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I processi di formazione degli Stati Normanni di Inghilterra e Sicilia: analogie e differenze

Apr 01, 2023

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Andrea Colli
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Indice

INTRODUZIONE

1. I tempi della Conquista

2. La Conquista normanna dell'Inghilterra

2.1 Background storico e ascesa dei Godwineson

2.2 Guglielmo il Conquistatore

3. La Conquista normanna della Sicilia

3.1 I primi Normanni in Italia

3.2 Roberto il Guiscardo

3.3 Ruggero Gran Conte di Calabria e Ruggero II

CAPITOLO I - FEUDALESIMO NORMANNO

1. L'istituzione feudale nell'Inghilterra normanna

2. L'istituzione feudale nel Mezzogiorno normanno

CAPITOLO II - RAPPORTI CON IL PAPATO E ORGANIZZAZIONE

DELLA CHIESA: LA CONCEZIONE DEL POTERE

1. Il caso inglese: tra autonomia e riforma

1.1 Il problema della legittimazione della Conquista

1.2 Il riconoscimento della Conquista e la riforma della Chiesa inglese

2. I rapporti tra Altavilla e Papato

2.1 La situazione della Chiesa prima della Conquista

2.2 Mutamento dei rapporti tra Normanni e Santa Sede

CAPITOLO III - ASSIMILAZIONE DELLE ETNIE NEI DUE REGNI

1. Relazioni interetniche nell'Inghilterra normanna: una sintesi

2. Il "mosaico" siciliano

CONCLUSIONI

BIBLIOGRAFIA

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A Luigi Briganti Senior

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INTRODUZIONE

Il Regno di Sicilia e il Regno d’Inghilterra sono i due Stati

Normanni più importanti del medioevo. Separati geograficamente da

migliaia di chilometri e destinatari di fortune del tutto diverse, essi

condividono tuttavia alcune analogie, nel processo di formazione, che

possono essere ricondotte a un principale elemento comune, che molti

studiosi nel corso del tempo hanno definito come Normanitas. Una

definizione di questo concetto, sarà data più avanti nel corso di questa

introduzione. Nel frattempo è opportuno illustrare gli scopi di questo

lavoro.

Partendo dalla considerazione che i due Stati hanno rappresentato

due entità fondamentali nello sviluppo delle vicende storiche del

medioevo centrale, è mio interesse analizzare le vicissitudini che hanno

portato alla formazione di entrambi e quali siano le analogie, ma anche

e soprattutto le differenze, che possono riscontrarsi tanto nel processo

di fondazione quanto nella gestione delle entità politiche che hanno

avuto vita dalle rispettive imprese di conquista.

Vi sono alcuni elementi che saltano subito all’occhio e che possono

essere definiti “estetici”, nel senso che definiscono caratteristiche

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oggettive che non si possono negare, che giocano senza dubbio un

ruolo di peso nella riuscita dei processi di conquista prima e di

consolidamento poi. Il primo di questi elementi è senza dubbio

l’appartenenza dei conquistatori ad un gruppo etnico ben definito: i

Normanni. Come accennato in precedenza, gli studiosi hanno dibattuto

a lungo sull’esistenza o meno di una Normanitas1, ovvero di

caratteristiche che inquadrassero i soggetti promotori delle rispettive

conquiste come appartenenti ad un’etnia unitaria, dotata di una

propria cultura, una propria esperienza e un certo grado di alterità

rispetto ai soggetti conquistati.

Senza dubbio è possibile stabilire alcune di queste caratteristiche

come peculiari dei Normanni, come ad esempio l’attitudine alla

battaglia e l’esperienza bellica, messa alla prova in più di un’occasione

durante la permanenza nella natia Normandia e appannaggio di una

classe di cavalieri che spesso coincideva con l’aristocrazia.

Si può riconoscere lo sviluppo di una fitta rete di relazioni

vassallatiche, che resero il feudalesimo una questione peculiarmente

normanna, e non più un’istituzione francese (v. infra). Lo sviluppo

feudale è rafforzato dall’accelerazione dei processi di incastellamento,

che già in Normandia avevano iniziato a comparire con una certa

frequenza fin dall’XI secolo.

Un’altra caratteristica peculiarmente normanna è quella

commistione tra Stato e Chiesa, tra potere regale e potere religioso, che

vedeva il duca capo dell’amministrazione religiosa: c’erano gli

1 Si confrontino a tal proposito R. Allen Brown, I Normanni – PIEMME, 1998, p. 47 e segg. e H. Thomas,

The English and the Normans. Ethnic hostility, assimilation and identity 1066-c.1220 – Oxford University

Press, 2003.

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arcivescovi, ma erano nominati dal duca, ed entrambi «sedevano fianco

a fianco, per così dire, a Rouen»2.

Normanitas è l’insieme di tutti questi fattori, ma è anche un

costrutto, per usare le parole di Hugh Thomas3, qualcosa di cui i

contemporanei non avevano coscienza a tal punto da poter asserire che

nell’espandersi promuovevano e imponevano attivamente il loro essere

Normanni. Per dirla ancora con Allen Brown: «considerare e “fondere”

assieme tali elementi al fine di ottenere la Normanitas è forse un’altra

questione; certamente tutti contribuirono però a quel senso di sicurezza

supremo e sovrano di stampo normanno, reperibile ovunque oltre

Manica […]. Certamente nella seconda metà dell’XI secolo la Chiesa

normanna aveva molto di cui vantarsi – ecco ancora emergere

quell’entusiastica sicurezza di sé che è alla base della Normanitas»4.

Da qui scaturiscono altri due elementi in comune: il primo è

l’importazione del sistema feudale, che – come vedremo nel corso della

trattazione – ha trovato applicazione in modi differenti e altrettante

diverse fortune ha avuto nei due Stati. In Normandia, il sistema

feudale era alla base del governo da generazioni, al momento della

diaspora normanna, tanto che si ritiene che in questo i Normanni

fossero più francesi del Re di Francia5, essendo l’istituto feudale una

caratteristica propria della Francia carolingia. E tuttavia riuscirono a

metterci del loro e a renderlo ancora più complesso ed efficiente,

rendendo stabile il sistema di gestione statale e solidi i legami di

fedeltà che legavano i vassalli al proprio signore.

2 R. Allen Brown, op. cit. p. 59. 3 H. Thomas, The English and the Normans, p. 9 e segg. 4 R. Allen Brown, op. cit. pp. 65-68 5 R. Allen Brown, op. cit. p. 52 e segg.

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La seconda caratteristica è l’assimilazione. Entrambi i gruppi

conquistatori si sono trovati immersi in realtà in cui non dovettero fare

i conti con un solo gruppo etnico (quello dei conquistati), ma con la

presenza di più rappresentanze, ottenendo risultati differenti nella

genesi identitaria di un popolo. Ciò è particolarmente vero per la

Sicilia, che aveva vissuto quasi due secoli di dominazione araba e

proprio grazie ai Normanni venne restituita alla Cristianità, mentre

nelle altre regioni che avrebbero compreso il futuro regno (Calabria,

Puglia e Italia) convivevano come vicini, spesso in lotta tra loro, Greci

(bizantini) e Longobardi.

Relativamente meno complicata fu la questione etnica per

Guglielmo il Conquistatore e i suoi discendenti, che si trovarono a fare

i conti con la popolazione sconfitta degli Anglo-Sassoni (che si

ritenevano inglesi) e con poche altre minoranze, come i danesi e gli

scandinavi, ai quali potrebbero essere aggiunte le etnie di lingua celtica

come i gallesi e gli scozzesi, con cui i Normanni dovettero dialogare,

ma che non entrarono mai a far parte – sia identitariamente, sia

geograficamente – del regno anglo-normanno, se non come entità

autonome o legate da vincoli matrimoniali.

A queste analogie qualitative, si possono aggiungere alcune

analogie contingenti che in qualche modo hanno favorito i due processi

di conquista. Al momento della Conquista dell’Inghilterra, ad esempio,

Guglielmo il Conquistatore e il suo esercito poterono approfittare di

una congiuntura di eventi favorevoli alla loro causa: la presenza di

nemici interni al regno d’Inghilterra, che minavano l’autorità stessa di

Harold Godwineson; la sottovalutazione, da parte di quest’ultimo,

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della forza del nemico; l’attacco simultaneo della flotta del re

norvegese Harald Haldrada. A questo si aggiunga la determinazione di

Guglielmo nel perseguire la restaurazione di quello che riteneva essere

un diritto usurpato, ovvero la sua successione in quanto legittimo

erede di Edoardo il Confessore.

Anche in Sicilia i Normanni poterono fare affidamento su episodi

favorevoli e del tutto accidentali. Insediatisi in Italia Meridionale fin

dai primi anni dell’XI secolo come avventurieri e quindi mercenari,

riuscirono a farsi riconoscere, con Rainulfo Drengot, la signoria di

Aversa, primo centro normanno nella regione. Da qui, riuscirono

abilmente ad approfittare e delle divisioni interne ai signori locali

(greci e longobardi) e della impossibilità di reazione dell’esercito

bizantino, impegnato per buona parte dell’arco storico della conquista

nel gestire la situazione di crisi alle frontiere sud-orientali dell’Impero.

A questo si aggiunga anche l’iniziale appoggio del Papato, che fece

affidamento sulla solida esperienza militare normanna per scacciare

dal sud della penisola gli ultimi residui greci, e imporre così la

supremazia latina su tutto l’Occidente.

1. I tempi della Conquista

È stato fin qui mostrato come i due processi abbiano in comune

alcuni elementi generali. Ma l’analisi non vuole – e non può – certo

fermarsi qui, dal momento che per quante analogie si possano

riscontrare tra le parti in causa nei processi in corso, molte sono anche

le differenze. A partire dai tempi.

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La conquista inglese è avvenuta con notevole rapidità: pianificata

all’indomani della presunta usurpazione del trono da parte di Harold6

nel 1065, le campagne militari si svolsero tutte tra l’estate e la fine del

1066. Ci vollero poi all’incirca altri cinque anni per normalizzare la

situazione e pacificare definitivamente il paese, ma si può definire il

processo una “conquista lampo”.

Ben diversa fu invece la situazione in Italia Meridionale, dove la

penetrazione normanna fu lenta e graduale, iniziò tra la fine del X e gli

inizi dell’XI secolo e terminò con la creazione di uno Stato unitario solo

alla metà del XII secolo. In poco meno di due secoli, i Normanni del

Sud si attirarono le invidie, gli asti e le inimicizie di quasi tutta la

Cristianità latina, spronata dal Papato che voleva imporre il suo

dominio sull’Italia Meridionale, e dall’Impero d’Oriente, che allo stesso

modo voleva recuperare quelle terre, perdute proprio a causa dei

Normanni.

Un’altra differenza riguarda i protagonisti. La Conquista

dell’Inghilterra è l’impresa di un solo uomo: Guglielmo il

Conquistatore. Sua è l’iniziativa, sua è la determinazione, sua è la

vittoria. Di contro la Conquista dell’Italia Meridionale assume i tratti di

una saga familiare: il regno venne fondato infine da Ruggero II, ma il

processo fu iniziato dai suoi antenati, quegli otto figli di Tancredi di

Hauteville, che sul finire del X secolo partirono in cerca di fortuna e la

trovarono assumendo ciascuno il controllo di una signoria in Sud Italia.

6 La tradizione – soprattutto di parte normanna, come si evince da alcune fonti, per esempio l’Arazzo di Bayeux – vuole che nel 1065 Harold, si recasse in Normandia a rendere omaggio a Guglielmo e a giurargli sostegno nella sua rivendicazione del trono. Vedi infra.

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Se Guglielmo era un capo di Stato, un nobile di alto rango (il Duca

di Normandia), gli Altavilla erano i discendenti di un’aristocrazia

minore, che aveva le sue basi nel piccolo centro di Hauteville in

Normandia, troppo piccolo per poter garantire a ciascun erede la parte

che gli spettava.

Guglielmo partiva alla conquista di un regno straniero perché il

diritto era dalla sua parte: era il legittimo erede di quel trono e doveva

riprendersi ciò che considerava suo di diritto. Dall’altra parte, gli

Altavilla erano mercenari e avventurieri, che avevano conquistato la

fiducia dei loro datori di lavoro prima ancora che le terre su cui si

sarebbero insediati. Carpirono i segreti e compresero i punti deboli, le

diffidenze, le inimicizie, le divisioni interne dei loro futuri avversari e

sfruttarono tutte queste informazioni, unitamente alla loro eccelsa

preparazione bellica, per sferrare l’attacco finale. I Normanni del Sud

iniziarono il processo di conquista perché erano nelle condizioni per

farlo.

Queste sono le analogie e le differenze più evidenti tra i due

episodi di conquista, ma ve ne sono altre, più profonde, che si

riscontrano anche e soprattutto nella gestione dello Stato,

nell’organizzazione della società, nella produzione culturale, nei

rapporti con le potenze estere, in particolare con il Papato. I prossimi

capitoli affronteranno appunto le diverse questioni, che hanno

prodotto esiti differenti a causa anche delle situazioni particolari

emerse a livello locale.

Alla fine di questo lavoro si arriverà a sollevare una nuova

questione circa la Normanitas chiedendosi, e provando a darsi una

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risposta, se non fosse una conseguenza della Conquista, piuttosto che

una premessa. Prima però, occorre fornire una rapida panoramica

storica degli eventi per come si sono succeduti nelle due Conquiste.

2. La Conquista Normanna dell’Inghilterra

2.1 Background storico e ascesa dei Godwineson

Quando nel 1066 moriva Edoardo il Confessore, la presenza

normanna in Inghilterra era stata del tutto blanda nei secoli precedenti.

Eppure fu proprio la relativa casualità dell’arrivo di Emma di

Normandia, figlia di Riccardo I duca di quella regione, ad aprire la

strada alle mire di Guglielmo il Conquistatore circa 60 anni prima. Nel

1002 Emma venne infatti data in sposa a Æthelræd, re inglese della

stirpe anglo-sassone e nel 1016, all’indomani dell’invasione danese

dell’Inghilterra, fu presa in moglie dal conquistatore Canuto. Con

entrambi i re, Emma generò dei figli, tra cui quell’Edoardo il

Confessore in qualche modo protagonista delle vicende che portarono

alla conquista normanna dell’Inghilterra.

Ma i destini di Emma sono legati anche all’ascesa di un altro dei

protagonisti degli eventi del 1066, ovvero Harold Godwineson, figlio di

quel Godwine conte del Wessex che all’indomani della morte di

Canuto (1035), sostenne suo figlio Harthacanuto alla successione. La

vicenda fu travagliata, poiché al trono era pretendente anche Harold I,

figlio naturale di Canuto nato da una relazione con una nobildonna

inglese. Fu proprio questi a spuntarla alla fine, riuscendo a mettere da

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parte Emma e a guadagnarsi il supporto di Godwine consolidando così

il proprio potere sull’Inghilterra, mentre Harthacanuto era impegnato a

fare altrettanto in Danimarca.

Fu comunque nel 1040 che il figlio legittimo di Canuto ed Emma

decise di recuperare i suoi diritti successori nell’isola, deciso a muovere

guerra all’usurpatore. Sulla via dell’invasione, Harold I morì, lasciando

ad Harthacanuto la via libera per prendere il potere.

Alla sua morte due anni più tardi, gli successe il fratellastro

Edoardo, detto il Confessore, che fino a quel momento era stato in

esilio in Normandia, portatovi dalla madre all’incirca 30 anni prima,

per sfuggire all’invasione danese dell’Inghilterra7. In tutto questo

Godwine non rimase a guardare: sostenitore prima della causa di

Harthacanuto, poi passato al nemico Harold, e nuovamente ritornato

nelle grazie del primo, alla morte di questi appoggiò in toto la

successione di Edoardo il Confessore, con cui si legò anche tramite

matrimonio, dandogli in sposa la figlia Edith. Le fortune della famiglia

Godwineson (come a posteriori è stata chiamata tale stirpe dagli

storici) continuarono grazie ai privilegi concessi ai suoi discendenti dal

re, il quale conferì il rango di conte a entrambi i figli di Godwine

(Swein e Harold). Ma la famiglia aveva anche una larga base di potere

derivante da «enormi abilità politiche. […] Godwine aveva accumulato

un immensa rete di proprietà fin dal tempo della morte di Canuto,

sebbene sia difficile dire quanto fosse estesa. Lui e i suoi figli

guadagnarono terre attraverso una varietà di mezzi, alcuni dei quali

assolutamente legittimi, ma altri dubbi: doni dal re, appropriazioni da

7 Ad opera del re Swein I, padre di Canuto.

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varie chiese, lasciti testamentari, e senza alcun dubbio acquisti».8

Insieme a tutto ciò, va considerata inoltre una fitta rete di relazioni con

la nobiltà ad ogni livello.

Fu proprio a causa di queste risorse e del modo in cui i

Godwineson vi diedero fondo, mettendosi in aperta rivolta con il re,

che nel 1051-1052 Godwine e Harold furono allontanati

dall’Inghilterra.

2.2 Guglielmo il Conquistatore

È a questo punto che entra in scena Guglielmo il Conquistatore.

Figlio bastardo del precedente duca di Normandia Roberto, Guglielmo

fu soprannominato appunto il Bastardo finché non condusse la

campagna di conquista dell’Inghilterra. Era un nobile dotato di

impressionanti capacità militari – come tutti i Normanni a quel tempo,

del resto – che aveva messo ripetutamente alla prova sfidando il re di

Francia nella difesa del proprio ducato dalle mire espansionistiche di

questi. Per diritto il ducato di Normandia era vassallo francese, ma

tutti i duchi avevano sempre rivendicato la propria autonomia e di

fatto la esercitavano a dispetto dei legami feudali.

Le Cronache Anglo-sassoni riportano che nel 1051 Guglielmo si recò

in Inghilterra proprio durante l’assenza dei Godwineson e lì ricevette

da Edoardo la designazione ad erede al trono, vista l’assenza di eredi

diretti. Difficile credere che Edoardo possa aver tenuto viva questa

ipotesi negli anni che seguirono, prima della sua morte, fatto sta che le 8 H. Thomas, The Norman Conquest, England after William the Conqueror, Roman&Littlefield Publishers, Inc. 2008

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fonti – soprattutto di parte normanna – riportano l’episodio, avvenuto

tra il 1064 e il 1065, in cui Harold sbarcò in Normandia per recarsi alla

corte di Guglielmo, e qui prestò giuramento di appoggiare il duca nelle

sue rivendicazioni al trono.

L’episodio può essere considerato propagandistico, ma nei fatti

rappresenta l’unico motivo valido perché Guglielmo potesse reclamare

il trono d’Inghilterra, non essendo la sua parentela con Edoardo così

stretta da poter giustificare una successione legittima.

Dal canto suo, non molto più tardi Harold rivendicò la sua

successione basandosi sulla promessa fatta da Edoardo stesso sul letto

di morte (1066). Benché ci si possa domandare cosa possa aver fatto

cambiare idea al Confessore nei confronti della famiglia da lui tanto

osteggiata9, le fonti dell’epoca, tra cui la Vita Ædwardi Regis10 e la Vita

Wilelmi riportano questa versione dei fatti, che per altro Harold

sostenne sempre a viva forza.

Per questi motivi, Harold reclamò per sé il trono di Inghilterra nel

1066 e Guglielmo, forte del giuramento che da quegli aveva ottenuto,

organizzò la spedizione dell’estate di quello stesso anno per riprendere

ciò che riteneva suo di diritto.

Come è stato già accennato, la campagna per la Conquista da

parte di Guglielmo poté contare su alcuni episodi favorevoli per le 9 H. Thomas, ibid. p. 18. 10 «‘Hanc’ inquit, ‘cum omni regno tutandam tibi commendo, ut pro domina et sorore ut est fideli serves et honores obsequio, ut, quoad vixerit, a me adepto non privetur honore debitu. Commendo partier etiam eos qui nativam terram suam reliquerunt causa amoris mei, michique hactenus fideliter sunt osecuti, ut, suscepta ab eis, si ita volunt, fidelitate, eos tuearis et retineas, aut tua defensione conductos, cum omnibus quae sub me adquisierunt, cum salute ad propria trans[fr]etari facias.» da The Life of King Edward who rests at Westminster attributed to a monk of St.

Bertin, a cura di Frank Barlow, Thomas Nelson & Sons, 1962, p. 80

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armate normanne: prima su tutte la coincidenza di una spedizione

analoga condotta da Harald Hardrada, re di Norvegia, il quale non

aveva certo più diritti degli altri due pretendenti, ma cercò ugualmente

di approfittare del vuoto di potere per assicurarsi il dominio sull’isola.

Nel frattempo, il fratello di Harold, Tosti, si ribellò per l’ennesima volta

(in precedenza lo aveva fatto con Edoardo) e impegnò parte delle forze

inglesi, comandate da altri due fratelli del re, Edwin e Morcar, che lo

sconfissero e mandarono in esilio definitivamente.

Approfittando di questi tumulti, che tenevano impegnate le forze

nemiche su più fronti, Guglielmo e i suoi seguaci normanni (di cui

facevano parte cavalieri giunti anche dal Meridione d’Italia) misero in

pratica tutte le loro abilità belliche saccheggiando le terre su cui

transitavano, mettendole a ferro e fuoco, per indebolire il nemico e

fiaccarne il morale, erigendo i caratteristici castelli motte-and-bailey11 che

successivamente diventeranno parte integrante del paesaggio inglese

tra la fine dell’XI e gli inizi del XII secolo.

Lo scontro finale ebbe luogo il 14 Ottobre di quello stesso anno a

pochi chilometri da Hastings, nel Sussex, una battaglia in cui le forze

normanne poterono dare sfogo a tutta la loro preparazione e abilità

militare, impressionando e sgominando gli avversari con le loro

tecniche di combattimento a cavallo e l’uso di armi “non

convenzionali” di nuova invenzione come le balestre. Ancora una volta

l’Arazzo di Bayeux descrive, seppur con l’esagerazione di una fonte di

11 Si tratta di strutture fortificate costituite da una collina (spesso artificiale) sormontata da un fortilizio e circondata da un fossato che la separa da una seconda struttura circondata da fortificazioni posta alla sua base e che accoglie i quartieri dei soldati.

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parte, le varie fasi della battaglia e esprime con crudezza e realismo la

violenza messa in campo e le perdite subite da entrambe le parti.

3. La Conquista normanna della Sicilia

Si è già accennato in precedenza di come tra l’arrivo dei primi

Normanni nel Mezzogiorno d’Italia e la formazione del regno siciliano

siano trascorsi quasi 130 anni. Poiché lo spazio per la trattazione è

ristretto e il compito di questi paragrafi è fornire una sinossi degli

avvenimenti che hanno portato al risultato finale, fornirò qui una lista

schematica degli eventi salienti dell’avventura normanna al Sud.

3.1 I primi Normanni in Italia.

Come già accennato in precedenza, la conquista della Sicilia e la

seguente formazione del relativo stato normanno, sono eventi avvenuti

in maniera graduale, i quali coprono un arco temporale di oltre un

secolo.

Gli arrivi dei primi normanni assumono i caratteri di

pellegrinaggi penitenziari, come dimostra la storia di Rainulfo Drengot

e dei suoi fratelli, che giunsero in Italia – insieme ad un battaglione di

250 uomini d’arme – per compiere un pellegrinaggio al santuario di

San Michele al Gargano (1017), dopo che uno di loro, Osmondo, aveva

assassinato un parente del duca di Normandia Riccardo II (zio del

futuro duca Guglielmo). In Italia, Rainulfo e i suoi compagni si

proposero come guardie del corpo per i pellegrini in visita al santuario

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pugliese e ben presto si fecero la fama di validi mercenari, mettendosi

al servizio dei vari signori locali.

Parteciparono dapprima alla fallimentare seconda insurrezione

anti-bizantina di Melo di Bari (poi passato egli stesso al nemico cui si

era ribellato - 1018); quindi offrirono le loro abilità militari ai vari

principi longobardi della Campania, potendo saggiare le rivalità che

scorrevano tra i singoli signori locali. Fu a seguito dell’appoggio a

Sergio IV duca di Napoli che Rainulfo ottenne in ricompensa la

titolarità della contea di Aversa (1030), che divenne così la prima

enclave normanna in sud Italia e aprì le porte ad una penetrazione più

massiccia.

In questi anni giunsero in Italia Meridionale anche gli otto figli di

Tancredi conte di Hauteville in Normandia. Guglielmo, il maggiore di

essi, aveva guidato tra il 1038 e il 1040 la spedizione bizantina in Sicilia,

poi abbandonata insieme alle forze longobarde per una serie di dissidi

tra queste e i bizantini. Al suo rientro a Melfi, altra roccaforte

normanna, fu eletto capo dei Normanni e grazie all’intermediazione

del principe di Salerno Guaimaro V fu consolidata l’alleanza tra gli

Altavilla e i Drengot, con l’investitura di Guglielmo del rango di Conte

di Puglia e la riconferma a Rainulfo del titolo di Conte di Aversa

(1043). Ne seguì anche una serie di giuramenti vassallatici ai due da

parte di tutti i baroni del loro contado.

Fu proprio l’investitura di Guglielmo della Contea di Puglia che

diede il via sia alle vicende normanne in Sud Italia, sia alle ostilità di

questi con i vari soggetti. All’indomani di tale avvenimento, infatti,

Enrico III imperatore della Germania scese in Italia (1047) per

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assicurarsi l’appoggio e la fedeltà dei nuovi protagonisti della scena

meridionale. Dopo di allora nessun altro imperatore sarebbe tornato a

interessarsi del Mezzogiorno prima del 1137, ma nel frattempo i

Normanni seppero curare i propri interessi con estrema dedizione

attirandosi le inimicizie tanto della popolazione locale, quanto del

papato che ben presto intuì la pericolosità del nuovo gruppo dirigente.

Del 1053 è la prima vittoria normanna contro le forze combinate di

papato e principi locali non ancora assoggettati.

3.2 Roberto il Guiscardo.

Nel frattempo erano deceduti Guglielmo e Drogone, che già si

erano distinti come abili capi e condottieri ed avevano rivestito uno

dopo l’altro il ruolo di conti di Puglia. Il loro successore era il loro terzo

fratello Umfredo, che nel 1053 guidò le forze normanne contro quelle

imperiali e papali nella battaglia di Civitate. Alla sua morte (1057)

restavano in vita gli ultimi due figli di Tancredi: Roberto detto il

Guiscardo e Ruggero. Il primo successe come conte delle terre di

Puglia (da cui furono scacciati definitivamente i bizantini tra il 1060 e il

1072) e Campania, il secondo era duca di Calabria e della Sicilia non

ancora ricondotta al controllo cristiano (la cui conquista definitiva data

al 1093).

Come conte di Puglia, Roberto provvide a imporre la sua autorità

sulle terre confinanti, e ben presto sottomise Capua e Salerno, dando

ancora prova della sua abilità e forza. Ma non delle sue intenzioni:

secondo Donald Matthews «è del tutto evidente che le ambizioni di

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Roberto non lo avevano guidato verso la prospettiva di fare dei propri

domini un corpo politico unitario» e conclude che «se il Guiscardo

aveva ambizioni a lunga scadenza, non ci è dato sapere quali

fossero»12.

Alla sua morte (1085) una disputa sulla successione si accese tra

Boemondo, figlio del primo matrimonio con Alberada, e Ruggero

Borsa, figlio della seconda moglie Sichelgaita (longobarda). Fu

quest’ultimo a spuntarla, ma concesse ugualmente al fratellastro vaste

terre, tra cui il principato di Taranto. Boemondo abbandonò poi i suoi

averi pugliesi per partire per la crociata, dove successivamente si

distinguerà per abilità militari e si porrà a capo del principato

normanno di Antiochia.

3.3 Ruggero Gran Conte di Calabria e Sicilia e Ruggero II

Ruggero a partire dal 1072 iniziò la riconquista della Sicilia, dove

via via che vennero scacciati gli arabi si provvide a restaurare alcune

diocesi e a crearne alcune ex-novo.

Alla morte del Guiscardo, Ruggero non accampò alcun diritto

successorio, anche perché ne aveva ben pochi. Né negò ai suoi nipoti,

eredi di Puglia, i diritti che avevano naturalmente in Calabria. L’ultimo

figlio di Tancredi d’Altavilla si preoccupò piuttosto di consolidare il

suo prestigio – derivante dalle imprese di Sicilia – nelle terre che

controllava. E proprio in Sicilia dovevano concentrarsi gli ultimi sforzi,

12 D. Matthews, I Normanni in Italia, Laterza 1997, p. 19

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19

essendo l’isola non ancora interamente in mano cristiana e qui

ricondotta nel 1093 con la presa di Palermo13.

Fu suo figlio Ruggero II a palesare le ambizioni di un regno

unitario. Questi si scontrò con suo cugino Guglielmo, figlio di Ruggero

Borsa, al quale contese la supremazia non solo sulle terre di Calabria –

di cui mirava a ottenere un’indipendenza totale – ma ben presto anche

sulla Puglia.

Siamo nei primi anni ’20 del XII secolo ed è proprio in questo

frangente che hanno inizio le ostilità tra Ruggero II e i baroni normanni

del Sud della penisola, capeggiati da Roberto di Capua e Rainulfo

d’Alife e con il pieno supporto sia del papato sia dell’impero, ai quali si

aggiungeranno, dagli anni ’40 in poi, anche le forze bizantine.

Alla fine la spuntò Ruggero II, ma fu solo con Guglielmo I il Malo,

suo figlio, che il regno viene finalmente consolidato e riconosciuto da

tutti i principi della cristianità, papa incluso. Nell’anno in cui assunse

la coreggenza, il Regno di Sicilia, Puglia e Calabria (secondo la

denominazione ufficiale) comprendeva tutto il territorio dell’Italia

Meridionale dall’odierno Abruzzo in giù e tali confini restarono

pressoché invariati per altri otto secoli, fino all’impresa dei Mille nel

1860, essendo quindi lo Stato unitario più vasto e longevo d’Italia.

Da questo breve excursus sui Normanni in Sicilia ho volutamente

lasciato fuori le varie vicende che hanno visto scontrarsi a più riprese il 13 Un resoconto dettagliato delle imprese di Ruggero in Calabria e Sicilia viene fornito dal De rebus

gestis Rogerii Calabriae et Siciliae Comitis et Roberti Guiscardi Ducis fratris eius di Goffredo Malaterra che rappresenta, insieme all’Historia Normannorum di Amato di Montecassino e al Chronicon

Beneventanus, la fonte più autorevole e dettagliata della storia di questo periodo.

Page 23: I processi di formazione degli Stati Normanni di Inghilterra e Sicilia: analogie e differenze

20

papato con gli Altavilla, in particolare con Ruggero II. L’argomento

costituirà materia di un capitolo interamente dedicato e verrà pertanto

trattato e approfondito in quella sede.

Page 24: I processi di formazione degli Stati Normanni di Inghilterra e Sicilia: analogie e differenze

21

CAPITOLO I

FEUDALESIMO NORMANNO

È già stato accennato nell’introduzione di come sia

tendenzialmente accettata l’equazione “Normanni = Feudalesimo”.

Nonostante che, al momento del loro insediamento in Normandia

prima e nei territori conquistati di Inghilterra e Italia meridionale, il

feudalesimo fosse già un’istituzione affermata in Francia, i Normanni

seppero farla propria e darle delle connotazioni peculiari che resero

possibile la sua “esportazione” oltre i confini del ducato.

Obiettivo di questo capitolo è quello di analizzare in che modo

il sistema feudale è entrato nell’ordinamento amministrativo

dell’Inghilterra e dell’Italia meridionale e quali sono stati i risvolti sul

piano sociale ed economico in entrambi i regni.

In entrambi i casi oggetto di studio bisogna domandarsi se

l’introduzione del feudalesimo significò una vera e propria rivoluzione

nei “costumi” istituzionali. L’interrogativo non è banale, perché fa

riferimento ad un sistema che – oltre a garantire al signore feudale (in

Page 25: I processi di formazione degli Stati Normanni di Inghilterra e Sicilia: analogie e differenze

22

questo caso il re) – l’apporto sufficiente di uomini per difendere le

proprie terre, rappresentava un vero e proprio sistema di gestione del

territorio, con tutto ciò che ne conseguiva a livelli economici.

Per affrontare il problema nei due Stati Normanni sono

necessari innanzitutto dei caveat per capire che paragoni tra le due

realtà sono utili solo se decontestualizzati: stiamo parlando di due

realtà politiche che si sono formate in epoche diverse e a distanza di

circa un secolo l’una dall’altra, quindi è rischioso affermare per

entrambe che il “merito” dell’introduzione del feudalesimo è da

attribuire ai Normanni, e come vedremo, non è del tutto vero neanche

per la sola Inghilterra.

Ad aiutarci nello scioglimento di questo interrogativo abbiamo

rispettivamente Hugh Thomas e Gabriella Piccinni. In particolare

quest’ultima si domanda, ed è interrogativo che ripropongo qui, «i

Normanni, al loro arrivo, trovarono già qualche forma di signoria alla

quale adattarsi, in grado di suggerire – che so io – almeno i luoghi di

insediamento del centro signorile, o almeno i confini dei territori

sottoposti, o le modalità di rapporti con i contadini, l’entità del

prelievo?»1

1. L’istituzione feudale nell’Inghilterra normanna

La domanda precedente viene posta dalla Piccinni per il caso

italiano, ma potremmo riproporla anche per quello inglese, per il quale

1 G. Piccinni, Regimi signorili e conduzione delle terre nel Mezzogiorno continentale in I caratteri originari

della conquista normanna. Diversità e identità nel Mezzogiorno (1030-1130). Atti del Centro di Studi

Normanno-Svevi 16, a cura di Raffaele Licinio e Francesco Violante, Bari 2006, p. 191

Page 26: I processi di formazione degli Stati Normanni di Inghilterra e Sicilia: analogie e differenze

23

Hugh Thomas ci dice che tanto il possesso fondiario, quanto il

patronato – cioè la potestà di dispensare terre ai propri sottoposti –

rivestivano un’importanza cruciale tanto per l’Inghilterra, quanto per

la Normandia nell’epoca pre-Conquista2. Prima dell’impresa di

Guglielmo, il territorio inglese era organizzato in hides (singolare hide),

termine che non trova corrispettivo nella lingua italiana e che

azzarderei a tradurre con “famiglia”, vista la somiglianza con il

concetto Romano di familia. Tale sistema prevedeva che ad ogni area

venisse assegnato un certo numero di hidage, un’unità amministrativa

in base alla quale venivano raccolte le tasse. Ogni hidage poteva avere

anche più di un hide e quindi generare maggiori introiti. La differenza

la faceva il numero di hides che insistevano sullo stesso hidage. Questo

sistema di gestione della terra – che pure rimase in vigore fino al XII

secolo inoltrato, quindi ben oltre il regno di Guglielmo – serviva anche

a garantire al re il supporto militare necessario alla difesa del regno.

Quest’ultimo aspetto fu sostituito dai Normanni con il sistema delle

quote, secondo il quale ciascuna unità territoriale avrebbe dovuto

garantire un determinato numero di uomini al re o al signore che ne

faceva richiesta.

Se sotto Edoardo il Confessore il re era il più grande possidente

individuale di terra, il benessere e la ricchezza erano comunque

concentrati in larga parte nei possedimenti della famiglia Godwine e

anche la Chiesa deteneva una buona percentuale delle terre inglesi.

Con Guglielmo, i possedimenti reali furono raddoppiati e la

distribuzione di terra fra i nobili fu ridotta a non più di un paio di

2 H. Thomas, The Norman Conquest, op. cit., p.73

Page 27: I processi di formazione degli Stati Normanni di Inghilterra e Sicilia: analogie e differenze

24

centinaia di famiglie. Per il nuovo sovrano normanno e per i suoi

discendenti, la terra fu un mezzo per garantirsi la lealtà dei nobili e

degli alleati – come vedremo fra poco – e la sua distribuzione poteva

avvenire secondo quattro forme diverse:

a) tramite la nomina dei suoi seguaci ad eredi degli antichi proprietari

Anglo-sassoni;

b) consegnando blocchi di territorio a singoli signori, specialmente in

aree militarmente sensibili;

c) raggruppando le terre di proprietari minori e affidandole a un

singolo signore;

d) tramite l’appropriazione diretta da parte dei nuovi nobili

Normanni.

Sotto questo aspetto, da una parte si ebbe una certa continuità

laddove i vecchi proprietari furono sostituiti con i nuovi; dall’altra

parte, molte terre un tempo appartenute a signori diversi furono

accorpate per essere affidate ad un unico signore, producendo quella

restrizione di proprietà a poche famiglie cui si accennava prima.

Tuttavia, questi effetti a lungo termine furono contrastati da

due fattori: alcune rivolte frequenti costrinsero tanto Guglielmo quanto

i suoi successori a spezzettare nuovamente le terre in mano a signori

troppo potenti; altre volte il processo prese il via su iniziativa dei

signori stessi, che non volendo rinunciare alle proprie terre optarono

per una loro suddivisione e successiva spartizione con nobili minori al

loro servizio.

Questo argomento ci porta ad affrontare il problema del

feudalesimo. Qualunque fosse il metodo attraverso il quale un nobile

Page 28: I processi di formazione degli Stati Normanni di Inghilterra e Sicilia: analogie e differenze

25

giungeva in possesso di un pezzo di terra, questo non era realmente

suo, egli non ne aveva il possesso pieno, ma non era altro che un

concessionario, il quale poteva godere dei frutti della terra che

occupava grazie appunto alla concessione del sovrano. Questo concetto

– benché sconosciuto con il termine “feudalesimo” ai contemporanei di

Guglielmo I – fu portato in Inghilterra dai Normanni e la differenza

principale con il precedente sistema di gestione della terra sta proprio

qui: esso consisteva in una rete di relazioni che coinvolgeva in primo

luogo il signore – il sovrano – e il suo vassallo, ma si estendeva anche

ad altre figure che a loro volta dipendevano dal vassallo e potevano

altresì instaurare gli stessi rapporti con individui di grado più basso,

fino a creare una vera e propria piramide.

Si trattava di connessioni talmente forti che resero altrettanto

indissolubile l’equazione “possesso di terra = cavalierato” (dove per

cavalierato s’intende le forze militari sufficienti richieste dal signore al

vassallo quando necessario) e diede luogo a tutta una serie di istituti

chiamati “onori” che il vassallo doveva rispettare.

Gli onori altro non erano che le terre date in concessione a un

nobile e a ciascuna delle quali erano assegnate delle quote di cavalieri

che il nobile doveva garantire al sovrano in caso di necessità. Il nobile

poteva suddividere la quota tra i suoi vassalli per raggiungere il

numero di cavalieri dovuti al re. La caratteristica principale del feudo

era che non era ereditario: il re concedeva una terra in feudo al suo

vassallo a vita o finché ne fosse degno, ma alla sua morte sarebbe

tornato nelle disponibilità del sovrano. Da questo punto di vista, si

capisce ancora una volta perché la signoria e il patronato (o

Page 29: I processi di formazione degli Stati Normanni di Inghilterra e Sicilia: analogie e differenze

26

mecenatismo) fossero importanti legami sociali: da un lato il signore

necessitava di un seguito per dimostrare il suo status3; dall’altro chi lo

seguiva si metteva a sua disposizione per sostentamento, supporto o

ricompense di varia natura.

Tali legami, seppur non propriamente feudali, erano in vigore

anche prima della Conquista Normanna e tutto ciò che Guglielmo I

fece fu soppiantare la vecchia nobiltà e i vecchi signori con i nuovi.

Oltre ovviamente a rendere la terra il collante delle alleanze che si

venivano a creare. Tuttavia, nel breve termine furono modificati alcuni

aspetti degli istituti della signoria e del patronato. Thomas ne

individua quattro4:

a) la guerra fu condotta in un paese straniero, dove gli abitanti erano

differenti dagli invasori per lingua, cultura e tradizioni. Ciò può

aver rafforzato i legami fra signore e seguaci in maniera ancora più

solida, grazie alla condivisione di una cultura comune.

b) Come accennato in precedenza, si rafforzò l’equazione “possesso di

terra = servizio militare” e si venne ad aggiungere un terzo

elemento: la signoria.

c) Il possesso di terra garantito tramite i legami feudali diede vita ad

una vera e propria gerarchia piramidale che emanava direttamente

dal re e che Guglielmo stesso contribuì a creare approfittando dello

smantellamento della vecchia aristocrazia.

d) È all’avvento dei Normanni che – sempre secondo Thomas – si deve

l’istituzione delle quote.

3 Più il seguito era nutrito, più importante e influente era il signore. 4 Hugh M. Thomas, op. cit., p. 75 e segg.

Page 30: I processi di formazione degli Stati Normanni di Inghilterra e Sicilia: analogie e differenze

27

Diversa la questione per quanto riguarda il breve e lungo

periodo, in quanto le conseguenze si ebbero non in campo militare, ma

nella sfera sociale. L’introduzione delle quote fece in modo che il

legame di patronato fosse esplicitamente richiesto da chi aveva voglia

di farsi una posizione mettendosi al servizio di un signore: se negli

anni immediatamente successivi alla Conquista gli onori erano concessi

dal re ai nobili e da questi ai vassalli, con il passare del tempo si ebbe

un rovesciamento di interessi e si finì con l’avere seguaci, cavalieri e

nobili interessati a mettere le proprie capacità o le proprie ricchezze a

disposizione del signore o del re in cambio degli onori.

Strettamente legato a questo aspetto, vi è il fenomeno della sub

infeudazione, ovvero ciò che abbiamo già visto in precedenza con la

spartizione degli onori acquisiti da un nobile in favore di nobili minori

che gli garantissero le quote richieste dal re. Ben presto il fenomeno si

tramutò in problema, specie quando alla morte del feudatario, il re si

trovava a fare i conti con i suoi innumerevoli vassalli, i quali

reclamavano ciascuno il proprio diritto sulla terra che gestivano.

Nel lungo periodo, gli “effetti collaterali” furono ancora più

marcati: innanzitutto il sistema delle quote venne a soppiantare

totalmente quello degli hidage; in secondo luogo, Guglielmo diede la

possibilità ai signori feudali di godere di alcuni diritti sulle terre dei

propri vassalli, come ad esempio quello di raccogliere le tasse nelle

terre appartenute a un tenutario morto: se questi avesse avuto un figlio

ancora non in età da combattimento, la tassa sarebbe servita a pagare

un guerriero che lo sostituisse finché non fosse stato in grado di

combattere. Ciò comportò un effetto derivato, ovvero la possibilità, per

Page 31: I processi di formazione degli Stati Normanni di Inghilterra e Sicilia: analogie e differenze

28

un signore che non fosse in grado di garantire al re la sua quota, di

pagare una somma in denaro corrispondente all’ingaggio dei cavalieri

dovuti.

2. L’istituzione feudale nel Mezzogiorno normanno

È possibile affermare che il sistema creato da Guglielmo sia

stato d’ispirazione per la monarchia Normanna del Sud Italia?

Riprendendo la domanda iniziale della Piccinni, bisogna analizzare

quale fosse la situazione nell’Italia Meridionale – Sicilia esclusa –

quando vi giunsero i conquistatori Normanni. Partendo dalla

considerazione che per anni si è visto il fenomeno signorile come una

peculiarità esclusiva dell’Italia settentrionale, l’excursus della Piccinni

vuole invece dimostrare – e per certi versi lo fa – che la realtà è ben

diversa e anche il Meridione, seppur con tempi, modi e “quantità”

differenti, ha vissuto la sua esperienza signorile anche prima

dell’arrivo dei Normanni.

Dunque, qual era la situazione prima del loro arrivo? Bisogna

innanzitutto fare i conti con la frammentazione politica e territoriale cui

l’Italia meridionale era sottoposta: i principati Longobardi da un lato,

la Puglia e la Calabria bizantine dall’altro, la Sicilia araba.

Nelle aree di diritto bizantino, la quasi totale assenza di istituti

di natura feudale è da ricondursi alla centralizzazione del potere

politico, affidato a funzionari imperiali che lo esercitavano in nome e

per conto dell’imperatore. Lo stesso non può dirsi per le aree di diritto

longobardo, dove l’istituto feudale era già in uso da diverso tempo. Un

Page 32: I processi di formazione degli Stati Normanni di Inghilterra e Sicilia: analogie e differenze

29

vecchio saggio di Antonio Rinaldi (1886)5 propone un

approfondimento sulla questione feudale in Italia meridionale e –

documenti alla mano – ne conclude che la soggezione dei principati

longobardi al Regno Franco, a seguito della fine del Regno d’Italia

abbia aperto la strada all’introduzione del feudalesimo anche nell’Italia

meridionale, con le modalità che vado a illustrare.

Innanzitutto il Rinaldi parte dalla considerazione che alcuni

documenti degli anni 874, 999 e 1058 fanno riferimento a “vassalli”, in

relazione alla composizione del guidrigildo, ovvero la multa dovuta per

l’assassinio di un nobile. Nel principato Beneventano l’omicidio di un

vassallo comportava il pagamento di 10.000 bizantini d’oro, cifra di tre

volte superiore a quella dovuta per l’omicidio di un nobile6. Questa

prima testimonianza dà già un’idea della presenza dell’istituto feudale

in Italia meridionale, dal momento che la denominazione di vassallo

assume connotazioni specifiche di quel determinato contesto giuridico.

Ma di per sé questo solo elemento non è sufficiente a dare il senso della

questione e infatti lo stesso Rinaldi si propone di «studiare il contenuto

delle donazioni, poiché se ci riesce di scoprirvi la potestà di far popolo,

di governarlo, di godere i beni, di esercitare in una parola diritti

dominicali e signorili, non possiamo non ravvisarvi l’essenza del

5 A. Rinaldi, Dei primi feudi nell’Italia meridionale, Anfossi, Napoli 1886. Ho dovuto affidare mio malgrado l’analisi di un argomento tanto complesso ad un testo di 130 anni fa. Nella ricerca di materiale utile alla stesura di questo lavoro mi sono imbattuto in numerosi titoli che affrontassero l’argomento del feudalesimo in Italia meridionale in epoca Normanna e pre-Normanna. Alcuni di questi lavori si sono rivelati mediamente utili, come il citato intervento della Piccinni nelle Giornate di Studio Normanno-Sveve, altri hanno dimostrato di sfiorare soltanto l’argomento, senza approfondirlo. Altri ancora – e questo è per me motivo di lamentela – benché recenti, si sono dimostrati irreperibili tanto sul web, dove pure ho trovato molto materiale, quanto in cartaceo sia presso le biblioteche italiane (ne ho contattate diverse anche importanti, specie del Sud) che presso le case editrici che hanno curato l’edizione di quei lavori. 6 Ibid. pp. 124-125.

Page 33: I processi di formazione degli Stati Normanni di Inghilterra e Sicilia: analogie e differenze

30

feudo, qualunque possa essere stata la parola o la forma di

concessione»7.

Innanzitutto la potestas coadunandi, ovvero la facoltà del

concessionario di radunare, sulle terre concesse dal sovrano, liberi

homines per affidargli il lavoro della terra in un contratto di servitù.

Tale potestas risulta concessa da Landolfo e Pandolfo di Capua nel 951

all’abbazia di Montecassino, dando per altro connotazione ereditaria al

privilegio concesso. Si apre qui la questione circa l’ereditarietà della

concessione feudale in epoca tardo-longobarda. Il diritto di

successione era un cardine del feudalesimo longobardo fin dal

principio, il che dimostra che tale istituzione nacque o si sviluppò in

Italia meridionale già con le caratteristiche proprie dell’ultimo stadio

evolutivo che il fenomeno conobbe nel resto dell’Europa feudale. A

testimoniare questa sua caratteristica sono due diplomi concessi

rispettivamente da Landolfo e Pandolfo di Capua (997) e Guaimaro e

Giovanni di Salerno (1017) a monasteri dei rispettivi contadi8.

In secondo luogo, alla concessione di cui sopra viene legato il

potere giurisdizionale, aspetto cardine dell’istituzione feudale: sono

ancora diplomi dei principi di Capua e di Salerno, ancora in favore di

monasteri, a garantire i diritti giurisdizionali sulle terre concesse in

feudo9. Tali diritti non sono da considerare alienabili, vale a dire che

7 Ibid. p. 125. 8 Ibid. p. 127-128 9 Ibid. pp.130-131: Concedimus et confirmamus in praephato Monasterìo, ut nullus Comes, aut iudex, vel

Schuldahìs, aut qualibet alius homo de sub nostra dicione, videlicet supra dictis Civitatibus audeant aut

praesumant iudicare, aut qualibet violentiam facere de qualiscumque causaciones, aut intenciones, vel alia

qualibet causa ab omnibus hominibus , qui in praedictis Curtis , aut Terrìs iamfati Monasterii havitaverint ,

vel havitatores fuerint deomnes causaciones et intenciones, quas haduerìnt exinde iudicare,

sed semper deveant eorum exinde iudicare ipsa Abatissa et Praepositus , qui in praedicto Monasterio

hordinatus fuerit, quomodo melius illi scierit , ita ut nullis ex nostris Comitibus , Castaldiis, Iudicibus, vel

Page 34: I processi di formazione degli Stati Normanni di Inghilterra e Sicilia: analogie e differenze

31

vendere o alienare le terre date in concessione dal signore feudale – e

comunque previo consenso di questi – non comporta il trasferimento

dei diritti giurisdizionali che restano al vassallo o tornano al signore.

Infine, i già citati diplomi concedevano la potestà di esigere

dazi, tasse e balzelli, un’altra caratteristica fondamentale dei privilegi

di tipo feudale. Il diritto a riscuotere le tasse viene ceduto dal signore al

concessionario.

In conclusione, ben prima dell’arrivo dei Normanni, i principati

Longobardi dell’Italia meridionale conoscevano almeno le forme

delll’istituto feudale, almeno nelle forme. Il tutto si concretizzò nello

sviluppo di un certo grado di incastellamento, che con l’arrivo dei

Normanni non cessò, ma anzi si rinnovò: «la presenza dei primi

Normanni prolungò la cronologia dell’incastellamento con una

seconda e una terza ondata: l’incastellamento contro i Normanni,

quando i signori locali si difendevano dalla minaccia di rivendicazioni

di carattere politico e territoriale più che strettamente militare, fu

seguito dall’incastellamento ad opera dei Normanni»10.

Come ho accennato in precedenza, diversa era la situazione nei

territori di matrice bizantina. Il centralismo burocratico e

amministrativo lasciava pochi spazi di manovra in chiave feudale, ma

se accettiamo la tesi del Rinaldi, secondo cui la contiguità fra i popoli,

le culture e le influenze reciproche si traducono anche in influenze di

carattere giuridico, neanche la Puglia risultò del tutto immune al

feudalesimo in epoca pre-Normanna. È noto infatti che l’Impero

sculdahis aut cuiuscumque persone haveant iam dicto Monasterio exinde , et eiusque custodibus , aut

rectoribus qualemcumque molestiam. 10 G. Piccinni, op. cit. pp. 195-196

Page 35: I processi di formazione degli Stati Normanni di Inghilterra e Sicilia: analogie e differenze

32

concedesse ad alcune aree della Puglia assoggettate di mantenere il

diritto Longobardo, e non è improbabile che questo sia stato

d’ispirazione in qualche caso. Nel suo saggio Aperture feudali e

parafeudali nella Puglia Bizantina11, Iolanda Sisto cita un diploma del

1046 in cui il catapano Eustazio concede al giudice Bisanzio di Bari la

terra di Foliano con i diritti a governarla, quale ricompensa per il suo

ruolo avuto nel gestire la rivolta di Maniace. I diritti includevano la

riscossione dei tributi e la totale indipendenza nei confronti di

turmarchi, strateghi o altri funzionari imperiali.

Benchè Sisto ritenga la concessione un unicum nel panorama dei

domini bizantini in Sud Italia, alla luce di quanto emerso dall’analisi

del Rinaldi è possibile concludere che quanto meno una conoscenza del

fenomeno doveva esserci, se si concretizza, anche solo in un caso

isolato, nelle stesse forme e modalità di stampo feudale.

C’è da ritenere quindi che l’instaurazione graduale del dominio

normanno sull’Italia meridionale, da un punto di vista giuridico, ha

goduto di successi differenti a seconda delle varie regioni e la

normalizzazione della situazione verso un impianto propriamente

feudale è stata graduale. Di certo non è possibile parlare di una novità

assoluta per la regione. I Normanni non hanno portato niente di

nuovo: come abbiamo visto nei territori longobardi forme di

feudalesimo erano già vive e vegete e senz’altro hanno permesso ai

Normanni stanziati ad Aversa, primo vero feudo di origine normanna

in Italia meridionale, di adattarsi al substrato politico già esistente

senza scombinarne troppo l’impianto.

11 I. Sisto, Aperture feudali e parafeudali nella Puglia Bizantina in Archivio Storico Pugliese XLIV, Società di Storia Patria per la Puglia, Bari 1991, pp. 231-235

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33

Diversamente è andata invece nei territori di diritto bizantino,

dove il dominio fu possibile solo «in aree fino a poco prima incolte,

come la Capitanata che, bordata a nord da una linea di difesa di borghi

fortificati, aveva iniziato a popolarsi nel primo ventennio dell’XI secolo

e fu colonizzata davvero in epoca normanna e in un quadro

signorile»12.

Ad ogni modo, non è solo nel sistema feudale in quanto

sovrastruttura che si può valutare la novità portata dai Normanni, ma

bisogna considerare anche in che modo esercitassero quella che la

Piccinni definisce “sostanza del potere”13. L’avvento dei Normanni

cambiò la prospettiva di tutta quella massa di “villani, affidati, homines,

tributarii, angararii, censuali, vassalli rurali, adscripticii” che da qualche

tempo avevano fatto la loro comparsa nelle fonti meridionali in seguito

all’affermarsi delle prerogative bannali. Queste masse conobbero con i

Normanni l’affermazione del contratto d’opera, che in epoca

precedente non aveva avuto un gran peso economico, e questo mutò

gioco-forza i rapporti tra contadini e signori, ma anche tra terra e liberi

homines.

In definitiva, le differenze nell’imposizione del regime feudale a

seguito delle due Conquiste Normanne di Inghilterra e Italia sono

sostanziali. Nel primo caso il regime signorile si afferma come

evoluzione di un sistema totalmente diverso, di cui pure ha mantenute

vive alcune caratteristiche, ed ha portato una vera e propria

rivoluzione all’interno dei rapporti socio-economici. Nel caso italiano,

12 G. Piccinni, op. cit. pp. 200-201. 13 Ibid. p. 210.

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34

invece, si è trattato solo di normalizzare un processo che era già in atto

da lungo tempo, seppur in maniera blanda, e quindi non del tutto

estraneo alle popolazioni assoggettate.

In entrambi i casi si assiste alla creazione di una nuova nobiltà,

legata ai sovrani da rapporti vassallatico-beneficiari, ma anche qui si

riscontrano differenze sostanziali: in Inghilterra il feudalesimo

attraversa tutta la sua parabola evolutiva, nascendo come istituto che

crea un rapporto personale tra sovrano e feudatario che cessa alla

morte di questo, poi evolvendosi nel corso della dominazione

Normanna nelle forme a carattere ereditario. In Italia meridionale è

invece presente già in quest’ultima forma e così viene imposto e

affermato dai conquistatori.

Stessa considerazione può essere fatta per l’incastellamento, che

del sistema feudale è il simbolo più evidente. In Inghilterra l’arrivo dei

Normanni dà inizio alla costruzione di castelli in ogni parte del Regno,

al contempo simbolo del potere del re e di difesa del territorio. In Italia

si è visto come non sia affatto un fenomeno nuovo, ma che conosce

comunque una nuova vitalità con l’avvento dei conquistatori: castelli

vengono eretti per difendersi da loro durante la conquista e castelli

vengono eretti da loro per affermare il proprio predominio dopo la

conquista.

Page 38: I processi di formazione degli Stati Normanni di Inghilterra e Sicilia: analogie e differenze

35

CAPITOLO II

RAPPORTI CON IL PAPATO E ORGANIZZAZIONE DELLA

CHIESA: LA CONCEZIONE SACRALE DEL POTERE

Un aspetto spinoso e spesso conflittuale con cui sia Guglielmo il

Conquistatore (e i suoi successori) sia Ruggero II (e i suoi predecessori)

si sono trovati a fare i conti è stato quello dei rapporti con la Chiesa e la

sua organizzazione nei rispettivi Stati. Sebbene la conflittualità esplose

e fu risolta in maniera differente nelle due realtà, si possono comunque

ravvisare delle analogie nel contesto storico in cui si sono sviluppate.

Diversi fattori hanno inciso sulla gestione di tali conflittualità:

innanzitutto le difficoltà del papato a tenere testa alle mire imperiali nei

travagliati secoli XI e XII: i papi che si sono succeduti avevano bisogno

di quanti più alleati possibili per contrastare le velleità universalistiche

degli imperatori tedeschi e spesso e volentieri si sono trovati costretti a

formulare compromessi con interlocutori nei confronti dei quali pure

avevano diritti da vantare. In secondo luogo le condizioni della Chiesa

nei territori conquistati dai Normanni: tanto in Inghilterra quanto nel

Sud d’Italia urgeva una riforma ecclesiastica sulla base delle direttive

Page 39: I processi di formazione degli Stati Normanni di Inghilterra e Sicilia: analogie e differenze

36

emanate da Roma: in particolare il Sud Italia era un mosaico di realtà

che confliggevano con il modello romano, essendo la Puglia e la Calabria

di rito greco, i territori Longobardi di rito romano e la Sicilia addirittura

dominata dagli Arabi, quindi bisognosa di essere restituita alla

cristianità.

Un ultimo, ma non meno importante fattore è determinato dalla

posizione geografica dei due regni normanni rispetto a Roma.

L’Inghilterra era sempre rimasta ai margini delle vicende politiche

europee, anche perché geograficamente era periferia d’Europa: lontana

da Roma, aveva vissuto un’autonomia politica ed ecclesiastica che

difficilmente i papi erano riusciti a imbrigliare nel corso dei secoli. Il

Meridione italiano invece, per quanto strettamente prossimo a Roma,

aveva per secoli gravitato nella sfera d’influenza di Costantinopoli e

degli Arabi e se non geograficamente, almeno politicamente era da

considerarsi (in parte) periferico. Tuttavia la conquista dei due territori

da parte di un gruppo etnico europeo e cristiano (cattolico) aveva

cambiato le carte in tavola e poteva risultare un’occasione d’oro per il

papato sia di reclamarvi la propria autorità sia di portare dalla propria

parte nuovi alleati nella lotta contro l’Impero.

Le cose tuttavia non andarono secondo i piani dei papi e le

conflittualità si acuirono, con risvolti anche pesanti per quel che

concerne il Sud Italia: la causa principale è da ricercarsi nella concezione

del potere che i regnanti normanni si figuravano. Soprattutto per quel

che riguarda il caso italiano, la monarchia era intesa dai Normanni con

connotati sacrali: il loro potere derivava da Dio, e pertanto gli garantiva

la potestà anche sulla scelta dei vescovi e dei prelati che amministrassero

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le questioni ecclesiastiche all’interno dei rispettivi territori. Da qui il

conflitto con il papato, che non era assolutamente incline a cedere la

propria autorità, si trattasse anche solo di piccoli pezzi.

1. Il caso inglese: tra autonomia e riforma

1.1 Il problema della legittimazione della Conquista

Nel caso inglese è necessario distinguere due momenti del rapporto

tra Guglielmo e il papato. Un primo momento è la fase precedente alla

Conquista: l’arazzo di Bayeux mostra Eustazio di Boulogne reggere il

vessillo con le insegne del Papa – all’epoca Alessandro II – e da molti ciò

è stato visto come un’approvazione diretta della Santa Sede all’invasione

da parte di Guglielmo e dei Normanni. La storia riprodotta in immagini

dall’arazzo, trova riscontro anche in numerose fonti scritte

contemporanee o di poco successive, su tutte Guglielmo di Malmesbury

e Orderico Vitale, per quanto entrambi la riprendano a loro volta dalle

Gesta Guillelmi di Guglielmo di Poitiers1.

In entrambi i casi le informazioni fornite a riguardo sono en passant,

sebbene Guglielmo di Malmesbury si dilunghi maggiormente sulla

ricerca di una benedizione divina da parte di Guglielmo il conquistatore:

ne justam causam temeritas decoloraret, ad apostolicum, qui ex Anselmo

Lucensi episcopo Alexander dicebatur, misit, justitiam suscepti belli quantis

poterat facundis nervis allegans, al contrario di Harold («turgidus natura»).

E il papa, dopo aver valutato attentamente le ragioni di Guglielmo,

1 C. Morton, Alexander II and the Norman Conquest in Latomus t. 34, fasc. 2, – Société d’etudes latines de Bruxelles, 1975 pp. 362

Page 41: I processi di formazione degli Stati Normanni di Inghilterra e Sicilia: analogie e differenze

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vexillum in omen regni Willelmo contradidit2. Poiché, alla vigilia della

partenza, il vento tardava ad arrivare, Guglielmo ordinò anche di

esporre le spoglie di San Valerico, gesto che «nec mora intercessit quin

prosper flatus carbasa impleret». Il racconto, a metà tra il veridico

(l’avallo del papa) e il leggendario (il favore divino espresso per

intercessione di un santo), viene limitato al solo episodio papale da

Orderico Vitale, che comunque sembrerebbe dargli credito, nonostante

fosse un cronista di solito particolarmente ostile al Conquistatore.

Entrambe le fonti sono comunque posteriori e – come già accennato – si

basano su poche righe incluse in un racconto contemporaneo all’epoca

dei fatti.

Che la storia dell’approvazione papale alla Conquista sia solo una

suggestione, una voce di corridoio probabilmente errata, lo

suggeriscono alcuni documenti posteriori al 1066, e qui si apre il secondo

momento del rapporto tra Guglielmo e la Chiesa di Roma. Catherine

Morton, nel già citato saggio sul rapporto tra Alessandro II e i Normanni

d’Inghilterra, mette sul piatto due documenti che sarebbero la prova che

la Conquista non aveva avuto l’avallo papale3. Il primo è una lettera di

penitenza inviata dalla Santa Sede al re inglese nel 1070, in cui si chiede

di fare ammenda per tutti gli omicidi compiuti nel corso della campagna

di quattro anni prima. Morton si chiede come mai ad un’impresa

appoggiata da Roma abbia fatto seguito un documento penitenziale per

espiare i peccati e la risposta che si dà è che con ogni probabilità tale

appoggio non ci fu mai stato. Confrontando la lettera di penitenza con

2 J. A. Giles (a cura di), William of Malmesbury, Chronicle of the Kings of England,– Belle & Daldly, London, 1866, pp 610-611 3 C. Morton, op. cit. pp. 376 e segg.

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39

una similare inviata dopo la battaglia di Soissons del 923, si può

constatare che questa fu inviata subito dopo la battaglia, mentre quella

a Guglielmo solo quattro anni dopo.

La coincidenza della data della penitenza con quella della re-

incoronazione di Guglielmo, lascia pensare che «il prezzo che Papa

Alessandro richiese per il riconoscimento di Guglielmo in quanto re de

jure potrebbe essere stato: l’accettazione da parte di Normanni di una

penitenza per la loro invasione; la re-incoronazione di Guglielmo per

mano dei legati papali; la deposizione di Stigand, che Guglielmo aveva

mantenuto in carica, apparentemente per ragioni politiche; e l’elezione

di Lanfranco di Pavia ad arcivescovo di Canterbury»4. Su questi ultimi

due punti ci torneremo a breve, quanto al resto tutto sembra suggerire

che non v’è prova che il papa abbia dato il beneplacito per l’impresa

Normanna e che probabilmente – insiste Morton – Guglielmo di

Malmesbury aveva scritto il falso nelle sue Gesta Guillelmi.

A riprova di ciò troviamo un altro documento, stavolta del 1080 e

stavolta firmato da Gregorio VII. Essendo l’Europa in balìa del conflitto

tra il papa e l’imperatore Enrico IV, il primo aveva necessità di richiedere

quanto più sostegno possibile ai sovrani d’Europa. Nelle due lettere,

datate 24 aprile e 5 maggio 1080, inviate dal papa a Guglielmo, non si fa

alcun riferimento alla Conquista né al favore vantato dalla Santa Sede

nei confronti del re inglese. Eppure – ci dice Morton – sarebbe stata una

leva fortissima, che spesso è stata utilizzata dai papi e da Gregorio stesso

nei confronti di altri regni lontani da Roma. Una in particolare,

indirizzata a Guglielmo di Burgundia, fa esplicito riferimento anche al

4 Ibid. p. 379

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predecessore di Gregorio, Alessandro, mentre quella qui in esame non

lo cita neanche. A chiudere il cerchio, abbiamo una risposta del re

Normanno a Gregorio VII a seguito della sua richiesta di prestare

giuramento: fidelitatem facere nolui, nec volo, quia, nec ego promisi, nec

antecessores meos antecessoribus tuis id fecisse comperio5.

In definitiva, il rapporto tra Guglielmo e la Santa Sede negli anni

del suo regno e in quelli immediatamente precedenti fu di quasi

indifferenza del primo nei confronti della seconda.

1.2 Il riconoscimento della Conquista e la riforma della Chiesa inglese

Il 1070 è la data spartiacque per quanto riguarda la Chiesa inglese

e segna il secondo momento dell’evoluzione dei rapporti tra Guglielmo

e Roma. Come abbiamo visto, Alessandro II richiese a Guglielmo di

sostituire Stigand, arcivescovo di Canterbury, con Lanfranco di Pavia,

erudito monaco longobardo che aveva accompagnato il duca di

Normandia nella sua impresa. A Lanfranco fu affidato il compito di

riformare la Chiesa inglese, che da lungo tempo godeva di piena

autonomia ed era immune dall’autorità papale.

Fino a quel momento, e così anche successivamente, Guglielmo

mantenne le prerogative di cui avevano goduto anche i suoi

predecessori, ovvero nominare e deporre i vescovi e i prelati a sua

discrezione. «Quando Gregorio gli chiese omaggio per la corona che gli

aveva in qualche modo dato, Guglielmo rispose come un re inglese»6,

5 Ibid. p. 375 6 E. A. Freeman, William the Conqueror – Batoche Book, Kitchener 2004, p. 76. Cfr. Anche C. Morton, op. cit. (v. nota 5) per quanto riguarda la risposta

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41

tuttavia ci furono richieste a cui il re non poté sottrarsi. La Chiesa inglese

prima della Conquista, come detto, godeva di ampia autonomia da

Roma: diversamente da quanto aveva fatto per la nobiltà7, Guglielmo

non depose gli ecclesiastici di etnia inglese, ma li lasciò in carica. In

aggiunta, si riscontrano le seguenti peculiarità:

a) In primo luogo, poiché si trattava di una Chiesa nazionale, senza

un vero capo, se non il papa – la cui autorità era però molto

debole – le dispute di natura ecclesiastica erano ricomposte dalla

witenagemot, l’assemblea che svolgeva anche ruolo di tribunale.

b) L’organizzazione delle diocesi differiva totalmente dal modello

continentale: i loro confini non erano netti, non esistevano sedi

episcopali di riferimento e il vescovo era quindi itinerante, non

avendo una residenza fissa.

c) Nessun divieto era fatto ai prelati di contrarre matrimonio.

Il compito di Lanfranco fu pertanto quello di dare alla Chiesa

un’organizzazione più compatta e una connotazione più continentale,

per così dire, più occidentale. Tuttavia Lanfranco non era uomo

particolarmente incline a eseguire pedissequamente gli ordini del Papa,

in particolare di Gregorio: fece le riforme, ma con dei distinguo.

Innanzitutto, le dispute ecclesiastiche furono tolte dalla

giurisdizione dei witenagemot e demandate a sinodi specifici la cui

autorità suprema era detenuta dall’arcivescovo di Canterbury. Essendo

tale carica nelle sue mani, ed essendo lui uomo fidato di Guglielmo, va

7 Cfr. Capitolo I.

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42

da sé che la distinzione tra corte laica e corte ecclesiastica era puramente

formale.

Anche per quel che riguarda l’organizzazione delle diocesi,

Lanfranco tese a favorire quella di sua competenza. Al 1070, molte erano

quelle rimaste vacanti dopo la morte del vescovo che le reggeva, tra

queste York e Peterborough. Con l’affidamento della prima a Tommaso

di Bayeux, nacquero i primi contrasti tra quella e Canterbury: «la disputa

in questione fu duplice: in parte faceva riferimento ai confini delle due

province, ma sollevò anche la più importante questione se i due

arcivescovi Inglesi possedessero un grado paritario o se l’arcivescovo di

York dovesse essere obbligato a prestare giuramento di obbedienza al

primato di Canterbury»8. La disputa venne risolta in favore di

quest’ultima, che da quel momento in poi fu investita dell’autorità di cui

godette per i secoli successivi.

La diocesi di Peterborough era invece rimasta vacante, sempre a

causa della morte del suo precedente vescovo. Fu affidata a Turoldo, un

monaco normanno che dovette sobbarcarsi anche il peso dell’autorità

militare, dal momento che in quella regione (il Fenland) soffiavano

ancora venti di rivolta9.

In un concilio del 1075, fu stabilito inoltre che ciascuna diocesi

avesse una sede fissa, in cui il vescovo dovesse risiedere. Fino ad allora,

il vescovo era itinerante, non dimorava in una sede fissa e i confini della

sua giurisdizione erano spesso molto vaghi. Il concilio del 1075 valse a

risolvere questa anomalia tutta inglese, con una ridefinizione anche dei

8 F. M. Stenton, William the Conqueror and the rule of the Normans – Barnes&Noble, New York 1908, p. 113 9 E. A. Freeman, op.cit. p. 77.

Page 46: I processi di formazione degli Stati Normanni di Inghilterra e Sicilia: analogie e differenze

43

confini: «il vescovato di Lichfield fu trasferito a Chester, quello di Selsey

a Chichester, e quello di Sherborn a Old Salisbury […], il seggio della

diocesi centro-orientale di Dorchester fu trasferita a Lincoln»10. Come

conseguenza di questo riassetto, l’Inghilterra vide un aumento

considerevole della costruzione di chiese cattedrali.

Il terzo ambito di intervento nel processo di riforma di Lanfranco

fu quello dello stato dei prelati, che fino all’avvento dei Normanni

godevano della facoltà di contrarre matrimonio. Questo punto fu di

particolare importanza nella riforma, in quanto tale prerogativa era stata

una delle motivazioni oggetto della querelle che portò allo scisma tra

Chiesa d’Oriente e Chiesa Romana (1054). La supremazia della Chiesa

di Roma anche sulla Chiesa inglese non poteva prescindere dalla

soluzione di questo nodo, ma per quanto Lanfranco fosse venuto

incontro alle esigenze pontificie, trovò comunque la maniera di renderle

meno pesanti ai preti inglesi: Gregorio pretese la proibizione del

matrimonio, Lanfranco l’accordò, ma rendendola obbligatoria fin da

subito solo per i prelati di alto rango, mentre per i preti minori lo sarebbe

stata in futuro. Chi era già sposato, poté continuare a esserlo, ma i nuovi

sacerdoti avrebbero dovuto osservare tale divieto.

In definitiva, la riforma di Lanfranco fece in modo di ricondurre la

Chiesa inglese nell’alveo delle consuetudini ecclesiastiche continentali,

la riavvicinò a Roma e rinsaldò il legame tra le due istituzioni. Tuttavia

riuscì a mantenere intatti i caratteri di originalità e di diversità, e un certo

10 F. M. Stenton, op. cit. p. 113.

Page 47: I processi di formazione degli Stati Normanni di Inghilterra e Sicilia: analogie e differenze

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grado di autonomia. Lanfranco era pur sempre un uomo di Guglielmo e

i suoi «atti erano atti di Guglielmo»11.

Il Conquistatore dal canto suo non rinunciò mai alle sue

prerogative “da re inglese”, arrivando persino a negare ogni obbligo di

fedeltà nei confronti di Roma e del Papa. Come si è visto, la stessa storia

della ricerca dell’approvazione papale alla Conquista rimane sospesa tra

leggenda e menzogna e con buone probabilità Guglielmo non aveva

bisogno del permesso, essendo di diritto il legittimo successore al trono

d’Inghilterra.

2. Le relazioni difficili tra gli Altavilla e il Papato

È stato già ricordato in apertura di questo lavoro di come il processo

di conquista e di formazione statale del Regno di Sicilia sia stato lungo e

abbia assunto i connotati di una saga familiare (quella degli Altavilla)

piuttosto che dell’impresa di un solo uomo, come è stato per Guglielmo

in Inghilterra. Una storia che si protrae per oltre cento anni e che culmina

con il riconoscimento ufficiale di Ruggero II quale re da parte di

Innocenzo II nel 1139 e che è in larga parte storia dei rapporti tra

Normanni e Papato e presenta non pochi cambiamenti degli equilibri fra

le due forze in campo.

Il primo di questi cambiamenti, che segna in qualche modo l’inizio

di questa storia travagliata è da datarsi al 1059, quando il Concilio di

Melfi stabilì che tutti i territori conquistati dai Normanni nel corso degli

anni precedenti sarebbero rimasti in loro possesso, trasformandoli

11 E. A. Freeman, op. cit. p. 79

Page 48: I processi di formazione degli Stati Normanni di Inghilterra e Sicilia: analogie e differenze

45

pertanto nei nuovi signori dell’Italia Meridionale. Il concordato sanciva

però l’investitura feudale dei Normanni per quei territori, cosicché i

nuovi signori erano de jure vassalli del Papa. La scelta fu quasi obbligata,

dal momento che a seguito della Battaglia di Civitate del 1053 – episodio

in cui le forze antinormanne alleate con il papa subirono una pesante

sconfitta – Leone IX capì che la forza militare dei conquistatori era

troppo superiore e molto opportunisticamente si risolse a cercare

un’alleanza con loro, piuttosto che continuare a combatterli. Da qui

dunque il riconoscimento delle loro conquiste e l’elevazione al rango di

legittimi signori d’Italia Meridionale. Tale area geografica, dal punto di

vista ecclesiastico, era a quel tempo un mosaico: Puglia e Calabria

gravitavano nell’orbita bizantina, sebbene la prima non strettamente

dipendente dall’autorità imperiale; i territori Longobardi erano cristiani

di rito latino; la Sicilia era interamente in mano araba, fatta salva qualche

rara eccezione come la Val Demone e Palermo, entrambe di matrice

greca. Al papato conveniva dunque servirsi dei Normanni, gli unici in

grado di unificare sotto la guida pontificia l’intero meridione.

A partire da questa premessa è pertanto possibile, anche per la

storia dei rapporti tra Normanni e Papato, individuare due fasi

evolutive, a cui si aggiungerà un intermezzo – quello della concessione

della Legazia Apostolica: un primo momento è quello del

consolidamento del potere normanno e della riorganizzazione

dell’assetto ecclesiastico nei territori conquistati. Un secondo e più

drammatico momento è quello dell’ascesa al potere di Ruggero II e le

sue pretese che coinvolgevano tanto l’aspetto politico quanto quello

ecclesiastico del suo regno.

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46

2.1 La situazione della Chiesa prima della Conquista

Come accennato, l’Italia Meridionale era un mosaico dal punto di

vista dottrinale. Lasciando da parte la Sicilia, che come abbiamo visto

era connotata da un’assenza di istituzioni ecclesiastiche, per il resto del

Meridione bisogna distinguere tra aree greche e aree longobarde. Le

seconde già da prima della Conquista avevano conosciuto una certa

vitalità legata al processo di consolidamento del potere dei principi

longobardi. Come riporta Norbert Kamp, già dal 966 furono elevati al

rango di arcivescovadi «i capoluoghi dei principati longobardi di Capua,

Salerno e Benevento. Tutti e tre i luoghi […] salirono al rango di punti di

orientamento religioso non solo nei riguardi delle insicure zone di

confine del potere principesco, ma anche nei riguardi dei territori

perduti»12. Le diocesi poi – continua Kamp – non avevano confini ben

definiti, probabilmente per consentire una più facile riorganizzazione

territoriale nel caso di elevazione di nuovi sedi suffraganee.

Riorganizzazione che fu effettuata durante il periodo normanno, in

particolare nella seconda metà dell’XI secolo, quando i nuovi occupanti

procedettero all’elevazione di nuove sedi: se ne contano ventuno di

nuova formazione tra il 1053 e il 109913. Questa «linea episcopalista»,

come la definisce Fonseca, mirava ad una totale latinizzazione del

Meridione, in particolare di quei «territori impregnati di grecità e

12 N. Kamp, Vescovi e diocesi dell’Italia meridionale nel passaggio dalla dominazione bizantina allo Stato

normanno in Forme di potere e struttura sociale in Italia nel Medioevo, a cura di G. Rossetti – Il Mulino, Bologna 1977, p. 379-397 13 C. D. Fonseca, Le istituzioni ecclesiastiche e la conquista normanna. Gli episcopati e le cattedrali in I caratteri originari della conquista normanna – Diversità e identità nel Mezzogiorno (1030-1130), a cura di Raffaele Licinio e Francesco Violante – Centro di Studi Normanno-Svevi della Università degli Studi di Bari, edizioni Dedalo, Bari 2006, p. 335-348

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47

inquadrati dal punto di vista della giurisdizione politico-amministrativa

ed ecclesiastica nei quadri istituzionali bizantini»14.

Quanto alla gestione bizantina delle diocesi, v’è da dire che almeno

per quanto riguarda la Puglia si può parlare di un mosaico dentro al

mosaico. Qui le comunità di rito greco si affiancavano a quelle di rito

latino e la politica di Costantinopoli non fu mai volta a favorire le une

rispetto alle altre. Anzi, tutto ciò di cui aveva necessità era la fedeltà di

tali comunità alla causa bizantina: con l’unica eccezione della Terra

d’Otranto – di rito greco e sotto il controllo diretto di Costantinopoli – in

quest’ottica nessuna pressione fu fatta al clero latino, che continuò a

godere del suo orientamento romano nelle questioni puramente

dottrinali e ecclesiastiche15. Tuttavia, anche da parte bizantina era stata

attuata fin dalla metà del X secolo una intensa attività di creazione di

dipartimenti metropolitani, in aperta competizione con Roma: «il

motivo stimolante da parte bizantina è però più di natura politica, e cioè

la conquista dell’episcopato latino delle città di mare delle Puglie come

partigiano del governo greco»16 a riprova di quanto si diceva poc’anzi.

L’avvento dei Normanni poco cambiò da questo punto di vista. La

politica dei papi riformatori, a partire da Leone IX, mirava a mantenere

inalterati i privilegi e le concessioni riconosciute non solo da Bisanzio

all’epoca della sua dominazione, ma da Roma stessa, che non aveva mai

penalizzato le diocesi latine fedeli all’impero d’Oriente. Tali privilegi si

concretizzavano nell’autonomia, ancorché a geometrie variabili, degli

14 Ibid. p. 343 15 N. Kamp, op. cit. p. 380 16 W. Holtzmann, Sui rapporti tra Normanni e Papato in Archivio Storico Pugliese Anno XII a cura della Società di Storia Patria per la Puglia – Editore Cressati, Bari 1959, pp. 20-35

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arcivescovi di creare o disfare diocesi suffraganee a seconda delle

necessità. A geometrie variabili, perché non rare volte, durante questa

fase della dominazione normanna, i signori laici avevano da dire la loro

sia sulla nomina dei vescovi sia sulle questioni di carattere territoriale17.

Dice ancora Kamp: «i papi e i loro legati portarono anche nell’Italia

meridionale la rivendicazione programmatica dell’elezione libera e

canonica là dove in ambito bizantino si era abituati ad elezioni che

avevano forza giuridica solo con l’approvazione del governo» mentre

nel passaggio al dominio normanno «si trattò dapprima della

cooperazione dei nuovi poteri dei Normanni e dei papi nella scelta della

classe dirigente» e successivamente «i papi si impegnarono a realizzare

l’aspirazione riformatrice di un episcopato non simoniaco e a eliminare

chierici indegni»18 quindi a non concedere troppe libertà al potere

politico in materia.

Diversamente andò in Sicilia. Completata la conquista dell’isola

con la presa di Palermo nel 1093, si poneva il problema di creare un

assetto diocesano ex novo, dal momento che due secoli di dominazione

araba avevano lasciato il territorio privo di un’organizzazione

ecclesiastica, ancorché con una forte comunità cristiana. Questa, a

maggioranza greca, fu riorganizzata su iniziativa di Ruggero il Gran

Conte, che non solo ridefinì la suddivisione territoriale delle diocesi, ma

provvide anche a nominarne autonomamente i vescovi. La curia non

poteva che «adattarsi alle prerogative dello Stato e, in un certo senso,

17 N. Kamp, op. cit. p. 383 18 Ibid. p. 387

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rimase sotto il controllo di Ruggero, inoltre il papato aveva bisogno

dell’appoggio politico e militare normanno contro Bisanzio»19.

2.2 Mutamento dei rapporti tra Normanni e Santa Sede

Si arriva quindi all’intermezzo, ovvero alla data spartiacque in cui

sostanzialmente mutano i rapporti tra Papato e Normanni: il 1098.

Infastidito dall’eccessiva intraprendenza di Ruggero, Urbano II

organizzò un incontro a Salerno, dove per ricomporre il dissidio,

riconobbe tutte le diocesi istituite da Ruggero, salvo nominare un legato

apostolico per la sede di Troina, una sorta di supervisore

dell’organizzazione ecclesiastica nell’Isola. Mossa quanto meno

azzardata e che il Conte non gradì minimamente, dal momento che fece

arrestare il papa che aveva osato mettere in discussione la sua autorità.

Il risultato fu che Urbano II concesse la legazia apostolica a Ruggero e ai

suoi eredi ponendo il Conte di fatto alla stregua di un imperatore

bizantino. È dunque da ricondursi a questa data l’inizio del

deterioramento dei rapporti che condusse allo scontro durissimo tra il

papato e Ruggero II a partire dal 1128.

È questa la seconda fase evolutiva di tali relazioni e coinvolge anche

la concezione che Ruggero II, di cultura e formazione greca, aveva della

regalità. Arriviamo per tappe alla data fatidica del 1128 partendo dagli

attriti che erano insorti già nel 1121 tra Ruggero e suo cugino Guglielmo,

figlio di Ruggero Borsa e Duca di Puglia. Quest’ultimo, impegnato a

19 F. Mainenti, La Legazia Apostolica in Sicilia. Uno scisma religioso nella Catania del ‘700 - Agorà X, a. III, Luglio-Settembre 2002

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sedare una rivolta in Calabria, pretese dal cugino – in quanto suo

vassallo – aiuto militare, aiuto che Ruggero gli negò. Fu l’intervento del

papa Callisto II a ricomporre il dissidio e ad aiutare il raggiungimento

di un’intesa che si concretizzò nell’aiuto militare di Ruggero in cambio

della rinuncia di Guglielmo ai suoi possedimenti in Calabria e Sicilia.

Diventando padrone pressoché incontrastato di tutta l’Italia sud-

occidentale, non fu difficile per Ruggero reclamare i diritti sul ducato di

Puglia nel momento in cui suo cugino morì senza eredi nel 1127.

Le sue pretese all’unità del meridione20 furono osteggiate tanto dal

papa, all’epoca Onorio II, quanto dai baroni normanni di Puglia i quali

ingaggiarono battaglia contro Ruggero, venendone sconfitti nel 1128.

L’anno successivo il papa fu costretto a riconoscere il titolo di duca a

Ruggero, il quale però non poteva accontentarsi: voleva il regno.

L’occasione gli fu fornita dalla morte di Onorio nel 1130, seguita

dall’elezione di due papi: da un lato Innocenzo II come papa legittimo,

dall’altro Anacleto II, considerato antipapa. Ruggero avrebbe

appoggiato dei due colui che gli avesse garantito la corona e la scelta

ricadde pertanto sull’antipapa. Nel giorno di Natale di quello stesso

anno, il regno era ufficialmente suo.

Agli occhi della cristianità, Ruggero era un eretico e scismatico; lo

avevano sancito la scomunica e la proclamazione della crociata nei suoi

confronti: «al Concilio di Pisa del 1135 convocato da Innocenzo II questi,

20 Come è già stato accennato, Ruggero era di formazione e cultura greca: aveva maturato una concezione del potere sacrale, al modo degli imperatori bizantini. Il suo potere era derivante direttamente da Dio, senza intermediari e riconoscimenti datati, come la legazia apostolica di cui abbiamo parlato, lo paragonavano di fatto a un sovrano di rango pari agli imperatori. Nei siano riprova le fonti iconografiche, che lo ritraggono nell’atto di ricevere la corona direttamente da Cristo in persona (cfr. a riguardo il mosaico presente nella Chiesa della Martorana a Palermo).

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alla presenza di 122 partecipanti fra patriarchi, arcivescovi e vescovi,

oltre che di numerosi abati ed altri, comminò la scomunica contro

l’antipapa Anacleto II estendendola fra gli altri anche a Rogerius Sicilie.

[…] A tutti coloro che avessero combattuto per liberare la chiesa dal

tiranno Ruggero o dal suo papa Pierleone veniva concesso lo stesso

premio accordato da Urbano II nel Concilio di Clermont del 1095 a chi

fosse andato a Gerusalemme per la liberazione dei Cristiani»21. La

“risoluzione” prevedeva anche una sorta di embargo nei confronti del

regno di Sicilia, con la scomunica per chiunque commerciasse con quelle

terre.

Fu ancora una volta la potenza militare a stabilire il vincitore e quel

vincitore era Ruggero. Nel 1139 Innocenzo II non poté che riconoscere il

fatto compiuto e confermargli la corona del regno (e quindi l’istituzione

formale stessa del regno) e rinnovare così il rapporto feudale che

intercorreva tra Santa Sede e sovrani normanni22. Restavano però

questioni non risolte, su tutte quella della consacrazione dei vescovi:

«nell’ultimo scorcio del regno di Ruggero in Sicilia, quasi tutte le sedi

vescovili erano occupate da semplici eletti, dato il rifiuto dei papi a

concedere la consacrazione agli eletti dal re in veste abusiva di legato

apostolico; tale situazione si protrasse fino all’accordo del 1150

intervenuto fra papa Eugenio III ed il re, che consentiva al pontefice

l’esame di tutte le elezioni di vescovi già avvenute e quindi la loro

consacrazione»23. Veniva sancita così una nuova prassi che garantiva a

21 R. Elze, Ruggero II e i papi del suo tempo in Società, potere e popolo nell’età di Ruggero II, a cura di Centro di Studi Normanno-Svevi della Università degli Studi di Bari, edizioni Dedalo, Bari 1979, pp. 27-39 22 Cfr. a tal proposito il già citato W. Holtzmann alle pp. 20-25 23 R. Elze, op. cit. p. 37

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Ruggero la possibilità di nominare i vescovi, previa approvazione

papale. Tale prassi venne poi formalizzata nel concordato di Benevento

del 1156 in cui, tra le altre cose, era riconosciuta la piena autorità regia

sulle legationes.

In definitiva, abbiamo visto come tanto Guglielmo il Conquistatore,

quanto i vari regnanti di Sicilia, in veste di Duchi o Conti prima e di Re

veri e propri poi, ritenessero il proprio potere svincolato dalla volontà

del pontefice di turno. Se per il primo la posizione geografica aveva

influito nella “rassegnazione” papale ad accettare il fatto compiuto, pur

con l’ottenimento di una magra consolazione come l’imposizione di

Lanfranco in veste di arcivescovo di Canterbury; nel caso italiano furono

numerose campagne militari a stabilire chi avesse realmente ragione e le

vittorie di Ruggero II e dei suoi predecessori comunque non erano mai

risultate schiaccianti: ogni soluzione delle controversie aveva portato ad

un compromesso che in qualche modo garantisse benefici a entrambe le

parti.

Abbiamo visto anche che la posizione giuridica nei confronti del

Papato era differente nei due casi: Guglielmo negò qualsiasi obbligo di

fedeltà al papa che pure lo “richiamava all’ordine”; i Normanni d’Italia

ricercarono il rapporto vassallatico come viatico per il riconoscimento

della loro autorità. Nel secondo caso fu la concezione molto normanna

di questo rapporto feudale, ovvero l’ereditarietà dei diritti che esso

comportava, a creare gli attriti e a far esplodere le ostilità. In entrambi i

casi fu la contingenza di eventi quali la lotta per le investiture (nel caso

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inglese) e le pretese universalistiche di Federico Barbarossa (nel caso

italiano) a favorire l’accettazione del nuovo status quo.

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CAPITOLO III

ETNIE E ASSIMILAZIONE

Un ulteriore aspetto, comune alle due conquiste, è quello

dell’assimilazione delle etnie presenti nei territori conquistati al

momento dell’invasione. Entrambi i conquistatori si sono ritrovati a fare

i conti – per quanto in misura differente – con la compresenza di diversi

gruppi etnici che a vari livelli erano profondamente radicati nel

territorio.

Se nel caso inglese il processo di assimilazione è stato relativamente

agevole – i Normanni si trovarono di fronte un solo gruppo etnico,

quello degli Anglo-Sassoni – per l’Italia è stato più tortuoso ed è

avvenuto in fasi diverse della Conquista: le etnie presenti nel meridione

erano tre (Longobardi, Arabi e Greci) e le aree da essi occupate furono

inglobate in momenti differenti e distanti tra loro nel tempo, in un

processo lento e graduale, così che una vera e propria assimilazione non

può dirsi compiuta neanche sotto Federico II, quando il regno era ormai

ampiamente consolidato. Ciò non significa che i vari popoli non

parteciparono in egual misura alla vita pubblica dello Stato, ma certo

un’amalgamazione non fu mai completa e durante tutta l’epoca

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normanna gli Arabi restarono Arabi, e i Greci restarono Greci e solo i

Longobardi si integrarono in qualche modo con la classe dirigente

normanna.

In Inghilterra il processo di assimilazione portò invece alla

creazione di un popolo unico, per quanto secondo un percorso lento e

graduale. A parità di condizioni si può dire che in Inghilterra la quarta

generazione di Normanni (coincidente con il regno di Enrico II) era quasi

totalmente identificabile dal termine “inglese”, mentre lo stesso non può

dirsi della quinta generazione di Normanni in Italia (quella di Federico

II).

1. Relazioni etniche nell’Inghilterra normanna: una sintesi

Partendo proprio dall’Inghilterra, mi limiterò qui a fornire una

sintesi schematica di quanto trattato da Hugh. M. Thomas nel già citato

saggio The English and the Normans e in The Norman Conquest1. Il motivo

per cui non analizzerò troppo a fondo la questione inglese è duplice: da

un lato proprio per la ragione che il volume di cui sopra è altamente

esaustivo e dettagliato sulla materia e nulla di più potrei aggiungere

all’argomento; dall’altro perché il caso inglese servirà qui da semplice

termine di paragone per analizzare quanto accaduto nel Regno di Sicilia

e trarre delle conclusioni circa la diversità del caso siciliano.

Thomas parte dal presupposto che in Inghilterra, immediatamente

dopo la Conquista, tra le due etnie sussistessero ben poche differenze,

ma sottolinea come in un momento di grande ostilità degli Anglo-

Sassoni nei confronti dei Normanni, ogni minimo elemento di diversità

1 Cfr. Introduzione, note 1 e 8

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fosse motivo di astio2. Tali elementi di contrasto erano prevalentemente

culturali: innanzitutto il luogo d’origine, che rappresentava il più ovvio

e diretto indicatore di alterità. In secondo luogo, la fedeltà politica:

Hastings aveva marcato una netta presa di posizione degli Anglo-

Sassoni a favore di Harold, in contrapposizione agli invasori Normanni.

Terzo fattore era la distinzione di classe: subito dopo la Conquista

Guglielmo avrebbe provveduto ad azzerare l’aristocrazia autoctona

creando quindi un netto contrasto tra i nuovi aristocratici, tutti

Normanni, e il resto della popolazione. Altri fattori di particolare

importanza furono il linguaggio – che rappresentava un ostacolo

particolarmente difficile da superare – e infine le leggi in cui i due popoli

differivano totalmente. Non solo, su quest’ultimo punto persino il

tentativo da parte normanna di reintrodurre il murdrum3 fu considerato

indicativo della diversità tra i due gruppi: da parte dei conquistatori fu

attuato per arginare le violenze contro la nuova elite, dall’altra fu visto

come mezzo per rimarcare la superiorità nei confronti dei conquistati.

Aggiungo infine che inizialmente fu motivo di contesa persino

l’appartenenza alla stessa fede, che pure presentava ben pochi punti di

divergenza.

Le differenze si ripercossero anche e soprattutto al livello sociale: le

devastazioni ebbero ripercussioni sulla popolazione da un punto di

vista demografico, causandone la diminuzione nel numero, ma anche da

un punto di vista di status le cose andarono peggiorando per i cittadini

comuni. Se all’indomani della Conquista gli Inglesi si ritrovarono più

poveri e a fare i conti con difficoltà economiche di ogni tipo, nel lungo

2 H. M. Thomas, op. cit., p. 49 3 Si veda a tal proposito il Capitolo I.

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periodo furono apportati alcuni cambiamenti e introdotte alcune novità

che mutarono le relazioni sociali di classe.

In primo luogo, i Normanni ridussero significativamente la

reputazione degli uomini liberi e dei cosiddetti sokemen, ovvero i piccoli

proprietari terrieri. All’epoca del Domesday Book questi si erano ridotti

in una percentuale molto bassa rispetto al periodo Anglo-Sassone, fino

a rappresentare il solo 14% della popolazione.

In secondo luogo, l’avvento dei Normanni causò una progressiva

abolizione della schiavitù. Ciò fu dovuto anche alla visione Cristiana e

alla sua interpretazione da parte di Lanfranco, arcivescovo di

Canterbury. Guglielmo provvide a liberare gli schiavi e ad assegnargli

una porzione di terra in cambio di una certa quantità di lavoro. Più che

abolita, la schiavitù si evolse in un concetto un po’ meno disumano come

la servitù. I servi erano schiavi liberati cui era stato affidato un pezzo di

terra, ma erano considerati di proprietà del padrone e si trovavano a

soccombere a difficoltà sia di natura sociale, sia di natura legale. Infine,

sempre da un punto di vista sociale, il servo aveva la funzione – non

proprio gratificante – di pietra di paragone per far apparire i cittadini

comuni più liberi.

L’ultimo cambiamento significativo portato dai Normanni, fu

l’introduzione in Inghilterra della comunità Ebraica. Questa fu

importata direttamente dalla Normandia, dove era già piuttosto

fiorente, ma ebbe bisogno di qualche decennio prima di raggiungere

quella stabilità e importanza economica che la contraddistinse in

seguito. La sua presenza servì però senza dubbio a creare una identità

inglese basata sull’appartenenza ad un’unica fede Cristiana.

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Anche il processo di creazione dell’identità fu lento, ma pure ci fu

e garantì i suoi frutti. A tal proposito, Thomas distingue tre fasi: «nella

prima, che durò fino all’ultima parte del regno di Enrico I, sussistettero

forti distinzioni tra conquistatori e conquistati, e quella Normanna o le

altre identità continentali rimasero forti, sia a livello collettivo che

individuale»4. Vi è quindi una seconda fase intermedia in cui la

«Normanitas rimase un’identità possibile e per certi versi attraente»5, e in

cui restavano forti anche le ambiguità circa l’identità collettiva. Questa

fase attraversa grosso modo i regni di Stefano ed Enrico II. Nel periodo

finale si arriva dunque all’identificazione definitiva delle elites con

l’appellativo di “inglesi”.

Riforma della società, mantenimento delle istituzioni e delle

tradizioni inglesi quasi inalterate, distinzione tra governo

dell’Inghilterra e governo della Normandia, matrimoni inter-etnici,

confronto con altre comunità: tutti questi fattori influirono sulla

creazione di un’identità condivisa che a partire dalla fine del regno di

Enrico II può definire tutti gli abitanti d’Inghilterra inglesi.

2. Il “mosaico” siciliano

Quando Riccardo Cuor di Leone giunse in Sicilia nel 1190 (siamo a

ormai 40 anni dal consolidamento del Regno) trovò ad accoglierlo a

Messina una pletora di Longobardi, Greci e Arabi non proprio felici del

suo arrivo: «i cittadini, la massa dei Grifoni, la ragazzaglia, quella gente

discesa dai Saraceni, ingiuriavano i nostri pellegrini. Puntavano le dita

4 H. M. Thomas, op. cit. p. 77 5 Ibid. p. 78

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verso i nostri occhi, trattandoci da “cani puzzolenti”. […] Una volta che

furono arrivati i due re, i Grifoni si mantennero tranquilli, ma i

Longobardi continuavano a cercar lite con noi e minacciavano i nostri

pellegrini»6. David Abulafia, nella sua biografia di Federico II, insiste

nello sfatare il mito dei Normanni come “conquistatori tolleranti”,

capacità che non riconosce neanche allo Stupor Mundi, ne sia riprova la

traslazione della comunità araba superstite dalla Sicilia a Lucera in

Puglia7.

Questi brevi riferimenti a due epoche posteriori (il breve regno di

Tancredi e quello di Federico II) a quella di nostro interesse mi servono

per introdurre l’argomento dell’assimilazione e dell’identità nel Regno

di Sicilia e mostrano come a distanza di tempo dal consolidamento –

diversamente da quanto avvenuto per l’Inghilterra – non si fosse creato

un unico popolo “siciliano”, ma ciascuna delle etnie pre-esistenti alla

Conquista conservarono la propria identità. Ciò non significa che

interazioni non ci furono, né che i vari gruppi etnici non furono coinvolti

nella gestione del potere. Anche dal punto di vista culturale,

contrariamente a quanto sostiene Abulafia, la parola chiave è

“tolleranza”, ma anche “sincretismo”, per lo meno per ciò che concerne

la rappresentazione formale del potere da parte dei sovrani, in particolar

modo di Ruggero II.

Come abbiamo più volte ricordato nel corso di questo lavoro, al

momento dell’impresa di Conquista da parte dei Normanni le etnie

presenti sul suolo del futuro Regno erano prevalentemente tre:

6 Ambrogio, L’Estoire de la guerre sainte, a cura di G. Paris, Paris 1897 citato in J. Flori, Riccardo Cuor

di Leone – Il re cavaliere, Einaudi, 2004, p. 84-86 7 Cfr. D. Abulafia, Federico II – Un imperatore medievale, Einaudi, 1993

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Longobardi, Greci e Arabi. Altre minoranze consistenti (nell’ordine di

qualche migliaio di individui su una popolazione stimata in circa un

milione di abitanti8) erano quelle dei Bulgari, degli Armeni e degli Ebrei.

Vera Von Falkenhausen ha constatato come, sebbene l’unità etnica

delle componenti Araba e Greca – se non altro per motivi linguistici e

religiosi – fosse nettamente identificabile, altrettanto non può dirsi per

quella Longobarda: «quattro o cinquecento anni dopo la conquista

dell’Italia meridionale si può ancora parlare di Longobardi, o non si

dovrebbe invece parlare di longobardizzati o longobardizzanti?» si

domanda9 e prosegue ponendo la questione delle rilevanti «differenze

etniche tra i Longobardi dei principati di Benevento, Salerno e Capua e

quelli del tema bizantino di Longobardia». Dunque un gruppo

tradizionalmente definito Longobardo, ma che certo non manteneva più

quelle caratteristiche originarie dei primi invasori appartenenti a questo

popolo. L’elemento dominante ora era quello latino, cioè l’obbedienza

alla Chiesa Romana.

Questo elemento fu il cardine per l’assimilazione di questo gruppo

etnico a quello dei conquistatori. Se ne trova traccia, come rileva ancora

Von Falkenhausen in un altro lavoro10, nella comparsa di nomi propri di

persona di origine normanna tra i discendenti delle elites longobarde già

nella prima generazione successiva alla Conquista. Se si eccettua la

contea di Aversa di fondazione interamente normanna, nel principato di

8 G. Cherubini, Popoli, etnie e territorio alla vigilia della conquista. Il Mezzogiorno continentale in I caratteri originari della Conquista Normanna, cit., p. 77 9 V. Von Falkenhausen, I gruppi etnici nel regno di Ruggero II e la loro partecipazione al potere in Società,

potere e popolo nell’età di Ruggero II, a cura dell’Università degli Studi di Bari – Centro di studi normanno-svevi, Bari, 1979, p. 135

10 V. Von Falkenhausen, I ceti dirigenti pre-normanni al tempo della costituzione degli stati normanni

nell’Italia meridionale e in Sicilia in Forme di potere e struttura sociale, cit., pp. 321-377

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Capua vediamo verificarsi chiaramente questo fenomeno, al quale ne va

aggiunto un altro che rappresenta la caratteristica principale dell’opera

di “normannizzazione” dell’Italia meridionale: si tratta

dell’associazione tanto delle istituzioni quanto della classe dirigente

locale al governo del territorio. Un procedimento che non interessa solo

i territori (ex) Longobardi, ma anche quelli di precedente dominio arabo

e bizantino come vedremo dopo nel dettaglio. Nel caso particolare

longobardo, vediamo sopravvivere tutte le cariche, ma anche il diritto

stesso longobardo e confermata per intero – salvo rare eccezioni – la

classe dirigente già presente.

Per quanto riguarda i territori (ex) Bizantini, qui la distinzione fu

più marcata e il passaggio al nuovo regime fu leggermente più

traumatico. Innanzitutto, l’amministrazione bizantina era molto più

sviluppata rispetto a quella conosciuta in patria dai Normanni: «gli unici

funzionari – o quasi funzionari – del duca di Normandia erano i

vicecomites, che entro il vicecomitatus ne riscuotevano e controllavano le

entrate, ne custodivano i castelli e avevano alcune competenze

giudiziarie»11, le cariche e gli uffici bizantini erano pertanto superflue

agli occhi dei conquistatori, che ne mantennero in qualche modo il

nome, ma le svuotarono di contenuto, suddividendo le competenze tra

i vicecomites. Sussistette, come residuo, un catepano per la Puglia, ma la

sua influenza rimase sempre limitata. Anche qui vediamo un

cambiamento di denominazione e funzioni nelle cariche, ma ancora una

volta assistiamo alla sopravvivenza dei ceti dirigenti già presenti, come

attestano i nomi propri degli occupanti tali cariche.

11 Ibid. pp. 340-341

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Consideriamo qui la Calabria insieme alla Sicilia, sia perché il

soggetto promotore della loro conquista è lo stesso per entrambe

(Ruggero I), sia perché la denominazione delle cariche amministrative

nei due territori attinse tanto dall’esperienza greca, quanto da quella

araba. Inoltre, l’impianto creato fu quello che valse successivamente per

il Regno, quindi le due regioni furono il banco di prova per la futura

amministrazione. Lo “staff” di Ruggero era composto da un emiro, un

protonotario, un camerario e un logoteta12. Gli emiri (o ammirati) erano

stati istituiti con la stessa intenzione del catepano in Puglia, ma

ottennero maggiore fortuna, assumendo le competenze di una sorta di

“primo ministro” sia nelle contee di Calabria e Sicilia, sia

successivamente nel Regno. Il protonotario era responsabile del catasto,

il camerario delle finanze, mentre il logoteta aveva una funzione non ben

definita. «Ruggero I sembra aver compreso, fin dall’inizio, che soltanto

se avesse mantenuto, nei limiti del possibile, le antiche strutture

amministrative ed il personale in grado di farle funzionare, avrebbe

potuto godere i frutti delle fiorenti province conquistate»13. Che la

sostanziale predominanza dell’aspetto greco fosse mantenuta tanto

nell’ambito amministrativo quanto in quello culturale, lo dimostra

anche il fatto che Ruggero II fosse stato cresciuto – per ragioni

contingenti – in ambiente greco e ne padroneggiava la lingua ancor

meglio che del latino. Da questo punto di vista, i conquistatori

Normanni più che assimilare essi stessi, si fecero assimilare dai

conquistati.

12 Ibid. p. 351 13 V. Von Falkenhausen, I gruppi etnici, cit., p. 140

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Dal punto di vista sociale si arrivò invece ad una riorganizzazione

dei rapporti divisa sostanzialmente in due sia per la Calabria che per la

Sicilia: al di là di una classe servile di etnia prevalentemente araba,

troviamo da un lato al livello più basso i villani, greci e arabi per la

Calabria e la Sicilia Nord-Orientale, esclusivamente arabi per il resto

della Sicilia. Essi erano «legati al signore feudale intuitu personae, da un

vincolo cioè di personale dipendenza, pur con alcuni limitati diritti di

persona legale e di proprietà»14; questi sono definiti in arabo ḥursh che

significa ruvidi e corrispondono alla servitù della gleba. In Sicilia

troviamo poi i cosiddetti muls (lisci), cioè «coloni di condizione libera il

cui vincolo col feudatario era solo respectu tenimenti»15 e infine i ahl al-

maḥallat, ovvero gli abitanti delle città, anch’essi di condizione libera.

Dall’altra parte, tanto in Calabria quanto in Sicilia, abbiamo invece i

liberi cittadini e l’aristocrazia dei qā´id (gaiti), che nell’isola erano tenuti

al pagamento di un tributo.

In sostanza per nessuna di queste categorie la vita sembra cambiare

in maniera sostanziale nel passaggio di regime: i greci di Calabria e

Sicilia «hanno le loro terre, fondano e dotano chiese e monasteri greci

come prima, possono fare carriera dentro l’amministrazione sia locale,

sia centrale, e sottostanno di solito a funzionari greci locali»16; nella

Sicilia araba, i musulmani godono fondamentalmente degli stessi diritti,

devono sottostare – come abbiamo visto – al pagamento di un tributo,

hanno possibilità di fare carriera e hanno l’obbligo di convertirsi solo nel

caso in cui aspirino alle cariche pubbliche più elevate.

14 F. Gabrieli, Normanni e Arabi in Archivio Storico Pugliese Anno XI a cura della Società di Storia Patria per la Puglia – Editore Cressati, Bari 1958, pp. 53-68 15 Ibid. p. 57 16 V. Von Falkenhausen, I gruppi etnici, cit., p. 144.

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La condizione dei musulmani non deve comunque trarre in

inganno: se è vero che poeti come Ibn Hamdis furono costretti ad

abbandonare l’Isola17 a Conquista non ancora ultimata, non trovando

più favorevoli le condizioni per restare, e pellegrini come Ibn Jubayr

valutasse complessivamente negativa la condizione dei suoi

correligionari al termine del regno di Guglielmo II, si può in parte

concordare con il giudizio di Abulafia sull’illusione della tolleranza, per

quanto va riconosciuto che atteggiamenti come quelli dei sovrani

Normanni nei confronti degli “infedeli” non sono riscontrabili in nessun

altra area d’Europa. A questo si aggiunga che, sebbene in seguito i due

Ruggeri avessero stretto alleanze con signori musulmani in Sicilia,

all’epoca della Conquista era una matrice culturale di stampo cristiano

che faceva assumere all’impresa connotati di guerra santa, con

insistenza quasi morbosa sul fattore “crociata”18.

È possibile a questo punto tracciare una conclusione provando a

confrontare l’esperienza italiana con quella inglese. Se quest’ultima fin

da subito ha visto i Normanni impegnati a far pesare le differenze e anzi

a cercare un ricongiungimento e l’integrazione fra conquistatori e

conquistati (arrivata dopo varie rivolte durante il regno di Guglielmo I

e compiuta solamente alla fine del regno di Enrico II), tale intento da

17 “Sicilia mia. Disperato dolore/ si rinnova per te nella memoria/ Giovinezza. Rivedo le felici follie perdute/ e gli amici splendidi/ O paradiso da cui fui cacciato!/ Che vale ricordare il tuo fulgore?/ Mie lacrime. Se troppo non sapeste di amaro formereste ora i suoi fiumi/ Risi d’amore a vent’anni sventato a sessanta ne grido sotto il peso/ Ma tu non aggravare le mie colpe/ se il Dio tuo già concesse il perdono/ In alto la penombra si dirada/ agitata dai veli della luce/ ma questa luce è un modo del distruggersi/ manda luce chi perde la sua vita.” Ibn Hamdis, Sicilia mia in Diwan, a cura di C. Schiaparelli, Casa editrice italiana, Roma, 1897 18 Cfr. S. Tramontana, Popoli, etnie e mentalità alla vigilia della conquista di Sicilia in I caratteri originari

della conquista, cit., pp. 87-107.

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parte dei conquistatori Normanni in Italia non fu né mai espresso, né

tantomeno ricercato. I Longobardi, gli Arabi, i Greci rimasero tali per

tutto il periodo normanno: le loro istituzioni sopravvissero e servirono

al meglio alla creazione di un’efficiente amministrazione statale, che a

posteriori è valso alla Sicilia il record di primo Stato moderno (ante

litteram) della Storia. In alcuni casi certe particolarità culturali furono

persino incoraggiate: è il caso del monachesimo greco, è senza ombra di

dubbio il caso della cultura (letteraria e scientifica) araba, che

incontestabilmente visse nel periodo normanno il suo periodo di

massimo splendore.

L’intento dei sovrani siciliani dunque fu forse quello non tanto di

creare un popolo, di amalgamare tra loro culture diverse: si può

azzardare l’ipotesi che ebbero la volontà di creare fin dal principio un

Regno forte che poggiasse proprio sulla forza di tali diversità? La storia

successiva porterebbe a rispondere positivamente a questo

interrogativo: in fin dei conti il Regno di Sicilia è stato il più antico Stato

unitario moderno d’Occidente ed è perdurato, con i confini pressoché

invariati, fino all’Unità d’Italia.

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Il fatto che gli uomini non imparino molto dalla Storia,

è la lezione più importante che la Storia ci insegna

Aldous Huxley, Collected Essays, 1959

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CONCLUSIONI

«Licet simus Normanni, bene tamen novimus quia sic oportet fieri

et ita, si Deo placuerit, faciemus»1.

Guglielmo, duca di Normandia e futuro re d’Inghilterra, rispose

così ad una delegazione di monaci che chiedevano la restituzione di

possedimenti spettanti alla loro abbazia di Saint-Florent di Saumur2 e

denotava già quello spirito di identità che avrebbe contraddistinto

questo popolo nel corso dei loro “pellegrinaggi” in Europa e Medio

Oriente.

Ho aperto questo lavoro domandomi cosa fosse la Normanitas3 e se

questa connotazione etnica fosse in qualche modo collegata e

ricollegabile ai processi di conquista di Inghilterra e Sud Italia. Pur non

ricorrendo spesso tale termine nel corso di questo lavoro, il concetto si è

mosso sotto traccia attraversando l’analisi qui riportata, capitolo dopo

capitolo. Gli aspetti che ho qui analizzato sono stati quelli che ho trovato

1 Recueil des actes des ducs de Normandie, ed. M. Fauroux, in Memoires de la Société des Antiquaires de

Normandie, 36 (1961), pp. 386-387, n. 199 2 Cfr. M. Arnoux, I Normanni prima della conqusita. Costruzione politica e identità nazionale in I caratteri

originari della conquista, cit. pp. 51-66 3 Cfr. ancora una volta H. M. Thomas, The English and the Normans, cit. pp. 32-45

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più strettamente connessi alla Normanitas: non si è trattato degli unici

aspetti del regno a cui i vari sovrani nei due Stati hanno dovuto fare

fronte, ma sono quelli per me più significativi e da cui dipendono – come

ho cercato di dimostrare – tutti gli altri. Abbiamo visto che

l’introduzione e lo sviluppo del feudalesimo ha creato i presupposti per

la costituzione di un nuovo tipo di società, sdoganando definitivamente

tale sistema di rapporti in tutta Europa. In Inghilterra ha creato ex novo

una sovrastruttura, che poggiava in parte su elementi pre-esistenti e che

i conquistatori non hanno rigettato in toto, ma hanno in qualche modo

assimilato. Qui ha portato da un lato ad una ridefinizione dei rapporti

sociali, creando una fitta rete vassallatica, talmente intricata che spesso

e volentieri si faceva fatica a riconoscere chi fosse il signore di chi;

dall’altro lato ha prodotto un significativo mutamento del paesaggio,

notevolmente trasformato dall’introduzione di nuovi edifici quali i

castelli, strutture a vocazione sia di presidio, quanto difensiva.

In Sicilia e nel resto del Mezzogiorno il processo era già

timidamente in atto e i nuovi dominanti non hanno fatto altro che

accelerarlo. Anche qui si è proceduto ad una ridefinizione dei rapporti

sociali: la distinzione era operata a due livelli, uno sociale in senso stretto

(quindi con la presenza di una rette di rapporti vassallatici e legami di

natura signorile tra nobili e plebe) e l’altro in senso etnico-religioso (ad

esempio i nobili arabi si trovavano in una posizione leggermente meno

vantaggiosa rispetto ai parigrado cristiani).

Tipicamente “normanna” era la concezione sacrale del potere:

come abbiamo visto dalle parole di Guglielmo in apertura di questo

capitolo conclusivo, essere Normanni significava non essere soggetti a

Page 72: I processi di formazione degli Stati Normanni di Inghilterra e Sicilia: analogie e differenze

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nessuna autorità, se non quella divina. In Inghilterra tale concezione

aveva portato alla riforma di una Chiesa che per certi versi era ancora

primitiva e barbara e gli aveva garantito un’organizzazione più consona

ai dettami romani, ma allo stesso tempo più soggetta all’influenza regia,

grazie anche all’affermarsi di personalità di spicco come Lanfranco di

Pavia, primo arcivescovo di Canterbury e uomo fedelissimo di

Guglielmo. Il re aveva affermato ancora una volta con viva forza,

all’indomani della Conquista, il suo “siamo Normanni”, quando

Gregorio VII gli richiedeva di prestare fedeltà alla causa romana.

In Sicilia tale concezione sacrale fu alla base delle fortune e delle

sfortune dei sovrani. Il riconoscimento della legazia apostolica nel 1098

li aveva elevati ad un rango pari solo a quello degli imperatori bizantini,

ma l’equivoco che ne seguì causò al tempo di Ruggero II una serie di

tumulti, di cui pure riuscì ad avere ragione, ma non senza pagare il

prezzo dell’obbedienza al Papa. Alla fine il riconoscimento del Regno fu

ottenuto solo in cambio del riconoscimento di una certa autorità papale

nella nomina (o quanto meno nella convalida) dei vescovi.

Infine l’assimilazione dei conquistati. Se fu ricercata dai

conquistatori in Inghilterra, fu invece respinta dai Normanni di Sicilia.

In un caso era fondamentale ottenere la pacificazione per governare

serenamente. Ciò fu reso possibile anche grazie ad una serie di politiche

volte a favorire attivamente l’integrazione, come ad esempio

l’incoraggiamento dei matrimoni-interetnici, o l’introduzione di gruppi

etnici culturalmente e religiosamente distinti, come la comunità ebraica.

Nel caso italiano si è fatto esplicitamente leva sulle differenze e sulle

divergenze tanto tra i vari gruppi etnici quanto al loro interno (si vedano

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ad esempio le rivalità tra i Longobardi e i Bizantini, pure alleati, in Puglia

e tra le varie componenti arabe in Sicilia) per conquistare il potere prima

e per creare uno Stato efficiente poi. In entrambi i casi l’elemento

normanno è svanito con il passare degli anni, con il ricambio delle

generazioni: Ruggero II è più normanno o greco? Si può definire Stefano

I più normanno di quanto non sia inglese? I conquistatori hanno

assimilato o sono forse stati assimilati dai conquistati? Domande che

possono sembrare retoriche, e per certi versi lo sono, ma che aprono

senza dubbio spazi di ricerca ulteriore da condurre attraverso una più

approfondita analisi delle fonti documentarie contemporanee.

A questo punto mi sorge la domanda se la Normanitas che si

riconobbero i Normanni prima e dopo le Conquiste non muti di

contenuto: rimane quella formulata da Guglielmo fintanto che si deve

operare una invasione, una conquista e quindi un’imposizione della

propria autorità sui conquistati; ma diventa poi un’altra Normanitas una

volta che ci si insedia nel nuovo contesto. Diventa una capacità di

adattarsi alle nuove situazioni, a fare propri gli elementi culturali e

politici dei popoli assoggettati e mescolare queste esperienze

incanalandole nella creazione di uno Stato forte e duraturo.

Un’ultima postilla a questo lavoro è dedicata agli argomenti che

non sono stati toccati, ma che pure possono essere oggetto di

approfondimento. Il lavoro fin qui condotto non ha ovviamente pretesi

di esaustività, ma ha puntato a fare luce su un aspetto della storia

normanna che a mio avviso meritava di essere affrontato e nelle

modalità che qui ho proposto. Tuttavia ci sono aspetti che non sono stati

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toccati, o che lo sono stati marginalmente: ho infatti tralasciato, ad

esempio, una disamina del principato normanno di Antiochia, che pure

sarebbe interessante analizzare alla luce di questo studio preliminare,

per completare il quadro delle esperienze normanne. La “parentesi”

antiochena copre infatti un arco di tempo di circa 150 anni e di

particolare interesse sarebbe verificare come sia stata condotta l’azione

di Boemondo d’Altavilla e dei suoi discendenti in un contesto dominato

non solo dall’essere “zona di frontiera” con il mondo arabo, quanto

anche dalle incursioni crociate e dalle dipendenze bizantine.

La speranza è quella di proseguire l’approfondimento della materia

in generale e del presente studio in particolare, cercando di arricchirlo

di ulteriori elementi e di fornire un quadro ancora più dettagliato

dell’intera Storia normanna.

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BIBLIOGRAFIA

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