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«DICE CHE NON SI SCIUPANO A STARE COSì FINCHÉ TU TORNI»: CONSERVAZIONE E DISTRIBUZIONE DEGLI ALIMENTI NEL MEDIOEVO TOSCANO Laura Galoppini Condurne dove non n’è Il binomio «cibo e tecnologie» è di particolare attualità e volto a comprendere in quale misura il progresso scientifico abbia influito sul cibo e sulle tecniche relative alla sua produzione, trasformazione, distribuzione e conservazione. Si tratta di nozioni attuali anche quando vengono studiate tematiche relative all’alimentazione dei secoli passati. In particolare sul Medioevo, un lunghissimo periodo convenzionalmente datato dagli storici a partire dal 476 fino ad arrivare al 1492, ancora oggi gravano molti pregiudizi diffusamente radicati, nonostante gli studi e una crescente va- lorizzazione legata recentemente alle iniziative delle rievocazioni storiche locali, più o meno filologicamente corrette 1 . Soprattutto nel settore dell’alimentazione medievale sono ancora presenti numerose erronee convinzioni, quali l’assenza delle più elementari norme igienico-sanitarie nella preparazione dei cibi, l’im- piego delle spezie per nascondere l’odore di vivande mal conservate e avariate, la prevalenza di pietanze povere e per lo più, per noi, strane o disgustose. 1 In Toscana non solo le maggiori città (Massa, Pisa, Lucca, Prato, Firenze, Arezzo, Siena) celebrano eventi che trovano le loro origini nei secoli medievali, ma anche cittadine o centri mi- nori organizzano giorni o intere settimane di «feste medievali» in costume, ogni anno, con una crescente partecipazione popolare e una felice ricaduta sul turismo locale. Si tratta di iniziative che, suscitando comunque interesse per il passato, spesso promuovono nuovi studi e, comunque, attenzione per la storia locale e dove, in particolare, sono molto sentiti i riferimenti a tematiche economiche (mercati) o gastronomiche (piatti tipici) antiche. Tra i numerosissimi esempi possibi- li e disseminati sul territorio, ricordiamo soltanto quello di Volterra anno Domini 1398 (anno della coniazione del grosso volterrano), che si svolge nel mese d’agosto, per l’imponente e incantevole cornice architettonica medievale innestata su quella romana ed etrusca che fa da sfondo alla rico- struzione del mercato e delle attività artigianali a imitazione di quelli medievali.
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\u003c\u003cDice che non si sciupano a stare così finchè tu torni\u003e\u003e: conservazione e distribuzione degli alimenti nel Medioevo toscano

May 16, 2023

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Fabio Fabiani
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«DICE CHE NON SI SCIUPANO A STARE COSì FINCHÉ TU TORNI»:CONSERVAZIONE E DISTRIBUZIONE DEGLI ALIMENTI

NEL MEDIOEVO TOSCANO

Laura Galoppini

Condurne dove non n’è

Il binomio «cibo e tecnologie» è di particolare attualità e volto a comprendere in quale misura il progresso scientifico abbia influito sul cibo e sulle tecniche relative alla sua produzione, trasformazione, distribuzione e conservazione. Si tratta di nozioni attuali anche quando vengono studiate tematiche relative all’alimentazione dei secoli passati.

In particolare sul Medioevo, un lunghissimo periodo convenzionalmente datato dagli storici a partire dal 476 fino ad arrivare al 1492, ancora oggi gravano molti pregiudizi diffusamente radicati, nonostante gli studi e una crescente va-lorizzazione legata recentemente alle iniziative delle rievocazioni storiche locali, più o meno filologicamente corrette1. Soprattutto nel settore dell’alimentazione medievale sono ancora presenti numerose erronee convinzioni, quali l’assenza delle più elementari norme igienico-sanitarie nella preparazione dei cibi, l’im-piego delle spezie per nascondere l’odore di vivande mal conservate e avariate, la prevalenza di pietanze povere e per lo più, per noi, strane o disgustose.

1 In Toscana non solo le maggiori città (Massa, Pisa, Lucca, Prato, Firenze, Arezzo, Siena) celebrano eventi che trovano le loro origini nei secoli medievali, ma anche cittadine o centri mi-nori organizzano giorni o intere settimane di «feste medievali» in costume, ogni anno, con una crescente partecipazione popolare e una felice ricaduta sul turismo locale. Si tratta di iniziative che, suscitando comunque interesse per il passato, spesso promuovono nuovi studi e, comunque, attenzione per la storia locale e dove, in particolare, sono molto sentiti i riferimenti a tematiche economiche (mercati) o gastronomiche (piatti tipici) antiche. Tra i numerosissimi esempi possibi-li e disseminati sul territorio, ricordiamo soltanto quello di Volterra anno Domini 1398 (anno della coniazione del grosso volterrano), che si svolge nel mese d’agosto, per l’imponente e incantevole cornice architettonica medievale innestata su quella romana ed etrusca che fa da sfondo alla rico-struzione del mercato e delle attività artigianali a imitazione di quelli medievali.

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Comunque la convinzione più corrente è quella che allora si mangiasse male. Anche i ceti sociali più alti non sarebbero stati da invidiare a tavola, non tanto per la quantità, quanto per la qualità dei prodotti presenti sulle mense imbandi-te sia quotidianamente sia nei banchetti in occasione delle fastose celebrazioni private o ufficiali.

Talora, invece, ci troviamo dinanzi ad atteggiamenti di segno opposto, ov-vero si elogia l’alimentazione del passato giudicandola aprioristicamente più naturale (e quindi più sana) in contrapposizione con la produzione dei cibi sofisticati di oggi (e quindi ritenuti meno salubri). Così spesso ricorrono con-fronti curiosi, forse suggestivi quanto generici, inattendibili se non addirittura fuorvianti.

In un’analisi del rapporto cibo-tecnologie occorre, invece, tenere presente la grande variabilità determinata, attraverso i secoli, dagli spazi geografici, dagli eventi politici, dalle condizioni economiche, sociali, religiose, dall’evoluzio-ne tecnologica e dai fattori di scelta alimentare. Questi ultimi, poi, sono stati condizionati dalle culture, dalle credenze, dalle conoscenze mediche, dai gusti dettati talora anche dalle mode del tempo, ma in particolare dalle religioni che hanno proibito alcuni alimenti qualificandoli come dei tabù e privilegiandone altri nelle diete dei credenti. Così sono state influenzate produzioni (e quindi scienze tecnologiche), metodi di preparazione, cottura e consumo dei cibi mentre, a partire dal Duecento, si veniva formando e affermando il cuoco come mestiere autonomo2.

Un esempio significativo riguarda le paste alimentari: a differenza di oggi erano – dal Duecento fino ai primi decenni del Cinquecento – un costoso prodotto di lusso acquistato, in particolari occasioni, dai sovrani e dai ceti più ricchi. La pasta veniva condita con spezie varie, formaggio grattugiato, sughi di carne, ma dopo una lunga cottura, di oltre due ore, in acqua e olio, perché secondo i medici del tempo sarebbe stata più facilmente digeribile, mentre solo a partire dal Seicento iniziarono a consigliare di non cuocerla troppo a lungo3. Tanto meno sarebbe stato possibile consumare un piatto di pasta con un sugo

2 O. Redon, Les métiers de cuisinier, in Ceti, modelli, comportamenti nella società medievale (secoli XIII - metà XIV), Atti del XVII Convegno Internazionale di Studi (Pistoia, 14-17 maggio 1999), Pistoia, Centro Italiano di Studi di Storia e d’Arte Pistoia, 2001, pp. 273-290.

3 L. Galoppini, Le commerce des pâtes alimentaires dans les Aduanas Sardas, in «Médiévales», 36, 1999, pp. 111-127; Ead., L’isola dei maccheroni, in «Medioevo» (De Agostini-Rizzoli), set-tembre 2003, pp. 42-49.

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di pomodoro, oggi invece tanto comune da caratterizzare la dieta mediterra-nea, dal momento che era una coltivazione sconosciuta al mondo medievale. I pomodori giunsero dall’America Latina e, inizialmente coltivati come piante ornamentali, si affermarono molto tardi negli usi gastronomici dando luogo, gradatamente, anche a una vera rivoluzione del gusto. Così avvenne anche per il mais e le patate, quest’ultime diffusesi a partire dal XVIII secolo, le quali invece divennero rapidamente un alimento fondamentale nell’alimentazione delle classi più povere.

Il cibo e, più in generale, i settori relativi sia alla specializzazione delle colti-vazioni più adatte ai terreni, che allo sviluppo delle tecniche nella produzione dei vari alimenti sono stati importanti a tal punto da caratterizzare fortemente intere aree geografiche e addirittura, secondo la suggestiva osservazione di Car-lo Maria Cipolla, dar vita a due diverse Europe nei secoli medievali: «L’Europa del burro, della birra, dei campi aperti (open fields), dell’aratro pesante e l’Euro-pa dell’olio, del vino e dei campi chiusi»4.

Lo scopo di queste osservazioni è quello di evidenziare, sia pur sinteticamen-te, in che misura alcune moderne problematiche fossero presenti o percepite nel Medioevo e come furono affrontate mediante l’evoluzione culturale e le cono-scenze tecnico-scientifiche.

Appare oggi scontato lo stretto rapporto delle malattie e della durata stessa della vita umana con le misure igieniche in materia di approvvigionamento idri-co, alimentazione, smaltimento dei rifiuti, inquinamento dell’ambiente. Anche nei secoli medievali si comprese l’importanza di queste problematiche, si elabo-rarono criteri, si emanarono normative e si legiferò in materia.

Per esempio l’acqua, fondamentale per la sopravvivenza, essenziale per l’agri-coltura e per le molteplici attività artigianali svolte dall’uomo, fu un bene pre-zioso e non facilmente disponibile. In particolare poi, disporre di acqua potabile, considerate le difficoltà per depurarla e conservarla, non era facile. In genere si usava con sospetto dal momento che, secondo un’opinione diffusa, da un’acqua contaminata si potevano contrarre numerose malattie. È noto ormai come rara-mente nel Medioevo ci si dissetava bevendo acqua pura, mentre la si aromatiz-zava con erbe, miele, aceto, si mesceva con il vino e si impiegava per fare la birra, una bevanda alcolica diffusa e prodotta nelle abbazie dell’Europa settentrionale, che le hanno dato spesso il loro nome. Occorre sottolineare che le conoscenze

4 C.M. Cipolla, Storia economica dell’Europa pre-industriale [1974], Bologna, il Mulino, 2002, pp. 100-101.

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tecnologiche dei Romani sulle acque, nella tarda antichità, vennero raccolte dai monaci i quali svolsero la grande funzione di conservarle e tramandarle. D’altra parte, a differenza della cultura greco-romana, l’impiego dell’acqua per l’igiene personale fu carente o addirittura quasi respinto dalle stesse regole monastiche che ne riconoscevano soprattutto il beneficio in caso di malattia del monaco5. In generale nel cristianesimo il conflitto tra lo spirito (l’anima) e la materia (il cor-po) fu una realtà che influenzò gli aspetti della vita quotidiana. Per questo moti-vo lavare il proprio corpo finì per essere considerato un indice di indebolimento e addirittura dannoso per la salute stessa della persona, oltre che un indice di licenziosità dei costumi. Le convinzioni religiose, unite alle errate credenze dei medici del tempo, finirono per stravolgere l’uso dell’acqua per scopi igienici a tal punto che prendere cura dell’igiene individuale sarà una lentissima conquista dei tempi moderni. Per altro verso, proprio nei secoli medievali, si diffuse l’impiego dei bagni in acque termali, perché le aque calide erano ritenute medicamentose e quindi consigliate per curare le più varie malattie. Così il termalismo si sviluppò soprattutto in Toscana, una terra ricca di queste sorgenti.

Per quanto riguarda le più elementari norme igieniche da seguire nelle pre-parazioni alimentari, già nel Capitulare de villis, tradizionalmente attribuito a Carlo Magno (IX sec.), un capitolo ordinava di osservare la massima pulizia nella lavorazione manuale di alcuni prodotti: «Si provveda con tutto lo zelo possibile a quanto preparato con le mani: il lardo (lardum), la carne affumica-ta (siccamen), gli insaccati (sulcia), la carne salata (niusaltus), il vino (vinum), l’aceto (acetum), il vino di more (moratum), il vino cotto (vinum coctum), la salsa a base di pesce (garum), la senape (sinape), il formaggio (formaticum), il burro (butirum), il malto (bracios), la birra (cervisas), l’idromele (medum), il miele (mel), la cera (ceram), la farina (farinam), siano tutti preparati e confezio-nati con la massima pulizia (cum summo nitore sint facta vel parata)»6.

Durante il pieno e il basso Medioevo, negli ordinamenti statutari delle va-rie città italiane ed europee si ritrovano anche disposizioni specifiche relative all’alimentazione che avevano lo scopo sia di evitare fenomeni di accaparra-mento, dannosi per l’economia, sia di tutelare il consumatore da eventuali frodi

5 L. Galoppini, L’uso dell’acqua nella vita monastica medievale, in Sorella acqua: l’acqua nelle culture e nelle religioni dei popoli, a cura di G. Casiraghi, Atti del XIII Convegno Sacrense (Ab-bazia San Michele della Chiusa, 24-25 settembre 2004), Stresa, Edizioni Rosminiane Sodalitas, 2005, pp. 153-176.

6 B. Fois, Il Capitulare de villis, Milano, Giuffrè, 1981, cap. XXXIV, pp. 124-125.

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e proteggerlo anche dalle possibili intossicazioni alimentari. Si cercava di ga-rantire, ovviamente secondo gli standard e le conoscenze del tempo, la maggior sicurezza alimentare possibile per la tutela della salute. Per esempio, ricorrente era il divieto di lavorare e vendere le carni degli animali morti per cause natu-rali, e, per questo tipo di reato, le sanzioni previste erano molto dure. A Pisa, gli statuti (1287) ammettevano gli animali in città per la vendita, ma al tempo stesso proibivano di farli scorrazzare liberi per le strade, in particolare i porci.

I suini rappresentavano una risorsa nell’alimentazione familiare, in generale povera di grassi, ed erano allevati anche presso le abitazioni, con l’obbligo di tenerli chiusi in un recinto. Le norme molto spesso venivano eluse, come leggia-mo nei bandi lucchesi (1346) che invitavano i cittadini a non tenere, in città o nei borghi murati, suini «contro la forma degli statuti». Invece, era permesso lasciarli liberi dopo il mercato perché mangiando gli scarti agivano come aiu-tanti netturbini. Nel 1296 il vincitore dell’appalto della gabella della nettezza pubblica del Comune di Siena era incaricato di raccogliere i rifiuti facendosi aiutare da «una scrofa e quattro maialetti».

Si dettavano anche norme per conservare i prodotti alimentari, evitando il deterioramento o l’attacco di parassiti e proibendone in questi casi la vendita. Inoltre, si avvertiva la necessità di limitare, specialmente nell’area cittadina più densamente popolata, i danni causati dagli spurghi delle lavorazioni artigianali e di non inquinare le acque – a Firenze e Pisa quelle del fiume Arno – con i ri-fiuti dei conciatori, dei tintori e quelli prodotti dalla macellazione degli animali o dalla pulitura dei pesci.

La scelta di analizzare alcuni aspetti della conservazione e distribuzione degli alimenti con esempi di ambito toscano è giustificata dal fatto che consideriamo un territorio dove vi fu, com’è noto, uno sviluppo urbano connesso con l’afferma-zione straordinaria delle classi mercantili, ma anche un’economia di tipo agrario nelle campagne circostanti7. I commerci erano al centro dell’attività dei mercanti già agli inizi del Duecento con la partecipazione alle fiere della Champagne e, poi, attraverso una capillare presenza nei principali centri economici non solo italiani, dove esercitarono la mercatura ma anche l’arte del cambio e della banca8.

7 G. Cherubini, Signori, contadini, borghesi. Ricerche sulla società italiana del Basso Medioevo [1974], Firenze, La Nuova Italia, 1977; G. Pinto, La Toscana nel tardo medioevo. Ambiente, econo-mia rurale, società, Firenze, Sansoni, 1982.

8 Di una vastissima bibliografia si ricordano i classici studi di A. Sapori, Studi di storia econo-mica. Secoli XII -XIV XV [1940], Firenze, Sansoni, 1982, voll. I-II e 1967, vol. III.

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Riguardo alla funzione dei mercanti nell’ottica di un’utilità pubblica merita ricordare le osservazioni di San Bernardino da Siena (1380-1444). Noto come implacabile fustigatore dei costumi, fu anche un acutissimo osservatore della vita economica del suo tempo e rivendicò l’importanza dell’arte mercantile (se svolta onestamente) per «conduciare e fare arecare de le mercantie che sono in longhi paesi», per «condurne dove non n’è», con lo scopo di conseguire «il ben comune». Gli esempi sono significativi: «Come si vede chiaramente, qui a Siena non ci ha pepe: è ben comune a recarne e farne conduciare. Tu vedi bene che e’ non ne nasce per questi paesi, e se bene ce ne nascesse, è bene di farcene venire. Come talvolta è stato, che con tutto che ci nasca [venga prodotto] gra-no, olio, vino e de l’altre cose, se ce ne fusse carestia, è bene comune arecarne». E quindi, Bernardino ribadiva e giustificava la liceità dei traffici internazionali: «Così vo’ dire dell’altre mercantie: come s’è la lana di san Matteo [da San Mateo in Catalogna], de la francesca [di Francia], d’Inghilterra e di molti al-tri paesi: egli n’è là assai, e non n’è qua», concludendo che «quando c’è de la mercantia che non è di là, è molto bene che di questa qui vada là, e di quella là venga qua. Tutto questo è bene comuno, ed è lecito»9.

Gli uomini d’affari erano ovviamente molto attenti a valutare la merce da ac-quistare e a conservare quello che costituiva il loro capitale da vendere e rinvestire. Queste semplici operazioni economiche (acquisto, conservazione, vendita) fini-rono per contribuire, direttamente o indirettamente, a privilegiare o sviluppare alcune tecnologie, a svolgere un ruolo evolutivo nel settore dei commerci. I generi alimentari, quotidianamente necessari, rappresentavano un’attività di compra-vendita costante ma difficile per la deperibilità dei prodotti che causava non solo gravi perdite economiche ma anche danni alla salute dei consumatori. Scarne ma significative le parole di San Bernardino relative alle conseguenze della vendita di pesce non fresco: «Quando elli è corrotto, mai nol debbi vendare, però che tu metti a pericolo chi ne mangia». Al vero mercante non restava altro che «prima gittarla, che vendarla tal mercantia corrotta»10. Non si tratta di indicazioni di ti-po moralistico-religioso ma di osservazioni essenziali per un corretto sviluppo del commercio, e quindi con una ricaduta generale anche per l’economia, volte pure a salvaguardare i dettami basilari di prevenzione primaria della salute.

9 Bernardino da Siena, Prediche volgari sul campo di Siena 1427, a cura di C. Delcorno, 2 voll., Milano, Rusconi, 1989 (Collana Classici italiani per l’uomo del nostro tempo diretta da V. Branca), vol. II, Predica XXXVIII, p. 1133.

10 Ibid., vol. II, Predica XXXVIII, p. 1125.

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il modo a conservarle più che si può

Le prime tecniche alimentari potenziate dall’arte della mercatura furono volte a conservare i prodotti commestibili dopo opportuna lavorazione (essiccare, fermentare, cagliare o trattare con sale, zucchero, aceto, fumo), a confezionarli in contenitori idonei a garantirne il trasporto rapido e il più possibile sicuro (via terra, via mare o lungo corsi d’acqua). La documentazione scritta, unita alle fonti iconografiche e archeologiche, attesta che si commerciavano numerosi tipi di merci (materie prime, manufatti, oggetti preziosi, ecc.) e, tra queste, una voce importante era riservata ai prodotti alimentari, anche a quelli più facilmente deperibili (frutta fresca).

Negli ambienti mercantili nacquero le Pratiche di mercatura, libri paragonabi-li a utili guide in costante aggiornamento, necessarie per lo svolgimento dell’arte mercantile e bancaria. Una tra le più famose è quella del fiorentino Francesco Balducci Pegolotti che, nei primi decenni del Trecento, viaggiò per affari attra-verso i maggiori centri economici per conto delle grandi compagnie dei Bardi e dei Peruzzi11. All’inizio del libro, si enunciano i principi essenziali che giustifica-vano le raccolte di informazioni indispensabili per un uomo d’affari:

In Nomine Domini, Ammen. Questo libro è chiamato Libro di divisamenti [spiega-zioni] di paesi e di misure di mercatantie e d’altre cose bisognevoli di sapere a merca-tanti di diverse parti del mondo, e di sapere che usano le mercatantie e cambi, e come rispondono le mercatantie da uno paese a un altro e da una terra a un’altra, e simile s’intenderà quale è migliore una mercatantia che un’altra e d’onde elle vengono e mo-sterreno il modo a conservarle più che si può.

Leggiamo quindi le semplici regole per il successo della mercatura, tra le quali fondamentale era la dimestichezza con le merci da acquistare (e da riven-dere), la maniera per conservarle il più a lungo possibile e nel modo migliore. Si prendevano in esame le importanti materie prime necessarie nelle varie lavo-razioni dei settori artigianali, quali allume, cotone, indaco, robbia, rame, seta, ecc., come le preziose spezie e alcuni generi alimentari. Il Pegolotti dedicava ampio spazio a far «conoscere le mercatantie», descrivendo attentamente le merci, «come vogliono essere fatte e quello che vogliono avere in loro ad essere

11 Francesco Balducci Pegolotti, La pratica della mercatura, edited by Allan Evans, The Medie-val Academy of America, Cambridge, Massachusetts, 1936, p. 3.

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buone», indicando il periodo della loro validità, se correttamente conservate e salvaguardate, in generale dall’umidità12.

Il pepe tondo, per esempio, se durante il viaggio «per acqua o per terra puote cadere in acqua e bagnarsi», andava steso al sole ad asciugare, mescolato con una certa quantità di pepe asciutto, e poi lasciato il tutto nuovamente sotto il sole. Così quando era «secco e asciutto sì lo si rinsacca ed è guarito», e una volta così ben conservato poteva durare tanto a lungo, «dura 40 anni sanza guastarsi, pure ched e’ sia ben guardato e bene tenuto, e none in luogo bagnato né troppo umido». La cannella poteva essere conservata fino a un decennio, ma «in casse o in sporta di cuoia ben fasciate che non perda l’olore suo», e in luo-ghi non «umidi né troppo asciutti». Le forme (pani) dello zucchero non dove-vano bagnarsi o stare troppo all’umido perché allora «per lo bagnarsi o per la troppa umiditade che riceve sì diviene il pane dove dè essere e da costa e dentro la sua pasta dura e ischietta sì diviene umida e isfarinacciola; e per lo medesimo modo per umidità diventa rilento, e toccandolo col dito troverrai che sente del-lo isfarinacciolo». Si davano indicazioni particolareggiate per la conservazione in appositi ambienti:

E guardati da non tenerlo in terreno né in luogo umido né all’aria, ma vuolsi tenere in solaio cioè in palco colle finestre bene chiuse e il zucchero bene fasciato di sotto e da costa e di sopra, e di buone stuoie grosse e asciutte, e per questo modo si salva bene, e spezialmente in paesi caldi e secchi, ma in paesi freddi e umidi si vuole guardare e guardasi in istufe secche e asciutte e calde temperatamente fatte in solaio ad alti e none in terreno.

Dello zafferano, in particolare prodotto a San Gimignano, che era ritenuto il migliore rispetto a quello raccolto in Abruzzo e Catalogna, si ricordava che po-teva durare se conservato «in sacca di cuoia e non di canovaccio, però che si sal-va meglio in suia bontade», in luogo «né troppo umido né troppo asciutto». Per riconoscere la sua validità il compratore doveva guardare il colore e valutare alcune qualità, qualunque fosse stata la provenienza dello zafferano:

Ma d’onde che sia vuol essere rosso colorito e secco asciutto, che non tenga troppo femminella gialla nè altro male tenere, e che quando lo strigni colla mano e poi apren-do la mano che non ti rimanga appallozzolato ma rigonfi come cosa asciutta, e che

12 Francesco Balducci Pegolotti, La pratica della mercatura, cit., pp. 360-383.

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non tenga sabbione, e di ciò ti puoi avedere: arrecalo in sun uno tagliere e colla mano leggiermente lo scuoti sopra lo detto tagliere e leva il zafferano, e se terrà sabbione, cioè rena, o altro tenere grave, rimarrà in sul tagliere sicché il potrai vedere.

In un’epoca pregalileiana la misurazione dei parametri relativi al calore, all’umidità, al freddo fino al congelamento, si basava su descrizioni difficili per noi da quantificare ma comprensibili per coloro che li conoscevano tramite un’esperienza acquisita con la pratica del mestiere. Per i prodotti alimentari, in particolare, si faceva riferimento e si descrivevano le proprietà ritenute più qualificanti ed essenziali, cioè il colore, la dimensione, la forma, l’odore e il sapore. Il deterioramento per l’umidità si legava anche al problema di smasche-rare le frodi, in quanto alcuni prodotti, come i cereali, finivano per aumentare di peso. Una pratica condannata dalle leggi cittadine e ritenuta immorale. San Bernardino tuonava contro il «mercatante che teneva la sua mercantia all’umi-do, perché pesasse di più», proprio con l’esempio della vendita dello zafferano adulterato, truffa che doveva essere assai comune13. Nel Breve Pisani Communis (1286) un capitolo si occupava della sua adulterazione, prima dei panni con-traffatti14.

In secoli tanto lontani ancora dall’industrializzazione e dalla nascita otto-centesca dell’industria alimentare, con queste rudimentali, semplici ma efficaci norme, si iniziò a far fronte alla richiesta per un consumo di massa di alcuni prodotti quali cereali, sale, vini, formaggi, carni salate, ecc. Le prime risposte adeguate arrivarono dallo sviluppo delle tecnologie, come l’estrazione, la mo-litura (mulino ad acqua), e in seguito dalla stessa conservazione e dal confezio-namento. In un’epoca lontanissima dai containers frigoriferi la salvaguardia di un prodotto e la diffusione sui mercati, quindi il suo successo, erano dovute a questi fattori.

Ad esempio, per quello che oggi possiamo definire il problema del confezio-namento, anche allora indispensabile ai trasporti a dorso di animali, su carri e imbarcazioni, vi fu una progressiva ricerca dei materiali più idonei (legno, ter-racotta, vetro, stoffa) e delle forme più convenienti dei contenitori. Nel Medio-evo, i recipienti divennero talora l’unità di misura che variava, anche nel nome,

13 Bernardino da Siena, Prediche volgari sul campo di Siena 1427, cit., vol. II, Predica XXXVIII, p. 1117.

14 Breve Pisani Communis, in Statuti inediti della città di Pisa dal XII al XIV secolo, a cura di F. Bonaini, 3 voll., Firenze 1854-1870, vol. I, p. 378, rubr. XIIII.

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di paese in paese15. Così, nelle pratiche di mercatura ricorrono costantemente le equivalenze delle botti, dei barili, dei caratelli sulle diverse piazze mercantili. Vi era anche il contrassegno dei mercanti (signum mercatorum), una sorta di etichettatura della merce, non per indicarne la tipologia ma con lo scopo di individuare il proprietario o meglio la Compagnia, cioè l’associazione stipulata temporaneamente fra i mercanti, gli armatori e, in generale, gli uomini d’affari. Questi signa si incontrano spesso nella documentazione mercantile scritta e, talora, anche nelle immagini. Ben nota è quella a Siena dell’affresco del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti: sulle balle trasportate a dorso di due muli, si vedono le marche della compagnia a cui appartenevano, mentre lasciavano la città attraversando il ponte. La scena si svolge in una campagna dove regna la pace, condizione indispensabile per un’attiva vita cittadina, una fiorente agri-coltura e un proficuo svolgersi dei commerci.

Al contrario, la guerra, le carestie e le pestilenze erano tra i flagelli catastro-fici più temuti, come ci rivela la nota invocazione medievale «A peste, fame et bello libera nos, Domine». Era diffusa la convinzione che fosse Dio a punire o premiare gli uomini per le loro azioni, attraverso cattivi o buoni raccolti, quindi con fame e malattie o con la prosperità e il benessere. Il problema delle carestie e dell’ambita abbondanza era diffuso e ben presente nelle società di allora e nelle città comunali toscane16. Ciononostante per evitare anche l’aumento dei prezzi sui mercati dopo le carestie, si provvedeva a immagazzinare i preziosi cereali sal-vaguardandoli dall’umidità, dai parassiti e dall’attacco dei topi. Domenico Lenzi detto il Biadaiolo, ovvero il venditore di biade (cereali e legumi), fu testimone delle conseguenze drammatiche per la popolazione di Firenze causate dalla man-canza dei grani, e quindi del pane. Concepì allora un particolarissimo libro, lo Specchio umano meglio noto come il Libro del Biadaiolo, dove fece annotare le vertiginose impennate e le oscillazioni dei prezzi dei cereali sul mercato fiorenti-no di Orsanmichele fra il giugno 1320 e il novembre 1335, corredandolo di mi-niature e di composizioni volte a far ricordare la caducità dei guadagni terreni e

15 Per considerazioni generali, cfr. A.I. Pini, Alimentazione, trasporti, fiscalità: i «containers» medievali, in «Archeologia medievale», VIII, 1981, pp. 173-182; per i contenitori del vino, cfr. H. Zug Tucci, Un aspetto trascurato del commercio medievale del vino, in Studi in memoria di Fede-rigo Melis, vol. III, Napoli, Giannini, 1978, pp. 311-348; su Pisa, cfr. M. Luzzati, Note di metrolo-gia pisana, in «Bollettino Storico Pisano», XXXI-XXXII, 1962-1963, pp. 191-220.

16 Tra abbondanza e carestia. Per una storia dell’alimentazione lucchese dal Medioevo al XIX se-colo, catalogo a cura di M. Brogi, Lucca, Istituto Storico Lucchese - Ministero per i Beni Culturali ed Ambientali, Archivio di Stato di Lucca, 1995.

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il rapido mutare della fortuna mercantile legata anche a fattori non previsti17. Per esempio, dopo l’alluvione del 1333 si era recato a controllare i prezzi del grano in Santo Spirito, constatando che erano straordinariamente lievitati. Interessante leggere la varietà dei grani provenienti non solo dal contado fiorentino o dalla Toscana, ma anche da luoghi più lontani, come la Sicilia. Testimonianze di un commercio su vasta scala e che vide una costante specializzazione nella conserva-zione, nello stoccaggio e nei trasporti. Di ciò restano famosi esempi pittorici co-me la scena dello scaricamento dei grani dalle navi ancorate nella rada del porto, che è una delle quattro storie di Nicola di Bari dipinte da Ambrogio Lorenzetti e oggi conservate alla Galleria degli Uffizi di Firenze.

Furono i progressivi e decisivi sviluppi dei trasporti navali, degli strumenti per le lavorazioni agricole, dei nuovi tipi di contratti commerciali (lettera di cambio, assicurazione, ecc.), che portarono alla inarrestabile rivoluzione commerciale che si svolse nei secoli medievali. Tuttavia, se «una rivoluzione economica non ha contorni così netti come una rivoluzione politica», non per questo è meno importante nella lunga durata fino a incidere e modificare profondamente la società18. L’incremento di una produzione artigianale, sempre più di tipo prein-dustriale, volta ai commerci su larga scala svolse una funzione catalizzatrice delle tecnologie più diversificate, tra le quali un ruolo particolare fu quello nei rappor-ti diretti alle elaborazioni necessarie alla conservazione dei cibi.

Di qualunque parte

In generale, la conservazione degli alimenti per tutto il Medioevo (e oltre) era particolarmente difficile, anche per i prodotti lavorati di non rapido deterio-ramento come i formaggi, il lardo, i prodotti salati o affumicati (pesci e carni). Questi in particolare erano prodotti nutrienti che sopportavano bene i costi di trasporto e (grazie alla conservazione con la salatura) raggiungevano mercati molto distanti dal luogo di produzione. Il sale, una tra le «merci povere» – se-condo la definizione di Armando Sapori – costantemente richiesta sui mercati fu al centro di importanti scambi e alimentò, nei secoli, traffici intensi nel Me-

17 Edito da G. Pinto, Il Libro del Biadaiolo. Carestie e annona a Firenze dalla metà del ’200 al 1348, Firenze, Leo S. Olschki, 1978.

18 R.S. Lopez, La rivoluzione commerciale del Medioevo [1971], Torino, Piccola Biblioteca Einaudi, 1975, p. 109.

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diterraneo occidentale e orientale, a tal punto da essere considerato dagli storici un indicatore generale del livello dell’attività economica19.

Nelle città si formarono categorie di lavoranti artigianali specializzati in tecniche alimentari semplici nella lavorazione, ma sostanzialmente analoghe a quelle dei tempi moderni, le quali preparavano cibi altamente proteici, fonda-mentali per integrare una dieta in genere povera di grassi.

La salatura permise così la conservazione di prodotti richiesti e altrimenti non disponibili, come avvenne per i pesci salati. In generale il consumo dei prodotti ittici (freschi o salati) era molto elevato perché favorito dai divieti religiosi per la quaresima, i giorni di venerdì e di altre particolari occasioni. Il pesce quindi giungeva anche dai mari più lontani: nella Pratica di mercatura del Pegolotti, per quanto riguardava le aringhe che si pescavano «nel Mare Miano [del Nord] intra Inghilterra e Fiandra», il mercante doveva tenere presente, al momento dell’acquisto, che fossero «novelle della insalatura l’anno medesi-mo», oltre a essere «grandi e con grossa schiena, e la loro pelle di fuori colorita rossetta, e di buono odore secondo odore d’aringhe». Si trattava di merce che conosceva una forte e costante domanda, come ci mostrano i vari manuali di mercatura tra i quali ricordiamo quello di Saminiato de’ Ricci, redatto in Geno-va ma di ambito fiorentino (1396), dove è riportato il costo del trasporto delle aringhe da Bruges fino a Porto Pisano20.

Grazie alla tecnica della salatura si potevano commerciare gli storioni del Volga – più erano di grosse dimensioni tanto maggiore era la loro qualità – per i quali era previsto un percorso via terra e via mare, come scriveva il Pegolotti, prima di giungere sul mercato di Costantinopoli: «Istorioni insalati, cioè schie-nali d’istorioni che vengono dal Mare del Sara [Mar Caspio] e di là vegnono per terra infino alla Tana [Mar d’Azov] e dalla Tana per lo Mare Maggiore [Mar Nero] infino in Pera e Gostantinopoli, e vogliono essere grandi e grossi e di buono odore secondo schienali; e quanto più sono grandi e più grossi e più coloriti in colore rossetto buio tanto sono meglio». Francesco Datini, il famoso mercante di Prato, ci lascia la testimonianza dello smercio di questo prodotto, come leggiamo in una lettera inviata da Firenze, il primo aprile 1394,

19 A. Sapori, I beni del commercio internazionale, in Studi di Storia economica, cit., vol. I, pp. 540-568; C. Manca, Aspetti dell’espansione economica catalano-aragonese nel Mediterraneo occi-dentale. Il commercio internazionale del sale, Milano, Giuffrè, 1966; J.-C. Hocquet, Le saline dei Veneziani e la crisi del Tramonto del Medioevo, Roma, Il Veltro, 2003.

20 A. Borlandi, Il manuale di mercatura di Saminiato de’ Ricci, Genova, Distefano, 1963, p. 129.

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alla moglie Margherita avvertendola che attendeva le bottarghe (uova di pesce essiccate), mentre aveva già consegnato gli storioni salati: «Io atendo parecche buttarghe da Pisa, ogi o domane; chome l’avesse, ti manderei delle buttarghe e de’ chapari [capperi] per meser Piero. A monna Simona mandai ieri ischinale di storione, e in questa ora ne mando uno alla donna di Nofri Palla»21.

Infine, la tonnina, largamente richiesta e consumata, era ottenuta dai filetti del tonno messi sotto sale, ma, segnalava il Pegolotti, «vuol essere fresca della insalatura dell’anno che si fa, e vuol essere di buono odore secondo tonnina, et non vuol essere né putente né fracida; e quanto è più fresca e di migliore odore, tanto è migliore». La tonnina era una merce facilmente deperibile per la quale occorrevano, per conservarla più a lungo, ripetuti trattamenti con il sale perché essa tendeva a seccarsi nei barili, e si avvertiva il mercante che «ene mercantia dangerosa a guardare e che molto s’asciuga ne’ barili, sì si vuole spesso rinfresca-re di salamoia, e non vuole sentire di rancico»22.

La salatura fu importante anche per le carni. A Pisa fin dal 1179 e nei primi decenni del Duecento si attesta la presenza del mestiere di lardaiolus o lardari-us, termini testimoniati in altre città insieme a porcatores, salaterii, salaroli, per indicare coloro che sapevano in particolare tagliare e salare la carne del maiale, separare il lardo e metterlo sotto sale. Sul mercato pisano giungeva «lardo fo-restieri di qualunque parte», «sevo spagnolo colato», «sevo di Romania», «sungna d’ogni parte», a testimonianza di un commercio internazionale del prodotto in uno dei maggiori centri portuali del Mediterraneo. In particolare poi, considerati i legami commerciali antichi e privilegiati con il porto di Ca-stello di Castro (Cagliari), a Pisa giungevano grandi quantità di carni salate e di «sevo sardesco»23.

Un altro alimento diffuso e destinato al commercio all’ingrosso e al detta-glio sui mercati fu il formaggio e, in generale, negli statuti delle gabelle toscane tornano frequenti le annotazioni dei più vari caci. Si trattava di un prodotto che

21 Le lettere di Francesco Datini alla moglie Margherita (1385-1410), a cura di E. Cecchi, Pra-to, Società Pratese di Storia Patria, 1990 (Biblioteca dell’Archivio storico pratese, 14), lett. n. 41, p. 93; lett. n. 42, p. 97.

22 Francesco Balducci Pegolotti, La pratica della mercatura, cit., p. 380.23 L. Galoppini, Commercio di carne salata e lardo dalla Sardegna durante il Trecento, in Dal

mondo antico all’età contemporanea. Studi in onore di Manlio Brigaglia offerti dal Dipartimento di Storia dell’Università di Sassari, Roma, Carocci Editore, 2001, pp. 309-324; Ead., Pisa e la Sarde-gna, un legame millenario, in Pisa e il Mediterraneo. Uomini, merci, idee dagli Etruschi ai Medici, a cura di M. Tangheroni, Milano, Skira, 2003, pp. 209-215.

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reggeva bene il commercio a lunga distanza, anche se non mancano testimonian-ze indirette della sua deperibilità. Significativa in proposito è la scena dipinta nel ciclo trecentesco di affreschi del Camposanto Monumentale di Pisa di Andrea di Bonaiuto (o Andrea da Firenze), e narrata nella vita di Ranieri, santo patrono cittadino, appartenente al ceto mercantile: questi si recava nelle parti ultramarine per vendere formaggi quando, dopo alcuni giorni di viaggio, un puzzo insoppor-tabile invase la nave. L’accaduto viene spiegato simbolicamente, cioè non si trat-tava solo di formaggi andati a male, e quindi la perdita di un profitto, ma il volere divino indicava al Santo la via da proseguire lontana dai commerci e dai denari.

I formaggi erano al centro dei commerci a breve come a lunga distanza24. I registri delle gabelle cittadine ci mostrano le varie qualità toscane ma anche le provenienze da vari luoghi della penisola italiana e dalle isole, in particolare dalla Sardegna. Per quest’ultimo formaggio occorre ricordare la grande e capil-lare diffusione commerciale dovuta a una forte salatura che ne permetteva una più lunga conservazione25. Certamente i formaggi sardi furono tra i prodotti maggiormente esportati dall’isola verso i centri mediterranei, richiesti anche per il loro costo moderato, anche se giudicati qualitativamente «pessimi» da Pantaleone da Confienza nella sua Summa lacticiniorum (1477)26.

A Siena (secondo le gabelle del 1301-1303) giungevano «cascio di vacca o di bufalo o di pecora, o de lucardo [di Lucardo vicino a Colle Val d’Elsa], o de nostrano»; a Firenze, Pisa, Lucca, Pistoia come nei centri minori toscani, si consumavano i formaggi delle più varie qualità e provenienze, quali parmi-giano, marzolino toscano, detto anche «chacio di marzo», bufalini pisani, caciocavallo dell’Italia Meridionale, «cacio sardescho». Inoltre occorre con-siderare che l’allevamento del bestiame era, in varie aree della Toscana, una tra le attività principali, come per esempio nella zona dell’alta Maremma, nelle pendici dell’Amiata, o in quella della Valdichiana e del Casentino, con notevoli produzioni di carne e di latte e, di conseguenza, di prodotti caseari. Sul mercato di Arezzo giungevano formaggi da Caprese, Pieve Santo Stefano, Sansepolcro,

24 L. Galoppini, Produzione e commercio dei formaggi nella Toscana del Medioevo, in «Bollet-tino della Accademia degli Euteleti della città di San Miniato, Rivista di Storia-Lettere-Scienze ed Arti», n. 73, San Miniato al Tedesco, Tipolitografia Bongi, 2006, pp. 407-435.

25 F. Manconi, Per una storia del lavoro tradizionale, in Il lavoro dei Sardi, a cura di F. Manconi, Sassari, Edizioni Gallizzi, 1983, pp. 7-15.

26 Pantaleone da Confienza, Trattato dei latticini, a cura di E. Faccioli con un saggio di I. Naso, Bra, Arcigola Slow Food Editore, 2001, p. 116.

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Castello Elici, Carda. I dati nel catasto di Livorno (1427-1429) riportano quantità notevoli di bestiame ovino, bovino e bufalino, ciò che permette di ipo-tizzare una cospicua produzione di latticini.

Per quanto riguarda il vino gli esempi da portare sono numerosissimi perché si tratta della bevanda più richiesta e diffusa nel Medioevo, anche per il suo valore energetico27. I registri delle gabelle, delle dogane dei porti, gli statuti, gli atti privati ci mostrano un commercio quotidiano dei vini di produzione locale e di area mediterranea28. L’attenzione delle autorità era grande, sia per riscuote-re le tasse da un prodotto così capillarmente diffuso e quindi fonte di notevoli introiti, sia per evitare o punire le possibili e più diffuse frodi. Comunissima era quella del vino allungato o annacquato. Si ricorda, come uno fra i molti e pos-sibili esempi, la vicenda legata a un altro episodio affrescato nel Camposanto di Pisa da Antonio Veneziano, relativo alla vita di San Ranieri. Questi, sulla via del ritorno a Pisa, si fermò con la nave a Messina dove smascherò un oste disonesto facendosi versare il vino nel mantello-filtro, che lasciò passare l’acqua ma trat-tenne il vino. Invece, la benedizione del vino avvelenato, una delle Storie di San Benedetto dipinte da Antonio Pisano (detto il Pisanello), oggi a Firenze presso la Galleria degli Uffizi, ci rimanda a un altro tema, quello dell’avvelenamento delle sostanze, l’alterazione quindi per scopi delittuosi.

Nella documentazione scritta (registri doganali, delle gabelle, atti notarili, documenti delle compagnie, ecc.) il vino occupa una posizione dominante nei commerci di ogni giorno, ed è al centro delle normative per la tassazione e la regolamentazione tanto negli acquisti che nelle vendite fino al consumo nelle taverne. A Firenze l’Arte dei vinai era ben organizzata fin dal primo Duecen-to29. A Pisa il Breve Artis vinariorum (1303) mostra un’attenzione, comune a normative di altre città, per i recipienti (bariles mensuratores) marcati con il sigillo del Comune (cum sigillo aquile Pisani Communis) e dell’Arte per evitare

27 Era considerato una bevanda corroborante per gli eserciti, cfr. L. Galoppini, Vino e guerra: previsioni per il rifornimento di una campagna militare contro il Regno di Granada (1329), in Vin-yes I vins: Mil anys d’Història, Actes I Comunicacions del III Col·loqui d’Història Agrària sobre mil anys de producció, comerç i consum de vins i begudes alcohòliques als Països Catalans. Febrer del 1990, Barcelona, Universitat de Barcelona, 1993, vol. I, pp. 443-460.

28 F. Melis, I vini italiani nel Medioevo, a cura di A. Affortunati Parrini, Firenze, Le Monnier, 1984 (Istituto Internazionale di Storia Economica «Francesco Datini» - Prato, «Opere sparse di Federigo Melis» 7).

29 P. Nanni, Vinattieri fiorentini dalle taverne medievali alle moderne enoteche, Firenze, Edizio-ni Polistampa, 2003.

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possibili contraffazioni. Le frodi erano comunissime, come ci rivelano le invet-tive dei predicatori contro la pratica di usare «variati pesi e variate misure»30.

Inoltre il Breve evidenzia il ruolo della città nei trasporti per via marittima e fluviale, come per esempio quando si regolamentano gli acquisti di vino fatti «in aliquo marino portu, aut in mari», o relativi ai trasporti su imbarcazioni fuori dalla città, «ab Hera supra, et a flumine Cascine supra, et a Vicarello su-pra in terris Collinarum», cioè in zone di buona produzione vitivinicola31.

non si sciupano a stare così

Una volta giunti a destinazione i prodotti alimentari erano venduti poi al det-taglio nelle varie botteghe (pizzicagnoli, caciaioli, pesciaioli, ecc.) e venivano esposti sui loro banchi. Gli Statuti comunali toscani mostrano una grande at-tenzione non solo verso mugnai, venditori di grano e di biade, ma anche fornai, vinattieri, macellai, ortolani, venditori di uova e formaggiai. Si cercava di tenere sotto controllo, anche nelle vendite al minuto, la conservazione e i possibili im-brogli, comunque diffusissimi nel Medioevo come oggi32.

In definitiva la scrupolosa attenzione del mercante verso i prodotti alimenta-ri, che rappresentavano un investimento di capitale, traspare nei suoi molteplici aspetti anche dalla documentazione non strettamente di tipo economico. Al-cuni significativi e splendidi esempi ci vengono dalla lettura del ricco carteggio epistolare tra Francesco di Marco Datini (1335-1410), il famoso mercante di Prato precedentemente ricordato, e la moglie Margherita Bandini33. Il Datini si trovava spesso lontano da casa per seguire le sue aziende, impegnate in un giro di affari internazionale, e l’unico modo per ingannare la lontananza, essere a conoscenza di quanto avveniva a casa e conservare il controllo del complesso andamento domestico, era quello di scriverle quotidianamente: «Scrivimi a dì

30 Bernardino da Siena, Prediche volgari sul campo di Siena 1427, cit., vol. II, Predica XXXVIII, p. 1117.

31 Breve Artis vinariorum, in Statuti inediti della città di Pisa dal XII al XIV secolo, cit., vol. III, pp. 1101-1146, per le cit., rubr. VII, VIII, LXXIIII.

32 I falsi alimentari, Atti del convegno dell’Accademia Italiana della Cucina, Pisa, Edizioni ETS, 2008.

33 F. Melis, Aspetti della vita economica medievale (Studi nell’Archivio Datini di Prato), Firenze, Leo S. Olschki Editore, 1962 (Monte dei Paschi di Siena, Siena).

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a dì chome le chose passeranno e chosì farò io a tte»34. Tuttavia Margherita, da parte sua, lo richiamava spesso ai doveri di marito, ai loro problemi coniugali (non poterono avere dei figli), a condurre una vita meno impegnata nell’acqui-stare ricchezza e più volta agli affetti e dedicata più alla cura dell’anima; invano gli ricordava spesso che «se noi si pensasse alla morte e a quanto poco ci s’ha da stare a questo mondo, non ci daremmo tante pene quante ce ne diamo e ci lasceremmo governare da Lui [Dio] e di tutto resteremmo contenti»35.

In generale le lettere ci parlano dell’acquisto di prodotti alimentari non finalizzato soltanto alla vendita, ma anche rivolto al consumo personale, in un intreccio costante. D’altra parte il momento della tavola era quotidianamente importante, ma ancora più in occasioni di festa che si caricavano anche di signi-ficati simbolici. In questi casi il Datini si preoccupava di inviare, il più e il me-glio possibile, tutti gli alimenti necessari a Margherita in maniera che – scriveva – l’unica fatica fosse quella di mangiare, «e la chasa è in punto per modo che non s’arà avere faticha niuna se none nel mangiare»36.

Nella corrispondenza, i vini sono al centro dell’attenzione e delle preoccu-pazioni del ricco mercante, il quale scriveva alla moglie dandole disposizioni per le quantità da vendere, da riservare per il consumo della famiglia o da di-stribuire in beneficenza. Nel febbraio del 1385 scriveva da Firenze a Marghe-rita: «Se truovi da vendere quello che si marimise [che si iniziò], cioè il buono che si bee, fanne danari; e vendendo f(iorino) uno barile, vendi quella botte ch’ène a lato; non avendo f(iorino) uno dello barile, lascia istare quella botte piena: venderàsi una altra volta. Fae danari della marimesa [cioè della botte già iniziata] e di quello altro». Nella stessa lettera la informava che le avrebbe inviato una balla di aringhe e un «migliaio d’aranci». Margherita avrebbe dovuto venderne una metà e distribuire l’altra «a chi tti parà. Chosì farai delle aringhe; e se tti pare darai tutte, e aringhe e aranci, e lla magiore parte darai per Dio e l’altra metà ad amici e parenti, ed a ricchi ed a poveri, e io ti dirò in partte a chui, e poi, s’io dimenticho veruno che tti parà che sia bene fatto, fa-ra’lo tue chome ti parà»37.

34 Lettera del 3 gennaio 1409, in Le lettere di Francesco Datini, cit., lett. n. 173, p. 286.35 Lettera del 23 gennaio 1395, in Per la tua Margherita, scrittura della distanza: lettere di una

donna del Trecento al marito mercante, a cura di D. Toccafondi e G. Cascone, Prato, provincia di Prato, 2001, lett. n. 81, p. 44.

36 Lettera del 9 aprile 1395, in Le lettere di Francesco Datini, cit., lett. n. 63, p. 132.37 Lettera del 23 febbraio 1385, ibid., lett. n. 1, pp. 32-33.

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Una volta gli giunsero dei vini prodotti nel suo terreno intorno alla villa da lui fatta edificare [il Palco, sulla collina sopra Prato], ma evidentemente non in buono stato. Scrisse subito alla moglie chiedendole spiegazioni e se era stato fatto quanto aveva raccomandato:

Dinmi chome questo vino è chosì chanbiato, che bene dicho ch’io non so che nmi di-re di questi vini dello Palcho. Dinmi se questo vino è chanbiato per none avere tratto ongni dì o per altro, sechondo t’aranno detto chi ll’à sagiato; e fanne chome ti pare di riuscirnne, o di farllo bere alla familgla. Bene sarebe venuto male a punto se lla mal-vagìa [malvasia] e razese [vino prodotto nella riviera di Genova] se ne fosse rienpiuto chom’io avea detto38.

Francesco si preoccupava dei contenitori, anche di piccole dimensioni, per sapere se fossero stati eventualmente idonei alla conservazione del vino bianco, «dirai chome dura nello fiascho»39, oppure le scriveva «mandoti 1 fiascho di vino biancho, se ’l fiascho non si ronpe dinmi chome riesce chostà»40. In un’epoca ben lontana dagli sprechi quotidiani, i contenitori erano dei manu-fatti artigianali di un qualche valore che si cercava di riutilizzare, come faceva anche il ricco mercante che non tralasciava di aggiungere in una sua lettera, «mandoti la schatola dove véne il pane»41.

Dal mosto dell’uva, ancora acerba e lasciata fermentare al sole o bollita sino a renderla densa, si ricavava l’agresto diffuso in quei secoli per condimenti o bevan-de. Ecco i dettagli che il Datini dava per la sua conservazione, raccomandando di «tenere l’agresto soto il choperto, per modo che se piovése no si quastàse chome féccie quel d’ano: ogni sera il metete soto il teto del fondacheto a piè de l’uscio, e ’l boticino tenete i buò lugho che no vi piovése drento»42. Un’altra volta chiedeva alla moglie di inviargliene un fiasco da vendere perché «a Nicholò dell’Amanato è venuto meno l’agresto; pertanto fa di mandarne uno fiascho d’un quarto per lo primo amicho, e se tu vòi che ti si mandi dello acieto, il dì e farassi»43.

Anche Margherita, nelle sue lettere, rivelava un riguardo e una considera-zione non comuni verso quei beni che il marito, in sua assenza, le affidava e, in

38 Lettera del 5 maggio 1394, ibid., lett. n. 53, p. 112.39 Lettera del 20 luglio 1395, ibid., lett. n. 69, p. 139.40 Lettera del 23 luglio 1395, ibid., lett. n. 72, p. 145.41 Lettera del 19 agosto 1398, ibid., lett. n. 138, p. 242.42 Lettera del 6 agosto 1398, ibid., lett. n. 137, pp. 239-240.43 Lettera del 27 maggio 1394, ibid., lett. n. 61, p. 130.

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particolare, mostrava un’attenta cura per la conservazione dei generi alimentari. Non mancava di alterarsi se qualcosa andava a male e le cause non erano credute da Francesco, come nel caso dell’aceto annacquato non per colpa sua. Allora ribatteva alle domande e finiva per rimproverarlo con sarcasmo:

Dell’aceto non so perché tu me ne domandi, ché se io ti dicessi la verità non mi cre-deresti; s’è infradiciato l’aceto, non s’è infradiciato per colpa mia ma per il barile poco buono, e lo sa bene la Francesca che di quello che è venuto costà [da Firenze] tre anni fa non se n’è infradiciata una gocciola; e se s’è versato non s’è versato per colpa mia; eppure quest’anno t’avevo avvisato parecchie volte di tapparlo bene e tu l’hai saputo tappare così bene che se n’è versato mezzo (ma tu stesti cheto la mattina, perché tu eri stato te!)44.

Altre volte, invece, Margherita rassicurava l’ansioso marito particolarmente per quanto riguardava i vini, dei quali egli si mostrava un attento conoscitore, come quando le diceva «manderòvi di questo vino di Lucha biancho, ch’è mor-bido ed è un perfetto vino»45. La donna spesso gli scriveva di non preoccuparsi della conservazione dei vini e, come mostra questo bell’esempio, perché essi erano stati controllati, degustati e non modificati. Francesco, al suo ritorno, li avrebbe trovati in perfetto stato:

In nome di Dio, amen. Il 6 febbraio 1394. Da quando sei partito di qua non t’ho scritto mai perché non ce n’è stato bisogno. Questa è solo per informarti sui vini poi-ché ieri mattina sono stati qui Niccolò Martini e Biagio e ser Chimenti e Barzalone e Bernabò che hanno deciso di non toccarli per niente, se te non ne aggiungi dell’altro. Barzalone ti informerà di tutto quello che si deve fare, che lui è stato con loro. Ber-nabò ha assaggiato il vino razese e la malvasia e dice che non si sciupano a stare così finché tu torni46.

Infine, insieme alle cure per gli alimenti si rivelavano, indirettamente, anche altri aspetti, così come quando Francesco scriveva a Margherita a proposito dei formaggi che dovevano essere particolarmente buoni: «Io ti mando cinque forme di formaggio: voglionsi tenere in sun una tavola al frescho, e falle volgere spesso». Una tecnica ancora oggi utilizzata dai produttori di nicchia, talora

44 Lettera del 22 agosto 1398, in Per la tua Margherita, cit., lett. n. 168, p. 66.45 Lettera del 3 gennaio 1410, in Le lettere di Francesco Datini, cit., lett. n. 173, p. 286.46 Lettera del 6 febbraio 1394, in Per la tua Margherita, cit., lett. n. 24, p. 35.

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ponendo a maturare le forme su tavole di legno, cosparse di foglie perché si aro-matizzino. Però il Datini non sembrava convinto che a casa vi fossero le persone adatte a questa preparazione, per cui continuava subito dopo, «perché non v’é chi tte l’achonci, forse non te le manderò, ma recherònelo cho mecho». Poi un ripensamento: dato che il cacio era buono, alla fine desiderava che Margherita lo potesse assaggiare, «manderottene almeno uno, che n’abiate di che mangia-re». In questo caso l’attenzione verso il cibo si traslata affettuosamente alla per-sona che deve consumarlo. Il Datini rivelava indiscutibilmente un riguardo ver-so la moglie lontana, alla quale sapeva che piacevano i formaggi, un’attenzione filtrata però dall’ottica del mercante, tanto attento alla conservazione ottimale della merce come al suo consumo.

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