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LA CANGURA traduzione di Emanuela Bonacorsi Ad Aleksej
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Incipit Cangura

Apr 06, 2016

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Voland Edizioni

Il volume raccoglie due irriverenti romanzi brevi di Juz Aleškovskij, di ambientazione tardo-staliniana: La cangura e Nikolaj Nikolaevič: il donatore di sperma, caratterizzati dalla verve polemica e paradossale del linguaggio. Nel primo Fan Fanyč è accusato del brutale omicidio della cangura Gemma allo zoo di Mosca –consumato nell’improbabile notte tra il 14 luglio 1789 e il 9 gennaio 1905 – e iniziano per lui le mostruose cerimonie dell’arresto, del processo dinanzi alle rappresentanze di tutti i paesi della costituzione staliniana, e dell’internamento in un campo di prigionia… La cangura è la storia di un’ingiustizia, epocale e collettiva, contrabbandata per verità e raccontata con il fervore parodico della più cocciuta e scanzonata insolenza. La stessa che troviamo in Nikolaj Nikolaevič: il donatore di sperma. Qui il protagonista è appena uscito dal lager e vivacchia facendo il borseggiatore sugli autobus, ma trova poi un lavoro stabile come donatore di sperma in un istituto di rice
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LA CANGURAtraduzione di Emanuela Bonacorsi

Ad Aleksej

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Allora, Kolja, procediamo con ordine, anche se non mi è chia-ro che ordine può mai esserci in questa storia assurda…

Quell’anno, il 1949, ero l’uomo più infelice del pianeta eforse di tutto il sistema solare, anche se ovviamente lo sapevosolo io. L’infelicità non è mica come essere famosi, non hainessun bisogno del riconoscimento universale per questo.

Ma procediamo con ordine. Lunedì stavo per andare incooperativa a consegnare una partita di velette appena ter-minate, quando squilla il telefono. Le velette le facevo soloper dimostrare che pure da invalido sono utile alla società, ein ogni caso, non so perché, ma quasi quasi mi piaceva conl’inchiostro punteggiare la trina di piccoli nei. Te ne stai se-duto a far piovere gocce, e ricordi i bei tempi andati, quandoti scolavi un buon whiskey White Horse con il capo della do-gana di Singapore. Dicevo, squilla il telefono. Rispondo.

– Qui Guljaev, – dico allegramente – alias Sidorov, aliasKazenelenbogen, alias von Patoff, alias Erkranc, alias Pet-jančikov, alias Eccetera!

– Te la do io, trombone reazionario! – fa una voce, e io migiro senza fiatare verso la finestra, perché capisco che moltopresto non vedrò più la libertà, e allora meglio ficcarsela be-ne in testa.

– Presentati qui tra un’ora esatta. Troverai un lasciapassa-re. Ventiquattr’ore di gattabuia per ogni minuto di ritardo. Enessuna simulazione d’infermità mentale, non ci provare.

– Preparo il fagotto?

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– Certo, e porta del tè indiano di prima scelta, io ho troppebeghe da sbrigare. Ci facciamo un teuccio bello forte.

Quel rompicoglioni riattacca e io, Kolja, rimango lì impala-to con la cornetta in mano che rigurgita i suoi angoscianti tu-tuu-tu-tuu, spine che ti si conficcano nel cuore. Allora strappola cornetta e, che tu ci creda o no, lì sul pavimento ha conti-nuato il suo tu-tuu ancora per un minuto. Da morta. Che c’è distrano? Dopotutto anche a noi unghie e barba continuano acrescere dopo morti, no? Ah, Kolja, se tiro le cuoia prima di te,volesse Iddio, tu fammi il favore, mettimi nella cassa un rasoiomarca Era e un paio di forbicine, ok?

Ma caro mio, se avessimo reagito alla sfiga da veri lavorato-ri responsabili o come certi ebrei, a quest’ora sai pure tu quan-ti infarti, ictus e cancri all’intestino retto ci saremmo cuccati.Ho calciato la cornetta defunta sotto il sofà, dovevo godermi gliultimi momenti prima di andare a consegnarmi chissà perchée per quanto. Ricordo ogni singolo secondo delle due ore checi ho messo per arrivare alla Lubjanka. Dio mio, che secondi,anzi frazioni di secondo e frazioni di frazione di secondo. Co-sì ho salutato i cari visi dell’album di famiglia e contempora-neamente ho dato un’ultima occhiata dalla finestra alla libertàdei passeri. Ho spolverato il Van Gogh. Ho deciso dove na-scondere l’oro e la grana. Di pagare le bollette me ne fotto, scu-sa l’espressione, il gas lo paghi quel luminare della chimica diNesmejanov, e la luce il grande Einstein in persona, visto chese n’intende. Dopodiché ho predisposto tutto per il momentodel ritorno alla libertà: ho apparecchiato la tavola per due conla bottiglia di cognac un po’ più vicina al mio posto. Non osavopensare a quante stellette si sarebbero aggiunte sull’etichettamentre io ero al fresco. Un anno, una stelletta, poi ancora una,e penso, tu, cognac, diventerai special, poi extra-special, e sepoi diventi addirittura un Napoleon, fa lo stesso, non sono mi-

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ca un pivello, prima o poi esco di galera e mi ti scolo, per il san-gue del tempo della mia vita, mi ti scolo con il mio tesoruccioche, eccola, la vedo già sulla stradina con il suo grembiulinobianco, esce saltelloni da scuola… Si infila in una panetteria perqualche commissione…

Non ho preparato il letto per quella notte futura. Perché but-tare minuti preziosi come spiccioli in un salvadanaio? Se il de-stino vorrà, lo preparerò poi. Così mi sono seduto un momen-to come si fa prima di un lungo viaggio, in tutto erano passatiquindici minuti dalla telefonata. Ho detto una preghiera. Hostaccato il frigorifero e ho visto una cimice, Kolja. Sai, stavo perspiaccicarla alla parete ma ho provato pietà. Perdonami, dico,sto partendo per il paese degli orrori, per un po’ non avrai nes-suno da pizzicare. Io ti assolvo, creatura vivente, poiché ti spet-tano cinquecento anni di vita, e senza la tua razione di sanguecreperai molto prima. Ho preso la bestiolina e con cautela l’hoinfilata sotto la porta della vicina di casa, Zoja. L’operazione èdurata almeno mezzo minuto. Ho portato il geranio in cucina.Ho preparato la mia valigia e sono uscito di casa.

Nota bene: sono uscito di casa. Sto sulla soglia. Sono fermosulla soglia perché le gambe non si muovono… e non è debo-lezza, non si muovono e basta. E infatti, a pensarci bene, per-ché dovrebbero muoversi? La strada non la scelgono loro. Alpercorso c’ha già pensato il cittadino tenente colonnello Ki-dalla. E se non devono scegliere, allora le gambe se ne stannoin pace. Però Kidalla ha dato un’ora di tempo e per ogni mi-nuto di ritardo ha promesso ventiquattr’ore di gattabuia. Faniente, penso, troverò una scusa. E nella mia anima scendela stessa pace che nelle gambe. Anche per lei il cittadino te-nente colonnello Kidalla ha segnato la strada. La strada, cioèla via, il sentiero, il cammino, la strada maestra, insomma ildestino.

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Naturalmente alla Čeka ci sono andato, ma non mi sononemmeno accorto di come ci sono arrivato perché, Kolja, quel-la volta la vita mi ha assestato una stampellata talmente fortetra le corna che, davvero, in un primo momento non riuscivoa capire: sogno o son desto…

Per strada mi si è attaccata al culo una befana. Indovina unpo’, le era sembrata sospetta l’occhiata che avevo rivolto al ri-tratto di Kirlo Mirlo appeso alla vetrina di un alimentari. – Èda un pezzo che la osservo – dice la vipera – e se lei non è deinostri, allora è meglio che si presenti di persona alle autoritàcompetenti e lo dica. Per caso non le piacciono i cambiamen-ti sopravvenuti nel mondo? – aggiunge la piattola occhialu-ta. – Allora parli! Qui! Ora! Parli! Invece di fare gestacci di na-scosto e schiumare la bava rancorosa del nemico che si tienefuori dalla mischia!

Quella pezza da piedi mi dà del buono a nulla e, soprattut-to non molla, la carogna, vuole sapere da che parte sto dellabarricata, quella tanghera. Allora mi metto a sputacchiare co-me un sifilitico che sto dalla parte della barricata fatta di mo-bilia soffice e antica, e che mi sto dirigendo al centro malattieveneree per il test Wassermann dopo la copula con una gra-ziosa erede dei nei del capitalismo. Naturalmente le sputacchioin faccia di proposito e penso: e se finissi dentro per teppismo,articolo 74? Ma lo sai bene anche tu: la Čeka, se occorre, setac-cia tutti i punti di smistamento, galere e gattabuie, fruga nelculo dei reparti più lontani, ma trova sempre chi vuole trovare!

A proposito di barricate e mobilia. Vedi quella toeletta? L’hopresa nel ’16 da una barricata a Kiev. Costa quanto un’automo-bile al mercato nero ma io non l’ho venduta, non la vendo enon la venderò mai, la mia chicca! Davanti a quello specchio sipettinava Maria Antonietta. Cavolo, Kolja, vuoi dirmi che suc-cede al nostro pianeta? Perché tagliano la testa alle regine? Per

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quale motivo? Perché? E a quella biliosa, pensa un po’, le fa schi-fo come guardo Karlo Marlo! E non cercare di calmarmi, lasciaperdere. Non sono mica un epilettico. I miei nervetti sono piùforti del cemento armato della centrale idroelettrica di Stalin-grado. Alla nostra, caro!

Grazie a Dio, io e te siamo persone normali! E ricordatelouna volta per tutte: le persone normali sono quelle che dopoogni putiferio del diavolo, con pazienza, attenti a non rompe-re, Dio non voglia, neanche una gamba della più semplice,sgangherata sedia viennese, demoliscono le barricate. E dun-que gli svitati sono quei fanfaroni che credono di sapere per-fettamente cosa vogliono dalla vita. Mentre cosa può mai vole-re gente che prende le sedie da casa e le trascina in strada? Lesedie servono per riposare! Tavoli, Kolja, portano i tavoli! Ma èsui tavoli che nostro fratello mangia, s’abbuffa, pappa, sbafa,rumina, vale a dire si nutre. E per finire, Kolja, queste personetrascinano sulla lercia strada letti, ossia divani, ottomane, sofà,materassi a molle e pagliericci, insomma tutto ciò su cui la gen-te dorme e schiaccia pisolini per un terzo della giornata, ci pas-sa la prima notte di nozze e l’ultima, dove i malati giacciono,gli offesi piangono, dove si figlia e si crepa. Sono svitati! Nonriescono nemmeno a mettersi d’accordo su qual è la loro partedella barricata! Ma basta parlare di loro.

Mi sgancio dalla carogna e proseguo. Cammino, dico addioalla libertà, all’aria aperta. Respiro i gas di scarico. Bevo acquafrizzante. Mi fumo una Herzegovina Flor. Guardo le polla-strelle. Addio. E vado avanti. Intanto non perdo nemmenomezzo secondo del tempo che mi hanno lasciato, ripeto, nep-pure una microfrazione di secondo…

Prima di entrare alla Čeka mi sentivo come quel tizio a cuiavevano dato trecento grammi di crosta secca dicendogli cheera l’ultimo pane della sua vita. Il tipo era un criminale astuto.

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Ha ridotto la galletta in pezzi, poi i pezzi in pezzetti, poi i pez-zetti in pezzettini. Il boia lo sollecita: – Datti una mossa, caca-sotto. È giunta la tua ora! Io ho finito il turno di lavoro, caro-gna! – E il morto che cammina gli fa: – Per legge mi spetta difinire l’ultimo sacrosanto pezzo di pane e ti giuro che diventouna iena se mi rompi, faccio chiamare il Pubblico Ministerodall’agente di custodia! E come mai niente acqua?

Non c’è via d’uscita. Il carnefice gli porta un dito d’acqua.Quello si mette in bocca una briciolina di galletta, con la lingual’arrotola, la srotola, la succhia da tutte le parti, schiocca le lab-bra, geme dal piacere, si gode la fame di vita! Il boia è fuori daigangheri, gli sbraita che stasera alla tele lo Spartak gioca controil CSKA e sono arrivati ospiti pure dal carcere di Irkutsk. Lo stan-no aspettando. Ma l’altro minaccia di non mettere la firma sot-to il provvedimento se gli impediscono di mangiare il pane ebere l’acqua. E tra l’altro nemmeno Berija in persona ha dirittodi negargli l’ultima cena. Lui sì che amava le belle regole. Peresempio, durante la perquisa, prima di sbirciare nel culo del de-tenuto, il secondino era tenuto a dire: – Chiedo scusa, cittadinoo cittadina tal dei tali. – Questa regola, purtroppo, nel nostropaese si osserva di rado. Fino a oggi si sono comportati così so-lo con Tupolev, Korolev e con il presidente del piano statale Voz-nesenskij. Insomma, il boia aspetta un’ora, due, quattro, lo mi-naccia di sparargli in modo speciale, tutto suo, che ha scopertonei corsi di specializzazione, e chiama la direzione. La direzio-ne però non gli darà mai il nullaosta alla fucilazione finché ilcondannato non avrà mangiato l’ultima briciola e bevuto l’ulti-mo sorso d’acqua. Alla fine quello non ha più nemmeno un gra-nello. Ma annuncia (cosa pensi che dica, Kolja?): – Adesso mioccupo delle molecole e poi degli atomi – dice, e di nuovo mi-naccia il boia di informare chi di dovere che lui in sostanza ne-ga l’esistenza della materia rivelandosi un oggettivo cavallo di

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troia dell’idealismo soggettivo di un carcere modello, dal mo-mento che è colpevole di avere messo in dubbio la struttura del-la materia riconosciuta ufficialmente dalle autorità. Quel boiarognoso diventa giallo, ha gli occhi offuscati di vomito verde, edice: – Vediamo, canaglia semidefunta, cosa mangerai quandonon ti rimarrà neanche un merdosissimo atomo.

E l’altro gli fa: – Io allora col suo permesso comincerò amangiare l’elettrone che, secondo Lenin, è praticamente ine-sauribile. Si azzardi a dichiarare che è esauribile e vedremo co-me reagirà il dipartimento di fisica teorica del Ministero per laSicurezza di Stato a questa dichiarazione provocatoria. Eccodove si è imboscato l’oscurantismo! – incalza. – Ecco dove si ènascosto, il furbone, per sparare in fronte ai materialisti più fe-deli! – Mi credi, Kolja, se ti dico che sono passate venti ore? Ven-ti ore di vita per trecento grammi di galletta e un dito d’acqua.

E all’improvviso gli hanno commutato la pena capitale inventicinque anni e l’hanno spedito in un istituto segreto di ri-cerca. In ogni caso, vivo. E tutto perché? Mai avere fretta!...

In pratica, come l’accademico carcerato anch’io allora suc-chiavo la polpa dei miei ultimi minuti e secondi e all’improvvi-so ho realizzato con angoscia che il tempo della libertà per lamia anima è finito. Ciao ciao, dico, Tempo della Libertà, men-tre, non ti nascondo, tremo di paura. Tremo, Kolja, poiché èterribile trapassare senza un motivo nel Tempo della Galera.Ma quando ci sono entrato, e ho chiesto il lasciapassare, ho sa-lito i gradini e in un corridoio truce ho stretto la mano a un ge-nerale, che tra parentesi mi squadra cercando di ricordare sesono qualche ministro dell’industria, quando sfoderando unsorriso per non scoraggiarmi ho bussato alla porta con la tar-ga rossa e la scritta gialla “Kidalla I. I.”, allora, Kolja, solo allorala paura è sparita. Anzi è subentrata la curiosità: che razza di ar-ticolo mi affibbieranno? Entro.

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– Salute a te – dico – mente fredda dal cuore caldo!– Vieni, vieni, cittadino Eccetera. Ricordi, finocchio, che ti

ho promesso ventiquattr’ore di gattabuia per ogni minuto diritardo?

– Ricordo, cittadino inquirente per le pratiche speciali, gra-zie tante, ma per oggi non se ne fa niente. Lei mi ha ordinatouna confezione di tè indiano e i negozi dall’una alle due sonochiusi per la pausa pranzo. Di conseguenza sono stato costret-to a tardare. Excuse me.

– Cosa? Che pausa? – si stupisce Kidalla. Sai, Kolja, alle vol-te sembra un bambino, non sa proprio niente delle cose dellavita: solo interrogatori, un interrogatorio dietro l’altro venti-quattr’ore su ventiquattro, interrogatori fino alle prossime fe-rie. Siamo noi che contiamo i giorni e le notti, loro invece solole ferie. E quella volta mi è toccato spiegare a Kidalla il signifi-cato sociale di ‘pausa pranzo’. Glielo spiego e intanto mi com-piaccio di avergli fottuto un’altra ora buona. Mica sono un pi-vello: il tè l’avevo portato da casa.

Poi ci siamo guardati a lungo.Ripensavamo al nostro vecchio incontro, prima della guer-

ra, quando Kidalla mi acciuffò insieme al mio socio alla sta-zione Kievskaja. Si trattava di una puttanata, ma s’era sco-modato il compagno Rastrelli. La moglie di uno della NEP,uno speculatore, da tempo mi supplicava di far fuori il mari-to in cambio di una bella sommetta. Ti dirò, Kolja, anche seme la sbattevo, la sua pretesa non mi piaceva. Tuttavia bluffoe accetto, seccato che quel po’ di sesso le avesse dato l’im-pressione di avere di fronte un sicario. Li avrei puniti en-trambi! Lei, la vipera, per avere rimbambito il consorte, e lui,il cervo, così imparava a sposarsi con le fedifraghe sporcac-cione. A quella gatta baffuta ho esposto un piano, e lei lo haaccettato: prima io e il mio socio lo ammazziamo, poi lo fac-

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ciamo a pezzi e spediamo il pacco con i miseri resti ai suoiconcorrenti assetati di sangue.

– Quelli se lo volevano sbranare, e allora prego: offro io! –ha detto la futura vedova e come alibi è andata a vedere Il lagodei cigni. Aveva promesso di pagare solo davanti alle prove cheil maritino era trapassato. Bene. Entro nella loggia durante lamorte del cigno e le mostro di straforo un moncone di bracciopeloso, excuse me. Il mio socio l’aveva rimediato all’obitorio incambio di una bottiglia. Ai tempi della dannata NEP, nei rug-genti anni ’20, Kolja, tutto si vendeva e tutto si comprava. Nel-l’intervallo ricevo un sacchetto con l’oro e cinque bei diaman-toni, e mi volatilizzo. Pietre grosse come una stella da mare-sciallo. Mi volatilizzo, dicevo. Io e il mio socio ci mettiamo apensare: dove ficcare quel gelido braccio morto? Lui proponedi lasciarlo davanti al Mausoleo di Lenin con un biglietto deltipo “i giovani comunisti hanno amputato il braccio sinistro aun deviazionista di destra”. Io mi rifiuto. – Perché sprecare que-sto bendiddio? – gli dico. – Diamolo piuttosto per cena a unleone o a una tigre.

Penetriamo nello zoo da un buco nel recinto. Un silenzio dalager dopo il coprifuoco. Ci avviciniamo alla gabbia della tigre.La belva dorme.

– Micio, micio! Vieni, c’è posta per te. Sveglia, la cena è ser-vita. Micio, micio!

Il felino si sveglia, manda un ruggito, e gli passo il bracciomorto attraverso le sbarre. Non ci crederai, Kolja, ma la micia,fiutando il nostro modesto pensierino, dalla gioia e dallo stu-pore attacca a fare le fusa, ci ringrazia con lo sguardo rabbo-nito e si mette a leccare l’arto ormai dismesso. Povera bestia,ingabbiata a vita, uggiolava. Secondo me piangeva dalla feli-cità di mangiarsi la carne del suo eterno nemico e offensore,l’uomo. A questo punto, allertati, i predatori delle gabbie vi-

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cine iniziano ad agitarsi. Ululati, ruggiti, ringhi, digrignar didenti, batticoda sull’assito. Insomma, un casino infernale. Cela siamo filata.

Ma la nostra generosa iniziativa ha segnato la fine della NEP.Proprio così, Kolja, proprio così. Adesso ti racconto una sacro-santa verità storica che per quegli idioti degli storici è rimastaun enigma insondabile. Mi spiego.

L’indomani mattina il guardiano dello zoo trova il dito in-dice accanto alla gabbia. Forse la tigre l’aveva spazzato via conla coda o magari non l’aveva proprio gradito. Il guardiano, mi-ca scemo, lo porta alla Čeka, lo sbatte sul tavolo di Ežov. Quel-lo dice: – Ma guarda un po’! – e si precipita da Stalin col dito. –Così e cosà, Iosif Vissarionovič, la destra e i leninisti borghesisono diventati più insolenti. I proprietari di tre negozi hannoucciso il comunista Binezon perché li aveva denunciati per oc-cultamento di utili ed evasione fiscale. L’hanno ammazzato edato in pasto ai leoni, alle tigri, alle pantere e ai ghepardi. Unpezzo alla volta. Di notte. È avanzato soltanto l’indice. La mo-glie e i compagni della cellula di partito l’hanno riconosciutoperché Binezon lo usava spesso per minacciare la NEP.

– È rimarchevole che del compagno comunista Binezon siaavanzato non un dito qualunque, ma proprio l’indice. Il nemi-co non riuscirà a dare il partito e il suo Comitato Centrale inpasto alle belve. Noi bolscevichi non siamo i primi cristiani el’URSS non è l’antica Roma. Non dura per sempre il vento inpoppa. Questa è la fine della NEP. Procedete con l’industrializ-zazione e la collettivizzazione. Applicate le direttive, – ha det-to Stalin, e adesso capisci, Kolja, che se non avessi dato il brac-cio del comunista Binezon in pasto alla tigre, la storia della Rus-sia forse avrebbe avuto tutt’altro corso, e la NEP avrebbe scon-fitto il socialismo stalinista, assurdo e sanguinario. Mi sentoterribilmente in colpa, non me lo perdonerò mai.

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Dunque ce la siamo filata dallo zoo, abbiamo rimorchiatodue pollastrelle e avevo appena dato una pacca sul sedere diuna cuccettista di mia conoscenza, consegnandole i biglietti,quando sento il maledetto “mani in alto!”.

Obbedisco. Kidalla mi perquisisce, allora era tenente, e vie-ne fuori tutta la storia, Kolja: quella baldracca della moglie del-lo speculatore subito dopo Il lago dei cigni si era portata a casauno stallone professionista. Immagina lo spettacolo, lei che ge-me sotto il suo stallone ed è lì lì per venire, quando all’improv-viso entra in casa il maritino, vivo e vegeto, 140 chili di ciccia,e vede sull’antico letto la fantastica scena. Lo stallone profes-sionista, in seguito rivelatosi un socialrivoluzionario nevraste-nico, grida: – Fermo! Chi è là? – e gli spara un colpo. Quindi leigli ordina di legarla e picchiarla, per completare il quadretto.Lui esegue, la concia per le feste e si dilegua. Lei solleva un pol-verone, arriva la Čeka e così ho conosciuto Kidalla. Quella mi-serevole gattamorta ha descritto i nostri connotati e ha confe-zionato la sua messinscena: noi che la violentiamo brutalmen-te sotto gli occhi del marito, poi lo freddiamo, diamo un’altra ri-passata alla poverina, la leghiamo e via, facciamo piazza puli-ta e ce la filiamo. Per una roba simile ti becchi il massimo del-la pena. Tutte le prove erano contro me e il mio socio. Ci sei? Ioperaltro ancora non conoscevo il retroscena, così cerco di con-vincere Kidalla che al marito abbiamo dato il cloroformio, gliabbiamo rubato l’anello e ce la siamo filata e, naturalmente,siamo pronti a essere processati per truffa, per estorsione e peraver comprato il peloso braccio morto da un ladro di ‘effettipersonali’ all’obitorio.

– Il nostro alibi è trasparente come il vetro – dico a Kidalla.– E per il vostro vetro ho una bella punta di cazzutissimo

diamante – risponde Kidalla.E io:

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– E che ne direbbe di un bel missile interstellare sul suo dia-mante del cazzo?

Al che ricevo sul cranio il fermacarte di Stolypin. Mi deter-go il sangue e insisto:

– Non l’abbiamo ammazzato noi, noi ci occupiamo di altro.Anzi, – dico – ci accusate di un crimine comune, mentre in re-altà la violenza carnale ne fa un caso politico. A cosa vi serve?

A questo punto fanno entrare il dentista Kogan che era sta-to fermato. Mentre il marito veniva ammazzato, io e il mio so-cio gli vendevamo l’oro per i denti e grazie al cielo, per con-suetudine storica, agli ebrei piace mercanteggiare! Siamo sta-ti lì a mercanteggiare due ore buone, e Kidalla non può mette-re in dubbio le parole di Kogan perché quello aveva fatto la den-tiera a Lenin, Bucharin, Rykov, Zinov’ev e Kamenev. Tanto piùche dopo la deposizione di Kogan, la gatta vuota il sacco. E Ki-dalla comincia a sentire puzza di bruciato.

Io e il mio socio siamo stati scagionati, per quella volta nonse n’è fatto niente. Ma rimanevo in debito con lui. Poi mi hapreso in castagna altre due volte, all’Ambasciata d’Etiopia e al-la dacia di rappresentanza in Crimea, e mi ha sempre lasciatoandare. – Smamma, caro Eccetera – questo soprannome glipiaceva più di tutti – arriverà il tuo momento, per te ho in ser-bo un caso tutto speciale.

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NIKOLAJ NIKOLAEVIČ: IL DONATORE DI SPERMAtraduzione di Marco Dinelli

A Irina, Ol’ga e Andrejin ricordo delle zanzare

del merluzzo frescoe del rifugio sul lido di Riga.

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E ora stammi a sentire. So già che non ti annoierai. E se ti an-noi, significa che sei proprio un coglione e non capisci un caz-zo né di biologia molecolare né della mia storia. In confronto ate io sono un vero fustazzo, superequipaggiato, muovo i baffiche è una bellezza, ho una Moskvič che, anche se vecchia, cor-re da dio; un appartamento che, ti prego di notare, lo stato miha dato gratis, e una moglie che presto si piglia pure la tesi didottorato. Mia moglie, bisogna dirlo, è un enigma. Di un’oscu-rità più impenetrabile del mistero più profondo. La sfinge stes-sa, quella degli arabi (ne ho visto un modellino), è una stron-zata in confronto a lei. E poi anche a volere cavarci qualcosa,non puoi mica costringerla a spifferare niente, la sfinge. Be’, dimia moglie avremo occasione di riparlare. Vacci piano a versa-re, metà bicchierino. Questa è la dose che assume il vero intel-lettuale, per non partire del tutto. E butta giù un boccone, sen-nò t’inciucchi e poi non capisci più un cazzo. Per farla breve, fuiscarcerato dopo la guerra, all’età di diciannove anni. Mia ziami fece ottenere la residenza a Mosca: si era fatta scopare dalresponsabile dell’ufficio passaporti direttamente sull’impian-tito dell’ufficio. Per un mese non lavorai da nessuna parte, nonne avevo voglia. Gattonavo di soppiatto, tra il pigia pigia dellestazioni, per giunta da solo, senza un complice a cui rifilare ilmalloppo. Un lavoro d’artista. Vedi le mie dita? Ojstrach mi fauna sega. Le mie sono più lunghe. E, detto tra noi, con questedita io sentivo che banconote c’erano nel lasagno oppure nelletasche. Prendevo la grana e non mi sono mai sbagliato una vol-

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ta. Quanti ce ne sono invece di pivelli che sbavano dietro unrublo o un certificato di servizio quasi fosse una banconota daun milione di dollari, quante forze sprecano questi imbranati,si tengono in equilibrio in punta di piedi, provano ad aggan-ciarla, la sfilano, e invece poi li beccano e li sbattono dentro acalci in culo. Qui da noi non conta quanto ti fotti, il fatto è chenon devi rubare. Insomma me ne andavo in giro a gattonarebello tranquillo. Conoscevo la linea B come le mie tasche, e an-che quella del tranvai A, detto ‘Annarella’. E guarda che nonprendevo nemmeno le tessere annonarie. E se mi capitavano,le rispedivo per posta o le mollavo sul banco degli oggetti smar-riti. I soldi ce li avevo. Mi stavo per sposare. All’improvviso miazia mi annunciò:

– Il mio vicino di casa ti prende a lavorare insieme a lui al-l’Istituto. Farai l’aiutante. Sennò ti beccano, stanne sicuro. Trapoco aumentano le pene. Me l’ha raccontato lui, e lui c’ha il fra-tello alla Lubjanka che cattura le spie e sa tutto direttamente daBerija.

E infatti il decreto uscì per davvero. Da cinque a venticin-que anni. Mi presi una bella strizza. Non so come, mi era an-data bene per un sacco di tempo. Avrei anche voluto prendereuna qualifica, ma che ci avrei fatto? Non mi piaceva lavorare.Non ci riuscivo, punto e basta. Nemmeno se mi ammazzavi.Nel campo di lavoro ci avevano fatto perdere l’abitudine. Mapoi mi toccò lo stesso andare a lavorare all’Istituto, perché se-condo una credenza popolare se uno si prende una strizza vuoldire che presto lo beccano.

Ogni mattina ci salutavamo con questo vicino di casa. Luistava a lungo al cesso, faceva frusciare il giornale e rideva. Ti-rava l’acqua e si spanciava dalle risate. Gli scienziati hanno tut-ti qualche cazzo strano per la testa. Mi sa che si era scopato lazia pure lui, e insomma iniziai a lavorare nel suo laboratorio. Di

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cognome faceva Kimza, non se ne capiva la nazionalità, ma nonera né ebreo né russo. Un bell’uomo, ma dall’aspetto stanco,sui trent’anni.

– Porterai i reagenti, – spiegò – e mi aiuterai a fare delle pro-ve. Se ti piace, dopo ti mando a studiare. Cosa ne pensi?

– Per noialtri – dico – è la stessa sega. Scopata una, scopatetutte.

– Che qui dentro non si sentano più parolacce.– Sissignore.

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Lavoravo da una settimana. Trasportavo stronzate di ogni ge-nere, lavavo boccette, mi ero bruciato la lingua a pranzo colsale e avevo cacato azzurro per circa quattro giorni. Pensavofosse sale da cucina e invece, porcogiuda, era sale chimico. Ilcertificato di malattia, però, non l’avevo fatto. Sennò mi avreb-bero messo la peretta nel culo come era successo al campo dilavoro. Quella volta mi ero scolato una bottiglietta d’inchio-stro, per non essere trasferito in un altro campo più a Nord...Insomma, lavoravo. Attrezzavo il nuovo laboratorio. C’era unfottìo di microscopi, strumenti, motori, eccetera. All’improv-viso mi stufai di sgroppare. Così decisi di fare qualche biri-chinata. Al buffet sfilai il lasagno dalla berta, insomma dallatasca, al direttore dell’ufficio del personale, per amore dellamia arte. E, porcodio, si scatenò il putiferio! Dopo circa dueore arrivò una squadra di poliziotti in borghese e non lascia-rono uscire nessuno dall’Istituto. Perquisa generale, ci man-cava poco che ti guardavano anche nell’entrata posteriore. Etutto questo per quale motivo? Andai col lasagno a cacare, loaprii, ma dentro soldi non ce n’erano. Solo scartoffie. O me-glio, denunce segrete. E una delazione anche contro il mioKimza. E c’era scritto che chissà dove cazzo mandava a finirela scienza, che alle riunioni non cantava, non applaudiva, vo-tava con un’aria schifata e quando trasmettevano la musicaleggera dei compositori sovietici spegneva la radio. I suoi espe-rimenti erano contro l’essere umano, questa sublime creatura,e quindi indirettamente indebolivano l’economia. Capito? Co-

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minciava a puzzare di galera per Kimza, venticinque anni digalera. Articolo 58. Ma a me non piacciono gli spioni. Mi ci pu-lii, con le altre delazioni. Ne veniva fuori che tutto l’Istituto eraun vespaio di complotti. E allora? Anch’io forse dovevo farneparte? Uscii dal cesso con la delazione per Kimza. Feci a fetteil lasagno col leccasapone e lo buttai nella tazza. Qualcuno da-va strattoni alla porta, urlava e smaniava. Uscii, spiegai che miero strafogato di sostanze chimiche e che mica la porta è undente, non serviva a un cazzo tirare.

– Guardi, – dissi a Kimza – c’è una soffiata su di lei.Lui lesse, impallidì, mi ringraziò, capì tutto, e mandò a ca-

gare il documento nell’acido più potente. Il documento se neandò a farsi fottere, sciogliendosi davanti ai nostri occhi. E inquel momento mi chiamarono per presentarmi all’ufficio delpersonale. Non cantai, si capisce.

– Ben altri calzolari hanno provato a farmi le scarpe, micauna volta sola, ma i lacci non tenevano.

– Ti sei sporcato le mani anche tu, abbiamo le testimonian-ze. Hai forse nostalgia del passato?

– Me ne sbatto io delle testimonianze. Ma almeno c’eranomolti soldi?

– Non c’erano soldi.– Be’, allora io non mi sarei mica sprecato per una merda si-

mile. – I tizi in borghese si fecero una risata. Avevano ripresofiato, si vede, grazie al mio linguaggio semplice, e mi rilascia-rono.

L’indomani dissi a Kimza che non avrei più lavorato. Perprincipio io sono uno che non lavora, un artista del propriomestiere. Mi piace, dissi, stare sdraiato sull’ottomana a farmiabbuffate di libri. A questo punto mi diede un’occhiata stranae, soprattutto, lunga, e cominciò da lontano col fatto dell’im-portanza per tutta l’umanità della sua scienza del cavolo, della

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biologia, disse che lui iniziava a fare delle prove di laboratorioche non avevano eguali. In una parola, che si trattava di unesperimento. E io gli ero necessario. Era un lavoro creativo ericco di spunti. Ma il bello è che non era nemmeno un lavoro,ma un vero piacere, e per di più ben pagato. Bastava solo nonavere pregiudizi, e pensare al futuro dell’umanità. Insisteva so-prattutto su questo.

– Senti, – dissi – non prendermi per il culo, di che si tratta?– Devi diventare donatore.– Che? devo donare sangue? – No, non il sangue.– E cosa, – risi – merda o piscia?– Ci serve dello sperma, Nikolaj. Sperma! – Che roba è? – È quella cosa da cui vengono fuori i bambini.– Macché sperma e sperma. È sborro. Sborra, detto in ma-

niera scientifica.– Chiamiamola pure sborra. Sei d’accordo a donarla per la

scienza? Ma non ti spaventare. Non c’è nulla di vergognosoin tutto questo. A proposito, ti viene garantita la massima se-gretezza.

– E perché non la doni tu? – domandai sospettoso. Lui si ac-cigliò.

– Possono accusarmi di aver scelto l’oggetto della ricerca peril carattere di parentela. Su, accetta.

A questo punto mi sedetti per terra e sbottai a ridere. Maguarda tu che cazzo di lavoro! Per poco non mi stavo piscian-do addosso, e iniziò a farmi male l’appendice.

– Che cavolo ridi, come un imbecille. Siediti e sta’ a sentirea cosa ci serve il tuo sperma – disse Kimza.

A parte gli scherzi, gli diedi ascolto, e il piano di Kimza ri-sultò essere il seguente: mi facevo le seghe e le pippe, che poi è

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la stessa cosa, e questa sborra l’avrebbero messa sotto il micro-scopio e l’avrebbero studiata. Dopo avrebbero provato a intro-durla nell’utero di una femmina sterile e avrebbero visto se fa-ceva centro oppure no. Qui lo interruppi a proposito del paga-mento degli alimenti se succedeva qualcosa. Gliene fai fare unacinquina, e poi devi farti il mazzo per pagare.

– Di questo – mi rassicurò – non ti devi preoccupare.E poi lui aveva anche dei piani assolutamente segreti sulla

mia sborra. Promise di dirmeli non appena iniziavamo gliesperimenti. E ci credi, mi si era rizzato, il bambino, a forza ditutti questi discorsi: ero pronto anche subito! E poi per me nonera la prima volta. Al campo di lavoro uno su cento non si fa lepippe, e i rimanenti novantanove si tirano seghe come fosseromille. Il fatto è che non ce la fai a sopravvivere moralmente. Al-cuni si facevano una sega e poi andavano in giro per tre giornicome morti, soffrivano per la vergogna. E rimanevano trau-matizzati per tutta la vita. Avevo un amico ebreo, Lev Mil’štejn,truffatore. Ritirata, si mettevano in moto i pistoni, e Lev digri-gnava i denti, lottava con sé stesso, poi gradatamente si placa-va. Io lo tranquillizzavo.

– È l’organismo che lo esige, e non bisogna prenderlo in gi-ro. Lui non c’entra. Non bisogna fargli da Pubblico Ministero!

Mah, lasciamo stare. Riflettei un po’ e m’informai sulle con-dizioni. Quante volte scaricare? Com’è la giornata lavorativa,lo stipendio e il nome della mansione sul libretto di lavoro?

– Un orgasmo una volta al giorno, la mattina – disse Kimza.– Ti assumiamo come collaboratore tecnico. Lo stipendio se-condo l’organigramma. La giornata lavorativa non è a orario fis-so. Ottocentoventi rubli. Dopo l’orgasmo, te ne vai al cinema.

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Non diedi a vedere di essere meravigliato, o meglio, di essere ri-masto rincoglionito per lo stupore. Arrivo, pensavo, scarico evia sul’‘Annarella’ o sul filobus B, detto ‘Bacherozzo’. E puta ca-so mi beccavano, avevo sempre un’attenuante: lavoravo al-l’Istituto. Insomma, accettai.

Quella sera feci un salto da un vecchio gratta, un veteranodei furti internazionali. Era stato un ladro di altissimo livello,fino a quando non era arrivato Karacupa la guardia doganalecon il suo fedele amico Ingus, e avevano messo il lucchetto al-le frontiere.

– Tu, – disse il gratta – hai avuto un gran culo. Però ti seisvenduto. Guarda che il sugo vale più del caviale nero. Quasicome il platino e il radio. Sei proprio un cazzone doc! Io a que-sti biologi glieli venderei al pezzo i miei spermatozoi. Gli ven-gono dati apposta i microscopi, per occuparsi della minuta-glia... Al pezzo, porca troia! Capito?

– Eh sì, come potrei non aver capito. Sono davvero un min-chione. In effetti gli spermatozoi sono le nostre delikatessen. Epoi farsi spesso le seghe nuoce gravemente alla salute. Nientestrizza, – dissi al gratta – alzerò il prezzo gradualmente. Nonsono mica un pivello.

– L’unica cosa che mi dispiace è che la sborra non si può an-nacquare. Come fanno con il latte che vendono nei negozi. Sa-rebbe stato un bell’affare – commentò il gratta.

– Porcodio! – esclamai colpendomi con la mano sulla fron-te. – Ho trovato! Cercherò di non scaricarlo tutto alla prima

???

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botta. Poi la seconda sbattutina del manico me la faccio paga-re come straordinario!

– Non te lo consiglio, – disse il gratta con serietà – non sideve mai interrompere il coito, avessi pure solo il braccio peramico. È nocivo per la salute. Una l’ho persino mollata per que-sto motivo.

Non faceva altro che strillare: “Vienitene da un’altra parte!”E io: “Nell’orecchio medio va bene?” “Non importa dove, ba-sta che non sia nella mater!” Porca troia, per colpa sua non micrescevano più le unghie dei piedi. Ci credi? L’ho dovuta mol-lare. Quindi vieni come si deve. Quando ti danno la busta pa-ga, paghi da bere. Sì! Spellali, fatti dare un po’ di carburantecome indennità per lavori nocivi e digli che a quelli che dona-no il sangue dopo gli danno una bella dose di roba solida. Nonfare il pivellino. In America, scarichi cinque volte e ti sei fattola macchina. Chiaro?

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