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L’occasione del nostro convegno Ecfrasi musicali. Parole e suono nel Ro- manticismo europeo mi consente di esporre qualche riflessione relativa ad alcune pagine leopardiane dedicate al melodramma, parte delle quali co- stituiscono un passaggio obbligato nelle biografie del poeta e nei pro- grammi di sala a riprova della sensibilità musicale di Leopardi e, di rifles- so, della qualità sublime della Donna del lago rossiniana. Come si vedrà, le ‘recensioni’ presenti nelle lettere unite ad altri passi obbligheranno a ri- considerare l’inclinazione leopardiana per l’opera lirica, un argomento che è stato già affrontato in vari contributi, ma sempre all’interno di un discorso più generale implicante Leopardi, la musica, l’estetica e il teatro. 1 Chiarisco subito che mi occuperò esclusivamente del melodram- 141 1 I testi sono ripresi da G. LEOPARDI, Tutte le poesie e tutte le prose e lo Zibaldone, a cura di L. Felici e E. Trevi, II ed., Newton Compton, Roma 2010 (= PPZ), e da G. LEOPARDI, Epistolario, a cura di F. Brioschi e P. Landi, Bollati Boringhieri, Torino 1998 (= Ep. seguìta dal numero d’ordine). Le principali voci bibliografiche su Leopardi e la musica sono: A. GRAF, Il Leopardi e la musica (1897), in Id., Foscolo, Manzoni, Leopardi, Chiantore, To- rino 1920, pp. 176-189; C. REBORA, Per un Leopardi mal noto (1910), a cura di L. Barile, Scheiwiller, Milano 1992; M. DE ANGELIS, Leopardi e la musica, Unicopli-Ricordi, Milano 1987; F. FOSCHI, Leopardi e la musica, Francisci, Abano Terme 1987; B. GALLOTTA, Musi- ca ed estetica in Leopardi, Rugginenti, Milano 1997; C.C. SANTORO, …e il suon di lei. La concezione estetico-musicale in Giacomo Leopardi, NoUbs, Chieti 1998; G. LEOPARDI, Tea- tro, edizione critica e commento di I. Innamorati, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1999; S. MARTINOTTI, La concezione musicale di Giacomo Leopardi, in Leopardi oggi. Incontri per il bicentenario della nascita del poeta (Brescia, Salò, Orzinuovi, 21 aprile - 23 maggio 1998), a cura di B. Martinelli, Vita e Pensiero, Milano 2000, pp. 171-184; M. BORTOLOTTO, Leopardi teorico, in Id., Corrispondenze, Adelphi, Milano 2010, pp. 403-407; S. NOCITI, L’esperienza musicale di Giacomo Leopardi, in “Rassegna europea di letteratura italiana”, 37 (2011), pp. 85-96. Altre indicazioni in M. DONDERO, “Cantando, con mesta melodia”. Il canto nei “Canti” di Giacomo Leopardi, in “Campi immaginabili”, 1 (2001), pp. 91-103, nelle note alle pp. 91-92. LUCA CARLO ROSSI Leopardi e il melodramma: un incontro mancato
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Leopardi e il melodramma: un incontro mancato

Feb 21, 2023

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Alberta Giorgi
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L’occasione del nostro convegno Ecfrasi musicali. Parole e suono nel Ro-manticismo europeo mi consente di esporre qualche riflessione relativa adalcune pagine leopardiane dedicate al melodramma, parte delle quali co-stituiscono un passaggio obbligato nelle biografie del poeta e nei pro-grammi di sala a riprova della sensibilità musicale di Leopardi e, di rifles-so, della qualità sublime della Donna del lago rossiniana. Come si vedrà,le ‘recensioni’ presenti nelle lettere unite ad altri passi obbligheranno a ri-considerare l’inclinazione leopardiana per l’opera lirica, un argomentoche è stato già affrontato in vari contributi, ma sempre all’interno di undiscorso più generale implicante Leopardi, la musica, l’estetica e ilteatro.1 Chiarisco subito che mi occuperò esclusivamente del melodram-

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1 I testi sono ripresi da G. LEOPARDI, Tutte le poesie e tutte le prose e lo Zibaldone, a curadi L. Felici e E. Trevi, II ed., Newton Compton, Roma 2010 (= PPZ), e da G. LEOPARDI,Epistolario, a cura di F. Brioschi e P. Landi, Bollati Boringhieri, Torino 1998 (= Ep. seguìtadal numero d’ordine). Le principali voci bibliografiche su Leopardi e la musica sono: A. GRAF, Il Leopardi e la musica (1897), in Id., Foscolo, Manzoni, Leopardi, Chiantore, To-rino 1920, pp. 176-189; C. REBORA, Per un Leopardi mal noto (1910), a cura di L. Barile,Scheiwiller, Milano 1992; M. DE ANGELIS, Leopardi e la musica, Unicopli-Ricordi, Milano1987; F. FOSCHI, Leopardi e la musica, Francisci, Abano Terme 1987; B. GALLOTTA, Musi-ca ed estetica in Leopardi, Rugginenti, Milano 1997; C.C. SANTORO, …e il suon di lei. Laconcezione estetico-musicale in Giacomo Leopardi, NoUbs, Chieti 1998; G. LEOPARDI, Tea-tro, edizione critica e commento di I. Innamorati, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma1999; S. MARTINOTTI, La concezione musicale di Giacomo Leopardi, in Leopardi oggi. Incontriper il bicentenario della nascita del poeta (Brescia, Salò, Orzinuovi, 21 aprile - 23 maggio1998), a cura di B. Martinelli, Vita e Pensiero, Milano 2000, pp. 171-184; M. BORTOLOTTO,Leopardi teorico, in Id., Corrispondenze, Adelphi, Milano 2010, pp. 403-407; S. NOCITI,L’esperienza musicale di Giacomo Leopardi, in “Rassegna europea di letteratura italiana”, 37(2011), pp. 85-96. Altre indicazioni in M. DONDERO, “Cantando, con mesta melodia”. Ilcanto nei “Canti” di Giacomo Leopardi, in “Campi immaginabili”, 1 (2001), pp. 91-103,nelle note alle pp. 91-92.

LUCA CARLO ROSSI

Leopardi e il melodramma: un incontro mancato

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ma considerato nel suo momento esecutivo, nella sua effettiva rappresen-tazione, nella sua viva pratica in teatro o in luoghi privati, per verificare lereazioni che l’opera lirica così intesa ha provocato nella scrittura leopar-diana e per comprendere le ragioni della sua sostanziale assenza nel mon-do espressivo di Giacomo Leopardi, la cui vita coincide con uno dei pe-riodi di massima espansione e affermazione del fenomeno operistico ita-liano inteso tanto come forma d’arte quanto come evento sociale dai ri-svolti mondani e politici.

Considero le attestazioni documentarie che contengano inequivocabilirinvii al melodramma agito ed escludo le rilevazioni critiche su elementivirtualmente melodrammatici dei versi leopardiani (per esempiol’andamento cantabile, quasi cabalettistico del Risorgimento), perché nonsostanziate da riscontri cronachistici e storici. È senz’altro credibile chel’attuale lista delle conoscenze operistiche di Giacomo possa allungarsi diqualche voce, così come è verisimile immaginare qualche sua altra parte-cipazione a esecuzioni private di arie o a rappresentazioni presso i teatri diRecanati, Senigallia o Ancona, oltre che quelli delle altre sue residenzeRoma, Milano, Bologna, Firenze, Pisa e Napoli; né mancano elenchi diascolti possibili negli studi consultati, talvolta sconfinanti in pure illazio-ni. Preferisco tuttavia attenermi solo a quanto risulta positivamente.

Giacomo non ha ricevuto, a quanto consta, una formazione musicale;dei tre fratelli maschi è il solo a non suonare uno strumento, mentre idue minori Carlo e Luigi si dedicano rispettivamente al pianoforte e alflauto, anche se solo quest’ultimo raggiunge un livello abbastanza avanza-to; nemmeno la sorella Paolina suona, ma apprezza la musica, e il melo-dramma in particolare, come sottolinea appena può e come risulta quasiin ogni missiva del suo carteggio con Marianna Brighenti, figlia di Pietro,cantante lirica di qualche notorietà, e con la sorella di lei Anna.2L’educazione ultra rigorista di impronta gesuitica impartita in casa Leo-pardi non prevede esecuzioni musicali nelle recite familiari natalizie e

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2 P. LEOPARDI, Lettere ad Anna e Marianna Brighenti 1829-1865, Andrea Livi Editore,Fermo 2012: da usare con cautela. Paolina si documenta soprattutto sui giornali, ama an-che i pettegolezzi dell’ambiente teatrale, possiede un ritratto del tenore divo Giovanni Ru-bini nel Pirata di Bellini, dono delle sorelle Brighenti, che tiene segreto (lettera 26 ad An-na del 3 settembre 1831, pp. 119-20: “Io non mi sazio di guardarlo e riguardarlo […] MaRubini non mi vuol cantare, ed io lo prego, lo scongiuro, ma mi sta sempre zitto, e peruna parte è anche bene, perché se mamà se ne accorge, poveretta me!”), ma raramente rie-sce a partecipare alle rappresentazioni per il divieto della madre Adelaide (si veda peresempio la lettera 13 a Marianna del 12 novembre 1830, p. 96): ha visto almeno un Bar-biere di Siviglia, assai probabilmente quello di ROSSINI (lettera 16 a Marianna dell’11 feb-braio 1831, p. 102), e l’Ernani di VERDI (lettera 129 ad Anna del 22 luglio 1846, p. 278).

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guarda con sospetto le melodie profane del melodramma;3 tuttavia inqualche modo il loro fascino agisce su Giacomo, se tra i primi Ricordid’infanzia e di adolescenza (stesi tra marzo e maggio 1819) egli recupera lasensazione di un’imprecisata “aria cantata da qualche opera”.

Scena dopo pranzo affacciandomi alla finestra, coll’ombra delletettoie il cane sul pratello i fanciulli la porta del cocchiere socchiusa lebotteghe ec., effetti della musica in me sentita nel giardino, aria can-tata da qualche opera. [PPZ, p. 1101]

Affiora tuttavia, sempre nei Ricordi, un segnale rivelatore dell’avvertitainsufficienza espressiva dell’aria operistica eseguita, ossia nel suo specificointreccio insolubile di parole e musica, quando Leopardi realizza, benchéin sogno, che la comunicazione degli “affetti” provati dalla regina MariaAntonietta, protagonista di una tragedia poi abbozzata, si sarebbe dovutaeffettuare esclusivamente mediante una “musica senza parole”.

tenerezza di alcuni miei sogni singolare movendomi affatto alpianto (quanto non mai maissimo m´è successo vegliando) e vaghissi-mi concetti come quando sognai di Maria Antonietta e di una canzo-ne da mettergli in bocca nella tragedia che allora ne concepii la qualcanzone per esprimere quegli affetti ch´io aveva sentiti non si sarebbepotuto fare se non in musica senza parole. [PPZ, p. 1102]

Impossibilitato a scrivere musica senza parole, Leopardi ripiega sulleparole in versi e affida le passioni di Maria Antonietta e di Carlotta a mo-nologhi che Stefano Verdino ha definito “quasi due arie”, per la compre-senza di stilemi alfieriani e librettistici, soprattutto per la replicata escla-mazione “Gran Dio!” da parte della regina in una scena per la quale lo

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3 Nei confronti del melodramma Monaldo Leopardi è diviso fra interesse (spontaneo)e rifiuto (indotto): nel 1797 partecipa al finanziamento di uno spettacolo d’opera in occa-sione delle sue nozze poi sfumate (Innamorati in LEOPARDI, Teatro, cit., p. 14); nel 1827vorrebbe andare a sentire gli allestimenti rossiniani al Teatro delle Muse di Ancona, ma èdi fatto impedito dal veto della moglie (Paolina scrive a Giacomo il 10 giugno 1827:“Avrai sentito anche costì il romore del teatro di Ancona, il quale ormai hanno vedutotutti i Recanatesi, non eccettuati i miei Fratelli. E anche a Babbo, se non fosse stato tantoimpicciato nella sua gonnella, era venuta voglia di andarci; ma niente”, Ep. 1090, p.1331). Nel 1835 condanna invece la blasfema inserzione nella musica sacra delle “ariescandalose del Figaro, le cadenze amorose della Malibran […] i trilli e le cadenze di Cene-rentola”, così che “l’uditorio si bea nelle armonie di Rossini” invece di celebrare Dio (DE ANGELIS, Leopardi e la musica, cit., p. 67): segni evidenti di una sua diretta conoscen-za dei pezzi rossiniani esecrati e della celebre cantante Maria Malibran.

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studioso ha segnalato “la possibile suggestione” di un’altra affine, ossiaquella di Amenaide in carcere nel Tancredi rossiniano su libretto di Gae-tano Rossi, pur avvertendo l’assenza di prove della diretta conoscenza leo-pardiana dell’opera, rappresentata per la prima volta a Venezia nel feb-braio 1812 e poi nei teatri più raggiungibili di Pesaro, settembre 1815, edi Macerata, agosto 1817.4 Di fatto gli stilemi comuni della langue dellatragedia e della librettistica sono presenti in questa prova teatrale dell’ap-prendista Leopardi, senza però offrire corrispondenze storicamente accer-tabili.

L’implicita insoddisfazione per l’abbinamento parole e musica comeforma espressiva viene resa palese in una pagina dello Zibaldone stesa at-torno al 1820, in cui, discutendo dell’imitazione nelle arti, Leopardi af-ferma che il canto umano che imita il discorso, come avviene nell’opera,è incongruo.

Quello che dice il Metastasio negli Estratti della poet. d’Aristot. ilGravina nel Trattato della tragedia dove parla del numero cap. 26. eho detto io nel Discorso sul Breme intorno alla materia dell’imitazio-ne la quale può esser ad arbitrio, come imitare in marmo in bronzo inverso in prosa ec. è vero: e quello che ho detto io specialmente mi parche sia vero senza eccezione: ma quanto al Metastasio poich’egli lo di-ce per difender l’Opera, bisogna notare che gli elementi della materianon debbon esser discordanti, che allora la imitazione è barbara: co-me forse si può dir dell’Opera dove da una parte è l’uomo vero e realeper imitar l’uomo, cioè la persona rappresentata, dall’altra è il cantoin bocca dell’uomo, per imitare non il canto ma il discorso della stessapersona. Questa osservazione (considerazione) si può estendere a mol-te altre materie d’imitazione mal composte. [Zib. 32; PPZ, p. 1480]

D’altra parte, si registra un elogio del canto umano capace di suscitarenell’anima effetti superiori a quelli del suono, purché provenga da uncantante dalla voce avvertita come bella.

La stessa distinzione che ho fatto tra gli effetti dell’armonia, equelli del suono in quanto suono, bisogna pur farla in quanto al can-to, giacchè la semplice voce di chi canta è ben diversa da quella di chiparla. E la natura ha dato al canto umano (parlo indipendentementedall’armonia e modulazione) una maravigliosa forza sull’animo del-

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4 S. VERDINO, Voci e personaggi in versi, in La dimensione teatrale in Giacomo Leopardi.Atti dell’XI convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati, 30 settembre-2 otto-bre 2004), Olschki, Firenze 2008, pp. 322-23. Sulla virtualità melodrammatica della tra-gedia Telesilla, sempre del 1819, cfr. INNAMORATI, in LEOPARDI, Teatro, cit., pp. 88-100.

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l’uomo, e maggiore di quella del suono. […] Infatti la più bella melo-dia non commuove eseguita da una vociaccia, per ottimamente ese-guita che sia; e viceversa ti sentirai tocco straordinariamente al primoaprir bocca di un cantante di bella voce, soave ec. che eseguisca la me-lodia più frivola, la meno espressiva, o la più astrusa ec. e l’eseguiscaanche male, e stuonando. E l’effetto stesso delle voci che si chiamanbelle, è relativo e varia secondo i diversi rapporti delle diverse qualitàdi voci, cogli organi de’ diversi ascoltanti. [Zib. 1721-22, 17 settem-bre 1821; PPZ, p. 1833]

Va sottolineato che questa considerazione sul canto è indipendente dalsuo contenuto verbale, dalle parole eventualmente presenti; anzi va intesacome da riferirsi a un canto senza parole. Del resto, la poetica del vago e del-l’indefinito mal si accorda con un contenuto semantico verbale del canto.

Anzi questa sarebbe la sorgente di una grand’arte e di un grandis-simo effetto proccurando quel vago e quell’incerto ch’è tanto propria-mente e sommamente poetico, e destando immagini delle quali nonsia evidente la ragione, ma quasi nascosta, e tale ch’elle paiano acciden-tali, e non proccurate dal poeta in nessun modo, ma quasi ispirate dacosa invisibile e incomprensibile e da quell’ineffabile ondeggiamentodel poeta che quando è veramente inspirato dalla natura dalla campa-gna e da checchessia, non sa veramente com’esprimere quello che sen-te, se non in modo vago e incerto, ed è perciò naturalissimo che le im-magini che destano le sue parole appariscano accidentali. [Zib. 26, di-cembre 1818; PPZ, p. 1477]

Da fanciulli, se una veduta, una campagna, una pittura, un suonoec. un racconto, una descrizione, una favola, un’immagine poetica, unsogno, ci piace e diletta, quel piacere e quel diletto è sempre vago eindefinito: l’idea che ci si desta è sempre indeterminata e senza limiti:ogni consolazione, ogni piacere, ogni aspettativa, ogni disegno, illu-sione ec. (quasi anche ogni concezione) di quell’età tien sempre all’in-finito: e ci pasce e ci riempie l’anima indicibilmente, anche mediantei minimi oggetti. Da grandi, o siano piaceri e oggetti maggiori, o queimedesimi che ci allettavano da fanciulli, come una bella prospettiva,campagna, pittura ec. proveremo un piacere, ma non sarà più similein nessun modo all’infinito, o certo non sarà così intensamente, sensi-bilmente, durevolmente ed essenzialmente vago e indeterminato. Ilpiacere di quella sensazione si determina subito e si circoscrive: appe-na comprendiamo qual fosse la strada che prendeva l’immaginazionenostra da fanciulli, per arrivare con quegli stessi mezzi, e in quellestesse circostanze, o anche in proporzione, all’idea ed al piacere inde-finito, e dimorarvi. Anzi osservate che forse la massima parte delleimmagini e sensazioni indefinite che noi proviamo pure dopo la fan-

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ciullezza e nel resto della vita, non sono altro che una rimembranzadella fanciullezza, si riferiscono a lei, dipendono e derivano da lei, so-no come un influsso e una conseguenza di lei; o in genere, o anche inispecie; vale a dire, proviamo quella tal sensazione, idea, piacere, ec.perchè ci ricordiamo e ci si rappresenta alla fantasia quella stessa sen-sazione immagine ec. provata da fanciulli, e come la provammo inquelle stesse circostanze. Così che la sensazione presente non derivaimmediatamente dalle cose, non è un’immagine degli oggetti, ma del-la immagine fanciullesca; una ricordanza, una ripetizione, una riper-cussione o riflesso della immagine antica. E ciò accade frequentissi-mamente. (Così io, nel rivedere quelle stampe piaciutemi vagamenteda fanciullo, quei luoghi, spettacoli, incontri, ec. nel ripensare a queiracconti, favole, letture, sogni ec. nel risentire quelle cantilene uditenella fanciullezza o nella prima gioventù ec.) In maniera che, se nonfossimo stati fanciulli, tali quali siamo ora, saremmo privi della massi-ma parte di quelle poche sensazioni indefinite che ci restano, giacchèla proviamo se non rispetto e in virtù della fanciullezza.

E osservate che anche i sogni piacevoli nell’età nostra, sebbene cidilettano assai più del reale, tuttavia non ci rappresentano più quelbello e quel piacevole indefinito come nell’età prima spessissimo. (16.Gen. 1821.). [Zib. 514-516; PPZ, p. 1598]

Quello che altrove ho detto sugli effetti della luce, o degli oggettivisibili, in riguardo all’idea dell’infinito, si deve applicare parimente alsuono, al canto, a tutto ciò che spetta all’udito. È piacevole per se stes-so, cioè non per altro, se non per un’idea vaga ed indefinita che desta,un canto (il più spregevole) udito da lungi, o che paia lontano senzaesserlo, o che si vada appoco appoco allontanando, e divenendo insen-sibile; o anche viceversa (ma meno), o che sia così lontano, in apparen-za o in verità, che l’orecchio e l’idea quasi lo perda nella vastità deglispazi; un suono qualunque confuso, massime se ciò è per la lontanan-za; un canto udito in modo che non si veda il luogo da cui parte; uncanto che risuoni per le volte di una stanza ec. dove voi non vi troviateperò dentro; il canto degli agricoltori che nella campagna s’ode suona-re per le valli, senza però vederli, e così il muggito degli armenti ec.Stando in casa, e udendo tali canti o suoni per la strada, massime dinotte, si è più disposti a questi effetti, perchè nè l’udito nè gli altri sen-si non arrivano a determinare nè circoscrivere la sensazione, e le sueconcomitanze. È piacevole qualunque suono (anche vilissimo) che lar-gamente e vastamente si diffonda, come in taluno dei detti casi, massi-me se non si vede l’oggetto da cui parte. A queste considerazioni ap-partiene il piacere che può dare e dà (quando non sia vinto dalla pau-ra) il fragore del tuono, massime quand’è più sordo, quando è udito inaperta campagna; lo stormire del vento, massime nei detti casi, quandofreme confusamente in una foresta, o tra i vari oggetti di una campa-gna, o quando è udito da lungi, o dentro una città trovandosi per le

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strade ec. Perocchè oltre la vastità, e l’incertezza e confusione del suo-no, non si vede l’oggetto che lo produce, giacchè il tuono e il ventonon si vedono. È piacevole un luogo echeggiante, un appartamento ec.che ripeta il calpestio de’ piedi, o la voce ec. Perocchè l’eco non si vedeec. E tanto più quanto il luogo e l’eco è più vasto, quanto più l’ecovien da lontano, quanto più si diffonde; e molto più ancora se vi si ag-giunge l’oscurità del luogo che non lasci determinare la vastità del suo-no, nè i punti da cui esso parte ec. ec. E tutte queste immagini in poe-sia ec. sono sempre bellissime, e tanto più quanto più negligentementeson messe, e toccando il soggetto, senza mostrar l’intenzione per cuiciò si fa, anzi mostrando d’ignorare l’effetto e le immagini che son perprodurre, e di non toccarli se non per ispontanea, e necessaria con-giuntura, e indole dell’argomento ec. V. in questo proposito Virg.Eneide 7. v. 8. seqq. La notte, o l’immagine della notte è la più propriaad aiutare, o anche a cagionare i detti effetti del suono. Virgilio damaestro l’ha adoperata. (16. Ott. 1821.). [Zib. 1927-30; PPZ, pp.1865-66]

Le riserve teoriche non trattengono però Leopardi dall’ascolto dell’o-pera. La prima attestazione della sua presenza a una rappresentazione me-lodrammatica si ricava dalla lettera al fratello Carlo da Roma, 6 gennaio1823, quando egli afferma che, rispetto all’opera buffa vista al teatro Val-le (vedi oltre), “il nostro Turco in Italia, non solamente per la musica, maper ciascun cantante, a uno per uno, e tutti insieme, fu migliore senzanessunissimo paragone” (Ep. 489, p. 613). L’aggettivo nostro indica lapartecipazione dei fratelli allo spettacolo allestito nel teatro di Recanati:molto probabilmente si tratta del Turco dato “nel Teatro dei Condomini,nel Carnevale dell’anno 1820”, come dichiarano i due esemplari del li-bretto di Felice Romani musicato da Rossini (prima rappresentazione 14agosto 1814) conservati nella biblioteca storica Leopardi.5

Gli spettacoli ricordati da Giacomo durante il suo primo soggiornofuori di casa nel palazzo romano degli zii Antici (novembre 1822-maggio1823) sono tre, e per ciascuno Leopardi dà un succinto resoconto criticoche denuncia per lo meno una certa competenza terminologica, senza rag-giungere però la pienezza descrittiva di una recensione, sorta di ecfrasi mu-sicale, che poco gli si addice, come scrive al padre il 27 dicembre 1822.

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5 P. CIARLANTINI, Il fondo musicale della biblioteca Leopardi di Recanati, in “Casano-stra”, 1989-1990, pp. 91-103, a p. 95. L’assenza del Turco in Italia dalla cronologia raccol-ta da G. RADICIOTTI, Teatro, musica e musicisti in Recanati, Simboli, Recanati 1904, indu-ce de Angelis (Musica ed estetica, cit., pp. 82-83) a ritenere probabilmente sbagliatal’indicazione di Leopardi e a riferirla all’Italiana in Algeri; ma è deduzione impropria,spesso poi ripetuta.

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Tutti (compreso anche me) stanno bene; e tutti la salutano; partico-larmente Donna Marianna [Marianna Mattei moglie di Carlo Antici, lazia acquisita di Giacomo, N.d.R.], alla quale ho dato da sua parte noti-zia dell’Opera di Recanati [il progetto di costruzione di un nuovo teatroche sarà sovvenzionato anche da Monaldo, N.d.R.]. Vorrebbe che io,per contraccambio, e quasi per soverchieria, le descrivessi l’operad’Argentina che vedemmo ier sera, ma queste descrizioni non fanno perLei nè per me. L’Opera è nuova, del M.ro Caraffa: non mi parve grancosa, benchè avesse un incontro sufficiente. [Ep. 480, p. 602-603]

La recita qui richiamata è quella dell’Eufemio di Messina di MicheleCarafa su libretto di Iacopo Ferretti, tenutasi il 26 dicembre al Teatro Ar-gentina, e allusa in tutta fretta a Carlo poche ore prima dell’inizio, conl’indicazione espressa del celeberrimo tenore napoletano Giovanni David(Ep. 479, p. 601): “Sono sul punto di andare a teatro, a sentir David, condonna Marianna ec.”. Nel catalogo storico della biblioteca Leopardi èpresente un libretto dell’opera ma, essendo datato Roma 1827, non puòessere quello eventualmente acquistato da Giacomo.6

La lettera dell’Epifania 1823 indirizzata al fratello Carlo raduna le im-pressioni di due spettacoli: il ricordato Eufemio di Messina, dramma stori-co basato sul personaggio che causò l’invasione musulmana della Sicilia,già protagonista di una tragedia di Silvio Pellico (1820), e il melodrammagiocoso in due atti su libretto di Iacopo Ferretti Il corsaro ovvero un mae-stro di Cappella al Marocco, musicato da Filippo Celli.7

Ho sentito tutte e due le Opere: quella d’Argentina e quella di Val-le. La prima è del Maestro Carafa, quasi tutta rubata a Rossini, ma cosìmale, che non reca il piacere nè dell’originalità nè dell’imitazione; e seil Carafa vi si disprezza, il Rossini non vi si può godere. Nessun pezzointeressante, fuorchè un’aria del Contralto nel prim’atto, la quale peròsembra cominciata e non finita. Tutte le voci mediocri; eccetto il Teno-re, cioè David, e il contralto, cioè la Ferlotti. Il Basso è nulla, ed agisceanche poco nell’Opera. Il canto di David non mi ha fatto grande im-

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6 CIARLANTINI, Il fondo musicale, cit., p. 97.7 Dettagli e precisazioni nell’ottima sezione Leopardi all’Opera presente in Leopardi a

Roma, a cura di N. BELLUCCI e L. TRENTI, Electa, Milano 1998, pp. 83-93, con le seguentischede: P. BERTOLONE, Lo spettacolo a Roma nella Stagione 1822-1823, pp. 84-87; W. MARRA,Un libretto di Jacopo Ferretti [Eufemio da Messina], pp. 88-89; M.C. FIGORILLI, Teatro Argen-tina, pp. 90-91; M.C. FIGORILLI, Teatro Valle, pp. 92-93. Eccellente e documentato studiosulla stagione teatrale romana durante il soggiorno di Giacomo è L. NORCI CAGIANO DE

AZEVEDO, Leopardi a teatro nel 1823 (1991), in Ead. Lo specchio del viaggiatore. Scenari ita-liani tra Barocco e Romanticismo, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1992, pp. 179-93.

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pressione perchè ci si conosce evidentemente lo sforzo. E perciò il cor-po della sua voce, secondo il gusto mio, non può molto dilettare.Quanto all’agilità e volubilità del suo canto, le mie rozze orecchie nonci trovano niente di straordinario. Ma, comunque sia, la più bella voceapplicata a una melodia che non significa niente, non può fargrand’effetto. I Romani hanno lodato le decorazioni e disapprovatol’opera. […] Quanto all’opera di Valle, ch’è buffa, tenete per certissimoche il nostro Turco in Italia, non solamente per la musica, ma per cia-scun cantante, a uno per uno, e tutti insieme, fu migliore senza nessu-nissimo paragone. Il teatro è per lo più deserto, e ci fa un freddo cheammazza. L’opera è del M. Celli. Gl’istrioni sono insoffribili. Un Pari-gi a confronto loro sarebbe un Angelo, e assicuratevi che non esagero.Non mi allungo di più perchè assolutamente non ho tempo, e questicosì detti letterati non mi lasciano respirare. [Ep. 489, p. 613]

Lo spazio maggiore è riservato alla prima opera, sulla quale il giudizionegativo è netto, trattandosi, a detta di Giacomo, di un calco pedissequodel modello rossiniano allora all’apogeo, i cui singoli pezzi non destanointeresse, se non per un’aria che però suona irrisolta. Più precisa èl’attenzione per le voci di un cast tutto di cantanti legati direttamente aRossini, ritenute “mediocri”, fatte salve quelle di David e di Santina Fer-lotti, che però, almeno stando alle attuali classificazioni, non è propria-mente contralto, come si legge, bensì soprano (ma è difficile stabilire unapiena corrispondenza fra le tipologie vocali ottocentesche e le nostre).8Leopardi coinvolge nella valutazione negativa l’autentico contralto Ro-smunda Pisaroni presente alla recita, mentre separa le doti naturali di Da-vid, che non lo pongono nel gruppo dei mediocri, dall’effetto del suocanto, che gli risulta sforzato, artefatto, con agilità ordinarie. Resta dub-bio se Leopardi registri oggettivamente l’esito di una serata storta del can-tante o non possegga di fatto la disposizione per giudicare una voce, dalmomento che si attribuisce delle “rozze orecchie”, secondo una formulaattenuativa che può, al contrario, anche nascondere una falsa modestia.Di certo si rileva il completo rovesciamento del concetto espresso due an-ni prima nello Zibaldone circa il potere nobilitante di una bella voce an-che se applicata a rozze melodie (vedi sopra): è difficile stabilire se si trattidi ripensamento con valore teorico generale o di una argomentazioneestemporanea.

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8 Le due ipotesi per spiegare lo scambio fra la Ferlotti e la Pisaroni riferite in BERTOLONE,Lo spettacolo a Roma, cit., p. 86 (Leopardi avrebbe già sentito la Ferlotti e dunque il suonome gli è più familiare; la Pisaroni cominciò la carriera come soprano e passò poi a con-tralto, quindi Leopardi era confuso) sono poco probabili.

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Poche righe bastano a Leopardi per emettere una condanna senza ap-pello per Il corsaro di Caraffa, visto nel vuoto e gelido teatro Valle, valuta-to come l’Eufemio in relazione alla musica rossiniana, con le aggravanti dimuoversi sul medesimo terreno dell’opera buffa (nel caso specifico quelladel Turco in Italia) e di un’esecuzione meno che dilettantesca, se al con-fronto degli “insoffribili” guitti romani si evoca come “un Angelo”l’attore Parigi, capocomico responsabile nel 1822 delle rappresentazionirecanatesi dei due lavori teatrali di Monaldo, la commedia La parrucca ela farsa Una posta in campagna, vero trionfo di provincialismo che valseall’autore il titolo grottesco di “Goldoni recanatese”.9

Le impressioni di Leopardi indicano una discreta attenzione all’aspet-to vocale, trattato con proprietà lessicale solo per l’opera di Carafa, e unimplicito apprezzamento per Rossini, autentica pietra di paragone nel pa-norama lirico tra gli anni Dieci e degli anni Venti, ai cui meriti artistici siaggiungeva la comune appartenenza alla patria marchigiana. Traspare an-che un po’ di sufficienza, se non snobismo, nei confronti del pubblico ro-mano quando Giacomo ne ricorda, accanto alla condivisa disapprovazio-ne per la musica, le positive reazioni davanti alle “decorazioni” del Corsa-ro, sulle quali preferisce non pronunciarsi.

Ancora nel segno di Rossini avviene la successiva registrazione di im-pressioni operistiche. Negli stessi giorni del gennaio 1823 il fratello Carlo,ancora in attesa di sapere il parere di Giacomo su David, era tutto infervo-rato per la “bella figura” della giovane cantante Clorinda Corradi, al suodebutto sulle scene nel teatro recanatese come protagonista dell’Italiana inAlgeri prima e di Cenerentola poi, al punto di scriverle “un brava in quat-tordici versi”, ossia un sonetto costruito sul parallelismo onomastico fra ilcontralto e il personaggio tassiano, che mostra a Giacomo, dubitando del-l’uso proprio di due verbi e concludendo sbrigativamente: “chi se ne frega?Per Recanati è d’avanzo” (Ep. 493). Con ironia fraterna Giacomo offresuggerimenti per il sonetto che “pecca un poco d’oscuro, non in se, ma perRecanati”, ma “è molto bello e affettuoso, e mi ridesta l’idea dell’animotuo, e del sentimento, e della poesia, e del bello vero, tutte cose che biso-gna dimenticare affatto in Roma, in questo letamaio di letteratura di opi-nioni e di costumi (o piuttosto d’usanze, perchè i Romani, e forse nè an-che gl’Italiani, non hanno costumi)” (Ep., 501, 18 gennaio 1823). Carloinsiste a corteggiare Clorinda, di cui loda l’estensione vocale, ottenendoneconfidenze sui geloni e su una “mezza gamba impegnata”, acciacchi che lacantante condivide con Giacomo, come le riferisce Carlo; e la sente canta-

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9 Dettagli in LEOPARDI, Teatro, cit., pp. 5, 12-17.

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re Cenerentola, sulla cui musica dà un giudizio che serve a comprendere lavera portata della spesso citata risposta di Giacomo.

Cenerentola […] è andata in iscena jer sera. A questo proposito tiposso dire, che ho inteso una cosa assai bella, che voi altri col vostroCaraffa non avete. Adesso ho conosciuto Rossini: già fra noi un’im-pressione forma epoca più di un avvenimento: sicchè non mi vergo-gno di parlarti del gran piacere che mi ha dato questa Musica, che èarrivata a carpirmi le lagrime. [Ep. 507, 26 gennaio 1823, p. 637]

L’entusiasmo per le doti vocali della Corradi detta altri sonetti a Car-lo, subito spediti a Roma per condividere con Giacomo l’euforia dellapassione. Stavolta il fratello maggiore, compiaciuto per il nascere dell’in-fatuazione, risponde il 5 febbraio giocando sulle scarse capacità di con-quistatore di Carlo, sospettato di aspirare a divenire un nuovo Alfieri, colquale condivide la spinta amorosa iniziale per la carriera di poeta e alcunitratti stilistici.10 Poi si riallaccia alla commozione suscitata in Carlo dall’a-scolto della rossiniana Cenerentola.

Mi congratulo con te dell’impressioni e delle lagrime che t’ha ca-gionato la musica di Rossini, ma tu hai torto di credere che a noi nontocchi niente di simile. Abbiamo in Argentina la Donna del Lago, laqual musica eseguita da voci sorprendenti è una cosa stupenda, e po-trei piangere ancor io, se il dono delle lagrime non mi fosse stato so-speso, giacchè m’avvedo pure di non averlo perduto affatto. Bensì èintollerabile e mortale la lunghezza dello spettacolo, che dura sei ore,e qui non s’usa d’uscire del palco proprio. Pare che questi fottuti ro-mani che si son fatti e palazzi e strade e chiese e piazze sulla misuradelle abitazioni de’ giganti, vogliano anche farsi i divertimenti a pro-porzione, cioè giganteschi, quasi che la natura umana, per coglionescache sia, possa reggere e sia capace di maggior divertimento che fino aun certo segno. [Ep. 514, pp. 646-47]

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10 “Caro Carlo. Dal tuono della tua lettera mi par di vedere che tu sei più allegro delsolito, e non mi parrebbe inverisimile che tu ne fossi debitore ai colloqui avuti colla bellavirtuosa, e a quei sentimenti che tu provi per lei, i quali credo che rassomiglino all’amore.Te ne felicito con tutta l’anima, e prendo parte ai tuoi sentimenti così da lontano, comeho preso parte ai geloni dell’aimable chanteuse; ma quanto al letto, tocca a te solo di pren-derne parte, se puoi, come non credo. Ti ringrazio de’ tuoi sonetti, a proposito de’ qualimi viene quasi un sospetto che tu vogli divenire un altro Alfieri, colla differenza che que-sti si pose a studiare e comporre per la prima volta in età maggiore della tua, e tu in etàminore non incominceresti gli studi, ma li riprenderesti, o piuttosto li continueresti. Cer-to è che i tuoi versi hanno moltissimo dell’Alfieresco, senza che tu forse te ne avvegga; e lacagione che t’indurrebbe alla poesia, sarebbe quella stessa d’Alfieri, cioè l’amore o una co-sa di questa specie” (Ep. 514, pp. 645-646).

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Le poche parole dedicate alla Donna del lago (prima rappresentazione ot-tobre 1819, libretto di Andrea Leone Tottola) dichiarano una totale ammi-razione anche in virtù dell’alto magistero vocale dei cantanti, in grado diesaltare al massimo la forza musicale dell’innovativo melodramma rossinianoper l’apertura al clima romantico;11 e ciò a dispetto di una permanenza inteatro, anzi in un palco, per sei ore, durata ottenuta dalla somma dei duespettacoli della serata, l’opera e il balletto (nel caso La Rosmunda di LorenzoPanzieri) più gli intervalli. Il richiamo al dono delle lacrime momentanea-mente sospeso, che dovrebbe essere il segno palese della commozione – veroeffetto della musica secondo quanto Leopardi scriverà nello stesso anno inZib. 3311 del 29-30 agosto 1823 –, si collega direttamente alle parole diCarlo e non costituisce una dichiarazione assoluta, come tende a far crederel’estrapolazione della frase dal contesto. Potrebbe anzi semplicemente dichia-rare una situazione conseguente alla già conclamata malattia degli occhi.

Nel corso della successiva estate tornano sotto l’attenzione di Leoparditanto Rossini quanto il canto vocale umano. L’apprezzamento per la mu-sica rossiniana trova spazio nell’ampia riflessione sulla musica, sulla melo-dia e sull’armonia sviluppata nell’agosto 1823, stimolata dal dibattito ro-mantico sul ruolo delle arti e sul tema del sublime. Interessa sottolinearequi del vasto discorso sull’armonia che è determinata dalle assuefazioni,cioè da convenzioni, l’apprezzamento per la musica di Rossini – il solomusicista citato nelle numerose pagine – che riesce “universalmente grata[…] se non perché le sue melodie o sono totalmente popolari, e rubate,per così dire, alle bocche del popolo; o più di quelle degli altri composi-tori, si accostano a quelle successioni di tuoni che il popolo generalmenteconosce ed alle quali esso è assuefatto, cioè al popolare; o hanno più partipopolari, o simili, ovver più simili che dagli altri compositori non s’usa, alpopolare”. Un paio di settimane dopo Leopardi torna ad affermare la po-sizione della superiorità della voce rispetto alla melodia, riportandol’esempio del soprano Angelica Catalani, un’altra celebrità marchigiana(nata a Senigallia), a lui nota più per fama che per esperienza diretta, aquanto si può dedurre dall’inciso che ne introduce la menzione.

Che i miracoli della musica, la sua natural forza sui nostri affetti,il piacere ch’ella naturalmente ci reca, la sua virtù di svegliarl’entusiasmo e l’immaginazione, ec. consista e sia propria principal-mente del suono o della voce, in quanto suono o voce grata, e dell’ar-monia de’ suoni e delle voci, in quanto mescolanza di suoni e voci na-

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11 S. CASTELVECCHI, Walter Scott, Rossini e la couleur ossianique: il contesto culturale della“Donna del lago”, in “Bollettino del Centro rossiniano di studi”, 33 (1993), pp. 57-71.

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turalmente grata agli orecchi; e non già della melodia; e che conse-guentemente il principale della musica e la considerazione de’ suoi ef-fetti non appartenga alla teoria del bello proprio, più di quello chev’appartenga la considerazione degli odori, sapori, colori assoluti ec.,perocchè il diletto della musica, quanto alla principale e più essenzialesua parte, non risulta dalla convenienza; veggasi in questo, che nonv’ha così misera melodia che perfettamente eseguita da un istrumentoo da una voce gratissima non diletti assaissimo; nè v’ha per lo contra-rio così bella melodia ch’eseguita p. e. con bacchette su d’una tavola,o su di più tavole che rispondano a’ diversi tuoni, o in qualsivogliaistrumento o voce ingratissima o niente grata, rechi quasi diletto alcu-no, e ciò quando anche ella sia eseguita perfettamente rispetto a sestessa. E ben gli uomini si sono potuti accorgere delle suenunciate ve-rità in questi ultimi tempi, ne’ quali, per quello che se n’è detto, lasorprendente voce della Catalani ha rinnovato quasi negli uditori imiracolosi effetti della musica antica. Certo questi effetti non nasce-vano nè principalmente nè essenzialmente nè quasi in parte alcunadalle melodie. Le quali, oltre che da mille altri potevano esser cantate,si sa poi ch’erano delle più triviali ed insipide. Tutto il diletto era dun-que originato dalla voce della cantante, cioè dalle qualità d’essa voceche piacciono naturalmente agli orecchi umani, tutte indipendentidalla convenienza: straordinaria dolcezza, flessibilità, rapidità, esten-sione ec. voce canora, sonora, chiara, pura, penetrante, oscillante, tin-tinnante, simile alle corde o ad altro istrumento musicale artefatto ec.ec. [Zib. 3421-3423, 12 settembre 1823; PPZ, pp. 2124-25]

L’ultima attestazione diretta di una serata all’opera è di quattro annidopo e viene da Bologna, città ricca di teatri e di vita musicale, e costitui-sce un’eccezione all’indifferenza leopardiana nei confronti del melodram-ma.12 Prima di quell’evento Paolina, nella lettera del 13 dicembre 1825,aveva immaginato che Giacomo, durante il primo mese e mezzo trascorsoa Bologna, avesse sentito la Semiramide di Rossini, oggetto dell’entusia-smo di Carlo nelle recite al teatro di Senigallia, e che fosse l’autore di unodei sonetti pubblicati per celebrare la cantante protagonista.13 Leopardi lechiarisce la sua disaffezione per ogni forma di spettacolo:

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12 Scrive a Luca Mazzanti da Bologna, 31 ottobre 1825: “Novità letterarie che meriti-no di essere conosciute, qui non abbiamo. Abbiamo bensì una grande Opera, che io nonho sentita, e grandi cantanti, che io non conosco” (Ep. 765, p. 986).

13 “Frattanto ti godrai qualche superba Opera nel Carnevale che si avvicina, come tisarai goduta nell’autunno la Semiramide che piacque tanto a Carlo in Sinigaglia. Ed ab-biamo veduto nei Giornaletti l’entusiasmo eccitato dalla... non mi ricordo il nome, e leacclamazioni avute in teatro, ed i sonetti stampati, fra i quali essendovene uno di un certoIacopo, Carlo voleva che fosse tuo, ma io che sostenevo il contrario gli mostrai poi che erastato fatto per essa a Venezia” (Ep. 794, 13 dicembre 1825, p. 1024).

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I teatri di Bologna io non so ancora come sieno fatti, p[er]chè glispettacoli mi seccano mortalm.e; sicchè ho preferito di ess.e gentilm.emesso in burla dalle Sigre che mi hanno invit.o ai loro palchi, e dopoaver promesso di andare e mancato di parola, ho detto francam.e atutte che il teatro non fa al caso mio. La bella è che il muro della miacamera è contiguo al teatro del Corso, talmente che mi tocca di sentirla Commedia distintam.e, sza muovermi di casa. [Ep. 798, 19 dicem-bre 1825, p. 1028]

Durante il primo periodo bolognese Giacomo si adopera anche perprocurare al fratello Luigi qualche trascrizione per flauto, escludendo dicoinvolgere nella ricerca i coniugi Aliprandi, due ex cantanti lirici suoipadroni di casa ormai distanti dal mondo teatrale.14 Si ignorano gli ac-quisti fatti da Giacomo, ma è interessante constatare che Luigi, a somi-glianza di Paolina e di Carlo, ha interessi anche per l’opera: tre degli ottopezzi che costituiscono il repertorio di Luigi presente nella biblioteca sto-rica di casa Leopardi sono variazioni o adattamenti dalle rossiniane Cene-rentola e Semiramide; e sempre a Luigi pare si debba qualche altro adatta-mento di celebri arie d’opera di quelli giacenti nel fondo.15

È solo nel maggio 1827 che Leopardi partecipa a due delle tre reciteoperistiche in programma, spinto dalla bella stagione e dalle insistenze diamici, con biglietti procuratigli da Pietro Brighenti.16 Solo le ricerche de-gli studiosi hanno appurato che si era trattato della Semiramide rossiniana

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14 Scrive a Paolina da Bologna, il 1° maggio 1826: “Babbo mi scrive di proccurar qui unpoco di musica per Luigi. È vero che io sto in casa di due Ex-Cantanti, già famosi, che al lorotempo hanno girata mezza Europa; ma presentemente non pensano più alla musica, e certonon hanno niente a proposito per Luigi, perchè alla musica istrumentale non hanno attesomai, conservano pochissime carte, e che a quest’ora sono antiche. Nondimeno io mi trovo ve-ramente tra la musica, perchè qui in Bologna, cominciando dagli orbi, tutti vogliono cantareo sonare, e c’è musica da per tutto. Facilmente troverò qualche cosa da poter mandare a Luigiperché la ritenga, e non già per copiarla e poi rimandarla, che questo sarebbe impossibile,giacchè qui ciascuno è geloso della sua musica come a Recanati. Ma intanto bisognerebbe sa-pere se Luigi desidera delle sonate per flauto a solo, o per flauto con accompagnamento diuno o più flauti, o di pianoforte, o d’orchestra piena ec. Mi specifichi il genere delle sonate,ed io ho qui chi m’insegnerà il modo di servirlo alla meglio” (Ep. 908, p. 1152).

15 Il fondo col repertorio di Luigi Leopardi è descritto in CIARLANTINI, Il fondo musi-cale, cit., pp. 98-99.

16 La restituzione del prezzo del biglietto anticipato da Brighenti avviene contestual-mente alla lettera del maggio 1827: “Mio carissimo Ti rimando il Gozzi con mille ringra-ziamenti. Ti accludo ancora il prezzo del biglietto dell’Opera che tu favoristi di proccurar-mi, e che finora non ho mai avuta occasione di renderti. Voglimi sempre bene, mio caro,come te ne vuole e te ne vorrà sempre il tuo Leopardi” (Ep. 1088, p. 1329).

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offerta in una produzione di altissimo livello,17 mentre Leopardi ne tace– significativamente direi – persino il titolo, si limita a precisare di averviassistito da posizione diversa dalla platea e nemmeno riferisce alcuna im-pressione a Paolina, pur avida di conoscere i dettagli.

La stagione anche qui è ottima, e io mi diverto veramente un po-co più del solito, perchè grazie a Dio mi sento bene, e perchè que-st’essere uscito dall’inverno non mi può parer vero, e non finisce dirallegrarmi; e perchè gli amici mi tirano. Sono stato all’opera già duevolte (l’opera si è avuta finora tre sere), e non mai in platea. [Ep.1079, 18 maggio 1827, p. 1322]

Giacomo ha comunque acquistato il libretto della Semiramide stampa-to in occasione delle recite bolognesi: lo si trova ora censito nel fondomusicale della biblioteca Leopardi. Sarebbe interessante verificare la pre-senza di eventuali annotazioni su questo esemplare così come sui due ri-cordati del Turco in Italia del 1820.18

L’eccezionalità della presenza di Leopardi in un teatro d’opera è sottoli-neata da Paolina, quando rimprovera benevolmente Giacomo per avercambiato atteggiamento rispetto al costante rifiuto di sentire il melodram-ma in Recanati durante la stagione del Carnevale di quello stesso 1827 (incartellone La sposa fedele di Gaetano Rossi, musica di Giovanni Pacini)19.

Manco male che vai al Teatro, e ti diverti, e senti la Mariani,l’incanto di Carlo. Ma sai che la cosa è un poco impertinente, di non es-sere voluto mai venire a sentire la nostra Opera in q.to Carnevale, e costìandarci fino dalla pma recita? [Ep. 1090, 10 giugno 1827, pp. 1330-31]

Oltre alle testimonianze dirette relative alle cinque opere ascoltate inteatro (Il Turco in Italia di Rossini; Eufemio di Messina di Michele Carafa;Il corsaro ovvero un maestro di Cappella al Marocco di Filippo Celli; Ladonna del lago di Rossini; Semiramide di Rossini) va tenuta in conto lanotizia sulla causa della mancata partecipazione alla messa in scena fio-

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17 A. CAPRIOLI, Giacomo Leopardi e la ‘nuova musica’, in Leopardi e Bologna, Atti delconvegno di studi per il secondo centenario leopardiano (Bologna, 18-19 maggio 1998),a cura di M.A. Bazzocchi, Olschki, Firenze 1999, pp. 57-78.

18 Ricavo gli estremi bibliografici da CIARLANTINI, Il fondo musicale, cit., p. 96: “Se-miramide. Melodramma tragico da rappresentarsi in Bologna nel Gran Teatro della [sic]Comune nella primavera dell’anno 1827. Libretto di Gaetano Rossi, musica di GioachinoRossini, Tip. Cassi, Bologna 1827. Interpreti: Semiramide, Luigia Boccabadati; Arsace,Rosa Mariani; Assur, Domenico Cosselli”.

19 RADICIOTTI, Teatro, musica e musicisti in Recanati, cit., p. 55.

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rentina del Danao del musicista recanatese Giuseppe Persiani, gloria loca-le di qualche fama, il cui successo tanto interessa Paolina. Scrive Leopardialla sorella da Firenze, 7 luglio 1827:

L’entusiasmo destato da Persiani è verissimo. Ho sentito parecchi in-tendenti o dilettanti dire che Persiani è un genio straordinario. Tutti nedicono gran bene, anche per riguardo al suo carattere e alla sua gran pro-bità. Si racconta che l’inverno passato, non avendo danari, e non volendodefraudar l’oste che l’albergasse, passò più notti à la belle étoile. Mi aveva-no detto che dopo la buona riuscita di quest’opera era stato scritturatoper comporre a Napoli: ma l’altra sera la Spada di Macerata, maritata quinel colonnello Palagi, mi assicurò che ha pattuito di scriver qui altre dueOpere dentro un anno, per ottocento scudi. Il bello è, che quandos’impegnò a scrivere il Danao, il patto fu, che se l’Opera non piaceva alpubblico, l’impresario non l’avrebbe pagato. Io non sono stato a sentirla,perchè i miei occhi in teatro patiscono troppo. [Ep. 1106, p. 1347]

Sulla curiosità di verificare personalmente il successo di un musicistaconcittadino vince la difficoltà fisica dello stato oftalmico.

Nemmeno il pudico interesse, forse anche sentimentale, per MariannaBrighenti, avviata dal padre Pietro alla carriera professionale di soprano,provoca in Giacomo qualche reazione specifica, dal momento che nellacorrispondenza con l’amico sorvola la questione o si mantiene entro i li-miti della genericità (“Rallegrati per me colla Mariannina de’ suoi felicisuccessi e salutala cordialmente”, Ep. 1475, p. 1671, a Pietro Brighenti,Recanati 5 giugno 1829, riferito al debutto di lei nel ruolo della protago-nista della rossiniana Semiramide) né chiede approfondimenti sulla pro-gressione di carriera che Pietro gli illustra nella corrispondenza con di-screta abbondanza. Si ignora se nella perduta lettera a Marianna, dellaquale la giovane si sente onorata (così riferisce il padre, Ep. 1250, 7 mag-gio 1828, p. 1482), Leopardi abbia trattato dei suoi studi canori o dell’ar-te melodrammatica alla quale il soprano si stava preparando.20

Esistono infine altre due testimonianze indirette su Leopardi all’opera,sulla cui fondatezza è lecito nutrire molti dubbi, perché inserite entro lacostruzione del mito leopardiano e sprovviste di riscontro esterno. Il ri-cordo di Antonio Ranieri relativo agli ultimi anni napoletani contieneelementi di verosimiglianza, come il dettaglio circa il fastidio procurato a

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20 Floriano Grimaldi nella parte introduttiva dell’edizione delle lettere di Paolina allesorelle Brighenti (Lettere ad Anna e Marianna Brighenti, cit., p. 8) segnala la recente sco-perta di una lettera di Giacomo a Marianna del 30 gennaio 1830 (che “non offre alcunappiglio per confermare una presunta passione del poeta per una delle sorelle”) senza altrorinvio che un indirizzo internet, il quale si è rivelato essere solo la scheda elettronica perl’accesso alle aste di Christie’s.

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Leopardi dalle luci artificiali del teatro, coerente con quanto asserito daGiacomo stesso, e la presenza del basso napoletano, e divo internazionale,Luigi Lablache sulle scene del Teatro del Fondo in uno dei suoi principaliruoli comici nel Socrate immaginario di Paisiello:21

si poteva, non di rado, benché con ogni possibile precauzione,condurlo la sera al teatro detto allora del Fondo, ora Mercadante, nelpalco di mia sorella Ferrigni, dove mi par di vederlo ancora, appog-giato del gomito destro sul parapetto, farsi il solecchio pe’ lumi che loferivano, ed, insieme con Margàris, che gli era in piedi alle spalle, go-dersi amendue il famoso Socrate Immaginario dell’abate Galiani, mu-sicato da Paisiello e cantato da Lablache […]

Senza possibilità di verifica resta la testimonianza di un innominatodirettore d’orchestra incontrato da Giovanni Mestica,22 oggetto poi dirielaborazioni successive.23

A Recanati nel carnevale del 1829 era aperto il teatro con opera inmusica, il quale poi per la morte del papa Leone XII fu chiuso al-quanti giorni prima che terminasse la stagione. Quel direttore di or-chestra, che io giovanetto conobbi già vecchio a Montecosaro, mi rac-contava che Giacomo v’interveniva sempre, vestito semplicissima-mente, con un soprabito di pelone sotto un mantello a baveretti; chepiù volte esso direttore era entrato con lui in discorso su quella musi-ca (si rappresentava il Barbiere di Siviglia), e ammirando lo aveva sen-tito notare nella medesima le bellezze più fine, che all’orecchio dellepersone imperite dell’arte non sogliono rivelarsi.

Se dunque si considerano le testimonianze dirette e autentiche, si consta-ta una sostanziale disattenzione di Leopardi per il melodramma dovuta alconvergere di due fattori: da un lato la difficoltà fisica di assistere agli spetta-coli per difficoltà visive e per la costrizione della lunga permanenza nel palcoe in teatro, dall’altro la condanna teorica del melodramma come forma ibri-da inadatta all’imitazione artistica, perché il canto vi imita il discorso.

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21 A. RANIERI, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, Giannini, Napoli 1880, p. 40.22 Il verismo nella poesia di Giacomo Leopardi: ricavo il testo tratto dalla “Nuova Antolo-

gia di scienze, lettere ed arti”, s. II, 12, 1880, presente nel sito www.classicitaliani.it/leopardi/critica/Mestica_verismo_Leopardi.htm.

23 Riferisco solo due rifacimenti dell’episodio: “Il Mestica […] dice che il direttore[…] il quale avea concertato il Barbiere di Siviglia nel ’29 a Recanati, gli narrò che…”(REBORA, Per un Leopardi mal noto, cit., p. 165, n. 31); “Il protagonista di questa operabuffa non è Giacomo, sebbene amasse sino alle lacrime Il barbiere di Siviglia e La donnadel lago…” (P. CITATI, Leopardi, Mondadori, Milano 2010, p. 3).

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Al contrario, il canto senza parole si accorda perfettamente alla poeticadel vago e dell’indefinito in cui consistono il piacere e il bello poetico, se-condo i riportati passi zibaldoneschi. Se ne può trovare conferma nei passidei Canti che evocano il canto vocale umano. Non intendo affrontare laquestione della musicalità del libro poetico leopardiano né insinuare chefra i vari significati del titolo introdotto a partire dall’edizione Bologna1831 vi si possa scorgere anche un’allusione di genere musicale (le roman-ze senza parole per pianoforte, ante Schumann, effusione lirica fortementecantabile, ma priva di testo verbale). Interessa solo verificare se coloro checantano nei testi poetici leopardiani pronuncino anche parole.

Dal computo escludo le “composizioni verbali dov’era suppostal’integrazione musicale”,24 L’ultimo canto di Saffo e il Canto notturno diun pastore errante dell’Asia, con l’aggiunta del Coro di morti nello studio diFederico Ruysch, cantato dalle mummie, perché in esse il canto è un fatto-re sottinteso, fittizio, di fatto inesistente, mentre conta la testura verbale.Non considero i tecnicismi canto e cantare riferiti alla composizione poe-tica (quello di Simonide in All’Italia, vv. 81-140; la definizione dell’Innoai Patriarchi, vv. 1-3, “E voi de’ figli dolorosi il canto, / Voi dell’umanaprole incliti padri, / Lodando ridirà”: in AN in luogo di canto si legge car-me; la scrittura poetica leopardiana in Palinodia al marchese GinoCapponi, vv. 236-238).

Nei casi censiti il canto umano (o di creature mitologiche, in Alla pri-mavera) è sempre privo di parole o, se le ha, esse non sono riferite né di-stinguibili; importa la funzione suggestiva dei sentimenti espressi che pre-scinde dal contenuto verbale determinato.25

… e il pastorel ch’all’ombreMeridiane incerte ed al fioritoMargo adducea de’ fiumiLe sitibonde agnelle, arguto carmeSonar d’agresti PaniUdì lungo le ripe… (Alla primavera, vv. 28-33)

… Ahi, per la viaOdo non lunge il solitario canto

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24 L. BLASUCCI, I titoli dei “Canti” (1987), in Id., I titoli dei «Canti» e altri studi leo-pardiani, Morano, Napoli 1989, pp. 153-66, a p. 166.

25 Accantono Le ricordanze, vv. 144-148, perché è dubbio se Nerina canti o parli: “… Ove sei, che più non odo / La tua voce sonar, siccome un giorno, / Quando solevaogni lontano accento / Del labbro tuo, ch’a me giungesse, il volto / Scolorarmi?…”. Il te-sto è tratto da G. LEOPARDI, Canti, introduzione di F. Gavazzeni, note di F. Gavazzeni eM.M. Lombardi, Rizzoli, Milano 1998.

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Dell’artigian, che riede a tarda notteDopo i sollazzi, al suo povero ostello;E fieramente mi si stringe il core,A pensar come tutto al mondo passa,E quasi orma non lascia…[…]… ed alla tarda notteUn canto che s’udia per li sentieriLontanando morire a poco a poco,Già similmente mi stringeva il core. (La sera del dì di festa, vv. 24-30,43-46)

O qualor nella placida quieteD’estiva notte, il vagabondo passoDi rincontro alle ville soffermando,L’erma terra contemplo, e di fanciullaChe all’opre di sua man la notte aggiungeOdo sonar nelle romite stanzeL’arguto canto;… (La vita solitaria, vv. 60-66)

Per le valli, ove suonaDel faticoso agricoltore il canto,Ed io seggo e mi lagnoDel giovanile error che m’abbandona; (Alla sua Donna, vv. 34-37)

Sonavan le quieteStanze, e le vie dintorno,Al tuo perpetuo canto,Allor che all’opre femminili intentaSedevi, assai contentaDi quel vago avvenir che in mente avevi.[…]D’in su i veroni del paterno ostelloPorgea gli orecchi al suon della tua voce, (A Silvia, vv. 7-12, 19-20)

L’artigiano a mirar l’umido cielo,Con l’opra in man, cantando,Fassi in su l’uscio; (La quiete dopo la tempesta, vv. 11-13)

E spesso al suon della funebre squilla,Al canto che conduceLa gente morta al sempiterno obblio,Con più sospiri ardentiDall’imo petto invidiò coluiChe tra gli spenti ad abitar sen giva (Amore e morte, vv. 56-61)

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E cantando, con mesta melodia,L’estremo albor della fuggente luce,Che dianzi gli fu duce,Saluta il carrettier dalla sua via; (Il tramonto della luna, vv. 16-19)

Al di fuori della raccolta ribadisce la condizione fondamentale delcanto sprovvisto di parole il frammento incentrato proprio su questo te-ma, Il canto della fanciulla:

Canto di verginella, assiduo canto,Che da chiuso ricetto errando vieniPer le quiete vie; come sì tristoSuoni agli orecchi miei? perchè mi stringiSì forte il cor, che a lagrimar m’induci?E pur lieto sei tu; voce festivaDe la speranza: ogni tua nota il tempoAspettato risuona. Or, così lieto,Al pensier mio sembri un lamento, e l’almaMi pungi di pietà. Cagion d’affannoTorna il pensier de la speranza istessaA chi per prova la conobbe.

Il canto umano artisticamente raffigurato da Leopardi esprime statid’animo, affetti allo stato puro, passioni, non parole esatte, ed è in pienalinea con la sua riflessione teorica sulla superiorità del canto senza parole,una modalità espressiva che costituisce l’esatta antitesi del pezzo chiusomelodrammatico.26

Se dunque si tengono in debito conto la scarsissima frequentazionedel teatro d’opera documentata dall’epistolario e le dichiarazioni d’autorecirca il basso quoziente artistico del canto melodrammatico, il mancatoincontro fra Leopardi e l’opera lirica trova una sufficiente giustificazione.Anche la cronologia dei testi conferma il carattere estemporaneo delle ri-

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26 Si potrà anche ricordare, benché non riferita al canto umano, la forza positiva cheil canto puro ha nell’Elogio degli uccelli (composto fra il 29 ottobre e il 5 novembre 1824),la cui potenza benefica, oltre che ricadere sugli uomini, rende gli uccelli più felici di altrigeneri animali: il diletto che esso provoca nasce “principalmente, non dalla soavità de’suoni, quanta che ella si sia, né dalla loro varietà, né dalla convenienza scambievole; ma daquella significazione di allegrezza che è contenuta per natura, sì nel canto in genere, e sìnel canto degli uccelli in ispecie. Il quale è, come dire, un riso, che l’uccello fa quando eglisi sente star bene e piacevolmente”. Devo l’accostamento all’amichevole competenza diPatrizia Landi, che ringrazio di cuore: a lei compete l’elegante valorizzazione dell’operettamorale in relazione ai caratteri di leggerezza ed esattezza, cfr. P. LANDI, Con leggerezza edesattezza. Studi su Leopardi, Clueb, Bologna 2012, pp. 12-14, 166-67.

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flessioni, stimolate dall’esperienza diretta delle rappresentazioni romaneed esaurite nel breve volgere di un anno scarso: infatti la serie diacronicadelle lettere e dello Zibaldone di argomento ‘operistico’ si estende fra il1820 e il 1827, ma la parte sostanziale è concentrata nel 1823, fral’inverno e l’estate: un periodo assai breve ritagliato nel periodo estremodel già ridotto interesse per il teatro, che Isabella Innamorati circoscrivenel quinquennio 1818-1823.27

Il tema “Leopardi e il melodramma” risulta così ridimensionato a pro-porzioni meno trionfalistiche e più reali, magari deludenti, soprattuttoper chi ha istituito parallelismi fra la poesia leopardiana e operisti a forzadi pure ipotesi di ascolto da parte di Giacomo. Cade anche l’accosta -mento più stimolante di tutti per le effettive consonanze, forse più sugge-stive che fattuali, fra Leopardi e Vincenzo Bellini, nati e morti sostanzial-mente negli stessi anni, accomunati da un’espressione artistica nitida epura, spesso avvicinati – ora ingenuamente, ora con vieto accademismo –per la ricorrente presenza della luna, un elemento che in realtà appartieneall’intera cultura romantica. A tal proposito il solo contatto effettivo e in-diretto tra i due avviene per il tramite del patriota siciliano Michele Ber-tolami, che, vedendo “insultata la memoria di Bellini” da scritti “di poe-tastri e di gelidi letterati”, e avendo appresa “la notizia soavissima” di unacanzone leopardiana scritta in memoria del musicista da poco scomparso,ne richiede al poeta copia da Palermo, il 6 dicembre 1835; la risposta, semai ci fu, è andata perduta.28

Per contro l’argomento speculare “Il melodramma e Leopardi” apri-rebbe un campo d’indagine meritevole di adeguati e specifici scavi, anchein considerazione di alcuni affondi precisissimi ma estemporanei. Radu-no solo poche schede esemplificative che paiono disporsi lungo due am-biti legati alla fortuna di Leopardi: Napoli e i gruppi di esuli a Parigi.Nell’ultima città leopardiana pare sia avvenuta l’inserzione donizettianadi alcuni versi del Sogno nel suicidio di Edgardo che chiude Lucia diLammermoor per una ripresa dell’opera;29 e Salvatore Cammarano, “Poe-ta drammatico e concertatore” dei Teatri Reali di Napoli di San Carlo edel Fondo, illumina la stanza di Leonora nel suo estremo lavoro Il trova-tore (iniziato nel 1851 e interrotto dalla sua morte l’anno seguente) con lamedesima lampada che tremola dietro i balconi della donna amata nellaSera del dì di festa (“O donna mia, / Già tace ogni sentiero, e pei balconi /

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27 LEOPARDI, Teatro, cit., p. 114.28 Ep. 1919, pp. 2051-52.29 DE ANGELIS, Leopardi e la musica, cit., pp. 105-106, anche con l’esplicitazione dei

dubbi circa l’autenticità dell’evento.

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Rara traluce la notturna lampa”, vv. 4-6; il Conte di Luna: “Tu desta sei;mel dice, / Da quel verone, tremolante un raggio / della notturna lam-pa…”).30 Dal mondo dei fuoriusciti italiani a Parigi il conte Carlo Pepolicostruisce, non senza goffaggini da inesperto, il libretto I puritani perBellini (prima rappresentazione Parigi, 24 gennaio 1835), caratterizzato –e prevedibilmente – da una tale messe di leopardismi da giustificarne ladefinizione di Luigi Baldacci come “un prodotto dell’industria idillicaleopardiana”.31 E ancora è da stilare l’elenco completo degli echi leopar-diani presso i principali librettisti, come mostra il caso di Felice Romaniche ricorre alle parole di Saffo pronta al suicidio per l’analoga situazionedella protagonista in Norma, 1831 (“E il crudo fallo emenderà del cieco /dispensator del caso”, Ultimo canto di Saffo, vv. 57-58; Norma: “Si emen-di il mio fallo, / e poi si mora”).32

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30 S. CARRAI, Leopardi lettore di Young, in “La Rassegna della letteratura italiana”, 103(1999), pp. 30-45, a p. 39.

31 L. BALDACCI, La musica in italiano: libretti d’opera dell’Ottocento, citato in A. DI

STEFANO, Manzoni e il melodramma. Rivoluzione manzoniana, restaurazione melodramma-tica, Vecchiarelli, Manziana 2005, p. 247, n. 19, con aggiunta di altro riscontro testuale.Alice Di Stefano (ivi, pp. 142 e 239) rinvia, senza dettagliarle, alle suggestioni leopardianepresenti nel libretto della Sonnambula di Felice Romani, musicata da Bellini, e ai rinviisuddivisi fra Leopardi e Manzoni nella Casta diva (l’aria di entrata di Norma) sempre diRomani.

32 S. VERDINO, I “bellissimi versi” di Felice Romani, in Studi di filologia e letteratura of-ferti a Franco Croce, Bulzoni, Roma 1997, pp. 413-426, a p. 422. Piuttosto deludente E. SARACINO, “Notte, ricopri la ria sventura”. Tracce leopardiane nel melodramma romanticoitaliano, in Paolina Leopardi, Atti del Convegno di studi (Recanati, 24-26 maggio 2001),a cura di E. Benucci, ETS, Pisa 2004, pp. 275-287.