LICEO CLASSICO “JACOPO STELLINI” UDINE ESAME DI STATO A.S. 2014/2015 AD INFINITUM LA MISE EN ABYME LORENZO BARBAN III E 1
LICEO CLASSICO “JACOPO STELLINI”
UDINE
ESAME DI STATO
A.S. 2014/2015
AD INFINITUM
LA MISE EN ABYME
LORENZO BARBAN
III E
1
INDICE
Premessa Pag. 2
Introduzione: La mise en abyme
Pag. 4
Filosofia: I paradossi del regressum in infinitum
Pag. 6
Arte: La mise en abyme nella rappresentazione
Pag. 12
Italiano: La metapoesia
Pag. 21
Inglese: Hamlet and the metatheatre
Pag. 25
Latino: Le Metamorfosi di Ovidio Pag.
29
2
L’idea di questo approfondimento nasce dalla mia recente
partecipazione a una conferenza del prof. Denis Viva, dal
titolo “Metalinguaggi. Arte concettuale e letteratura alla
seconda”. La relazione dello studioso aveva come scopo quello
di dimostrare la tendenza di un numero sempre maggiore di
pittori contemporanei ad abbandonare l’idea di una pittura
che attui una mediazione tra reale e ideale, per
intraprendere un percorso in cui soggetto principale
dell’arte sono l’arte stessa, i suoi strumenti e le sue
modalità.
L’opera cardine della presentazione era la foto di Giulio
Paolini Giovane che guarda Lorenzo Lotto, 1965.
Una fotografia in scala 1:1 del Ritratto di giovane ritratto da
Lotto nel 1505, il cui significato però era stato
completamente stravolto: il protagonista è sempre il giovane
ritratto, che assume però un ruolo attivo, essendo lui che
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guarda il pittore, il quale è relegato quasi alla funzione di
spettatore. Ma chi è Lorenzo Lotto, in questa inversione di
ruoli? Siamo noi stessi che ci poniamo davanti al quadro,
come il celebre pittore: noi, spettatori del quadro,
diveniamo il quadro di cui il giovane è spettatore.
Attraverso questo scambio si viene a creare tra lo
spettatore, il pittore e il giovane un insieme infinito di
specchi che si guardano a loro volta, diventando un
caleidoscopio infinito di ruoli, che cambia in base alla
prospettiva con cui noi ci rapportiamo al quadro.
E mentre assistevo curioso a questo continuo scambio di
sguardi che aveva come protagonisti me e il giovane ritratto,
scoprii che questa tecnica, cioè quella di ricreare
all’infinito un rapporto tra un’opera e il suo contenuto, è
comunemente chiamata mise en abyme.
Approfondendo poi l’argomento, ho scoperto come questo
espediente sia stato utilizzato negli anni da un grande
numero di artisti, che abbraccia non solo le arti figurative
e letterarie, ma che trova anche corrispondenza nella
matematica, e nella filosofia.
Questo approfondimento analizzerà quindi il rapporto che lega
la mise en abyme ai diversi ambiti del sapere, con la speranza
di non sprofondare nell’abisso di questo argomento.
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INTRODUZIONE: LA MISE EN ABYME
La locuzione mise en abyme (“collocato nell’abisso”), è
un’espressione propria dell’araldica, dove “Abisso” è il
termine utilizzato per indicare il cuore dello scudo. Si dice
che una figura è in abisso quando si trova con altre figure
al centro dello scudo, ma senza toccare nessuna di queste.
La mise en abyme in particolare avviene quando lo stemma di
uno scudo accoglie, al centro, una replica miniaturizzata di
se stesso.
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Il termine viene per la prima volta adoperato in un contesto
estraneo al suo consueto uso da André Gide, nei suoi Diari nel
1893:
Trovo molto interessante che in un’opera d’arte si ritrovi il soggetto stesso
dell’opera trasposto a livello dei personaggi, secondo un processo affine a ciò che
avviene in araldica nel caso in cui un secondo scudo sia inabissato in un primo
che lo contiene.
Attraverso il battesimo di Gide, la mise en abyme diventa il
macroinsieme entro cui far confluire tutte le forme -
letterarie, artistiche e non solo - che contengono al loro
interno un inserto che intrattiene una relazione di
somiglianza, ridotta, con l’opera che lo contiene.
Successivamente, Louis Hjelmslev nei suoi Fondamenti della teoria
del linguaggio del 1943 definisce il processo della mise en abyme,
da lui analizzato solo nella veste puramente metaletteraria,
in questo modo:
E R C
E R ( E’ R C’ )
La prima formula vuole significare che ogni E (Espressione)
si relaziona (R) con un determinato, e spesso variabile, C
(Contenuto).
La seconda formula, che invece è la vera e propria
teorizzazione strutturalista del procedimento metaletterario,
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prevede che l’Espressione si relazioni a un Contenuto, che
contiene però al suo interno l’Espressione e il Contenuto
stesso: un’opera quindi che rifletta, che si rifletta nella
maggior parte dei casi, che parli di sé.
Gide compie un’analisi approfondita di questo procedimento,
individuando tre possibili tecniche di mise en abyme:
- Riflessione semplice: il blasone nel blasone
- Riflessione all’infinito: l’infinito degli specchi
paralleli
- Riflessione paradossale: l’opera che ripete se stessa,
che gira su di sé all’infinito.
Il primo caso, il più semplice, prevede che un’opera ne
contenga un’altra, ma che il procedimento si arresti qui,
senza ulteriori stratificazioni.
La seconda riguarda invece la vera e propria “messa in
abisso” del concetto: un’opera che al suo interno contenga
l’opera originaria, che al suo interno contenga ancora
l’opera precedente, in un procedimento che, appunto, tende
all’infinito.
La terza infine rappresenta questo procedimento portato alle
sue estreme conseguenze, dove i vari livelli interagiscono
tra di loro, fanno rimandi tra sé, creando un microcosmo a sé
stante, indipendente dall’esterno, dove ogni piccola parte
diventa parte essenziale, in miniatura, di un universo
immenso e confusionario.
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Questo procedimento, seppur come vedremo presente già in
tempi antichi, è tuttavia ancora giovane, dal momento che
mancando di una struttura di riconoscimento precisa e
codificata viene molte volte tralasciato, o erroneamente
identificato con altre strutture.
Tuttavia questa tecnica appare non appena il lettore capisce,
trascinato dal flusso di parole che sta leggendo, di essere
entrato “nell’abisso” dell’opera stessa, in un secondo
livello narrativo, dove la struttura originaria si ripropone
in maniera molto simile, magari con qualche differenza o
diversa prospettiva.
FILOSOFIA – QUESTO NON E UNA PIPA
L’ideale socratico secondo cui una vita “esaminata” è quella
più degna di essere vissuta per l’uomo ha portato il filosofo
Robert Nozick a sostenere che vivere la propria vita
riflettendo su di essa la rende un “autoritratto”, dal
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momento che, se vissuta bene, è piacevole da osservare,
proprio come un pittore si compiace riconoscendosi.
Celeberrimo autoritratto nella tradizione artistica
occidentale è quello che Velazquez fa di sé nell’opera Las
Meninas: il pittore guarda noi che lo guardiamo.
L’introduzione all’opera Le parole e le cose di Michel Foucault si
concentra sull’analisi di questo singolare esempio di mise en
abyme, la cui tecnica metapittorica appare evidente: il
pittore dipinge un quadro dove lui stesso sta dipingendo un
quadro.
La tela a cui sta lavorando, tuttavia, ci è mostrata di
rovescio, rendendo impossibile ogni tentativo da parte dello
spettatore di capire quale sia il soggetto, segnando “uno
spartiacque tra il visibile e l’invisibile”. La mise en abyme
si spezza immediatamente, impedendoci di osservare l’opera,
che magari è appunto l’opera stessa che stiamo osservando,
fermando bruscamente una possibile riflessione all’infinito
dell’opera stessa, attraverso un procedimento chiamato dai
critici “Effetto Droste”.
Come per la fotografia al dipinto di Lorenzo Lotto, anche in
questo caso noi spettatori diventiamo i protagonisti del
quadro, dal momento che, come osserverà successivamente John
R. Searle, “tutti gli occhi dei personaggi principali sono
concentrati su un punto esterno al quadro, il punto in cui
noi spettatori ci troviamo”, tuttavia “il pittore dirige gli
occhi verso di noi solo nella misura in cui ci troviamo al
posto del suo soggetto. Noialtri spettatori siamo di troppo”.
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In questo quadro si ripropone quindi il regressum in infinitum già
osservato nella fotografia di Paolini, siamo in un luogo in
cui il guardante e il guardato si scambiano di posto
all’infinito.
Elemento che a una prima sommaria lettura passa in secondo
piano, ma che si rivela essere fondamentale nell’analisi
dell’opera, è lo specchio posto al centro del dipinto. Esso
“non riflette nulla di ciò che si trova nello stesso suo
spazio. Nella sua chiara profondità non accoglie il
visibile”: infatti ritrae i sovrani spagnoli, che però non
sono dipinti da Velazquez. Il punto che lo specchio riflette
è quello dove siamo situati noi spettatori, che però come
detto prima “siamo di troppo”, in quanto ostacoliamo i due
reali. Oppure, come osserva ancora Foucault, “Velazquez verso
il vuoto che lo fronteggia accetta altrimenti modelli quanti
sono gli spettatori che si offrono”, che ipoteticamente
potrebbero diventare i protagonisti del quadro a cui lui sta
lavorando, ma che appunto non vedrà mai la luce del sole.
Il dipinto in questione segna una cesura epocale rispetto al
rapporto che, tradizionalmente, la rappresentazione ha
istituito con il suo modello, con il suo autore, nonché con
il suo spettatore.
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Ho deciso di far iniziare la riflessione sulla mise en abyme
in ambito filosofico con l’analisi di uno dei più importanti
esempi di questa pratica speculare proprio per mostrare come
il concetto di autoriflessività sia fondamentale.
Questa nozione è centrale nella filosofia del primo
romanticismo tedesco: è presente sia nella filosofia kantiana
-la filosofia “trascendentale” critica e mette in discussione
il suo stesso fondamento-, sia in quella di Fichte, dove il
Soggetto assoluto va attinto solo al termine di una serie
illimitata di raddoppiamenti che conducono la coscienza di sé
a porsi incessantemente come suo proprio oggetto.
Tuttavia, nel panorama filosofico occidentale, l’idea di un
qui che rifletta su di sé, e che si rifletta, non è estraneo
neanche a un altro autore, Jaspers, la cui filosofia
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trascendentale, chiamata “cifra della trascendenza”, verrà
così riassunta da Jean Wahl nei suoi Studi Kierkegaardiani:
“qual è il valore filosofico della frase: non si può
filosofare senza immergersi in una realtà tale che non si
possano pronunciare frasi del genere: qual è il valore
filosofico della frase: non si può filosofare senza
immergersi in una realtà tale che non si possano pronunciare
frasi del genere: qual è etc etc”.
Jacques Deridda, nella Grammatologia, teorizza così il
concetto di mise en abyme: “quando si può leggere un libro nel
libro, un’origine nell’origine, un centro nel centro, è
l’abisso, il senza-fondo del raddoppiamento infinito”. Nella
Disseminazione ritorna poi su questo concetto, trattando la
poetica mallarmeana della “scrittura in abisso“, definendola
“scrittura al quadrato”: un’autoriflessione che in termini
matematici diventa una copia di sé di cui tenere conto, da
ciò l’espressione “al quadrato”.
L’idea della mise en abyme non è quindi estranea alla
filosofia occidentale, che si serve della sua più singolare e
affascinante caratteristica, quella dell’autoreferenzialità,
in maniera più o meno evidente, più o meno voluta.
In questa sezione voglio tuttavia concentrare la mia analisi
sullo studio che Michel Foucault, filosofo a cui abbiamo già
accennato in precedenza riguardo il dipinto Las Meninas, fa di
due opere pittoriche dipinte da Renè Magritte, celebre
pittore surrealista: il Tradimento delle immagini e i Due misteri.
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Michel Foucault (1926-1984) è uno dei massimi esponenti dello
strutturalismo, corrente filosofica nata in Francia nel
secolo scorso che propone una visione nuova più scientifica
del mondo: esso, secondo gli strutturalisti, è un sistema
autoregolato di cui bisogna andare a indagare le varie
trasformazioni possibili che lo caratterizzano.
Foucault nelle sue opere propone un’indagine quasi
archeologica del sapere, con l’intento di ricercare le basi
della società moderna: l’opera che meglio esprime questa sua
idea è Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, dove
esprime quelle che lui considera le infrastrutture mentali
che caratterizzano l’uomo moderno, da lui chiamato
“epistemi”.
L’opera in cui il filosofo francese analizza i due dipinti di
Magritte, e di cui cercherò di mettere in luce gli aspetti
più squisitamente autoriflessivi e meta-artistici, è Questo
non è una pipa.
Il tradimento delle immagini I due misteri
14
Le opere si presentano come dipinti molto semplici, spogli di
dettagli superflui, quasi scolastiche per il loro tratto
stilizzato. Entrambi i dipinti mostrano una pipa (il secondo
anche un’altra, ma limitiamoci ora alle somiglianze), e sotto
la pipa una scritta, che tradotta equivale a “Questo non è
una pipa”.
In entrambe le immagini troviamo una chiara contraddizione
tra immagine e testo: l’uno esclude l’altro, diffonde
immediatamente il dubbio che il soggetto ritratto non sia
effettivamente una pipa, e lo spettatore inconsciamente è
spontaneamente portato a ritenere veritiera la frase e
sbagliata l’immagine, e non viceversa.
Tuttavia la palese contraddizione tra testo e immagine nasce
dalla necessità dell’osservatore di legare la frase al
dipinto entro cui è contenuta, di riferire il testo al
disegno, non considerando che il testo è parte dell’immagine
stessa (e ciò si evince, oltre che a una prima visione, anche
dal fatto che il tratto con cui è scritto il testo è lo
stesso con cui la pipa è dipinta).
La necessità quindi di legare il testo all’immagine scardina
il quadro in sé, poiché priva il quadro di una sua
componente. Il quadro diviene scisso, lo spettatore non è in
grado di ritrovare il nesso logico che lega le due parti.
L’analisi di Foucault, sulla scia dell’indizio per cui il
testo sia dipinto, verte sulla teoria per cui il dipinto sia
in realtà un calligramma, cioè un’estrosa disposizione
tipografica di un’opera, disposta in modo tale da formare
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disegni decorativi o figure bizzarre: il calligramma fa dire
al testo ciò che il dipinto rappresenta, rafforza il
significato complessivo per la sua duplice funzione, in
quanto è sia insieme di linee sia concatenazione sonora: il
calligramma quindi mostra e nomina.
Ecco quindi chiarito il primo quesito: il testo e l’immagine
contenuti nel quadro sono la parte rimanente di un più antico
calligramma, che attraverso la disposizione delle parole e il
loro senso andavano a rafforzare l’opera nella sua
complessità.
La domanda che resta tuttavia è se il testo nega l’opera: per
rispondere a questa domanda dobbiamo prima capire a cosa si
riferisce il “questo” iniziale:
- All’immagine di una pipa, che non è però reale
- Al quadro stesso, che appunto non è una pipa.
Nel primo caso, si capisce immediatamente il senso delle
parole: c’è una corrispondenza solo visiva tra l’oggetto
reale e la pipa rappresentata, quello che si crea è un
rapporto di somiglianza: la pipa rappresentata non potrà mai
assolvere alla funzione di una pipa reale, né condividere con
lei le dimensioni fondamentali.
Il secondo caso, che sembra quasi più risibile del
precedente, a una più attenta analisi si rivela ben più
complicato: se sciolta, la frase suonerebbe “questo (questo
insieme costituito da una pipa in stile scritturale e da un
testo disegnato) non è (è incompatibile con….) una pipa
(questo elemento che deriva dal discorso e al tempo stesso
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dall’immagine, di cui il gioco verbale e visivo del
calligramma voleva far scaturire l’essenza ambigua)”. E
questa seconda interpretazione, che lega ancora di più testo
e immagine, è proprio frutto del calligramma che Magritte
aveva sapientemente creato. Calligramma che ora è spezzato,
scisso, ma che Foucault è riuscito a ricreare e sciogliere,
palesando quale sia il nesso che lega testo e immagine, che
concorrono in parti uguali alla formazione del quadro.
Concentriamoci ora sulla seconda opera. Il procedimento
autoreferenziale è evidente: il pittore dipinge una stanza,
in cui è presente un altro quadro più piccolo, dove c’è la
stessa copia dell’oggetto che è fuori dal quadro in
miniatura, e legato a tutto ciò una frase che nega l’opera
stessa, definendo che non è quello che rappresenta, ma altro,
con lo stesso procedimento che abbiamo appena analizzato per
la prima opera.
I Due misteri è un chiaro esempio di mise en abyme, che assume un
duplice valore: l’idea di autoriflessività si verifica sia
negli oggetti dipinti nel quadro (una tela che dipinge una
tela), sia soprattutto nella riflessione operata da Magritte
sul concetto di pittura. L’opera diviene manifesto della
necessità di considerare l’opera nel suo insieme,
considerando sia le immagini sia il testo scritto, abolendo
così la secolare tradizione di spezzare e considerare
individualmente i due concetti. La pittura che riflette sul
modo di fare pittura.
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ARTE
Le arti figurative sono state tra le prime forme di
espressione ad aver assistito alla nascita della mise en
abyme, ed è anche, tra tutte, l’ambito in cui il ricorso a
questa tecnica appare più evidente. Come abbiamo visto, il
termine nasce proprio da una branca artistica minore, quella
dell’araldica, dove l’“Effetto Droste” si ritrova in stemmi
come quello delle forze militari inglesi, in cui lo scudo più
interno contiene parte dello scudo più esterno, in questo
caso i grifoni posti sulla sinistra.
Come già riscontrato negli ambiti precedentemente analizzati,
anche le manifestazioni artistiche si sono servite di questo
mezzo prima che la mise en abyme acquistasse lo status di
tecnica artistica vera e propria (teorizzazione che
ricordiamo avverrà solo nel 1893 con André Gide): nel
Medioevo la riproduzione all’interno dell’opera di una parte
di sé aveva scopi unicamente encomiastici e celebrativi, e
l’oggetto riprodotto non era sempre il dipinto stesso, ma
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poteva anche trattarsi, ad esempio, della riproduzione in
miniatura dell’intero complesso architettonico che magari
ospitava tale dipinto.
In un mosaico all’entrata sud della Basilica di Santa Sofia
troviamo sulla sinistra l’imperatore Giustiniano I che offre
alla Vergine Maria la Basilica stessa che contiene il
mosaico, mentre sulla destra Costantino offre l’intera città
di Bisanzio, che contiene la Basilica al cui interno
ritroviamo il mosaico. Il procedimento della mise en abyme in
questo caso si sviluppa su due diversi registri: quello di
Giustiniano implica due livelli di lettura (basilica –
mosaico), quello di Costantino tre (città – basilica –
mosaico).
Un altro esempio di mise en abyme connessa a motivi
encomiastico-celebrativi, nonché legata al rapporto che si
veniva a creare tra pittore e colui che commissionava
l’opera, è rappresentato benissimo dal “Polittico Stefaneschi” di
Giotto.
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Nella parte centrale del polittico, genuflesso, troviamo il
cardinale Stefaneschi in persona che offre al Cristo seduto
in trono il polittico stesso.
In tempi moderni, il procedimento di mise en abyme di secondo
tipo, ovvero il regressum in infinitum verrà anche definito “Effetto
Droste”, dal nome della compagnia che per primo lo utilizzerà
a livello pubblicitario, settore in cui troverà largo
utilizzo. Spesso, infatti, i protagonisti della pubblicità
che compaiono su scatolette o involucri di vario genere usano
o si servono del prodotto stesso di cui sono testimonial,
così da moltiplicare all’infinito la riproduzione
dell’oggetto commerciale.
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I tre quadri su cui concentrerò la mia analisi sono stati
tutti realizzati prima della teorizzazione vera e propria
della mise en abyme, tuttavia a mio parere gli autori, seppur
così diversi tra loro, con queste opere raggiungono un tale
livello di profondità e di riflessione da poterli quasi
considerare i veri pionieri di questa tecnica: parlo di Jan
Van Eyck, Tiziano e Georges Seurat. Il quarto pittore che
ancora continua a stupirci per la sua precocità è Diego
Velazquez, con Las Menina.
Vediamo ora perché Van Eyck, il celebre pittore di età
fiamminga, Tiziano, maestro del colore tonale, e Seurat,
punto di riferimento per i puntinisti ed estremista
dell’Impressionismo, possono essere considerati così abili
maestri nell’arte della mise en abyme.
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VAN EYCK – I CONIUGI ARNOLFINI
I coniugi Arnolfini è un olio su tavola dipinto nel 1434 dal
pittore fiammingo Jan Van Eyck.
Il dipinto ritrae due figure, entrambe vestite con abiti
molto costosi per l’epoca, che si danno a mano,
simboleggiando con molta probabilità la loro unione
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matrimoniale. Il luogo dipinto è una stanza da letto, la
stanza dei due novelli sposi, anch’essa arredata con un
pregiato velluto rosso cremisi, e ammobiliata con vari
oggetti, tra i quali particolarmente importanti per noi, lo
specchio e il candelabro, la cui funzione analizzerò
successivamente.
Secondo l’iconologo Erwin Panofsky i due personaggi dipinti
sarebbero Giovanni di Nicolao Arnolfini e Giovanna Cenami,
rispettivamente un ricco mercante di Lucca attivo nelle
Fiandre e la figlia di un noto banchiere fiorentino: come già
detto, la coppia è ritratta nell’atto di celebrare il
matrimonio, in uno dei primi dipinti che abbandonano il tema
religioso per dedicarsi alla sfera privata.
L’elemento religioso tuttavia è richiamato da molteplici
simboli: le mele sul davanzale, che richiamano l’Eden
biblico, Santa Margherita, intagliata sul pomolo del letto, e
infine la cornice dello specchio, che raffigura la Passione
di Cristo (da notare che le scene di morte dell’episodio si
trovano dalla parte della donna, quelle di vita dalla parte
dell’uomo).
Di particolare interesse, e singolare elemento di novità nel
panorama pittorico, è la scritta dell’autore sul muro in
fondo Johannes van Eyck fuit hic, riconducibile non tanto, o non
solo, alla firma dell’autore sul dipinto (in tal caso accanto
al nome troveremmo scritto pinxit o fecit anziché fuit hic), quanto
a una formula giuridica in un atto notarile che testimoniava
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la presenza del pittore al matrimonio (sotto questa luce il
pittore diventerebbe anche testimone di nozze della coppia).
La tesi di Panofsky, elaborata nel 1934, afferma che il
dipinto va letto come una rappresentazione del matrimonio,
oppure un’allegoria della maternità: questo secondo filone
interpretativo nasce dall’osservazione che la donna, proprio
con fare materno, si tocca la pancia, quasi a voler
proteggere il bambino appena concepito.
Tuttavia ci sono interpretazioni molteplici, e discordanti,
su tale opera, di cui mi limiterò a illustrare quella che
forse potrebbe apparire più verosimile: la critica Margaret
Koster sostiene che questo quadro sia un dipinto
commissionato e realizzato dopo la morte per parto della
donna raffigurata, che non sarebbe Giovanna Cenami ma
Costanza Trenta, moglie di un altro Arnolfini, Giovanni di
Arrigo. Il dipinto avrebbe la funzione di ricordare il
momento felice della coppia: a supporto di questa tesi è
stata trovata una lettera, del 1433, dove la madre della
ragazza scrive ad un amico che la propria figlia è morta per
parto, una disgrazia purtroppo molto comune all’epoca.
Proprio a causa della morte della donna il pittore quindi
dipinge solo una candela accesa nel candelabro, dalla parte
dell’uomo (quella dalla parte della donna è spenta); oppure
pone tutte le scene negative e di morte della Passione dal
lato della moglie; o infine, ritrae proprio Santa Margherita,
la patrona delle partorienti.
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Ora, fin qui il processo autoriflessivo che mi ero proposto
di indagare appare assente, tuttavia esso si ritrova
nell’unica parte del dipinto non ancora analizzata: lo
specchio. Esso è uno dei simboli più famosi connessi alla
tecnica della mise en abyme, proprio perché riflette la figura
stessa, o, come nel caso già esposto di Velazquez, la
integra.
Anche nei Coniugi Arnolfini lo specchio integra la scena con la
raffigurazione di persone non presenti nel quadro: lo
specchio infatti riflette, oltre che alle figure dei due
protagonisti di schiena, anche altri due personaggi, estranei
alla composizione.
Stando all’ipotesi secondo cui il dipinto valga come atto
legale, i due estranei sarebbero i testimoni di nozze, uno
dei quali sarebbe proprio il pittore stesso. Un esempio
quindi di “riflessione semplice”, in cui il pittore dipinge
un’opera che contiene al suo interno l’opera stessa, ma che
in questo caso si carica anche della figura del pittore
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stesso, che non si rappresenta direttamente, ma attraverso un
secondo livello
TIZIANO – DONNA ALLO SPECCHIO
Donna allo specchio è un olio su tela dipinto da Tiziano tra il
1511 e il 1512.
La tela rappresenta una fanciulla che si appoggia su un
parapetto, alla ricerca di un unguento contenuto nella
scatola, mentre un uomo, un artigiano (molto probabilmente un
acconciatore) regge uno specchio in modo tale da mostrar alla
donna la parte posteriore della sua chioma.
La donna, non riconducibile a una figura storica precisa,
incarna una bellezza ideale, molto sensuale: i capelli
sciolti, che a quel tempo erano tollerati solamente entro una
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dimensione domestica, connotano il quadro di una componente
erotica che supera il tema della vanità, che a prima vista
potrebbe apparire come preponderante nel quadro.
L’opera nasce durante un dibattito che si era venuto a creare
in merito alla superiorità o meno della scultura sulle altre
arti: quest’ultima, a detta degli scultori, possedeva il
pregio di poter rappresentare la molteplicità attraverso
un’unica figura, moltiplicando le sfaccettature e riuscendo a
ritrarre la tridimensionalità dell’opera, qualità di cui la
pittura era priva.
In risposta a tale idea, molti pittori (Giorgione, Savoldo,
Lotto) cercarono attraverso diversi stratagemmi di
rappresentare le diverse posizioni e la tridimensionalità
della figura dipinta: nasce cosi la Donna allo spcchio.
L’utilizzo dello specchio permette allo spettatore di
osservare l’intera opera dal lato opposto, di spalle.
Ritroviamo di nuovo il procedimento della mise en abyme, di
tipo semplice: l’opera contiene al suo interno una copia di
sé, osservata da una diversa angolazione, ma che resta sempre
la medesima.
Lo specchio riflette la donna da dietro, e integra il quadro
dandoci più angoli di osservazione: il suo volto è pero
inquieto, pensieroso. Il già citato critico Panofsky vide in
quest’inquietudine una possibile cattotromanzia, il fenomeno
puramente mitico secondo cui una donna, guardandosi allo
specchio, vede il suo futuro, che in questo caso, data
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l’irrequietudine della protagonista, non appare cosi
promettente.
SEURAT – LE MODELLE
Le Modelle è un olio su tela realizzato nel 1888 da Georges-
Pierre Seurat. L’opera, di grandi dimensioni, ritrae tre
figure femminili in differenti posizioni all’interno di una
stanza che presumibilmente è lo studio del pittore: una di
schiena, nell’atto di svestirsi; una seconda di fronte, nuda,
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che ci guarda direttamente; una terza di profilo, mentre si
sta rivestendo.
L’opera è il risultato dell’unione di tre tavolette,
raffiguranti sempre le tre modelle nelle medesime posizioni:
Seurat era insoddisfatto dell’effetto cromatico ottenuto, da
lui considerato oltremodo artificioso, e perciò nel 1888
iniziò la stesura di quest’opera, un capolavoro puntinista,
proprio per l’effetto chiamato "cromoluminismo". I minuscoli
accostamenti di colore, le cui dimensioni variano a seconda
dei modi espressivi, conferiscono all’opera un'atmosfera
vibrante ed evanescente allo stesso tempo, per cui il carnato
della donna risulta formato da variabilissimi, luminosi e
delicati turbini, senza che le forme stesse vengano dissolte.
L’opera rappresenta uno studio a tutto campo sulla pittura
stessa. Il pittore indaga l’arte pittorica, attraverso un
procedimento simile a quello utilizzato da Mallarmé nella
poesia Sonet en X: l’arte che riflette sull’arte stessa.
Le tre modelle che posano nel quadro non sono tre modelle
distinte, catturate tutte nel medesimo istante: in realtà
Seurat dipinge la stessa modella, in un percorso temporale
che corrisponde anche al procedimento di studio e di posa
della modella; le modelle poi, disposte attraverso un ordine
logico e cronologico, sono dipinte nelle tre diverse
posizioni basilari (di schiena, di profilo, di fronte).
L’opera va quindi analizzata e interpretata attraverso il suo
percorso, dove l’elemento spaziale resta sempre lo stesso,
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mentre quello temporale viene scandito unicamente dalle
figure femminili.
Le Modelle sono uno straordinario esempio di mise en abyme per
due fattori: il primo, perché il dipinto nell’insieme si
concentra sul ritrarre il percorso pittorico che un pittore
segue per raffigurare delle modelle, che vengono dipinte sia
nei tre momenti fondamentali della posa sia nelle tre pose
fondamentali della pittura; il secondo, perché all’interno
dello studio ritratto da Seurat troviamo una parte della sua
opera più famosa, Una domenica pomeriggio sull'isola della Grande-Jatte.
Il pittore si serve dunque del procedimento autoriflessivo
sia per riflettere sulle fasi della pittura, sia per
dipingere, all’interno del quadro, una copia di un quadro,
non lo stesso come avviene per la maggior parte dei pittori
che usano questa tecnica, ma un altro dipinto ancora.
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ITALIANO – MALLARME E LA METAPOESIA
Il concetto di mise en abyme, nel campo letterario, trova
molta familiarità con l’idea della metaletteratura: il legame
tra queste due tecniche è molto labile e sfumato, dal momento
che la mise en abyme è anche più giovane –nel senso che la
prima attestazione di questo procedimento narrativo da parte
del critico Lucien Dällenbach risale a poco più di cento anni
fa-, e come già spiegato manca di una vera e propria
teorizzazione che le permetta di essere inserita in maniera
definita e strutturata con le altre tecniche narrative.
La sostanziale differenza che il critico Dällenbach evidenzia
nel suo saggio Il racconto speculare è che mentre la
metaletteratura riflette sulla trama o la stesura dell’opera
stessa che stiamo leggendo, o chiama in causa direttamente il
lettore, la mise en abyme al contrario crea all’interno
dell’opera l’opera stessa, o un testo che presenta forte
somiglianze con il livello precedente.
Si può dunque affermare che mentre la metaletteratura può non
servirsi della tecnica della mise en abyme, può cioè essere
presente senza che dentro l’opera si ritrovi l’opera stessa,
la mise en abyme invece ha sempre una componente
metaletteraria, proprio in virtù del fatto che crea una
32
piccola copia di sé, l’opera riflette su di sé, e quindi
diventa un’opera metaletteraria.
Esempi metaletterari che non coinvolgono la mise en abyme
sono ad esempio le opere dove macro-strutture a cornice
contengono al loro interno numerose storie (Decameron, I
racconti di Canterbury, Le mille e una notte).
Un esempio invece di un’opera metaletteraria che si serve
della mise en abyme, in particolare di quella di terzo tipo,
ovvero la riflessione paradossale, è il libro Se una notte
d’inverno un viaggiatore, dove noi lettori leggiamo un libro, dove
il protagonista (chiamato anonimamente il Lettore) cerca anche
lui di leggere Se una notte d’inverno un viaggiatore, ma è ostacolato
dal fatto che ogni copia che lui inizi sia diversa (dieci
diversi incipit per dieci romanzi inventati, di cui sia noi
lettori sia il protagonista leggiamo il primo capitolo): il
Lettore, perseverando nella sua ricerca quasi ossessiva del
romanzo, giungerà a scoprire che è lo stesso Italo Calvino
che sta cercando di ritirare il suo stesso libro. Già da
questa semplice sintesi si capisce come l’opera contenga al
suo interno moltissimi degli aspetti propri della mise en
abyme, che vengono portati da Calvino all’estremo: i
molteplici livelli narrativi che creano un abisso sempre più
profondo, il libro che contiene al suo interno l’opera
stessa.
Il caso che ho deciso di approfondire è un altro esempio di
opera metaletteraria che si serve della tecnica della mise en
abyme, e riguarda il caso di opere che al loro interno non
33
riflettono sulla poesia in cui sono stati prodotti, ma sulla
produzione letteraria in generale, sulle sue modalità e sugli
strumenti di cui essa si avvale.
Ho deciso perciò di approfondire la parte poetica,
analizzando una poesia di Mallarmè, che tuttavia appare
perfettamente in armonia con la ricerca che sto compiendo.
Mallarmè è il più anziano di quella categoria di poeti che
prende il nome di Simbolisti. Accomunati dalla comune
nazionalità, e dall’ammirazione (quasi cultuale) per
Baudelaire, Verlaine, Rimbaud e Mallarmè sono i suoi più
celebri rappresentanti: prediligono l’utilizzo di una prosa
poetica, musicale, che sappia rappresentare la molteplicità
dei dati sensoriali provenienti dal mondo; dal punto di vista
tecnico è frequentissimo quindi il ricorso all’analogia e
alla sinestesia, nonché una continua ricerca fonosimbolica.
Sonetto in X
Ses purs ongles très haut dédiant leur onyx,
L'Angoisse, ce minuit, soutient, lampadophore,
Maint rêve vespéral brûlé par le Phénix
Que ne recueille pas de cinéraire amphore
Sur les crédences, au salon vide : nul ptyx
Aboli bibelot d'inanité sonore,
(Car le Maître est allé puiser des pleurs au Styx
Avec ce seul objet dont le Néant s'honore.)
34
Mais proche la croisée au nord vacante, un or
Agonise selon peut-être le décor
Des licornes ruant du feu contre une nixe,
Elle, défunte nue en le miroir, encor
Que, dans l'oubli fermé par le cadre, se fixe
De scintillations sitôt le septuor.
Con le sue pure unghie che dedicano alto l’onice /
L’Angoscia, questa mezzanotte, sostiene, portatrice di
fiaccola, / Vari sogni vesperali, arsi dalla Fenice, / E non
accolti da alcuna anfora cineraria / Sulle credenze nella
sala vuota: nessuna increspatura, / Fronzolo abolito
d’inanità sonora / (Poiché il Maestro è andato ad attingere
pianti allo Stige / Con quell’unico oggetto di cui il Nulla
si onora./
Ma presso i chiusi vetri vacanti, a nord, un oro / agonizza
secondo forse di liocorni un decoro / fuoco scalcianti contro
un’equorea ninfa / ella ignuda larva nello specchio, ancorché
/ nell’oblio del riquadro stretto si figge / degli scintilli
in quell’istante il setteteto.
Il sonetto riportato è contenuto nel volume Il pomeriggio del
fauno.
35
Da un punto di vista strettamente analitico, prima di
iniziare l’analisi contenutistica segnalo le rime interne (a
nord / un or), le sonorità delle rime (inanitè sonore / Nèant
s’honore), e soprattutto le combinazioni paragrammatiche
sostenute sia dall’etimologia sia dalla fonetica (ongle / onyx,
onix / une nixe, lAMpadoPHORE / AMPHORE, inanitè / nèant, LEUR OnYX / pLEURS
AU stYX), che ben rappresentano l’attenzione riservata
dall’autore a una poetica quasi cesellata, dove i giochi
fonici sono continui e volti a conferire una forte musicalità
al testo, principio cardine della poetica simbolista.
Aspetto chiave della poesia è il titolo originale che
l’autore gli diede: Sonetto allegorico di se stesso. Un analisi che
si concentri puramente sugli aspetti stilistici e
contenutistici della poesia sarebbe tanto impegnativa quanto
futile, dal momento che come Mallarmè afferma, questa poesia
non nasce con lo scopo di riflettere su un oggetto
contingente, o su un dato argomento esterno, quanto sulla
poesia stessa, sui suoi modi e strumenti.
Non a caso infatti la tesi di dottorato del poeta verteva
sullo studio linguistico, che si proponeva di “trarre
un’epoca di riflessione del linguaggio”. Lui stesso definisce
infatti questo sonetto come un “componimento nullo che si
riflette in tutti i modi”: la poesia è infatti analogica, il
senso è volutamente assente, ma è evocato da un miraggio
interno delle parole stesse; il senso è il proprio soggetto,
la propria idea, un qualsiasi altro tentativo di ricercare
36
una corrispondenza o un messaggio cifrato tra le righe della
poesia si rivelerebbe fallimentare.
La parola che meglio di tutto esprime l’idea mallarmeana
celata dietro questa poesia è ptyx: “…consultatevi per
mandarmi il significato reale della parola “ptyx”: mi
assicurano che non esiste in nessuna lingua, cosa che
preferirei di gran lunga, per concedermi il piacere di
crearlo attraverso la rima”. Queste le parole di Mallarmè su
questo hapax legomenon: una parola inventata per mantenere
l’architettura orchestrata dalla rima, una chiave di volta
inserita che non ha valore, o meglio, assume infiniti valori.
Sul termine ptyx possiamo costruire l’intero ideale poetico
mallarmeano: la creazione di una lingua poetica nuova, che
rifletta su se stessa, che sappia congiungersi all’Assoluto.
“Una parola nulla, che non ha coordinate né temporali né
spaziali, che regna da solo, come il Dio delle origini, come
l’Assoluto, nel proprio invertito miraggio”: così Lefebve
descrive la parola cardine del componimento.
Il critico R. Dragonetti, ne La littèreature et la lettre ( Introduction au
“Sonnet en X” de Mallarmè), concentra la sua analisi prima sempre
sulla parola ptix, definita come “parola totale (che nella sua
novità e singolarità diventa la portavoce dell’intero intento
mallarmeano di una rifondazione linguistica), estranea alla
lingua e incantatoria”, sia soprattutto sulla “X” che domina
il titolo della poesia: data la sua simmetria a croce,
simboleggia, invertita, la riflessione stessa. Essendo poi la
più celebre lettera che viene usata come incognita nel
37
linguaggio matematico, essa si carica di tutto il mistero che
la poesia possiede, data la sua indecifrabilità. La simmetria
proprio della “X” evoca la figura dell’incrocio, e
dell’inversione, lo stesso procedimento che Mallarmè adopera
nelle rime maschili delle terzine, che diventano femminili
nelle quartine.
La poesia non si propone solo come allegoria di se stessa, ma
attraverso questa impersonificazione è la sola a “cedere alle
parole l’iniziativa” e permettere a loro di “accendersi di
riflessi reciproci”.
Sonetto in X è l’immagine perfetta del “pensiero del pensiero”
della poesia, sia inteso come componimento sia come macro-
area letteraria: l’opera è sia un esempio di mise en abyme
integrale, poiché tutta quanta l’opera si riflette, non nelle
modalità di “scudo nello scudo”, ma di opera che indaga il
concetto stesso di opera letteraria; inoltre fonda una
poetica incentrata sull’“autonimia”, il fenomeno semantico
dove una parola, per aspetti ortografici o fonologici,
richiama la parola stessa.
ENGLISH – HAMLET AND THE METATHEATRE
As I have already said in the part dedicated to literature,
the mise en abyme device is highly connected with the
metatheatre. This term derives from ancient Greek, it is
composed by the prefixes meta- and the noun theatre. This
structure implies a level beyond the subject where it is
contained, it builds a kind of “stage inside the stage”.
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A famous example of this unusual literary device is contained
in the tragedy of Hamlet: it is the first English play where
we can find an example of the mise en abyme method.
This play is one of the best and world-famous Shakespearean
dramas: written between 1599 and 1602, it is the longest
Shakespearean play and one of the most powerful plays in the
history of literature.
In Shakespeare’s text-plays we often find terms connected
with the world of the theatre itself: it is not a case that
when a character is at the peak of his problem, he usually
compares himself to an actor. This continuous use of
theatrical terms maybe derives from the life experience of
the author: Shakespeare was not only a playwright, he was a
poet, an actor, and also the co-owner of a theatre.
The plot of the tragedy: the king of Denmark is killed by his
brother, Claudius, who has married the widowed queen
Gertrude. The king’s ghost appears to his son, Hamlet: he
tells him he has been killed by the new king, and he asks for
revenge. Hamlet pretends to be crazy, in order to simplify
his plan. Polonius, the councillor of the court, thinks this
madness is caused by love, but Hamlet rejects Ophelia,
Polonius’ daughter. The main character accidentally kills the
councillor, who is hiding behind a curtain, while Hamlet was
talking to his mother Gertrude. Claudius exiles Hamlet to
England to murder him. Ophelia turns crazy by the grief, and
she dies by drowning. The king has plotted with Laertes,
Polonius’ son, to kill Hamlet in a duel in which Laertes will
39
have a poisoned sword. Laertes fences Hamlet, but he dies.
Also Gertrude dies by drinking a cup intended for her son.
Hamlet, at the end, dies wounded by the sword, only after
having killed Claudius. The play finishes when the king of
Norway arrives, claiming the throne of Denmark.
The first example of the mise en abyme technique is found in
act III, scene ii: a company of travelling actors has arrived
in Elsinore, and Hamlet asks them to represent a play, The
Murder of Gonzago, in which he has added “dozen or sixteen lines”
(line 529) to the play.
Here Hamlet has become a playwright as he composes the extra
text to the play. He has become a stage director and
impresario too with his decision of having a play performed
in front of the court.
He has also become the owner of a theatre as he hires the
players to perform a play inside his castle.
Shakespeare uses the mise en abyme device for the first time as
he creates a play inside a major play, where inside a regular
drama we see another smaller and shorter drama performed - in
fact it is referred by Shakespeare in direct speeches, but
only by an indirect synthesis.
The characters become spectators of a play, while they are
inside a play too: the scene, in which the spectators are
mirrored on the stage, underlines the idea that all of them
are playing a part. Hamlet for example pretends to be mad,
but in fact he tries to provoke Claudius; Claudius pretends
40
to be unconcerned but in fact he is becoming more worried
about Hamlet’s behaviour.
Elsinore is more than just a castle in this sense, it can be
considered as a stage on which more performances take place.
The arrival of these players in act II is another example of
Shakespearean use of the technique called mise en abyme:
Hamlet welcomes the players and asks one man to recite a part
of Vergil’s Aeneid, which he begins and which is taken up by
the First Player, emphasizing Hamlet’s potential role as an
actor: he started the recital as he is one of the Players, and
this act adds the idea Hamlet’s performance inside the play
is not real, he is himself an actor. He lies, pretending to
be crazy.
Shakespeare expanded the passage in order to enrich the
parallel between the mythological poem and the tragedy: the
details of king Priam’s murder by Pyrrhus are not present in
Vergil’s text, but echo scenes in Hamlet’s life. The text the
First Player recites refers to the tragic story of Pyrrhus:
he is, like Hamlet, a son who vows to avenge his dead father.
The story is narrated by Aeneas to queen Dido.
So in act II we find another example of the mise en abyme: the
First Player recites Vergil’s lines where Aeneas tells Dido
the story of Pyrrhus, who is so similar to Hamlet himself.
The technique lets us go inside two different stories, and
we, spectators, are placed inside the abyss the mise en abyme
has generated.
41
So “Hamlet”, as we can see, contains two passages where this
technique is evident: this play is the first in English
language where we can find the use of the mise en abyme, which
is connected with the metaphor of the world as a theatre. As
Hamlet says in line 566: the play’s the thing (Act II, ii).
Hamlet, Act III, scene ii
Hautboys play. The Dumb-Show enters. Enter a King and a Queen, very lovingly:
the Queen embracing him, and he her. She kneels, and makes show of
protestation unto him. He takes her up, and declines his head upon her neck: lays
him down upon a bank of flowers: she, seeing him asleep, leaves him. Anon comes
in a fellow, takes off his crown, kisses it, and pours poison in the King's ears, and
exit. The Queen returns; finds the King dead, and makes passionate action. The
Poisoner, with some two or three Mutes, comes in again, seeming to lament with
her. The dead body is carried away. The Poisoner wooes the Queen with gifts; she
seems loath and unwilling awhile, but in the end accepts his love. Exeunt.
Hamlet, Act II, scene ii
Enter the PLAYERS
You are welcome, masters, welcome, all!—I am glad to see thee well.—Welcome,
good friends.—O old friend? Why, thy face is valenced since I saw thee last.
Comest thou to beard me in Denmark?—What, my young lady and mistress! By 'r
Lady, your ladyship is nearer to heaven than when I saw you last, by the altitude
of a chopine. Pray God, your voice, like a piece of uncurrent gold, be not cracked
42
within the ring.—Masters, you are all welcome. We’ll e'en to ’t like French
falconers, fly at any thing we see. We’ll have a speech straight. Come, give us a
taste of your quality. Come, a passionate speech.
FIRST PLAYER
What speech, my good lord?
HAMLET
I heard thee speak me a speech once, but it was never acted. Or, if it was, not
above once, for the play, I remember, pleased not the million. 'Twas caviary to the
general. But it was—as I received it, and others, whose judgments in such matters
cried in the top of mine—an excellent play, well digested in the scenes, set down
with as much modesty as cunning.
I remember, one said there were no sallets in the lines to make the matter savory,
nor no matter in the phrase that might indict the author of affectation, but called
it an honest method, as wholesome as sweet, and by very much more handsome
than fine. One speech in it I chiefly loved. 'Twas Aeneas' tale to Dido and
thereabout of it, especially where he speaks of Priam’s slaughter. If it live in your
>memory, begin at this line—Let me see, let me see—
The rugged Pyrrhus, like th' Hyrcanian beast—
It is not so. It begins with Pyrrhus—
The rugged Pyrrhus, he whose sable arms,
Black as his purpose, did the night resemble
When he lay couchèd in the ominous horse,
Hath now this dread and black complexion smeared
With heraldry more dismal. Head to foot
Now is he total gules, horridly tricked
With blood of fathers, mothers, daughters, sons,
Baked and impasted with the parching streets,
43
That lend a tyrannous and damnèd light
To their lord’s murder. Roasted in wrath and fire,
And thus o'ersizèd with coagulate gore,
With eyes like carbuncles, the hellish Pyrrhus
Old grandsire Priam seeks.
So, proceed you.
LATINO – LE METAMORFOSI
Le Metaformosi sono il capolavoro letterario di Ovidio: esse
nascono come un poema di stampo epico, che raccoglie al suo
interno oltre 250 storie di trasformazione.
L’intento del poeta, che ci viene spiegato da Ovidio stesso
nel proemio, è quello di raccontare la storia del mondo sotto
specie metamorfica, dai miti cosmogonici fino alla
divinizzazione di Cesare. Il suo protagonista è proprio il
concetto astratto della mutazione, che funge da filo
conduttore a tutta la narrazione.
L’opera è di stampo epico per il metro utilizzato, l’esametro
dattilico, tuttavia la decisione di narrare un intervallo
cronologico così ampio rimanda a una narrazione di tipo
“catalogico” (un modo di narrare già caro ad Omero, che
44
riscontriamo ad esempio nel passo del secondo libro
riguardante il catalogo delle navi).
I criteri adottati per la narrazione sono essenzialmente due:
il criterio cronologico, che cerca di ordinare i vari miti
attraverso una successione temporale (successione che è
rispettata solo nei primi libri, per poi scomparire
gradualmente durante l’epoca degli eroi), e il criterio per
tematiche (Ovidio raggruppa i vari miti per criteri di
affinità, opposizione, vicinanza geografica, parentela,
medesimo tipo di conseguenza metamorfica).
La suddivisione in quindici libri, dove i singoli racconti
sono spezzati in due libri consecutivi, rompe le consuetudini
antiche secondo cui ogni libro doveva funzionare
tendenzialmente come un’unità a sé stante. Proprio questa
divisione sommaria, non dettata da specifici motivi del
poeta, vuole dimostrare che uno degli aspetti che
contraddistinguono l’opera è il gusto per il raccontare, che
fluisce in maniera continuativa attraverso i racconti.
Una delle tecniche preferite da Ovidio per riuscire a
contenere e narrare questo enorme patrimonio metamorfico è
quella del “racconto a cornice”, in cui sono gli stessi
personaggi, protagonisti di una trasformazione, che
raccontano altre storie di trasformazione, che
paradossalmente può accadere non riguardino neanche loro:
attraverso questa tecnica i diversi livelli narrativi si
moltiplicano in maniera esponenziale, trasportando il lettore
insieme ai personaggi all’interno di un abisso senza fine.
45
Questo modo di procedere è stato interpretato da parte dei
critici moderni come uno dei primi tentativi di utilizzo
della tecnica della mise en abyme: il ricorso al “racconto nel
racconto” è sistematico, continuo, volutamente ricercato, e
talora si verifica anche con il passaggio di voce da parte
del narratore-protagonista, cosicché noi leggiamo un racconto
dove un personaggio ci racconta un’altra storia ancora, che è
lui stesso a raccontarci, ma che viene descritta in prima
persona dal protagonista del secondo livello narrativo, che
non coincide con il narratore che ci descrive la storia.
In questo insieme infinito di scatole cinesi l’unico punto di
riferimento costante è il primo narratore, ovvero il poeta
stesso, che nonostante il flusso incessante diventa il centro
e l’unica coordinata certa dell’intero poema.
Come dicevo, il ricorso alla mise en abyme è appositamente
ricercato per soddisfare uno degli obiettivi basilari
dell’opera ovidiana: accumulare, riunire racconti che
diventano un fiume continuo agli occhi del lettore confuso.
Siamo lettori passivi nella misura in cui, leggendo, veniamo
catapultati in differenti realtà diverse tra loro, attraverso
un procedimento che crea sempre un nuovo livello narrativo
più profondo del precedente, e che il critico Lucien
Dällenbach definì regressum in infinitum.
L’opera diventa quindi, proprio in virtù del suo modo di
procedere labirintico, essa stessa una metamorfosi.
Le Metamorfosi inoltre si presentano come il futuro di testi
passati, come qualcosa di atteso e previsto nell’opera di
46
autori precedenti a Ovidio, ed è proprio su questo aspetto
che ho deciso di concentrare la riflessione, considerando un
particolare passo dell’opera, in cui il procedimento
autoriflessivo è evidente e utile alla nostra trattazione:
nel libro II, versi 531-562, una cornacchia racconta ad un
corvo la punizione subita da Minerva per aver raccontato a
Giove qualche segreto della dea, esortando poi il corvo a non
riferire ad Apollo l’episodio di cui è stato testimone (il
tradimento di Coronide).
Ora, nella letteratura classica il dialogo tra due volatili
aveva un famoso precedente nelle Ecale di Callimaco, in cui
una cornacchia raccontava ad una sua simile della
trasformazione che avevano subito le sue penne, tramutate da
bianche a nere per aver raccontato episodi scandalosi di
alcune dee, e profetizzava che un giorno anche il corvo, da
bianco, sarebbe diventato nero, per aver fatto da messaggero
di notizie non gradite.
Ovidio quindi riprende in toto la profezia callimachea: il
corvo vorrebbe impulsivamente andare a raccontare l’accaduto,
ma la cornacchia racconta ciò che in passato era successo; il
corvo non le dà ascolto e nel presente fa da messaggero a
Giove, facendo avverare quello che nel passato Callimaco
avrebbe profetizzato sarebbe successo nel futuro. Il futuro
dell’Ecale diventa il presente delle Metamorfosi.
La mise en abyme si verifica quindi a più livelli: il primo,
quello proprio dell’opera ovidiana, che coincide nel
“racconto nel racconto”, dove i personaggi raccontano storie
47
sullo stesso tema, passando di ruolo da personaggi a
narratori (lo stesso procedimento in Virgilio viene definito
“epillio nell’epillio”, in riferimento al passo del quarto
libro delle Georgiche in cui il dio Proteo racconta, dentro la
cornice di un altro racconto, ad Aristeo il motivo per cui le
sue api sono morte).
Il secondo livello è dato dal riferimento, squisitamente
metaletterario, ad un’altra opera, che intrattiene con la
prima pochi rapporti di somiglianza, ma che è fondamentale
nella misura in cui anticipa involontariamente Ovidio e
prefigura l’episodio narrativo della disavventura del corvo.
Infine, il terzo livello si verifica quando nella stessa Ecale
Callimaco utilizza un procedimento metaletterario, che viene
ripreso secoli dopo da Ovidio: un circuito esterno alla
narrazione, quasi un gioco letterario, tra due poeti, dove
uno offre uno spunto che viene poi magistralmente rielaborato
dall’altro.
Callimaco, “Ecale”
“…Ma una sera o una notte arriverà
O un meriggio o un’aurora, quando il corvo
Che ora per le candide sue piume
Può gareggiare anche con i cigni
E col latte e con l’onda che s’innalza
In corolla di spume, avrà sull’ala
Trista il nero colore della pece:
48
questo compenso un giorno gli darà
Febo per le notizie divulgate
Sulla scabrosa storia di Coronide
Figlia di Flegiàs, che volle unirsi con Ischys, domatore di cavalli”
Ovidio, “Metamorfosi”
Gli dei del mare acconsentirono. E Giunone risalì nel cielo
limpido sull'agile carro trainato da pavoni screziati,
screziati solo di recente, da quando era morto Argo,
come di recente tu, che prima eri candido, corvo loquace,
ti sei visto tutt'a un tratto mutare le ali in nere.
E in verità questo uccello un tempo era d'argento con penne
di neve, tanto da competere con le colombe immacolate,
da non sfigurare di fronte alle oche, che avrebbero salvato
dando l'allarme il Campidoglio, o ai cigni che adorano i fiumi.
La lingua fu la sua rovina: per colpa della lingua loquace,
il suo colore, da bianco qual era, ora è il suo contrario.
Più bella di Corònide di Larissa in tutta l'Emonia
non v'era nessuna; e tu ne fosti innamorato, nume di Delfi,
finché fu casta o almeno non sospettata. Ma l'uccello di Febo
scoprì l'adulterio e, per denunciare quella colpa
segreta, già filava spedito, inesorabile delatore,
alla volta del suo padrone. Con un battito d'ali gli è dietro,
49
per sapere tutto, la cornacchia chiacchierona e, sentito
il perché di quella corsa: «Viaggio pericoloso è il tuo,»
gli dice; « dai retta alle predizioni che ti faccio.
Guarda me cos'ero e cosa sono e chiediti la ragione:
scoprirai che a rovinarmi è stata la fedeltà. Tempo fa infatti
Minerva rinchiuse Erictonio, fanciullo creato senza madre,
dentro una cesta intessuta di vimini dell'Attica,
che affidò alle tre vergini nate da Cècrope, quel mostro,
con l'ordine che non cercassero di scoprirne il segreto.
Da un olmo fitto, nascosta tra il fremito delle foglie, io spiavo
cosa stavano facendo: due, Pàndroso ed Erse, mantengono
fede all'impegno, ma la terza, Aglàuro, accusa le sorelle
d'essere troppo paurose e con le mani scioglie i nodi: dentro
vi scorgono il bambino e disteso accanto un serpente.
Riferisco l'accaduto alla dea, e cosa ne ottengo in compenso?
d'essere esclusa dalle grazie di Minerva
e posposta all'uccello della notte!
50
MATEMATICA
Il numero aureo è un numero irrazionale per convenzione
rappresentato con la lettera greca . Questo numero, che
corrisponde a
1+√52
51
Indica il rapporto fra due lunghezze disuguali, delle quali
la maggiore è medio proporzionale tra la minore e la somma
delle due.
Prendiamo un segmento di lunghezza x, con x > 1. Ora dividiamo il segmento in
due parti, la cui prima misuri 1, la seconda il rimanente della differenza tra 1 e il
segmento x (x-1).
Il rapporto che lega il segmento x alle due parti è dato dalla proporzione
x:1=1: (x−1 )
Moltiplicando i medi e gli estremi si ha
x (x−1)=1
x2−x=1
x2−x−1=0
La quale, risolta, fornisce due soluzioni
1+√52
1−√52
Di cui la seconda viene scartata, perché appunto negativa.
Questo numero ottenuto è il valore che lega il segmento
minore alla parte maggiore, indipendentemente dalla lunghezza
del segmento iniziale.
è dunque la radice dell’equazione aurea, che sostituita
all’equazione precedente diventa
52
φ2=φ+1Andando avanti elevando ad un esponente più alto,
moltiplicando cioè l’equazione per stesso
φ3=φ2+φ=(φ+1)+φ=2φ+1
φ4=φ3+φ2=2φ+1+(φ+1)=3φ+2
φ5=φ4+φ3=3φ+2+2φ+1=5φ+3
Scopriamo che qualsiasi potenza di è uguale alla somma
delle due potenze precedenti (attraverso una serie infinita
molto famosa nella matematica, chiamata “Sequenza di Fibonacci”,
dove ogni numero è la somma dei due precedenti).
Cambiamo esempio: immaginiamo di voler trovare la soluzione
della serie infinita di radici (che chiameremo A)
A=√1+√1+√1+√1…
Se eleviamo al quadrato l’espressione, troveremo che
A2=1+√1+√1+√1+√1…Dove però
√1+√1+√1+√1…=¿A ¿
Quindi
A2=1+ASpostando
A2−A−1=0
53
Che è la medesima equazione di
φ2=φ+1
Quindi, il numero aureo è anche esprimibile come somma
infinita di radici di 1 sommate tra loro.
Infine, dividendo l’equazione con 1φ, si ottiene
φ=1+1φ
E utilizzando le frazioni continue
φ=1+1
1+1
1+11…
Quindi si deduce che
φ=1
Il numero aureo quindi, come abbiamo visto in queste 3
diverse formulazioni, nasca da sé, lui è l’origine di se
stesso, contiene al suo interno una proto-forma di sé.
Il concetto di mise en abyme trova quindi spazio anche nella
matematica, dove questo misterioso e affascinante numero
non è altro che
54
- se stesso sommato a uno
- un insieme infinito, profondo come un abisso, di
frazioni continue
- il risultato infinito di una somma con uno come addendo,
sotto radice
tre diversi modi per esprimere lo stesso numero, ognuno dei
quali dentro di sé è infinito, poiché l’infinitesima parte
dell’insieme formato ancora riuscirà a contenere una forma
del numero stesso, in un continuo gioco di scatole cinesi che
si moltiplicano all’infinito, creando un labirinto
interminabile di specchi che si possono riassumere in un
unico numero, che è diventato nel campo artistico canone di
bellezza, e proporzione fondamentale per la creazione di
numerose opere, sia architettoniche (il Partenone), sia
pittoriche (Seurat,Bagnanti ad Asnierès).
CONCLUSIONE
Nel corso di quest’analisi ho cercato di evidenziare le
modalità attraverso cui la mise en abyme è stata variamente
utilizzata nel corso dei secoli: presente già prima della sua
vera teorizzazione, si può ritrovare questa tecnica in
numerose opere artistiche e letterarie.
Questo espediente è ancora “molto giovane”, le
caratteristiche che lo differenziano da altre modalità simili
di meta-narrazione sono ancora incerte e fumose: quello che è
certo é che la mise en abyme prevede prima di tutto che
55
l’opera in questione possieda, al suo interno, una piccola
rappresentazione di sé: il secondo livello di
rappresentazione è quindi necessario.
La mise en abyme non va però indagata solo in campo artistico
e letterario: la nozione di autoriflessività, la riflessione
su se stessa, è una costante della pratica filosofica, che è
stata ampiamente indagata da Kant, da Fichte, e da molti
altri.
Aristotele, nel proprio modello filosofico, aveva teorizzato
la presenza di Dio, che rappresenta la funzione razionale
ordinatrice della realtà: Dio pensa, pensa se stesso e la
realtà. Attraverso il pensiero di se stesso, ente supremo,
eterno, assoluto, Dio dà movimento al cosmo che da lui è
attratto come oggetto d’amore e perfezione, così anche
Aristotele era ricorso al procedimento autoriflessivo, così
importante nella mise en abyme.
Gli utilizzi di questa tecnica sono innumerevoli, non sempre
palesi. I tempi passati ci hanno permesso di osservare questa
pratica in azione in numerosi campi del sapere: bisogna ora
interrogarsi sulle modalità attraverso cui essa si può
effettivamente manifestare nei tempi moderni.
Il cinema offre alla mise en abyme un ottimo strumento di
rappresentazione: nel film Inception, diretto da Christopher
Nolan, assistiamo alle avventure di un uomo capace di entrare
nella mente delle persone, e di creare al loro interno un
mondo fantastico, immaginario: l’unico limite è
l’immaginazione stessa. Nell’istante stesso in cui il
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personaggio pensa se stesso, calato in un’altra realtà, dove
quest’ultima è molto simile a quella reale, assistiamo al
procedimento della mise en abyme: uno scudo che contiene un
piccolo scudo, una quotidiana e ordinaria realtà all’interno
di una persona, che vive nella medesima.
Anche la fotografia si è servita di tale tecnica, come
abbiamo visto nell’esempio di Giovane che guarda Lorenzo Lotto. Un
altro esempio fotografico è l’opera Alain-Robbe Grillet di Giulio
Paolini, una fotografia che a mio parere ben riassume
l’approfondimento svolto.
In questa fotografia osserviamo lo scrittore Robe Grillet
ritratto mentre tiene in mano una lente, che contiene al suo
interno la sua stessa foto: la tecnica della mise en abyme è
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evidente, perché la foto contiene una piccola copia di se
stessa, inserita nella piccola lente.
La lente rappresenta simbolicamente la tendenza dell’autore a
scrivere gialli: lo strumento che rende omaggio allo
scrittore diviene il fulcro della fotografia.
L’elemento che tuttavia mi appare come principale non è la
fotografia in sé, quanto la sua forma: un ellisse deformata,
allungata: la forma della lente.
Noi vediamo la lente entro cui è contenuto Robe Grillet, che
tiene in mano una lente che continua a riflettere l’immagine
all’infinito: il regressum in infinitum più volte trattato. La
novità singolare è che questa volta la mise en abyme non parte
dall’immagine, ma dalla mise en abyme stessa, cioè
dall’oggetto che riflette all’infinito: un’innovazione
geniale rispetto alle rappresentazioni precedenti.
Per concludere, vorrei un attimo soffermarmi su un autore che
già, come abbiamo visto, si è servito di questa tecnica in
uno dei suo romanzi più famosi, Se una notte d’inverno un viaggiatore:
Italo Calvino. Chiamato a tenere sei lezioni di letteratura
all’Università di Harvard, decide di dedicare tutte le
conferenze a sei temi che a suo parere avevano segnato la
letteratura dello scorso millennio. Di fronte agli studenti,
nell’introduzione, lancia un messaggio di speranza,
sostenendo che “Nell’universo infinito della letteratura si
aprono sempre altre vie da esplorare”: non ci dice quali, si
limita a descrivere negli incontri successivi i concetti che
per lui sono fondamentali, alle porte del nuovo millennio.
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La mise en abyme è senz’altro un aspetto artistico che non è
stato ancora sufficientemente analizzato e descritto: vari
artisti se ne sono serviti intenzionalmente, non conoscendo
magari però le reali potenzialità di questa tecnica.
Affermare che potrebbe essere uno tra i nuovi pilastri della
letteratura è forzato e azzardato, ma vorrei tuttavia
riflettere ancora una volta sulle sue funzioni e sulle
innovazioni che reca con sé.
Essa descrive la situazione, la riflette, ci fa vedere la
scena da un altro punto di vista, come nel caso dei Coniugi
Arnolfini o della Donna allo specchio: la sua prima funzione è la
riflessività, che la maggior parte delle volte non è pallida
riproposizione dei contenuti, ma modifica, integrazione.
Nessuna mise en abyme, di quelle finora analizzate e
descritte, “riflette senza aggiungere”: la seconda funzione è
quindi l’integrazione, che ci permette, proprio perché
immersi ancora di più nell’abisso, di analizzare nel
dettaglio ciò che viene rappresentato. Lo specchio, simbolo
stesso di questo procedimento, ci fornisce sempre indizi
nuovi riguardo alla scena: dobbiamo essere noi a capire tra
le righe le reali finalità dell’utilizzo della mise en abyme.
Una qualsiasi opera letteraria, che magari descriva il mondo
contemporaneo, si può servire di questa tecnica per far
riflettere il lettore: ci sono stati esempi letterari
riconducibili alla distopia, dove l’autore metteva in allarme
il lettore da possibili scenari ritenuti alternativi. Quando
leggiamo Fahrenheit 451, noi lettori leggiamo un’opera al cui
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interno è descritta un’altra realtà, che può essere il nostro
futuro. Non è anche questa una mise en abyme? Certamente né
Bradbury, né Orwell, avevano considerato la loro opera in
tale senso, come un esempio di questa tecnica, tuttavia noi
possiamo immaginarla anche così; e un libro al giorno d’oggi,
che si servisse della mise en abyme, dove noi lettori leggiamo
le avventure di un protagonista, che legge, o guarda qualcosa
che descrive la nostra stessa realtà, sarebbe un impiego
nuovo di questa tecnica, e innovativo nel panorama letterario
contemporaneo. Potrebbe essere utilizzato per riflettere sia
su problematiche interne alla società, attraverso i
ragionamenti del protagonista, sia a fine di denuncia.
Ho concentrato il mio approfondimento sulla ricerca di molti
esempi possibili di mise en abyme, proprio perché convinto che
tale tecnica non possieda ad oggi un’adeguata dignità
letteraria, né una meritata analisi: spesso ci accorgiamo di
lei in un cartellone pubblicitario, il luogo dove adesso ha
trovato più spazio, magari di sfuggita, grazie a un
particolare curioso del disegno, riducendola a
un’intelligente “trovata del marchio”.
Ripercorrendo quindi la storia della mise en abyme, e
analizzandola in diversi campi, spero di averla io stesso
applicata, assolvendo alle due funzioni essenziali di tale
procedimento: riflettere, ho cercato di riportare, proprio come
uno specchio, le sue manifestazioni; integrare, spiegare cioè
tali esempi, analizzandoli e interpretandoli alla luce della
loro reale complessità.
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