Il culto cristiano nei primi due secoli. 1 [PC 511.1] Il culto cristiano nei due primi secoli Prof. Victor Saxer. Introduzione generale: è una tematica piuttosto particolare e difficile che va alla radice del culto stesso, nel quale non sono estranei l'influsso ellenistico ed ebraico; si tratta di un culto che si sviluppa dalla radice ebraica e in certe forme anche dall’influsso ellenistico, ma non sopravalutiamo questo ultimo aspetto perché le radici ebraiche restano fondamentali. Nella lingua di oggi la parola culto è più ampia. Il culto antico come quello di oggi svolse un ruolo pubblico, come prima istituzione, intesa come un’espressione che si annuncia nel terreno della teologia; esso diventa espressione viva della funzione sacerdotale di Cristo. Si tratta di un culto reso a Dio dalla Chiesa: quelli che partecipano a questo culto sono i fedeli, cioè coloro che sono chiamati nella Chiesa; si tratta del popolo eletto (è un’espressione presa dalla letteratura biblica). Questo culto si rende evidente per mezzo di segni sensibili e tramite riti istituiti nel vecchio culto. Questa definizione un po’ complessa la si può trovare nel volume La Chiesa in preghiera, di Martimort, Vol. I (Principi della Liturgia). Una tale definizione è il frutto di una evoluzione del culto che in origine non aveva questa complessità, perché la liturgia primitiva era diversa dalla nostra. Come ogni cosa viva questa istituzione è cresciuta come un albero che inizia la sua vita proprio dal seme. Le fonti di cui ci serviremo partiranno dagli scritti neotestamentari, non escludendo però quelli dell’Antico Testamento. Oltre a questo fatto abbiamo altri caratteri che riguardano il culto: in primo luogo c’è un carattere liturgico e canonico che si esprime, nei primi secoli attraverso canoni conciliari ed altri scritti che spesso vengono messi sotto il nome degli Apostoli, anche se non sono tutti di origine apostolica, come ad es., la Didaché o dottrina dei dodici Apostoli. Abbiamo anche una didascalia degli Apostoli che è molto simile alla Didaché: si tratta di u insegnamento degli Apostoli che risale alla prima metà del III secolo, la cui origine è sicuramente siriana. Dunque, oltre all’aspetto teologico e a quello che si detto sopra, nel 380-390 ci sono le costituzioni apostoliche, presenti in otto libri contenenti prescrizioni di diversa natura che vengono messe nella bocca degli Apostoli; evidentemente si tratta di una finzione letteraria, ma tale sforzo di mettere questi scritti sotto l’autorità degli Apostoli riguarda innanzitutto scritti liturgici, sia il sentimento che la liturgia cristiana. Si tratta di scritti che trasmettono in modo più o meno diretto l’insegnamento di Cristo e di Dio: uno di questi è il Testamentum Domini che intende presentarsi come dottrina cristiana sotto il nome di Gesù. A tutto questo c’è un’altra serie di documenti di carattere diverso perché si trat ta di testi apocrifi dei quali rimane più difficile stabilire la datazione: un esempio concreto sono le Odi di Salomone, che sono degli inni battesimali; si tratta di uno scritto giudeo cristiano del II-III secolo. Seguono gli atti apocrifi degli Apostoli, come quelli di Giovanni o di Tommaso, dove si trovano formule battesimali ed altre formule eucaristiche. Si tratta generalmente di formule molto arcaiche. Eccezionalmente abbiamo propriamente conservati testi liturgici antichi, cioè testi di preghiera liturgica, come le anafore (di preghiere vere e proprie) per la consacrazione delle specie del pane e del vino (il canone della messa); così abbiamo due o tre testi di questo tipo. Una di queste anafore è relativa all'ambiente siriaco, perché rispetto alla Didaché, che riporta la scritta in greco, essa riporta una scritta orientale. Siccome questa preghiera è rimasta in uso ininterrotto fino ad oggi, la forma sotto la quale esiste attualmente è ampliata. Un altro testo di questo tipo è il contenuto della Didaché (di origine molto antica che va dall’anno 100 agli anni 110-120), al quale segue un altro testo che ci è stato tramandato da un papiro egiziano del V secolo, conservato all’Università di Strasburgo nel quale si può trovare uno degli estratti più antichi risalenti al III o IV secolo. Infine ci sono testi letterari, patristici, agiografici e epigrafici, anche se si tratta di una documentazione frammentaria e incompleta: questi documenti saranno presentati nell'ordine cronologico e geografico, perché rimangono le due coordinate essenziali nell'ambito della ricerca. Si tratta di coordinate spazio-cronologiche. In questo corso esamineremo anche i principali riti, come l'iniziazione, l'eucaristia ed altri momenti liturgici. COORDINATE SPAZIO TEMPORALI NEL MONDO PRIMITIVO. Il culto giudaico era essenzialmente legato al tempio di Gerusalemme; era il solo culto della liturgia ufficiale. Solo con l'esilio di Babilonia sorsero le sinagoghe come dei luoghi di preghiera, ma non furono mai luoghi di culto per l’offerta dei sacrifici perché ciò avveniva solo nel tempio. Il culto sinagogale comportava delle letture, dei canti e un’istruzione. Queste tre parti verranno tramandate tali e quali nel mondo cristiano e costituiranno la prima parte della messa, quella che noi chiamiamo Liturgia della Parola; invece, per la parte sacrificale non c'è più alcun legame tra il culto giudaico e quello cristiano, perché il sacrificio cristiano è un sacrificio incruento e non consiste nell’uccide re degli animali in onore di Dio; quest'ultimo, tra l’altro, è anche esso legato ad un luogo ed ad un tempo determinato. Però queste coordinate spazio-temporali avevano ed hanno nei referti cristiani primitivi un’importanza molto diversa non solo dal rito ebraico, ma anche dal nostro culto odierno. E’ una considerazione importante che dobbiamo avere sempre davanti agli occhi perché si tratta del nucleo del culto antico che rimane sostanzialmente diverso dal culto odierno . Allora un primo capitolo deve essere dedicato ai luoghi di culto. I giudeo-cristiani del tempo rimasero fedeli al culto del tempio (es., gli Apostoli che ogni giorno salivano al tempio per le ore di preghiera: la nona, per il pomeriggio);
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Victor Saxer - Il culto cristiano nei due primi secoli
Victor Saxer - Il culto cristiano nei due primi secoli
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Il culto cristiano nei primi due secoli. 1
[PC 511.1]
Il culto cristiano nei due primi secoli
Prof. Victor Saxer.
Introduzione generale: è una tematica piuttosto particolare e difficile che va alla radice del culto stesso, nel quale
non sono estranei l'influsso ellenistico ed ebraico; si tratta di un culto che si sviluppa dalla radice ebraica e in certe
forme anche dall’influsso ellenistico, ma non sopravalutiamo questo ultimo aspetto perché le radici ebraiche restano
fondamentali. Nella lingua di oggi la parola culto è più ampia. Il culto antico come quello di oggi svolse un ruolo
pubblico, come prima istituzione, intesa come un’espressione che si annuncia nel terreno della teologia; esso diventa
espressione viva della funzione sacerdotale di Cristo. Si tratta di un culto reso a Dio dalla Chiesa: quelli che partecipano
a questo culto sono i fedeli, cioè coloro che sono chiamati nella Chiesa; si tratta del popolo eletto (è un’espressione
presa dalla letteratura biblica). Questo culto si rende evidente per mezzo di segni sensibili e tramite riti istituiti nel
vecchio culto. Questa definizione un po’ complessa la si può trovare nel volume La Chiesa in preghiera, di Martimort,
Vol. I (Principi della Liturgia). Una tale definizione è il frutto di una evoluzione del culto che in origine non aveva
questa complessità, perché la liturgia primitiva era diversa dalla nostra. Come ogni cosa viva questa istituzione è
cresciuta come un albero che inizia la sua vita proprio dal seme. Le fonti di cui ci serviremo partiranno dagli scritti
neotestamentari, non escludendo però quelli dell’Antico Testamento.
Oltre a questo fatto abbiamo altri caratteri che riguardano il culto: in primo luogo c’è un carattere liturgico e
canonico che si esprime, nei primi secoli attraverso canoni conciliari ed altri scritti che spesso vengono messi sotto il
nome degli Apostoli, anche se non sono tutti di origine apostolica, come ad es., la Didaché o dottrina dei dodici
Apostoli. Abbiamo anche una didascalia degli Apostoli che è molto simile alla Didaché: si tratta di u insegnamento degli
Apostoli che risale alla prima metà del III secolo, la cui origine è sicuramente siriana.
Dunque, oltre all’aspetto teologico e a quello che si detto sopra, nel 380-390 ci sono le costituzioni apostoliche,
presenti in otto libri contenenti prescrizioni di diversa natura che vengono messe nella bocca degli Apostoli;
evidentemente si tratta di una finzione letteraria, ma tale sforzo di mettere questi scritti sotto l’autorità degli Apostoli
riguarda innanzitutto scritti liturgici, sia il sentimento che la liturgia cristiana. Si tratta di scritti che trasmettono in modo
più o meno diretto l’insegnamento di Cristo e di Dio: uno di questi è il Testamentum Domini che intende presentarsi
come dottrina cristiana sotto il nome di Gesù.
A tutto questo c’è un’altra serie di documenti di carattere diverso perché si tratta di testi apocrifi dei quali rimane
più difficile stabilire la datazione: un esempio concreto sono le Odi di Salomone, che sono degli inni battesimali; si
tratta di uno scritto giudeo cristiano del II-III secolo. Seguono gli atti apocrifi degli Apostoli, come quelli di Giovanni o
di Tommaso, dove si trovano formule battesimali ed altre formule eucaristiche. Si tratta generalmente di formule molto
arcaiche. Eccezionalmente abbiamo propriamente conservati testi liturgici antichi, cioè testi di preghiera liturgica, come
le anafore (di preghiere vere e proprie) per la consacrazione delle specie del pane e del vino (il canone della messa);
così abbiamo due o tre testi di questo tipo. Una di queste anafore è relativa all'ambiente siriaco, perché rispetto alla
Didaché, che riporta la scritta in greco, essa riporta una scritta orientale. Siccome questa preghiera è rimasta in uso
ininterrotto fino ad oggi, la forma sotto la quale esiste attualmente è ampliata. Un altro testo di questo tipo è il contenuto
della Didaché (di origine molto antica che va dall’anno 100 agli anni 110-120), al quale segue un altro testo che ci è
stato tramandato da un papiro egiziano del V secolo, conservato all’Università di Strasburgo nel quale si può trovare
uno degli estratti più antichi risalenti al III o IV secolo.
Infine ci sono testi letterari, patristici, agiografici e epigrafici, anche se si tratta di una documentazione frammentaria
e incompleta: questi documenti saranno presentati nell'ordine cronologico e geografico, perché rimangono le due
coordinate essenziali nell'ambito della ricerca. Si tratta di coordinate spazio-cronologiche.
In questo corso esamineremo anche i principali riti, come l'iniziazione, l'eucaristia ed altri momenti liturgici.
COORDINATE SPAZIO TEMPORALI NEL MONDO PRIMITIVO.
Il culto giudaico era essenzialmente legato al tempio di Gerusalemme; era il solo culto della liturgia ufficiale. Solo
con l'esilio di Babilonia sorsero le sinagoghe come dei luoghi di preghiera, ma non furono mai luoghi di culto per
l’offerta dei sacrifici perché ciò avveniva solo nel tempio. Il culto sinagogale comportava delle letture, dei canti e
un’istruzione. Queste tre parti verranno tramandate tali e quali nel mondo cristiano e costituiranno la prima parte della
messa, quella che noi chiamiamo Liturgia della Parola; invece, per la parte sacrificale non c'è più alcun legame tra il
culto giudaico e quello cristiano, perché il sacrificio cristiano è un sacrificio incruento e non consiste nell’uccidere degli
animali in onore di Dio; quest'ultimo, tra l’altro, è anche esso legato ad un luogo ed ad un tempo determinato. Però
queste coordinate spazio-temporali avevano ed hanno nei referti cristiani primitivi un’importanza molto diversa non solo
dal rito ebraico, ma anche dal nostro culto odierno. E’ una considerazione importante che dobbiamo avere sempre
davanti agli occhi perché si tratta del nucleo del culto antico che rimane sostanzialmente diverso dal culto odierno .
Allora un primo capitolo deve essere dedicato ai luoghi di culto. I giudeo-cristiani del tempo rimasero fedeli al culto
del tempio (es., gli Apostoli che ogni giorno salivano al tempio per le ore di preghiera: la nona, per il pomeriggio);
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generalmente i sacrifici erano legati all'ultima ora del giorno (sono i sacrifici della sera). I giudeo cristiani rimasero
fedeli a ciò finché esistesse il tempio, ma quando, nel 70 d.C. il tempio di Gerusalemme fu distrutto, ad opera del futuro
imperatore Tito, cessò anche il culto giudaico. Da quel momento l’attività religiosa degli Ebrei si riversò nelle
sinagoghe, anche se il culto giudaico divenne puramente un culto di preghiera.
In tal senso una testimonianza ci viene proprio dagli Atti degli Apostoli che parla dei cristiani che si riunivano nelle
loro case per pregare e per spezzare il pane (fractio panis è uno dei termini più antichi per designare l'Eucaristia). Questa
situazione un po’ complessa dei primi cristiani di Gerusalemme comportava due orientamenti, cioè la fedeltà alle
osservanze giudaiche, da una parte, e, dall'altra, l'osservanza delle tradizioni propriamente cristiane, ma solo nell’ambito
delle loro case. Questa situazione, come si è già detto durò fino alla distruzione del tempio di Gerusalemme, nel 70. Ci
fu qualche sopravvivenza per una cinquantina di anni fino all’arrivo di Bar Kof Bak, il quale negli anni 132-135 fu
domato dall’imperatore Adriano. E’ un momento anche di transizione dove non mancheranno i diversi nazionalismi che
sfoceranno nel sangue. Nel 135 la velleità di indipendenza ebraica fu distrutta completamente e l'entità politica della
religione venne meno. Infatti Adriano costruirà un tempio pagano, al posto di quello ebraico, così da cancellare la
tradizione giudaica.
I cristiani, già prima della distruzione del tempio, si erano in gran parte allontanati da Gerusalemme e gli stessi si
sparpagliarono oltre il Giordano, da Pella fino ad Antiochia ed altre città fuori dalla Palestina. A Gerusalemme la
dinastia dei vescovi giudeo-cristiani finì e al suo posto subentrò quella di vescovi provenienti dall'ellenismo greco. Ciò
cambierà enormemente la struttura della prima comunità cristiana primitiva, il che influì evidentemente anche sulla
struttura liturgica. Ciò ci permetterà di studiare e di comprendere i nuovi aspetti del culto cristiano nel quale si possono
notare due caratteristiche:
a) all’eccellenza del culto ebraico che si celebrava con il sacrificio cruento degli animali, il culto cristiano è
spirituale nella sua espressione ed è sobrio anche nella forma. Dio è spirito in verità e spirito (un esempio concreto è la
samaritana).
b) il culto cristiano non è legato a nessun luogo.
Queste caratteristiche le possiamo già notare nel dialogo di Gesù con la Samaritana al pozzo di Giacobbe (Gv 4,
23-24), dove si trova l’espressione: Dio è Spirito e i suoi veri adoratori lo adorano in spirito e verità. E’ un culto nuovo
che non è legato a nessun luogo. La samaritana obiettava a Gesù: Voi Giudei dite che si deve adorare Dio nel tempio di
Gerusalemme. I nostri Padri con i Samaritani adorano Dio sul monte vicino alla Samaria...Qui si notano dei luoghi di
culto determinati, ma Gesù risponde: Verrà il tempo in cui i veri adoratori lo adoreranno in spirito e verità. Con questo
vuol dire che essi non saranno più legati al tempio di Gerusalemme, né al tempio di Samaria.
Dunque, Gesù nel dialogo della samaritana caratterizza questo nuovo aspetto e lo presenta come un messaggio
escatologico (verrà un tempo in cui...) che creerà nei cristiani l'attesa del ritorno immediato del Signore (1Cor 11,26). Si
tratta di una delle caratteristiche della nuova fede.
Questo culto è anche un culto passeggero e transitorio, non destinato a durare per sempre, poiché è limitato dal
giorno del Signore e a causa della condizione peregrina dell’uomo (Eb 13, 14): tale culto indica la transitorietà
dell'uomo che quaggiù non ha dimora permanente, ma è alla ricerca della città futura. Inoltre questi cristiani hanno
considerato Cristo come presente in mezzo a loro, poiché là dove due o tre erano riuniti nel suo nome era presente (Mt
18,20). Cristo è anche considerato come il solo mediatore tra Dio e gli uomini, perché da Lui ricevono la missione da
compiere: andate e battezzate nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (Mt 28, 19). Da Gesù ricevono la
regola del culto, cioè della loro condotta: fate questo in memoria di me (1Cor 11,25). Si tratta, dunque, di un culto
spirituale legato alla persona di Gesù, in un certo modo sempre vivo nella Chiesa che diventa il nuovo centro di culto: è
l'ambiente nel quale si realizza la presenza divina; è il nuovo tempio spirituale nel quale sgorga l'acqua viva e nel quale è
istituito il pane della vita (Gv 2, 21 e Gv 6). Dunque, l'assemblea cristiana è il nuovo luogo del culto cristiano, anzi,
nella misura in cui il cristiano fa parte della comunità, anche lui diventa tempio di Dio per lo spirito che abita in lui. Lo
spirito lo consacra al servizio di Dio e lo chiama al dovere della santità personale (1Cor 3, 15-17 e 2Cor 6, 14 sino 2Cor
7,21). Si creano così le condizioni della nuova fede cristiana, così da vedere la prima comunità cristiana di
Gerusalemme secondo At 2, 42, dove si distingue l’espressione: Erano assidui all’insegnamento degli Apostoli, che
indica la comunione fraterna e la frazione del pane (At 2, 46).
In un altro passo degli Atti degli Apostoli viene precisato un luogo dove gli Apostoli si riunivano abitualmente,
dopo l'ascensione: si tratta della sala alta, dove Gesù aveva istituito l'Eucaristia prima della sua morte (At 1, 13). Così si
viene a creare un legame più o meno sentimentale con l’eucaristia che celebravano. Un altro luogo lo vediamo
comparire nel racconto degli Atti 12,12, che riguarda la liberazione di Pietro che si reca successivamente nella casa di
Maria, madre di Giovanni, soprannominato Marco, dove era riunita un’assemblea abbastanza numerosa che pregava.
Un altro esempio lo abbiamo da At 20,8: Paolo, quando ritorna dalla Macedonia per ritornare a Gerusalemme, si
trovò a Tròade, nella regione del Bosforo, dove si reca nella sala alta, nel bel mezzo di una riunione che si era
prolungata tutta la notte, e dove compirà il miracolo risuscitando un ragazzo di nome Èutico trovato morto, dopo essere
precipitato dal terzo piano della casa.
Questo fa comprendere, allora che il culto cristiano si celebrava in una casa qualunque, un ambiente profano dove ci
poteva essere un spazio sufficiente per accogliere una comunità abbastanza ristretta. Da questa testimonianza si può
vedere che quel tempo non esisteva un luogo specifico di culto. Ancora nell’anno 200 Clemente Alessandrino
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giustifica questa situazione con delle considerazioni teologiche: Il culto di Dio non poteva essere legato a un luogo,
poiché Dio stesso, come spirito non era legato ad un luogo. Il culto cristiano e spirituale poteva essere celebrato dal
vescovo. Non è buono e giusto che noi limitiamo l’inafferrabile ad un luogo e che vogliamo rinchiudere quello che
contiene tutto in santuari fatti da mano d’uomo. Da queste parole scaturisce uno dei temi più importanti della polemica
antigiudaica: i pagani adorano le divinità in santuari costruiti da mani d’uomo, mentre i cristiani non adorano tali
manufatti. Nello stesso modo Dio non può essere legato ad un edificio fatto da mano d’uomo. Come, del resto - continua
Clemente - potrebbe essere santa un’opera di architetti, di muratori e di artigiani, se invece il concetto di santità è
compreso in un doppio senso, in primo luogo di Dio stesso e l’opera fatta per la sua gloria. Come allora potremo non
considerare in primo luogo, come santuario di Dio, la Chiesa che una santa coscienza ci rivela creata in suo onore.
Questa Chiesa ha un valore molto più grande senza essere prodotto...ne decorata da mani artigiane e che la volontà di
Dio che rivela è il suo tempio. E intendo, infatti, quando parlo di Chiesa non il luogo, ma la comunità dei credenti.
Questa è il miglior tempio che possa accogliere la grandezza e la maestà di Dio (cfr. Clemente Alessandrino Stromata
7, 5).
Dunque, quando Clemente parla di Chiesa lo dice in senso sociologico e non geografico, cioè un luogo specificato
nell'ambito della funzione pubblica. Si tratta dell’assemblea dei fedeli, non in senso topografico. E’ vero che Clemente
inizia a conoscere anche questo nuovo senso, cioè un luogo specifico per la funzione liturgica, ma rimane fedele
all’antica tradizione secondo la quale è la comunità il vero centro di culto cristiano.
E del resto, quando consideriamo la storia della Chiesa primitiva, sappiamo che nelle città, dove si erano costituite
delle comunità cristiane, come a Gerusalemme, a Corinto, a Efeso, a Colossi e a Roma, i fratelli si riunivano in una casa.
Paolo chiamava questa comunità delle Chiese, cioè delle case dove i cristiani si riunivano. Questa situazione fu quella
dei cristiani durante i primi secoli della loro esistenza, ma la situazione cambiò proprio nel III secolo: ci sarà una casa
del luogo, generalmente di un privato, che sarà luogo abituale della celebrazione del culto cristiano. Così si conosceva
verso l’anno 201-202 ad Edessa della Siria una casa che in quell’anno fu distrutta dall’inondazione. Il che vuol dire che
la casa esisteva prima dell’inizio del III secolo, cioè già dalla fine del II secolo. Anche Tertulliano parla di Ecclesia, di
Domus Dei in senso di edificio, nel De Idolatria 7, nell’Ad Uxorem, Libro duo, cap. 8, e nell’Adversus. Valentinianum
3. Con Clemente Alessandrino abbiamo la testimonianza secondo cui inizia a introdursi l’uso delle case che
regolarmente venivano usate per la celebrazione. Questo fa capire che egli conosce già l’espressione Chiesa nel senso di
edificio, che lui non ama, e nel senso di comunità che lui preferisce.
Anche a Roma Ippolito, nello stesso giro di tempo, nei primissimi anni del III secolo, parla di case di culto che erano
oggetto di attacchi da parte degli Ebrei e dei pagani, mentre i fedeli erano riuniti per la preghiera (cfr. Ippolito,
Commentario al profeta Daniele, libro I , cap. 32).
Anche Origene conosce delle Domus Ecclesiae, nelle quali si faccia preghiera e nelle quali i presbiteri riempiono il
loro ministero in cui l’altare è consacrato dal sangue prezioso di Cristo (cfr. Omelia in Esodo, Libro II, v. 2 e Libro XII,
v. 2; Omelia in Levitico, Libro IX, v. 9). Anche Cipriano adopera la parola Ecclesia in senso monumentale: è probabile
che nelle sue opere la parola dominicum non designi l’edificio di culto, ma la riunione cultuale.
Dunque, è notevole che i più antichi testimoni letterari provengano dall’Oriente in cui, del resto, conserviamo anche
le rovine di una di queste domus ecclesiae: si tratta di Dura Europos che era una casa siriana comune, il cui ingresso non
si trovava nella facciata principale, ma era posto lateralmente. La casa si trovava a ridosso delle mura della città. La
forma era approssimativamente quadrata, dove al centro si trovava un cortile, attorno al quale si sono conservati gli
ambienti del piano terreno. La casa fu adattata al culto cristiano come attesta un’iscrizione del 232. Essa fu distrutta con
tutta la città, nel 260, durante la guerra dei Romani contro i Parti. In questa guerra, condotta in persona dall’imperatore
Valeriano, lo stesso imperatore fu fatto prigioniero e fu ucciso. Dura Europos si trovava proprio sul fronte della guerra
che si sviluppava sulle sponde del fiume. Negli anni novanta è stato localizzata l’esatta posizione della casa, che si
trovava sopra una roccia, a picco sulla sponda del fiume. Era, dunque, posta, insieme a tutta la città in una posizione
fortificata e di difesa. La città, in origine era un campo militare di forma quadrata, con al centro il foro, il pretorio,
mentre il lato occidentale vi era anche una sinagoga. Dopo la distruzione della città la sabbia del deserto ha ricoperto
progressivamente le rovine. Le prime scoperte furono fatte dopo la prima guerra mondiale.
Gli affreschi della casa cristiana furono trasportati dagli Americani nel museo di New York, mentre i resti degli
affreschi della Sinagoga si possono vedere nel Museo di Damasco. Ora, è interessante
notare come questa casa si disponga nei vari ambienti costituitivi, secondo questo
disegno:
Come si può notare essa è di forma approssimativamente quadrata, dove si trova al
centro un cortile. La sala di preghiera è distinta da quella dove viene celebrata la cena,
che fa pensare ad un’analoga distinzione anche nel cenacolo di Sion. Nella parte destra
abbiamo una sala dove è collocato una specie di ciborio, il cui interno era pitturato in
blu con delle stelle. In fondo ad esso troviamo una cavità, sulla quale sono state fatte
diverse ipotesi: la prima sostiene che si sarebbe trattato di una tomba, mentre la seconda sostiene si tratti di una vasca
battesimale; questa seconda ipotesi è più conforme alla decorazione parietale di questo piccolo ambiente che, tra l’altro
è simile a quella delle catacombe romane. Su tali pareti sono raffigurate tre donne con dei vasi in mano che
Il culto cristiano nei primi due secoli. 4
simboleggerebbero le tre donne che andavano al sepolcro di Gesù, alla mattina di Pasqua. Viene raffigurato anche un
sarcofago, dietro il quale si trovano queste tre donne, che dovrebbe raffigurare la tomba di Gesù. In un altro ambiente
viene raffigurata, a quanto pare, la risurrezione di Gesù, mediante la figura di un uomo che porta sulla spalla un teschio.
Si trova anche la figura di una nave sulla quale sta ritto un personaggio, mentre sull’acqua un altro che cammina. Si
tratterebbe di Pietro salvato dal naufragio sul lago di Tiberiade. Su altre pareti troviamo altre pitture, sempre di natura
biblica, come Adamo ed Eva, Davide e Golia. Ci sono anche altri affreschi di più difficile interpretazione: in queste
scene rappresentate c’è un contesto di guarigione e di riflessione, che si adattano abbastanza bene al tema del battesimo.
Allora, questo fatto rinforzerebbe la seconda ipotesi, secondo la quale quella cavità interna corrisponde al fonte
battesimale.
Ora se in questa casa vi era il battistero, la sala dove esso è collocato potrebbe essere anche la sala della riunione.
Alcuni pensavano di trovarvi l’altare fisso, ma di esso non ci sono tracce ed, inoltre, sarebbe stato un primo esempio di
altare fisso, nell’ambito della prima metà del III secolo. E’ molto più probabile, invece, che si possa trattare di un altare
mobile, che si possa trasportare facilmente. Esso veniva usato solo per la celebrazione liturgica. Allora questo fa pensare
che la bretella situata nella parte destra del disegno, in alto, potrebbe essere il luogo dove sedeva il celebrante. La sala
stessa probabilmente, durante le riunioni, non avrebbe potuto ospitare un numero superiore alle cento persone.
Comunque la scoperta di questa casa a Dura Europos, ha potuto facilitare le ricerche degli studiosi del culto cristiano
antico, anche se, purtroppo, non rimangono tracce significative di altre Domus ecclesiae situate un po’ dappertutto, ma
particolarmente a Roma. Tra queste alcune si troverebbero proprio sotto San Martino ai monti, sotto San Giovanni di
Paolo a Celio, a S. Clemente, a Santa Susanna. Questa teoria non è, però, suffragata da prove certe, come risulta,
nell’analisi dei resti di San Martino ai monti, dalle disposizioni poco convenienti dei resti per una sala di culto. A San
Giovanni di Paolo al Celio i resti raffigurano una sala di una casa comune, con delle decorazioni cristiane. Sembra si
tratti di una sala da pranzo, dove in una delle pareti, in modo decentrato, sarebbe posta una figura aggiunta alla
decorazione primitiva, tanto che si pensa risalga al IV secolo. Per quanto riguarda San Clemente, gli studi e le verifiche
precedenti, dagli anni ’80 sino ad oggi avrebbero permesso una migliore conoscenza dell’edificio. La zona sarebbe stata
distrutta nel ’64, all’incendio di Roma ed i resti della casa sarebbero da situarsi dopo l’incendio di Roma. Però questo
ambiente consisteva in un grande edificio quadrangolare, con all’interno un cortile. Sul lato meridionale si notano degli
ambienti contigui che si affacciano sul cortile. Essi erano molto lunghi (circa 6-7 metri di lunghezza). Questo edificio
del primo secolo rimane tale e quale fino alla fine del II secolo, per poi subire altre trasformazioni nei secoli successivi.
Tale edificio, tra l’altro, avrebbe un primo piano che dà accesso ad una casa di civile abitazione, almeno nella parte
orientale. Della casa, però, rimane ben poco. Nella seconda metà del IV secolo, questo è sicuro, questo ambiente
quadrangolare è stato trasformato in chiesa, al quale, sul lato corto, è stata aggiunta una grande abside di 10 metri di
apertura. Questa sarebbe una chiesa cristiana risalente non prima del IV-V secolo.
Pochi anni orsono è stato ritrovato recentemente il battistero, allo stesso livello della basilica, del VI secolo circa.
Sarebbe stato ricavato anche un ambiente dove il papa vestiva i paramenti per la celebrazione liturgica delle stazioni che
era una celebrazione che si spostava a turno nei diversi luoghi di culto cristiano. Nell’atrio si preparavano i ministri ed i
chierici. Questo cerimoniale lo conosciamo attraverso l’Ordo Romanus Primus.
Dunque della Domus ecclesiae sappiamo ben poco. In merito a i resti di Santa Susanna, negli anni immediatamente
anteriori all’ultima guerra si fecero dei lavori che distrussero una parte di un edificio antico. In questo caso, dai resti
venuti alla luce si tratterebbe della Domus duo trecinas, costruita vicino alle terme di Diocleziano. Tali resti si trovano
sotto l’attuale chiesa, i quali hanno messo in luce delle pitture nelle pareti di questa casa distrutta. Dal Liber pontificalis
si sa che la basilica è stata costruita intorno all’VIII secolo e non prima. Questo può far pensare che questa Domus sia
stata la Domus ecclesiae rimasta in funzione con degli adattamenti, fino al VII secolo, ma rimane purtroppo un’ipotesi.
In conclusione, fino ad ora non si è trovata una Domus ecclesiae che ci permettesse di avere dati più certi, circa il
luogo di culto nei primi secoli, quindi dobbiamo rassegnarci a sapere ben poco. Siamo documentati un po’ meglio sulle
Domus ecclesiae a partire dal IV secolo. Per rimanere nel III secolo, dopo la persecuzione di Traiano (257-259), le
chiese furono confiscate. L’imperatore Valeriano restituì le chiese ed i cimiteri ai cristiani; il suo editto è conservato,
grazie al quale abbiamo un’attestazione sicura, dopo il 250, circa l’esistenza di edifici di culto a Roma in quell’epoca.
Allora, questi edifici sarebbero esistiti anche in un periodo anteriore alla loro confisca decisa dalla persecuzione. Quindi
la sola Domus ecclesiae conosciuta e sussistente sarebbe quella di Dura Europos, sicuramente attestata. Altre Domus si
troverebbero a Edessa, a Roma, in Africa, e ad Alessandria.
Il culto cristiano nei primi due secoli. 5
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Conclusione sul tema relativo alle “Domus Ecclesiae” del III secolo: Sulle “Domus Ecclesiae” del III secolo,
come è già stato detto nella precedente non rimane gran che della loro presenza e pochi sono gli elementi che possono
far luce sui loro resti archeologici. Un po’ meglio documentati sono, invece, gli edifici di culto dell’inizio del IV secolo,
attestati in documenti relativi alla persecuzione dioclezianea. Uno degli editti della persecuzione aveva vietato ai
cristiani di tenere delle riunioni cultuali e nello stesso modo era stato loro vietato l’accesso ai cimiteri. Per tenere le loro
riunioni i cristiani si ritrovavano nelle cosiddette case o “ecclesiae”. Sappiamo che a Nicomedia, che era allora la
residenza dell’Imperatore, la Chiesa sorgeva proprio dinanzi al palazzo imperiale. Fu il primo edificio cristiano ad
essere stato distrutto in seguito a questo editto. Lo riporta Eusebio di Cesarea nella sua Storia Ecclesiastica. Ci sono,
poi, degli scritti agiografici, gli Atti dei Martiri, quelli di Doroteo che si riferiscono all’avvenimento. Poi, per l’Africa,
abbiamo un documento posteriore, cioè il verbale della confisca degli edifici di culto, in applicazione della persecuzione
di Diocleziano. Effettivamente il verbale primitivo fu redatto il 19 maggio del 303, durante il primo periodo di
persecuzione; esso fu redatto e firmato alla presenza del vescovo e del suo clero, nella casa in cui si riunivano i cristiani,
quella che in altri luoghi prende il nome di “Domus Ecclesiae”. Probabilmente questa casa è la stessa che in un altro
documento più tardivo, viene chiamata basilica, termine menzionato da Optato di Milevi (cfr. DACL, vol. III, 1914, col.
27,17-18). Ora, In questa casa il verbale enumera diversi ambienti, in particolare una sala da pranzo ed una biblioteca, il
che vuol dire che si trattava di una normale abitazione. In più, oltre a questi due ambienti, vi era un’altra sala dove
probabilmente fu redatto il verbale. Questo verbale della conquista è stato conservato in un Dossier in un altro
documento, cioè nei Gesta apud Zenofilum. Nel 313-314, sorse la controversia tra i donatisti ed i cattolici che
rivendicavano lo stesso edificio di culto, dal momento che un altro editto ordinò la restituzione dei beni confiscati. A
questo segue la Passio martyrum Abitiniensum, cioè la “Passione dei martiri di Abitina” (BHL 7492). Questi martiri
morirono l’11 febbraio del 304: gli atti di questo martirio di poco posteriore alla loro morte. Ora, in questi atti si
racconta che i martiri furono arrestati, imprigionati e martirizzati perché, contrariamente all’editto, si erano riuniti per
celebrare l’Eucaristia. Probabilmente l’Eucaristia fu celebrata in un’altra casa diversa da quella da dove abitualmente si
riunivano per celebrarla, perché quest’ultima fu confiscata. Qualsiasi casa, in quest’epoca, poteva essere usata come
luogo di culto. Questa eucaristia i martiri la chiamano Dominicum. Uno di loro dirà espressamente che non “noi non
possiamo rimanere senza il dominicum”, cioè senza la celebrazione eucaristica. Si tratta, in questo caso, di una
testimonianza particolarmente commovente perché attesta uno dei motivi principale che è proprio la celebrazione
eucaristica, una forza spirituale che animava i martiri in tempo di persecuzione.
Accanto a questi documenti letterari abbiamo poche testimonianze archeologiche, non della stessa regione. Infatti, si
sono trovate ad Aquileia, in fondo al golfo adriatico, delle aule cosiddette “teodoriane” perché in una di esse, un
pavimento mosaicato dà il nome del vescovo Teodoro, di cui si dice che era stato educato e cresciuto in seno alla Chiesa
locale. Di questo Teodoro, abbiamo un’altra informazione di carattere cronologico che ci permette di datare sicuramente
il suo episcopato, poiché questo Teodoro aveva partecipato nel 314 al Concilio di Arles, nelle Gallie, cioè un concilio
riunito su ordine dell’Imperatore per dibattere il caso dei donatisti di Africa (a chi dovevano appartenere le chiese
confiscate). Uno dei motivi dell’accanimento dei donatisti, nella lotta contro i cattolici, fu proprio la contesa delle
proprietà, oltre ai motivi dottrinali.
Ora, come si presentano ancora oggi queste aule? Esse si presentano in forma rettangolare, sono lunghe e sono due
aule parallele, secondo lo schema sotto disegnato:
in mezzo a queste aule, è stato identificato un battistero; ora, l’aula più importante
è la prima a sinistra, perché appare la più antica. Oggi, è parzialmente occupata
dall’attuale campanile che risale al decimo secolo, indicato in un altro rettangolo,
posto in basso alla figura. Proprio lì che fu ritrovata l’iscrizione del nome del vescovo
Teodoro. Questa aula, poi, secondo il disegno della pavimentazione, sembra si possa
dividersi in tre parti, non separate da un manufatto murario fisso. Però, i motivi
geometrici che ornano il pavimento - sono dei tondi e dei quadrati - occupati ognuno da raffigurazioni di animali. In uno
di questi quadri si trova la scena di due animali che si combattono, cioè la tartaruga ed il gallo. Secondo
un’interpretazione si tratterebbe della lotta fra cristianesimo e paganesimo. Ma non ci sono segni cristiani. Ora, questa
divisione tripartita suggerisce che poteva essere materializzata per la celebrazione cultuale da qualche barriera ,
possibilmente movibile. Questa ipotesi si appoggia soprattutto sul fatto che posteriormente, nell’evoluzione successiva
dell’edificio, ci sono effettivamente delle separazioni effettuati con cancelli di legno. Se questa supposizione è giusta,
allora si potrebbe pensare che la terza parte, più in basso fosse riservata al clero, mentre quella mediana e la terza in alto
fossero rispettivamente riservate ai fedeli e ai catecumeni. Si tratta di una ipotesi interpretativa che non è surrogata,
però, da prove certe. Anche l’altra aula, porta un pavimento in mosaico, anche se le scene in esso presenti sono diverse:
si tratta, generalmente di soggetti marittimi o campestri, che occupano tutto il pavimento. In quest’ultima aula è difficile
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Il culto cristiano nei primi due secoli. 6
individuare le separazioni dell’ambiente. Comunque, se si cerca di dare un’interpretazione complessiva di tutto
l’edificio, ci troviamo di nuovo dinanzi a delle interpretazioni. Si potrebbe, dunque, pensare che in un tempo successivo
l’aula eucaristica fosse stata quella indicata sopra, a sinistra. Effettivamente fu utilizzata come Chiesa per un certo
periodo, fino ad un’epoca abbastanza recente. Invece, il battistero, che si trova fra le due aule, sparì abbastanza presto
perché fu usato poco e ben presto fu ricoperto da uno strato di pavimento.
Abbiamo dunque qui delle sale parallele che avranno una certa vita nella Chiesa antica, perché chiese doppie o
parallele, si sono ritrovate altrove, come ad esempio, Treviri, che nel IV secolo era stata città imperiale (residenza
dell’Imperatore). Si ritrovano questi edifici paralleli, qua e là, anche durante il medioevo. Allora, generalmente si può
supporre che almeno uno di questi due edifici corrisponda ad una cattedrale, mentre l’altro una chiesa comune.
Queste aule, di cui si è parlato possono essere datate intorno dal 310 al 320. Un altro gruppo di questo tipo di edifici
esiste anche a Salona, presso l’attuale Spalato, in Croazia; poi, chiese di questo tipo si ritrovano più o meno in tutto
l’arco subalpino, nel Nord Italia. Inoltre, il gruppo episcopale di Salona suggerisce l’uso di queste aule.
Se continuiamo l’esame di questa architettura, ritorniamo in Siria nel IV secolo, dove ci sono delle chiese che
sembrano riprodurre il tipo della “Domus ecclesiae”: anche in questo caso si tratta generalmente di aule lunghe e
rettangolari, la cui estremità è riservata al clero e al popolo, forse con la stessa tripartizione che si è trovata ad Aquileia.
Una delle chiese di questo tipo, in Siria, è quella di KircK Bizzet: questa chiesa prende lo stile dalla casa siriana, con un
ingresso laterale, ma si tratta di un tipo già evoluto, poiché vi ritroviamo in muratura il cosiddetto “Bema” che è una
costruzione tipica delle case siriane. Si tratta di un manufatto che si trova in mezzo alla Chiesa con dei segni circolari,
da una parte, e con un piano rialzato, con una scala d’accesso, che propriamente il “Bema”, cioè il luogo dove si
scende, perché serviva alle letture pubbliche. Su questo tipo di edifici Cfr. Dizion. Archeol. Cristiana, Vol. XV, coll.
1880-81 e Testini, Archeologia cristiana, p. 555. Tali edifici siriani deriverebbero dalla casa scoperta a Dura Europos,
perché si nota una certa continuità tipologica abbastanza chiara, però, dobbiamo guardarci da conclusioni retroattive,
cioè non supporre elementi, come ad esempio gli arredamenti, che appartengono al IV o al V secolo.
Una costante di questi edifici è che si utilizzano delle case comuni e che gli edifici specificamente cultuali
continuano a riprodurre questa pianta dell’edificio del III secolo, con un arredamento primitivo, cioè una tavola
trasportabile, delle barriere movibili, mentre il “Bema” in muratura appare solo Kirck Bizzet nel IV secolo.
Simultaneamente a questi edifici, più o meno fedeli alla casa comune, sorge un altro tipo architettonico, di tipo
basilicale, che prevarrà nel corso del IV e soprattutto nel V secolo. Qual’è la caratteristica essenziale del tipo basilicale?
Si tratta sempre di un edificio lungo con due lati corti, dei quali in uno si trova l’ingresso, mentre l’altro si apre con un
abside. La suddivisione interna dell’edificio può essere ad una navata, oppure a tre navate. Nel caso della tripartizione a
tre navate, il lato d’ingresso può essere dotato di tre porte, in corrispondenza ad ogni navata. Questo tipo di edificio lo
vediamo attestato per la prima volta nel 313-315, nella Chiesa del Laterano in Roma. Negli anni 325 si verrà ad attestare
in Oriente la chiesa episcopale di Gerusalemme.
Una delle conclusioni sicure da fare su quanto si è detto è che l’utilizzazione primitiva di case comuni del tipo
basilicale non hanno nessun significato simbolico, poiché sono derivate dal tipo di costruzione anteriore. Quando gli
architetti le costruivano, non avevano particolari idee di natura simbolica, ma adattarono il tipo basilicale preesistente
alla basilica cristiana, soprattutto al tempo di Costantino. Però si può rilevare una differenza fra il tipo basilicale profano
da quello cristiano: si tratta del fatto che la basilica cristiana è longitudinale, mentre quella profana si apre sul lato più
largo ed ha l’abside sul lato opposto (vedi, ad es., le basiliche forensi che sono destinate ad usi diversi, ad esempio alle
riunioni pubbliche dei cittadini, oltre al culto da officiare, oppure i processi, le conferenze, il mercato, ecc.). Il tipo
basilicale profano si conserverà fino al IV-V secolo. Tra gli esempi più noti abbiamo la basilica di Massenzio o di
Costantino, vicino alla Chiesa di Santa Maria nuova o Santa Francesca Romana.
Dunque, i cristiani, nell’epoca, accordavano un valore simbolico non all’edificio, ma all’assemblea liturgica, cioè la
Ecclesia, cioè l’assemblea convocata per il culto del Signore. Ci sono voluti tre secoli perché i cristiani avessero dei
luoghi specifici per la celebrazione del loro culto, mentre all’origine si servivano delle loro civili abitazioni.
Un altro quesito non meno importante è quello di carattere cronologico: su questo problema l’atteggiamento
cristiano è stato diverso da quello relativo al luogo di culto. Infatti, sin dalle origini i cristiani si riunivano in giorni
determinati: in base all’esempio di Cristo hanno osservato per la celebrazione del culto i ritmi del tempo, ma cosa vuol
dire? Si tratta di una successione dei giorni riuniti per settimana, con il ritorno annuale di certi avvenimenti. Questa
divisione del tempo è frutto di un’esperienza umana molto lunga: la prima di queste esperienze fu il succedersi del
giorno e della notte. Per sperimentare la successione dei mesi e degli anni ci volle un’osservazione più attenta per
osservare che ogni anno le costellazioni nel cielo, per es., si ritrovavano nella stessa posizione dopo un anno. Dunque, è
su queste osservazioni che si basano i ritmi cronologici del culto cristiano ed, inoltre, per l’uomo antico era naturale
l’interpretazione religiosa ai fatti della natura. In modo particolare gli Ebrei hanno intravisto in questi ritmi l’opera
creatrice di Dio. Questi ritmi furono l’oggetto di celebrazioni cultuali settimanali, mensili ed annuali. Il cristianesimo
accoglie ciò che nelle religioni anteriori si è potuto sperimentare nell’ambito cronologico.
Nell’ambito di questo corso, in riferimento a quello che è stato detto sopra, tratteremo gli argomenti relativi la
settimana cristiana, la domenica cristiana, la Pasqua cristiana annuale. Tali argomenti sono enumerati nell’ordine
della loro progressiva importanza.
Il culto cristiano nei primi due secoli. 7
Di fatto la settimana cristiana riproduce la settimana ebraica dei 7 giorni, con una differenza, cioè che il punto di
riferimento di questa settimana differisce tra i cristiani e gli Ebrei. Per questi ultimi il punto di riferimento era il sabato,
poiché nella Genesi abbiamo un primo tentativo di spiegare il ritmo della settimana e di dargli un fondamento teologico.
Si sa che il primo racconto della creazione è fatto secondo i sei giorni della settimana e che il settimo giorno - dice la
Genesi - il Signore cessò da ogni suo lavoro e si ripose. Evidentemente questo racconto è fatto per giustificare, a
posteriori, l’esistenza della settimana e per imporre, in qualche modo, l’obbligo del riposo del sabato. Questo racconto è
abbastanza chiaro. Ora, questo ritmo settimanale, osservato dagli Ebrei, ha dato fastidio ai Romani che erano abituati a
ritmi diversi. Infatti, nei poeti pagani troviamo delle battute abbastanza forti e ripetute, nei riguardi dell’uso ebraico
della settimana (cfr. Giovenale, Sesta Satira, 157-160, la satira 14, v. 96-97, Ovidio, Seneca, nelle lettere a Licinio...
Tutti questi autori cercano di ridicolizzare gli Ebrei, anche se sono costretti, per motivi di affari, a seguire questo ritmo).
Per i cristiani il giorno di riferimento non è più il sabato, ma è la domenica. Però questa domenica non viene subito
chiamata tale (Dies Dominica): talvolta, lo vediamo ancora nel II secolo, viene chiamata “dies solis”. Dunque, la
domenica sostituisce il sabato ebraico, il che suppone uno spostamento dei giorni di penitenza settimanale (i cristiani
facevano penitenza il mercoledì ed il venerdì, mentre gli ebrei celebravano i digiuni il martedì ed il giovedì). Perché è
avvenuto questo spostamento? Perché la domenica è il giorno della risurrezione del Signore. Questo giorno è
espressamente nominato nei racconti della risurrezione nei quattro Vangeli: è il primo della settimana, che è ancora
riferito alla settimana ebraica, poiché nella settimana ebraica il primo giorno della settimana è proprio la domenica,
secondo il racconto genesiaco. Allora il sabato risulta essere l’ultimo giorno, mentre per i cristiani il rapporto è inverso
perché il giorno di riferimento è il primo giorno della settimana, perché questa risurrezione del Signore costituisce un
rovesciamento dei concetti antichi e fissa in questo giorno la partenza di un’era nuova. La domenica è l’inizio del mondo
nuovo che Cristo è venuto a portare. Se confrontiamo questo concetto di “primo giorno” con le nostre usanze attuali
constatiamo una specie di ritorno all’uso ebraico, perché si parla di Week-end (fine settimana) che ingloba anche la
domenica. Questo non è più un concetto cristiano.
La domenica è diventato giorno di culto cristiano perché vi si celebrava Cristo risorto: secondo tutti i racconti
sinottici e di Giovanni è dato questo riferimento, cioè il primo giorno della settimana. I passi biblici, relativi alla
risurrezione di Cristo sono: Mc 16; Mt 28; Lc 24,1 e Gv 20,1. C’è da dire che c’è una concordanza assoluta dei Vangeli
su questo argomento, perché indicano la domenica - quale giorno della risurrezione di Cristo - come primo giorno della
settimana. Questa concordanza significa che, sin dalle origini, i cristiani celebravano questo giorno come giorno della
risurrezione. Ora, secondo gli stessi Vangeli, Cristo risorto apparve ai discepoli di mattina, mentre di sera Cristo ha
condiviso il pane con i discepoli di Emmaus (Lc 24,35). Proprio questo incontro avvenne la sera del medesimo giorno
della risurrezione e poi lo stesso giorno Gesù apparve a Gerusalemme agli Undici, secondo Gv 20,26-27 e lì mangiò con
loro. Dunque la celebrazione domenicale fu messa, fin dall’inizio, in rapporto con la Passione di Cristo: ciò lo vediamo
bene con il racconto dell’apparizione di Gesù all’Apostolo Tommaso, otto giorni dopo (Gv 20,26-27), quando Gesù
mostrò le piaghe della passione al discepolo incredulo.
Dunque, la celebrazione domenicale fu messa in rapporto alla risurrezione di Gesù, attraverso la quale richiamò la
passione, poiché la risurrezione non soppresse le stigmate della passione. Quindi la celebrazione domenicale è ricordo
ebdomadario della morte e risurrezione di Cristo. Questa è la prima significazione della celebrazione domenicale, alla
quale ne segue una seconda perché i cristiani non celebrano questo momento da soli, ma comunitariamente. Tutta la
comunità si riunisce per celebrare questo ricordo. Ecco che abbiamo due aspetti, cioè l’oggetto ed il modo: il primo e la
passione e la risurrezione del Signore, mentre il secondo è la riunione collettiva di tutti quelli che credono nel Cristo
Risorto, che diventa un’esplicita manifestazione di fede.
Più tardi, in seguito, Paolo inserirà e collegherà alla riunione domenicale la colletta in favore della Chiesa di
Gerusalemme: lo vediamo nella 1Cor 16,2. Poi, un’altra testimonianza data a Paolo a Troade, quando sta per tornare a
Gerusalemme (At 20,6-12), l’abbiamo quando spezza il pane con i cristiani del luogo il primo giorno della settimana.
Dunque, il costume di celebrare Cristo risorto il primo giorno della settimana è già ben stabilito. E’ un costume
generale, diffuso nelle sue comunità dall’Apostolo Paolo, il quale a sua volta lo ricevette dalla Chiesa di Gerusalemme o
dai cristiani di Antiochia che erano venuti a Gerusalemme. Quindi, il primo giorno della settimana era diventato per i
cristiani il giorno della riunione eucaristica e della carità fraterna, poiché alla frazione del pane era collegata la colletta
per i poveri di Gerusalemme.
Dunque, il primo nome della domenica, il più antico, è il primo giorno della settimana, in riferimento al computo
ebraico. Verso la fine del I secolo si vedrà per la prima volta il termine di “dominica”: infatti, vediamo nell’Apocalisse
1,9-10 il passo dove dice: “Io Giovanni, vostro fratello e compagno nella prova, trovandomi sull’Isola di Patmos, caddi
in estasi il giorno del Signore”. Poco dopo si moltiplicheranno le testimonianze in favore di questa nuova
denominazione: infatti, una prima testimonianza è quella della Didaché cap. 14, v. 1. In questo passo leggiamo una
formula che può sembrare pleonastica. Dice infatti: “Il giorno domenicale della domenica del Signore, radunatevi per la
frazione del pane e per l’eucaristia”. Questa prima testimonianza della Didaché la possiamo, grosso modo, datare
all’anno 100, forse leggermente dopo. L’Apocalisse dà una testimonianza di poco anteriore, poiché si data l’Apocalisse
nei ultimi anni del I secolo. E’ bene notare l’ubicazione di queste due testimonianze: se la prima, l’Apocalisse, è stata
Il culto cristiano nei primi due secoli. 8
scritta nei pressi di Patmos, in Asia Minore, la seconda, la Didaché, è stata scritta in Siria, ma non nella Siria, dove si
parlava il siriaco, ma nella Siria Occidentale, dove si parlava greco, poiché la Didaché si trova in greco, probabilmente
nella regione di Antiochia. Dunque, rimane interessante vedere che in questi due punti distinti della geografia, quasi allo
stesso momento, appare il termine nuovo di “Dies Dominica” (Giorno del Signore). Ora, è senza dubbio lo stesso giorno
che Plinio il Giovane cita, quando riferisce dell’Imperatore Traiano, nel momento in cui lo stesso Plinio, governatore
della Bitinia (Provincia romana che comprende le città di Nicea, Nicomedia e Calcedonia), conduce i processi contro i
cristiani. La Bitinia, al tempo di Plinio, era già popolata da un grande numero di cristiani, tanto che, secondo la lettera di
Plinio, i templi pagani venivano disertati, perché i cristiani convertiti dal paganesimo non vi andavano più e non
compravano più la carne usata per la celebrazione dei sacrifici pagani. Questo fu un altro motivo di inquietudine per il
popolo. Ritornando a Plinio, è vero che non parla di domenica, ma dice semplicemente che ad un preciso giorno i
cristiani si riunivano e cantavano un inno a Dio e a Cristo. La sua lettera a Traiano può essere data intorno agli anni che
vanno dal 112 al 113. In un tempo di 10 anni posteriori alla Didaché notiamo lo stesso uso osservato in Bitinia. Dunque,
questo fa comprendere che l’Asia Minore è stata interessata ad un numero alto di conversioni dal paganesimo.
Segue adesso la testimonianza di Ignazio di Antiochia, che avverte i cristiani di Magnesia che il giorno di culto
cristiano non è più il sabato, ma “il giorno del Signore in cui è sorta la nostra vita tramite lui e tramite la sua morte e che
mediante questo mistero noi abbiamo ricevuto la fede per essere trovati discepoli di Gesù Cristo” (Ignazio, Lettera ai
magnesiani, cap. 9, v.2). Quindi è abbastanza significativo che le prime testimonianze, del nuovo giorno di culto
cristiano, da una parte, attestino l’esistenza della frazione del pane - nella Didaché e negli Atti - mentre, dall’altra,
questa celebrazione è specifica ai cristiani. Inoltre, la più antica testimonianza è dalla Didaché che proviene proprio
dalla città - Antiochia - nella quale i fedeli di Gesù per la prima volta furono chiamati cristiani. Sembra, dunque, essere
stata la città di Antiochia il punto di partenza di questo nuovo nome della domenica. Se si cerca di valutare
correttamente le due denominazioni - “primo giorno della settimana” e “dies dominica” - possiamo pensare
rispettivamente, con una certa probabilità, che l’uso del primo giorno della domenica sia di origine giudeo-cristiana
(gerosolimitana) mentre il secondo sia di origine pagano-cristiana e antiochena. Questa ipotesi non è molto lontana dalla
realtà.
Ora, la prima descrizione del culto domenicale la dobbiamo a Giustino il filosofo, verso la metà del II secolo; egli
nel cap. 67, vv. 3-8 della prima Apologia dice:
“Nel giorno che si chiama giorno del sole si tiene una riunione di tutti quelli che abitano in uno stesso
luogo, sia nelle città che nelle campagne. Vi si leggono le memorie degli Apostoli e gli scritti dei profeti per
quanto lo concede il tempo. Poi quando il lettore ha finito il presidente dell’assemblea prende la parola per
indirizzarci degli avvertimenti ed esortarci all’imitazione di questi bei esempi o insegnamenti. Poi ci alziamo
tutti insieme e preghiamo ad alta voce, e come stato detto più sopra, quando abbiamo finita la nostra preghiera,
viene portato del pane come del vino e dell’acqua. Il presidente fa salire verso il cielo delle preghiere e dei
rendimenti di grazie, per quanto possibile. E il popolo esprime la sua adesione con l’acclamazione “amen”. Poi
ha luogo la distribuzione e la divisione, ognuno ricevendo una parte di Eucaristia. Se ne invia anche agli assenti
per il tramite dei diaconi. Quelli che lo possono e che vogliono dare qualcosa, danno liberamente ognuno
quello che vuole ed il raccolto è deposto ai piedi del presidente. E’ lui che fa distribuire dei soccorsi agli orfani
e alle vedove, a quelli che sono nel bisogno, perché malati o per qualche altro motivo, cosicché ai prigionieri e
agli ospiti stranieri. Insomma, è quello che soccorre tutti quelli che sono nel bisogno. E’ il giorno del sole, che
noi ci riuniamo tutti insieme perché questo giorno è il primo in cui Dio, trasformando la tenebra e la materia
creò il mondo, giorno in cui Gesù Cristo nostro Signore è stato risuscitato dai morti, era stato crocifisso, il
giorno prima di saturno e l’indomani di questo giorno, cioè il giorno del sole è apparso ai suoi apostoli e ai
suoi discepoli ed insegnò loro quello che abbiamo esposto”.
Giustino descrive una riunione localizzata nel tempo e nel luogo, cioè a Roma, dove si trova in quel momento e
quando scrive la sua apologia agli imperatori, intorno all’anno 150. Negli atti del suo martirio, d’altra parte, risulta che
nella stessa città di Roma vi erano parecchie riunioni liturgiche del tipo di quelle descritte da Giustino, la cui descrizione
è molto verosimile. Tale descrizione sembra essere abbastanza rappresentativa dell’uso, del tempo e del luogo, cioè un
uso di una Chiesa ellenizzata, a dimostrazione che al tempo era diffusa la lingua greca tra il ceto medio. Questa riunione
è fissata alla domenica e commemora due cose: il primo giorno del mondo (la creazione) ed il giorno della risurrezione.
Si nota qui un primo sviluppo tematico nel significato della domenica: alla risurrezione del Signore è stata aggiunta la
commemorazione dell’opera creatrice di Dio, come del resto avveniva anche nelle riunioni sabbatiche che
commemoravano anche l’opera salvifica di Dio durante l’esodo.
Un’altra caratteristica riguarda una mancata fissazione del testo relativo alle preghiere dei fedeli e del presidente: la
preghiera è lasciata alla libera aspirazione di ognuno ed in modo particolare alla libera aspirazione del presidente (il
vescovo o il presbitero) dell’assemblea liturgica. Inoltre, il medesimo presidente, non è designato da un termine tecnico
(filologicamente ed in senso etimologico, presidente significa “stare davanti” o “quello che presiede” ), perché non è un
termine che designa una funzione, ma è un termine che designa un atto. Ora, questo presidente, non solo fa la preghiera
a nome di tutti, ma pronuncia l’omelia e distribuisce i soccorsi. E’ quello che potremo dire un capo di comunità; tale
espressione non deve essere troppo formalizzata come se si trattasse necessariamente di una funzione fissa. In rigore di
Il culto cristiano nei primi due secoli. 9
termini, il presidente lo potrebbe svolgere un cristiano oggi ed un cristiano domani. E’ colui, dunque, che presiede
attualmente. Noi ci troviamo all’origine di questa tradizione che va accolta nel suo divenire, anche se rimane difficile da
compiersi perché siamo costretti a capovolgere le nostre idee ed il nostro modo di pensare.
Gli elementi sui quali è fatta la preghiera sono chiaramente indicati, cioè il pane, il vino, l’acqua. Lì per capire
dobbiamo riferirci ai costumi e agli usi del tempo: pane e vino erano gli elementi normali di un pasto, ma perché
l’acqua? Perché gli antichi non bevevano il vino senza l’acqua. Il vino antico era molto più forte del nostro (raggiungeva
anche i 18 gradi), per cui era necessaria l’aggiunta dell’acqua che per di più non era fredda, ma tiepida.
Ora, è Giustino a darci queste indicazioni: questo vino e questo pane sono eucaristiati, cioè su di loro è stata
pronunciata la preghiera di ringraziamento. Questi elementi eucaristiati non sono più il pane ed il vino, ma la carne e
sangue di Cristo tramite un “discorso di preghiera che viene da Cristo”. Quindi la formula eucaristica ha origine dal
Signore, probabilmente quella derivante dai racconti dell’istituzione dell’Eucaristia nei Vangeli. Quindi questo pane e
vino sono diventati corpo e sangue di Cristo nella maniera in cui il Logos di Dio è diventato carne in Gesù Cristo. Si
tratta, allora, di una specie di incarnazione rinnovata. Perciò tale pane e tale vino “nutrono nostro sangue e nostra carne
tramite un cambiamento” (I Apologia 66, 2 metabolé o cambiamento). Non si parla di transustanziazione, ma di questo
cambiamento che malgrado appaia povero nell’ambito della teologia odierna, è abbastanza chiaro. Inoltre questa
eucaristia è il “memoriale della sofferenza e della risurrezione di Cristo” (Giustino, Dialogo con Trifone 41,1). E’ un
dialogo più meno fittizio che Giustino avrebbe avuto con un Ebreo chiamato Trifone. E’ possibile che questo dialogo
sia effettivamente avvenuto tra Giustino e gli Ebrei, durante i suoi viaggi.
Questa passione e la risurrezione del Signore, Giustino le colloca tra le prodezze del Signore, simili a quelle che il
Signore nel passato ha compiuto al tempo di Mosè. L’Eucaristia non è soltanto una delle prodezze del Signore, ma è il
compimento di tutti i prodigi compiuti nel passato. Il ricordo di queste magnalia dei viene di nuovo riattualizzato.
Quindi l’Eucaristia rende nuovamente attuali la passione e la risurrezione del Signore, perciò conviene celebrarla nel
giorno ebdomadario in cui si verificarono per la prima volta questi avvenimenti. Nella Apologia e nel Dialogo a Trifone
possiamo trovare un primo schizzo di una teologia dell’Eucaristia. Nono solo Giustino è testimone dell’uso, come si
osservava al suo tempo, cioè alla seconda metà del II secolo, ma è ancora uno dei primi (non il primo in assoluto se si
tiene in conto le lettere di Ignazio, dove c’è un altro tentativo di interpretazione teologica). Siamo in un epoca in cui sta
prendendo corpo la liturgia primitiva della Chiesa; siamo in un tempo in cui questi riti fanno riferimento al gesto di
Cristo dell’ultima Cena, ma nello stesso tempo acquisiscono una consistenza molto più complessa del medesimo gesto
di Cristo, in primo luogo (lo notiamo bene già nella testimonianza di Giustino) perché nella riunione cristiana
confluiscono due usi diversi:
a) il sistema delle letture, dei canti e della liturgia occupa la prima parte della celebrazione che è
derivata dall’uso sinagogale;
b) un uso propriamente cristiano che consiste nella frazione del pane in ricordo del gesto del Signore,
durante l’ultima cena, mediante una preghiera di ringraziamento. Si tratta di uno sviluppo del rendimento di
grazie, accompagnato da una preghiera di ringraziamento che dà il nome a tutto il rito eucaristico.
__________Note Personali di Studio__________________________________________________________
Il culto cristiano nei primi due secoli. 10
[PC 511.3]
La Pasqua annuale
La più antica celebrazione della Pasqua fu quella della domenica, Pasqua settimanale. I cristiani non pensavano di
celebrare il ritorno annuale dell’avvenimento prima della fine del I e dell’inizio del II secolo.
Paolo si era accontentato di suggerire ai fedeli il nuovo senso della Pasqua ebraica:
“Non sapete che un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta? Togliete via il lievito vecchio per
essere pasta nuova, poiché siete azzimi. Perché nostra pasqua è Cristo ed è stato immolato.
Celebriamo la festa non con vecchio lievito, né con lievito di malizia e di perversità, ma con
azzimi di sincerità e di verità”. (1Cor 5,6-8)
Allude al rito ebraico di vuotare la casa del vecchio lievito per ricominciare con la Pasqua un nuovo anno. Sembra
che la lettera sia stata scritta nell’anno 57, probabilmente nelle vicinanze della Pasqua ebraica. San Paolo reinterpreta il
vecchio rito ebraico: il pane azzimo era il pane senza lievito durante la festa di Pasqua. Per il cristiano è avvenuto un
cambiamento analogo con la morte e la risurrezione di Cristo.
Paolo da così al vecchio rito ebraico un senso nuovo. Nella comunità di Corinto c’era un incestuoso che voleva
essere riammesso nella comunità senza altra formalità. Azzimo è esente da ogni lievito, come la vita cristiana in purezza
e verità. Il concetto di Pasqua ebraica, di liberazione dell’Esodo, è rinnovato: non è più liberazione dalla servitù
d’Egitto, ma dal peccato.
I cristiani continuavano a celebrare la Pasqua ebraica, particolarmente i cristiani di Gerusalemme e quelli delle
comunità ebraiche della diaspora.
La rottura tra giudaismo e cristianesimo avviene verso la fine del I secolo. Abbiamo vari indizi:
La distruzione del tempio
Intorno all’85 gli ebrei celebrarono una specie di Sinodo di Rabbini a Jamnia, dove decisero
di non considerare più ebrei i cristiani. Cfr il racconto di Gv sul cieco guarito ed espulso dalla sinagoga
La situazione divenne universale quando nel 135 Gerusalemme sparì come tale e fu sostituita da Aeia Capitolina (da
Aeius Adrianus).
I cristiani celebravano la Pasqua ebraica, il 14 Nisan, anniversario simbolico dell’Esodo e della passione del Signore
secondo Gv 18,28 e 19,14. Questo è l’uso quartodecimano che risale alle origini della chiesa.
Qual è il senso cristiano dato alla Pasqua giudaica? Come si esprime questo nuovo senso? Risponderanno i
documenti.
Secondo l’apocrifa Epistola degli Apostoli (fine I e inizi del II sec.), la Pasqua del 14 Nisan era la commemorazione
annua della passione di Cristo. Tale commemorazione avveniva durante una vigilia notturna che si chiudeva al canto del
gallo. La lettera esiste in diverse versioni orientali: etiopica, copta, siriaca. L’area egizia sembra quella in cui la lettera
sembra nata.
Ci sono due Omelie Pasquali del 2° e 3° secolo, che danno alla festa una spiegazione diversa. Il 14 Nisan sarebbe la
commemorazione unitaria di due avvenimenti: Passione e Risurrezione.
Di queste due omelie:
1. Pronunziata da Melitone di Sardi circa 160-170.
2. Anonima ispirata al trattato di Ippolito sulla Pasqua1
Melitone spiega che la Pasqua cristiana era stata preparata da lontano (prooikonome,w) per ottenere credenza
quando fosse stata realizzata, perché prefigurata da molto tempo nella Pasqua Ebraica. 2 Siamo in presenza di un
esempio di esegesi tipologica: l’AT prefigura il NT e il NT realizza l’AT.
L’uso quartodecimano sembra essere stato universale in tutta la chiesa e continua ad essere osservato in Asia Minore
fino alla fine del 2° secolo. Verso i confini della Siria con la Persia, l’uso si prolungò molto più tardi.
Dell’uso abbiamo parecchie testimonianze antiche. Policarpo a Smirne, Policrate di Efeso osservano l’uso
quartodecimano. Ireneo di Lione, Epifane di Salamina, ne sono testimoni, ma nonli osservano più.
Il secondo uso era quello di celebrare la Pasqua di Domenica, dopo il 14 Nisan. Nacque dopo Jamnia e la sua
diffusione si fece progressivamente e non sensa difficoltà. Secondo Epifanio, nel Panarion, collezione di eresie antiche,
le prime difficoltà sorsero verso il 135, dopo la conquista di Gerusalemme da parte di Adriano, quando sparirono anche
a Gerusalemme i vescovi giudeo-cristiani, che erano tutti della famiglia di Gesù. La situazione sparì con la
1 Cfr. SC 123 e 127. Lo studio della questione è in M. RICHARD, La question Pascal, L’Orient Chretienne 6
pp.169-212. Contro il DUCHESNE? esprime la sua opinione nella Storia Antica della Chiesa vol. I 186-212. 2 Cfr. SC 123 pp. 92-93.
Il culto cristiano nei primi due secoli. 11
ristrutturazione della città e con la comparsa di vescovi pagano-cristiani. In questa congiuntura si crearono delle
difficoltà tra i partigiani della Pasqua quartodecimana e quelli della Pasqua di Domenica.
In quanto esistono ancora al tempo del Concilio di Nicea (325), il concilio rende universale e obbligatoria la
celebrazione nella domenica dopo il 14 Nisan.
La storia registra altre difficoltà:
Laodicea di Frigia: siamo informati da Eusebio di Cesarea che riferisce sulla base di documenti
provenienti da Melitone di Sardi e Clemente Alessandrino.3 Questi menziona l’opera sulla Pasqua nel suo proprio
trattato sulla Pasqua, composto a causa del libro di Melitone di Sardi. (informazione di quarta mano). Melitone, nel
frammento riportato da Eusebio,4 dice:
Sotto Servilio Paolo proconsole dell’Asia, al tempo del martirio di Sagaris, ci fu una grande
disputa a Laodicea a riguardo della Pasqua, che era in corso di celebrazione.
La testimonianza di Laodicea è data da Eusebio tramite due coordinate cronologiche:
A. Il proconsolato di Servilio Paolo. Personaggio sconosciuto nel II secolo. Eusebio ha mal trascritto il
nome, esiste piuttosto un Sergius Paulus. Difatti Rufino traduce con Sergius Paulus. Si trova un Lucius Sergius
Paulus, proconsole nel 164-166.
B. Il martirio di Sagalis. Questo nome si trova solo in Eusebio, non possiamo verificare quando visse e
morì.
La controversia si può datare nel 165.
Oggetto della controversia. Eusebio inserisce la controversia nei suoi capitoli sulle controversie pasquali, in cui
“Le chiese di tutta l’Asia, seguendo una tradizione molto antica, pensavano che si dovesse
osservare il giorno decimoquarto della luna per la Pasqua della salvezza, giorno in cui era prescritto
agli ebrei di immolare l’agnello, e che si dovesse allora porre termine in ogni caso al digiuno,
qualunque fosse il giorno della settimana in cui cadeva la festa. Però le chiese del resto della terra
non avevano l’abitudine di osservare questo costume, ma seguendo la tradizione apostolica,
mantenevano l’uso in vigore fino ad oggi, pensando che non era conveniente porre fine al digiuno in
altro giorno che non fosse la risurrezione del Signore.
Sinodi e assemblee di vescovi si riunirono a questo proposito e tutti, unanimemente, presero il decreto
ecclesiastico per i fedeli di ogni parte del mondo, secondo il quale non si doveva celebrare il mistero
della risurrezione del Signore in un giorno diverso dalla domenica e che soltanto in quel giorno si
doveva porre fine al digiuno pasquale”.
Per riassumere la maniera usata da Eusebio: Egli oppone l’uso quartodecimano di una provincia all’uso di tutte le
altre chiese. Quest’uso era molto localizzato, si pensa all’odierna Turchia occidentale, Efeso e Smirne. Nelle altre chiese
si celebrava la Pasqua nella domenica seguente il 14 Nisan.
La presentazione di Eusebio sembra essere semplificata. La decisione che lui dice presa una volta, sembra essersi
scaglionata per parecchi anni nel tempo. Così si dovrebbe spiegare il decreto di Laodicea. Dice che la Pasqua cadeva
proprio nei giorni del concilio, inoltre ricorda l’opera di Melitone di Sardi, che era stato all’origine del dibattito e che è
stato rifiutato da Clemente Alessandrino, la cui opera non ci è pervenuta. Siamo ridotti alle informazioni di Eusebio che
sono visibilmente semplificate. Ma con sicurezza possiamo affermare che Melitone è partigiano della Pasqua
quartodecimana, mentre Clemente è sostenitore della Pasqua annua di domenica.
Questo è l’oggetto del dibattito di Laodicea, anche se è possibile che la questione si sia allargata ad altri problemi:
come mettere d’accordo i dati non omogenei dei Vangeli, la tradizione sinottica e quella giovannea.
Difficoltà a Roma, durante l’episcopato di Vittore (189-199). Questo problema è già complicato in se stesso,
ma lo è di più se teniamo conto della posizione contraddittoria degli storici attuali che hanno ragionato sul problema.
Occorre tornare alle fonti e non tener conto degli storici.5
Eusebio sembra disporre nella sua biblioteca di Cesarea di una documentazione più ricca di quella che appare
nell’Hist. Eccl. Parla infatti di Sinodi e Riunioni di vescovi
I Sinodi erano presieduti da Teofilo di Cesarea e Narciso di Gerusalemme, le cui lettere sono state conservate.
Conosce per sentito dire una lettera sinodale romana, al tempo in cui Vittore era vescovo. Era a conoscenza di lettere dei
3 Cfr. Historia Eccl. V, 26 n. 3-4. 4 Cfr Hist. Eccl. IV, 26, 3. 5 Cfr. DUCHESNE, vol 1, pp. 285-291; ID, Origini del culto cristiano, pp. 249-253.; BOTTE, La question pasqal;
CANTALAMESSA, La Pasqua nella chiesa antica.
Il culto cristiano nei primi due secoli. 12
Vescovi del Ponto, riunioni presiedute dal vescovo Palamas, Sinodi delle comunità della Gallia, di cui Ireneo era
vescovo, di altre riunioni dei vescovi di Osroene (Asia) e di Bacchilo, vescovo di Corinto. 6 Riassume questa
documentazione in una frase: “Tutti costoro espressero una stessa opinione e stabiliscono un decreto uguale”.
Aggiunge che la loro unica regola di condotta è quella di cui ha parlato: la domenica seguente il 14 Nisan. Sulla
particolarità delle decisioni non apprendiamo nulla. Così facendo sembra contraddirsi: all’inizio del capitolo ricorda
l’antichissima tradizione della pasqua annuale di domenica, nella seconda parte le decisioni sinodali del 2° secolo. Il
problema è stabilire l’antichità di questa tradizione. L’alternativa 1° secolo o fine del 2° è notevole, in un’epoca, in cui
tutto è in formazione.
La sua informazione deriva dall’imbarazzo per l’antichità della tradizione quartodecimana, come difendere
l’antichità dell’altra tradizione? Eusebio cita due testimoni importantissimi: Policrate di Efeso e Ireneo di Lione.
Policrate scrive a nome dei vescovi Asiatici al Vescovo Romano Vittore. Dice che in Asia loro celebravano la
Pasqua il 14° giorno secondo il Vangelo.7
La tradizione quartodecimana ha per garanti Filippo, uno dei dodici, e le sue figlie, Giovanni che ha riposato sul
petto del Signore, Policarpo di Smirne, Trasea di Eumenia, Sagaris di Laodicea, vescovo e martire (peso particolare
della loro testimonianza), Melitone di Sardi. Policrate è l’ottavo vescovo della sua famiglia, nella quale si è sempre
osservata questa data. Così per Eusebio è fondata la tradizione quartodecimana.
La tradizione antica non impressionò Vittore che scomunicò i vescovi asiatici.8 Il più notevole dei difensori delle
persone fu Ireneo di Lione che è per Eusebio il 2° testimone che parla a favore dei fratelli.9 Ireneo era partigiano della
Pasqua domenicale, però esorta Vittore a tornare sulla sua decisione.
Completa poi l’informazione quando parla delle difficoltà sorte a Roma sulla durata del digiuno prepasquale: 1, 2 o
3 giorni? La divergenza dei costumi non aveva impedito la pace fra le chiese.
Eusebio offre una testimonianza importante che mostra Ireneo conoscitore esatto della situazione romana. Nel 177,
al tempo della persecuzione di Lione, Ireneo era stato mandato dai martiri per intercedere a favore della tradizione
asiatica. Eusebio dice:
I presbiteri anteriori a Sostene (vesovo di Roma) e che furono a capo della Chiesa che ora governi
tu, parlo di Aniceto, Pio, Igino, Telesforo e Sisto. Costoro non osservavano la costumanza e non
l’hanno imposta a quelli che erano con loro. Anche se non l’osservavano loro stessi, erano in pace con
coloro che l’osservavano. Eppure nessuno fu mai rigettato per questo motivo, ma anzi, gli stessi tuoi
predecessori che non osservavano mandavano l’eucarestia a coloro di altre comunità che
l’osservavano
Lo scandalo della decisione di Vittore era grande per i non osservanti della tradizione quartodecimana. Nessuno fu
mai rigettato a causa della differenza. La differenza di osservanza non impediva la comunione di fede.
Il verbo threi/n in Eusebio è senza complemento, vuol dire che parla di osservanza.
Dunque due sono le tradizioni, l’asiatica e la romana. Vittore ha voluto imporre l’uso romano agli asiatici. Il
problema è quale fosse l’uso romano prima di Vittore. Per Duchesne l’uso romano di Vittore è quello di sempre.10
Questa posizione non trova accordo globale.11 Roma avrebbe celebrato la pasqua solo di domenica, ogni settimana. Non
ci sarebbe stata Pasqua annuale. La decisione di istituire la festa annuale di Pasqua sarebbe intervenuta prima di Vittore,
al tempo di Eleuterio, all’inizio della seconda metà del 2° sec. La Chiesa romana decide allora di celebrare la pasqua
una volta all’anno. Di questa festa Vittore avrebbe preteso di farne un segno di unità. In realtà Ireneo, citato di Eusebio,
non oppone ai quartodecimani l’uso di celebrare la Pasqua la domenica dopo il 14 Nisan, ma la traduzione del Bardi
forza il testo greco:
Costoro non hanno osservato e non hanno imposto questa osservanza agli altri.
Ma qual è questa osservanza? Mi pare che questa espressione voglia dire che ad eccezione della celebrazione
domenicale, i romani non conoscevano la celebrazione annua della Pasqua. Pur non celebrandola, erano in buoni
rapporti con le altre chiese che la celebravano.
Il Papa sapeva che l’uso asiatico rimontava a Giovanni e agli altri apostoli. Dal canto suo Policarpo dice che si deve
tornare all’uso ??????
6 Cfr Hist. Eccl. V, 23, 3. 7 Hist. Eccl. V, 24, 2-8. 8 Hist. Eccl. V, 24, 9-10. 9 Hist. Eccl. V, 24, 11. 10 Cfr. DUCHESNE, Storia Ecclesiastica; DANIELOU, ne La nouvelle histoire de l’Eglise, vol I, pp. 106-107;
ODO CASEL ….. 11 Cfr. HOLL, RICHARD nell’articolo già citato.
Il culto cristiano nei primi due secoli. 13
Aniceto cedette a Policarpo l’onore di (celebrare l’eucarestia) nella sua chiesa, separandosi in
pace. In tutta la chiesa si era in pace, sia che si osservasse, sia che non si osservasse il 14 Nisan.12
L’episodio è ricco di insegnamenti: Vittore ed Ireneo sono due temperamenti diversi, uno autoritario, l’altro pacifico.
Dice che Ireneo portava bene il nome perché era pacificatore di nome e di fatto. Ireneo si rivela migliore conoscitore
dell’usanza romana, perché la memoria di Vittore risale a Sotero, fino al sec. ?.
Nella persona di Vittore il vescovo è chiaramente emerso dal gruppo presbiterale, è vescovo monarca, anche se
Ireneo preferisce presbiteri per questi vescovi. Ireneo è fedele alle usanze antiche, più di Vittore. L’atto autoritario ha
segnato in modo durevole la memoria della sua chiesa.
Eusebio permette di completare il quadro, illumina le origini del costume romano.
Sulla questione della Pasqua ci fu uno scisma13 Blasto vuol introdurre l’uso quartodecimano. Ciò può giustificare
l’intervento di Vittore, che in realtà voleva ricomporre uno scisma interno, ma ha allargato troppo l’orizzonte.
Nel 325 il Concilio di Nicea conferisce alla chiesa d’Alessandria il compito di fissare la Pasqua e di comunicarla alle
altre chiese. Alessandria aveva ereditato delle conoscenze scientifiche (astronomiche).
In Occidente la festa era celebrata dopo il 14 Nisan, la festa è la cinquantina pasquale. Terulliano, a proposito del
miglior tempo per i battesimi, scrive:
“Il giorno più solenne per il battesimo è la Pasqua, perché in essa si è compiuta la passione del
Signore, nella quale siamo battezzati. Altro giorno è quello della cinquantina pasquale. Ma ogni
domenica, ora e stagione si prestano all’amministrazione del battesimo. Se ci sono tempi più solenni,
la loro grazia rimane autentica”.14
Così è attestata alla fine del 2° sec. l’esistenza di un periodo festivo di 50 gg pasquali, giorni di gioia in cui sono
soppressi tutti gli usi penitenziali (si canta l’alleluia, si sta in piedi, non in ginocchio, non si fanno digiuni ed atti di
penitenza).
In modo analogo si è sviluppato un periodo preparatorio alla Pasqua. In alcune chiese era in uso un digiuno assoluto,
uno, due o tre giorni prima della Pasqua quartodecimana. Un digiuno più esteso lo vediamo attestato in Siria, nella
prima metyà del 3° sec. nella Didascalia Apostolorum. Da questi nuclei uscirà l’uso della quaresima.
Ma prima si costituisce il Triduo Pasquale, Venerdì, Sabato, Domenica. Poi si aggiungerà il Giovedì Santo. Vediamo
poi attestata la settimana intera del digiuno di Pasqua. Sono specificazioni cronologiche progressive per commemorare
l’evento della passione, morte e risurrezione di Cristo. La celebrazione è ancora unitaria, non distingue ancora giorni
precisi per la sepoltura e la risurrezione.
La quaresima si costituisce solo nel IV secolo, quando la preparazione battesimale prese una forma istituzionalizzata.
I catecumeni dovevano farsi conoscere all’inizio del periodo, farsi iscrivere nel registro e seguire una preparazione
intensiva, con riunioni ogni giorno del periodo, preghiera e altri esercizi penitenziali e alcuni interventi rituali
(imposizione delle mani e segni di croce, esorcismi). La preparazione ascetica (digiuni, preghiere, elemosine, vigilie
notturne) rappresentava un impegno forte che richiedeva la cessazione di ogni lavoro. Erano presi a carico della Chiesa.
Esercizio spirituale di 40 giorni. È un periodo preparatorio al battesimo e per loro anche di preparazione alla
risurrezione di Gesù. È preparazione unitaria al Battesimo di questi candidati.
La Pasqua era diventata il punto centrale di riferimento durante l’anno. Questa evoluzione è percepibile solo nel IV
Letture: memorie degli apostoli e gli scritti dei profeti
Omelia del presidente
Preghiera dei fedeli
-----------------------
Offerta del pane, vino, acqua.
Preghiera eucaristica
Acclamazione finale: AMEN
Distribuzione del pane e del vino21
20 Temperato con acqua, gli antichi non bevono vino puro 21 Temperato con acqua, gli antichi non bevono vino puro
Il culto cristiano nei primi due secoli. 37
Nella sinossi è importante non completare i vuoti con i dati dell'altra. Sono due colonne a se stanti, sono due
realtà diverse. Sarebbe un errore metodologico supporre che nell'eucarestia battesimale ci fossero letture ed omelia e che
ci fosse il bacio della pace nell'eucarestia domenicale. Ciò non vuol dire che che nell'eucarestia domenicale non si
scambiassero il segno di pace, ma che non figura nel cap. 67. Non sappiamo perchè sia stato omesso il bacio di pace
nell'eucarestia domenicale. L'eucarestia battesimale non comincia con le letture e l'omelia, perchè letture, canti,
preghiere ed istruzioni del presidente furono fatti durante la vigilia battesimale. Perciò credo che si possa ammettere che
l'eucarestia battesimale cominci ex abrupto con la preghiera dei fedeli, il bacio della pace e l'offerta del pane, vino con
acqua. La parte precedente era il rito battesimale.
Se confrontiamo queste tabelle con quelle della Didachè, c'è una differenza che si spiega abbastanza se teniamo
conto della diversa origine geografica.
la Didachè rispecchierebbe l'uso della Siria Occidentale;
Giustino l'uso romano, perchè era a Roma quando ha indirizzato l'apologia.
Per il resto la concordanza tra la Didachè e Giustino è perfetta. C'è un'altra anomalia da prendere in
considerazione. Giustino menziona le offerte nel cap. 67,6, dopo la comunione della Messa. Non è ordine normale, forse
è ritorno all'offertorio, perchè i fedeli portano doni in abbondanza, che superano i bisogni dell'Eucarestia. Non tutti sono
usati nell'Eucarestia. Perciò dice che è a carico del presidente distribuire i doni. Non si può dire se tutto sia stato
consacrato o solo una parte. Ciò che è avanzato è distribuito ai bisognosi dal presidente della comunità. Il presidente
non riceve una designazione particolare: è o proestw,j. Non sappiamo se era l'episcopo o portava altro titolo. Nel cap.
66 spiega il senso dell'eucarestia:
Una volta eucaristiati non sono più alimenti ordinari, perché sono diventati il corpo ed il sangue di
Cristo.
Giustino parla di metabolh,, trasformazione, paragonata alla prima metabolh: l'incarnazione di Cristo. Ci sarà
un'altra metabolh,, la parousia alla fine dei tempi. Questa metabolh risulta dalla potenza creatrice del logos. Giustino
non spiega il come, ma il perché della trasformazione.22 In Giustino c'è un progresso rispetto alla Didachè, che non
spiega il senso dell'Eucarestia. Ma a Giustino interessa non il come, ma il perché. I Padri sono molto preoccupati per il
ritorno del Signore.
c) La Traditio Apostolica
L'eucarestia è descritta nell’edizione del Botte, pp. 55-59.
Dopo il battesimo i neofiti pregheranno con tutto il popolo, perché non pregano con i fedeli prima di
aver ottenuto tutto questo.
Quando avranno pregato daranno il bacio di pace. L'oblazione sarà presentata dai diaconi al vescovo.
Lui renderà grazie sul pane perché sia l'antitipo del corpo di Cristo, sul calice, perché sia l'immagine
del sangue che è stato versato per tutti quanti credono in lui. Renderà grazie sul late e sul miele
mescolati per il compimento delle promesse fatte ai padri, nelle quali è detto della terra dove colano il
latte e il miele. Renderà grazie, infine, sull'acqua presentata in offerta per significare il bagno, affinché
l'uomo interiore ottenga gli stessi effetti nel corpo.
Di tutto queste cose il vescovo renderà conto ai comunicanti, quando avrà rotto il pane, presentando
ogni boccone dirà: Il pane del cielo in Cristo Gesù, il comunicante dirà Amen.
Se i presbiteri non bastano, anche i diaconi terranno i calici e si sposteranno in buon ordine: il primo
con acqua, il secondo con il latte, il terzo con il vino. Tre volte dirà quello che li tiene: "In Dio Padre
onnipotente". E colui che lo riceve dirà: "Amen". "E nel Signore Gesù Cristo" e dirà: "Amen".
"Nello Spirito Santo e nella Santa Chiesa" E dirà : "Amen".
Quando la distribuzione è finita ognuno si applicherà a fare delle buone opere, a piacere a Dio, a ben
comportarsi, a essere zelante per la chiesa .....
Lo svolgimento della Messa Battesimale è, pertanto:
1. Preghiera dei fedeli
2. Bacio di pace
3. offertorio
4. preghiera eucaristica su tutti gli elementi
5. Comunione al pane, all'acqua al latte al miele
Come è definito il pane? Antitipo del corpo di Cristo. Il vino è immagine del corpo di Cristo. Siamo in
presenza di un linguaggio tipologico. Antitypos è termine tecnico per designare una cosa che significa altra ventura. Ad
es. le profezie dell'AT sono antitipo della loro realizzazione nel NT, dove c'è il typos. Anche nella vita della chiesa ci
22 Cfr. PEARL, Logos un eucharestie, Divus Thomas, vol XVIII (1940), p. 303.
Il culto cristiano nei primi due secoli. 38
sono antitipi che annunziano una realtà futura. In questo senso il corpo ed il sangue di Cristo storico sono il modello
degli elementi eucaristici, che sono la replica di questi antitipi.23
Accanto ad Ippolito abbiamo altre attestazioni in Tertulliano, Cipriano, Ambrogio e in Cirillo di Gerusalemme.
La stessa tipologia è applicata al latte e al miele, poiché compimento delle profezia di Lv 20,24: "Una terra
dove scorrono latte e miele". Questo paese è identificato con la chiesa, paese dove si realizzano le profezie dell'AT.
L'acqua è il ricordo di quella fatta appena scorrere sui neofiti nel Battesimo. La testimonianza della Traditio
Apostolica è importante. Perché mette l'eucarestia nel contesto battesimale. Ricorda che l'eucarestia è riservata ai
battezzati.
Per quanto riguarda gli elementi diversi, qui latte e miele sono solo per l'eucarestia battesimale, sono i
rimasugli, povere vestigia del pranzo in cui era anticamente inserita l'eucarestia. Questo uso si è conservato per un
tempo più lungo nell'eucarestia battesimale.
I neofiti avevano digiunato tutto il sabato e tutta la notte della veglia pasquale. Il conforto era per loro il
benvenuto. Si tratta di alimenti molto calorifici (latte caldo, anche vino caldo).
d) La Didascalia Apostolorum
Non descrive completamente l'uno e l'altro rito. È il primo documento ad ambientare il rito eucaristico: cfr. cap.
12,57,2-5.24
“Nei vostri luoghi di riunione, la santa chiesa, radunate il popolo con grande cura, preparando
attentamente i posti ai fratelli con ogni purezza. Riservate un posto ai presbiteri sul lato orientale
della casa. Che il trono del Vescovo sia in mezzo a loro. I presbiteri si seggano con lui.
Sul restante lato orientale si sederanno i secolari. È richiesto che sul lato orientale della casa siedano
i presbiteri col vescovo, i secolari ed infine le donne, perché quando vi alzerete per pregare i capi si
alzeranno a capo dell'assemblea, poi i secolari, poi le donne.
Dovete pregare rivolti ad oriente, ricordate quello che è scritto: "Suonate a Dio che è asceso ai cieli
dei cieli verso oriente”” ( Il Signore sarebbe dovuto tornare dall'oriente).
E
SN
O
Se co la r i
D o n n e
Nella preghiera il presidente prega verso oriente e tutti nella stessa direzione. Il presidente è a capo della
comunità. Doppia è la direzione: della preghiera e dell'omelia. I fedeli non cambiano la direzione, è l'episcopos e i
presbiteri a farlo.
Pela Didascalia il ruolo di presidente è dell'episcopos. I presbiteri sono aggiunti in modo subordinato,
cooperano con lui nella preghiera.
Abbiamo un il problema della traduzione: non abbiamo il testo greco. Nella traduzione siriaca per designare il
presbiteor il termine è qashishò, qohen designa il sacerdos dell'AT. Nella traduzione francese qashishò è tradotto con
23 Cfr. V. SAXER, Figura Corporis et Sanuini Domini, Arheologia Cristiana 47 (1971), 65-89. 24 Cfr. il prof. segue la traduzione francese di NAU pp. 112-113
Il culto cristiano nei primi due secoli. 39
vecchi, non sono gli anziani, ma i presbiteri, si vede che i presbiteri condividono col vescovo la presidenza, anche se il
vescovo ha un posto preminente: è meglio conservare il tema translitterato in greco.
Durante la riunione eucaristica sono presenti anche dei diaconi, che hanno un ruolo subordinato, perchè al
servizio del vescovo e della comunità. Presentano le offerte ricevute dai fedeli, mentre tocca all'episcopos la loro
consacrazione. I diaconi sorvegliano la comunità, assegnando ai ritardatari i posti, e curando la separazione dei sessi.
Dove siano i bambini non è detto. È ovvio che i lattanti stiano con le madri, i ragazzi staranno con gli uomini.
In questo contesto generico, due osservazioni precise:
1. Se c'è un vescovo di passaggio, il vescovo della città lascerà la presidenza. Se non accetta lo
pregherà di pronunciare almeno la formula di consacrazione, "se non vuole offrire, parlerà sulla
coppa". Questo scambio di cortesie era usuale. Lo vediamo per Policarpo, quando a Roma visita
Aniceto, questi gli lascerà la presidenza dell'eucarestia. Le difficoltà riguardavano la celebrazione
della data di Pasqua.
2. "Anche nei cimiteri leggete i santi libri e senza rumore fate il vostro servizio e la vostra preghiera,
offrite la vostra eucarestia .....
Nelle vostre assemblee e nei cimiteri, all'uscita di coloro che muoiono, offrite il pane immacolato
cotto nel fuoco, pregate ed offrite l'eucarestia per coloro che sono morti" Viene raccomandata
l'eucarestia per i defunti, un 'eucarestia completa, perché l'offerta del pane e del vino.
Si parla di où`moi,wma come già abbiamo trovato nella Traditio Apostolica. Il pane è detto immacolato
(a;kratoj), consacrato dall'invocazione. Questa terminologia si trova solo a partire dal IV sec. nella Costitutio
Apostolica, nelle Catechesi Mistagogiche di Cirillo, ed altri testi della fine del IV e degli inizi del V sec. Può darsi che
su questo punto la Didascalia sia stata rimaneggiata nel IV secolo. Il pane consacrato dall'invocazione fa riferimento alla
preghiera consacratoria.
Exodus, indica la morte come uscita dalla vita terrena. Cipriano parla di decessus, parla di dipartita, partenza: è
terminologia frequente in questo tempo.
La testimonianza della Didascalia è doppia: la mostra nel suo ambiente con la preoccupazione di rispettare un
ordine gerarchico. Può darsi che l'ordine gerarchico corrisponda ad un certo ordine socisle. Nella società antica le classi
erano distinte. Troviamo altre attestazioni nelle scritture canoniche. In 1 Cor Paolo sembra alludere: i ricchi portano
doni e i poveri, ma i ricchi li mangiano tra di loro e così i poveri. In Gc si dice che se nelle assemblee entra un
personaggio ricco lo conducete al primo posto e che ognuno deve prendere posto mano a mano che arriva.
______Note Personali di Studio______________________________________________________________________
Il culto cristiano nei primi due secoli. 40
[PC 513.9]
18.12.98.
Circa i riti dell'eucaristia, nei primi tre secoli, in sintesi si può dire che quelli attestati sono i seguenti a
secondo degli autori:
1) la confessione dei peccati;
2) le letture degli scritti apostolici, i Vangeli, gli scritti profetici dell'AT e del NT;
3) Commentario delle letture: è lo scopo dell'omelia;
4) la preghiera dei fedeli che conclude la prima parte della liturgia..
Ad una parte della preghiera vi assistono anche i catecumeni che a un certo momento sono congedati, rimanendo
all'assemblea solo i fedeli, cioè i battezzati per la conclusione di questa preghiera.
Il problema è di sapere se nella preghiera era incluso anche il Padre Nostro: si può solo fare una ipotesi nel senso che
una liturgia riservata ai fedeli comportava anche il bacio della pace, cioè il "bacio santo" come dice l'Apostolo Paolo in
una sua epistola. Successivamente inizia l'atto eucaristico propriamente detto, con la preparazione e l'offerta dei doni,
fatta da tutti i fedeli, che vengono poi successivamente presentati al presidente dell'assemblea dai diaconi. Su questi doni
il presidente recita la preghiera eucaristica, cioè il rendimento di grazie propriamente detto. Alla fine c'è la comunione di
tutti i presenti alle offerte consacrate; le quali sono anche portate anche agli assenti. Ci troviamo ancora in un'epoca in
cui i fedeli conservano le specie eucaristiche nella propria casa, sia per il proprio uso (la comunione quotidiana), sia per
farvi partecipare gli ammalati, i bambini ed altre persone impedite alla partecipazione della celebrazione eucaristica. Poi
la cerimonia si conclude con la distribuzione dei doni ai poveri che sono avanzati, nell'ambito dell'eucaristia celebrata.
Dunque, grosso modo si può dire che si tratta dell'ordinamento della messa nei primi tre secoli, anche se ci sono
delle variazioni in funzione del luogo.
Le preghiere eucaristiche ed i formulari.
Il NT ha conservato alcuni formulari delle preghiere liturgiche antiche, mentre altri formulari risalgono all'epoca
patristica. Questi testi possono essere raggruppati secondo i seguenti titoli:
1) la preghiera del NT;
2) le preghiere patristiche di ispirazione liturgica;
3) le preghiere eucaristiche arcaiche;
4) le preghiere tradizionali, che sostituiranno le forme arcaiche.
Vediamole, adesso, singolarmente:
La preghiera del NT.
Come si può notare, ogni preghiera sviluppa una tematica particolare che ci è necessaria per poter vedere in quale
misura nel NT sono conservate le preghiere di stampo eucaristico. Un primo fatto negativo che dobbiamo raccogliere è
che nel NT non abbiamo conservato il testo della preghiera che il Signore pronunciò sul pane e sul vino nell'ultima
Cena, né le preghiere relative ai due episodi della moltiplicazione dei pani. Forse non ci sono pervenute per motivi non
conosciuti o probabilmente perché nessuno ne aveva conservato il ricordo. Quest'ultima rimane la questione più ovvia,
perché, infatti, quando gli evangelisti parlano della moltiplicazione dei pani o dell'ultima Cena si limitano a dire che il
Signore "benedisse" (cfr. la preghiera di benedizione), senza riferirne il contenuto.
La più antica di tutte queste preghiere conservate è della Didaché, che si conclude con la dossologia finale, di cui
troviamo alcuni esempi nel NT. Soprattutto li abbiamo in Paolo e nelle preghiere eucaristiche antiche. Ma quali sono le
preghiere neotestamentarie conservate?
In primo luogo abbiamo i tre Cantici, quali Lc 1,46-55, Lc 1,68-69, Lc 2,29-32. Si tratta rispettivamente del
Benedictus di Zaccaria, del Magnificat e del... Sono in realtà delle preghiere eucaristiche nel senso che esprimono un
rendimento di grazie, per tutti i prodigi e le azioni del Signore nella storia dell'uomo, in modo particolare nella storia del
Il culto cristiano nei primi due secoli. 41
popolo eletto. Queste preghiere sono nate con il Vangelo di Luca nella comunità in cui il Vangelo medesimo fu
composto. La loro sostanza risale alla persona alla quale sono attribuite, ma si può notare che queste preghiere sono
intessute di formule bibliche tradizionali, soprattutto quelle veterotestamentarie che è molto simile a quella del NT, cioè
il Cantico di Anna, quando fu concepito il figlio Samuele. Queste preghiere bibliche cantano la benevolenza di Dio, la
salvezza universale che non è riservata agli Ebrei, ma è estesa a tutti gli uomini. Questa universalità della salvezza risale
al periodo della predicazione profetica, proprio perché alcuni profeti hanno intravisto nella storia dell'uomo questa
salvezza.
Ora il carattere peculiare di questi cantici sta nel fatto che questa salvezza è in corso di realizzazione. I profeti la
vedevano promessa nel futuro, mentre nel NT è in atto. Anche dalle epistole di Paolo si possono estrarre degli inni sia
a Dio, sia a Cristo, sia al battezzato e sulla sua unione con Cristo [Inni indirizzati a Dio: Ef 1,3-14; Inni indirizzati a
Cristo: Fil 2,6-1, Col 1,15-20, 1Tim 3,16, 1Tim 6,15-16; Fil 2,6-15; Col 1,15-20; 1 Tim 3,16). Altri inni riguardano
l'uomo salvato, cioè il battezzato (Ef 5,14), nonché l'unione del cristiano con Cristo (2Tim 2,11-13).. Il Canto del
famoso inno alla carità (1Cor 13,1-13) è un caso particolare perché non è un inno liturgico, ma di una categoria di inno
lirico di Paolo (di stampo poetico), che non riveste la forma liturgica.
Ci sono poi inni nell'Apocalisse di Giovanni, di cui alcuni sono di natura liturgica: sono anche essi lirici per
incoraggiare i cristiani nella perseveranza durante le persecuzioni, (Ap 4,8; 5,9-10; 11,15-17.18; 12,10-12; 15,3-4;
19,5-6.7-8; 22,20-21). In questo elenco ci sono alcuni inni particolarmente significativi come il Canto di Mosè, e
dell'Agnello (Ap 15), che riprendono il contesto dell'Esodo (si tratta del canto di Maria, sorella di Mosè) per celebrare la
vittoria dell'agnello sul peccato e sulla morte; invece il capitolo finale, di Ap 22 parla della piena realizzazione della
Città di Dio sulla terra. Di questo inno dell'Apocalisse abbiamo delle tracce in altri scritti, in modo particolare nella
1Cor 16,22 e nella Didachè, cap. 10,6.
A livello bibliografico possiamo ricordare P. Hamann che ha fatto una raccolta di preghiere di questo tipo. Egli, ha
tra l'altro scritto un libro sulla preghiera dei primi cristiani, raccogliendo i testi più belli di questa categoria letteraria. Ci
sono anche preghiere non bibliche dei primi tempi cristiani.
Le preghiere patristiche.
La più antica è la lettera di Clemente Romano ai Corinti, una lettera che i critici sono concordi a datare tra il 95 ed il
96 d.C. Clemente è considerato il secondo o il terzo successore di Pietro a Roma. Questa lettera ai Corinti è uno dei testi
più importanti: sono particolarmente significativi i cc. 59-61. Proprio nel libro di Hamann si trova la migliore
presentazione perché viene evidenziata la struttura strofica della lettera, come in un inno. La funzione della preghiera è
paragonata ad una preghiera universale dei fedeli: questa preghiera universale è nutrita dal pensiero biblico, come ad es.,
"Tu abbassi l'arroganza dei superbi, tu svii i calcoli dele nazioni, tu elevi gli umili e butti a terra i potenti" (c. 59,3).
Passi di questo tipo rievocano dei temi biblici, in modo particolare ritroviamo gli echi dei Salmi e del Cantico di Anna.
Anche il Magnificat della vergine rievoca questi temi. La poreghiera di Clemente inizia con la lode del creatore (c.
59,2-3) ed enumera le intenzioni di preghiera della Chiesa (c.59,4: da ciò si ha la ragione secondo cui si può parlare di
preghiera universale ), come la concordia, la fedeltà alla parola di Dio, l'umiltà e la perseveranza. Inoltre, esalta anche
l'azione continua della Provvidenza nella storia dell'uomo (c. 60,1). A questo proposito si può parlare di una preghiera
anche di natura tipologica perché l'autore vede realizzata nella storia presente della sua Chiesa le promesse di Dio nel
passato ed un'attualizzazione del piano di salvezza annunziatodai profeti e realizzato da Cristo. E' abbastanza
interessante vedere che essa contiene anche un'intenzione per i poteri civili dello Stato (c. 60,4 e c. 61,2). Una
caratteristica di questa preghiera è l'aspetto esortativo (le cosiddette raccomandazioni degli Apostoli ai cristiani come ad
esempio: "Obbedite ai rappresentanti dello Stato", "Pregate per loro"). Nello stesso tempo i cristiani vengono messi in
guardia dall'essere pagani e dal prestare culto sia agli dei che all'imperatore. Il cristiano si deve limitare soltanto a
pregare per l'imperatore ed altri funzionari dell'Impero. La preghiera di Clemente si conclude con una dossologia nela
quale viene implorata la mediazione di Cristo: per Cristo la preghiera deve essere portata a Dio Padre. Così si può
vedere che la formula "Per Gesù Cristo" appartiene sin dall'inizio alla tradizione e al formulario di ogni preghiera
cristiana, che diverrà obbligatoria nel IV secolo, secondo anche la testimonianza di Sant'Agostino..
La preghiera di Policarpo.
Abbiamo anche il testo di Policarpo che morì martire il 23 febbraio 167 (gli studiosi non sono concordi sulla data
della morte di Policarpo: infatti alcuni la fissano intorno al 155, altri verso il 177 ed altri ancora intorno al 167;
quest'ultima ipotesi è forse la più probabile). I cristiani di Smirne, in Asia Minore, fecero il racconto del martirio del
loro vescovo, circa un anno dopo la morte: tale racconto fu chiesto da altre comunità, come quella di Filomeno, che si
trovava nella Frigia (di questa comunità si hanno poche notizie ed è la prima volta che la vediamo menzionata in un
testo antico). Nel racconto è inclusa la preghiera di Policarpo al momento di salire sul rogo (Schr 10, pp.232-238). Tale
preghiera contiene numerosissime allusioni di carattere liturgico (c. 14 e Schr 10, pp. 232-238). Anche questa preghiera
è intessuta da reminiscenze bibliche che probabilmente sono venute spontaneamente sotto la penna dell'agiografo, ma
potrebbero essere state realmente pronunciate dal martire Policarpo, perché preghiere di questo tipo sono comuni
nell'epoca.
Il culto cristiano nei primi due secoli. 42
Questa preghiera è indirizzata al "Signore Dio Onnipotente": è un'acclamazione tipica del carattere liturgico del
tempo che la troviamo già nelle preghiere giudaiche.
Un'altra invocazione è, invece tipicamente cristiana quando viene invocato il Padre "Tou paidos sou" (c'è un
significato antipologico dove troviamo il riferimento al figlio e al servo). Nella traduzione greca del Deutero Isaia, la
traduzione greca del "Pais Teou" indica il servo di Jahvè. Questo appare il termine che indica il significato di tale
espressione nel contesto della civiltà antica. Questo termine è stato ripensato dai cristiani quando lo applicarono a Gesù,
sicché Gesù Figlio di Dio "Pais Teou" è anche il servitore più eccellente di Jahvè. San Policarpo all'inizio della sua
preghiera usa l'espressione "o tou agapetou kai euloghetou paidos sou Iesou Cristou pater". Questo fatto dimostra che
ci troviamo dinanzi ad una tradizione veterotestamentaria, ma reinterpretata dai cristiani poché il termine "Pais" è
precisato con gli aggettivi "agapetou kai euloghetou": ora già nell'ultimo libro veterotestamentario, cioè quello della
Sapienza 2,10, la parola "Pais" significava figlio, che appare come la reinterpretazione del termine di Isaia, da parte
degli Ebrei della diaspora, in modo particolare quelli di Alessandria. In questo testo la saggezza è figlia di Dio. Dunque,
nell'uso cristiano, "Pais Teou" designa Gesù Cristo come figlio di Dio, anche se dobbiamo sottintendere il servitore di
Dio, quando i testi neotestamentari citano i passi di Isaia, dove l'espressione "servitore" è applicata a Gesù per
sottolineare la continuità del disegno di Dio nella rivelazione progressiva della sua benevolenza verso gli uomini. C'è
qui un carattere liturgico, anche se il termine usato è incluso in una preghiera tipicamente biblica, poiché alla fine la
parte conclusiva contiene questa tripla benedizione: "Ti lodo", "Ti benedico", "Ti glorifico". Queste ripetizioni sono
specificamente liturgiche che troveremo molte volte all'inizio dell'anafora nelle Chiese primitive. Dunque, questa
gradazione è frequente nella tradizione liturgica, come ad esempio nelle Costituzioni apostoliche 7,47 (esse risalgono
alla fine del IV secolo, intorno al 380-390). La dossologia finale della preghiera esprime di nuovo la mediazione di
Cristo, che è indispensabile ad ogni preghiera cristiana perché possa essere esaudita da Dio. Perciò Policarpo loda,
benedice e glorifica Dio mediante il Figlio, grazie al quale ogni gloria sia resa a Dio, con Lui e lo Spirito Santo adesso e
nei secoli venturi. Questa dossologia è conclusa con l'acclamazione del popolo che conclude con l'amen finale. Senza
dubbio si tratta di una formula trinitaria.
In questo caso abbiamo la preghiera eucaristica nella sua forma tradizionale: essa è indirizzata a Dio per mezzo di
Gesù Cristo e lo Spirito Santo. C'è da dire però che la tradizione manoscritta di questo testo appare manomessa ed
appare, come sembra, il risultato di una rielaborazione successiva del testo medesimo, tanto da farla risalire alla stessa
epoca di composizione delle Appendici che furono fatte al martirio, intorno al IV e V secolo. Però, tutto sommato è
notevole che la tradizione eucologica primitiva abbia fissato presto le sue regole di formulazione: sono delle regole
universali che vengono usate ancora oggi.
Questo discorso, oltre alla lettera di Clemente e alla preghiera di Policarpo, lo possiamo anche estendere ad altre
preghiere antiche, in modo particolare alle Odi di Salomone, che sono delle produzioni poetiche in un'epoca un pò
difficile da determinare nel I e II secolo d.C. Anche se vengono attribuite a Salomone, in realtà sono delle preghiere
giudeo-cristiane. Avremmo potuto fare anche una scelta negli atti apocrifi degli Apostoli del II e III secolo, dei quali
possiamo avere delle informazioni nel libro di Padre Hamann, alle pp. 65-77.
La Didaché.
Si tratta di una preghiera propriamente eucaristica, anche se, insieme ad altre preghiere dello stesso genere, è stata
oggetto di discussione sul suo carattere eucaristico, a causa di criteri che richiamano alle preghiere classiche del IV e V
secolo, mentre le preghiere più arcaiche non sono ancora arrivate a questa maturità di espressione e di composizione.
Tra queste, appunto, possiamo ricordare la Didachè (o Dottrina dei Dodici Apostoli), nei capitoli 9 e 10: si ritiene che
questa preghiera sia pienamente eucaristica, anche se l'editore delle Schr non la vede come tale, ma la inserisce nel
contesto delle agapè, cioè i pranzi di carità.
Il capitolo 9,2-4 così si esprime:
"Quanto all'eucaristia rendete grazie così: prima sul calice rendiamo grazie o nostro Padre per la
santa vigna di Davide tuo servitore. Tu ce lo hai fatto conoscere per Gesù Cristo tuo servitore. Gloria a Te
nei secoli.
Dopo sul pane rotto ti rendiamo grazie o nostro Padre per la vita e la Scienza che ci hai fatto
conoscere per Gesù Cristo tuo servitore. Gloria a Te nei secoli. Come questo pane rotto, altre volte
disseminato sulle montagne, è stato raccolto per diventare un solo (pane), così che la tua Chiesa sia
raccolta dalle estremità della terra nel tuo Regno, perché a Te è la gloria e la potenza per Gesù Cristo nei
secoli".
Il capitolo 10,1-6 della Didachè dice:
"Dopo esservi saziati dalla fine del pranzo rendete grazie così: Ti rendiamo grazie o Padre Santo per
il tuo santo nome che tu hai fatto abitare e nei nostri cuori, per la conoscenza, la fede e l'immortalità che
ci hai rivelate per Gesù tuo servitore. A Te la Gloria nei secoli. Sei tu, Signore onnipotente, il creatore
Il culto cristiano nei primi due secoli. 43
dell'universo. Hai dato agli uomini, per il loro godimento, l'alimento e il (?) perché ti rendano grazie, ma
tu ci hai dato anche un nutrimento e un voto(?) spirituale e la vita eterna per mezzo del tuo Servo.
Innanzitutto noi rendiamo grazie perché sei potente. Gloria a Te nei secoli. Ricordati Signore di liberare
la tua Chiesa da ogni male e di renderla perfetta nell'amore. Raccoglila dalle estremità dei quattro venti,
santificata nel tuo regno, che hai preparato per lei, perché a Te è la potenza e la gloria nei secoli. Venga
la grazia, passi questo mondo. Osanna al Dio di Davide. Se qualcuno è santo che venga. Se qualcuno non
lo è che faccia penitenza. Maranathà. Amen".
Dunque, in primo luogo, questo testo richiama all'eucaristia della messa battesimale: il problema è dunque di sapere
se questa eucaristia è ancora legata o meno ad un pranzo o ad una cena, come la cena del Signore. Se è ancora ad una
cena, questa eucarastia segue l'ordine delle benedizioni, come le troviamo in Luca, cioè la benedizione di una prima
coppa, la frazione del pane e la sua distribuzione ai presenti, accompagnata dalla benedizione del pane, ed infine la
benedizione dell'ultima coppa (seconda), alla fine della cena o del pranzo. In questo caso si tratta ancora di una
eucaristia non ancora codificata e non ancora separata dal contesto primitivo del pranzo o della cena. Questo schema si
applicherebbe solo alla preghiera del capitolo nove della Didachè, dove manca, però, la benedizione della seconda
coppa. Dunque, tutto sommato, non è sicuro che questa preghiera della Didachè sia legata ancora ad un pranzo. L'ipotesi
è di avere davanti una prece nell'ambito dell'Eucaristia che è già distaccata dal pranzo. Si tratta comunque di una
eucaristia in cui ci sono due parti della preghiera: la prima si trova nel cap. 9 e la seconda si trova nel cap. 10. Questi
due capitoli potrebbero costituire due momenti diversi nell'ambito dell'Eucaristia, cioè prima e dopo la comunione. La
prima preghiera è fatta sul vino e dopo sul pane che potrebbe ancora riflettere l'uso vicino alla cena primitiva, rispetto
all'uso tradizionale dove avviene dapprima la benedizione del pane e poi quella del vino. In secondo luogo si può notare
un'altra differenza molto importante che sta nel fatto che questa prima eucaristia non fa menzione all'istituzione
eucaristica. Gli elementi benedetti indicano questa preghiera come un semplice rendimento di grazie per le offerte del
pane e del vino. Proprio questo fatto ha spinto alcuni studiosi a dire che questi capitoli 9 e 10 della Didachè non sono da
considerarsi preghiera eucaristica in senso specifico, perché manca anche una formula consacratoria. In questo senso,
possiamo notare che la preghiera ha conservato l'ordine primitivo delle benedizioni. Però, in senso inverso, ci sono due
considerazioni da fare perché c'è una differenza sostanziale tra l'antica Berakà e questa preghiera eucaristica:
1) la menzione di Gesù "che ci ha fatto conoscere la santa vite di Davide", grazie alla vita e alla scienza di Gesù
Cristo. C'è dunque un primo elemento cristico di Gesù. C'è anche un secondo elemento che è la Chiesa, perché questa
eucaristia contiene anche una preghiera da "raccogliere dalle estremità della terra nel regno". Solo dopo aver
sottolineato questi due elementi, tipicamente cristiani si distribuisce agli assistenti il vino ed il pane. Questa comunione è
il segno ed il mezzo dell'unità ecclesiale. Grazie alla comunione viene manifestata e realizzata l'unione dei comunicanti.
Una tale preghiera trova il suo miglior posto in una eucaristia propriamente detta, perché da una parte commemora il
Cristo, mentre dall'altra costituisce la Chiesa. Un particolare di topografia palestinese, che possiamo certamente notare,
è quando troviamo l'espressione "disseminato tra le montagne...", che ci dice il luogo di origine della preghiera. Si tratta
del pane raccolto che deve diventare un solo pane. Queste montagne probabilmente si riferiscono a quelle della Siria o
della Palestina. Si tratta di una evocazione del paesaggio rurale nel quale viveva l'autore della Didachè. Si tratterebbe, in
modo più preciso, di un paesaggio della Siria Occidentale, vicino ad Antiochia, ma non nella città, ma fuori dalla città.
2) La preghiera di questo secondo capitolo non è eucaristica nello stesso senso di quella del cap. nove: non è un
ringraziamento, un'eucaristia che più tardi diventerà consacratoria. E', invece, una preghiera di comunione, la cui
funzione è quella di ringraziare Dio per questa comunione. Effettivamente la preghiera è introdotta dopo le parole
"Dopo esservi saziati", il che vuol dire che questa prece è pronunziata alla fine del pranzo. E' una preghiera che avviene
dopo la comunione, anche se nello stesso contesto si trova un altro passo che sembra smentire questa prima
dichiarazione. Infatti, c'è l'avvertimento indirizzato ai fedeli: "Se qualcuno è santo che venga, se non lo è che faccia
penitenza". Si tratterebbe allora di un preciso avvertimento che avviene prima della comunione. Una formula simile di
avvertimento la troviamo nelle liturgie del IV secolo, sempre prima della comunione, sotto la forma "ai Santi le cose
sante". Tale avvertimento lo troviamo appunto nel cap. 9, v. 5 della Didachè, quando si dice che la comunione è
riservata ai battezzati.
Concludendo questa preghiera della Didaché, come si è già accennato sin dall'inizio, potrebbe essere il risultato di
una compilazione di elementi di provenienza diversa che il redattore o il compilatore non ha posto secondo un ordine
logico. Questa mancanza di logica rimane l'unico indizio di tradizioni diverse che sono confluite nel decimo capitolo 10,
dove si trova, tra l'altro, l'acclamazione finale, "Maranathà" che significa "Il Signore viene" o sotto la formula optativa
"che il Signore venga". Si tratta delle medesima formula che ritroviamo nell'Apocalisse, come un'allusione alla Parusia
finale (Ap 22,20), ma soprattutto la troviamo già nella 1Cor 11,26 che si conclude con la formula "Fate questo in
memoria di me finché venga". Dunque, l'eucaristia è legata non solo come ricordo al passato, ma soprattutto come attesa
della parusia al futuro. Anche questa connotazione è propria all'eucarestia classica che ritroveremo più tardi. Abbiamo,
dunque, un testo molto singolare nella sua formulazione, che ci fa pensare ad una situazione molto primitiva della
preghiera eucaristica, che non ha trovato ancora le sue regole definitive. Siamo alla fine del I ed inizio del II secolo, il
Il culto cristiano nei primi due secoli. 44
che vuol dire che l'evoluzione liturgica si è realizzata molto lentamente. Questo vuol dire che ogni Chiesa segue una
propria evoluzione, secondo un suo specifico progresso nell'ambito liturgico.
La preghiera di Addai e Mari
Nelle edizioni troviamo il titolo seguente: Anafora degli Apostoli, Addai a Mari. Questa preghiera contiene una
formulazione arcaica in certi passi e rimane ancora in uso da certe comunità cristiane orientali della Siria e dell'Iraq, i
cosiddetti nestoriani e Caldei, Malabari e Maroniti. Nelle comunità maronite la preghiera si trova nella terza anafora di
S. Pietro (cfr. Martimort, La Chiesa in preghiera, Vol. II). Questa preghiera, a causa del suo lungo uso ha subito delle
modificazioni continue nel corso dei tempi. Inoltre, è conservata soprattutto in manoscritti molto tardi del XVII e XVIII
secolo. Però, gli studiosi sono concordi nel vedere nel nucleo una liturgia molto tarda. La maggior parte dei critici
protendono per il III secolo, mentre alcuni protendono verso la fine del II secolo. Su questa preghiera non vi è al
momento nessuna edizione critica: di essa abbiamo un solo codice, un pò più antico dell'XI o del XIII secolo. Questo
codice può essere importante per rilevare l'evoluzione contenutistica di questa preghiera. Il testo deve essere cercato in
edizioni antiche del Renaudot, dal titolo Liturgiarum orientalium Collectio, Parigi 1713, Vol. II, pp. 592-642. Esistono
anche studi recenti del B. Botte, del D. Webb e del A. Verheul (quest'ultimo porta un'abbondante bibliografia).
Quest'ultimo ha ricostituito la preghiera nella forma più antica, secondo il modo seguente:
1) il primo paragrafo dice che "è degno di essere glorificato da tutte le labbra, confessato in tutte le lingue, adorato
ed esaltato da tutte le creature, il nome adorabile e glorioso, il quale ha creato il mondo per la sua grazia ed i suoi
abitanti con la sua clemenza, ha salvato gli uomini nella sua misericordia e ci ha fatto a noi mortali una grande
grazia". Si tratta di una formula tripartita (glorificato - confessato - adorato ed esaltato).
2) Il secondo paragrafo dice: "Ti rendiamo grazie Signore, noi, tuoi servitori fragili, deboli ed infermi, perché ci hai
dato una grande grazia che non può essere pagata o ripagata, perché tu ha rivestito la nostra umanità per vivificarci
con la tua divinità. Hai elevato la nostra bassezza e hai risollevato la nostra caduta, hai risuscitato la nostra mortalità,
perdonato le nostre colpe e rimessi i nostri peccati. Hai illuminato la nostra intelligenza ed hai vinto il nemico, Signore
Dio. E tu hai fatto trionfare la nostra debole natura per le misericordie abbondanti della tua grazia. Per tutti i tuoi
soccorsi e le tue grazie, riguardo a noi, noi ti rendiamo lode, onore, confessione e adorazione, adesso e sempre nei
secoli dei secoli. Amen. Noi Signore, tuoi servitori fragili, deboli, infermi, siamo riuniti e stiamo davanti a te in questo
momento. Abbiamo ricevuto per tradizione il mistero che viene da Te. Ci rallegriamo, ti glorifichiamo, ti esaltiamo e
commemoriamo e celebriamo questo mistero grande" (si può notare una formulazione che ci richiama al mistero
tremendo della passione, morte e risurrezione di Gesù Cristo).
3) A questa seconda parte che si dimostra propriamente eucaristica, segue un terzo paragrafo che contiene una
epiclesi: "Venga Signore il tuo Spirito Santo che riposi in questa oblazione dei tuoi servitori che la benedica e l
santifichi, affinché sia in vista del perdono e della remissione dei peccati, per la grande speranza della risurrezione dai
morti e per la vita nuova nel regno dei cieli, con tutti quelli che sono stati graditi ai tuoi occhi".
4) Il paragrafo 4 si esprime così: "E per tutto questo grande e ammirabile disegno nei nostri riguardi noi ti lodiamo
e ti glorifichiamo senza fine nella tua Chiesa riscattata dal sangue prezioso del tuo Cristo. A voce alta e a viso
scoperto, noi indirizziamo lode onore, confessione, adorazione, al tuo nome vivo e vivificante adesso e sempre e nei
secoli dei secoli" (la versione un pò più ampia si trova in Martimort nel libro: La Chiesa in preghiera).
Riprendendo dalla lezione precedente, abbiamo già visto le preghiere di ispirazione eucaristica, come quelle di
Clemente Romano e di Policarpo. Abbiamo anche visto alcune preghiere di carattere arcaico, che non contengono però il
racconto dell’istituzione eucaristica, né una epiclesi di consacrazione eucaristica. Tra queste ultime si possono ricordare
la preghiera della Didachè e di Addai e Mari.
Secondo la tradizione siriaca quest’ultima si richiama agli apostoli della Siria, considerati i primi dai Siriaci e dai
Caldei. Questa preghiera è ancora recitata oggi come prece eucaristica nelle liturgie orientali dei Nestoriani, dei Caldei
dei Malabari e dei Maroniti, che si trovano all’estremo Oriente.
Questo testo, nella sua lunga storia, ha subito delle modifiche e soprattutto degli ampliamenti: purtroppo è conservata,
ad eccezione di un solo codice, in codici del XVII e XVIII secolo. Esiste anche un codice del XII-XIII secolo. Questa
documentazione manoscritta è abbastanza ristretta per poter rintracciare la storia di questa preghiera, per cui rimane solo
la possibilità di una critica interna del testo. Comunque questa preghiera ha un carattere arcaico, sicché è stata datata tra il
II ed il III secolo. La problematica della data, però, rimane aperta perché rimangono in piedi svariate ipotesi relative alla
forma primitiva di questa preghiera. Di questa prece non vi è alcuna edizione scientifica, per cui è necessario fare delle
ricerche nelle edizioni liturgiche ancora in uso oggi. Uno degli studi più recenti è stato quello di Verheul, in “Questioni
liturgiche e pastorali”, Vol. IV 1980, pp. 19-27, dove si trova un’abbondante bibliografia. Questo autore propone la
ricostituzione seguente della forma più antica della preghiera:
“E’ degno di essere glorificato da tutte le bocche, confessato da tutte le lingue, adorato ed esaltato da
tutte le creature, il nome “adorando” (?) e glorioso, che ha creato il mondo per la sua grazia, gli abitanti
per la sua clemenza, e ha salvato gli uomini per la sua misericordia e ci ha fatto a noi mortali una grande
grazia.
Noi ti rendiamo grazie Signore, noi tuoi servitori deboli, fragili e infermi, perché tu ci hai dato una
grande grazia che non può essere pagata in cambio, perché tu hai rivestito la nostra umanità, per vivificarci
con la tua divinità. Tu hai elevato la nostra bassezza e ci hai rilevati dalla nostra caduta. Tu hai risuscitato
la nostra mortalità, hai perdonato le nostre colpe e hai rimesso i nostri peccati. Tu hai illuminato la nostra
intelligenza ed hai vinto il nostro nemico, Signore Dio, e tu hai fatto trionfare la piccolezza della nostra
debole natura per le misericordie abbondanti della tua grazia. E per tutti i tuoi aiuti e le tue grazie nei
nostri riguardi, noi ti rendiamo lode, onore, confessione e adorazione, adesso e sempre e nei secoli dei
secoli, amen.”.
La preghiera, poi, prosegue con queste parole:
“Noi, Signore, tuoi servitori, fragili, deboli e infermi, ci siamo riuniti e stiamo davanti a te in questo
momento. Abbiamo ricevuto per tradizione il mistero che viene da te. Ti glorifichiamo, ti esaltiamo e
commemoriamo e celebriamo questo grande mistero tremendo della passione, morte e risurrezione del
nostro Signore e salvatore Gesù Cristo”.
Ai nn. 3-4 prosegue dicendo:
“3. E venga, Signore, il tuo spirito santo che posi su questa oblazione dei tuoi servitori, che la benedica
e la santifichi perché sia in vista del perdono e della remissione dei peccati per la grande speranza della
risurrezione dai morti e della vita nuova nel regno dei cieli, con tutti quelli che sono stati graditi ai tuoi
occhi.
4. E per questo grande ed ammirabile piano che ci riguarda noi ti lodiamo e ti glorifichiamo senza fine
nella tua Chiesa riscattata dal sangue prezioso del tuo Cristo. A voce alta e a viso scoperto noi indirizziamo
lode, onore, confessione, adorazione al tuo nome vivente e vivificante, adesso e sempre nei secoli dei secoli,
amen”.
Il culto cristiano nei primi due secoli. 46
In merito si possono fare diverse osservazioni: in primo luogo, dal punto di vista della terminologia, a due riprese
viene adorato il nome di Colui che ha creato il mondo, che si trova nell’ultima parte. Questo modo di esprimersi è tipico
delle lingue semitiche, perché il nome designa la persona che nel nostro caso riguarda Dio creatore. Dunque, si tratta di
una perifrasi di rispetto per designare la persona di Dio. Anche gli Ebrei nell’AT non osano usare il nome proprio di Dio,
ma lo esprimono in un modo perifrastico, adoperando la parola “nome” riferendosi a Colui che ha fatto le cose.
In secondo luogo, se si osserva l’insieme di questa preghiera, si può notare che si tratta di una preghiera di
glorificazione: le parole ed i verbi di glorificazione sono piuttosto abbondanti, come ad esempio, “glorificato”,
“confessato”, “adorato” ed “esaltato”. Tra l’altro, alla fine troviamo l’espressione “Ti lodiamo”, “ti glorifichiamo”.
Dunque si tratta di una vera e propria lode che la possiamo inserire nel contesto delle preghiere eucaristiche più antiche,
nel senso che questo modo di esprimere la preghiera eucaristica è il più antico. Di fronte a Dio si presenta l’uomo, del
quale viene sottolineata la fragilità, la debolezza, l’infermità. L’adorazione rivolta a Dio è fatta dagli uomini nel loro stato
creaturale. Anche questa adorazione è espressa in modo sinonimo dei termini “lode”, “onore”, confessione”, adorazione”.
Anche il modo di descrivere l’opera redentrice, non lo è in termini giuridici, secondo i quali, ad esempio, ad ogni colpa
corrisponde una pena, ma in termini redentivi, cioè Dio ha rivestito la nostra umanità della sua forza per vivificarci25.
Però, dietro a questa soteriologia, che descrive l’opera di salvezza, c’è un’antropologia, cioè un certo concetto dell’uomo
che in tutte le sue componenti viene redento ed assunto verso Dio.
Poi, verso la fine troviamo un’epiclesi con l’espressione: “Venga il tuo Spirito Santo, riponi su questa oblazione, la
benedica e la santifichi”. Per tutto questo viene reso grazie a Dio.
Da tutti questi elementi c’è un evidente carattere semitico di questa preghiera, non solo a causa di alcuni vocaboli
tipicamente semitici, ma anche per la costruzione di frasi con ripetizioni, parallelismi e sinonimi accumulati, che sono
caratteristici, in modo particolare della preghiera giudaica.
In questa preghiera di Addai e Mari abbiamo un esempio della berrakà in veste cristiana. Rimane interessante notare
che il nome di Cristo non compare, ma si parla semplicemente del Signore. Si tratta, dunque, di una preghiera cristiana
perché è presente l’invocazione dello Spirito Santo. Soltanto in una occasione troviamo il termine “Cristo”, quando dice
“Signore e nostro salvatore Gesù Cristo”, immediatamente prima dell’epiclesi. Il riferimento, è senza dubbio alla
passione, morte e risurrezione del Signore.
Le articolazioni principali di questa preghiera sono:
1) la lode per la creazione;
2) la lode per la redenzione,
3) la preghiera per la venuta dello Spirito Santo sulle offerte;
4) ripresa della lode a modo di conclusione.
Se cerchiamo di collocare tale preghiera nel suo ambiente geografico e culturale, possiamo fare un confronto con la
Didachè, la quale proviene dalla Siria occidentale ed è lingua greca. Invece, la preghiera di Addai e Mari proviene dalla
Siria Orientale, di espressione semitica, dove le comunità ebraiche erano abbastanza numerose e vive. Qui è interessante
notare un fatto di natura archeologica, poiché nella regione, nella Siria orientale, è stata ritrovata la “Domus ecclesiae” di
Dura Europos. Anche se non si può dire che questa preghiera di Addai e Mari non provenga direttamente da questa città,
si può comunque affermare che provenga dalla medesima regione, confinante con la Persia, il cui limite è l’Eufrate, come
confine tra i due imperi romano e persiano. E’ anche per questo motivo che la preghiera si è diffusa in queste parti
orientali dell’impero persiano e più tardi tra i Sassanidi, sino all’India.
Questa ricostituzione sopra esposta rimane effettivamente un’ipotesi, perché si possono presentare altre tesi relative
alla arcaicità delle preghiere più antiche. Secondo il prof. Saxer questa ricostituzione tiene conto di un certo numero di
parametri storici e geografici con i quali si potrebbe riscontrare una certa somiglianza.
Un’altra preghiera conservata in un papiro26 e custodita nella Biblioteca nazionale e universitaria di Strasburgo. La
sua prima pubblicazione avvenne nel 192827, a cura di due specialisti, i professori Andrieu e Collomp. Questo papiro è
stato datato tra il IV ed il V secolo ed è considerato la forma più antica dell’anafora alessandrina di S. Marco.
Circa il contenuto di questa preghiera, dopo le formule iniziali di azione di grazia, viene sviluppato il tema della lode
di Dio per l’opera e la creazione che culmina con l’uomo creato ad immagine somiglianza di Dio. Questa opera è stata
compiuta dal Figlio di Dio, Cristo. Segue, poi, la menzione del sacrificio spirituale (Tusia loghike), in quanto l’eucaristia
viene considerata come il compimento della profezia di Malachia 1,11 (dove si parla di un sacrificio spirituale che viene
celebrato in tutta la terra sino agli estremi confini della terra).
Seguono poi le intercessioni per i vivi ed i defunti: espressamente viene menzionata la recitazione dei nomi, che
equivarrà più tardi alla recita dei dittici, cioè di quelle tavolette di cera sulle quali venivano scritti i nomi dei morti dei
25 “Tu hai rivestito la nostra umanità per vivificarci dalla tua divinità. Hai elevato la nostra bassezza e
rilevato la nostra caduta, hai risuscitato la nostra mortalità, hai perdonato le colpe hai rimesso i peccati. Hai
illuminato la nostra intelligenza”. 26 Si tratta del papiro greco n. 254. 27 Cfr. Frammento papiro dell’anafora di S. Marco, in Rivista …, vol. VIII 2, 228, pp. 489-515.
Il culto cristiano nei primi due secoli. 47
quali si faceva menzione. La formula conclusiva è conservata. Si tratta di una dossologia cristologica, non trinitaria, ma
molto vicina a quella relativa all’epistola ai Corinti di Clemente romano.
Di questa preghiera si può notare una struttura ternaria che sviluppa tre parti:
a) la lode;
b) l’azione di grazia;
c) l’intercessione con la dossologia finale.
In questa prece sono da notarsi delle assenze importanti: non ci sono, infatti, il Sanctus, il racconto dell’istituzione
eucaristica e l’epiclesi. Se consideriamo il modo in cui si presenta questo papiro si può più o meno valutare quale poteva
essere la sua estensione primitiva. Allora si potrebbe pensare che all’inizio mancavano forse il dialogo preparatorio già
attestato nelle preghiere eucaristiche della Traditio apostolica, all’inizio del III secolo. Il papiro, all’inizio e alla fine è
guasto ed è sano solo nella parte centrale corrispondente a tutto il corpus della preghiera: la sostanza della preghiera
sembra essere conservata. Da diverse considerazioni importanti di alcuni studiosi, si arriva, però, a dire che non ci si
trova dinanzi ad una forma primitiva dell’anafora di S. Marco, perché tale preghiera è da considerarsi di intercessione, il
che vuol dire che può essere attestata soltanto alla fine del IV e all’inizio del V secolo. In essa non si trova, come si è
detto prima, né il racconto dell’istituzione dell’eucaristia, né l’epiclesi: per questa parte, certamente, la preghiera sembra
essere più antica, ma per la presenza delle preghiere di intercessione, sembra essere più recente. La redazione, come è
conservata nel papiro, risale al V secolo, anche se certi elementi presenti provengono da una forma più arcaica di
preghiera. Un’altra considerazione da farsi è che questa prece è prossima alle “berakot” ebraiche, in modo particolare con
le preghiere di Addai e Mari e della Didachè: in questo senso possiamo scorgere una maggiore arcaicità della preghiera
eucaristica.
Un’altra preghiera eucaristica arcaica è conservata negli Atti apocrifi degli Apostoli.
Di tutte queste preghiere eucaristiche una significativa ed importante raccolta è stata fatta da Vogel nel 1980 e
pubblicata nella rivista “Augustinianum”, Vol. XX, pp. 401-410. Tali preghiere sono state estratte dagli Atti apocrifi di
Giovanni (120-150) e dagli Atti apocrifi di Tommaso (200-250): esse venivano recitate sia sul pane solo, sia sul pane e
sull’acqua e sia sul pane, sul vino e sull’acqua. Già la materia dell’eucaristia si diversifica dalla forma tradizionale,
perché accanto all’eucaristia vera e propria (pane e vino) si trovano altre eucaristie di diversa fattura (solo pane, oppure
pane e acqua). Di queste usanze eucaristiche, Harnack aveva fatto uno studio all’inizio del nostro secolo dal titolo Pane e
acqua. D’altra parte vi erano dei cristiani che gli eresiologi avevano chiamato gli “acquarii”, i quali celebravano
l’eucaristia con il pane e con l’acqua, escludendo del tutto il vino. Questo uso, abbastanza diffuso in quel tempo, è
confermato dallo stesso Cipriano che nell’Epistola 63 conferma la presenza di questi “acquarii”. Ciò costituisce un fatto
preciso che riguarda in primo luogo la materia eucaristica, però vi è un secondo fatto che riguarda la preghiera di
consacrazione di questi elementi sopra accennati (il pane e l’acqua), che sono di diverso tipo. Alcuni di questi sono da
considerarsi totalmente aberranti ed estranei alla tradizione classica dell’Eucaristia, mentre altri tipi sono più vicini alla
medesima.
Tra questi possiamo prendere in considerazione la preghiera che l’apostolo Giovanni avrebbe pronunciato sulla tomba
di una certa Domiziana (?), una donna che sarebbe stata risuscitata per essere battezzata. Per la sua formulazione la
preghiera è una prece di ringraziamento indirizzata a Cristo salvatore, senza alcuna allusione al pane e al vino. Dunque,
potrebbe trattarsi di un ringraziamento non eucaristico, però le formule sono eucaristiche, come appare dal testo qui sotto
riportato:
“Glorifichiamo il tuo nome che ci ha convertiti dall’errore e dalla crudele menzogna. Noi ti
glorifichiamo, tu che ci hai fatto vedere con i nostri occhi quello che abbiamo visto28. Noi ti rendiamo
testimonianza per la bontà che tu ci manifesti in diverse maniere. Noi lodiamo il tuo nome potente, Signore,
tu che giudichi quelli che hai già rimproverati. Noi ti rendiamo grazie perché siamo convinti della tua
immutabilità. Ti rendiamo grazie perché assumendo la nostra natura tu hai voluto che sia salvata. Noi ti
rendiamo grazie perché ci hai dato una fede imperturbabile. A te, che sei adesso e sempre, i tuoi servitori
rendono grazie a giusto titolo perché sono stati radunati ed eletti da te”.
Questo ringraziamento è fatto per la salvezza accordata da Cristo, mentre non vi è alcun riferimento all’eucaristia,
anche se questa preghiera viene fatta sul pane e sull’acqua. Quindi, tematicamente la prece potrebbe essere un
ringraziamento qualsiasi, perché il solo legame con l’eucaristia rimane proprio questo pronunciamento sul pane e
sull’acqua.
Riepilogando un po’ tutto il discorso relativo alle diverse preghiere eucaristiche, bisogna, ora, concludere che non
esiste ancora una regola fissa e definitiva, il che vuol dire che l’Eucaristia primitiva comportava un elemento fisso, cioè il
ringraziamento per la creazione e per la redenzione o salvezza. Ma il legame tra questa tematica soteriologica e questa
eucaristia del Signore non è accennato. Ciò non vuol dire che non ci possa essere l’epiclesi: un esempio concreto lo
abbiamo con la preghiera di Addai e Mari, dove si trova un’epiclesi di consacrazione eucaristica. Se rivediamo questa
preghiera nel contesto di queste preci, sopra citate, non si esclude che questa epiclesi sia frutto di un’aggiunta posteriore.
28 Questa parte della preghiera riecheggia la forma della 1Gv.
Il culto cristiano nei primi due secoli. 48
Ma ci troviamo soltanto nel campo delle ipotesi, per cui c’è semplicemente il fatto dell’esistenza di questa linea al di
fuori della tradizione comune. A questo proposito le preghiere tratte dagli Atti apocrifi degli Apostoli ci danno una
conferma indiretta della loro esistenza, almeno in certi ambienti, fuori della grande tradizione. Allora ci troviamo davanti
ad una tradizione molto variabile e multiforme, secondo gli ambienti culturali, geografici e religiosi, come se il messaggio
evangelico fosse stato percepito in modo diverso.
A tale riguardo, dobbiamo volgere il nostro sguardo alle preghiere che saranno considerate come l’espressione vera
della tradizione ecclesiastica. Queste preghiere le possiamo conoscere mediante alcuni frammenti che ci fanno
comprendere come nel tempo esse saranno considerate secondo la tradizione. Un primo frammento di Ireneo nelle cui
edizioni del secolo scorso si trovano altri frammenti pubblicati Harvel (?) con il titolo di Sancti Irenei episcopi
lugdunensis libros V, Adversus haereses, è stato pubblicato per la prima volta da Pfaff, uno studioso tedesco, al quale non
si è prestata una grande attenzione. C’è da dire che l’andamento della preghiera in esso contenuta è tipicamente
eucaristica, come appare da queste parole:
“Noi offriamo a Dio il pane e il calice di benedizione, rendendoli grazie del fatto che abbia comandato
alla terra questi frutti per il nostro nutrimento. Poi avendo compiuto l’offerta noi invochiamo lo Spirito
Santo, affinchè manifesti in questa vittima che il pane è il corpo ed il calice il sangue di Cristo, di modo che
quelli che riceveranno questi antitipi ottengano la remissione dei loro peccati e la vita eterna. Infatti quelli
che compiono questa offerta in memoria del Signore non seguono i precetti dei Giudei, ma compiendo una
liturgia spirituale meritano il nome di “figli della saggezza””29.
Una prima osservazione è che Ireneo non riproduce il testo stesso della preghiera eucaristica, ma ne dà un riassunto
che ci fornisce la sostanza della preghiera stessa, che lo stesso autore avrebbe potuto usare. Se ciò fosse vero tale testo ci
riporterebbe negli anni 200 circa che rimane un riferimento cronologico significativo. Secondo Ireneo, la preghiera
comportava una offerta ed una invocazione dello Spirito Santo. La parola offerta designa, secondo Ireneo, questa parte
della preghiera eucaristica nella quale si incontra il verbo offrire (prosferomen) ed i suoi sinonimi che spesso esprimono
l’offerta fatta dopo il racconto eucaristico. Anche nel canone della messa romana, precisamente nella preghiera
eucaristica n. 1, troviamo l’espressione “offerimus” (offriamo) che è presente anche in preghiere eucaristiche del IV-V
secolo30. Questa offerta è un’azione di grazia, perché il verbo “offriamo” è spesso accompagnato dal participio “facendo
un’azione di grazia” (eucaristuntes), cioè si offre ringraziando per i doni che Dio ha fatto produrre alla terra, come il pane
ed il vino. Nella preghiera attuale dell’offertorio è ripresa questa idea con l’espressione: “Noi ti offriamo il pane, frutto
della terra e del lavoro dell’uomo. Lo presentiamo a te perché diventi cibo di vita eterna. Noi ti offriamo il vino, frutto
della vite e del lavoro dell’uomo perché diventi bevanda di salvezza”.
Da ciò si può notare che questa prece è, in realtà, la preghiera della berrakot giudaica. L’ultima riforma eucaristica ha
ripreso queste due preghiere alla luce della tradizione giudaica al tempo di Gesù che rimettono in risalto il fatto che
ritorna a Dio ciò che Lui ha dato all’uomo come dono. Questi doni sono offerti a Dio perché diventino il corpo ed il
sangue di Cristo. In questa preghiera riassunta da Ireneo, il corpo ed il sangue di Cristo sono doni di Dio, non nella loro
forma consacrata, ma come elementi che costituiscono il sacrificio. Per tale ragione si ringrazia il Signore che esprime il
senso proprio dell’Eucaristia. Si tratta del ringraziamento del pane e del vino che diventano il corpo ed il sangue di
Cristo. In realtà questo ringraziamento rientra nell’opera creatrice perché pane e vino sono creati da Dio, per cui, in un
certo senso si ringrazia il Signore per la sua opera di creazione. Ma bisogna notare che Ireneo non fa allusione a questa
estensione del ringraziamento. Il riassunto di Ireneo si riferisce solo al pane ed al vino per i quali si ringrazia Dio. Non
c’è alcuna allusione al resto della creazione, ma un altro fatto importante che possiamo trovare nel riassunto di Ireneo è
che fa seguire subito dopo l’invocazione allo Spirito Santo, il quale manifesterà la trasformazione avvenuta. Coloro che
comunicheranno al Pane e al Vino riceveranno questi antitipi che per Ireneo sono un’espressione corrente: questi antitipi
rispondono al tipo (tupos) al corpo e al sangue di Cristo. Essi sono le immagini e le rappresentazioni del tipo, cioè una
rappresentazione figurativa che rende presente il corpo ed il sangue di Cristo, o meglio rinnovano la loro presenza.
Questo modo di spiegare il termine diventa molto importante perché arriva alla radice del vero significato del termine
“rappresentare”. Tra l’altro, questa offerta viene fatta in memoria del Signore, secondo anche il richiamo della parola
evangelica: “Fate questo in memoria di me”.
Questo commemorare il Signore non si fa secondo i riti giudaici, i quali si svolgono con i sacrifici di vittime vere e
proprie, ma secondo un’offerta spirituale in conformità alla profezia di Malachia, che fu uno dei profeti contrari alle
usanze dei sacrifici cruenti dell’AT e che predicò una liturgia spirituale. Per il cristiano, effettivamente, questa eucaristia
realizza questa offerta, o meglio questa liturgia spirituale.
Per dare un giudizio d’insieme si può notare la presenza dei prodotti della terra che Dio ci dà in nutrimento che
conferma l’antichità della preghiera di Ireneo che potrebbe risalire ad una data anteriore allo stesso Ireneo. Allo stesso
modo il termine “antitipo” che si ritroverà in Tertulliano, in Ippolito e in Ambrogio, è anche una attestazione del carattere
molto arcaico di questa preghiera di Ireneo.
29 Harvè, Vol. II, Cambridge 1857, pp. 502-505. 30 Cfr. Martimort, La Chiesa in preghiera, Vol. II, p. 116 (edizione francese).
Il culto cristiano nei primi due secoli. 49
Un secondo frammento riguarda un’altra preghiera conservata interamente nel suo testo. Si tratta della preghiera
eucaristica di Ippolito della cosiddetta Traditio Apostolica, contenuta nel cap. IV, pp. 11-17 nella edizione del Bott.
Il testo seguente è inserito nel rituale dell’ordinazione del vescovo, ma è probabilmente è una preghiera che si usava
anche nell’ambito della celebrazione eucaristica. La preghiera incomincia con il famoso dialogo: “Il Signore sia con
te…e con il tuo Spirito…In alto i vostri cuori…Li teniamo verso il Signore…Rendiamo grazie al Signore…Questo è
degno e giusto…”.
Il testo che segue è il seguente:
“Noi ti rendiamo grazie o Dio per il tuo Figlio ben amato Gesù Cristo che ci hai inviato in questi ultimi
tempi come salvatore, redentore e messaggero del tuo disegno di salvezza. E’ il tuo Verbo inseparabile per
il quale hai tutto preparato. Nel tuo buon piacere l’hai inviato dal cielo nel seno di una Vergine. Essendo
stato concepito si è incarnato e si è manifestato come tuo Figlio, nato dallo Spirito Santo e dalla Vergine. E’
lui che per compiere la tua volontà e acquistarti un popolo santo ha esteso le mani mentre soffriva per
liberare dalla sofferenza quelli che hanno creduto in te. Consegnandosi volontariamente alla sofferenza ha
distrutto la morte, ha rotto le catene del diavolo, ha calpestato con i piedi l’inferno, ha condotto i giusti alla
luce, ha stabilito l’alleanza ed ha manifestato la sua risurrezione. Poi prese il pane ti rese grazie e disse:
“Prendete e mangiate, questo è il mio corpo rotto per voi”. Similmente prese la coppa dicendo: “Questo è il
mio sangue versato per voi. Quando farete questo fatelo in memoria di me”. Ricordandoci, dunque, della
sua morte e risurrezione, noi ti offriamo questo pane e questa coppa in azione di grazie perché ci hai
giudicati degni di tenersi in tua presenza e di essere al tuo sacro servizio. E noi ti domandiamo di inviare il
tuo Spirito Santo sull’offerta della tua Santa Chiesa. Radunala per dare a tutti i partecipanti di essere
riempiti dallo Spirito Santo, confermati nella loro fede, nella verità, affinché possiamo lodarti e glorificarti
per il tuo Figlio Gesù Cristo. Per lui a te gloria e onore con lo Spirito Santo nella Santa Chiesa adesso e nei
secoli dei secoli, amen”.
C’è, poi, un altro passo che riguarda l’eucaristia domenicale. Il compilatore della Traditio Apostolica fa notare che
questa preghiera, proposta da lui, non è obbligatoria. Dice infatti al capitolo 9 che il vescovo renda grazie, secondo il
dialogo di introduzione sopra esposto, però non è necessario che pronunci le stesse parole che sopra sono state dette,
come se si sforzasse di dirle a memoria, ma ognuno preghi secondo le sue capacità. Se qualcuno è capace di fare una
lunga preghiera solenne è una cosa buona. Se qualcuno fa una preghiera misurata che non ne sia impedito, purché la sua
preghiera sia di una sana ortodossia.
Dunque la preghiera eucaristica della Traditio apostolica è un esempio di quelle che si facevano ed un modello per
coloro che non sono capaci di improvvisare o di comporre da loro stessi. In questo senso si può dire che il testo proposto
da Ippolito sia esemplare. In primo luogo abbiamo il dialogo preparatorio con il quale il celebrante associa alla sua
preghiera quella dei fedeli. Nello stesso modo, quando la preghiera è terminata i fedeli danno il loro consenso con l’amen
finale, che è già stato segnalato una prima volta da Giustino il filosofo. Inoltre, rispetto al frammento di Ireneo, la
Traditio Apostolica non fa iniziare la prece con l’azione di grazia, ma passa subito ai benefici dell’Incarnazione e della
redenzione. Anzi, i termini di questa preghiera sembrano molto vicini a quella di una professione di fede. Inoltre, il
racconto dell’Istituzione è messo in relazione con la passione del Signore. Ciò avviene con una certa insistenza: “Estende
le braccia durante la sua passione”, “Si consegna alla sofferenza”. Così vengono pronunciate le parole dell’istituzione
eucaristica, anzi il pane rotto, il sangue versato sono il memoriale di questa sofferenza secondo l’espressione: “Fate
questo in memoria di me”.
Dunque, l’eucaristia di Ippolito è di ispirazione essenzialmente soteriologica. Tra l’altro, dopo aver riportato il
racconto dell’istituzione eucaristica, Ippolito inserisce l’anamnesi a cui segue l’oblazione con l’azione di grazia. Questi
ultimi sono tutti presenti anche nel frammento di Ireneo. C’è da dire poi che questa azione di grazia non è personale al
celebrante, neppure nella formula, quando dice “Noi stiamo in tua presenza e al tuo servizio sacro”, perché in un certo
senso tutti i fedeli, durante la preghiera eucaristica si trovano alla presenza del Signore e partecipano alla preghiera
eucaristica. In un certo senso essi riempiono il ministero sacro della lode del Signore, in virtù della loro partecipazione al
sacerdozio comune dei fedeli, cioè al sacerdozio regale di Cristo (2Pt 2,9).
Segue poi l’epiclesi che non espressamente consacratoria, mentre lo è effettivamente la preghiera riassunta da Ireneo.
Ippolito esprime una invocazione a Dio per chiedere che venga lo Spirito Santo sulle offerte. E’ una vera e propria
domanda, il che vuol dire che la santificazione del pane e del vino è opera dello Spirito Santo, allo stesso modo
dell’Incarnazione di Cristo. Ciò riproduce in modo misterioso l’incarnazione del Signore.
L’epiclesi è anche una domanda fatta in favore della Chiesa perché sia radunata: è una domanda fatta in favore dei
fedeli affinché siano confortati nella verità. Ciò allude ai pericoli dell’eresia e dello scisma. La dossologia finale non ha
nulla di particolare, ma bisogna notare che questa preghiera è la prima di una serie: è la sola completa prima della pace
della Chiesa. La preghiera eucaristica n. 2 è una versione ammodernata di quella di Ippolito.
Nella lezione precedente abbiamo visto delle anafore eucaristiche che le possiamo considerare tra quelle
tradizionali, cioè quelle che hanno avuto il sopravvento su altre forme anaforiche che oggi sembrano aberranti perché
non contenevano elementi che noi siamo abituati a vedere in un anafora. Esse iniziano generalmente con il rendimento
di grazie sviluppando il tema eucaristico. Esse rendono grazie, in primo luogo, per la creazione ed in secondo luogo per
la redenzione. Ora, tra gli atti della redenzione, il tipo tradizionale mette anche l’istituzione eucaristica che si conclude
generalmente con la raccomandazione del Signore: “Fate questo in memoria di me”. Dopo di che l’anafora continua con
l'anamnesi cioè il ricordo della passione e risurrezione di Gesù. Generalmente si ripete formalmente un atto di offerta del
pane e del vino che sono stati eucaristiati, cioè consacrati in modo che non c'è più il pane ed il vino, ma il corpo ed il
sangue di Gesù. Questi elementi vengono presentati al Padre. Segue immediatamente, in modo normale, l'epiclesi perché
il Padre mandi lo spirito per santificare il pane ed il vino stessi. L’epiclesi, nel suo senso etimologico, è una invocazione
a Dio perché mandi il suo Spirito.
Le preghiere eucaristiche classiche, cioè quelle che sono conservate a partire dal IV secolo, aggiungono un quarto
elemento, cioè le preghiere di intercessione in favore di certe persone vive e defunte. Queste preghiere non sono
attestate nel III secolo. Talvolta l’epiclesi non è proprio consacratoria, ma è preparatoria, cioè di preparazione alla
comunione. Viene, allora espressa un’altra intenzione che comporta la santificazione dei fedeli affinché manifestino
nella loro vita e nella loro comunione l'unità della Chiesa radunata dalle estremità della terra nel regno unico di Dio. La
preghiera si conclude con una dossologia che generalmente all’inizio e cristologica, mentre a partire dalla fine del IV
secolo questa dossologia diventa trinitaria.
Di queste anafore possiamo prendere in considerazione quella usata da Origene della quale non conserva il testo, ma
l’alessandrino ne dà un a sola testimonianza31. Ora questa anafora Origene la presentata nel modo seguente:
“L'anafora si fa sempre a Dio onnipotente per Gesù Cristo, in modo che si attribuisca al Padre la
divinità di Gesù Cristo (sarebbe stato più normale attribuire a Gesù Cristo la divinità del Padre). Non si
faccia l'anafora in due volte, ma che si faccia a Dio per Dio. Forse sarei o sembrerei audace quando dico di
rispettare queste regole della preghiera”.
Dunque la specificità di questa anafora sta nel fatto di una tradizione fondamentale nell'anafora eucaristica perché è
tradizionalmente indirizzata a Dio Onnipotente per Gesù Cristo. Questa regola fondamentale la vediamo ripetuta alla
fine del IV secolo da Agostino stesso. Vuol dire che esistevano a quel tempo, tra il III ed il IV secolo delle anafore che o
preghiere eucaristiche che non rispettavano queste regole, ma che erano ancora liberamente fatte dai celebranti senza un
testo fisso. Talvolta la preghiera era indirizzata a Gesù Cristo invece del Padre. Dunque, questa regola, a Dio per Gesù
Cristo, è ricordata da Origene, ma questa formulazione sembrava insufficiente ed ambigua a Origene stesso perché non
si affermava espressamente la divinità di Gesù Cristo. Perciò volle proporre una formulazione più precisa, nel senso che
l’anafora doveva essere indirizzata a Dio per Dio, cioè a Dio Padre Onnipotente per Gesù Cristo. Ma si sa che questa
formulazione di Origene non fu più presa in considerazione tanto che si continuò a pregare Dio per mezzo di Gesù
Cristo, come avviene anche oggi. Ogni preghiera fatta a nome della comunità, sia che si tratti delle collette segrete post
31 Cfr. Vogel nel suo studio sulle anafore pre-eucaristiche pre-costantiniane e cfr. (?), Lettere e scrittori
cristiani del II e III secolo. Parigi 1961.
Il culto cristiano nei primi due secoli. 51
comunione, sia delle diverse preghiere eucaristiche: esse sono indirizzate allo stesso modo a Dio per mezzo di Gesù
Cristo.
Sotto questa forma tradizionale attestata da Ireneo e dalla tradizione apostolica e anche da Origene, la preghiera
eucaristica si è imposta come tradizione apostolica se ci riferiamo all’opera omonima di Ippolito. Ciò vuol dire che tale
tradizione risaliva agli Apostoli e aveva dunque l’autorità degli Apostoli. Allora, adoperando una formula scolastica
vediamo applicata la regola che la lex credendi è conforme alla lex orandi. In sostanza la regola di fede è uguale alla
regola liturgica, cioè quella della preghiera, o viceversa le preghiere devono conformarsi alla fede ed esprimere in un
certo modo la fede tradizionale della Chiesa.
Per riassumere tutto quello che è stato detto sulle preghiere eucaristiche l’anafora comportava sempre, il dialogo
iniziale di introduzione32, a cui segue l’eucaristia, cioè il ringraziamento propriamente detto che ha per oggetto la
creazione e la redenzione, a cui si aggiunge il racconto dell'istituzione eucaristica che occupa un posto centrale, come
perno tra l'eucaristia antecedente e le preghiere che seguono che sono l'anamnesi, l’oblazione e l'epiclesi. Poi, per
ribadire la regola fondamentale a Dio per Gesù Cristo, segue la dossologia che è proprio concepita in questo senso, cioè
si tratta della preghiera indirizzata a Dio Padre in comunione con lo Spirito Santo per mezzo di Gesù Cristo. In ultima
analisi, nessuna di queste preghiere eucaristiche del III secolo fa allusione al canto del Sanctus. Ciò vuol dire che il
Sanctus è stato introdotto nella preghiera nel corso del IV secolo.
Alcune riflessioni conclusive su tutto il culto cristiano:
1) Circa le origini del culto cristiano abbiamo visto che esso affonda le sue radici nella preghiera
giudaica ed ebraica.
La sua originalità e la sua specificità risiedono nel fatto che il culto è riferito ai detti e ai fatti di Cristo, che
sono fondatori in quanto creano un nuovo modo di rendere culto a Dio. Per quanto si può sapere, le prime attestazioni
riflettono le prime usanze delle comunità cristiane primitive. E’ difficile, invece, risalire mediante le prime comunità
cristiane ai detti e ai fatti di Gesù perché negli scritti più antichi del NT, che sono le lettere paoline, troviamo un eco di
quello che si praticava nelle comunità alle quali erano indirizzate tali comunità. Generalmente, almeno in alcuni casi
precisi, Paolo si riferisce esplicitamente a queste usanze e dice, del resto che era stato lui ad insegnarle. Prima che
esistesse uno scritto biografico dei detti e dei fatti di Gesù, sotto forma di Vangeli, esisteva una tradizione orale che ha
determinato anche le forme della preghiera del culto. In alcuni casi possiamo cogliere sul vivo il modo in cui queste
comunità pregavano e celebravano il culto. Sin dall'inizio i primi cristiani si sono trovati confrontati con le usanze
giudaiche. Da una parte avevano coscienza di essere di tradizione giudaica, mentre dall’altra sentivano il bisogno di
affermare la specificità della loro fede cristiana. Sicché c’è o si crea una specie di tensione fra la fedeltà giudaica e la
nuova fede cristiana. Si tratta di una tensione che a volte si risolveva o in favore della continuità ebraica, soprattutto
nelle comunità giudeo-cristiane e, dall’altra, e la fedeltà alla novità della fede cristiana. In tal senso possiamo notare la
polemica di Paolo contro coloro che vedono nel cristianesimo una forma del culto ebraico. Quindi si crea una continuità
ed una frattura con il giudaismo. Soprattutto quest’ultima la possiamo avvertire in alcuni fatti precisi. La rottura è quasi
immediata sul giorno cultuale, perché per gli Ebrei il giorno del culto era il sabato, ma la tradizione ebraica era
fortemente risentita nel I secolo poiché se ne era separata l’usanza cristiana per la quale il nuovo giorno di culto era la
domenica e non il sabato. In modo più preciso è il giorno in cui si ricordava e si ricorda la passione e la risurrezione del
Signore. Quindi il riferimento settimanale, in funzione del quale si sviluppa questa settimana, non è il più il sabato che
era il giorno conclusivo, ma è la domenica, come primo giorno della settimana. Dunque, anche il concetto di intendere il
culto cambia nel senso che ci troviamo dinanzi ad un nuovo inizio cultuale. Si tratta del nuovo modo di rapportarsi con
Dio nell’ambito cultuale e in quello della preghiera.
Un altro punto sensibile è la Pasqua annuale che creò divergenze tra i gli Ebrei ed Giudeo-cristiani, da una parte, ed i
pagani-cristiani dall’altra. Infatti i giudeo-cristiani continuarono a celebrare la Pasqua come gli Ebrei, cioè il
quattordicesimo giorno del primo mese dell’anno, il 14 di Nisan, che avviene in base alla coincidenza del ciclo lunare
con quello solare33 . Invece i cristiani di origine pagana presero l’abitudine di celebrare la Pasqua alla domenica
successiva il 14 di Nisan: è' una reazione tipicamente cristiana quella di mantenere il primato della domenica rispetto a
un qualsiasi giorno della settimana. Il 14 di Nisan poteva coincidere con la domenica, ma poteva anche coincidere con
un qualsiasi altro giorno della settimana. Dunque, i cristiani affermarono la primazia della domenica. Questo problema
divenne acuto nella seconda metà del II secolo e si risolse in favore della celebrazione pasquale annuale alla domenica,
giorno del Signore.
Un altro punto di continuità e di rottura è quello del “bagno” rituale: è certamente un aspetto meno evidente rispetto
agli altri perché gli Ebrei, soprattutto i Giudei del tempo di Gesù, praticavano abluzioni parziali o bagni completi
parecchie volte al giorno, in modo particolare il lavarsi prima di ogni pranzo o il lavarsi le mani dopo un contatto con un
qualcosa di impuro (es., un animale morto o un animale ritenuto impuro). Tra questi bagni, uno in particolare prese una
certa importanza quando fu predicato dal Battista: si tratta del bagno di penitenza che si faceva una volta che è il
preludio del battesimo cristiano in vista della remissione dei peccati. Quindi si viene a creare una differenza
32 Tale dialogo è attestato interamente per la prima volta dalla Traditio apostolica. 33 Si tratta di due cicli paralleli che ben difficilmente coincidono tra loro.
Il culto cristiano nei primi due secoli. 52
fondamentale fra gli Ebrei e Giudeo-cristiani, da una parte, e i Pagani-cristiani, dall’altra, sulla ripetibilità di questo
bagno, nel senso che presso gli Ebrei si poteva fare più volte, mentre tra i cristiani di origine ellenistica lo si poteva fare
una sola volta. Inoltre questo bagno unico è riferito a Cristo perché è lui che ci ha meritato il perdono dei peccati nella
sua morte e risurrezione.
Un altro punto divergente fu quello dei pasti cultuali. I Giudei e gli Ebrei, al tempo di Gesù, facevano un pranzo
rituale ogni sabato, cioè iniziava al venerdì sera e si prolungava durante tutta la notte. Ma, in particolare tra questi pasti
primeggiava quello pasquale che aveva un rituale molto più solenne e complesso. Proprio questa cena prese modello
l’eucaristia cristiana. Ciò lo possiamo vedere molto bene nel Vangelo di Giovanni, dove l’evangelista mostra questa
continuità e questa peculariatà dell’eucaristia cristiana, in riferimento con la Pasqua del Signore. Uno dei temi giovannei
è che Cristo è l’agnello di dio che toglie i peccati del mondo. Quindi, da una parte c’è una continuità perché l’eucaristia
cristiana riproduce ante litteram il formulario della berakà ebraica, cioè le preghiere di benedizioni che accompagnavano
il pranzo di Pasqua. La rottura consistette dal fatto che la celebrazione cristiana dell’Eucaristia si staccò gradualmente
nella seconda metà del I secolo dal pranzo divenendo così a se stante.
Tra il culto cristiano e quello ebraico si venne a formare un doppio rapporto che, come abbiamo visto, da una parte
esprime una certa continuità, mentre dall’altra si trova all’origine di una certa rottura. Questa dialettica avrà un suo
significato alla persona di Cristo che costituisce il ricordo dei suoi fatti e dei suoi detti che serve da regola al culto
cristiano che sta costituendosi. Dunque i fatti e i detti di Cristo sono considerati come fondatori di un culto nuovo, nel
fatto che Gesù si trova all’origine di questa novità. Per questa ragione possiamo parlare di culto cristiano. A nome di
Cristo sono battezzati credenti secondo anche la testimonianza degli Atti degli Apostoli. Segue dapprima una formula
esclusivamente cristologica34 e successivamente troveremo una formula trinitaria del battesimo che sembra essere più
tardiva, ma già attestata alla fine del I secolo nella Didachè35.
Il riferimento a Cristo è anche sensibile ed è evidenziato nel culto cristiano, poiché questo culto eucaristico è
celebrato in memoria di Gesù finché ritorni. Già a partire dalla prima generazione cristiana questi fatti sono evidenziati:
è' importante accertare questo fatto perché collega il culto cristiano con la persona di Gesù. I primi cristiani avevano il
sentimento e la convinzione che celebrando il battesimo e celebrando l’eucaristia loro ubbidivano al comandamento di
Cristo, secondo le espressioni: “Andate e battezzate” (Mt), “Fate questo in memoria di me” (Mt, Mc, Lc, 1Cor).
L’evoluzione è forse un po’ meno celere nel fatto della domenica, nel senso che soltanto due generazioni cristiane dopo
la morte di Gesù, si inizia a parlare del giorno del Signore, come primo giorno della settimana. Evidentemente questo
primo giorno della settimana si riferisce al modo giudaico di contare la settimana nel senso che per i Giudei la settimana
si concludeva con il sabato, sicché il primo giorno della settimana è il primo giorno cristiano di contare la settimana
stessa. Soltanto alla fine del primo secolo i cristiani inizieranno a parlare del “giorno del Signore”: la più antica
attestazione la troviamo nell'Apocalisse di San Giovanni apostolo. C’è voluto, poi, un po’ di tempo perché si giungesse a
capire e ad esprimere la specificità della domenica, come “giorno del Signore”.
Il processo fu ancora più lungo per la Pasqua annuale. La pasqua cristiana si staccò dalla pasqua ebraica in un tempo
relativamente più lungo. La Pasqua quartodecimana sembra essere la prima forma della Pasqua, probabilmente collegata
con le tradizioni ebraiche e giudeo-cristiane. Dunque i cristiani hanno portato nelle loro consuetudini l’usanza ebraica
senza cambiamento alcuno e celebrando la Pasqua lo stesso giorno degli Ebrei. Il che vuol dire che i cristiani misero più
tempo a riflettere sul concetto della pasqua annuale. Solo nella seconda metà del II secolo abbiamo una riflessione
cristiana più forte e specifica che viene dettata dal bisogno di distinguersi dagli Ebrei per affermare la propria identità
cristiana. Una testimonianza significativa l’abbiamo proprio da Melitone di Sardi con il quale è presente la riflessione
sulla passione e sulla risurrezione di Cristo che richiama alle origini cristiane quando Paolo fa una riflessione simile
nelle sue lettere. Ma la fissazione della Pasqua annuale, diverso dal 14 di Nisan la si vede non prima della seconda metà
del II secolo.
Questo sforzo di avere una Pasqua propria distinta da quella ebraica non fu sentito, però, con la stessa urgenza e allo
stesso modo dai cristiani ubicati nelle diverse parti dell'Impero, tenendo conto anche del fatto che una parte di essi, nelle
zone orientali, come Efeso e Smirne rimasero fedeli alla tradizione giudeo-cristiana. Si tratta proprio della regione
dell’Asia. In quel periodo intervenne la Chiesa di Roma non solo per favorire l’uso della domenica, ma anche per evitare
il pericolo di uno scisma vero e proprio. Comunque questi diversi esempi permettono di isolare una terza influenza che
si è manifestata nel culto cristiano: si tratta dell'esperienza cristiana. Come si è fissata questa tradizione cristiana ce lo
dimostrano i diversi testi che abbiamo potuto vedere in questo corso. Possiamo, dunque, dire che questa esperienza
cristiana la possiamo seguire sin dall’inizio a partire delle prime comunità cristiane, fino al II secolo. A tale riguardo,
possiamo ricordare alcune tappe:
1) Paolo nella 1Cor 11,17-34 non indica nessuna periodicità nella celebrazione eucaristica, ma menziona
semplicemente l’esistenza di riunioni eucaristiche di cui non indica il giorno.
34 Probabilmente “ti battezzo a nome di Cristo”, che non è ancora trinitaria, è la formula più antica del
battesimo che possiamo trovare. Tale formula è presente in alcuni passi degli Atti degli Apostoli. 35 Essere battezzati “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”.
Il culto cristiano nei primi due secoli. 53
2) negli Atti 2,46 la fractio panis era quotidiana nella prima comunità gerosolomitana36. Ogni giorno i cristiani si
riunivano nelle loro case per la fractio panis. In confronto con gli stessi Atti, si può notare che Paolo non
indicava in quale giorno si celebrava l’eucaristia.
3) Secondo la testimonianza di Atti 20,7, dove si parla della missione di Paolo, la celebrazione eucaristica diventa
settimanale e viene fissata proprio il primo giorno della settimana.
4) La stessa periodicità settimanale è attestata, poi, dalla Didaché al cap. XIV,1 e nella Lettera ai Magnesiani Cap.
VI,1.
Da questi elementi abbiamo una progressiva fissazione della celebrazione comunitaria, indeterminata in
Paolo, quotidiana nella comunità di Gerusalemme e settimanale il primo giorno della settimana nelle comunità
paoline. Le osservanze anche se possono essere cronologicamente disposte indicano tuttavia delle usanze
leggermente diverse secondo le comunità, in modo particolare quella Giudeo-cristiana di Gerusalemme e
quella pagano-cristiana di Paolo. Ma tra tutte queste tradizioni prevarrà quella di Paolo per la semplice
ragione che i pagani-cristiani saranno molto più numerosi rispetto ai cristiani di tradizione giudea. Questi fatti
storici e sociologici vanno presi in considerazione per capire meglio l’evolversi del culto cristiano, a partire
proprio dai primi secoli di vita della Chiesa.
Ora, lo stesso percorso lo possiamo fare per quanto riguarda alcuni riti precisi come il battesimo e
l’eucaristia, dove l'esperienza cristiana diventa fondamentale. Il battesimo è stato amministrato per la prima
volta nel giorno della Pentecoste (At 2,38-41), ma gli altri passi degli Atti degli Apostoli, dove si parla di altri
battesimi, come quello dei Samaritani (At 8,12,17) e quello dell’eunuco (At 8,26-39), permettono di
individuare certi elementi costitutivi come il bagno d’acqua e l’uso della formula, a nome di Gesù, seguita
dall’imposizione delle mani per il conferimento dello Spirito Santo. Questi elementi indicano una certa
materialità dei riti, ma qual è il loro significato? In tal senso Pietro, proprio il giorno della Pentecoste, afferma
che Gesù è stato risuscitato e che gli Apostoli sono divenuti testimoni di questo fatto. Così chiarisce per la prima
volta il battesimo nel suo significato, cioè la remissione dei peccati che è legata al messaggio cristiano della
buona novella, cioè la rivelazione di un Dio Padre misericordioso disposto a perdonare, ma la misericordia
accordata da Dio è legata alla passione e alla morte di Cristo. Questa mistica Paolo la approfondisce quando
parla dell’unione dei cristiani con Cristo tramite il battesimo. I neofiti sono, in un qualche modo, innestati in
Cristo, come il tralcio alla vita, per la somiglianza della morte e risurrezione di Cristo. Il battesimo è una specie
di comunione del battezzato con le sofferenze e la risurrezione di Cristo. Si tratta di un linguaggio molto
concreto riferibile ad un linguaggio della viticultura, però assume un significato spirituale, nel senso che il
cristiano, spiritualmente, è innestato alla vite di Cristo. Lo stesso si può dire dell'eucaristia: Per Paolo è
partecipazione al corpo e al sangue di Cristo (1Cor 10,16-17). Ma con quali gesti si ottiene questa
partecipazione? La si ottiene con riti precisi sul pane e sul vino che divengono corpo e sangue di Cristo. A
questo primo significato ne abbiamo un altro della Didachè, nell’immagine dei grani di frumento e di uva
raccolti dalle estremità della terra per essere riuniti nel corpo e del sangue di Cristo, allo stesso modo di come
si sono formati il pane ed il vino.
A questa eucaristia è la traditio apostolica di Ippolito che dà il suo vero e pieno significato, insieme alle
informazioni che ci dà sul formulario e sui riti stessi.
2) C'è un carattere evolutivo del culto cristiano: esso è particolarmente sensibile nel periodo delle origini ed è
percepibile a partire dal II secolo. Allora se confrontiamo le testimonianze del II secolo con quelle del I secolo, si può
notare questo sviluppo graduale delle istituzioni cultuali. Questa evoluzione non riguarda solo i riti e le formule stesse,
ma anche la natura delle fonti del II secolo, che sono diverse da quelle del I secolo le quali consistono nel proclamare il
Vangelo, cioè la buona novella della salvezza. La caratteristica di questa letteratura neotestamentaria è kerigmatica. Il
Kerigma è la proclamazione del messaggio evangelico. Questo kerigma viene precisato in modo diverso ed in primo
luogo in forma apologetica. Gli apologisti, come Giustino, descrivono i riti cristiani nei loro scritti indirizzati alle
autorità romane per difendere meglio il culto cristiano contro gli attacchi sistematici dei pagani e degli Ebrei. Su questo
punto l'esempio di Giustino è molto significativo.
Un altro aspetto, messo in risalto dagli apologisti, è il fatto che questi riti sono tradizionali e risalgono all’origine
apostolica, anzi corrispondono alla volontà di Cristo stesso. Quindi si può notare negli apologisti questo sforzo di
riattaccare le forme cultuali del loro tempo agli atti fondatori di Cristo stesso. Questa convinzione è condivisa anche dai
celebranti nella maniera in cui si esprimono nelle preghiere. Infatti essi non sono dei legislatori, ma osservano una
tradizione che è indipendente da loro nella quale si inseriscono. Essi vivono questa tradizione come ci mostra
chiaramente Clemente romano nella sua lettera ai Corinti, che ha delle reminiscenze eucaristiche, come pure la
preghiera di Policarpo di Smirne che presenta una forma liturgica evidente ed ispira la sua pietà personale37.
36 Si tratta esplicitamente di un’usanza gerosolimitana. 37 S. Policarpo prega personalmente come quando pregava a nome della comunità, usando la formula
eucaristica.
Il culto cristiano nei primi due secoli. 54
Dunque, questa evoluzione dei riti è percepibile nel II secolo nelle testimonianze di Giustino, nella Traditio
Apostolica di Ippolito e nella didascalia degli Apostoli siriaca del III secolo. Se mettiamo insieme queste testimonianze
possiamo vedere molto bene questo sviluppo dell'iniziazione cristiana e dell'eucaristia che prenderanno una consistenza
sempre più grande. Così per l’iniziazione cristiana vediamo apparire nel II secolo un catecumenato e dei riti precisi
nell’atto del battesimo, che non sono attestabili anteriormente, come ad esempio la benedizione dell’acqua battesimale,
la benedizione degli oli di unzione, la rinuncia a Satana. Ciò non significa che tali riti non esistessero prima di allora, ma
probabilmente pur avendo un’origine più antica rispetto ai documenti che li illustrano, non venivano ancora usati. Lo
stesso discorso vale anche per l'istituzione eucaristica perché i formulari più antichi mostrano una forma più o meno
precisa, come ad es., la formula eucaristica della Didaché che, confrontata con la preghiera eucaristica della Traditio
apostolica, lascia intravedere un certo progresso del culto cristiano: se nella Traditio apostolica la preghiera eucaristica
comporta quasi tutti i suoi elementi costitutivi ed essenziali, nella preghiera eucaristica della Didaché sono praticamente
assenti.
Ora, di questi testi primitivi non c'è stata una posterità: sono testi arcaici senza discendenza, come ad esempio la
preghiera di Addai e di Mari che è stata usata durante un arco di tempo molto lungo, dal III secolo sino ai nostri giorni, e
si è arricchita di elementi assenti nella forma più arcaica della preghiera stessa, come l’istituzione eucaristica e
l’epiclesi. Dunque, questi testi non hanno avuto alcuna discendenza perché non erano adatti alle usanze posteriori.
Questa loro mancanza è stata all’origine della loro sparizione. L’unica preghiera che si è conservata è quella di Addai e
Mari perché è stata completata. Questo fatto comportò il disuso di formule arcaiche le quali sono state sostituite con
formule più complete secondo questo schema:
1) l’eucaristia per la creazione e per la redenzione;
2) il racconto dell’istituzione;
3) l’epiclesi con anamnesi ed oblazione.
Il fatto caratteristico di queste preghiere nuove è il loro riferimento all'opera salvifica di Gesù come redentore e
come mediatore: per mezzo di Gesù la preghiera è indirizzata a Dio Padre. In Occidente si insiste su questo aspetto
dell’opera redentrice di Cristo, mediante la sua morte e la sua passione, mentre in Oriente il centro di gravità della
preghiera eucaristica insiste sulla epiclesi, cioè l'intervento dello Spirito nell'opera di santificazione dell’eucaristia, allo
stesso modo in cui lo Spirito è stato agente durante l’incarnazione di Gesù, sicché l'eucaristia è una specie di
incarnazione prolungata ed estesa a tutta l’umanità. L’uomo battezzato è innestato in Cristo. Questo tipo nuovo è già
attestato da Ireneo ed è sopravvissuto sino ai nostri giorni.
_____Note Personali di Studio_______________________________________________________________________