84
Fat t e ' n a p i z z a c ' a pummaro la ' n coppa Ved ra i che i l mondo po i t i s or r iderà Fat t e ' n a p i z z a e c re sc era i p iù f orte ne s suno Nes suno p iù t i fe rmerà
Non è l a so l i ta gu ida
I l Ragù , i l Sangue d i S an Gennaro , Ro s so Pompe iano , P i z za , i l Ve suv io ed i Camp i F leg re i
2
Claudia Albrizio, Bruna Caiazzo, Imma Lancia, Immacolata Mormile, Maria Parisi, Martina Vezzi
Progetto grafico: Elena Carrucola
P.O.R. CAMPANIA FSE 2007/2013 _ D.G.R. n. 1205 del 3/07/2009_ D.D. n.25 del 5/02/2012 _ Comune di Napoli _ Progetto "Una Rete per le Donne" CUP B69E10005680009 _ CIG 380033794B Asse II Occupabilità Obiettivo Specifico f Obiettivo Operativo f2 Corso di formazione “Addetto Agenzie turistiche”
Redazione a cura di
83
NOTE
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82
3
P R E S E N T A Z I O N E
4 81
La chiesa di Sant'Angelo a Nilo si trova
nel centro storico di Napoli in piazzetta
Nilo, all'angolo sud-est di piazza San
Domenico, con una facciata (che è la
principale) rivolta su via Mezzocanno-
ne.
La chiesa conserva al suo interno diver-
se opere tra cui il monumentale sepol-
cro del cardinale Rainaldo Brancac-
ci scolpito da Donatello, Michelozzo ed
aiuti.
La nostra passeggiata si conclude u-
scendo di nuovo su via Duomo dove
troneggia la sontuosa cattedrale.
La Cattedrale di Napoli (o Duomo di
Napoli), dedicata a Santa Maria Assun-
ta, è la sede dell'arcidiocesi di Napoli,
nonché una delle più importanti e gran-
di chiese della città.
Il Duomo sorge lungo il lato est del-
la via omonima, in una piazzetta con-
tornata da portici. Essa ospita il batti-
stero più antico d'Occiden-
te (il battistero di San Giovanni in Fon-
te) e tre volte l'anno accoglie il rito
dello scioglimento del sangue di san
Gennaro.
80
della famiglia di accedere privatamen-
te al luogo di culto.[3]
La cappella ospita capolavori come
il Cristo velato, conosciuto in tutto il
mondo per il suo velo marmoreo che
quasi si adagia sul Cristo morto,
la Pudicizia e il Disinganno, ed è nel
suo insieme un complesso singolare e
carico di significati.[3][4] Essa ospita
anche numerose altre opere di pregiata
fattura o inusuali,[3] come le macchine
anatomiche, due corpi totalmente scar-
nificati dove è possibile osservare, in
modo molto dettagliato, l'intero siste-
ma circolatorio.[5]
Oltre ad essere stato concepito come
luogo di culto, il mausoleo è soprattut-
to un tempio massonico carico di sim-
bologie, che riflette il genio e il cari-
sma diRaimondo di Sangro, settimo
principe di Sansevero, committente e
allo stesso tempo ideatore dell'appara-
to artistico settecentesco della cappel-
la.
L'opera più suggestiva della "Cappella
di Sansevero" è sicuramente il Cristo
Velato. Scolpita da Giuseppe Sanmarti-
no, l'opera colpisce per la minuziosità
del particolare e la delicatezza del velo
che ricopre il Cristo morto, adagiato su
dei cuscini. Sul viso e sul corpo di Ge-
sù sono visibili i segni del supplizio, le
mani e i piedi forati dai chiodi, la ferita
del costato e il dolore rimasto nei line-
amenti del cadavere. Di fianco al cor-
po, sempre scolpiti nel marmo, sono
posti i chiodi e la corona di spine.
Il velo che ricopre il soggetto, offusca
ma non copre la scultura e questo ha
fatto nascere la leggenda del velo mar-
morizzato dal Principe di Sansevero. La
bellezza dell'opera è tale che addirittu-
ra Antonio Canova, il grande scultore,
dopo aver cercato in tutti i modi di
entrarne in possesso, dichiarò che per
avere la scultura, sarebbe stato dispo-
sto a privarsi di dieci anni della sua
vita. Il velo che ricopre il Cristo lascia
comunque aperto l'antico dibattito:
l'innaturale "morbidezza" che lo carat-
terizza è figlia dell'ineguagliabile arte
di Giuseppe Sanmartino, o dei poteri
esoterici del Principe Raimondo di San-
gro?
Sant’ Angelo a Nilo
5
I N T R O D U Z I O N E
Famosissimo come alimento dalle grandi proprietà nutrienti,
il Pomodoro non è soltanto questo, e Napoli più di ogni altro
posto al mondo dà a questo prodotto della terra una grande
importanza. Chiamato dal popolo ‘a pummarola’ esso accom-
pagna famosissimi piatti della tradizione napoletana come il
ragù e la pizza.
Nelle domus pompeiane ritroviamo quel colore rosso caratte-
ristico, diventato quasi un simbolo territoriale.Il colore di
quel fuoco che qui è stato elemento fertile e distruttore, un
elemento con cui i partenopei convivono da sempre.
La città, infatti, è distesa tra due aree vulcaniche, le pendi-
ci del Vesuvio e i Campi Flegrei, i campi "ardenti" dei Greci,
che fin dai tempi antichi, con sapienza sono stati sfruttati
per la produzione di vini pregiati.
Infatti, Napoli è anche famosa per il Vesuvio, un vulcano
ancora attivo, ai cui piedi natura e arte si incontrano per
offrire un perfettoconnubio di bellezza. Oltre alle varie e
affascinanti storia legate a questa montagna di fuoco, come
quella di Pucinella o dei miracoli di San Gennaro, si possono
ammirare le bellezze dell’omonimo Parco Nazionale. Il Vesu-
vio è legato al pomodoro, in quanto sulle sue pendici è colti-
vata il famosissimo ‘Piennolo’, ovvero il grappolo di pomodo-
ri, oppure “ a pecchetella”, e cioè la conserva in vetro. Il
pomodoro del Vesuvio è una qualità che si trova esclusiva-
mente nel territorio partenopeo grazie al terreno che pre-
senta una stratificazione di lava dovuta alle eruzioni vulcani-
che. Al rosso del pomodoro è legato San Gennaro, il santo
patrono della città di Napoli, festeggiato il 19 settembre, nel
cui Duomo sono custodite due ampolle contenenti una so-
stanza allo stato solido, che la tradizione afferma essere
sangue del santo, e che si liquefà tre volte all'anno. Ciò è
conosciuto come il Miracolo di San Gennaro, e considerato
dai napoletani un segno d’auspicio per la città.
6 79
(UNESCO)
La piazza, fulcro di alcuni dei più im-
portanti monumenti di Napoli, ruota
attorno al monumentale obelisco
dell'Immacolata, maestosa guglia di
marmo bianco e bardiglio posta al cen-
tro dello spiazzale.
La guglia fu eretta nel XVIII secolo per
volere del gesuita padre Francesco
Pepe su progetto di Giuseppe Genoi-
no grazie ad una colletta pubblica.
L'opera si ispira alle innumerevoli mac-
chine da festa presenti in quei secoli
ed è rivestita da sculture marmoree
di Matteo Bottiglieri e di Francesco
Pagano. Sulla sommità è posta la statua
di rame dell'Immacolata.
Complesso monumentale Santa Chiara
Adiacente alla Piazza troviao una delle
più antiche chiese di Napoli ,la basilica
di Santa Chiara.
La basilica di Santa Chiara, con l'adia-
cente complesso monastico, entrambi
conosciuti anche come monastero di
Santa Chiara, è un edificio di culto d
iNapoli.
Edificato tra il 1310 e il 1340 su un
complesso termale romano del I secolo
d.C., per volere di Roberto d'Angiò e
della regina Sancha d'Aragona, nei
pressi dell'allora cinta muraria occiden-
tale, oggi piazza del Gesù Nuovo, al
convento faceva parte anche
il complesso delle Clarisse, oggi luogo
di culto a sé.
Si tratta della più grande basili-
ca gotica della città.
L’ultimo Decumano che percorriamo in
questa nostra visita tra le emozioni e
le suggestioni che Napoli ci elargisce a
grandi mani, senza parsimonia, con
grande e superba generosità,è il decu-
mano superiore.
Qui incontriamo la cappella San Seve-
ro,altro luogo incantevole e misterioso.
La cappella Sansevero (detta an-
che chiesa di Santa Maria della Pie-
tà oPietatella) è tra i più importanti
musei di Napoli. Situata nelle vicinanze
dellapiazza San Domenico Maggiore,
questa chiesa, oggi sconsacrata, è atti-
gua alpalazzo di famiglia dei principi
di Sansevero, da questo separata da un
vicolo una volta sormontato da un pon-
te sospeso che consentiva ai membri
78
il Chiostro di San Lorenzo Maggiore.
Importante testimonianza di epoca
settecentesca è quella del pregevole
pozzo di marmo epiperno scolpito
da Cosimo Fanzago e, sulla lunetta del
portale che immette in chiesa, l'affre-
sco Madonna con bambino e devo-
to di Montano d'Arezzo.
….allontanandoci dal Decumano mag-
giore la passeggiata prosegue incon-
trando ,lungo il decumano superiore la
chiesa di San Pietro a Majella è u-
na chiesa gotica di Napoli, situata nel-
centro antico della città, adiacente
all'omonimo conservatorio musicale.
Giungiamo finalmente nella Piazza del
Gesù dove si affaccia l’omonima chiesa
di origine barocca.
La chiesa del Gesù Nuovo o Trinità Mag-
giore è una delle più importanti chie-
se basilicali di Napoli; si erge in piazza
del Gesù Nuovo ed è situata ad ovest
dell'antico decumano inferiore.
La chiesa venne così chiamata per di-
stinguerla dalla vecchia chiesa del Ge-
sù. All'interno vi è inoltre custodito il
corpo di san Giuseppe Moscati e le sue
stanze private dentro le quali soggior-
nava.
La piazza
La piazza, data la sua complessità ar-
chitettonica e strutturale, non è rag-
giungibile tramite alcun mezzo di loco-
mozione, né pubblico, né privato, e
costituisce un'area interamente pedo-
nale. Inoltre, sulla facciata della chiesa
del Gesù Nuovo, è affissa la tar-
ga UNESCO con incisa la motivazione
per la quale il centro storico di Napo-
li è divenuto patrimonio dell'umanità:
« Si tratta di una delle più antiche città
d'Europa, il cui tessuto urbano contem-
poraneo conserva gli elementi della sua
storia ricca di avvenimenti. I tracciati
delle sue strade, la ricchezza dei suoi
edifici storici caratterizzanti epoche
diverse conferiscono al sito un valore
universale senza uguali, che ha eserci-
tato una profonda influenza su gran
parte dell'Europa e al di là dei confini
di questa. »
7
2. Rosso Pompeiano 18
I N D I C E
1. Le vie del Gusto 10
Le vie della Pizza 13 Il Decumano Maggiore 14 Il Decumano Inferiore 16 Il Decumano Superiore 17
Villa Pignatelli 23 Museo Archeologico 24 Palazzo Venezia 25
3. Il Sangue di San Gennaro 28
Duomo e Processione 32
4. Il Vesuvio 34
Origine del nome 35 Le Storie del Vesuvio 36 Il Parco Naturale del Vesuvio 38 La produzione agricola Vesuviana 42 Lacryma Christi 43 Il Piennolo 44 Area di produzione 46 Dati economici produttivi 46 Itinerari 47
5. I Campi Flegrei 52
Il Lago d’Averno 53 Il Lago di Lucrino 55 Il Monte Nuovo 57 Il Percorso 58
6. Il Ragù 62
Caratteristiche 67 Itinerario 67
8 77
sta cappella era originariamente allo-
cato il celebre dipinto di Simone Marti-
ni San Ludovico di Tolosa che incorona
il fratello Roberto d'Angiò, ora al Museo
di Capodimonte.
Nel transetto sono conservate anche
diverse testimonianze pittoriche risa-
lenti alle origini della chiesa. Cicli di
affreschi trecenteschi di Montano d'A-
rezzo sono infatti visibili nel transetto
destro; altri di ignoti giotteschi sono
presenti sul lato destro del deaumbula-
torio absidale, mentre diverse sono le
sculture risalenti a questo secolo. An-
cora, vi è il Monumento funerario
di Carlo di Durazzo, fatto giustiziare
nel 1348 dal re Luigi d'Unghe-
ria (l'iscrizione posta di fronte al sarco-
fago riporta per errore la data 1347).
Di rilievo, infine, anche la pala
di Colantonio, Consegna della regola
francescana, iniziata per la chiesa
nel 1444, anch'essa confluita a Capodi-
monte.
La magnifica abside è un esempio chia-
ro della profonda impronta che lascia
il gotico francese sulla basilica. Note-
vole ildeambulatorio con cappelle ra-
diali ed un alto presbiterio a pilastri
polistili, costoloni e volte a crociera.
Non c'è unanimità fra i vari studiosi
circa l'attribuzione di questa parte im-
portante della basilica ad un costrutto-
re. Secondo ilVasari l'autore sareb-
be Nicola Pisano, per Gaetano Filangie-
ri invece Arnolfo di Cambio, secondo
altri, per alcune analogie costruttive
stilistiche con la chiesa di Santa Maria
Donnaregina l'attribuzione sarebbe da
ascriversi proprio all'architetto france-
se che edificò quest'ultima.
Nel deambulatorio, all'altezza della
prima arcata, sul lato destro, si trova
ilmonumento sepolcrale di Caterina
d'Austria (prima moglie del duca Carlo
di Calabria, figlio di re Roberto d'An-
giò). L'opera scultorea è di fatto la
prima opera napoletana di Tino di Ca-
maino.
L'altare maggiore, opera di epoca rina-
scimentale tra le più belle presenti
a Napoli, è dello scultore napoleta-
no Giovanni da Nola. Sono visibili nella
parte superiore le statue dei santi Lo-
renzo, Antonio e Francesco, mentre
sulla parete inferiore lo scultore raffi-
gurò Il Martirio di San Lorenzo, San
Francesco con il lupo di Gub-
bio eSant'Antonio che parla ai pesci, in
uno sfondo in cui è rappresentata la
città all'epoca rinascimentale che ren-
de l'opera di grande valore documenta-
rio oltre che artistico. In origine vi era
un'altra sezione posta in alto rispetto
alle statue dei santi con rilievi raffigu-
ranti la Madonna, gli Angeli ed
il Bambino. Oggi questa parte è conser-
vata nel transetto destro.
Adiacente alla Sala Capitolare, vi è
76
Di notevole interesse è il campanile,
del secolo XV, eretto a più riprese, in
sostituzione di quello preesistente. La
torre, di forma quasi quadrata, è a
quattro piani e, per la sua posizione nel
centro della città è stata al centro di
svariati fatti storici. Il chiostro fu depo-
sito di armi dei Viceré spagnoli e
nel 1547 il campanile fu posto sotto
assedio dal popolo nella rivolta contro
Pedro de Toledo; nel 1647 i seguaci
di Masaniello lo presero d'assalto utiliz-
zandolo come avamposto di artiglieria
contro gli spagnoli
Interno
La basilica ha una pianta a crociera con
cappelle laterali aperte da archi acuti
che si aprono sull'unica navata coperta
(così come il transetto) da capriate.
Tra le cappelle laterali vanno ricorda-
te:
I-II cappella a destra: vi domina
il monumento sepolcrale di Ludovico
Aldomorisco(1421), consigliere del
re Ladislao di Durazzo. L'opera di gusto
tardo-gotico appartiene allo sculto-
re Antonio Baboccio da Piperno e fu
questo l'ultimo suo lavoro documenta-
to;
III cappella a destra: è in sti-
le barocco decorata da Cosimo Fanza-
go nella cancellata in ottone d'ingresso
e contenente le tombe della famiglia
Cacace con busti e statue eseguite
da Andrea Bolgi intorno al 1653. Sulla
parete frontale vi è una Madonna del
Rosario, dipinto di Massimo Stanzione,
mentre la volta è affrescata da Niccolò
de Simone;
IV cappella a destra: contiene un pre-
gevole polittico rinascimentale in ter-
racotta;
IV cappella a sinistra: ospita un'Adora-
zione dei Magi di Marco dal Pi-
no eseguita tra il 1551 e 1568 per
la chiesa del Gesù Vecchio trovando
solo di recente stabile collocazione
all'interno della basilica di San Lorenzo.
Cappellone di Sant'Antonio
Nel lato sinistro vi è il cappellone di
Sant'Antonio, maestosamente barocco
nell'esecuzione diCosimo Fanza-
go del1638 in cui trovano alloggio di-
pinti diFrancesco Di Maria e due tele
di Mattia Preti: Santa Chia-
ra e Crocifisso di San Francesco. In que-
9
F a t t e ' n a p i z z a c ' a p u m m a r o l a ' n c o p p a V e d r a i c h e i l m o n d o p o i t i s o r r i d e r à
F a t t e ' n a p i z z a e c r e s c e r a i p i ù f o r t e n e s s u n o N e s s u n o p i ù t i f e r m e r à
10
L a p i z z a è u n p r o d o t -
to gastronomico che ha per base un
impasto di acqua, farina, sale e lievito,
che dopo una lievitazione di almeno
ventiquattro ore viene lavorato fino a
ottenere una forma piatta, cotto al
f o rno e var iamente cond ito.
L'etimologia del nome "pizza" derive-
r e b b e s e c o n d o a l c u n i ,
da pinsa (dalla lingua napoleta-
na), participio passato del ver-
bo latino pinsere oppure del verbo
"pansere", cioè pestare, schiacciare,
p i g i a r e c h e d e r i v e r e b b e
da pita mediterranea e balcanica, di
origine greca pita o pitta, dal greco
peptòs ossia "infornato”; secondo
quest'ultima ipotesi la parola derive-
rebbe dall'ebraico, dall'arabo e
dal greco, da cui anche pita che appar-
t i e n e a l l a s t e s s a c a t e g o r i a
di pane o focacce. Tuttavia l’ipotesi
più accreditata induce a pensare che
derivi semplicemente dalla “pita” gre-
ca per incrocio con la parola “pezzo”
oppure “pazzo”.
La pizza ha una storia lunga, complessa
e incerta. Le prime attestazioni scritte
della parola "pizza" risalgono al latino
v o l g a r e d i G a e t a n e l 9 9 7 .
Già comunque nell'antichità focacce
schiacciate, lievitate e non, erano dif-
fuse presso gli Egizi, i Greci e i Romani.
Benché si tratti ormai di un prodotto
diffuso in quasi tutto il mondo, la pizza
è un piatto originario della cucina ita-
liana. Nel sentire comune, spesso, ci si
riferisce con questo termine alla pizza
tonda condita con pomodoro e mozza-
rella, ossia la variante più conosciuta
della cosiddetta pizza napoletana, la
pizza Margherita. La vera e propria
origine della pizza è tuttavia argomen-
to controverso: oltre a Napoli, altre
città ne rivendicano la paternità. Esi-
ste, del resto, anche un significato più
ampio del termine "pizza" con innume-
revoli varianti, cambiando nome e ca-
ratteristiche a seconda delle diverse
tradizioni locali.
L’unico tipo di pizza, però, riconosciuto
in ambito nazionale ed europeo è la
Pizza Napoletana. Nel 2004, infatti, è
Le vie del gusto
75
giornò nel convento nel 1343, come
egli stesso documentò in una lettera
all'amico Giovanni Colonna, descriven-
dogli il maremoto che il 25 novembre
colpì la città, mentre Giovanni Boccac-
cio pare che qui si innamorò di Fiam-
metta, la bellissima Maria d'Aquino,
figlia del re Roberto d'Angiò, sua musa
ispiratrice, dopo averla vista nella basi-
lica durante la messa del sabato santo
del 1334.
Nei secoli seguenti, la basilica è stata
poi oggetto di numerosi rimaneggia-
menti, dovuti anche ai danni
dei terremoti che colpirono la città e a
partire dal XVI secolo. Vi si aggiunsero,
ad opera di architetti locali, pesanti
sovrastrutture barocche. A partire
dal 1882 i restauri, più volte interrotti
e ripresi, sino all'ultimo, terminato
nella secondà metà del XX secolo, can-
cellarono progressivamente le aggiunte
barocche, ad eccezione della facciata e
della controfacciata, opera di Ferdi-
nando Sanfelice, della cappella Cacace
e del cappellone di Sant'Antonio, opera
di Cosimo Fanzago.
Tra gli anni cinquanta e anni sessan-
ta del Novecento furono eseguite ope-
re di consolidamento da Rusconi per
bloccare il crollo delle mura attraverso
un contrafforte e opere di cemento
armato.
Infine, nel corso del tempo hanno tro-
vato, nella basilica, degna sepoltura
diverse illustri personalità della storia
napoletana, come il filosofo e comme-
diografo Giovanni Battista Della Porta,
il letterato amico
del Petrarca Giovanni Barile, il mar-
chese Giovanni Battista Manso e l'insi-
gne musicista Francesco Durante.
Esterno
La facciata presenta un portale gotico,
probabilmente eseguito con la collabo-
razione di maestri toscani, che ancora
offre alla vista gli originari battenti
lignei trecenteschi, ciascuno suddiviso
in 48 riquadri in un discreto stato di
conservazione. La facciata invece risa-
le al 1742 in piena epoca barocca ed è
opera del Sanfelice.
74
a e il forno (convertito poi a refettorio
per le orfanelle, nel XVIII secolo). I
lavori che furono effettuati dopo
il 1664, sotto direzione di Francesco
Antonio Picchiatti, modificarono sensi-
bilmente la struttura del chiostro, ridu-
cendo sensibilmente le sue dimensioni;
infatti, fu costruito il refettorio al pia-
no terra, mentre le celle occuparono il
piano sovrastante. Nel cortile di servi-
zio vi si trovavano diciassette cucine, il
che ha fatto intuire quanto le religiose
tenessero ad ogni comodità: come ben
spiega Enrichetta Caracciolo che visse,
per ben sette anni, all'interno del com-
plesso, non come donna religiosa, ma
come laica; ella pubblicò le sue memo-
rie intitolate I misteri del chiostro na-
poletano.
San Lorenzo Maggiore
La basilica di San Lorenzo Maggiore è
una delle più antiche chiese diNapoli.
Si trova nel centro antico della città,
presso piazza San Gaetano.
Giovanni Boccaccio la definì "grazioso e
bel tempio" e si dice che qui egli incon-
trò Fiammetta nel 1334, mentre
nel 1346 Francesco Petrarca dimorò nel
convento annesso.
Nel 1235 il papa Gregorio IX ratificò la
concessione di una chiesa dedicata
asan Lorenzo da erigere in città. All'e-
poca, è documentata la presenza di
almeno altre cinque chiese dedicate al
santo, e la chiesa del Foro (di epoca
paleocristiana) fu assegnata ai frati
francescani come edificio su cui sareb-
be stata costruito il nuovo tem-
pio. Carlo I d'Angiò a partire dal1270,
quindi non molto tempo dopo la sua
vittoria su Manfredi, iniziò a sovvenzio-
nare la ricostruzione della basilica e
del convento, in una mescolanza di
stile gotico francese e francescano. Ad
architetti francesi si deve l'abside, rite-
nuta unica nel suo genere in Italia ed
esempio classico di gotico francese. Nel
passaggio dall'abside alla zona
del transetto e della navata si andò
affermando invece uno stile maggior-
mente improntato al gotico italiano,
segno del mutamento dei progettisti e
delle maestranze con il passare degli
anni.
Negli anni successivi, la basilica fu pro-
tagonista di importanti eventi per la
città ed il regno più in generale. San
Ludovico da Tolosa, rinunziatario al
trono del padreCarlo II d'Angiò, fu in-
fatti consacrato sacerdote in questa
basilica (celebre è il dipinto, oggi
al Museo di Capodimonte di Simone
Martini che rappresenta San Ludovico
di Tolosa che incorona il fratello Rober-
to d'Angiò). Altra consacrazione celebre
fu quella di Felice Peretti, vescovo
di Sant'Agata de' Goti, il futuro papa
Sisto V. Francesco Petrarca invece sog-
11
uff icialmente r iconosc iuta co-
me Specialità Tradizionale Garantita
(STG) della Comunità Europea. Essa si
presenta come una pizza tonda dalla
pasta morbida e dai bordi alti
(cornicione). Tale rigonfiamento del
cornicione è dovuto all'aria, che duran-
te la fase di manipolazione del panetto
si sposta dal centro verso l'esterno.
Nell'impasto classico napoletano non è
ammesso nessun tipo di grasso. Soltan-
to acqua, farina, lievito (di birra o na-
turale) e sale. Nella più stretta tradi-
zione prevede solo due varianti per
quanto riguarda il condimento:
P i z z a m a r i n a r a :
con pomodoro, aglio, origano e olio
extravergine di oliva.
P i z z a M a r g h e r i t a :
con pomodoro, mozzarella STG a listel-
li, mozzarella di bufala campana DOP a
cubetti o Fior di latte, basilico e olio
extravergine di oliva.
La cottura della pizza napoletana, infi-
ne, avviene sempre ed esclusivamente
tramite l'utilizzo del forno a legna.
Oggi la pizza napoletana è uno dei piat-
ti più diffusi al mondo ed è presente in
quasi tutti i ristoranti e locali di cucina
italiana all'estero con il nome pizza
napoletana o pizza Napoli.
La Pizza Margherita fu creata da Raffa-
ele Esposito nel 1889 per onorare la
Regina d’Italia Margherita di Savoia,
una pizza condita con pomodori, moz-
zarella e basilico, per rappresentare i
colori della bandiera italiana.
La prima vera unione tra la pasta e il
pomodoro avvenne a metà del Sette-
cento nel Regno di Napoli. Per alcuni
anni dopo che il pomodoro fu portato
in Europa dalle Americhe nel XVI seco-
lo, molti europei credevano che fosse
velenoso. Dal tardo XVIII seco-
lo tuttavia era comune per i poveri
della zona intorno a Napoli aggiungere
il pomodoro alle loro focacce, e così
nacque la pizza. Il piatto guadagnò in
popolarità e presto la Pizza divenne
un'attrazione turistica quando i visita-
tori a Napoli si avventuravano nelle
zone più povere della città per provare
le specialità locali. Fino al 1830 circa la
pizza era venduta in bancarelle ambu-
lanti e da venditori di strada fuori dai
forni. Alcune pizzerie mantengono viva
questa antica tradizione ancora oggi.
Quella che oggi è chiamata pizza Mar-
gherita era tuttavia già stata preparata
prima della dedica alla regina di Sa-
voia. Francesco De Bourcard
nel 1866 riporta la descrizione dei prin-
cipali tipi di pizza, ossia quelli che oggi
prendono nome di pizza marina-
ra, pizza margherita e calzone:
« Le pizze più ordinarie, dette coll'aglio
e l'oglio, han per condimento l'olio, e
sopra vi si sparge, oltre il sale, l'origa-
no e spicchi d'aglio trinciati minuta-
mente. Altre sono coperte di formaggio
grattugiato e condite collo strutto, e
12
allora vi si pone disopra qualche foglia
di basilico. Alle prime spesso si aggiun-
ge del pesce minuto; alle seconde delle
sottili fette di muzzarella. Talora si fa
uso di prosciutto affettato, di pomido-
ro, di arselle, ec. Talora ripiegando la
pasta su se stessa se ne forma quel che
chiamasi calzone. »
Sino al principio del Novecento la pizza
e le pizzerie rimangono un fenomeno
prettamente napoletano, e gradual-
mente italiano (nell'Italia settentriona-
le iniziò a diffondersi solo nel secondo
dopoguerra), poi, sull'onda dell'emigra-
zione, iniziano a diffondersi all'estero
ma soltanto dopo la seconda guerra
mondiale, adeguandosi ai gusti dei vari
paesi, diventano un fenomeno mondia-
le. Oggi il giro di affari legato alla pizza
(pizzerie, consegne a domicilio, surge-
lati, catene di fast food) è molto rile-
vante nel mondo, al punto che alcuni
abili imprenditori hanno costruito in-
torno alla pizza grandi fortune.
I puristi sostengono che esistono solo
due vere pizze: la “Marinara” e la
“Margherita”, ed è tutto ciò che servo-
no. La Marinara è la più antica e ha un
c o n d i m e n t o d i p o m o d o -
ro, origano, aglio, olio extra-vergine
d'oliva e solitamente basilico. Era chia-
mata “Marinara” non, come molti cre-
dono, perché contiene pesce ma per-
ché era il cibo che i pescatori mangia-
vano quando tornavano a casa dalle
lunghe giornate di pesca nella Baia di
Napoli. L'"Associazione Verace Pizza
Napoletana", fondata nel 1984, ricono-
sce solo la Marinara e la Margherita
verace ed ha stabilito le regole molto
specifiche che devono essere seguite
per un'autentica pizza Napoletana.
Queste includono che la pizza deve
essere cucinata in un forno a legno,
alla temperatura di 485 °C per non più
di 60-90 secondi; che la base deve es-
sere fatta a mano e non deve essere
utilizzato il mattarello o comunque non
è consentito l'utilizzo di mezzi mecca-
nici per la sua preparazione (i pizzaioli
fanno la forma della pizza con le loro
mani facendola "girare" con le loro di-
ta) e che la pizza non deve superare i
73
La fontana
La scelta della badessa, non fu però
basata solo su un mero giudizio esteti-
co, ma soprattutto funzionale, poiché il
chiostro dei Santi Marcellino e Festo
possedeva una rara qualità, ossia quella
di rispondere alle esigenze delle suore
di dominare, anche solo con lo sguardo,
il paesaggio urbano e quello naturale.
Cinque belvedere resero meno faticosa
la clausura: i due più bassi, ad esem-
pio, sono accanto alla cupola e sull'an-
golo orientale che fa da sfondo la cupo-
la di San Lorenzo.
Il terremoto del 1930, provocò danni
ingenti all'intero monastero e i restauri
successivi si rivelarono alquanto delu-
denti. Il fattore che ha sconvolto gli
esperti dei beni culturali, è notare che
fu demolita la splendida scala sette-
centesca che fece posto ai bagni
dell'orfanotrofio, a cui era stata desti-
nata parte del complesso religioso.
Il chiostro è caratterizzato da una
splendida fontana di controversia attri-
buzione[1]realizzata per richiesta della
badessa Violante Pignatelli e la stessa
è affiancata da due statue raffiguranti
il Cristo e laSamaritana, opere sculto-
ree di Matteo Bottiglieri. Inoltre, sono
ivi presenti decorazioni originali
ed aranci.
Il creatore della struttura idrica, rima-
sto sconosciuto, sempre sotto richiesta
della nobildonna, introdusse anche
delfini ed altri animali marini, masche-
re, ecc. tutte figure intrecciate, ele-
mento degno delbarocco napoletano,
avido di forme e di spazio. Accanto alla
fontana, invece, troviamo il pozzo che,
assunse tale struttura, solo per coprire
il foro dal quale fu estratto il materiale
tufaceo per le ricostruzioni.
Altra principale caratteristica del chio-
stro, sono le reti idriche ideate per
usufruire delle acque provenienti dal
condotto del Carmignano e quelle pio-
vane, dunque in maniera completa-
mente indipendente. I canali che face-
vano sopraggiungere l'acqua alle cister-
ne, vennero collocati su due archi ram-
panti sollevati tra l'orto e il portico
adiacente alla chiesa. Le cisterne furo-
no rivestite da volte a padiglio-
ne in lapillobattuto e rese accessibili
attraverso una piccola finestra, dalla
quale poteva passarci tranquillamente
un uomo. Il pozzo che raccoglieva le
acque piovane, invece, fu posizionato
lungo l'asse orientale. Ben 135 scalini
conducevano ai cunicoli dell'acquedot-
to e a numerosi depositi ricavati negli
ambienti sottostanti.
Il chiostro è formato da numerosi altri
ambienti, come ad esempio la farmaci-
72
L'altare maggiore, appoggiato alla pa-
rete fondale dell'abside, è opera
di Dionisio Lazzari; l'ancona, ospitante
l'Ascensione di Giovan Bernardo Lama,
è sormontata da una grata che costitui-
sce l'affaccio del Cappellone, o Coro
dell'abside, sulla chiesa.
Sulla sinistra del presbiterio,
il comunichino del 1610: da qui la ba-
dessa del convento soleva ascoltare la
messa e consentiva alle monache di
ricevere la comunione.
L'ambiente interno conserva ancora
oggi la Scala santa che, fino al secolo
scorso le monache erano obbligate a
salire in ginocchio tutti i venerdì del
mese di marzo come forma di peniten-
za.
Il chiostro
I l chiostro, per secoli negato alla citta-
dinanza comune, fu aperto a tutti
nel 1922 circa, quando la clausura fu
abolita.
La precisa data di fondazione della
struttura è alquanto sconosciuta, ma,
alcune fonti scritte, hanno fatto intuire
che il chiostro esistesse già in un perio-
do anteriore all'XI secolo. In una docu-
mento politico, infatti, viene menzio-
nata l'allora piccola chiesetta di San
Gregorio Armeno, affiancata da altre
tre chiesette. Tutte insieme, collocate
a poca distanza le une dalle altre, furo-
no unite per costituire un unico com-
plesso dedicato a San Gregorio Armeno:
le cui reliquie furono portate a Napoli
grazie alle monache basiliane che sfug-
girono alla guerra iconoclasta.
Ai primordi, il chiostro era stato conce-
pito con uno spazio verde rettangolare
ed adibito parzialmente ad orto e deli-
mitato da undici archi per dodici. Con i
dettami del Concilio di Trento, le suore
furono costrette a rimaneggiare l'intero
complesso monastico. La prima modifi-
ca, riguardò la chiesa stessa, cuore del
complesso religioso che, sempre secon-
do le disposizioni tridentine, doveva
essere esterna al convento. Il rimaneg-
giamento più accurato fu quello che
riguardò la struttura in oggetto, poiché
il chiostro, costituiva l'unico spazio
esterno delle suore, il loro giardino
personale che avrebbe dovuto essere,
secondo il loro gusto, il più accogliente
possibile.
Sotto richiesta della badessa Lucrezia
Caracciolo, le opere vennero affidate
a Giovanni Vincenzo Della Monica. Sot-
to consiglio della nobile, per l'edificio
in questione, l'architetto ed ingegnere
riprese il disegno del chiostro dei Santi
Marcellino e Festo: anch'essa sua pre-
gevole opera.
13
cano: da "E tu vuliv'a pizza" di un festi-
val della canzone napoletana degli anni
60, cantata da Aurelio Fierro insieme a
un improbabile Giorgio Gaber; a Pino
D a n i e l e , e c c .
La sua storia è strettamente intrecciata
con la storia di Napoli, e della sua ata-
vica fame. Il segreto dell'invenzione
della pizza napoletana, e del suo suc-
cesso nella stessa città che le ha dato i
natali, sta nella sua economicità;
nell'eccellenza dei suoi ingredienti,
prodotti in zona; nella facilità della sua
confezione; nel suo potere saziante (la
pasta della pizza continua a lievitare
nello stomaco); nel suo apporto calori-
co (la pasta per i carboidrati, la mozza-
rella per le proteine, il pomodoro per
le vitamine, i sali minerali e il licope-
ne , sos tanza ant i - o s s idante ) .
Gli ingredienti di base della pizza napo-
letana sono due: la mozzarella ('a moz-
zarella)e il pomodoro ('a pummarola),
ingred ient i ad a l to tasso d i
"napoletanità": sapientemente lavorati
e impiegati, hanno fatto della "pizza
napulitana" qualcosa di unico.
L e v i e d e l l a p i z z a
L’unione dei suoi ingredienti, unita alla
vivacità del popolo napoletano e
all’atmosfera che si respira per le vie
del centro storico di Napoli, fanno del
suo assaggio un momento memorabile
sia per il napoletano stesso, che per il
turista. Venire nella città partenopea
per molti, infatti, significa anche fare
un viaggio nella gastronomia del posto
e come si può non assaggiarne il simbo-
l o p e r e c c e l l e n z a ?
35 cm di diametro o essere spessa più
di un terzo di centimetro al centro.
L'associazione seleziona anche le pizze-
rie nel mondo per produrre e diffonde-
re la filosofia e il metodo della pizza
verace napoletana. Ci sono molte piz-
zerie famose a Napoli dove si possono
trovare queste pizze tradizionali, la
maggior parte di esse sono nell'antico
c e n t r o s t o r i c o d i N a p o l i .
Talvolta tali pizzerie andranno anche
oltre le regole specificate, ad esempio,
usando solo pomodori della varietà "San
Marzano" cresciuti sulle pendici del
Vesuvio e utilizzando solamente l'olio
di oliva e aggiungendo fette di pomodo-
ro in senso orario. Un'altra aggiunta
alle regole è l'uso di foglie di basilico
fresco sulla pizza marinara: non è nella
ricetta "ufficiale", ma è aggiunto dalla
maggior parte delle pizzerie napoleta-
ne per guarnirla.
Simbolo della città di Napoli e
dell’Italia nel mondo, la pizza e entrata
nella cultura come elemento distintivo
di un popolo e di una cultura. Nelle
canzoni, i riferimenti alla pizza si spre-
14
E’ nei decumani della città che si tro-
vano le principali pizzerie napoletane,
le più storiche e le più autentiche. La
via primaria quando si parla di pizza
resta sempre Via dei Tribunali ma il
centro storico pullula di pizzerie sia
nelle strade principali che secondarie.
Il percorso che vi viene proposto è in-
fatti tra i decumani della città, quindi
del centro storico con le sue chiese e le
sue piazze più importanti. Partendo dal
Decumano Maggiore (quello centrale) in
cui si trova Via dei Tribunali andremo a
quello Inferiore (detto anche Spaccana-
poli, più in basso) in cui c’è molto da
visitare e a quello Superiore (più in
alto) meno ricordato ma sempre pieno
d i f a s c i n o e s t o r i a .
Queste tre strade scorrono parallela-
mente l'una dall'altra attraversando da
est a ovest la città, parallelamente
rispetto alla costa. Il termine decuma-
no utilizzato in via ufficiale risulta in
realtà un termine improprio in quanto
esso caratterizza un sistema di urbaniz-
zazione di epoca romana mentre la
nuova zona urbana di Neapolis, venne
fondata come colonia greca, dunque
ben prima dell'avvento dei romani. Il
sistema greco prevedeva uno schema
stradale ortogonale in cui tre strade, le
più larghe e grandi, parallele l'una
all'altra, chiamate plateiai (singolare:
plateia), attraversavano l'antico centro
urbano suddividendolo in quattro parti.
Inoltre, tali vie principali vengono ta-
gliate perpendicolarmente, da nord a
sud, da altre strade più piccole chiama-
te stenopoi (singolare: stenopos) o più
impropriamente "cardini", le quali stra-
de oggi costituiscono i vicoli del centro
s t o r i c o c i t t a d i n o .
Oggi tutte e tre le vie principali del
nucleo antico fanno parte della porzio-
ne di centro storico di Napoli protetto
dall'Unesco e contengono al loro inter-
no un elevato numero di palazzi nobi-
liari, chiese monumentali e siti archeo-
logici della città.
I l D e c u m a n o M a g g i o r e
Oggi il decumano maggiore è una delle
strade più importanti del centro storico
di Napoli (dichiarato nel 1995 patrimo-
nio dell'umanità) e corrisponde all'o-
d i e r n a v i a d e i T r i b u n a l i .
Il decumano maggiore inizia grosso
71
Il prodigio, a differenza di quello di San
Gennaro, avrebbe avuto luogo negli
anni in modi e tempi diversi, ma secon-
do la tradizione, i martedì e il giorno
della festa di Santa Patrizia, il 25 ago-
sto.
Nella chiesa avverrebbero o sarebbero
avvenute anche altre liquefazioni di
santi celebri: San Giovanni Battista (il
29 agosto e talvolta il 24 giugno) e San
Pantaleone (l'ultimo sarebbe avvenuto
il 27 giugno del 1950).
Esterno
La facciata, seppur leggermente spro-
porzionata, presenta quat-
tro lesene toscane che le conferiscono
armonia di forma e struttura, con tre
finestroni in arcate in un primo tempo
sormontate da un timpano e successi-
vamente da un terzo ordine architetto-
nico.
L'atrio, severo e scuro, regge il piano
del coro con quattro pilastri e le relati-
ve piccole volte ad essi collegati.
Il portale principale presenta dei bellis-
simi battenti disegnati con originali
linee di ispirazione classica ed eseguiti
nel 1792. In ciascuno degli scomparti
dei tre battenti figurano rispettiva-
mente, intagliati a rilievo, San Loren-
zo, Santo Stefano e gli Evangelisti.
Superando l'atrio, si notano ai lati della
porta le iscrizioni che ricordano l'anno
di consacrazione della chiesa
nel 1579 e la dedicazione al santo ar-
meno. In una terza lapide è menziona-
ta la visita di Pio IX del 1849.
Interno
Navata
L'interno presenta una navata unica,
con quattro cappelle laterali e cinque
arcate per ciascun lato, che termina
con un'abside a pianta rettangolare,
sormontata da u-
na semicupola decorata con La gloria
di San Gregorio di Luca Giordano.
Cupola
Di straordinaria fattura è il soffitto a
cassettoni, realizzato nel 1580 dal pit-
tore fiammingo Teodoro d'Errico su
commissione della badessa del conven-
to Beatrice Carafa, i cui scomparti con
intagli dorati allocano tavole con la
raffigurazione della vita dei santi le cui
reliquie sono custodite nel complesso
conventuale.
Nelle quattro cappelle laterali destre
vi sono, tra l'al-
tro, L'Annunciazione di Pacecco De
Rosa, la Vergine del Rosario di Nicola
Malinconico e notevo-
li affreschi diFrancesco Di Maria. Sul
lato sinistro si può ammirare invece un
superbo San Benedetto attribuito al-
lo Spagnoletto.
70
pinacoteca con opere del Caravaggio e
di altri maestri.
S Gregorio Armeno: la chiesa ed il chio-
stro
La storia
Sorge sull'omonima via, l'antica Strada
Nostriana che prende il nome dal ve-
scovo Nostriano che nel V secolo fondò
il primo ospedale per i poveri ammala-
ti.
La chiesa sarebbe stata edificata sulle
rovine del tempio di Cerere attorno
al930, nel luogo che secondo la leggen-
da avrebbe ospitato il monastero fon-
dato da Sant'Elena Imperatrice, madre
dell'imperatore Costantino.
Altra leggenda vuole la presenza nel
luogo di un monastero di monache basi-
liane, seguaci di santa Patrizia che vi si
sarebbero stabilite dopo la morte della
santa, conservando le reliquie di san
Gregorio Armeno (che fu patriarca
di Armenia dal 257 al 331).
Nel 1009, in epoca normanna, il mona-
stero fu unificato a a quello dedicato
a San Pantaleone, assumendo la regola
benedettina.
Dopo il Concilio di Trento, a partire
dal1572, il complesso subì un profondo
rifacimento ad opera di Giovanni Vin-
cenzo Della Monica e Giovan Battista
Cavagna, con la chiesa collocata al
centro del convento.
Ulteriori rifacimenti ad opera
di Dionisio Lazzari furono del 1682.
Il miracolo di Santa Patrizia
Dal 1864 le spoglie della Santa furono
traslate nella chiesa, a suggello della
devozione dei napoletani per la vergi-
ne, discendente dell'imperato-
re Costantino che nel IV secolo naufra-
gò sulle coste della città, prendendo
alloggio nell'antico convento basiliano,
dove sarebbe morta il 13 agosto
del 365.
Nella quinta cappella a destra della
navata, vi sono le reliquie della Santa,
contenute in un pregevole reliquiario in
oro e argento.
Le doti miracolose di Santa Patrizia, già
note nel secolo XII, per il trasudamento
dellamanna che sarebbe avvenuto dalle
pareti sepolcrali che custodivano il
corpo della Santa, ed in seguito per la
liquefazione del sangue, hanno trovato
a Napoli nei secoli ed ancora oggi, eco
minore rispetto a quelle del più celebre
patrono della cittàSan Gennaro.
Tuttavia, capitando di imbattersi per
caso nella chiesa, un martedì mattina,
si può assistere, in un'atmosfera di ra-
refatto misticismo, al prodigio che av-
verrebbe in seguito alle impetrazioni
delle monache.
15
modo da Port'Alba e piazza Bellini
(dove sono presenti le prime mura gre-
che del centro storico di Napoli) conti-
nuando per via San Pietro a Majella e
per via dei Tribunali, la quale incrocia
con via Duomo per poi terminare al
Castel Capuano (nella foto accanto).
Quest'ultimo è il motivo per il quale, la
strada, è stata chiamata sin dal Cin-
quecento strada dei Tribunali. Infatti,
il castel Capuano, sin dagli inizi del XVI
secolo, per volontà di Don Pedro di
Toledo, assunse il ruolo di tribunale
della città. In posizione centrale di via
dei Tribunali si può incontrare piazza
San Gaetano, la quale sorge sull'area in
cui insisteva in epoca greca l'agorà del-
la città, divenuta poi in epoca romana
foro. Sempre sulla piazza, a testimo-
nianza di ciò, ci sono gli ingressi per la
Napoli sotterranea e per gli scavi di San
Lorenzo, i quali offrono importanti re-
sti della Neapolis greca. Inoltre dalla
piazza si accede verso sud a via San
Gregorio Armeno, cardine (o stenopos)
che unisce il decumano maggiore al
d e c u m a n o i n f e r i o r e .
Le altre piazze attraversate dal decu-
mano sono: piazzetta Miraglia, il largo
dei Girolamini e piazza Riario Sforza.
Su via dei Tribunali si affacciano nume-
rosi edifici di culto di significativa im-
portanza. Tra i principali vi sono la
Basilica di San Paolo Maggiore (nella
foto accanto), quella di San Lorenzo
Maggiore e la chiesa dei Girolamini.
Andando da ovest verso est, la prima
chiesa che si incontra è la basilica di
San Paolo Maggiore. Edificata alla fine
del VII secolo, la basilica è a tre navate
e ospita opere di Stanzione, Vaccaro e
Solimena. Di fronte alla basilica di San
Paolo Maggiore giace la Basilica di San
Lorenzo Maggiore, una delle più anti-
che chiese napoletane (è stata infatti
eretta nel XII secolo). La chiesa fu defi-
nita «grazioso e bel tempio» da Boccac-
cio, essendo progettata in chiaro stile
gotico francese. Più avanti vi è invece
la chiesa dei Girolamini che per motivi
storici, artistici e culturali, è tra i più
importanti luoghi di culto della città. Il
complesso arriva fino a fronteggiare il
duomo di Napoli che custodisce la più
antica biblioteca della città (seconda in
Italia) ed una importante quadreria che
16
espone dipinti di giovani artisti del
Seicento napoletano.
Tra gli altri siti storici situati lungo il
decumano maggiore abbiamo:
Conservatorio di San Pietro a Majella;
Chiesa di San Pietro a Majella;
Cappella dei Pontano;
Chiesa di Santa Maria delle Anime del
Purgatorio ad Arco (nella foto accanto);
Duomo di Napoli;
Pio Monte della Misericordia.
I l D e c u m a n o I n f e r i o r e
Il decumano inferiore, volgarmente
chiamato Spaccanapoli, in quanto divi-
de nettamente, con la sua perfetta
linearità, la città antica tra il nord e il
sud, è un'arteria viaria del centro anti-
co di Napoli ed è una delle vie più im-
portanti della città.
Il decumano inferiore divenne tra il
Medioevo e l'Ottocento importante sia
per i conventi degli ordini religiosi sia
per le abitazioni di uomini potenti che
vi abitarono. In origine il tracciato sor-
geva dalla piazza San Domenico Mag-
giore (nella foto sopra) e proseguiva
fino a via Duomo. In epoca romana, la
via si allungò e inglobò anche la zona
dell'attuale piazza del Gesù Nuovo co-
me testimoniano i resti delle terme
romane ritrovate sotto il chiostro della
basilica di Santa Chiara.
Il decumano si suddivide in tre spezzo-
ni:
Il tratto iniziava da piazza del Gesù
Nuovo (nella foto a destra) per prose-
guire per l'attuale via Benedetto Croce,
passando per piazza San Domenico
Maggiore, piazzetta Nilo e largo Corpo
di Napoli;
La parte centrale è via San Biagio dei
Librai;
Invece, via Giudecca Vecchia, una par-
te di Forcella, superato l'incrocio con
via Duomo, costituisce il tratto finale
del decumano.
L a m o d e r n a c o n c e z i o n e d i
"Spaccanapoli" invece include anche le
espansioni che si sono avute nel corso
del XVI secolo le quali hanno visto al-
lungare il tratto iniziale fino ai Quartie-
ri Spagnoli.
69
più chiostri, arrecando danni al patri-
monio artistico-architettonico che ca-
ratterizzava la via.
Tra i numerosi monumenti presenti nel
Decumano maggiore vale la pena sof-
fermarsi sulla Chiesa dei Girolamini.
La chiesa dei Girolamini fa parte di un
vasto complesso monumentale al quale
si accede da Via Duomo.
Nell'omonima piazza, su Via Tribunali,
si affaccia la Chiesa, fondata nel 1592,
fu eretta a spese dei padri dell'ordine
di San Filippo Neri, dell'Oratorio, venuti
la prima volta a Napoli nel 1586.
Il progetto della Chiesa è di Giovanni
Antonio Dosio nelle forme classiche
toscane. Dopo la sua morte l'opera fu
continuata da Dionisio Nencioni di Bar-
tolomeo che la ultimò nel 1619.
La cupola ed il frontespizio sono opera
di Dionigi Lazzari. La facciata fu rifatta
da Ferdinando Fuga nel 1780 in marmi
pregiati. Sul portale si vedono le Tavole
della Legge scritte in caratteri ebraici.
Ai lati due campanili gemelli dotati di
orologi.
La parte superiore della facciata è al-
leggerita da un finestrone rettangolare
sormontato da un timpano sul quale
svetta un coronamento costituito da un
timpano arcuato spezzato al centro del
quale si inalza un setto decorato con
l'immagine della Maternità.
Nelle nicchie del prospetto sono collo-
cate delle statue iniziate da Cosimo
Fanzagoe ultimate da Giuseppe Sam-
martino, altre statue dello stesso auto-
re sono collocate sul portale.
Interno della chiesa
L'interno è molto vasto e presenta una
pianta a croce latina suddivisa in tre
navate per mezzo di 24 colonne di gra-
nito (12 per lato).
Le cappelle sono 12 tutte decorate da
artisti di estrazione toscana, romana
ed emiliana.
Sulla controfacciata c'è un affresco di
Luca Giordano.
Le sculture sono del Bernini, mentre il
soffitto a cassettoni fu realizzato nel
1627.
La "Domus Aurea"
Per la sua decorazione barocca in oro,
la chiesa fu detta "la Domus Aurea" e
custodisce i resti mortali di Giambatti-
sta Vico che nell'Oratorio lavorò a lun-
go per ordinare ed ampliare la famo-
sa biblioteca ricca di oltre 60.000 fra
libri e incunabili.
Il Complesso monumentale dei Padri
Girolamini, comprende, oltre la Chiesa
omonima, il convento e due chiostri;
quello maiolicato e quello "segreto"
degli aranci. Segreto perché tutti san-
no dell'esistenza di un chiostro degli
aranci, ma pochi ne conoscono l'ubica-
zione.
- Pio monte della misericordia: con una
68
quella Medioevale, Rinascimentale fino
all'unificazione d'Italia. Essi costituisco-
no, nella pianta di Ippodamo da Mileto,
tre assi viari di Neapolis, città nuova
(470 a.C.) che vanno da est ad ovest,
intersecati da venti stradine denomina-
te "cardini". Dove si intersecano i decu-
mani ed i cardini sorgono le insule con
la contemporanea presenza di palazzi
pubblici sacri e palazzi nobiliari privati.
L'elemento religioso e l'elemento nobi-
liare, fortemente uniti, hanno determi-
nato la privatizzazione degli spazi.
Di particolare interesse è il decumano
maggiore.
Il decumano maggiore è un'arteria via-
ria del centro antico di Napoli e, insie-
me al decumano inferiore e aldecuma-
no superiore, una delle tre strade prin-
cipali dell'antico impianto urbano gre-
co.
La strada, urbanisticamente la più im-
portante delle tre, costituisce il cuore
dei decumani di Napoli.
Oggi il decumano maggiore è una delle
strade più importanti del centro storico
di Napoli (dichiarato
nel1995 patrimonio dell'umanità) e
corrisponde all'odierna via dei Tribunali
seguendo ancora interamente l'antico
asse viario greco.
Proprio perché si tratta di una struttura
stradale originaria dell'antica Grecia,
sarebbe più opportuno parlare
di plateia e non di "decumano", deno-
minazione di epoca romana che per
convenzione ha sostituito l'originaria.
Il decumano maggiore inizia grosso
modo da port'Alba e piazza Belli-
ni (dove sono presenti le prime mura
greche del centro storico di Napoli)
continuando per via San Pietro a Majel-
la e per via dei Tribunali, la quale in-
crocia con via Duomo per poi terminare
al Castel Capuano. Quest'ultimo è il
motivo per il quale, la strada, è stata
chiamata sin dal Cinquecento strada
dei Tribunali. Infatti, il castel Capuano,
sin dagli inizi del XVI secolo, per volon-
tà di Don Pedro di Toledo, assunse il
ruolo di tribunale della città. In posi-
zione centrale di via dei Tribunali si
può incontrare piazza San Gaetano, la
quale sorge sull'area in cui insisteva in
epoca greca l'agorà della città, divenu-
ta poi in epoca romana foro. Sempre
sulla piazza, a testimonianza di ciò, ci
sono gli ingressi per la Napoli sotterra-
nea e per gli scavi di San Lorenzo, i
quali offrono importanti resti del-
la Neapolisgreca.
Il percorso fu duramente deturpato
all'altezza di piazza Miraglia con la co-
struzione del vecchio Policlinico alla
fine del XIX secolo, distruggendo un'e-
norme quantità di edifici storici, per lo
17
Lungo via San Biagio dei Librai, uno dei
cardini (o stenopos) che sale verso
nord, collegando il decumano inferiore
a quello maggiore, è via San Gregorio
Armeno.
Su Spaccanapoli si affacciano numerosi
edifici di culto di significativa impor-
tanza, centri della cristianità napoleta-
na. Tra i principali vi sono la chiesa del
G e s ù N u o v o c o n l ’ o b e l i s c o
dell’Immacolata, quella di Santa Chiara
e quella di San Domenico Maggiore con
l’obelisco di San Domenico.
Il primo che si incontra partendo da
piazza del Gesù è la chiesa del Gesù
Nuovo, o della Trinità Maggiore. Di
fronte alla chiesa del Gesù Nuovo è la
basilica di Santa Chiara, con l'annesso
complesso monastico. Voluta da Rober-
to d'Angiò nel XIV secolo, la chiesa si
presenta subito con una sobria e impo-
nente facciata, con un grande rosone
centrale. Gli interni, ospitano anche la
tomba della dinastia dei Borbone. Più
avanti vi è invece il complesso di San
Domenico Maggiore, tra i più antichi,
grandi e storicamente e culturalmente
rilevanti della città.
Tra gli altri luoghi di interesse storico,
lungo il decumano inferiore, abbiamo:
Chiesa di Sant'Angelo a Nilo;
Palazzo Pignatelli di Toritto;
Chiesa di Santa Maria Assunta dei Pi-
gnatelli;
Chiesa di Sant'Angelo a Nilo.
Il Decumano Superiore
E’ il "decumano" più alto e corrisponde
alle attuali vie della Sapienza, via
dell'Anticaglia e via Santi Apostoli. A
causa dei numerosi rifacimenti subiti
nel corso dei secoli, il tracciato non
risulta essere "lineare" in diversi punti
essendosi perso, dunque, l'originario
aspetto.
Lungo il tracciato del Decumano supe-
riore si conservano importanti struttu-
re e mura di epoca greca o romana
imperiale, nonché diversi edifici reli-
giosi e civili di primaria importanza tra
i quali ricordiamo:
Chiesa di Santa Maria della Sapienza;
Complesso degli Incurabili;
Teatro romano di Neapolis;
18
Il rosso pompeiano è un'ocra rossa di
origine inorganica naturale (ematite),
composto da ossido di ferro. Nell'antica
Roma era conosciuto con il nome di
sinopsis, dovuto alla città di Sinope
dove secondo Plinio fu rinvenuto la
prima volta. A Pompei, da cui il nome,
così come in altre città dell'antica Ro-
ma, ci sono vari esempi di pitture mu-
rali in cui è usato questo pigmento i-
norganico. È’ conosciuto anche con i
nomi di rosso Ercolano, terra di Pozzuo-
li, rosso inglese, ematite e terra rossa
di Verona. Inizialmente veniva prepara-
to con degli scarti di lavorazione del
cinabro, da cui l'elevato costo di produ-
zione che ne limitava l'utilizzo ai casi di
estrema necessità.
Dato che il cinabro contiene notevoli
quantità di mercurio, ed è quindi noci-
vo per la salute, il colore è stato gra-
dualmente sostituito dal vermiglione
(più sull'arancione), dall'ocra rossa, dal
rosso di Marte e dal Rosso di Pozzuoli;
questi ultimi due sono miscele di ossidi
e idrossidi di ferro (tra cui l'ematite).
In realtà il rosso pompeiano era un gial-
lo, modificato dai gas dell'eruzione
vesuviana. Gran parte del colore che
caratterizza le pareti delle ville di Er-
colano e di Pompei in origine era un
giallo ocra. Ciò è stato dedotto
grazie ad alcune indagini che hanno
accertato che il colore simbolo dei siti
archeologici campani, in realtà, è frut-
to dell'azione del gas ad alta tempera-
tura la cui fuoriuscita precedette l'eru-
zione del Vesuvio avvenuta nel 79 dopo
Cristo. Pompei è una delle piu’ signifi-
cative testimonianze della civiltà roma-
na e si presenta come un libro aperto
sull’arte, i costumi,sui mestieri,sulla
vita quotidiana del passato.La città è
riemersa così come era al momento in
Rosso pompeiano
67
serbava rancore e vendetta, ed un gior-
no la sua donna, per intenerirlo gli pre-
parò un piatto di maccheroni. La prov-
videnza riempì il piatto di una salsa
piena di sangue. Finalmente, commosso
dal prodigio, l'ostinato signore, si rap-
pacificò con i suoi nemici e vestì il
bianco saio della Compagnia. Sua mo-
glie in seguito all'inaspettata decisione,
preparò di nuovo i maccheroni, che
anche quella volta, come per magia,
divennero rossi. Ma quel misterioso
intingolo aveva uno strano ed invitante
profumo, molto buono ed il Signore
nell'assaggiarla trovò che era veramen-
te buona e saporita. La chiamo' cosi'
"raù" lo stesso nome del suo bambino.
Caratteristiche
Originariamente costituiva il piatto
unico della domenica, in quanto il sugo
veniva utilizzato per condire la pasta, e
la carne consumata come seconda por-
tata. I tipi di carne impiegati nella pre-
parazione del ragù sono numerosi, e
possono variare anche da quartiere a
quartiere, ed inoltre, questa non è
macinata ma è cotta a pezzi grossi, da
500 g fino a un kg, tagliati a mo' di
grossa bistecca, farcita con ingredienti
vari (uvetta, pinoli, formaggio, salame
o lardo, noce moscata, prezzemolo) e
legata con uno spago. Generalmente
viene utilizzato un misto di carne di
manzo (tagli anteriori e poco pregiati,
che necessitano di lunga cottura) e di
maiale. Troviamo il muscolo di manzo
(gamboncello o piccione), le spuntatu-
re di maiale (tracchie), l'involtino di
cotenna (cotica), la polpetta e la bra-
ciola, termine che viene usato però per
indicare un involtino di carne di manzo
ripieno con aglio, prezzemolo, pinoli,
uva passa e dadini di formaggio.
Tradizionalmente, la preparazione del
ragù inizia di buon mattino, in quanto
la salsa deve addensarsi molto, cuo-
cendo a fuoco lento, fino a diventare
di una consistenza molto cremosa,
prima di poter condire degnamente
una buona pastasciutta. In molte va-
rianti del ragù napoletano viene impie-
gato anche un cucchiaio di concentrato
di pomodoro.
Itinerario proposto
E’ il centro storico di Napoli ad essere
la cornice perfetta per una non solo
degustazione del ragù, ma anche di
una esperienza sensoriale e culturale
di inestimabile valore.
IL CENTRO STORICO
Aristotele, uno dei più grandi filosofi
Greci disse "l'armonia è nel contrasto"
e Napoli ben rappresenta questo con-
cetto attraverso i suoi Decumani, supe-
riore, maggiore ed inferiore, che por-
tano dalla Napoli Greco-Romana a
66
dialetto napoletano di questi termini
derivati dal francese, avviene proprio
nel periodo a cavallo fra il diciottesimo
ed il diciannovesimo secolo quando,
sotto il regno di Ferdinando IV di Bor-
bone vi fu una grande influenza della
cultura e delle mode francesi nella
corte Borbonica.
Ferdinando IV di Borbone era diventato
contemporaneamente re di Napoli, col
titolo di Ferdinando IV, e re di Sicilia,
con il nome di Ferdinando III, alla gio-
vane età di otto anni, a seguito della
nomina del padre Carlo come re di Spa-
gna. Aveva poi sposato Maria Carolina
di Asburgo Lorena figlia di Maria Teresa
d'Asburgo Imperatrice d'Austria. Ferdi-
nando fu spodestato dal regno di Napoli
nel 1805 da Napoleone che lo sostituì
prima con il fratello Giuseppe e poi con
il cognato Gioacchino Murat. Ferdinan-
do fu poi restaurato dal Congresso di
Vienna nel 1816, ma per motivi di ca-
rattere politico, i due regni di Napoli e
di Sicila furono riunificati nel Regno
delle due Sicilie e pertanto Ferdinando
assunse il titolo di Ferdinando I Re del-
le Due Sicile.
A proposito di queste vicende storiche
riporto un gustoso epigramma contro il
Re scritto da un anonimo siciliano che
mal sopportava questa riunificazione
che sanciva una subalternità della Sici-
lia rispetto a Napoli.
Fosti quarto ed insieme terzo,
Ferdinando, or sei primiero:
e, se seguita lo scherzo,
finirai per esser zero.
Durante il periodo fascista, il regime
tentò di "italianizzare" il termine, visto
come non puramente italiano e quindi
non consono al vocabolario fascista,
trasformandolo in ragutto.
La leggenda del ragù
A Napoli alla fine del 1300 esisteva la
Compagnia dei Bianchi di giustizia che
percorreva la città a piedi invocando
"misericordia e pace". La compagnia
giunse presso il "Palazzo dell'Imperato-
re" tuttora esistente in via Tribunali,
che fu dimora di Carlo, imperatore di
Costantinopoli e di Maria di Valois figlia
di re Carlo d'Angiò. All'epoca il palazzo
era abitato da un signore nemico di
tutti, tanto scortese quanto crudele, e
che tutti cercavano di evitare. La pre-
dicazione della compagnia convinse la
popolazione a rappacificarsi con i pro-
pri nemici, ma solo il nobile che risie-
deva nel "Palazzo dell'Imperatore" deci-
se di non accettare l'invito dei bianchi
nutrendo da sempre antichi e tenaci
rancori. Non cedette neanche quando il
figliolo di tre mesi, in braccio alla balia
sfilò le manine dalle fasce ed incro-
ciandole gridò tre volte: "Misericordia e
pace". Il nobile era accecato dall'ira,
19
cui venne sommersa dall’eruzione vul-
canica del 79 d.c. Lo spesso strato di
cenere e lapilli che hanno ricoperto la
città ha permesso che arrivasse integra
fino alla scoperta nel 700,in ogni suo
minimo dettaglio.Notevole scoperta si
ha anche per quanto riguarda la pittura
romana che senza i ritrovamente di
Pompei sarebbe del tutto sconosciuta.
Il fascino dei siti archeologici vesuviani
è stato tale, nel corso dei secoli, che
nel gusto europeo si è posta
l’attenzione non solo dal punto di vista
cromatico ma verso tutta l’estetica che
pervase soprattutto a inizio 800 e si
impose in Europa sia nel gusto
dell’arredamento delle case borghesi
sia nel modo di vestirsi e acconciarsi
delle donne europee. Questo stile è
definito neoclassico. I lavori di scavo
dei siti vesuviani furono promossi da Re
Carlo III di Borbone, il quale realizzò un
Museo che custodisse tutti i reperti
rinvenuti, ma fu durante il regno di
Gioacchino Murat e sua moglie Caroli-
na Bonaparte che lo stile neoclassico
ebbe la sua diffusione a Napoli.Il colore
è stato enormemente utilizzato a Napo-
li, e non solo, per la costruzione di
molti edifici importanti,dai quali pos-
siamo creare un itinerario che porterà
il turista ad addentrarsi tra le zone più
belle della città. Partiamo da uno degli
edifici più importanti e significativi
della nostra Napoli,Palazzo Reale che
si eregge maestoso nella famosa piazza
Plebiscito,ricco di storia e testimo-
nianza del susseguirsi delle varie domi-
nazioni napoletane, il palazzo ospita
anche delle sale interne che con il loro
colore rosso pompeiano ricordano e
richiamano le sale delle ville di Ercola-
no e Pompei. Nel corso della sua storia,
il palazzo divenne la residenza dei vari
sovrani spagnoli, austriaci e, in seguito,
dei re di casa Borbone. Dopo l'Unità
d'Italia fu nominata residenza napoleta-
na dei sovrani di casa Savoia. Il palazzo
fu costruito nel Seicento da Domenico
Fontana. Esso avrebbe dovuto ospitare
il re Filippo III di Spagna, atteso a Na-
poli con la sua consorte per una visita
ufficiale che non avvenne mai. Il palaz-
zo doveva essere degno di altre resi-
denze europee, dato il suo compito di
essere stato costruito nella seconda
città dell'Impero spagnolo dopo la capi-
tale amministrativa a Madrid. Esso fu
costruito nello stesso posto in cui esi-
steva un'altra residenza vicereale, vo-
luta cinquant'anni prima dal viceré don
Pedro de Toledo. La scelta di costruire
la nuova reggia nella stessa zona in cui
sorgeva la "vecchia" testimonia dunque
l'importanza che aveva quella zona
della città, che assicurava una certa
vicinanza al porto e quindi una certa
facilità di fuga in caso di invasioni ne-
miche.
20
I lavori Di costruzione del palazzo an-
darono a rilento fino al 1610, , pochi
anni dopo erano completate la facciata
principale, su "largo di Palazzo", ed il
cortile. Intorno al 1620 furono comple-
tati anche alcuni ambienti interni del
palazzo, affrescati da Battistello Carac-
ciolo, Giovanni Balducci e Belisario
Corenzio, nonché la cappella reale
dell'Assunta, nella quale lavorò venti-
quattro anni dopo Antonio Picchiatti
eseguendo alcuni elementi decorativi.
Nel 1734, con il dominio di Carlo di
Borbone, il palazzo divenne dimora
reale borbonica. Il nuovo re di Napoli,
in occasione delle nozze con Maria A-
malia di Sassonia avvenute nel 1738,
fece rinnovare alcuni ambienti interni
chiamando artisti come Francesco De
Mura e Domenico Antonio Vaccaro. In
contemporanea a questi lavori, Carlo si
impegnò anche per l'edificazione di
altre tre importanti regge: quella di
Capodimonte, di Portici e quella di
Caserta. Le opere di ammodernamento
iniziate in quegli anni furono poi ripre-
se più intensamente dal figlio Ferdinan-
do IV di Borbone, che, in occasione
delle nozze con Maria Carolina d'Au-
stria, trasformò la gran sala del periodo
vicereale in teatrino di corte. A com-
piere tali lavori fu ancora una volta
Ferdinando Fuga. Infine, durante la
prima metà del Settecento, fu realizza-
ta e conclusa la parte che da sul mare.
Alla fine del Settecento fu costruita
l'ala del palazzo che dà verso il Maschio
Angioino, divenuta poi nel 1927 la Bi-
blioteca nazionale Vittorio Emanuele
III.
Durante l’inizio dell’ 800 fu arricchito
da Gioacchino Murat e Carolina Bona-
parte con decorazioni e arredamenti
neoclassici; fu danneggiato da un in-
cendio nel 1837 e successivamente
restaurato per mano di Gaetano Geno-
vese che ampliò e regolarizzò, senza
stravolgerla, l'antica fabbrica. In quel
periodo furono aggiunte alla struttura
l'"Ala delle feste" e una nuova facciata
prospiciente il mare, caratterizzata da
un basamento di bugnato e da una tor-
retta-belvedere. Con Genovese, il pa-
lazzo si poté dire definitivamente com-
pletato.
65
http://www.taccuinistorici.it/
Il ragù napoletano è una salsa che ha
una lunga storia e che ha subito note-
voli evoluzioni nel corso del tempo.
L'antenato del ragù napoletano è un
piatto molto antico e di tradizione po-
polare. Esso deriva da un piatto della
cucina popolare medioevale provenzale
che aveva nome "Daube de boeuf" e
che era uno stufato di carne di bue,
parti molto coriacee, mescolate a ver-
dure e cotto lungamente in un reci-
piente di creta. Questo piatto pare
risalga al tredicesimo/quattordicesimo
secolo.
Il "ragout", invece, che è un piatto
francese posteriore, è sempre uno stu-
fato con verdure, ma, generalmente, di
carne di montone.
Il termine francese ragout deriva
dall'aggettivo "ragoutant" che significa
allettante, appetitoso o stuzzicante.
Questo tipo di preparazione francese
inizia a comparire nella cucina napole-
tana dal diciottesimo secolo, però co-
me piatto di mense ricche realizzato
con carni di manzo o di vitello qualità e
ancora senza pomodoro. Di esso parla
già Vincenzo Corrado nel suo libro "Il
cuoco galante" che risale alla prima
metà del settecento. Dello stufato par-
la anche Ippolito Cavalcanti nelle pri-
me edizioni della sua "Cucina teorica
pratica" che risalgono alla prima metà
dell'ottocento e cita anche per la prima
volta dei maccheroni conditi con sugo
di stufato e formaggio grattuggiato.
Nelle edizioni sucessive qualche volta il
Cavalcanti parla del sugo di stufato con
il nome di "brodo rosso", senza però
citare esplicitamente il pomodoro fra
gli ingredienti di cottura dello stufato.
In una delle ultime edizioni infine cita
per la prima volta la parola "ragù" rife-
rendosi ai maccheroni nel seguente
contesto:
"...li frammezzerai in zuppiera con
once 12 di parmigiano grattuggiato e
sugo di carne ovvero brodo di ragù". Ma
anche in questo caso non specifica se
vi entri o meno il pomodoro.
Dell'uso del pomodoro nel ragù, invece,
parla, forse per la prima volta, Carlo
Dal Bono che nella sua opera "Usi co-
stmi di Napoli" risalente al 1857, cosi
descrive la distribuzione dei macchero-
ni da parte dei tavernai.
"Talvolta poi dopo il formaggio si tingo-
no di color purpureo o paonazzo, quan-
do cioè il tavernaio del sugo di pomo-
doro o del ragù (specie di stufato) co-
pre, quasi rugiada di fiori, la polvere
del formaggio".
La parola ragù, ovviamente, è una de-
formazione del termine francese
"ragout" che rispecchia la sua effettiva
pronuncia. Questa è un deformazione
tipica del dialetto napoletano che ri-
troviamo anche nei termini: sartù,
gattò, crocchè, purè. L'acquisizione nel
64
re puntuale e,invece…
Intanto il mio pensiero corre,grazie
all’intenso odore di ragù che permane
nelle narici nonostante abbia messo
una certa distanza da me e la casa da
cui l’odore fuoriusciva consistente e
tenace,alle tante domeniche della mia
infanzia in cui si andava a pranzo dalla
nonna. Non importava quale delle du-
e,era la nonna, quella persona calda ed
accogliente che sapeva con un sorriso e
un abbraccio arrivare al mio cuore.
Il pranzo domenicale,nella mia fami-
glia, ha sempre occupato un ruolo ceri-
moniale ben preciso e il bello era che
sia che si trattasse della nonna paterna
che di quella materna , noi non poteva-
mo esimerci dall’esserci, a turno, una
domenica dall’una e una dall’altra.
Il ragù ,sebbene talvolta sostituito da
altre prelibatezze, restava il must della
tavola domenicale e per noi tutti era
sempre una festa. Personalmente tro-
vavo quel rituale confortante e rassicu-
rante, mi faceva sentire amata e pro-
tetta . Anche mia madre cucina bene e
sa fare tante cose diverse da quelle che
cucinavano le mie nonne.
Ma, come diceva mio padre e ,a dire il
vero sosteneva anche lei stessa, non
c’era paragone,proprio come nella ce-
leberrima poesia di Eduardo 'O 'rraù
'O rraù ca me piace a me
m' 'o ffaceva sulo mammà.
A che m'aggio spusato a te,
ne parlammo pè ne parlà.
Io nun songo difficultuso;
ma luvàmmel' 'a miezo st'uso
Sì,va buono: cumme vuò tu.
Mò ce avéssem' appiccecà?
Tu che dice? Chest' 'è rraù?
E io m' 'o mmagno pè m' 'o mangià...
M' ' a faja dicere na parola?...
Chesta è carne c' ' a pummarola
Sono arrivata in piazza, finalmente! E
Martina? Non la vedo…va bene,ho fatto
un po’ tardi ma ,dov’è?
Mi guardo in giro e la individuo che sta
chiedendo informazioni ad un vigile:
cosa vorrà mai? Siamo entrambi a pie-
di…eccola che si dirige verso me
-Ciao,cosa chiedevi?
-Mi hanno detto di un posto qui a Napo-
li dove servono il ragù e puoi pagarlo a
minuti,ne sai qualcosa?
-Certo,ne ho già fatto una scorpaccia-
ta…ora ti porto io. Assaggerai qualcosa
di divino,credimi.
Adesso è davvero domenica!-penso
mentre seguo, “ a naso” il percorso per
raggiungere questo luogo del gusto e
del ricordo.
Il ragù tra storia e leggenda
abstract dal testo a cura del QUESTO-
RE AIGS Messina Lorenzo Fabrizio Guar-
nera
21
A fine 800, per volere di Umberto I, le
nicchie esterne furono occupate da
gigantesche statue dei re di Napoli:
Ruggero il Normanno, Federico II di
Svevia, Carlo I d'Angiò, Alfonso I d'Ara-
gona, Carlo V d'Asburgo, Carlo III di
Borbone, Gioacchino Murat e Vittorio
Emanuele II di Savoia.
Le statue sono esposte in ordine cro-
nologico rispetto alla dinastia di appar-
tenenza che ha regnato in città e que-
ste iniziano con il primo re di Sicilia,
Ruggero il Normanno, il primo re a re-
gnare sulla città, e finiscono con Vitto-
rio Emanuele II, la più grande in altez-
za e la più discussa scultura presente
nella facciata della residenza reale,
aggiunta per ultima sotto la volontà
dello stesso re che però non fu mai
sovrano di Napoli, bensì d'Italia. Da
notare inoltre la presunta volontà dei
Savoia di occultare la dinastia dei Bor-
bone, una delle più influenti della città
partenopea, dalla storia della città.
Infatti, nessuna delle statue volute
sulla facciata del palazzo, rappresenta
un re borbonico e, l'unica che apparen-
temente sembrerebbe appartenere a
tale dinastia, Carlo di Borbone, viene
in realtà incisa col nome di Carlo III,
lasciando quindi alludere alla dinastia
spagnola e non napoletana, nella quale
invece assumeva il titolo di Carlo VII di
Borbone. I bombardamenti subiti du-
rante la Seconda guerra mondiale e le
successive occupazioni militari causa-
rono al palazzo gravissimi danni che
resero necessario un restauro condotto
dalla Soprintendenza ai Monumenti.
Entrati nel Palazzo si accede al Cortile
d'Onore che conserva l'impronta archi-
tettonica di Domenico Fontana. Di
fronte allo stesso cortile, vi è una fon-
tana ottocentesca con la statua della
Fortuna.
Da sinistra del lato orientale del cortile
d'Onore, si giunge al cortile delle car-
rozze, adibito proprio al passaggio del-
le stesse. Un altro cortile è situato
all'ingresso laterale del palazzo posto
di fronte alla Galleria Umberto I. Il
suddetto spazio ospita la scultura l'Ita-
lia turrita e stellata di Francesco Liber-
ti ed il giardinetto circostante è il giar-
dino d'Italia, realizzato da Gaetano
22
Genovese .Altri giardini, i giardini pen-
sili, sono posti al primo piano dell'edifi-
cio e offrono una splendida vista sul
porto di Napoli e sul Vesuvio. L'area dei
Giardini è stata adibita al verde già dal
XIII secolo al tempo della dinastia an-
gioina. Nel periodo dei viceré è stata
invece sistemata a parco e arricchita
con statue, viali e "giardini segreti".
Nella metà del XIX secolo l'architetto
Gaetano Genovese condusse i lavori di
ampliamento e restauro del palazzo, e
affidò i giardini alle cure del botanico
Federico Corrado Denhart, il quale in-
serì numerose magnolie, lecci e piante
rare. Fu così che il Giardino acquistò un
nuovo aspetto "all'inglese" e divenne
meta ambita dei visitatori.
In fondo ai Giardini vi sono le Scuderie
Ottocentesche, fiancheggiate dal ma-
neggio e adibite attualmente ad uso
espositivo. Si accede all'appartamento
storico per il monumentale e luminoso
Scalone d'onore che fu progettato da
Francesco Antonio Picchiatti e successi-
vamente sistemato e decorato da Gae-
tano. Lo Scalone è decorato da marmi
bianchi e rosati, da trofei militari e
bassorilievi allegorici. Notevole la ricca
balaustra di marmo traforato.
All'interno delle sale del palazzo sono
presenti dipinti di importanti artisti
che hanno operato nella Napoli borbo-
nica. Si distinguono le opere eseguite
dal Guercino, da Andrea Vaccaro, da
Mattia Preti, dallo Spagnoletto, dal
Tiziano da Massimo Stanzione, da Fran-
cesco De Mura, da Battistello Caraccio-
lo e da Luca Giordano. Infine, sono
presenti tele paesaggistiche di Filippo e
Nicola Palizzi e di Consalvo Carelli.
Le stanze e gli arredi usati più quoti-
dianamente non sono sopravvissuti alla
devastazione del palazzo causata du-
rante l'ultima guerra. Essa ha danneg-
giato anche i parati borbonici, rifatti
nella metà del XX secolo sugli stessi
telai antichi delle Seterie Borboniche
della Fabbrica di San Leucio presso
Caserta. Le testimonianze più impor-
tanti della decorazione seicentesca
d'origine sono gli affreschi di soggetto
storico di gusto tardo-manierista che
abbelliscono le sale più antiche con
cicli di pitture destinate ad esaltare
gloria e fortuna degli spagnoli vincitori.
63
vicolo sta cucinando il ragù.
Che delizia! L’olfatto si rallegra ed io
adesso sono certa che è domenica!
Che il sapore e l’odore di una pietanza
o di un alimento possa portare alla
mente immagini latenti del tempo per-
duto non è una scoperta. Anzi.
E ‘ un’asserzione comune anche grazie
a Marcel Proust che narra in modo mi-
nuzioso l’effetto dell’odore di una ma-
deleine inzuppata nel tiglio.
Una sera d’inverno, appena rincasato,
mia madre accorgendosi che avevo
freddo, mi propose di prendere, contro
la mia abitudine, un po’ di tè.[…] por-
tai macchinalmente alle labbra un cuc-
chiaino del tè nel quale avevo lasciato
inzuppare un pezzetto della maddale-
na. Ma appena la sorsata mescolata
alle briciole del pasticcino toccò il mio
palato, trasalii, attento al fenomeno
straordinario che si svolgeva in me. Un
delizioso piacere m’aveva invaso, isola-
to, senza nozione di causa. [...]
All’improvviso il ricordo è davanti a
me. Il gusto era quello del pezzetto di
maddalena che a Combray, la domeni-
ca mattina, quando andavo a darle il
buongiorno in camera sua, zia Leonia
mi offriva dopo averlo inzuppato nel
suo infuso di tè o di tiglio…."
M. Proust, Dalla parte di Swann
Come una scintilla,quindi, un certo
profumo casualmente risentito a di-
stanza di tempo può immediatamente
ridestare in noi un’ondata di ricordi
sopiti, lasciando riaffiorare, con dovizia
di particolari, esperienze della nostra
esistenza passata che ci sembravano
definitivamente rimosse.
L’odore è infatti il più grande alleato
dei ricordi: ci permette di viaggiare nel
tempo e perciò fa sì che l’olfatto venga
eletto a senso privilegiato dalla memo-
ria. Un odore o un profumo già sentiti
hanno l’impareggiabile potere di rima-
terializzare anche i nostri ricordi inti-
mi, di renderci presenti eventi lontani,
riportandoci improvvisamente a una
scena dell’infanzia, a un paesaggio o a
un episodio della nostra vita passata –
rievocato con ricchezza di particolari
attraverso una semplice zaffata – e
innescando, a seconda dei casi, la no-
stra nostalgia, la nostra malinconia, la
nostra gioia o la nostra tristezza. Nes-
sun altro dato sensoriale è altrettanto
memorabile di un odore, altrettanto
resistente al logorio del tempo, altret-
tanto evocatore del passato e altret-
tanto capace di sollecitare tutti gli altri
sensi.
Continuo a camminare a passo svelto
mentre qualche commerciante mi os-
serva dall’uscio del suo negozio ancora
vuoto e si chiede dove vada così di cor-
sa in un pigro giorno di festa. Martina
mi aspetta ,le avevo promesso di esse-
62
E’ domenica mattina, si è svegliato già
il mercato….così cantava Claudio Ba-
glioni in una sua nota canzone; ma il
suo mercato era quello di Roma ed
io,invece,vivo a Napoli!
A dirla tutta Baglioni non è proprio il
mio cantautore preferito ma è quello
amato da mia madre in epoca adole-
scenziale e ,quindi, anche io di tanto in
tanto ho ascoltato qualche strofa can-
ticchiata in modo distratto da lei inten-
ta a fare altro.
Sono uscita presto per raggiungere Mar-
tina con la quale ho appuntamento in
piazza.
Attraverso a piedi,come sempre, strade
e vicoli intrecciati in un silenzio, quasi
irreale per questa città ,il silenzio delle
prime ore del mattino di un giorno di
festa.
La domenica,si sa, ci si alza con como-
do ,non si lavora o,almeno,la maggio-
ranza delle persone non lavora. Imboc-
co l’ennesimo vicolo che in modo reti-
colare disegna, come un ricamo,
l’identità urbanistica di buona parte
della mia città. Tra sguardi distratti e
paesaggi confusi dalla fretta degli occhi
mobili ,mi torna alla mente un verso
del poeta Quasimodo sul Vicolo:
Vicolo: una croce di case
Che si chiamano piano,
e non sanno ch’ è paura
di restare sole nel buio.
Le case dei vicoli, infatti,come dice il
poeta,disposte a forma di croce, sem-
bra che si parlino di notte e di giorno
per vincere la paura di restare sole. Il
buio qui non c’è solo la notte e,qualche
volta è un buio che racconta di una
solitudine interiore.
Con questa stessa vena malinconica
accelero il passo,sono in ritardo,come
al solito!
La piazza è ancora distante quando,ad
un tratto, mi assale un odore inten-
so ,inconfondibile:qualcuno in questo
Il ragù
23
Da Palazzo Reale possiamo proseguire il
nostro percorso per arrivare a Villa
Pignatelli, passando per il bellissimo
lungomare dal quale si scorge la carat-
teristica veduta partenopea simbolo
della nostra città nel mondo. Poetica
ed ammaliante la visuale proposta por-
ta chi la guarda a perdersi, immaginan-
do la storia e la nascita di questo mera-
viglioso capoluogo partenopeo.
Arriviamo cosi a :
Villa Pignatelli
La residenza, pensata come una domus
pompeiana venne realizzata da Pietro
Valente nel 1826, a cui successe nel
1830 Guglielmo Bechi,per volere di Sir
Ferdinando Acton.
I lavori del Valente non furono sempli-
ci, dovendo di volta in volta adeguarsi
alle precise richieste del proprietario
inglese. Non a caso diverse furono le
controversie tra le due parti circa i
lavori di costruzione e proprio per que-
sto la decorazione interna e il giardino
esterno furono affidati al toscano Gu-
glielmo Bechi.
Qualche anno dopo la morte di sir Ac-
ton,la villa venne acquistata dalla fa-
miglia di banchieri tedeschi Carlo von
Rothschild, che la abitarono fino al
1860. Il nobile di Francoforte, incaricò
i successivi lavori di abbellimento pri-
ma ad un architetto parigino e poi,
insoddisfatto del lavoro, a Gaetano
Genovese. In questo periodo, all'estre-
mità settentrionale del parco, fu co-
struita una palazzina di tre piani nota
come palazzina Rotschild.
Nel 1867, la famiglia tedesca fu allon-
tanata dalla città a seguito dell'unità
nazionale. Così la villa fu ceduta a
principi Pignatelli Cortes d'Aragona,
che ne furono proprietari fino a quando
la principessa Rosina Pignatelli decise
di donarla allo Stato Italiano perché
fosse trasformata in un museo destina-
to a onorare il nome del marito, il
principe Diego Aragona Pìgnatelli Cor-
tes, duca di Monteleone.Insieme alla
villa, la famiglia Pignatelli, che era
molto raffinata, donò tutto quello che
era contenuto al suo interno: argenti,
bronzi, porcellane, smalti, cristalli,
un'importante biblioteca, circa quat-
24
tromila microsolchi di musica classica e
lirica. Tutti questi reperti, sono oggi
esposti negli ambienti del museo.Nel
1960 la villa venne aperta al pubblico
col nome di "Museo Diego Aragona Cor-
tes" e nel 1998 fu allestita la pinacote-
ca a cura del Banco di Napoli.
La villa dispone di due piani: quello
terra, che conserva l'aspetto di dimora
principesca, ed il primo, nel quale vie-
ne esposta la raccolta di dipinti del
Banco di Napoli. Le varie sale
all’interno della villa possiedono deco-
razioni a stucco, i dipinti e gli arredi
originali eseguiti tra il 1870 ed il 1880
dal pittore romano Vincenzo Paliotti.
Ad oggi la struttura è utilizzata per
ospitare eventi di vario genere.
Altro edificio significativo al quale
possiamo collegarci per proseguire il
nostro itinerario cromatico è il :
Museo Archeologico di Napoli
Il Museo archeologico di Napoli vanta il
più ricco e pregevole patrimonio di
opere d'arte e manufatti di interesse
archeologico in Italia, è considerato
uno dei più importanti musei archeolo-
gici al mondo se non il più importante
per quanto riguarda la storia dell'epoca
romana. La costruzione dell'edificio fu
iniziata nel 1586 come caserma di ca-
valleria; questa era situata subito al di
fuori della cinta muraria di Napoli .La
Cavallerizza era molto più piccola
dell'attuale palazzo museale ed il suo
ingresso principale si apriva sul lato
occidentale, sull'attuale via Santa Tere-
sa degli Scalzi, dove tuttora è visibile,
seppure murato, caratterizzato da due
tozze colonne in basalto a rocchi di-
stanziati sovrapposti. Il palazzo rappre-
senta una certa rilevanza architettoni-
ca essendo infatti uno dei più imponen-
ti palazzi monumentali di Napoli.Il mu-
seo è formato da tre sezioni principali:
la collezione Farnese (costituita da
reperti provenienti da Roma e dintor-
ni), le collezioni pompeiane (con reper-
ti provenienti dall'area vesuviana, fa-
centi parte soprattutto delle collezioni
borboniche) e la collezione egizia . Sia
questi tre settori che altri del museo
sono costituiti da collezioni private
acquisite o donate alla città nel corso
della storia.Gli importanti lavori di
restauro e di ristrutturazione dell'edifi-
cio avviati nel 2012 consentiranno la
realizzazione di una riorganizzazione
globale delle collezioni secondo criteri
espositivi nuovi, permettendo inoltre
che alcune raccolte rimaste escluse
dalla visita per decenni, possano trova-
re definitiva sistemazione dentro l'edi-
ficio. I reperti mai esposti al pubblico
riguardano la sezione Magna Grecia,
quella Cumana (costituita da vasi gre-
ci), l'epigrafica ed una ricca parte della
statuaria pompeiana. Si stima che i
pezzi in deposito siano in quantità tre
61
prevede che le viti siano sostenute da
un palo detto in latino Phalanx ( da cui
deriverebbe il nome falangina); i tipi
rossi si ottengono dai migliori vitigni
campani, come il Per ‘e palummo e
l’Aglianico.
La creazione di questi itinerari ha visto
già un possibile percorso che congiunge
le aziende associate che dovrebbero
redigere una serie di mini tour capaci
di attrarre l’interesse anche del turista
di passaggio.
60
scontra ancora oggi nel vino resinato
greco. Dopo sei mesi, il vino era filtra-
to e travasato in otri o anfore di terra-
cotta appuntite che permettevano la
decantazione del deposito eventuale,
p r i m a d e l l o s m e r c i o .
Oggi le varietà coltivate sono cambia-
te, ma i vini godono ancora di un vasto
e meritato prestigio. cantine per la
vinificazione. Alcuni di questi locali
sono sopravvissuti anche nell’uso: vi si
applicano ancora i metodi tradizionali
della vinificazione, tramandati da ge-
nerazioni e mai dispersi, anche se rin-
novati nella tecnologia. Nel tufo si sca-
vavano anche le palmente, le antiche
vasche per la pigiatura. Una grande e
pesante pietra di tufo verde è stata
utilizzata per secoli dai contadini come
peso nella spremitura delle uve: è la
“pietra torcia”.
Nel territorio flegreo la denominazione
di origine controllata “ Campi Flegrei”
e la zona di produzione di queste uve,
comprende l’intero territorio dei comu-
ni di Procida, Pozzuoli, Bacoli, Monte di
Procida e Quarto; un’ area tra le più
ricche per storia e bellezze naturalisti-
che.
Plinio il Vecchio gli concede una men-
zione d'onore nella Naturalis Historia
ed è stato servito anche alla corte ara-
gonese. La Falanghina e il Piedirosso,
localmente denominato Per 'e Palum-
mo, hanno avuto in quest'area la prima
diffusione e le prime affermazioni. Il
disciplinare ammette le tipologie Bian-
co, Rosso, Pér e' Palummo, Pér e' Pa-
lummo Passito, Falanghina, eccellente
in abbinamento con la ricciòla all'acqua
pazza, e Falanghina Spumante.
Tale rinomanza perdurò anche nel Me-
dioevo, infatti il vino de Putheolo era
tra quelli prescelti dalla regia mensa al
tempo di Carlo II d’ Aangiò come si
desume dal suo liber espensarum.
Nasce così, nei secoli, una straordinaria
costellazione di varietà di uve che tro-
vano favorevoli le fortunate condizioni
pedolimatiche di un suolo in gran parte
d i o r i g i n e v u l c a n i c a .
Dopo tanti secoli oggi le ricchezze di
questo territorio sono promosse dalla
rete di itinerari delle Strade del Vino
Campi Flegrei.
I luoghi del vino attraversano un pano-
rama unico che include sette comuni
situati al confine tra i quartieri napole-
tani di Fuorigrotta,Soccavo, Pianura e
Agnano.
Parliamo di vini dunque dalla grande
storia e tradizione, derivanti da uno dei
più apprezzati prodotti enologici
dell’antichità, Il Falerno Gaurano loda-
to anche da Plinio il Vecchio.
E mentre per i bianchi la Falanghina
risulta essere ad oggi il vino più diffuso
e viene allevato ancora con l’antica
tecnica del sistema alla puteolana che
25
volte superiore rispetto a quelli esposti
e che gli stessi occupino allo stato attu-
ale tre livelli dei sotterranei del palaz-
zo ed un piano del sottotetto.
Dal 2005 nella sottostante stazione
"Museo" della linea metropolitana è
stata aperta la stazione Neapolis, in cui
piccoli ambienti che si succedono tra
loro espongono i reperti archeologici
rinvenuti durante gli scavi della metro
ed entrati a far parte del patrimonio
museale. Nel 1612 il viceré don Pedro
Fernández de Castro, conte di Le-
mos .decise di trasferire nell'edificio
incompiuto l'università di Napoli
("palazzo dei Regi Studi"), precedente-
mente situato nel convento di San
Domenico Maggiore.La ristrutturazione
dell’edificio fu affiadata a Giulio Cesa-
re Fontana, nel 1615 l’edificio incom-
pleto fu inagurato.Lo stesso anno i la-
vori vennero interrotti per la partenza
del Fontana da Napoli.Nel corso degli
anni molti furono gli architetti incarica-
ti di apportare modifiche alla pianta e
alla facciata del museo.Ma fu nella
prima metà dell’800 che tornando il re
Ferdinando IV sul trono di Napoli (ora
come "Ferdinando I Re delle Due Sici-
lie"), il 22 febbraio 1816 egli decretava
ufficialmente l'istituzione del "real mu-
seo Borbonico". E nel 1852 con il suc-
cessivo abbattimento delle mura cin-
quecentesche della città e della porta
di Costantinopoli, il museo entrava a
pieno titolo a far parte del tessuto ur-
bano della città. Dopo l'unità d'Italia,il
museo diventava proprietà dello Stato
ed assumeva il nome di "museo nazio-
nale”.
Alla fine di questo itinerario cromatico
arriviamo,nel cuore del centro storico,
Spaccanapoli, dove troviamo Palazzo
Venezia edificio importante sul piano
storico-politico in quanto testimonian-
za privilegiata ed esclusiva dei passati
rapporti intercorsi tra il Regno Napoli e
la Repubblica di Venezia in periodo
rinascimentale.
Palazzo Venezia
Il Palazzo si trova nel cuore del centro
antico,esso visse il momento di mag-
giore splendore tra il XV secolo e il XVI
secolo, fino a quando a metà del cin-
quecento cadde in completa rovina e
fu restaurato da Geronimo Zo-
no.Successivamente molte furono le
restaurazioni tanto che nel XIX secolo
fu eretta una casina pompeiana. La
struttura non presenta elementi di
grande rilevanza architettonica, se non
il giardino pensile, la scala interna,
tipica dell’architettura nobiliare sei-
centesca, ma costituisce comunque
un’importantissima testimonianza sto-
rica dei rapporti che, nei secoli passa-
ti, esistevano tra Napoli e Venezia.
26
Si conclude così il breve viaggio attra-
verso un itinerario legato ad un colore
simbolo della città Partenopea,che
po r t a l ’ a t t enz i one non so l o
sull’estetica ma ci coinvolge e ci porta
ad esplorare la storia e l’unicità di una
tonalità che può essere considerata
“viva” ed intrinseca di avvenimenti.
59
del mancato invito alla festa, incise sul
pomo la frase "Alla più bella", causando
così una lite furibonda fra Era, regina
degli dei, Afrodite, dea della bellezza,
e Atena, figlia di Zeus.
Tornando all’ aspetto enogastronomi-
co,il pomodoro cannellino è coltivato
da generazioni nei Campi Flegrei, dove
grazie ai terreni di origine vulcanica la
qualità del pomodoro raggiunge punte
di eccellenza.
Il rosso rievoca anche la colorazione
del vino.
“Qui è il Vesuvio finora ombroso di
verdi vigneti. Ora tutto giace sommerso
nel fuoco e nel tristo lapillo”.
Così Marziale, con sintesi fulminea,
fotografa la distruzione operata dal
vulcano con l’eruzione del 79 d.C., e
contemporaneamente richiama l’antica
vocazione della zona alla coltivazione
d e l l a v i t e .
Testimonianze storiche e letterarie lo
confermano, e le ville di Pompei e de-
gli altri centri distrutti dal Vesuvio ne
hanno conservato prove nella campa-
gna, nelle case e nelle cantine. Dalle
ceneri dell’antica Oplontis, nei pressi
di Torre Annunziata, sono emersi i resti
di un’azienda agricola produttrice di
vino accanto a quelli di una ricca villa
appartenuta a Poppea Sabina, moglie
di Nerone.
Gran parte della ricchezza dell’antica
Pompei derivava, infatti, dalla produ-
zione e dal commercio del vino. E un
vino pompeiano è stato prodotto recen-
temente da cinque vigne piantate negli
scavi della città, uno dei quali in corri-
spondenza dell’antico vigneto presso la
Casa dell’oste Eusino.
A Pozzuoli, invece, è il grande anfitea-
tro a conservare ancora le strutture
interne che svelano la struttura
dell’antico mercato. Unico e per molto
tempo misterioso, il Serapeo è stato
f inalmente r iconosc iuto come
”Macellum”, l’ampio mercato di Puteo-
lis, a ridosso del porto, con le botte-
ghe, le nicchie e le colonne, che i fre-
quenti bradisismi hanno istoriato dei
resti di molluschi marini.
La vite qui approda in tempi remoti
dall’Eubea e trova eccellente dimora,
conoscendo con il tempo quella impor-
tante diffusione che sappiamo.
Ed è proprio lì che maturavano le uve
per i numerosi vini dei Campi Flegrei.
I pithoi, alti tre metri e mezzo e con
un’imboccatura di un metro, erano i
vasi da trasporto per eccellenza, sia
per l’olio d’oliva, sia per la frutta.
Nella Grecia antica, però erano usati
anche per la fermentazione del mosto:
per ridurre la traspirazione, venivano
interrati e cosparsi all’esterno di resina
o di pece. Questa tecnica conferiva al
vino un aroma particolare, che si ri-
58
se non vi sono indizi cronologici più
precisi su questo palmento, con buona
approssimazione l'edificio si può collo-
care nel XVII-XVIII secolo, epoca in cui
il Monte Nuovo era parzialmente colti-
vato a vigneto, come testimoniano an-
cora i resti di opere di terrazzamento
riconoscibili lungo le pendici del vulca-
no, soprattutto quelle interne della
cima più alta.
Sulla cima più alta del cratere, infine,
fra la vegetazione si riconoscono i resti
in muratura di una costruzione circola-
re, seminterrata, costruita con bloc-
chetti di tufo quadrati. Data la sua
posizione strategica, e data la tecnica
muraria non dissimile da altre esistenti
in cima al Capo Miseno, con ogni proba-
bilità si tratta di una postazione desti-
nata alla difesa antiaerea, approntata
durante l'ultimo conflitto mondiale.
Il monte è caratterizzato da una folta
vegetazione. Sul vulcano crescono
piante tipiche della macchia mediterra-
nea. Le piante maggiormente presenti
sono il pino, la ginestra, l'erica.
Il vulcano, ora inattivo, è diventato
un'oasi naturalistica.
Ad oggi i campi flegrei costutiscono un
area ad alto rischio sismico e per que-
sto nel 2003, in attuazione della Legge
Regionale della Campania n. 33 del
1.9.1993, è stato istituito il Parco re-
gionale dei Campi Flegrei monitorato
dall'Osservatorio Vesuviano.
Il colore rosso nei Campi Flegrei non
rimanda solo al mito degli inferi e al
fenomeno del vulcanesimo ma lo si può
accostare anche ai sapori di questa
meravigliosa terra se si fa riferimento
ad alcuni prodotti tipici come il pomo-
doro cannellino e il vino.
II percorso: “L’ oro rosso flegreo:
Vino e cannellino”
Splendida terra, quella flegrea,passata
alla storia non solo per un ventaglio di
reperti archeologici - presenti un po’ su
tutto il territorio - che ci raccontano lo
splendore vissuto su queste terre,
splendore testimoniato dal fatto che
qui ha dimora uno dei più importanti
santuari dell’età classica, quello in cui
sono state ambientate l’Odissea e
l’Eneide; ma anche per una radicata
cultura enologica ed enogastronomica.
Tra i prodotti tipici di questo territorio
che rievocano il colore rosso vi sono il
pomodoro cannellino e il vino.
Facendo riferimento al pomodoro e
restando in tema di mito e leggenda mi
viene in mente quella legata al pomo
d’oro.
Il pomo della discordia o mela della
discordia è, secondo il mito, la mela
lanciata da Eris, dea della discordia,
sul tavolo dove si stava svolgendo il
banchetto in onore del matrimonio
di Peleo e Teti. La dea, per vendicarsi
27
28
Il pomodoro , per la sua bontà e per
le proprietà benefiche, ha scalato le
classifiche degli ortaggi “migliori”.
Guardato dapprima con occhio sospet-
toso per i suoi frutti idealmente perico-
losi, il pomodoro, negli anni a seguire,
è stato ammirato negli orti botanici
come pianta tipicamente esotica: at-
tualmente, il pomodoro viene apprez-
zato per la malleabilità in cucina e per
l e p rop r i e t à i n f i t o t e rap i a .
Come abbiamo visto, il pomodoro,
seppur entrato relativamente tardi
rispetto agli altri ortaggi importati dal-
le Americhe - nella cucina italiana, è
divenuto un alimento base della dieta
m e d i t e r r a n e a .
I pomodori sono ricchi d'acqua, e di-
screti quantitativi vitaminici: si ricor-
dano Vitamine del gruppo B r acido
ascorbico, vitamina D e soprattut-
to, vitamina E che assicurano al pomo-
d o r o l e n o t e p r o p r i e -
tà antiossidanti e vitaminizzanti.
Divenuto uno dei prodotti più usati
della città di Napoli, infatti i prodotti
tipici, come la pizza ha proprio il po-
modoro come ingrediente principale.
U n a d e l l a p r i n c i p a l e I l
coltivazione di pomodoro è quella dei
pomodori in barattolo il miracolo di san
Gennaro, basata su varietà ed ecotipi
autoctoni ed è ecosostenibile.
Per la produzione utilizzano particolar-
m e n t e i n t e r v e n t i m a n u a l i .
Per la concimazione e la difesa adotta-
no i s i stemi d i colt ivaz ione
propri dell'agricoltura integrata.
Il Miracolo di San Gennaro sono Pomo-
d o r i n i d i G r a g n a n o .
rigorosamente coltivati secondo la tra-
d i z i o n e , s e n z a r i c o r r e r e
a prodotti chimici. Coltivato sui Monti
L a t t a r i , è p a r t i c o l a r m e n t e
adatto per le conserve.
Il sangue di San Gennaro
Itinerario di San Gennaro:
Un interessante itinerario da poter in-
traprendere durante la permanenza
nella città di Napoli, potrebbe essere
quello di San Gennaro ed i suoi tesori.
Il sangue di San Gennaro
57
dall’antichità di turisti che arrivavano
lì per godere delle sue acquee sulfuree,
nell’800 è stata metà del Grand Tour e
dagli inizi del 900 anche sede di
un’intensa attività estrattiva di allume
e bianchetto.
Proprio sulla bocca del cratere si narra
che fu decapitato San Gennaro, dopo
che le belve aizzate contro il vescovo
beneventano nell’attiguo anfiteatro
Flavio, si erano prostrate dinanzi al
santo anzichè sbranarlo.
Comincerete a chiedervi se sono tutte
storie figlie del folklore popolare quelle
che raccontano di sinistri rumore che si
avvertono all’interno del cratere ed
esattamente nella zona cosiddetta del-
la “cava rossa”, rossa come il cinabro
che colora le rocce circostanti, rossa
come il sangue.
Lamenti, grida, rotolar di te-
ste….proprio lì dove fu raccolto il san-
gue gelosamente custodito nell’ampolla
del miracolo, e la cui pietra su cui fu
decapitato il santo è oggi custodita nel
santuario costruito a ridosso del vulca-
no.
La solfatara è stato anche location di
alcuni famosi film di Totò, tra cui Totò
all'inferno e 47 morto che parla, non-
ché le sequenze nel film dei Pink
Floyd Live in Pompeii.
Poco distante da Pozzuoli, verso occi-
dente, in riva al Lago Lucrino,
nel 1538 è sorto il Monte Nuovo, il vul-
cano più recente d'Europa, oggi oasi
naturalistica.
Il monte nuovo
Il monte Nuovo è un piccolo vulcano di
forma circolare, che fa parte
dei Campi Flegrei. Si trova nel comune
di Pozzuoli presso il Lago Lucrino. Si
formò tra il 29 settembre e il 6 otto-
bre 1538 a seguito di un'eruzione che
distrusse il villaggio medievale
di Tripergole e mise in fuga la popola-
zione locale.
Percorrendo il sentiero principale
sull'orlo del cratere, a metà strada
circa, presso degli alti pini, si incontra-
no i modesti ruderi di un picco-
lo palmento:
Attraverso una soglia si accede ad un
semplice ambiente quadrangolare, con
un banco in muratura (probabilmente
una cucina ) posto a destra dell'ingres-
so, seguito da una nicchia rettangola-
re, quasi certamente un armadietto a
muro, mentre nella parte bassa della
parete stuccata di bianco figura mura-
to un grosso versatoio cilindrico in pie-
tra lavica; alle sue spalle (lungo l'attu-
ale sentiero) vi sono i resti affiancati di
due tini in muratura, simili a piccole
cisterne, di cui uno rettangolare e l'al-
tro circolare, dove venivano pigiate le
uve, il cui mosto, defluendo attraverso
il versatoio in pietra, veniva raccolto
nel vicino ambiente quadrato. Anche
56
Anche questo lago come quello
d’Averno conserva in se qualcosa del
mito. Infatti,chiamato in antichità an-
che "Acherusio" perché si credette di
identificarvi la Acherusia palus ovvero
la palude infernale formata dal fiume
Acheronte (nome attribuito più spesso
al lago Fusaro), da sempre viene asso-
ciato ad una fonte infernale come quel-
la del Cocito o Piriflegetonte
Cunicoli di genere simile a quelli de-
scritti in precedenza, si trovavano an-
che nei pressi del lago Fusaro che in
età molto antica si presentava come un
ampio golfo sul mare che le popolazioni
locali, anche prima dell’arrivo dei gre-
ci, sfruttavano per la coltivazione dei
mitili e soprattutto delle ostriche.
Altro luogo ricco di fascino mistico, già
famosa durante l'epoca imperiale roma-
na,è la Solfatara.
La solfatara
Strabone, nel suo Strabonis geographi-
ca, la descrive come la dimora del Dio
Vulcano, ingresso per gli Inferi, chia-
mandola “Forum Vulcani”; viene inol-
tre menzionata anche da Plinio il Vec-
chio come “Fontes Leucogei” per le
acque alluminose e biancastre che
sgorgano ancora tutt'oggi.
A monte di Pozzuoli, la Solfatara, è un
cratere è uno dei 40 vulcani che costi-
tuiscono i Campi Flegrei ed è ubicata a
circa tre chilometri dal centro della
città di Pozzuoli.
Si tratta di un antico cratere vulcanico
ancora attivo ma in stato quiescente
che da circa due millenni conserva
un'attività difumarole d'anidride solfo-
rosa, getti di fango bollente ed elevata
temperatura del suolo: altre attività
simili si riscontrano anche in altre parti
del mondo e vengono indicate con il
nome di solfatare proprio per la simili-
tudine con quella puteolana.
La Solfatara, nome col quale viene in-
dicato il cratere piuttosto che l'intero
edificio vulcanico ha una forma ellitti-
ca con diametri di 770 e 580 metri,
mentre il perimetro è di 2 chilometri e
trecento metri; la parte più alta della
cintura craterica è posta a 199 metri
ed è chiamata monte Olibano mentre il
fondo del cratere è posto a 92 metri sul
livello del mare.
La Solfatara è stata meta sin
29
San Gennaro è considerato il patrono di
Napoli,infatti il nome Gennaro è molto
diffuso in Campania e r isale
al latino Ianuarius che significava
«consacrato al dio Giano».
Il percorso turistico potrebbe iniziare
dalla chiesa del Duomo, sita in via Duo-
mo; considerata una delle chiese più
antiche ed emblematiche della città,
contiene le reliquie di San Gennaro e
tre volte l’anno ospita il rito dello scio-
glimento del sangue: si ritiene che una
pia donna avesse raccolto in due am-
polle il sangue di San Gennaro per con-
segnare poi la preziosa reliquia al ve-
s c o v o d i N a p o l i .
I grumi rappresi scuri e solidi spontane-
amente si sciolgono. Il sangue ribolle
ed assume il colore rosso vivo.
la liquefazione avviene di solito accom-
pagnata dalle fervide preghiere ed insi-
stenti invocazioni al Santo. Le modalità
con le quali avviene lo scioglimento:
tempo, intensità del sangue sono consi-
derate di buon auspicio per la città se
avvengono senza indugi, nel caso con-
trario sono di segno sfavorevole.
Il miracolo si ripete regolarmente altre
due volte nell’anno: a maggio ed a di-
cembre ed in circostanze particolar-
mente rilevanti per Napoli come ad
esempio la visita di qualche personag-
gio importante, la minaccia di sciagure
n a t u r a l i e t c .
Per la prima volta fu annotata la lique-
fazione del sangue di San Gennaro nel
1389 sulle pagine del "Chronicon Sicu-
lum". Da quel momento in poi studiosi,
scienziati e ricercatori si sono sbizzarri-
ti nello scrivere su questo insolito fat-
t o .
Fino ad oggi nessuno è riuscito a trova-
re la soluzione del mistero. Di conse-
guenza attorno al sangue di San Genna-
ro sono cresciute numerose leggende e
superstizioni.
Alcuni scienziati dopo tanti studi ap-
profonditi, hanno ipotizzato che
all’interno delle ampolle si trova una
proprieta' fisica non diffusamente co-
nosciuta: la tissotropia. I materiali tis-
sotropici diventano piu' fluidi se sotto-
posti a una sollecitazione meccanica,
come piccole scosse o vibrazioni, tor-
nando allo stato precedente se lasciati
indisturbati. Un esempio consueto di
questa proprieta' e' la salsa ketchup,
che se ne sta rappresa senza scendere
dalla bottiglia fino a quando delle scos-
se non la fanno diventare d'un tratto
molto piu' liquida, e ne viene fuori
troppa. La tissotropia e' impiegata in
moltissimi prodotti, come gli inchiostri
e le vernici, dove il colore diventa ab-
bastanza fluido quando e' sottoposto a
sollecitazione mentre abbandona lo
strumento di applicazione e viene steso
sul supporto, ma deve scorrere il meno
possibile una volta lasciato a riposo.
Pur essendo nota da sempre in certi
campi, la tissotropia non e' molto cono-
sciuta, nemmeno presso chi si occupa
30
di fisica o di chimica. Un esempio di
come sia poco conosciuta e' che due fra
i maggiori esperti cattolici sul miracolo
di San Gennaro hanno dei passi, nei
loro libri, in cui descrivono quanto do-
vrebbe essere strana una sostanza che
imitasse la reliquia: coll'intenzione di
dimostrare che sono richieste delle
caratteristiche "che la scienza non puo'
spiegare", danno in realta', senza sa-
perlo, una definizione della tissotropi-
a. D'altra parte molti che avranno co-
nosciuto sia la tissotropia sia il miraco-
lo di San Gennaro devono aver pensato,
piu' o meno vagamente, ad un possibile
collegamento fra i due fenomeni. Ma
e'merito proprio di questa rivista l'aver
fatto convergere l'interesse, le cogni-
zioni e lo scetticismo dai quali e' nata
una formulazione sufficientemente
accurata dell'ipotesi tissotropica, con-
temporaneamente ad una sostanza che
la esemplifica: questa sostanza (una
sospensione colloidale di idrossido di
ferro in acqua con ioni sodio e cloro) e'
stata studiata espressamente per esibi-
re la tissotropia in forma cosi' accen-
tuata da passare, se agitata lievemen-
te, addirittura dallo stato solido a quel-
lo liquido, ma, al contempo, per essere
realizzabile con i soli mezzi disponibili
nel 1300.
Nel Museo del tesoro di San Gennaro,ci
sono straordinari capolavori raccolti in
sette secoli di donazioni di papi, re,
imperatori, regnanti, uomini illustri,
gente comune e facente parte di colle-
zioni uniche e intatte grazie alla Depu-
tazione della Real Cappella del Tesoro
di San Gennaro, antica istituzione laica
ancora esistente nata per un voto della
città di Napoli.
Invece la seconda destinazione da po-
ter raggiungere, inerente all’itinerario
intrapreso, è la Porta San Gennaro, che
si trova tra Caponapoli e il Vallone di
via Foria.
La Porta San Gennaro è la più antica
porta della città di Napoli, ed era l'uni-
co punto di accesso per chi proveniva
dalla parte settentrionale della città. Il
nome di Porta San Gennaro deriva dal
fatto che di qui partiva anche l'unica
strada che portava alle catacombe
dell’omonimo santo.
La terza destinazione da non dover
assolutamente dimenticare, sono la
Catacomba di San Gennaro, che si tro-
vano nel rione Sanità di Napoli.
La catacomba di San Gennaro si compo-
ne di due livelli non sovrapposti. Il nu-
55
neo regno delle ombre.
Tale culto per Ulisse seguirebbe un
itinerario ben preciso : l’eroe scava
una fossa e compie una libagione dei
morti con miele e latte, vino e ac-
que; poi cosparge di farina bianca do-
po aver sgozzato un ariete e una peco-
ra e fa scorrere il sangue nella fossa.
Le anime escono fuori: Ulisse scorge
l’anima di Elponore, poi quella della
madre e infine Tiresia.
Quest’ultima anima lo riconosce, beve
il sangue e dice ad Ulisse che, a chiun-
que lascerà bere il sangue, questi gli
predirà cose vere. Allora Ulisse lascerà
bere il sangue alla madre che, solo
allora lo riconosce e gli parla. Ulisse,
dal canto suo, cercherà di abbracciarla,
ma per tre volte essa gli sfuggirà. Que-
sto perché, come dice Omero, quando
uno muore il fuoco distrugge il corpo e
solo l’anima vaga, ma come tale sfugge
come un sogno.
Tornado a tempi più recenti abbiamo la
testimonianza di Giovanni Pontano, che
nel "De bello Neapolitano" ci dice che a
Napoli esisteva un quartiere dei Cim-
meri, e che una delle uscite dei loro
cunicoli sotterranei erano vicino alla
chiesa di Sant'Agostino della Zecca nei
cui pressi vi è oggi una via dei Cimbri, e
ancora nel 1623 scriveva Don Cesare
d'Eugenio Caracciolo in Napoli Sacra ,
"una delle chiese più antiche della cit-
tà, quella di santa Maria di Portanova,
era chiamata -a Cimmino- per la pre-
senza nella zona di -tal nazione Cimme-
ria-.”
Vicino al lago si trovano il tempio di
Apollo, la grotta della Sibilla Cumana
(una grotta scavata nel tufo, lunga
200m e probabilmente creata per col-
legare il lago al mare e che per la sug-
gestione dell’ambiente veniva associa-
to alla Stige infernale e ai luoghi
dell’Acheronte) e la grotta del Cocceio
( un cunicolo scavato dai romani per
scopi militari, che collegava il lago a
Cuma, oggi non più visitabile a causa di
danni provocati durante la guerra mon-
diale).In prossimità del lago d’Averno,
vi è un altro lago: quello di Lucrino.
Lago di Lucrino
Esso è un bacino naturale che si è for-
mato in epoca antica in seguito al mo-
to ondoso del mare che, apportando
progressivamente della sabbia, ha col
tempo chiuso un’insenatura naturale
con un istmo.
Il sottile istmo , secondo il mito, ven-
ne attribuito ad Eracle che l’avrebbe
creato quando dal remoto occidente
condusse in Grecia i buoi che aveva
rubato al mostruoso Gerione; lì poi vi
fu costruita una strada che , in ricordo
dell’eroe, fu chiamata Via Heraclea.
Attualmente è letteralmente sommersa
dal mare ma è riconoscibile su fotogra-
fie aeree o grazie ad immersioni.
54
l’ingresso agli inferi, dal quale Cristo
discese per liberare le anime dei giusti.
Connessa all'idea che la zona avesse a
che fare con il regno dei morti, abbia-
mo la testimonianza di alcune leggende
che attribuiscono la realizzazione di
cavità del sottosuolo napoletano e fle-
greo a degli esseri di dimensioni straor-
dinarie, che popolavono il sottosuolo di
Napoli fino a Cuma.
Ancor oggi un intricato groviglio di
grotte, tunnel, catacombe, pozzi, luo-
ghi di culto; il sottosuolo comincia ad
essere abitato con la venuta a Napoli di
un popolo nomade proveniente dalla
Scizia, l'attuale Russia meridionale.
Già descritti da Omero nell' XI libro
dell'Odissea; questo popolo migrò
dall'altipiano Iranico verso il Caucaso e
poi scacciati dagli Sciti, verso la Crime-
a.
In realtà non si conosce bene la data-
zione della loro probabile venuta nel
golfo Campano, ma i Cimmeri, così
venivano chiamati, hanno fatto alimen-
tare molte fantasie su di loro creando
così nel tempo un certo alone di miste-
ro.
Citando Strabone: “i Cimmeri vivevano
tra il lago d'Averno e Baia le loro case
erano spaventevoli ed infernali per il
loro offuscamento e folte caligini, per
le pallidi ombre, per la profonda ed
eterna notte che vi regnava. Molti era-
no gli stranieri che si recavano a visi-
tarli, essi venivano accolti nelle loro
abitazioni per poi essere accompagnati
ad interrogare l'oracolo dei morti situa-
to sotto terra (nekyomanteìon chthò-
nion), e che proprio grazie all'oracolo
traevano parte del loro sostentamento
(pare con una tariffa per le consulta-
zioni fissata dal loro re; ma - come è
facile intuire - molto probabilmente
anche nutrendosi di parte delle carni
degli animali sacrificati agli inferi)”.
Essi si erano rifugiati nel sottosuolo per
riparasi dalla forza distruttrice del Ve-
suvio, che temevano in modo reveren-
ziale.
Erano infatti considerati i custodi
dell'oltretomba, guardiani e detentori
di antichissime conoscenze di origine
divina dei culti della Terra.
Diodoro Siculo affermava che dal loro
villaggio si poteva raggiungere l'oracolo
dei morti. Ci conferma anche lo storico
Nevio, che in una grotta simile a quella
della Sibilla di Cuma, sul lago d'Averno
viveva la Sibilla Cimmeria.
Di questi Cimmeri se ne trova traccia
anche nell’Odissea, quando Ulisse se-
guendo le istruzioni della maga Circe,
giunge ai boschi sacri di Persefone.
In proposito Strabone sostiene che Ulis-
se era venuto qui a consultare
l’Oracolo dei morti dell’Averno; sinoni-
mo dell’Acheronte per indicare
l’accesso all’Ade, appunto il sotterra-
31
cleo originario è da individuare nell'uti-
lizzo e nell'ampliamento, avvenuto tra
la fine del II e gli inizi del III secolo, di
un ambiente cosiddetto "vestibolo infe-
riore". Da esso si sono sviluppati, nei
periodi successivi al III secolo, gli am-
bulacri della catacomba inferiore se-
condo uno schema di scavo ampio ed
o r i z z o n t a l e .
La catacomba superiore ebbe varie fasi
di sviluppo: anch'essa ebbe origine da
un antico sepolcro che oggi chiamiamo
"vestibolo superiore", noto essenzial-
mente per gli affreschi della volta della
fine del II secolo. Gli elementi che ca-
ratterizzano maggiormente la catacom-
ba superiore, sono la piccola "cripta dei
vescovi" e la maestosa "basilica
maior" (una vera e propria basilica sot-
terranea); la prima, ubicata presso la
tomba di San Gennaro dove vennero
sepolti alcuni dei primi Vescovi napole-
tani, la seconda è il frutto di un'ampia
trasformazione dei vicini ambienti rea-
lizzata quando, nel sec. V, fu traslato
San Gennaro. La "basilica maior" è a
tre navate, conserva numerosi affre-
schi (V-VI sec.) ed è scavata intera-
mente nel tufo.
Successivamente nel rione Sanità, co-
me quarta destinazione, troviamo
l’ospedale San Gennaro dei poveri,
considerata una struttura ospedaliera
di interesse storico-artistico di Napoli.
La storia dell’ospedale è strettamente
intrecciata a quella della basilica che
sorge al suo interno, quella di San Gen-
naro fuori le mura.
La chiesa, dopo la traslazione delle
reliquie di San Gennaro a Benevento,
cadde in rovina.
Successivamente anche l'intero mona-
stero cadde in abbandono, ma succes-
sivamente venne riutilizzato dal cardi-
nale Oliviero Carafa, che lo trasformò
in ospedale per gli appestati.
Dopo la peste l'ospedale fu ulterior-
mente ampliato e fu dotato anche di
uno ospizio dedicato ai Santi Pietro e
Gennaro.
32
Il complesso è preceduto da una scala a
doppia rampa che precede un vestibolo
con affreschi cinquecenteschi di Agosti-
no Tesauro, stemmi della città di Napo-
li, ed altre particolarità artistiche-
architettoniche.
Ultima chiesa da visitare per questo
itinerario, è la chiesa di San Gennaro,
che si trova nel bosco di Capodimonte.
Opera dell’architetto scenografo Sanfe-
lice, fu eretta per volere di Carlo III di
Borbone, come conferma una vecchia
iscrizione di marmo che campeggia
sulla semplice facciata d’ingresso.
la chiesa ha un piccolo campanile, i cui
archi ad ogiva sono frutto di un succes-
sivo rimaneggiamento. L’interno della
chiesa, che ha conservato nel comples-
so l’impianto originario, si sviluppa su
di un invaso ovale; le decorazioni risul-
tano alquanto.
Sull’altare maggiore è esposto un olio
su tela, raffigurante il santo protetto-
re, attribuito tradizionalmente al fa-
moso pittore Francesco Solimena mae-
stro ed amico del Sanfelice.
Fin dal Settecento la chiesa era ornata,
oltre che dalla grande tela di San Gen-
naro, anche da quattro statue dedicate
ai santi protettori della famiglia re-
gnante. Restano in loco quelle in gesso
di San Carlo Borromeo e Sant’Amalia,
in nicchie ai lati dell’abside; le altre
due, rappresentanti San Filippo e Santa
Elisabetta, erano negli angoli opposti
della chiesa.
Gli arredi di legno provengono proba-
bilmente dalla chiesa di San Clemente
dell’Eremo dei Cappuccini, essendo
documentato il trasferimento di sup-
pellettile ed arredi sacri nella parroc-
chia di San Gennaro, alla soppressione
del convento.
Dalla chiesa si entrava negli spazi della
sagrestia, oggi adibiti ad esposizioni
temporanee, e si accedeva al piano
superiore, dove era l’abitazione del
parroco.
…Duomo, e processione:
all’interno del Duomo, in prima fila
sulle panche di legno della cappella
dedicata al santo patrono, fin dalle
prime luci del mattino sono sedute le
Parenti, donne che da secoli hanno
vissuto la funzione di sacerdotesse di
carie del culto di San Gennaro, traman-
dandosi di generazione in generazione
un corpus di preghiere e litanie.
Mentre le Parenti vanno avanti con i
loro rituali arrivano gli alti prelati, ve-
scovo in testa, e le autorità cittadine il
cardinale prende l’ampolla con il san-
gue del santo, e dalla cappella si dirige
lentamente verso l’altre maggiore del
Duomo.
Nel mare di folla che il cardinale attra-
versa, accompagnato dagli applausi e
53
Da sempre l’intensa attività vulcanica e
il ben noto fenomeno del bradisismo ha
suscitato un’immagine mito del territo-
rio, conferendo al vulcanesimo stesso
tale coloritura.
E allora ecco che i Campi Flegrei sono
lo scontro tra Dei e Giganti, figli della
Terra.
Secondo Apollodoro Gea (la Terra),
arrabbiata contro Giove e gli Dei per la
sorte inflitta ai Titani aveva partorito i
Giganti, esseri mostruosi che avrebbero
assalito gli Dei. Questi, trovatisi in dif-
ficoltà, avrebbero ricevuto l’aiuto di
Ercole riuscendoli così a sconfiggere.
E’ da qui che mi piace partire per que-
sto breve viaggio.
Un viaggio tra mito storia e leggenda
che ha come file rouge il rosso, colore
che da sempre rievoca calore, passione
e che nel caso specifico dei campi fle-
grei può ricondurre al rosso degli inferi.
Itinerario uno : “Sulle sponde degli
inferi. Il tour dei laghi”.
Il lago d’Averno
Recuperando il mito partiamo dal più
grande lago flegreo di origine vulcani-
ca: Il lago d’ Averno.
Questo lago vulcanico si trova nel co-
mune di Pozzuoli, tra la frazione di
lucrino e Cuma.
La parola Averno in greco significa
“senza uccelli” proprio perché gli uc-
celli che volavano sopra questa voragi-
ne morivano a causa delle sue esalazio-
ni.
Questa oscura e profonda voragine e-
manante vapori sulfurei, secondo la
religione greca e poi romana era un
accesso all’oltretomba, regno del dio
Plutone, ed è per tal motivo che gli
inferi si chiamano anche averno.
Anche il poeta Virgilio nel sesto libro
dell’ Eneide colloca vicino ad esso
l’ingresso mistico agli inferi dove l’eroe
Enea deve recarsi.
L’Averno, luogo ancora oggi ammantato
di misteri: un luogo selvaggio e tene-
broso, “un antro irto di scogli, cupo,
circondato da nero lago e tenebre bo-
schi” (Virgilio, Eneide VI Libro), dove
gli antichi immaginarono la Sibilla e
dove la leggenda vuole che qui vi fosse
52
“La memoria come processo di muta-
zione della materia che diventa sogget-
to in grado di rimandare alla realtà”.
“Intanto continuavano le scosse di ter-
remoto e molti, fuori di senno, con le
loro malaugurate predizioni si burlava-
no del proprio e del male altrui. Noi,
però, benché salvi dai pericoli ed in
attesa di nuovi, neppure allora pen-
sammo di partire, finchè non si avesse
notizia dello zio. Queste cose, non de-
gne certamente di storia, le leggerai
senza servirtene per i tuoi scritti; né
imputerai che a te stesso, che me le
hai chieste, se non ti parranno degne
neppure di una lettera. Addio” ( Lette-
re, VI Naturalis Historia, Plinio il Giova-
ne). Originariamente, secondo Diodoro
Siculo la definizione “Flegrea” si attri-
buiva all’area fra il Monte Massico e i
monti del casertano fino ai Lattari.
Attualmente invece con il termine
Campi Flegrei s’intende la zona ad o-
vest di Napoli compresa fra Posilli-
po fino a Quarto e di lì verso nord lun-
go la via Domiziana, poco oltre Capo
Miseno fino a Cuma ,così come già in
epoca romana l’intendeva Plinio in
“Storia Naturale”.
In ogni caso, il termine “Campi Fle-
grei”, deriva dal greco phlegraios che
significa ardente grazie all’abbondanza
di sorgenti calde e acque termali.
Infatti geologicamente la terra di fuo-
co, declamata da Omero e Virgilio, si
presenta come un'enorme area vulcani-
ca formata da numerosi crateri, di cui
l’unico ancora attivo è la Solfatara. Gli
altri, invece, vivono oggi di una nuova
vita: l’Averno è un lago, gli Astroni e il
Monte Nuovo sono delle oasi naturali,
altri giacciono in fondo al mare.
Questa grande caldera con un diametro
di 12–15 km nella parte principale
e’oggi in stato di quiescenza, ma conti-
nua ad esercitare la sua attività mag-
matica, ne sono testimonianza le inten-
se fumarole e le acque termali che da
Agnano a Baia permettono di goderne i
benefici effetti.
I campi Flegrei
33
dall’organo, spiccano i pennacchi dei
due carabinieri che lo scortano.
Dietro l’altare sono scherate due file di
sacerdoti vestiti di bianco.
Ai lati, i gonfaloni del comune e della
provincia di Napoli il vescovo sale
sull’altare la musica si ferma:”Fratelli
e Sorelle, vi do il grande annunzio”.
Ai lati del vescovo l’Abate della Cap-
pella, che poco prima gli avevano uffi-
cialmente consegnato l’ampolla; il vi-
cepresidente della deputazione , che
custodisce il tesoro e le relique del
santo.
E quest’ultimo è colui che sventola il
fazzoletto bianco non appena termina
la fase del vescovo, partono gli applau-
si e altri fazzoletti iniziano a sventola-
re, quando l’ampolla esce dalla chiesa
viene salutata da fuochi d’artificio che
disegnano linee di fumo bianco nel cie-
lo limpido del mattino.
Il miracolo viene visto come un culto e
non dandogli quella forma folcroristica;
non si tratta solo del cosiddetto “San
Gennà fammi la grazia”.
L’unico re di Napoli è stato San Genna-
ro e l’unico napoletano che ha regnato
su questa città e a questo è dovuto
l’amore la dedizione al santo.
Il napoletano ha avuto sempre un po’
di timore e diffidenza nelle autorità
invece san Gennaro è un intermediario,
il trait d’unione tra l’autorità il Padre
Eterno e la gente comune.
34
Il Vesuvio è particolarmente interessan-
te per la sua storia e per la frequenza
delle sue eruzioni. Fa parte del sistema
montuoso Somma-Vesuviano, è situato
leggermente all'interno della costa del
golfo di Napoli, ad una decina di chilo-
metri ad est del capoluogo campano. È’
un vulcano esplosivo o effusivo in stato
di quiescenza dal 1944, situato nel ter-
ritorio dell'omonimo parco nazionale
istituito nel 1995. La sua altezza, al
2010, è di 1.281 m, sorge all'interno di
una caldera di 4 km di diametro.
Quest'ultima rappresenta ciò che è
rimasto dell'ex edificio vulcanico, ovve-
ro il Monte Somma, dopo la grande
eruzione del 79 d.C., che determinò il
crollo del fianco sud-orientale in corri-
spondenza del quale si è successiva-
mente formato il cratere attuale.
Esso costituisce un colpo d'occhio di
inconsueta bellezza nel panorama del
golfo, una celebre immagine da cartoli-
na ripresa dalla collina di Posillipo lo ha
fatto entrare di diritto nell'immaginario
collettivo della città di Napoli.
Oggigiorno è l'unico vulcano di questo
tipo attivo di tutta l'Europa continenta-
le, che nel 1997 il Vesuvio è stato elet-
to dall'Unesco tra le riserve mondiali
della biosfera, ed inoltre nel 2007 il
Vesuvio è stato proposto alla selezione
per eleggere le sette meraviglie del
mondo naturale come “Bellezza natura-
le italiana”, non riuscendo però ad
essere eletto dopo essere arrivato in
finale.
Il Vesuvio detiene un primato a livello
mondiale, cioè quello di essere stato il
primo vulcano ad essere studiato siste-
maticamente (per volontà della casa
regnante dei Borbone), studi che conti-
Il Vesuvio
51
18.000 abitanti, malgrado le ripetute
eruzioni vulcaniche che, anche nel XIX
secolo, avvenivano quasi ogni due anni.
Bosco Reale:
Nel territorio di Boscoreale
(Vuoscoriàlë in napoletano) erano sorte
già a partire dall'epoca sannitica nume-
rose ville rustiche che sfruttavano la
fertilità del suolo. Con il tempo molte
di esse si trasformarono in residenze
lussuose e in età augustea il sito, insie-
me all'attuale Boscotrecase, era dive-
nuto un sobborgo della vicina Pompei
con il probabile nome di Pagus Augu-
stus Felix Suburbanus. Le ville del terri-
torio vennero distrutte dall'eruzione
del Vesuvio del 79 d.C., ma in seguito il
territorio venne probabilmente rioccu-
pato, come sembra testimoniare il ri-
trovamento di lucerne con simboli cri-
stiani del IV secolo.
Nell'Ottocento Boscoreale assurse all'o-
nore della cronaca per la scoperta nel
suo territorio di numerose ville rustiche
di età romana (I secolo d.C.), portate
alla luce da scavi di privati cittadini,
sotto la sorveglianza della Soprinten-
denza Archeologica. Tali ville diedero
splendidi reperti archeologici, un teso-
ro di argenterie, affreschi, bronzi, pa-
vimenti a mosaico, sistematicamente
asportati dallo scavo e messi in vendita
al miglior offerente dai proprietari dei
fondi, poiché le leggi del tempo lo per-
mettevano.
I maggiori Musei del mondo
(Archeologico Nazionale di Napoli, Lou-
vre di Parigi, Metropolitan Museum di
New York, British Museum di Londra,
Musee Royal di Mariemont in Belgio,
Field Museum di Chicago, Getty Mu-
seum di Malibu, Walters Art Museum di
Baltimora, Altes Museum di Berlino
etc.) acquisirono nelle loro collezioni
oggetti provenienti dagli scavi archeo-
logici di Boscoreale.
In epoca moderna il comune è stato un
importante centro agricolo, famoso per
la sua frutta e soprattutto per vini tra
cui il più celebre è senz'altro il La-
cryma Christi del Vesuvio. Oggi Bosco-
reale è uno dei comuni che fanno parte
del territorio del Parco Nazionale del
Vesuvio e dal paese si può raggiungere,
grazie al collegamento della Via Matro-
ne, il percorso naturalistico che porta
al cratere del Vesuvio.
50
I Saraceni si insediarono nel territorio
nell'880, con il permesso del vescovo di
Napoli Atanasio, dal quale furono suc-
cessivamente trasferiti ad Agropoli due
anni dopo. La città in seguito fu presa
dagli Svevi e, a partire dal Quattrocen-
to, subì le vicende del Regno di Napoli,
divenendo parte del demanio reale, il
re Alfonso I ne cedette poi il possesso
alla famiglia Carafa, senza diritti feu-
dali.
Nel 1631 un'eruzione di proporzioni
ingenti distrusse tutto il versante a
mare del Vesuvio: Torre del Greco ven-
ne invasa da torrenti fangosi e da gran-
dissimi flussi lavici, dei quali uno in
particolare generò le scogliere della
Scala.
Il 18 maggio 1699 la città riacquistò il
diritto di possesso del suo territorio con
un atto di compravendita dall'ultimo
dei proprietari, il marchese di Monfor-
te, per 106.000 ducati e dopo questa
data si ebbe una fioritura del commer-
cio marittimo, mentre la flottiglia pe-
schereccia dell'epoca contava 214 im-
barcazioni, dedite alla raccolta delle
spugne, del corallo e delle conchiglie.
In quest'epoca si cominciò la lavorazio-
ne del corallo, divenuta poi tradiziona-
le.
Tra il XVII e il XVIII secolo, in epoca
borbonica, vi furono edificate diverse
ville signorili dell'area vesuviana: le
ville del Miglio d'oro, che conservano
ancora oggi splendidi esempi di archi-
tettura settecentesca.
Il Comune di Torre del Greco è stato
poi travolto nel 1707 dalla caduta ab-
bondante di piroclasti del Vesuvio, in-
sieme ai comuni di Scafati, Striano e
Boscotrecase, con danni alle coltivazio-
ni e centinaia di feriti.
L'eruzione del Vesuvio del 1794 seppellì
il centro storico sotto uno spessore
lavico di circa 10 metri, e numerose
altre eruzioni avevano provocato nei
secoli ingenti danni alla città: ed infat-
ti sullo stemma municipale, che com-
prende una torre, è riportato il motto
della fenice: Post fata resurgo.
La città divenne municipio sotto la do-
minazione di Giuseppe Bonaparte nel
1809 con l'elezione del primo sindaco
Giovanni Scognamiglio. Sotto la domi-
nazione di Murat diventò, insieme alla
vicina Portici, la terza città del Regno
di Napoli, dopo Napoli e Foggia, con
35
nuano tuttora ad opera dell'Osservato-
rio Vesuviano. Risale infatti al 1841
(per volontà del re Ferdinando II delle
Due Sicilie) la costruzione di un Osser-
vatorio (tuttora funzionante, anche se
solo come filiale di più moderne strut-
ture ubicate a Napoli) e si può dire che
la vulcanologia, come vera e propria
disciplina scientifica, nasca in quegli
anni.
Ciò che cattura l’attenzione è il favo-
loso panorama che offre la vista del
vulcano; dalla sua altura, guardando
verso il basso, è possibile ammirare di
fronte a sé il mare di Torre Annunziata,
tutto il Golfo di Napoli, la Penisola Sor-
rentina, Castellammare di Stabia, Torre
del Greco, Capri, Procida e Ischia. Di
sera la vista è ancora più suggestiva
poiché il tutto è illuminato dalle luci
dei lampioni, dai colori delle varie ca-
sette collocate lungo il bordo del crate-
re e dallo scintillio delle stelle e dalla
luminosità della luna che si riflette in
tutta la sua bellezza, nelle acque del
mare che bagna i diversi Paesi Vesuvia-
ni.
Origini del nome
Il nome Vesuvio presumibilmente deve
le sue origine alla radice indoeuropea
*aues, "illuminare" o *eus, "bruciare".
Esistono tuttavia alcune etimologie
popolari: dato che nell'antichità si rite-
neva che il Vesuvio fosse consacrato
all'eroe semidio Ercole, e la città di
Ercolano, alla sua base, prendeva da
questi il nome, si credeva che anche il
vulcano, seppur indirettamente traesse
origine dal nome dell'eroe greco. Ercole
infatti era il figlio che il dio Giove ave-
va avuto da Alcmena, regina di Tebe.
Una tradizione popolare della fine del
Seicento vorrebbe invece che la parola
derivi dalla locuzione latina Vae suis!
("Guai ai suoi!"), giacché la maggior
parte delle eruzioni sino ad allora acca-
dute, avevano sempre preceduto o
posticipato avvenimenti storici impor-
tanti, e quasi sempre carichi di disgra-
zie per Napoli o la Campania. Un esem-
pio su tutti: l'eruzione del 1631 sarebbe
stato il "preavviso" naturale dei moti di
Masaniello del 1647. Il nome del Vulca-
no è associato al termine “cas” che
significa “risplendere, bruciare” o an-
cora lo si ricollega al nome della Dea
greca Vesta, divinità del fuoco e del
focolare. Il monte era amato per le sue
fertili terre, per le sue magnifiche te-
nute di campagna, per i suoi fenomeni
geologici e soprattutto perché zona
residenziale di lusso dei patrizi romani.
Secondo gli studiosi le popolazioni che
vivevano alle falde del Vesuvio prima
del I secolo a. C., erano del tutto in-
consapevoli che tale vulcano fosse atti-
vo e pericoloso a causa delle possibili
violente eruzioni di lava, anche se al-
cuni letterati greci, primo tra tutti lo
scrittore Strabone e poi Diodoro Siculo,
36
nel I secolo a. C., avevano ben indivi-
duato il profondo nesso tra “il fiume di
fuoco (lava) e Vesuvio”. I successivi
intellettuali latini, Seneca, Sisenna,
Plinio il Vecchio, Vitruvio, Virgilio, Co-
lumella, ecc, ignari che il gigantesco
monte avesse un passato di sconvolgen-
ti eruzioni lo stimarono come locus
amoenus, ossia inizialmente lo apprez-
zarono per i suoi giardini, per la sua
coltivazione orticola e per la sua note-
vole attività vinicola.
Il noto poeta recanatese Giacomo Leo-
pardi, definisce così il “nostro” Vulca-
no, <<Sterminator Vesevo>> e ricorda
che <<questi campi cosparsi di ceneri
infeconde, e ricoperti dell’impietrata
lava, che sotto i passi al peregrin riso-
na; [ ] fur liete ville e colti, e biondeg-
giar di spiche, e risonaro di muggito
d’armenti; fur giardini e palagi, agli ozi
de’ potenti gradito ospizio; e fur città
famose che coi torrenti suoi l’altero
monte dall’ignea bocca fulminando
oppresse con gli abitanti insieme [ ] >>
- (La ginestra o il fiore del deserto,
1836).
Le storie del Vesuvio
Al Vesuvio sono legate alcune storie o
leggende, il racconto più suggestivo
scorre dalla china di Matilde Serao nel
suo "libro d'immaginazione e di sogno":
Vesuvio era un giovane nobile di Napo-
li, follemente innamorato di una giova-
ne di una "casa nemica", la famiglia
Capri. Ma il loro amore era così avver-
sato dalle proprie famiglie, che la fan-
ciulla, fatta imbarcare su una nave
diretta verso una terra straniera, sen-
tendosi "strappar l'anima", si gettò in
mare, «donde uscì isola azzurra e ver-
deggiante». Il cavaliere, «quando seppe
della nuova crudele, cominciò a gittar
caldi sospiri e lacrime di fuoco, segno
della interna passione che l'agitava: e
tanto si agitò che divenne un monte
nelle cui viscere arde un fuoco eterno
di amore. […] Così egli è dirimpetto
alla sua bella Capri e non può raggiun-
gerla e freme di amore e lampeggia e
s'incorona di fumo e il fuoco trabocca
in lava corruscante…» . Nelle Egloghe
Piscatorie, Bernardino Rota racconta di
Leucopetra, ninfa marina contesa da
due giovani, Vesevo e Sebeto. Per sfug-
gir al loro inseguimento, si gettò in
mare e si trasformò in pietra. Allora,
Vesevo, disperato, si trasformò in una
montagna che rovesciava fuoco, fino a
raggiungere la sua amata ninfa nel ma-
re; e Sebeto pianse così tanto da tra-
sformarsi in un rivolo che si versava in
mare. Vesuvio, fumaiolo dell'inferno, il
misterioso vulcano ha da sempre susci-
tato, nell'immaginario collettivo, timo-
re e terrore. Gli antichi lo associarono
all'Ade e interpretarono la sua eruzione
come manifestazione dell'ira divina.
49
Secondo itinerario – azione “creatrice”
del Vesuvio - Castellamare di Stabia:
Castellammare di Stabia (in napoletano
Castiellammare, talvolta anche Ca-
stllammare) il 25 agosto del 79 d.C. fu
travolta da un'inaspettata e violenta
eruzione del Vesuvio, che fece scompa-
rire la città, stabie, sotto una fitta
coltre di cenere, lapilli e pomici, insie-
me a Pompei ed Ercolano. A causa dei
frequenti terremoti che avevano prece-
duto l'eruzione, molte ville mostravano
segni di cedimento o crepe e quindi si
trovavano in fase di ristrutturazione: fu
questo il motivo per cui a Stabiae ci fu
un numero limitato di vittime[. Tra le
vittime illustri fu anche Plinio il Vec-
chio, che giunto a Stabiae per osserva-
re più da vicino l'eruzione, morì molto
probabilmente avvelenato dai gas tossi-
ci sulla spiaggia. Dopo la distruzione di
Stabiae ad opera del Vesuvio, alcuni
abitanti del luogo scampati all'eruzio-
ne, tornarono alle loro vecchie abita-
zioni, ormai distrutte, per recuperare
oggetti e denaro: furono questi che
costituirono un villaggio lungo la costa,
la quale grazie all'eruzione era diventa-
ta molto più protesa nel mare rispetto
al passato. Questo nuovo villaggio, che
viveva soprattutto di pesca ed agricol-
tura, entrò a far parte del Ducato di
Sorrento, e nel XX accolse l'apertura
della linea tranviaria che collegava la
stazione di Castellammare di Stabia
direttamente con Sorrento, attraver-
sando tutta la penisola sorrentina.
Sempre in questo periodo la vocazione
turistica di Castellammare di Stabia,
soprattutto per le sue acque e le loro
proprietà curative, raggiunge l'apice.
Torre del Greco:
Torre del Greco (Torre 'o Grieco in
napoletano[2] e Torre 'u Grieco o sem-
plicemente 'a Torre in torrese) in epo-
ca romana, come testimoniano nume-
rosi reperti archeologici, era probabil-
mente un sobborgo residenziale di Er-
colano, dove erano sorte numerose
ville che godevano dall'amenità dei
luoghi e dalla posizione centrale all'in-
terno del golfo di Napoli.
Proprio come accadde con Ercolano,
Pompei, Stabia e Oplonti, la devastan-
te eruzione del Vesuvio del 79 d.C.
sconvolse anche questi luoghi, fino a
rimodellarne l'intero suolo e respingere
il mare per oltre 500 metri.
48
za di quello che ricoprì Ercolano e che
si solidifica in pietra durissima – ha
consentito che la Città giungesse inte-
gra fino ai nostri giorni non solo nelle
sue architetture, ma anche in tutto ciò
che era dentro le abitazioni o dentro i
negozi, offrendo un quadro del
quotidiano’ incredibilmente affascinan-
te.
La città dissepolta costituisce dunque
una eccezionale testimonianza storica
della civiltà romana: le memorie del
passato, così vive e tangibili nei resti
riportati alla luce, costituiscono il fa-
scino di oggi.
Quello che è emerso dal riempimento
di calchi, fatti con il gesso. Possiamo
scorgere la tremenda tragedia che si è
consumata e di come la grande eruzio-
ne abbia sterminato e ucciso. Crudele
ma allo stesso tempo affascinante,
sembra di rivivere quelle sensazioni di
paura e di orrore. Dalla posizione dei
calchi, possiamo dedurre che la morte
sia venuta ad opera dei gas nocivi che
l’eruzione ha disperso nell’aria, succes-
sivamente tutto è stato coperto da
cenere e lapilli incandescenti. Di questi
reperti ne sono stati trovati tantissimi
e ciò fa pensare che gli antichi non
abbiano nemmeno avuto il tempo di
scappare, senza quasi rendersene con-
to.
Ercolano
Gli scavi archeologici di Ercolano hanno
restituito i resti dell'antica città di Er-
colano, seppellita sotto una coltre di
ceneri, lapilli e fango durante l'eruzio-
ne del Vesuvio del 79, insieme a Pom-
pei, Stabiae ed Oplonti.
Ritrovata casualmente a seguito degli
scavi per la realizzazione di un pozzo
nel 1709, le indagini archeologiche ad
Ercolano cominciarono nel 1738 per
protrarsi fino al 1765; riprese nel 1823,
si interruppero nuovamente nel 1875,
fino ad uno scavo sistematico promosso
da Amedeo Maiuri a partire dal 1927: la
maggior parte dei reperti rinvenuti
sono ospitati al museo archeologico
nazionale di Napoli, nel 1997, insieme
alle rovine di Pompei ed Oplonti, è
entrato a far parte della lista dei patri-
moni dell'umanità dell'UNESCO, mentre
nel 2008 si è avuta la nascita del museo
archeologico virtuale che mostra la
città prima dell'eruzione del Vesuvio.
37
Intorno al II–III sec. d. C. il monte di-
venne l'abitazione del demonio o il
"fumaiolo dell'inferno", come lo definì
Tertulliano. Gli stessi San Gregorio Ma-
gno e San Pier Damiani lo paragonarono
all'inferno. Nell'XI secolo, l'abate Desi-
derio da Montecassino, in seguito Papa
Vittore III, raccontò un particolare epi-
sodio: una notte, un monaco napoleta-
no vide molti uomini neri, che traspor-
tavano "some cariche di paglia" lungo la
strada. Nonostante fosse fortemente
spaventato, chiese loro come intende-
vano utilizzare quelle grandi scorte.
Una voce che pareva giungere dall'ol-
tretomba rispose: "Noi siamo spiriti
maligni e prepariamo […] l'esca per
alimentare il fuoco che dovrà bruciare
gli uomini cattivi". Precisò anche che
presto sarebbero stati bruciati tali Pan-
dolfo principe di Capua e Giovanni duca
di Napoli. Orbene, i due morirono pro-
prio poco tempo dopo, mentre sul Ve-
suvio divampavano lingue di fuoco al-
tissime.
L. A. Villari riferisce un aneddoto sul
pittore napoletano Luca Giordano, che
avrebbe incontrato un diavolo sul Vesu-
vio, dopo aver rappresentato l'inferno
in un dipinto, spaventato dai compli-
menti che questi gli fece per averlo
raffigurato magnificamente, ritornò a
casa per distruggere il quadro e chie-
dere aiuto alla misericordia divina.
Ancora oggi, il vulcano è chiamato
monte dei diavoli e, com'è noto, sul
Vesuvio c'è una valle denominata Valle
dell'Inferno, che costituisce la parte
orientale della Valle del Gigante
(l'avvallamento che separa il Monte
Somma dal Vesuvio) e si oppone all'A-
trio del Cavallo, vicino alla Fossa del
Monaco, in cui – si racconta – fu in-
ghiottito un monaco che sul monte
aveva osato invocare "l'aiuto delle po-
tenze magiche per esaudire un deside-
rio inconfessabile". Il vulcano, sdegna-
tosi, vomitò un cavallo con occhi di
fuoco e una criniera di serpi che rag-
giunse il monaco in fuga e fece aprire
una voragine sotto i suoi piedi. Curiosa
la seguente composizione, una sorta di
formula di scongiuro contro l'eruzione
del Vesuvio, segno dell'ira divina susci-
tata dai peccati di Napoli. Fu scritta da
Padre Grimaldi per una lapide che non
fu mai realizzata.
Inoltre si racconta che contro le minac-
ce delle potenze infernali, il popolo
napoletano si affidò ai propri santi
protettori, e, di questi, solo uno era
capace di placare la forza del Vesuvio:
San Gennaro. Il binomio San Gennaro–
Vesuvio risale almeno al V secolo, peri-
odo cui viene fatto risalire un affresco,
ritrovato nelle cosiddette catacombe
di San Gennaro, che raffigura il patro-
38
no di Napoli accanto al Vesuvio. Nel
471, Papa Silverio I implorò l'aiuto di
San Gennaro. Da allora, seguirono nu-
merosi miracoli del Santo. "Presagio
fausto è", ancora oggi, "la liquefazione
del sangue di San Gennaro, da cui il
popolo deduce che non vi saranno du-
rante i mesi futuri né eruzioni né terre-
moti". Ma i documenti più numerosi
risalgono al Seicento. In Napoli nell'an-
no 1656, il medico Salvatore Renzi rac-
conta che il 2 luglio del 1658 veniva
posta sull'obelisco, eretto in onore di
San Gennaro – domatore del Vesuvio –
una statua del Santo, tra l'entusiasmo
generale del popolo, fiducioso che il
vulcano non avrebbe più eruttato. Eb-
bene, la sera del 3 luglio, accadde l'i-
nimmaginabile: il Vesuvio cominciò a
vomitare cenere e lapilli. Immediata-
mente, furono esposte le ampolle del
sangue del Santo e proclamata l'indul-
genza plenaria, così che furono tutti
assolti dai peccati: farabutti, briganti e
meretrici. "San Gennaro, contento di
tanta pubblica prova di devozione del
buon popolo", ordinò alla lava di arre-
starsi. Seguirono feste e processioni in
suo onore. Si trattava di processioni
molto pittoresche, cui partecipava una
fiumana di gente: i penitenti si flagel-
lavano, mostrando le ferite sanguinan-
ti; i monaci cospargevano il capo di
cenere del Vesuvio, recitando i salmi; e
talvolta le donne si legavano alle spalle
enormi croci di legno. Così, si giungeva
al Duomo per la benedizione dell'arci-
vescovo. Ma la bizzarria del popolo
napoletano è tale che non sempre si
richiedeva al Santo Patrono di rabboni-
re il vulcano. Qualche volta – incredibi-
le a dirsi – si richiese persino di ridar
vigore alla sua potenza. È il caso del
1952, quando si fece notare che, scom-
parso il pennacchio del Vesuvio, erano
scomparse anche le mance dei turisti, e
si giunse a supplicare tale Padre Alfa-
no: "Aiutateci voi. Dite una preghiera a
San Gennaro. Scongiuratelo di far com-
parire almeno un po' di fumo, sulla
cima del Vesuvio
Secondo una leggenda, fiorita dopo
l'eruzione del 1631, il simbolo della
napoletanità, Pulcinella, sarebbe pro-
prio nato dalle viscere del Vesuvio,
"uscendo dal guscio di un uovo compar-
so per volere di Plutone sulla sommità
del vulcano, grazie ad un impasto fatto
da due fattucchiere, che avevano chie-
sto un soccorritore per sanare situazio-
ni di ingiustizia e di oppressioni".
Il parco naturale del Vesuvio
Un altro componente del Vulcano at-
tualmente noto è il Parco Nazionale del
Vesuvio, nato il 5 giugno 1995 per il
grande interesse geologico, biologico e
storico che il suo territorio rappresen-
47
zioni e per la distribuzione non unifor-
me lungo tutto il complesso montano
del Somma-Vesuvio.
La superficie stimata è di circa 480
ettari (10% circa della Sau seminativi
dell’area), con produzioni annuali di
circa 4 mila tonnellate di prodotto fre-
sco, e rese oscillanti fra i 60 e i 150
quintali per ettaro.
Il riconoscimento della DOP e il rinno-
vato interesse commerciale verso tale
prodotto ha rivitalizzato l’intero com-
parto tanto che tutte le produzioni,
fresche e conservate, sono smaltite
rapidamente e senza alcuna difficoltà
soprattutto sul mercato locale, ma in
alcuni casi anche presso la moderna
distribuzione.
L’offerta di pomodorini in conserva o
in piennoli confezionati è ancora limi-
tata, ma in ogni caso, anche senza
un’adeguata politica di valorizzazione
del prodotto, rimane alto il livello di
qualità percepita dai consumatori e
quindi elevata è la richiesta del prodot-
to stesso.
Il Pomodorino del Vesuvio viene ap-
prezzato sul mercato sia allo stato fre-
sco, venduto appena raccolto sui mer-
cati locali, che nella tipica forma con-
servata in appesa -“al piennolo”-, op-
pure anche come conserva in vetro,
secondo un’antica ricetta familiare
dell’area, denominata “a pacchetelle”,
anch’essa contemplata nel disciplinare
di produzione della DOP.
Itinerari
Il Vesuvio con le sue mille immagini
rapisce la vista di qualsiasi individuo,
anche perché oltre alle bellezze natu-
rali che offre si possono ammirare la
sua azione dì “distruttrice” e
“creatrice”, rispettivamente visitando
Pompei ed Ercolano, e la zona di Ca-
stellamare di Stabia, Torre del Greco e
Boscoreale.
Primo itinerario – azione distruttiva del
Vesuvio - Pompei:
Pompei è una delle più significative
testimonianze della civiltà romana e si
presenta come un eccezionale libro
aperto sull’arte, sui costumi, sui me-
stieri, sulla vita quotidiana del passa-
to. La città è riemersa dal buio dei
secoli così come era al momento in cui
venne all’improvviso coperta da uno
spesso strato di ceneri fuoriuscite,
insieme alla lava, con la devastante
eruzione del Vesuvio.
Era il 79 dc. La tragedia fu immane: in
quello che era stato uno dei più attivi
e dei più splendidi centri romani la vita
si fermò per sempre. Lo spesso strato
di materiale eruttivo che lo sommerse,
costituito in gran parte da ceneri e
lapilli – materiale non duro a differen-
46
una grande versatilità in cucina. Accan-
to ai tradizionali spaghetti alle vongole
e agli altri frutti di mare, gli chef locali
si impegnano ad utilizzarlo in tanti altri
piatti, tra cui una variante alla preliba-
ta pizza napoletana.
Si utilizzano per le cotture veloci, co-
me il pesce all’acquapazza, ed eccel-
lenti anche con la carne alla pizzaiola,
ovvero fettine cotte in un semplice
sughetto di pomodorini preparato
all’istante, che poi, una volta estratta
la carne, serve per condire i macchero-
ni. Così, per molti mesi, si possono
condire i piatti di pesce, le pizze e le
paste della tradizione campana con una
“pummarola” straordinariamente sapo-
rita.
Da sempre questi pomodori hanno co-
stituito il veloce spuntino di mezza
mattina dei contadini nei campi, un
pomodoro “schiattato” sul pane, un filo
d’olio, sale e basilico.
Area di produzione
L’area tipica di produzione e conserva-
zione del pomodorino del piennolo
coincide con l’intera estensione del
complesso vulcanico del Somma-
Vesuvio, includendo le sue pendici de-
gradanti sino quasi al livello del mare.
In particolare, la zona di produzione e
condizionamento prevista dal discipli-
nare del “Pomodorino del Piennolo del
Vesuvio DOP” comprende:
• l’intero territorio dei seguenti comu-
ni della provincia di Napoli: Boscoreale,
Boscotrecase, Cercola, Ercolano, Massa
Di Somma, Ottaviano, Pollena Trocchia,
Portici, Sant’Anastasia, San Giorgio a
Cremano, San Giuseppe Vesuviano, San
Sebastiano al Vesuvio, Somma Vesuvia-
na, Terzigno, Torre Annunziata, Torre
del Greco, Trecase;
• la parte del territorio del comune di
Nola delimitata perimetralmente: dalla
strada provinciale Piazzola di Nola –
Rione Trieste (per il tratto che va sotto
il nome di “Costantinopoli”), dal
“Lagno Rosario”, dal limite del comune
di Ottaviano e dal limite del comune di
Somma Vesuviana.
Dati economici e produttivi
La diffusione del “Pomodorino del Pien-
nolo del Vesuvio DOP” nell’area vesu-
viana è piuttosto frammentata, per
l’elevata parcellizzazione delle coltiva-
39
ta. La sua sede è collocata nel comune
di Ottaviano. È stato istituito principal-
mente per conservare i valori del terri-
torio e dell'ambiente, e la loro integra-
zione con l'uomo; salvaguardare le spe-
cie animali e vegetali, nonché le singo-
larità geologiche; promuovere attività
di educazione ambientale, di formazio-
ne e di ricerca scientifica.
Il versante vesuviano e quello sommano
differiscono notevolmente dal punto di
vista naturalistico, il primo è più arido,
è stato in gran parte riforestato per
impedire fenomeni franosi e presenta
le caratteristiche successioni vegeta-
zionali della macchia mediterranea; il
versante del Somma, più umido, è ca-
ratterizzato dalla presenza di boschi
misti.
La flora presente nel territorio della
Riserva è comunque di tipo essenzial-
mente mediterraneo; da numerosi studi
riportati in letteratura risulta che il
complesso vulcanico è stato colonizzato
da più di 900 specie, considerando
quelle estinte e quelle la cui colonizza-
zione è recente.
Oggi molte delle specie presenti in
passato non sono più state rinvenute;
l’impoverimento del patrimonio flori-
stico vesuviano va certamente ricon-
dotto all’accentuarsi della antropizza-
zione, soprattutto negli ultimi decenni.
Da studi recenti si è appurata la pre-
senza attualmente di 610 entità, delle
quali oltre il 40% è costituito da specie
mediterranee, il 20% è rappresentato
da specie cosmopolite, mentre sono
poco rappresentate le specie endemi-
che, con solo 18 entità, probabilmente
a causa delle numerose ricolonizzazioni
che hanno seguito le cicliche manife-
stazioni eruttive del vulcano. Tra que-
ste ultime, quella che può considerarsi
veramente rara è la Silene giraldi, pre-
sente, oltre che sul Vesuvio, anche a
Capri ed a Ischia; degna di nota è la
ginestra dell’Etna (Genista aetnensis),
un endemita etneo introdotto sul Vesu-
vio dopo l’eruzione del 1906, che in
alcune zone,come nell’Atrio del Caval-
lo e nella Valle dell’Inferno, forma
delle boscaglie impenetrabili.
Sui suoli lavici vesuviani si osserva la
colonizzazione vegetale che parte ad
opera dello Stereocaulon vesuvianum,
un lichene coralliforme tipico di
quest’area, dominante incontrastato
soprattutto sulle colate laviche più
recenti, dal tipico aspetto grigio e fila-
mentoso. Il lichene ricopre interamen-
te le lave vesuviane e le colora di gri-
gio, facendo assumere alla lava riflessi
argentati nelle notti di luna piena.
Sulle colate più antiche allo Stereocau-
lon vesuvianum si affiancano le altre
specie pioniere, tra cui la valeriana
40
rossa (Centranthus ruber), l'elicriso
(Helichrysum litoreum), l'artemisia
(Artemisia campestris).
Le associazioni pioniere preparano il
terreno per l'instaurarsi di estesi gine-
streti, che imprimono un aspetto carat-
teristico ai versanti del Vesuvio, so-
prattutto in periodo primaverile duran-
te le fioriture; sono presenti tre specie
di ginestra: la ginestra dei carbonai
(Cytisus scoparius), la ginestra odorosa
(Spartium junceum) e la già citata gi-
nestra dell'Etna (Genista aetnensis).
Sul versante meridionale del vulcano,
l’originale vegetazione mediterranea
del Vesuvio è stata in buona parte so-
stituita dal pino domestico (Pinus pine-
a); a partire degli anni ’90 è iniziata
un’opera di sfoltimento delle pinete
per lasciare il posto alle essenze medi-
terranee della zona, e in particolare al
leccio (Quercus ilex).
Tra lecci e pini, il rigoglioso sottobosco
include il biancospino (Crataegus mo-
nogyna), la fusaggine (Euonymus euro-
paeus) e lo smilace (Smilax aspera). La
vegetazione mediterranea si compone
di lentisco (Pistacia lentiscus), mirto
(Myrtus communis), alloro (Laurus nobi-
lis), fillirea (Philllirea latifolia), origano
(Origanum vulgare) e rosmarino
(Rosmarinus officinalis). Tra la prima-
vera e l’state fioriscono, come già evi-
denziato, ben 23 specie di orchidee
selvatiche; le più visibili sono la Orchis
papillonacea e la Orphys sphegodes.
Le pendici settentrionali del monte
Somma, che, come già detto, sono più
umide, sono invece coperte da ampi
castagneti fino a quota 900 mt; a quote
superiori prevalgono, invece, i boschi
misti di latifoglie, ricchi di sottobosco e
costituiti, oltre che dal castagno
(Castanea sativa), da roverella
(Quercus pubescens), carpino nero
(Ostrya carpinifolia), orniello (Fraxinus
ornus), ontano napoletano (Alnus gluti-
nosa), varie specie di acero (Acer
spp.), e resi ancora più interessanti per
la presenza di alcuni nuclei sparsi di
betulla (Betula pendula), relitto di bo-
schi mesofili presenti nell'area in passa-
to; esemplari di betulla sono presenti
anche nella Valle del Gigante. Dove
l'umidità è maggiore, alle specie arbo-
ree citate si affiancano anche i pioppi
(Populus spp.) e varie specie di salici
(Salix spp.).
Il sottobosco è particolarmente ricco;
tra le specie maggiormente diffuse
citiamo il pungitopo (Ruscus aculea-
tus), lo smilace (Smilax aspera), il bian-
cospino (Crataegus monogyna), il ligu-
stro (Ligustrum vulgaris), e numerose
famiglie di felci.
La caratterizzazione climatica,
l’attività eruttiva, che a più riprese ha
cancellato la vegetazione, ed il profon-
do rimaneggiamento dovuto alla co-
45
nianze storiche più illustri, notizie sul
prodotto sono riportate dal Bruni, nel
1858, nel suo “Degli ortaggi e loro col-
tivazione presso la città di Napoli”, ove
parla di pomodori a ciliegia, molto sa-
poriti, che “si mantengono ottimi fino
in primavera, purché legati in serti e
sospesi alle soffitte”.
Altra fonte letteraria attendibile è
quella di Palmieri, che sull’Annuario
della Reale Scuola Superiore
d’Agricoltura in Portici (attuale Facoltà
di Agraria), del 1885, parla della prati-
ca nell’area vesuviana di conservare le
bacche della varietà p’appennere in
luoghi ombrati e ventilati.
Francesco De Rosa, altro professore
della Scuola di Portici, su “Italia Orti-
cola” del novembre 1902, precisava
che la vecchia “cerasella” vesuviana
era stata via via sostituita dal tipo “a
fiaschetto”, più indicato per la conser-
vazione al piennolo. Il De Rosa è anche
il primo ricercatore che riporta in modo
esaustivo l’intera tecnica di coltivazio-
ne dei pomodorini vesuviani, facendo
intendere così che si stava sviluppando
nell’area un’intera economia intorno a
questo prodotto, dalla produzione delle
piantine da seme alla vendita del pro-
dotto conservato.
Anche il prof. Marzio Cozzolino, della
Facoltà di Agraria di Portici, nel suo
testo del 1916, concorda con le fonti
precedenti, sia sulla descrizione varie-
tale che sui metodi di produzione, de-
dicando intere parti del testo a descri-
vere minuziosamente la tecnica coltu-
rale e soprattutto fornendo dati, anche
economici, che aiutano a capire la la-
boriosità e la complessità di questa
tipologia di prodotto.
Coltura
Il Pomodorino del Piennolo del Vesuvio
si coltiva con un metodo tradizionale,
che prevede l’ausilio di sostegni con
paletti di legno e filo di ferro, che evi-
tano che le bacche tocchino terra e
fanno sì che ricevano uniformemente i
raggi solari. I pomodori, del peso di
circa 25-30 grammi, sono rotondi e
presentano un piccolo pizzo
all’estremità inferiore.
La tecnica di conservazione tradizio-
nale vuole che si formino dei
“Piennoli”, cioè pendoli: grappoli inte-
ri, raccolti tra luglio e agosto, sistema-
ti su un filo di canapa legato a cerchio,
per comporre un unico grande grappo-
lo, conservato sospeso in luoghi asciut-
ti e ventilati. Questo sistema favorisce
una lenta maturazione e consente di
avere “oro rosso fresco” fino alla pri-
mavera seguente all’anno della coltiva-
zione.
In cucina
Il “Pomodorino del Piennolo del Vesu-
vio DOP” per le sue qualità è un ingre-
diente fondamentale della cucina na-
poletana e campana in generale, ed ha
44
Il piennolo
Arrivato dalla lontana America, il po-
modoro ha trovato nel Napoletano il
suo habitat ideale, prosperando ed
evolvendosi verso specie domestiche
sempre più pregiate. La sua coltivazio-
ne è divenuta una vera e propria arte e
la tradizionalità di questa produzione
sin dal XVIII secolo è documentata da
numerose fonti bibliografiche nonché
dall'abitudine di riprodurre i pomodori-
ni fra gli ortaggi del presepe.
Una delle produzioni più caratteristiche
dell’area del Vesuvio sono i pomodorini
da serbo “col pizzo”, detti anche spon-
gilli o piénnoli (“pendoli”) per
l’abitudine di appenderli alle pareti o
ai soffitti, riuniti in grappoli
(schiocche) e legati con cordicelle di
canapa. Sono piccoli pomodori (20-25
grammi) dalla forma a ciliegia, che si
distinguono dagli ormai famosi pomo-
dorini di Pachino per la presenza di due
solchi laterali (detti coste) che partono
dal picciolo e danno origine a delle
squadrature, e di una punta, un
“pizzo”, all’estremità.
La buccia è spessa e resistente, la pol-
pa soda e compatta, povera di succo,
prosciugata dal sole che splende sui
terreni aridi del vulcano. Si seminano
in marzo-aprile e maturano tra luglio e
agosto, ma l’antico procedimento di
conservazione prevede che li si raccol-
ga a grappoli interi all’inizio dell’estate
per conservarli, appesi in locali con
adeguata temperatura e umidità, fino
all’inverno o addirittura alla primavera
successiva.
Sapore e profumo diventano più intensi
con il passare del tempo: man mano
che i pomodori asciugano e la concen-
trazione aumenta. Il Pomodorino è ric-
co di Vitamina A e C, di cui sono noti
da tempo gli effetti anticancerogeni, di
sali minerali quali Calcio, Fosforo e
Potassio, indispensabili per il corretto
funzionamento del cuore e dei muscoli,
e di Licopene, che esercita
nell’organismo un’azione antiossidante,
stimolando la produzione di enzimi che
bloccano l’azione cancerogena dei radi-
cali liberi.
Cenni storici
La coltivazione del Pomodorino del
Piennolo sulle falde del Vesuvio ha sen-
za dubbio radici antiche e ben docu-
mentate. Per limitarci alle testimo-
41
stante presenza dell'uomo, sono alla
base della coesistenza, in un territorio
relativamente poco ampio, di così tanti
ambienti, diversi fra loro ed in varie
fasi di evoluzione.
Nonostante l’area del Parco sia com-
pletamente inserita in un contesto e-
stremamente antropizzato, ed abbia
assunto le caratteristiche tipiche di
un'isola biogeografica, il suo popola-
mento faunistico è notevolmente inte-
ressante. Anche la fauna è stata prota-
gonista, come le specie vegetali, di
ripetute colonizzazioni a seguito delle
cicliche eruzioni del Vesuvio, ma la
vicinanza alla fascia costiera, il fatto di
essere l'unico complesso montuoso si-
tuato al centro della pianura nolana,
unitamente alle favorevoli condizioni
climatiche ed alla grande diversità am-
bientale, hanno contribuito a consenti-
re il mantenimento, in un territorio di
modesta estensione, di una interessan-
te comunità faunistica. Soprattutto le
fasce ecotonali a confine tra i numerosi
agrosistemi hanno creato le condizioni
favorevoli all'instaurarsi di una comuni-
tà animale ricca e diversificata. Tra i
vertebrati sono state recentemente
accertate 2 specie di anfibi, 8 specie di
rettili, 138 specie di uccelli, 29 specie
di mammiferi, mentre tra gli inverte-
brati si contano 44 specie di lepidotteri
diurni, 8 famiglie di apoidei e formici-
di, tutte rappresentate da numerose
specie, e molti altri taxa, in parte an-
cora da studiare e catalogare, in parte
descritti in una recente pubblicazione
sulla biodiversità del Parco del Vesuvio
(Picariello, Di Fusco e Fraissinet,
2000).
Gli anfibi presenti sono il rospo smeral-
dino (Bufo viridis) e la rana verde
(Rana esculenta); il primo è piuttosto
diffuso nel territorio del Parco alle
quote medio-basse, e per favorirne la
riproduzione l'Ente ha predisposto la
costruzione di stagni artificiali tempo-
ranei, la seconda è invece molto loca-
lizzata, laddove sono presenti pozze o
vasche artificiali. Tra i rettili sono de-
gni di nota il cervone (Elaphe quatorli-
neata) ed il saettone (Elaphe longissi-
ma), entrambi molto rari. Per quanto
riguarda i mammiferi, sono da segnala-
re il ghiro (Glis glis), il topo quercino
(Eliomys quercinus), il mustiolo (Suncus
etruscus), la crocidura minore
(Crocidura suaveolens), il topo selvati-
co (Apodemus sylvaticus) ed il moscar-
dino (Muscardinus avellanarius), so-
prattutto negli ambienti boscati, oltre
al riccio (Erinaceus europaeus), pre-
sente il tutto il territorio protetto. Due
le specie di lagomorfi accertate: il
coniglio selvatico (Oryctolagus cunicu-
lus), protagonista di una notevole e-
spansione demografica, e la lepre eu-
ropea (Lepus europaeus), presente
42
soprattutto alle quote medio-alte con
una discreta densità di popolazione.
I predatori sono rappresentati dalla
volpe (Vulpes vulpes), diffusa in tutti
gli habitat del territorio vesuviano,
compresi quelli densamente antropiz-
zati, la faina (Martes foina), anch'essa
presente in tutto il territorio, predili-
gendo però gli ambienti forestali, e la
donnola (mustela nivalis), comune so-
prattutto nel versante sommano.
La classe degli uccelli rappresenta sicu-
ramente il taxon più ricco del Parco
nazionale del Vesuvio; a parte le specie
nidificanti e svernanti, il complesso del
Somma-Vesuvio, essendo posto lungo le
rotte migratorie dell'avifauna del Pale-
artico occidentale, ed essendo l’unico
rilievo montuoso isolato di una certa
importanza in una vasta area pianeg-
giante, riveste una fondamentale im-
portanza ed un sicuro riferimento per
numerosi migratori che vi sostano du-
rante i passi; tra questi vale la pena
citare il falco di palude (Circus aerugi-
nosus), il gruccione (Merops apiaster),
l'averla capirossa (Lanius senator). Le
specie nidificanti sono 62, un numero
di tutto rispetto considerata la limitata
estensione del territorio, costituito tra
l’altro in gran parte di roccia lavica.
Tra le nidificazioni più interessanti si
citano tre-quattro coppie di poiana
(buteo buteo), una-due coppie di falco
pecchiaiolo (Pernis apivorus), due cop-
pie di sparviere (Accipiter nisus), tor-
nato a nidificare in seguito
all’istituzione del Parco nazionale del
Vesuvio, cinque coppie di gheppio
(Falco tinnunculus) e due di pellegrino
(Falco peregrinus).
Inoltre il territorio, ricco di bellezze
storiche e naturalistiche, vanta una
produzione agricola unica per varietà e
originalità di sapori.
La produzione agricola vesuviana.
Per quanto riguarda la produzione agri-
cola verso le basse e fertili pendici,
ricche di silicio e potassio, (materiali
preziosi per la vegetazione), permane
la zona orticola, dove è intensamente
ricoperta di frutta, legumi, agrumi
(albicocche, ciliege, mandarini, noci,
noccioline, fichi, arance, pomodori,
fave, piselli, zucchine, cavolfiori, car-
ciofi, broccoli, finocchi, ecc). Nei cam-
pi vesuviani è rimasto vivo soprattutto
l’antico culto latino per il vino. Infatti
fino ai 400-500 m di altura domina la
vite e, il buon vino che si consiglia di
gustare è il cosiddetto “caprettone”, il
cui vero nome è la Coda di Volpe. Tra i
vini pregiati del Vesuvio ricordiamo
anche quello ricavato dall’uva Falan-
ghina e Lacryma Christi, quest’ultimo
lo si ottiene dai grappoli d’uva del Pie-
dirosso del Vesuvio.
La coltivazione della vite sul Vesuvio
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risale ad epoca antichissima. Da Aristo-
tele viene citato che i Tessali, antico
popolo della Magna Grecia, piantarono
le prime viti nella zona vesuviana quan-
do nel V secolo a.C. si stabilirono in
Campania. Tanti poeti latini, inoltre,
tra cui Sallustio, Plinio e Marziale, han-
no lasciato qualche testimonianza. Nel-
la cultura romana si ignorava che il
Vesuvio fosse un vulcano attivo, ma era
ben nota la fertilità delle sue pendici
che erano ammantate quasi interamen-
te da vigneti, per cui le falde del mon-
te erano tutto un susseguirsi di ville
rustiche, preposte alla coltivazione
della vite ed alla produzione del vino.
Alcune di queste ville sono state rinve-
nute ed in esse è ancora visibile la
struttura modellata in funzione della
produzione del vino a riprova dell'im-
portanza della viticoltura nella vita del
circondario pompeiano.
Lacryma Christi
Esistono vari miti e leggende sul nome
del vino: "Dio riconoscendo nel Golfo di
Napoli un lembo di cielo strappato da
Lucifero durante la caduta verso gl'in-
feri, pianse e laddove caddero le lacri-
me divine sorse la vite del Lacrima
Christi".
Un'altra versione narra invece di Cristo
in visita ad un eremita redento che
prima del commiato gli trasforma la
sua bevanda poco potabile in vino ec-
cellente. Versioni cristiane ereditate
dalla mitologia pagana ben radicata sin
dai primi insediamenti umani come
dimostrano l'affresco di Bacco sul Vesu-
vio conservato nella Casa del Centena-
rio a Pompei e le sue infinite presenze
nei resti romani scampati all'eruzione
del 79 d.C., la più antica di cui si abbia
testimonianza scritta.
Sulla leggenda ritornò Curzio Malaparte
che ne "La pelle", invita a bere "questo
sacro, antico vino".
Il Lacryma Christi veniva prodotto negli
antichi tempi da certi monaci, il cui
convento sorgeva sulle pendici del Ve-
suvio. Sembra che più tardi i Padri Ge-
suiti, padroni di vaste terre in quelle
località, fossero quasi esclusivi produt-
tori e detentori di questo prezioso vi-
no.Per quanto siano radicate le tradi-
zioni del Lacryma Christi, l'istituzione
della DOC è piuttosto recente e risale
al 1983.