre queste caratterizzazioni, e anche per questo motivo non è affatto detto che esista una struttura neuronale specificamente deputata a istanziarlo nella compagine fisico-‐‑funzionale del cervello o di una sua parte. Va osservato, infatti, che l’empatia – come si è in precedenza accennato, riassumendo alcuni aspetti della nostra indagine husserliana -‐‑ è un processo stratificato che, a volerlo ridurre alla sua ossatura fondamentale, si compone almeno di un momento legato all’appercezione sensibile (coglimento della rassomiglianza), e di un momento sintetico/analogico, legato alle potenzialità protentive e associative della coscienza temporale (appresentazione analogica, mediata da una particolare forma di sintesi che avviene nella passività della coscienza); su questi due momenti basilari può innestarsi un ulteriore momento di esplorazione del vissuto dell’altro, di libera variazione prospettica e di ricostruzione dei suoi nessi motivazionali, attraverso il tramite dell’immaginazione e del ragionamento (trasferimento immaginativo). Quest’ultimo momento consente di ripercorrere mentalmente le variazioni del punto di vista dell’altro e le modificazioni nel contenuto di senso che dirigono i suoi atti di coscienza. I neuroni specchio sembrano rivestire un ruolo cruciale solamente in un passaggio preciso di questo percorso, quello del cosiddetto “Accoppiamento” (Paaung), ossia il processo che conduce dall’appercezione di rassomiglianza all’appresentazione analogica. Si tratta del momento in cui si rende possibile vedere, attraverso i gesti e i movimenti dell’altro, l’espressione di contenuti appartenenti alla sua vita di coscienza intenzionale; questi ultimi si manifestano in quanto motivanti, dall’interno, i gesti e i movimenti dell’altro, riempiendoli di significato soggettivo. Secondo Husserl, come si è visto, questo passaggio consiste in un atto di sintesi che associa biunivocamente – rendendoli virtualmente interscambiabili -‐‑ le sembianze esteriori del corpo dell’altro con i vissuti corrispondenti del mio corpo vivo fenomenologico; per la teoria della Simulazione incarnata, questo passaggio si gioca nel processo che inscrive i riscontri percettivi inerenti le azioni dell’altro nella base degli schemi motori sottostanti alle mie proprie competenze performative. Questo momento pare assolutamente cruciale per lo svolgimento di qualsiasi atto empatico, ma -‐‑ d’altra parte -‐‑ nessun atto empatico sembra potersi ridurre a questo procedimento minimale di codifica e traduzione dell’altro in me, ovvero del dato percettivo nel dato performativo. Un atto empatico, per dirsi compiuto o anche soltanto abbozzato, deve includere anche innumerevoli capacità di riconoscimento e di confronto sensoriale più semplici e passive, nonché una capacità attiva di variazione immaginativa almeno minimale che possa dirigere e selezionare i modi dell’attivazione del proprio vissuto in vista della ricostruzione delle motivazioni del vissuto dell’altro.
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Per ricostruire le motivazioni dell’altro è necessario poter predire le sue intenzioni, osservando la direzione finalistica assunta dalle sue azioni durante il corso del loro svolgimento. Per questo motivo è stato ipotizzato (Fogassi et al. 2005) che l’attivazione in sequenza di circuiti adiacenti di neuroni specchio motori legati a tipologie di atti diversi possa svolgere una funzione anticipatoria, e pertanto predittiva, rispetto alle catene motorie che strutturano la fenomenologia del comportamento dell’altro; in altre parole, se questa ipotesi fosse corretta, seguendo le attivazioni dei circuiti di neuroni specchio in successione sarebbe riscontrabile il percorso seguito dall’atto protentivo con il quale la mia coscienza anticipa l’azione dell’altro; sarebbe quindi possibile prevedere gli esiti e gli scopi delle azioni complesse dell’altro, comprendendone l’articolazione di
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senso possibile sulla base della concatenazione dei programmi motori semplici che compongono il movimento corporeo. In questi programmi si potrebbe leggere l’aspettativa di uno scopo motorio aperta dalla manifestazione ancora soltanto parziale dell’azione in fieri. L’ipotesi secondo la quale i circuiti dei neuroni specchio costituirebbero dei forward models sembrerebbe già confermata dagli esperimenti che mostrano i deficit dei soggetti autistici nell’anticipazione dei movimenti finalizzati attraverso i quali si articolano le catene motorie8, ma tale ipotesi attende comunque un modello computazionale che renda intelligibile il funzionamento di questo dispositivo. Siccome, per il momento, i neuroni specchio sembrano essere coinvolti solo tangenzialmente nei procedimenti immaginativi legati alla comprensione profonda delle motivazioni dell’altro (corrispondenti al terzo momento del circuito empatico precedentemente delineato), e siccome sussistono altri processi cognitivi9 che sembrano svolgere queste funzioni in maniera più chiara ed esplicita rispetto a quanto non potrebbe essere fatto dai neuroni specchio, diventa troppo impegnativo affermare che l’atto empatico sia riducibile tout court – nella sua complessità -‐‑ alla funzione svolta dai sistemi specchio. Detto questo, resta ancora valida e perfettamente plausibile la tesi che afferma che il momento cruciale dell’empatia (il secondo momento, quello dell’appresentazione analogica), considerato come atto di cognizione incarnata, accade in maniera strettamente concomitante all’attivazione dei sistemi specchio. Se anche l’ipotesi sulle capacità anticipatorie e predittive dei sistemi specchio venisse confermata, però, sarebbe necessario riscontrare una ulteriore differenza tra l’atto empatico, per come esso si articola nel vissuto di coscienza, e i processi di risonanza intersoggettiva, per come essi vengono espressi nei sistemi specchio. Questa differenza riguarda la struttura temporale dell’atto empatico: nel modello descrittivo husserliano, il processo empatico, per la sua articolazione essenziale, non è caratterizzabile come sommatoria di momenti o istanti semplicemente presenti, e non è neanche una successione di immagini dell’altro e dei suoi movimenti corporei, ma deve includere una struttura continua di ritenzione/protensione nella quale si costituisca come orizzonte virtuale e potenziale il senso di compresentazione dei profili del comportamento dell’altro non attualmente presenti; grazie a questa dinamica, durante ogni istante del gesto che io vedo eseguire dall’altro, si manifesta -‐‑ almeno in qualche misura -‐‑ l’aspettativa di un riempimento possibile inerente le componenti ancora adombrate del gesto in questione. Ogni momento o parte del movimento contiene già in sé il senso di tutta l’azione, come virtualità o come senso di una variazione possibile. Gli esperimenti di Umiltà et al. (2001) sembrano suggerire proprio questo concetto, avendo mostrato che un atto di prensione, sebbene parzialmente coperto durante le fasi iniziali della sua traiettoria, attiva comunque i neuroni specchio corrispondenti per quel tipo di prensione nell’osservatore, perché rimanda al significato intenzionale dell’azione intuita come organica unità di senso rivolta verso uno scopo pratico. Ora, i profili non attualmente offerentisi all’esperienza intuitiva, in quanto unicamente anticipati nella protensione, non sono meramente presenti, ma non sono nemmeno rappresentati nella coscienza, cioè – per le loro caratteristiche essenziali -‐‑ non è possibile affermare che essi siano riprodotti in forma di immagine, come se si trattasse di semplici “copie mentali” di un evento non attualmente percepibile; essi, piuttosto, sono sempre com-‐‑presenti alla coscienza, pur nel loro adombramento costitutivo, come possibilità di variazione e come regola di produzione virtuale del non ancora visibile che è già operante nel visibile, sebbene si tratti di una regola che non è mai esplicitamente manifesta nella sua complessità multi-‐‑prospettica. La fenomenologia dell’atto empatico, pertanto, include un alone irreale di ritenzione e protensione del senso dell’esperienza 8 Cattaneo et al. (2007). 9 Si considerino ad esempio gli studi di Berthoz (1997) sul sistema vestibolare e sulle sue funzioni di “emulazione” del punto di vista dell’altro nei processi di orientamento allocentrato.
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empatizzata che non è riducibile ad alcuna ipotetica semantica delle tracce neuronali, visto che queste ultime si concretizzerebbero sempre, in ultima analisi, in una successione di immagini dei contenuti di esperienza, immagini che sarebbero effettivamente presenti alla coscienza, oppure che resterebbero immagazzinate nella memoria come rappresentazioni in attesa di essere riattivate10. L’atto empatico non si svolge né attraverso presentazione del vissuto dell’altro (ipotesi che condurrebbe un’indistinzione fusionale tra la mia coscienza empatica e la coscienza percettiva dell’altro), né attraverso rappresentazione dell’interiorità dell’altro (ipotesi che, di fatto, renderebbe inaccessibile il vissuto dell’altro in carne ed ossa, relegando ogni soggetto nell’isolamento solipsistico delle proprie raffigurazioni mentali); l’atto empatico, nei termini husserliani, si basa piuttosto su di una appresentazione dei comportamenti possibili dell’altro, ovvero nella condivisione corporea, incarnata, della “regola psichica” che definisce le sue invarianze motivazionali e quindi le sue modificazioni possibili. L’atto empatico, in quanto strutturato su basi appresentazionali, e non rappresentazionali o presentazionali, richiede un’associazione inesauribile e continua tra le parti che lo compongono, una configurazione organica di senso che risulta assai difficile (e forse impossibile) da descrivere nei termini dell’attivazione puntualmente consequenziale e meramente positiva dei sistemi specchio11. La teoria dei correlati neuronali sembra presupporre sempre che una rappresentazione semantica o è presente alla coscienza (quando i correlati neuronali sono attivi), oppure non lo è (quando i correlati neuronali sono inattivi), giacché l’attività neuronale rappresenterebbe appunto il discrimine tra un accesso al contenuto del vissuto di coscienza e una semplice latenza di questo contenuto nel medium neuronale; come rendere conto, allora, della nozione di appresentazione (tematizzata da Husserl) che è irrinunciabile per la fenomenologia ritentiva/protentiva dell’atto empatico, e che tuttavia non è mai riducibile a una situazione di semplice presenza o di assenza? Evidentemente, una corretta interpretazione della nozione di “correlazione neuronale” deve tener conto della dinamica fenomenologica dell’appresentazione e della struttura temporale degli atti di coscienza che su di essa si fondano; i fraintendimenti riduzionici e rappresentazionalistici della nozione di correlazione neuronale derivano linearmente dal rifiuto positivistico di tematizzare un momento di virtualità “irreale” (ma, potremmo meglio dire “appresentazionale”) nella compagine dei processi neurocognitivi12.
10 Lohmar (2005, 2006) ha sottolineato l’aspetto “fantasmatico” delle funzioni empatiche in relazione al comportamento dei neuroni specchio, fornendo alcuni elementi importanti per pensare il ruolo della struttura irreale di tipo ritentivo/protentivo nella produzione dell’atto empatico. 11 Francisco Varela, con il suo celebre studio sulle resonant cell assemblies (1995) e in seguito con la sua riflessione fenomenologica sul ruolo del “presente specioso” (1996), aveva osservato che la struttura temporale allargata del vissuto di coscienza può trovare un riscontro nelle funzioni cerebrali soltanto se queste ultime vengono osservate olisticamente, puntando l’attenzione sui ritmi di risonanza che sembrano scandire l’attività complessiva delle attivazioni neuronali in generale, e che guidano la produzione dei singoli processi locali grazie ad un fenomeno di autorganizzazione sistemica emergente. Significativamente, nell’ipotesi di Varela, la struttura temporale del vissuto di coscienza dipende da un fenomeno sistemico di natura armonica, e non dal grado quantitativo di un’attivazione localizzata, come nel caso dei neuroni specchio. 12 La struttura temporale del vissuto di coscienza risulta difficilmente commensurabile al suo resoconto neuronale anche per quanto riguarda il problema dell’identità nella reiterazione. Bracco (2007) ha svolto delle considerazioni molto lucide sul problema della reiterabilità dell’azione alla luce della sua espressione meramente positiva nei neuroni specchio, esibendo come l’invarianza del medesimo gesto risulterebbe inficiata proprio dalla presenza di una traccia neuronale che ne testimonierebbe ogni volta l’evento, catturandolo in una rappresentazione prefissata e quindi rendendolo irriproducibile in quanto non-‐‑invariante. Anche in questo caso si tratta della difficoltà tipica dei resoconti naturalistici di rendere conto dei
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Vi è almeno un altro aspetto della fenomenologia del processo empatico che non sembra compatibile con un resoconto riduzionistico o rappresentazionalistico delle funzioni dei sistemi specchio. Questo aspetto deriva dal fatto che un resoconto di questo tipo è sempre anche solipsistico, perché assume che i contenuti delle rappresentazioni mentali abbiano valore e si producano unicamente nello spazio isolato e indipendente dei processi psichici interiori. In realtà, come le analisi di Husserl hanno abbondantemente chiarito, perfino il controllo delle capacità empatiche più semplici richiede la preventiva partecipazione alle operazioni dell’intersoggettività costituente, mentre la costruzione delle abilità empatiche più complesse richiede una frequentazione del mondo-‐‑della-‐‑vita che sia profondamente comune a più soggetti; da questo punto di vista, i neuroni specchio non possono costituire le basi biologiche (in senso riduzionistico) della cognizione sociale, poiché essi stessi – nella loro conformazione morfologica e funzionale – risultano essere il prodotto storico della vita sociale e del coinvolgimento nelle pratiche di conversazione gestuale: la genesi della loro attività deriva da meccanismi di progressiva selezione e di rinforzo che – grazie alla continua interrelazione che si consolida e che si regolarizza tra gli individui sul piano personale -‐‑ stabiliscono la loro propria validità in ragione delle risposte offerte dalla concreta esperienza condivisa, dalle pratiche di vita maturate nel contesto culturale, e non da qualche astratto territorio delle funzioni logico-‐‑simboliche sub-‐‑personali, con la loro sintassi vuota e formale13. La funzione dei circuiti dei neuroni specchio, quindi, deriva dal senso degli atti motori sedimentato nell’esposizione ai vari contesti di senso della vita sociale; ma il senso delle operazioni sociali, così come la loro validità intersoggettiva, non è mai qualcosa di rinchiudibile, o di esauribile, nelle circonvoluzioni della corteccia premotoria, e piuttosto si può dire che esso abita il mondo delle operazioni coscienti intercorporee, che si svolgono al livello della vita personale e condivisa a livello interpersonale. E’ anche per questo che, come alcuni neuroscienziati hanno ammesso recentemente (Cfr. Iacoboni 2008), i neuroni specchio vanno considerati come il prodotto, e non come l’origine, della vita intersoggettiva dell’uomo; essi costituiscono il sedimento -‐‑ o il riflesso – dell’esperienza di condivisione del senso, e manifestano per questo il valore di testimonianze di una consolidata partecipazione intercorporea alle esperienze fondamentali della socialità e della vita intersoggettiva, esperienze nelle quali tutte le specie animali superiori sono già da sempre immerse. Anche da questo punto di vista, la teoria dei neuroni specchio può essere apprezzata meglio solo se valutata nel contesto teorico della Extended mind, cioè all’interno di una filosofia della mente di taglio fenomenologico che sia capace di includere il mondo delle operazioni concrete e soggettive nell’esperienza, degli atti condivisi, delle pratiche sociali e del loro significato, con la convinzione che è proprio la coscienza sociale a dotare di un senso e di una funzione le operazioni cognitive individuali; in accordo con la dottrina husserliana dell’intermonadicità, la coscienza è un campo di fenomeni strettamente vincolato alla partecipazione intersoggettiva in un universo di senso poliprospettico e aperto; e il mondo esperienziale di un singolo uomo è sempre anche una prospettiva molteplice attraverso cui si donano in appresentazione – potenzialmente, e secondo modalità prospetticamente adombrate – i mondi di senso abitati o abitabili da tutti i suoi consimili. fenomeni di ritenzione e protensione, in assenza dei quali le nozioni di identico e diverso rimangono delle incognite formali e vuote. 13 Si vedano ad esempio gli studi di Calvo-‐‑Merino et al. (2005) sul ruolo delle aree motoree nell’apprendimento e nell’imitazione della danza.
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I neuroni specchio non bastano (ma non possiamo farne a meno) Esistono poi alcuni motivi empirici che rendono problematica l’asserzione riduzionistica secondo la quale i sistemi specchio sarebbero le basi biologiche dell’empatia. Non solo sappiamo che l’atto empatico non si esaurisce nella funzione dei neuroni specchio; sappiamo anche che non tutta la gamma dei fenomeni empatici normalmente riconosciuti avviene in concomitanza dell’attivazione dei neuroni specchio (motori) o delle funzioni specchio (somatosensoriali, emotive, ecc.). Sappiamo, ad esempio, che i neuroni specchio motori si attivano solo per azioni finalizzate e transitive (spostare, lacerare, spingere un oggetto), mentre sappiamo che le nostre capacità empatiche devono concentrarsi continuamente anche su azioni non transitive. Per quanto riguarda i sistemi specchio di tipo affettivo/emotivo, invece, è stato possibile ottenere fino ad ora solamente riscontri sperimentali per alcune emozioni di base negative (dolore, disgusto, rabbia, ecc.) mentre non esistono dati lampanti circa l’esistenza di sistemi specchio legati, ad esempio, alla gioia, al piacere, o alla fame. Anche da questo punto di vista, la casistica per i quali gli esperimenti hanno ottenuto riscontri positivi è notevolmente ridotta rispetto alla gamma dei fenomeni che normalmente ricadono sotto la definizione di empatia. Un ulteriore aspetto empirico, che risulta problematico – in questo caso -‐‑ dal punto di vista della metodologia neuroscientifica, ci suggerirebbe di procrastinare il nostro giudizio circa la riducibilità dei processi empatici alle funzioni specchio: questo aspetto riguarda l’impossibilità, fino ad ora riscontrata, di utilizzare sui neuroni specchio la metodologia della doppia dissociazione funzionale – normalmente adoperata nel contesto della neuropsicologia clinica. Questo impedisce di confermare definitivamente il ruolo causale esclusivo svolto dai sistemi specchio (almeno di quelli motori) nei processi di comprensione e interpretazione delle azioni intenzionali degli altri. E’ vero che alcuni esperimenti di inibizione elettromagnetica dell’area premotoria (con rTMS) hanno palesato un deficit temporaneo delle capacità di riconoscimento dell’azione da parte dei soggetti interessati14; inoltre alcuni riscontri clinici sembrerebbero congruenti con l’idea che il livello di funzionamento dei sistemi specchio sia commisurato con il grado di predisposizione soggettiva agli atteggiamenti empatici (Singer et al. 2004); queste prove, tuttavia, non sono abbastanza definite dal punto di vista spaziale, temporale e causale per operare la doppia dissociazione. Va peraltro aggiunto che, dal punto vista clinico, per via della loro localizzazione anatomica, risulta particolarmente problematico riscontrare lesioni isolate riguardanti unicamente i neuroni specchio delle aree premotorie, visto che questi ultimi si trovano in una posizione di strettissima prossimità con innumerevoli altri dispositivi neuronali che risultano cruciali per la modulazione delle capacità cognitive e motorie più disparate. E’ quasi impossibile che si riesca a trovare un paziente con lesioni specifiche per le famiglie dei neuroni specchio; inoltre, un paziente con lesioni alle aree che interessano le funzioni specchio in linea di massima presenterebbe un quadro sintomatico così ampio e confuso da impedire ogni procedimento di analisi differenziale rivolto all’enucleazione dei deficit specifici dei sistemi specchio. E’ vero tuttavia che, dal punto di vista naturalistico, cioè nel contesto delle asserzioni della ricerca neuroscientifica, è ancora legittima l’asserzione secondo la quale i neuroni specchio rivestirebbero un ruolo causale in alcune classi di processi empatici (ben più impegnativo è dire, invece, che essi costituiscono la base causale di tutti i fenomeni empatici). Questo è vero proprio perché l’empatia
14 Heiser et al. (2003) hanno dimostrato un deficit nelle capacità imitative in concomitanza della temporanea inibizione dell’area di Broca indotta attraverso stimolazione magnetica transcranica ripetuta. L’area di Broca è notoriamente omologa all’area F5 nel macaco, all’interno della quale è stata registrata la presenza della maggior parte dei neuroni specchio motori. Lucina et al. (2006) hanno utilizzato una metodologia simile per verificare il ruolo funzionale delle aree motorie nel riconoscimento dei volti.
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non è integralmente riconducibile al funzionamento dei neuroni specchio, ma risulta necessariamente modulata dalla loro attivazione nei momenti cruciali di molte e fondamentali casistiche; le funzioni specchio restano capaci di testimoniare la presenza di alcuni processi che richiedono sempre a qualche titolo una mediazione di tipo empatico, visto che essi segnalano specificamente l’avvenuta comprensione del senso delle azioni di un altro agente intenzionale. Le attivazioni dei neuroni specchio (ma questo potrebbe essere affermato per tutti gli eventi neuronali interessanti dal punto di vista dei processi coscienziali) non possono fornire un concreto insight sui precisi contenuti di quelle esperienze vissute che accadono in maniera concomitante alla loro attivazione. I neuroni specchio non ci consentiranno di comprendere cosa vive e cosa pensa il soggetto empatico, ma è pur tuttavia vero che essi danno testimonianza – con un grado non trascurabile di precisione e di predittività -‐‑ di quando si manifestano alcuni tipi di processi empatici. La determinazione temporale dell’atto empatico (inizio – fine, e variazione del grado di intensità entro un certo lasso di tempo) non è però l’unica informazione che i sistemi specchio forniscono al neuroscienziato circa la struttura della manifestazione empirica dell’atto empatico. Oltre a questo, infatti, i sistemi specchio confermano che, quando un soggetto empatizza con un altro soggetto, il primo comprende il secondo modulando la propria esperienza sulla base delle proprie esperienze coscienti pregresse. Pertanto, anche se non tutti i fenomeni empatici sono riconducibili ai sistemi specchio, è anche vero che ogni volta che assistiamo all’attivazione di un sistema specchio per un compito cognitivo legato alla comprensione dell’altro possiamo a buon diritto ritenere che l’esperienza attuale del soggetto empatizzante venga opportunamente modulata, nella grana fine del suo contenuto qualitativo, in un modo che è congruente con l’attivazione stessa dei neuroni specchio e che è conforme al senso delle precedenti esperienze personali del soggetto. Le funzioni specchio non esauriscono sempre il processo empatico, ma modificano comunque l’esperienza soggettiva in un modo che non si sarebbe offerto se esse non fossero intervenute. Che tipo di modulazioni qualitative nella struttura qualitativa dell’esperienza ci viene fornito dall’attivazione dei sistemi specchio? Ad esempio, per la loro connotazione motoria – i neuroni specchio testimoniano che l’empatia concomitante alla loro attivazione è un processo non inferenziale, radicato nella condivisione del senso dell’esperienza corporea dell’altro. Le azioni compiute dal corpo oggetto dell’altro sono dotate di senso perché strettamente equiparabili alle azioni che sono a disposizione del mio corpo vivo; prendendo la libertà di mutuare impropriamente un termine in uso nelle scienze cognitive, si potrebbe dire che l’esperienza del Koerper dell’altro viene “mappata” nella memoria dei vissuti inerenti il mio Leib (con più appropriata terminologia fenomenologica dovremmo forse dire che, mentre empatizzo con l’altro, nel campo della coscienza trascendentale si susseguono rappresentazioni vuote della sua esperienza, le quali sono pronte a riempirsi attraverso il portato materiale dei miei atti intuitivi, come ad esempio quelli di immaginazione15). Cerchiamo di definire meglio la caratteristica “embodied” dell’empatia, per come essa ci viene suggerita dai riscontri sperimentali sui neuroni specchio. In conclusione, infatti, i risultati di questa ricerca tra neuroscienze e fenomenologia conducono a pensare l’empatia concomitante all’attivazione dei sistemi specchio come dotata delle seguenti caratteristiche:
1. È un atto dotato principalmente di una valenza conoscitiva o cognitiva. È un atto diverso
da quelli di natura pulsionale, energetica, viscerale, meramente reattiva, come ad esempio sono quelli imparentati con il contagio emotivo o con la fusiona unipatica (Scheler);
15 Stein (2002), nella sua dissertazione sull’empatia, svolge un’analisi che chiarisce lucidamente il ruolo del riempimento intenzionale nei procedimenti empatici.
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piuttosto, l’atto empatico attiene una assai peculiare forma di consapevolezza, di sapere, che si istanzia come conoscenza operativa del senso dell’azione o dell’affezione dell’altro; si tratta però di una cognizione incarnata – embodied – perché non è un atto di conoscenza intellettuale, concettuale, basato su inferenze; non interviene con degli atteggiamenti giudicativi, ma pratico–valutativi, inerenti il saper fare del mio corpo, il suo esser pronto a rispondere alle medesime sollecitazioni che riguardano attualmente il corpo dell’altro. Con quest’atto, dunque, non conosco un che cosa, ma un come fare; dispongo di una forma di prontezza a intervenire nel mondo secondo modalità analoghe a quelle del mio alter-‐‑ego; sono pronto ad agire o a patire come se io fossi l’altro. In questa prontezza e in questo come se consiste la natura conoscitiva dell’atto empatico, il mio sapermi porre presso l’altro.
2. La conoscenza incarnata inerente le possibilità del corpo altrui non consiste in una forma di
accesso diretto all’esperienza dell’altro. Questo impedisce la confusione tra il mio vissuto e quello dell’altro, visto che essi rimangono sempre discernibili e saldamente riferiti ai nostri rispettivi orientamenti situati nello spazio corporeo; il vissuto dell’altro, pertanto, rimane in ogni istante perfettamente caratterizzato (nella sua differente struttura qualitativa, e non soltanto nella forza della sua intensità) rispetto al mio, sebbene strutturalmente congruente con esso (per via dello schema vuoto delle risposte corporee potenziali che entrambi evocano). Al tempo stesso, è vero che l’atto empatico non consiste in una forma di rappresentazione del vissuto dell’altro, perché questo implicherebbe che l’altro in carne ed ossa mi è sempre nascosto da quell’informazione che egli stesso (l’altro) mi fornisce. Non avrei mai accesso all’altro e, isolato in un mondo solipsistico, potrei aspirare soltanto a immagini fittizie di ciò che l’altro è o potrebbe essere.
3. E’ un atto che interessa la sfera del vissuto cosciente del soggetto empatico, modificando il suo campo fenomenico secondo una configurazione che è congruente con gli atti intenzionali dell’altro soggetto; dal punto di vista dell’emergentismo top-‐‑down, l’atto empatico -‐‑ modificando la sfera del vissuto di coscienza personale -‐‑ illumina e guida con il suo senso intenzionale le modificazioni occorrenti nelle strutture cognitive e neuronali sottostanti. Sebbene inerisca la sfera della vita cosciente, non è un atto necessariamente consapevole o esplicito.
4. Le attivazioni dei neuroni specchio testimoniano che l’accoppiamento (Paarung) avviene attraverso una peculiare qualità degli atti percettivi rivolti al corpo dell’altro, una qualità che li caratterizza come già contenenti un valore esecutivo potenziale, motorio, trasformativo (ossia atti percettivi anticipano atti motori potenziali); la competenza motoria performativa (del mio corpo vivo) “mappa” in maniera semplice e diretta competenze percettive inerenti il corpo oggetto dell’altro; il senso della peculiare “sintesi passiva di associazione” che per Husserl costituisce il cuore della Paarung, si gioca esattamente in questo procedimento di corrispondenza semplice ed economica, ovvero di reversibilità lineare, tra Leib-‐‑agito/Koerper-‐‑percepito. L’osservazione di schemi di azione/espressione del Koerper dell’altro accadde spontaneamente in me come accesso semplice ed economico a rappresentazioni vuote delle azioni o delle espressioni eseguibili dal mio Leib.
5. Lo studio dei neuroni specchio illustra una particolare forma di reversibilità tra il mio Leib e il Koerper altrui che dispone entrambi noi in un rapporto di analogia reciproca, sebbene mai in una situazione di confusione o di indistinzione. Sebbene sia fenomenologicamente
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semplice, dal punto di vista dell’esperienza vissuta, l’empatia è un atto inequivocabilmente mediato, che nel suo momento fondamentale – come si è appena suggerito -‐‑ è passivo, ma che può svilupparsi anche grazie all’intervento attivo della coscienza, ovvero al libero direzionamento delle capacità attenzionali, immaginative e inferenziali.
6. È un atto mediato, ma comunque semplice – come si è detto -‐‑ perché non richiede routine gerarchizzate di decision making e non impegna grandi risorse cognitive (memoria, concetto, calcolo etc.); ma al tempo stesso – come si è visto – è un atto articolato in momenti, o fasi, che tra di loro si tengono insieme in maniera organica e concreta, pur coinvolgendo facoltà diverse. L’analogia vissuta, e non inferita, è la forma semplice e continua assunta dall’atto empatico; la sua semplicità deriva specificamente dal fatto che è grazie a un circoscritto fenomeno di risonanza, di trascrizione e di completamento passivo che il procedimento analogico compie il suo corso conducendo alla costituzione dell’altro in quanto alter-‐‑ego fenomenologico.
Una scala verso il piano fenomenologico dell’esperienza empatica Da ultimo, finalmente, chiediamoci: che senso ha ricorrere alle analisi fenomenologiche per tentare di chiarire i problemi concettuali sottostanti alla prassi neuroscientifica? Fenomenologia e neuroscienza non dovrebbero essere pensati come due componenti perfettamente combacianti e reciprocamente corrispondentisi. Ecco perché lo scopo di questa ricerca non può essere quello di documentare una relazione di simmetria puntuale tra eventi mentali ed eventi fisici; essa quindi non si inscrive nel quadro teorico del parallelismo psicofisico, del riduzionismo o del dualismo; non ha lo scopo di fornire una giustificazione naturalistica e biologica della fenomenologia dell’intersoggettività e dell’empatia (ciò sarebbe assurdo perché – come Husserl ha opportunamente chiarito -‐‑ l’ordine dei fenomeni di coscienza segue come legge fondamentale il principio della motivazione, e non la causalità empirico-‐‑naturalistica, svincolandosi pertanto a priori da ogni tentativo di fondazione biologica); essa non ha neanche lo scopo di fornire un arricchimento introspezionistico o una giustificazione fenomenologica degli eventi neurocognitivi, visto che il setting sperimentale sembra già sufficientemente dettagliato per inferire il contenuto psicologico delle esperienze vissute dai soggetti coinvolti nell’esperimento. Piuttosto che una riducibilità di un piano all’altro, o una giustificazione dell’uno nell’altro, una ricerca posta a cavallo tra neuroscienze e fenomenologia dovrebbe mirare a constatare un’equivalenza sul piano degli effetti pratici prodotti da questi due tipi di conoscenza. L’equivalenza si rende manifesta nella costituzione di un certo tipo di senso condiviso nell’esperienza di chi studia la coscienza, verso la progressiva scoperta di una consonanza di intenti tra i relativi percorsi esplorativi – qualora, beninteso, questa consonanza si dia effettivamente e sia possibile (e non è detto che lo sia sempre); il percorso interdisciplinare si prefigge quindi, entro certi termini, di perseguire un cammino di modificazione e di contaminazione reciproca dei saperi alla ricerca delle condizioni di compatibilità, attuando una congruenza tra un certo modello esplicativo utilizzato nel contesto delle scienze cognitive (nel nostro caso, la Simulazione incarnata) e il modello fenomenologico più pertinente (nel nostro caso, quello dell’empatia elaborato da Husserl), cercando di individuare tra di essi quelli che Varela et al. (1991) hanno chiamato vincoli reciproci tra l’empirico e il trascendentale. Con l’espressione “vincoli reciproci” si vuole sottolineare che non si tratta di produrre una mappatura uno-‐‑a-‐‑uno dell’empirico nel trascendentale, o viceversa; non si tratta di produrre un
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accoppiamento tra l’uno e l’altro, ma si tratta di constatare degli elementi minimali, ma assolutamente necessari, di convergenza o di apparente intersezione, che richiedono di porre dei limiti a ciascuno dei due registri discorsivi; si tratta dunque di porre “dei paletti” concettuali -‐‑ come a volte si suol dire -‐‑ delle interruzioni che svolgono una funzione principalmente negativa, cioè limitativa nei confronti del discorso della controparte neuroscientifica o fenomenologica; “paletti” che, di conseguenza, consentiranno a ciascuno di questi due approcci conoscitivi di individuare nuovi territori da percorrere e da elaborare liberamente, ognuno autonomamente e secondo i propri metodi e i rispettivi strumenti di indagine; tenendo però come punto di riferimento, come stimolo per un possibile arricchimento, e quindi come guida euristica, i risultati conseguiti dall’altro ambito conoscitivo e le suggestioni che liberamente si sono sviluppate al suo interno. Quindi, in sintesi, le evidenze sperimentali inerenti i neuroni specchio possono mantenere la loro valenza di guida e di sollecitazione anche sul piano fenomenologico, per avviare un procedimento di libera variazione immaginativa e di esplorazione del senso non privo di ripercussioni per la stessa fenomenologia dell’intersogettività; queste ripercussioni continuerebbero poi a valere quand’anche si scoprisse – per pura ipotesi – che in realtà non esistono neuroni specchio. La teoria della simulazione incarnata, che si basa sullo studio dei neuroni specchio, infatti, prospetta una struttura minimale dell’atto empatico che può essere assunta dal punto di vista filosofico anche prescindendo dai risultati sperimentali; le affermazioni prodotte da questa teoria filosofica possono essere isolate dal contesto naturalistico e trasferite nel contesto di un’indagine fenomenologica inerente il vissuto di coscienza considerato per se. In questo tipo di ricerca neurofenomenologica, per utilizzare una metafora wittgensteiniana, gli studi sui neuroni specchio vengono trattati come una scala che è assolutamente necessario salire per tracciare i lineamenti generali di una descrizione dell’esperienza empatica; una scala che, tuttavia, dopo essere stata utilizzata per salire, può essere gettata via, una volta che sia stata acquisita la padronanza del piano di significato cui essa conduce, attraverso una serie di variazioni immaginative libere che ci vengono consentite proprio dalle sollecitazioni teoriche stimolate dal dato neuroscientifico. D’altra parte, è vero che il dato empirico assume il valore di un segnale per le neuroscienze, come indicazione di una direzione, ma ciò è possibile soltanto una volta che esso sia stato posto tra parentesi nella sua valenza meramente positiva, in maniera da poter essere considerato nella sua dimensione di pura struttura di senso che è valida unicamente nella cornice di un’esperienza corporea e soggettiva (o intersoggettiva). La fenomenologia, operando la sospensione della tesi del mondo, può essere impiegata opportunamente nell’ambito sperimentale per suggerire un nuovo significato ai contenuti dell’esperienza scientifica, filtrandola attraverso la cornice dell’esperienza trascendentale. L’operazione dell’epoché trascendentale, pertanto, non serve qui a obliterare il significato dell’esperienza naturalistica; non nega, ma circoscrive e re-‐‑investe il valore di quest’ultima giudicandola sul piano dell’esperienza fenomenologica pura. Ecco perché, all’interno del discorso fenomenologico trascendentale, possiamo ottenere, ad esempio, alcuni risultati notevoli per quanto riguarda le ripercussioni che essi prospettano per il registro esplicativo delle scienze cognitive, e cioè:
-‐ che l’atto empatico non è un dispositivo rappresentazionale (solipsistico) e neanche un procedimento fusionale (vitale, energetico, viscerale);
-‐ che l’atto empatico, al suo livello fondamentale, non è una forma di inferenza, di giudizio, di decision making, ma è in primo luogo, e per lo più, una conoscenza del mio corpo vivo (che è attualmente offerentesi) che inerisce il corpo vivo dell’altro (che è meramente appresentato, e mai interamente offerentesi in forma piena e intuitiva);
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-‐ che l’atto empatico è strutturato secondo uno schema quadripartito innescato da una dialettica tra Leib e Koerper, seguendo un procedimento analogico;
questi tre risultati funzionano bene in effetti come guida per l’attuale discorso epistemologico sulla cognizione sociale, e – tradotti nei termini di una psicologia informata fenomenologicamente -‐‑ possono essere integrati efficacemente nella teoria della Simulazione incarnata di Gallese. Viceversa, il discorso delle scienze cognitive ci offre alcuni dati che, sebbene non possano essere integrati immediatamente nella considerazione fenomenologica del vissuto di coscienza (perché non possiamo derivare fenomeno logicamente un vissuto di coscienza da un evento neuronale), possono tuttavia sollecitare nuove indagini di variazione eidetica, portandola a sviluppare la riduzione eidetica nella direzione di una più completa considerazione dell’esperienza empatica, verso strade mai battute – o anche solo intraviste -‐‑ in precedenza. Ad esempio, ecco alcuni motivi empirici che possono spingere verso nuove direzioni l’indagine della riduzione eidetica: -‐ il fatto che l’esperienza percettiva viene “codificata” da strutture motorie, in maniera tale che
l’esperienza motoria anticipa e informa di sé la percezione stessa fino alla sua sorgente. Ecco un modo inedito ma plausibile, per la fenomenologia, di avvicinare il rapporto con la corporeità viva, e in particolare con il corpo vivo dell’alter-‐‑ego fenomenologico; un modo che non riposa sui dispositivi cinestetici e propriocettivi della fenomenologia, ma sull’efficacia di schemi ideomotori16 che sono già attivi, sebbene in forma meramente virtuale, nello sguardo di chi – senza apprestarsi ad agire -‐‑ osserva il mondo giudicandolo con il metro delle proprie competenze motorie, riconoscendo in esso il teatro di possibili atti pratici/performativi;
-‐ il fatto che esistono strutture motorie che codificano il senso dell’azione in termini intensionali, cioè non in termini sintattici (come combinatoria di elementi formali), ma pragmatici. Questo è reso possibile dal fatto che l’azione intenzionale è dotata di una sua intrinseca valenza pratica non dipendente dalla somma degli spostamenti particolari che compongono il movimento in sé e per sé; ecco un senso per cui la percezione empatica dell’altro si gioca sul territorio dell’intenzionalità motoria e della capacità del corpo di agire intelligentemente pur senza farsi rappresentazioni compiute dei suoi scopi;
-‐ il fatto che esistono strutture cognitive che riferiscono il significato dell’azione a un’agentività che non è semplicemente soggettiva/individuale (in prima persona), che non è neanche neutra/obbiettiva (in terza persona), ma che si caratterizza in maniera intrinsecamente plurale -‐‑ sebbene ancora situata nel mondo e orientata (inter)soggettivamente (per una riflessione su questo tema si veda De Vignemont 2004). Ecco un modo nuovo di tematizzare la soggettività intermonadica, utilizzando categorie che – sebbene, in origine, non fenomenologiche – sono pur tuttavia in grado di evocare una riflessione profonda sull’identità del soggetto fenomenologico e sulla sua centralità nell’esperienza concreta del vissuto intercarnale.
16 Sulla connotazione ideomotoria delle funzioni imitative si veda Greenwald (1970); si veda soprattutto Prinz (2005) per una ipotesi sulla natura ideomotoria dei processi imitativi, compatibile con la teoria dei neuroni specchio.
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