Università degli studi di Roma “La Sapienza”
Facoltà di ingegneria
Corso di Laurea in Ingegneria dei Materiali
Cattedra di Scienza e Tecnologia dei materiali aeronautici e aerospaziali
Compositi epossidici nanostrutturati basati su nanotubi di carbonio
Candidato
Giovanni De Bellis
Matricola 784416
Anno Accademico 2006/2007
Relatore Correlatore
Prof. Gilberto Rinaldi Dott. Stefano Bellucci
Alla mia famiglia
e a tutti coloro che hanno creduto
in me, restandomi vicini
con il bello e il cattivo tempo
Indice
Introduzione I
Capitolo 1. Dal Macro al Nanomondo
1.1 Materiali compositi 1
1.1.1 Breve storia dei materiali compositi 1
1.1.2 Tipi di compositi e fillers 2
1.1.3 Proprietà generali dei compositi 7
1.2 Nanotecnologia e nanostrutture 22
1.2.1 Introduzione alle nanotecnologie 22
1.2.2 Nanostrutture 26
1.2.3 Proprietà dei nanomateriali 28
1.2.4 Applicazioni dei nanomateriali 38
1.3 Nanotubi di carbonio 49
1.3.1 Introduzione 49
1.3.2 Allotropi del carbonio 50
1.3.3 Struttura dei nanotubi di carbonio 55
1.3.4 Difetti dei nanotubi di carbonio 60
1.3.5 Metodi di sintesi dei CNTs 63
1.3.6 Meccanismi di crescita dei nanotubi 66
1.3.7 Metodi di purificazione e funzionalizzazione 71
1.3.8 Proprietà dei CNT 74
1.3.9 Applicazioni dei nanotubi di C 80
1.3.10 Caratterizzazione dei CNTs 88
Capitolo 2. Parte sperimentale
2.1 Materiali utilizzati 100
2.1.1 Resina epossidica 100
2.1.2 Indurente 102
2.1.3 Grafite 104
2.1.4 Nanotubi di carbonio 104
2.2 Sintesi dei nanotubi di carbonio 108
2.2.1 Scarica ad arco di plasma 108
2.3 Realizzazione dei provini 118
2.3.1 Preparazione dei provini per test di trazione 124
2.3.2 Preparazione dei provini per test di resilienza 127
2.4 Risultati e discussione 128
2.4.1 Caratterizzazione dei nanotubi 128
2.4.2 Prove di trazione 136
2.4.3 Prove di resilienza 160
2.4.4 Prove di durezza 166
Capitolo 3. Conclusioni e prospettive future
Conclusioni 169
Prospettive future 171
Bibliografia 173
Introduzione
Lo studio dei nanocompositi costituisce un campo di recente interesse,
grazie al successo che l’avvento delle nanotecnologie ha avuto sulla comunità
scientifica e industriale. Fullereni, nanotubi di carbonio e nanostrutture in genere,
sono stati e sono tuttora utilizzati nei più disparati campi, in virtù delle loro
peculiari caratteristiche, come “cariche” di materiali più convenzionali, quali
resine termoplastiche e termoindurenti, materiali metallici e ceramici avanzati. I
compositi polimerici sono importanti materiali commerciali con applicazioni che
includono elastomeri caricati per lo smorzamento (damping), isolanti elettrici,
conduttori termici e compositi per aeromobili ad alte prestazioni. Per creare
compositi con proprietà ad hoc, vengono scelti materiali con caratteristiche
sinergiche; ad esempio, le fibre di carbonio ad alto modulo elastico ma
intrinsecamente fragili, vengono aggiunte a polimeri con basso modulo di Young
per creare compositi leggeri, di elevata rigidità e con una certa tenacità.
.
Tuttavia, negli ultimi anni sono stati raggiunti i limiti di ottimizzazione
delle proprietà dei compositi caricati con i tradizionali fillers micrometrici, perché
le proprietà raggiunte comportano in genere dei compromessi (ad es. la rigidità
può venire sacrificata in favore della tenacità). Inoltre, i difetti macroscopici
presenti nelle regioni a bassa o alta frazione volumetrica del riempitivo, portano
spesso al degrado, se non alla rottura del manufatto. Recentemente, si è aperta
un’ampia finestra di opportunità per supplire alle limitazioni dei tradizionali
Fig. 1 Modello della molecola del C60 (Fullerene)
Introduzione
II
compositi polimerici a carica micrometrica, grazie all’introduzione dei compositi
a matrice polimerica con filler nanometrici, nei quali il riempitivo presenta
dimensioni <100nm (nanometri) lungo almeno uno degli assi.
Sebbene alcuni compositi nanocaricati (come i polimeri caricati con
carbon black e fumi di silice) siano stati utilizzati per più di un secolo, soltanto
negli ultimi anni si è avvertita la forte crescita della ricerca e sviluppo dei
nanocompositi, questo per diverse ragioni. Innanzitutto, in alcuni nanocompositi è
stata osservata una combinazione di proprietà senza precedenti. Ad esempio,
caricando una resina epossidica con una frazione volumetrica del solo 0.04% di
MCT (mica-type silicates), si ottiene un aumento del modulo elastico del 58% al
di sotto della Tg, e del 450% nella regione al di sopra della temperatura di
transizione vetrosa. La seconda ragione per il grande aumento delle ricerche e
degli sforzi per lo sviluppo, è stata la scoperta nel 1991 dei nanotubi di carbonio.
Sebbene un’analisi più approfondita, abbia mostrato che in realtà i nanotubi di
carbonio erano già stati osservati negli anni ’60, è stato solo nella metà degli anni
’90 che essi furono prodotti in quantità adatte alla valutazione delle proprietà dei
compositi [1]. Le proprietà dei nanotubi di carbonio, in particolare la loro
resistenza e le proprietà elettriche, sono sensibilmente diverse da quelle della
grafite ed offrono possibilità enormi per i nuovi materiali compositi. In ultima
analisi, lo sviluppo di tecniche inerenti alla chimica di produzione di
nanoparticelle e nanocompositi, ha portato a un controllo senza precedenti sulla
morfologia di questi ultimi, come pure l’abilità quasi infinita nel controllo
dell’interfaccia tra matrice e filler. Nonostante la comunità scientifica abbia fatto
progressi nella lavorazione dei nanocompositi, stiamo soltanto cominciando a
mettere insieme i gruppi interdisciplinari per comprenderne, adattarne ed
ottimizzarne le proprietà. Tuttavia è stata acquisita la capacità di cambiare forma
dimensione, frazione volumetrica, interfaccia e grado di dispersione o
aggregazione. Quando i supporti teorici e sperimentali avranno messo insieme
abbastanza informazioni da guidare ulteriori sviluppi, potranno aprirsi infinite
opportunità.
Una domanda importante che bisogna porsi adesso, è: “Cos’è che rende
uniche le nanocariche rispetto alle tradizionali cariche micrometriche, e come si
Introduzione
III
relazionano i nanocompositi con le loro controparti macroscopiche?” La
differenza più ovvia è la piccola dimensione delle cariche. Ad esempio le piccole
dimensioni significano che le particelle non creano elevate concentrazioni di
sforzi e quindi non compromettono la duttilità del polimero.
La piccola dimensione delle nanocariche può anche portare a proprietà
uniche delle particelle stesse. Ad esempio i nanotubi a parete singola sono
essenzialmente molecole prive di difetti e presentano un modulo elastico di circa 1
TPa e carichi di rottura che possono arrivare a 500 GPa. In aggiunta all’effetto
delle dimensioni sulle proprietà delle nanoparticelle, la piccola taglia delle cariche
porta ad una superficie all’interfaccia nei compositi eccezionalmente estesa. In
figura 2 è mostrata la variazione dell’area superficiale per unità di volume in
funzione della dimensione delle particelle, nel caso in cui queste ultime siano
sferiche e con l’ipotesi di dispersione ideale. E’ evidente l’enorme aumento
dell’area superficiale sotto i 100 nm. L’interfaccia controlla l’entità
dell’interazione tra il filler ed il polimero, determinando le proprietà finali del
composito. Ne consegue immediatamente che la maggiore sfida nello sviluppo dei
nanocompositi, potrebbe essere imparare a controllare la regione interfacciale,
cioè “quella regione che comincia nel punto della fibra, in cui le proprietà
differiscono da quelle della carica in bulk, e termina nel punto della matrice in cui
le proprietà divengono uguali a quelle della matrice in bulk” [2]. Può essere una
Fig. 2 Andamento del rapporto dell'area superficiale/volume unitario, in funzione
della dimensione delle particelle sferiche, nel caso di dispersione ideale
Introduzione
IV
regione dalla struttura chimica alterata, o nella quale è alterata la mobilità delle
catene polimeriche, il grado di reticolazione o ancora la cristallinità. L’estensione
della regione interfacciale può variare dai 2 ai 50 nm circa. Per migliorare le
proprietà dei nuovi nanocompositi, risultano cruciali i metodi di processamento
che portano al controllo della distribuzione dimensionale, della dispersione e delle
interazioni interfacciali. Le tecniche di lavorazione dei nanocompositi sono
diverse da quelle utilizzate per i compositi con fillers micrometrici; ecco perché
tra le ragioni del recente successo troviamo i nuovi sviluppi nei nanocompositi.
Capitolo 1
Dal Macro
al
nanomondo
1
Capitolo 1
1.1-Materiali compositi
1.1.1-Breve storia dei materiali compositi
I primi compositi, ottenuti miscelando paglia e argilla (o fango), furono
utilizzati fin dall’antichità per la produzione di mattoni per le abitazioni: la paglia
costituiva il rinforzo mentre l’argilla, o il fango, costituiva la matrice. In tempi
meno remoti, possiamo ricordare che il cemento rinforzato con i tondini metallici
è ormai comunemente utilizzato da più di 150 anni nella costruzione di edifici,
ponti, come anche di statue e opere d’arte. Nello sviluppo di tutti questi prodotti
ha giocato un ruolo fondamentale l’orientamento delle fibre e la disposizione del
rinforzo in genere. Oggi ciò che rappresenta lo “stato dell’arte” nei compositi è la
scelta delle giuste fibre con la matrice opportuna e la valutazione della posizione e
dell’orientamento delle prime per ottimizzare il prodotto. Se l’uomo ha cercato di
dire la sua già in epoche molto antiche, non si può dire che la natura sia stata da
meno. Tra i compositi “naturali” possiamo, infatti, annoverare strutture
eccezionali come le ossa o il legno. Nelle ossa la struttura di base è composta di
una “rete” di collagene, costituente il rinforzo, immersa in una matrice di
idrossiapatite, formata da Calcio, Sodio, Fosforo, Magnesio e Fluoro. Entrambi i
materiali contribuiscono a caratterizzare il comportamento meccanico delle ossa,
poiché le fibre di collagene resistono ai carichi di trazione, mentre la matrice
Fig. 1 Struttura delle ossa
2
resiste ai carichi di compressione. Analogamente alle ossa, anche il legno
costituisce un brillante esempio di composito naturale, formato da un rinforzo di
fibre di cellulosa orientate prevalentemente in direzione longitudinale, contenute
in una matrice di lignina. La disposizione fortemente orientata di tali fibre
comporta un’elevata anisotropia delle caratteristiche meccaniche del legno nelle
diverse direzioni di sollecitazione. Al giorno d’oggi con il termine “composito” o
materiale composito, ci si riferisce ad una combinazione matrice-rinforzo
altamente ingegnerizzata, espressamente ideata per rispondere alle specifiche di
un mercato sempre più esigente.
1.1.2-Tipi di compositi e fillers
Un materiale composito è la combinazione, su scala macroscopica, di due
o più materiali distinti e insolubili, aventi un’interfaccia ben individuabile. I
compositi non sono utilizzati soltanto per le loro caratteristiche meccaniche, ma
anche per quelle elettriche, termiche, tribologiche e ambientali. I moderni
materiali compositi sono generalmente ottimizzati per raggiungere un particolare
bilanciamento di diverse proprietà, in un dato range di applicazioni. Non è
agevole dare una definizione semplice ed univoca di materiale composito, dato il
gran numero di materiali che possono essere considerati tali e l’ampio spettro di
campi di applicazione entro i quali essi possono venir sviluppati. Tuttavia, come
definizione pratica comunemente accettata, la parola “composito” indica
Fig. 2 Micrografia SEM e struttura del legno.
3
prevalentemente quei materiali contenenti una matrice continua, che lega insieme
un array di rinforzi più rigidi e resistenti, garantendone la forma [3]. Il composito
ottenuto presenta caratteristiche meccaniche superiori ad entrambi i suoi
costituenti, presi singolarmente, risultante da un meccanismo di “load-sharing”.
Nonostante i compositi ottimizzati per altre proprietà funzionali (al di là
dell’efficienza strutturale) possano essere prodotti a partire da diverse
combinazioni dei costituenti di base, che si accordino alla precedente definizione
“strutturale”, si è visto che quelli sviluppati per applicazioni strutturali
garantiscono prestazioni interessanti anche nelle altre aree funzionali. Ecco perché
la semplice definizione data in precedenza ben si adatta a gran parte degli attuali
compositi funzionali. I compositi contengono generalmente una fase fibrosa o
particellare che è più rigida e resistente della matrice continua. Molti tipi di
rinforzi mostrano spesso anche una buona conducibilità elettrica e termica, un
coefficiente di espansione termica inferiore a quello della matrice ed una buona
resistenza all’usura. Ci sono tuttavia delle eccezioni che possono ancora essere
considerate compositi, come ad esempio le gomme modificate, nelle quali la fase
discontinua, più duttile della matrice polimerica, provoca un incremento di
tenacità. Analogamente i fili di acciaio sono stati utilizzati come rinforzo delle
ghise colate nei freni degli autoarticolati.
Esistono diversi metodi per classificare i materiali compositi. Un primo metodo è
quello secondo il quale i compositi sono contraddistinti in base al tipo di matrice
presente. Secondo questa classificazione, essi vengono distinti in :
Compositi a matrice metallica (MMC);
Compositi a matrice ceramica (CMC);
Compositi a matrice polimerica (PMC).
In ognuno di questi sistemi la matrice costituisce una fase continua attraverso tutto
il componente. Nei compositi “metallici” e “polimerici”, essendo la matrice già di
per sé duttile, il compito del riempitivo è in genere quello di conferire rigidità al
materiale finale, nonché caratteristiche specifiche a seconda della particolare
applicazione. Nei compositi a matrice ceramica invece, essendo quest’ultima
4
generalmente fragile, il compito del filler è quello di aumentarne la tenacità, che
rimane comunque sostanzialmente modesta, al massimo di poco superiore a quella
di una buona ghisa (~20 MPa 𝑚).
Il secondo tipo di classificazione fa invece riferimento al tipo ed alla forma del
riempitivo utilizzato. Stando a questa classificazione i possibili rinforzi si
distinguono in (Fig. 3):
particellari;
a fibre corte;
a fibre lunghe;
Whiskers;
Per ottenere un sostanziale incremento delle proprietà nel composito finale, il
rinforzo deve essere aggiunto in frazioni volumetriche almeno dell’ordine del
10%. Tale rinforzo è considerato “particellare” se le sue dimensioni sono
all’incirca uguali lungo tutti gli assi. In questa categoria rientrano quindi anche i
fiocchi, le sfere e qualsiasi altra forma che garantisca una certa equiassialità. I
whiskers presentano, al contrario, una elevata orientazione, con rapporti tra
lunghezza e diametro (aspect ratio) dell’ordine dei 20-100. I whiskers e le
particelle sono generalmente considerati dei rinforzi di tipo discontinuo, a meno di
non arrivare a frazioni volumetriche che garantiscano la formazione di un network
continuo all’interno della matrice. Quando le particelle sono utilizzate come
riempitivo, con finalità che vanno dalla riduzione dei costi all’ottenimento di
compositi antistatici, piuttosto che come rinforzo (come avviene ad esempio in
molti compositi a matrice polimerica) si parla di “fillers”, o semplicemente
cariche. Malgrado ciò, si può ottenere un rinforzo strutturale con l’utilizzo di
fillers, anche quando questi vengono aggiunti per altri scopi, quali il ritardo di
fiamma, la riduzione dei ritiri o l’aumento di conducibilità elettrica e termica.
5
Fig. 3 Materiali compositi: (a), a particelle disperse; (b), a fibre corte disperse, (c) a fibre
lunghe.
Analizzando più nel dettaglio la distinzione fatta sopra, possiamo dire che:
• I compositi a particelle disperse, come l’allumina, presentano normalmente un
comportamento isotropo. L’efficacia di un simile rinforzo dipende fortemente
dalle proprietà dei componenti:
-Con una matrice fragile, si utilizzano particelle duttili per avere una resistenza
comunque elevata e guadagnare deformabilità.
-Con una matrice duttile, invece, si preferiscono rinforzi estremamente
resistenti e fragili, per accrescere la resistenza, pur mantenendo la tenacità. È il
caso della diffusione di allumina (ossido di alluminio, Al2O3) in una matrice di
alluminio (Al). Le proprietà risultanti, come sempre per i compositi, variano al
variare delle percentuali di matrice e rinforzo.
• I compositi a fibre sono molto diffusi, perché presentano caratteristiche notevoli,
in particolare la resistenza elevata e il basso peso. Molti materiali sono
resistentissimi quando si trovano sotto forma di rinforzo: il vetro, per esempio,
considerato normalmente fragile e poco resistente, ha Rm=170 MPa nella forma
“classica”, ma arriva a 3500 MPa in fibre di diametro inferiore ai 100 μm. Allo
stesso modo si comportano la grafite e il carbonio. Le fibre tuttavia non
sopportano carichi di compressione, di conseguenza serve un materiale che funga
da matrice per distribuire le sollecitazioni sul rinforzo uniformemente e che
6
protegga le fibre dal contatto con ambienti aggressivi. Le fibre, a seconda della
dimensione, possono essere:
-Corte, con ø = 1÷10 μm, L = 10÷100 ø, sia disposte casualmente che
orientate. I compositi a fibre corte disperse sono, come i compositi a particelle,
isotropi. Quelli a fibre allineate invece sono anisotropi, in particolare spesso sono
orto tropi, ossia presentano due direzioni di orientazione preferenziali, ortogonali
tra di loro.
-Lunghe, allineate fra loro: un caso naturale sono le fibre di cellulosa nella
lignina, che conferiscono resistenza elevata ma solo nella direzione delle fibre,
mentre in tutte le altre la resistenza rimane molto bassa.
• Laminati: i compositi a fibre lunghe vengono sovente combinati per uniformare
la resistenza nelle diverse direzioni, realizzando sovrapposizioni di strati (lamine)
con le fibre orientate diversamente e ottenere un laminato con proprietà simili in
tutta una giacitura. Un problema frequente di queste strutture è la delaminazione,
cioè il distacco di uno o più strati, che si può equiparare a un difetto puntuale, o
una cricca microscopica, che si propaga su una direzione preferenziale nel
materiale. La frattura può avanzare fra due diversi strati, che si separano come
fogli di carta, o perpendicolarmente alle fibre: il risultato dipende dal
comportamento della fibra, che può sfilarsi dalla matrice, o restare intatta e unire
le due parti, nel caso in cui la frattura si sia propagata alla superficie di interfaccia
fra i due componenti.
Fig. 4 Struttura di un laminato
con diverse orientazioni delle
singole lamine: (a) Laminato con
disposizione unidirezionale delle
singole lamine; (b) Laminato
crossplied con lamine
disorientate di 45° l’un l’altra e
comportamento quasi-isotropo.
7
• Sandwich: sono formati da strati di compositi a fibre, frapposti ai quali si
trovano strati di elementi a nido d’ape o spugne rigide, per ottenere una buona
compensazione delle rigidezze. Applicazioni caratteristiche sono quelle dei
paraurti d’automobile e delle ali degli aeromobili civili.
1.1.3-Proprietà generali dei compositi
Non è possibile definire in modo univoco le proprietà dei compositi, senza
subordinarle al particolare tipo di matrice che viene utilizzato come continuum.
Ciononostante è possibile elencare le proprietà che generalmente si cerca di
ottenere dall’unione di due materiali con caratteristiche chimico-fisiche diverse.
Alcune di esse sono:
Fig. 5 Struttura di un pannello sandwich
"a nido d'ape"
8
Resistenza meccanica
Rigidità
Resistenza alla corrosione
Resistenza all’usura
Peso
Vita a fatica
Isolamento termico
Conducibilità termica-elettrica
Isolamento acustico
Prestazioni ad alta-bassa temperatura
Naturalmente queste proprietà non possono venire incrementate tutte
contemporaneamente, tanto più che alcune di esse sono in conflitto, come ad
esempio l’incremento di conducibilità termica e di isolamento termico. Tornando
alle diverse tipologie di matrice utilizzate, possiamo brevemente richiamare le
caratteristiche di base di ognuna di esse, tenendo presenti i compiti generali che le
accomunano, quali il trasferimento degli sforzi al filler, la protezione del filler
dall’ambiente esterno ed il supporto dello stesso. Generalmente la matrice
presenta densità, resistenza e rigidezza inferiori dei rinforzi o whiskers inglobati.
Tuttavia, la combinazione di matrice e rinforzo può presentare le stesse
caratteristiche di resistenza e rigidezza, pur conservando un peso contenuto.
Matrici polimeriche. Le tre principali classi di polimeri strutturali sono:
le gomme;
i termoplastici;
i termoindurenti.
Le gomme sono polimeri reticolati, che presentano una struttura
sensibilmente semicristallina, soltanto al di sotto della temperatura ambiente. I
termoplastici sono polimeri che formano legami ramificati, ma generalmente non
reticolano. Essi possono essere portati a fusione per semplice riscaldamento e
solidificati mediante raffreddamento. Ne sono esempi il polietilene, il
9
polipropilene, il nylon, il policarbonato, i polisolfoni ed i più recenti
polietereterchetoni (PEEK). E’ bene tener presente, che alcuni di questi polimeri,
quali ad esempio il polietilene, hanno temperature di rammollimento che al
massimo arrivano a 300°C, con Tg molto inferiori, nonché una bassa rigidità e
resistenza, a causa dei deboli legami secondari tra le catene, per cui poco si
prestano agli impieghi strutturali dei materiali compositi [4]. I termoindurenti
sono invece polimeri che hanno reagito chimicamente finché quasi tutte le
molecole sono irreversibilmente reticolate in un network tridimensionale
infusibile. Una volta che il termoindurente si è consolidato, non è più possibile
variarne la forma. Esempi classici di polimeri termoindurenti sono le resine
epossidiche e le poliesteri insature.
Matrici metalliche. Le matrici metalliche conferiscono al composito la possibilità
di poter operare a temperature più elevate rispetto a quelli a matrice polimerica.
La maggior parte dei compositi a matrice metallica è stata sviluppata per
l’industria aerospaziale e automobilistica, anche se non mancano applicazioni in
altri campi. Anche gli MMC (Metal Matrix Composites), possono venire
rinforzati con differenti geometrie del filler, sia esso in forma di fibre continue,
fibre corte discontinue o particelle. I metalli utilizzati per le matrici degli MMC
(a) (b) (c)
Fig. 6. Differenti tipi di catene polimeriche: (a) lineari; (b) con ramificazioni laterali; (c) a
legami incrociati.
10
sono spesso Al, Ti e leghe Ni-Cr. Date le maggiori temperature di fusione, si ha
un cambiamento delle tecniche di lavorazione degli MMC rispetto ai PMC: tra le
più utilizzate troviamo il diffusion bonding e il riscaldamento, seguito da
infiltrazione sotto vuoto.
Matrici ceramiche. Le matrici ceramiche sono quelle che presentano le più
elevate temperature di fusione, con limiti di utilizzo intorno ai 1800°C, sebbene
nelle applicazioni pratiche le massime temperature raggiunte siano inferiori. I
materiali utilizzati per le matrici dei CMC (Ceramic Matrix Composites) sono in
genere ossidi come l’Allumina (Al2O3), nitruri (AlN, Si3N4), carburi (SiC, TiC,
WC) e vetroceramici come l’alluminosilicato di litio [5].
Le tecniche di produzione dei compositi a matrice ceramica, come
l’infiltrazione chimica da vapore (CVI), la pirolisi da precursori polimerici o la
più classica sinterizzazione, possono risultare costose e complesse, proprio a
causa delle elevate temperature di fusione di questi materiali. I rinforzi utilizzati,
in forma di particelle, fibre o whiskers, hanno la principale funzione di mitigare la
fragilità intrinseca delle matrici ceramiche. In particolare l’aggiunta dei whiskers
come rinforzo, porta ad un aumento consistente della tenacità, pur conservando
una tecnica di formatura relativamente poco costosa.
I CMC rinforzati con fibre vengono generalmente progettati in modo da
avere un rapporto Ef / Em>1 (cioè un modulo elastico della fibra superiore a quello
della matrice), di modo che sia la fibra ad assorbire gli stress che tenderebbero ad
aprire e far propagare la cricca. La caratteristica più interessante nei CMC
Tab. 1. Temperature limiti di esercizio (approssimative) delle diverse
matrici
11
rinforzati con fibre è l’elevato pull out, cui si assiste prima della rottura, dovuto
agli sforzi tangenziali relativamente bassi all’interfaccia fibra-matrice, nonché ad
un basso modulo di Weibull delle fibre stesse [6].
Materiali per le fibre. Generalmente i rinforzi sotto forma di fibre
provengono da composti di elementi leggeri, quali B,C,Si,O, contenenti legami
covalenti che impartiscono maggiore resistenza e rigidezza rispetto ai legami
metallici e ionici. Questi composti vengono lavorati fino all’ottenimento di fibre o
filamenti con microstruttura altamente allineata e direzionale, in modo da
garantire le massime prestazioni (in termini di σ ed E) lungo l’asse della fibra
stessa. Tra le fibre più utilizzate vi sono sicuramente le fibre di vetro, carbonio,
boro e le aramidiche (Kevlar).
Fibre di vetro. Grazie al loro basso costo e alle discrete caratteristiche,
sono in assoluto le fibre più utilizzate tra i prodotti di largo consumo, e quelle che
hanno beneficiato del più lungo periodo di sviluppo. Esse vengono prodotte
miscelando a secco sabbia di silice, calcare, acido borico ed altri ingredienti,
portando poi la miscela a fusione a circa 1260°C e filando in forma di fibre, con
struttura interna amorfa. Come tutte le altre fibre per rinforzi di compositi, le fibre
di vetro vengono ricoperte con un sottile strato di coating, chiamato appretto, il
quale gioca diversi ruoli nel composito finale, quali la formazione di un legame
tra la fibra e il materiale di matrice, l’aumento di lavorabilità e la protezione delle
fibre all’interno del composito da alcuni effetti ambientali [7].
Le fibre più utilizzate nel campo dei compositi sono sicuramente le fibre di
vetro E, le fibre di vetro S ad alta resistenza e quelle ultrapure. La densità di
queste fibre varia dai 2,15 g/cm3 ,fino ai 2,54 g/cm
3 delle fibre di vetro E. Le
temperature di utilizzo variano invece tra i 500 °C dei vetri E, fino ai 1050°C delle
fibre di vetro alla silice / quarzo.
Fibre aramidiche. Vengono generalmente classificate in base al modulo
elastico nei tre tipi LM (Low Modulus), IM (Intermediate Modulus) e HM (High
Modulus) , queste ultime meglio note sotto il marchio Kevlar. La densità varia tra
1,39g/cm3 delle LM, fino a 1,47g/cm
3 delle HM. Il carico di rottura e il modulo
elastico variano invece rispettivamente tra 3000 MPa e 70 GPa delle LM, fino ai
12
3500 MPa e 179GPa delle HM. Le fibre aramidiche presentano inoltre un elevato
modulo specifico e temperature di esercizio anche di 160°C [3].
Fibre di carbonio. Esistono cinque tipi di fibre di carbonio: a modulo
standard (SM), ad alto modulo (HM), a modulo ultraelevato (UHM), alta
resistenza-tenacità (HT) o a modulo intermedio (IM) e a basso modulo (LM). La
densità di tali fibre varia tra gli 1,74g/cm3 delle HT ai 2,18g/cm
3 delle UHM. Le
fibre di carbonio ad alta tenacità presentano i più elevati valori di resistenza (7,1
GPa) e resistenza specifica (0,398 Mm) di tutte le fibre da rinforzo conosciute. Le
fibre di carbonio UHM, presentano invece il più elevato modulo elastico (966
GPa) e il maggiore modulo specifico (45,2 Mm), proprietà, quest’ultima, di
fondamentale importanza nell’industria aeronautica e aerospaziale.
La locuzione “fibra di carbonio”, si riferisce a fibre il cui contenuto in C
sia di almeno il 92%. La loro struttura può essere cristallina, amorfa o
parzialmente cristallina. La forma cristallina presenta la struttura della grafite,
costituita da atomi di C, ibridati sp2, arrangiati in un reticolo bidimensionale con
struttura a nido d’ape a celle esagonali (Fig. 7). Nonostante i legami tra gli atomi
di carbonio all’interno del singolo piano di grafite siano prevalentemente
covalenti, i legami tra un piano e l’altro sono di tipo van der Walls e ciò rende
possibile lo scorrimento dei vari piani l’uno sull’altro. Questa differenza tra i
legami dentro e fuori il singolo piano è responsabile dell’alto modulo elastico
Fig. 7. Struttura cristallina della grafite
13
della grafite, parallelamente al piano e del basso modulo presentato
ortogonalmente. La grafite è quindi un materiale altamente anisotropo.
Da dove deriva quindi l’alto modulo elastico delle fibre di carbonio? Nelle
fibre di carbonio l’elevato modulo di Young è il risultato dell’allineamento di
piani di carbonio, parallelamente all’asse della fibra, con formazione della
cosiddetta texture (tessitura). Ne risulta un modulo elastico in direzione parallela
all’asse della fibra maggiore che in direzione ortogonale [8]. Le fibre di carbonio
sono inoltre, elettricamente conduttrici e possono sostenere temperature di 500°C
in ambienti ossidanti. Le fibre di carbonio vengono ottenute a partire da precursori
differenti, quali il PAN (PoliAcriloNitrile, polimero termoplastico), il rayon e la
pece.
Fibre di carborundum. Sono fondamentalmente fibre di SiC, contenenti un
anima di carbonio, ottenute mediante la tecnica della CVD (Chemical Vapour
Deposition) attraverso la decomposizione di diversi gas come metano, idrogeno e
trimetilsilano su una fibra di carbonio pirolitico parzialmente grafitizzato.
La fibra di carborundum è quindi una fibra composita, e proprio per
questo motivo presenta dimensioni trasversali maggiori delle fibre di vetro e
carbonio, con diametri medi tra i 100 e 180 µm. Essa viene utilizzata
principalmente con matrici metalliche a base di leghe di Al e Ti. Le fibre di SiC
presentano inoltre, interessanti valori di resistenza a trazione (3,45 GPA) e
modulo di Young (400 GPa), a fronte di un peso specifico piuttosto contenuto (3
g/cm3) [4].
14
Tab. 2. Alcune proprietà di materiali comunemente utilizzati come fibre di rinforzo.
Fibre di boro. Anch’esse sono ottenute tramite CVD, utilizzando come
supporto un filamento di tungsteno. Per questo motivo anche le fibre di B
presentano diametri rilevanti, che possono raggiungere decimi di mm. Il peso
specifico di tali fibre varia in un ampio intervallo tra 2,4 e 7,6 g/cm3, mentre il
modulo di Young e la resistenza a trazione rientrano rispettivamente negli
intervalli 360-440 GPa e 2,3-2,8 GPa.
Per quanto riguarda le proprietà meccaniche dei materiali compositi
partcellati, diversi studi hanno mostrato che tanto il modulo elastico quanto il
carico di rottura del composito finale, variano entro un limite massimo teorico ed
uno minimo, in dipendenza dalle frazioni volumetriche dei materiali costituenti
secondo la ben nota Regola delle miscele. Il modulo di Young di un composito a
15
fibre lunghe, sollecitato parallelamente a queste ultime si ottiene come
combinazione dei moduli elastici delle fibre (Ef) e della matrice (Em):
𝐸𝐶∥ = 𝑉𝑓𝐸𝑓 + (1 − 𝑉𝑓)𝐸𝑚 (1.1)
Dove Vf rappresenta la frazione in volume della fase fibre. Il modulo elastico
della stessa struttura, ma sollecitata ortogonalmente alla direzione di allineamento
delle fibre risulta inferiore ed è espresso da:
𝐸𝐶⊥= 𝑉𝑓
𝐸𝑓 +
1−𝑉𝑓
𝐸𝑚 −1
(1.2)
I moduli elastici E∥ed 𝐸⊥ per uno stesso composito con, ad esempio, il 50% in
volume di fibre, differiscono sensibilmente; un composito uniassiale (in cui le
fibre risultano allineate tutte nella stessa direzione), risulta notevolmente
anisotropo. Utilizzando però delle fibre intrecciate ortogonalmente (Fig. 8), è
possibile rendere uguali i moduli elastici nelle direzioni 0° e 90° (rispetto alla
sollecitazione), pur rimanendo molto bassi i moduli a 45°. Un comportamento
approssimativamente isotropo si può ottenere, come visto precedentemente,
sovrapponendo lamine con direzioni delle fibre sfalsate di 45°, ottenendo un
laminato a fibre del tipo “plywood” [9].
Fig. 8 (a) Se sollecitate lungo la direzione
di allineamento delle fibre, la matrice e le
fibre di un composito a fibre continue
subiscono eguale deformazione; (b)
caricando invece il composito in direzione
ortogonale all’asse delle fibre, sia le
matrice che le fibre stesse, subiscono
all’incirca la stessa sollecitazione; (c) un
laminato 0°-90° presenta delle direzioni di
alto e basso modulo elastico.
16
Resistenza a trazione e lunghezza critica della fibra. Molti compositi a
fibre lunghe sono costituiti da fibre resistenti ma fragili e da una matrice
polimerica duttile. La curva sforzo-deformazione per tali compositi è del tipo
mostrato in Fig. 9. La curva risulta avere andamento lineare , con pendenza pari
ad E (equazione 1), fin quando non si ha il cedimento della matrice, dopodiché il
carico in più viene supportato dalle fibre, le quali continuano a deformarsi
elasticamente fino a rottura. Quando avviene la rottura delle fibre, il carico si
riporta ai valori del carico di snervamento della matrice finché, con la rottura di
quest’ultima, non si ha il completo cedimento del composito. In qualsiasi
applicazione strutturale, ciò che interessa è il carico massimo, poiché in
Fig. 9 Curva sforzo-deformazione di un comune composito a
fibre lunghe (linea marcata), e relative curve dei costituenti
separati (tratto leggero). Lungo i picchi le fibre sono sul
punto di cedere.
Fig. 10 Variazione del carico massimo con la
% in volume di fibre.
17
corrispondenza di esso le fibre sono sul punto di rompersi, mentre la matrice ha
già ceduto, cosicché il carico è dato dal carico di snervamento della matrice 𝜎𝑦𝑚 e
dal carico di rottura delle fibre 𝜎𝑅𝑓, combinate secondo la regola delle miscele:
𝜎𝑇𝑆 = 𝑉𝑓𝜎𝑅𝑓
+ 1 − 𝑉𝑓 𝜎𝑦𝑚 (1.3)
Questo comportamento è mostrato sulla linea crescente a destra in Fig. 10. Una
volta che le fibre si sono rotte, il carico giunge ad un secondo massimo,
determinato dal carico di rottura della matrice (𝜎𝑅𝑚 ):
𝜎𝑇𝑆 = 1 − 𝑉𝑓 𝜎𝑅𝑚 (1.4)
Questa fase è mostrata dalla linea decrescente sulla destra di Fig. 10. Dalla figura
si vede anche come l’aggiunta di troppo poche fibre possa risultare, oltre che
inutile, addirittura dannoso. Per ottenere un effettivo incremento di resistenza
bisogna raggiungere per lo meno il valore di soglia critico 𝑉𝑓𝑐𝑟 della frazione in
volume di fibre. Se le fibre sono troppo poche, esse si rompono prima del
raggiungimento del picco, riducendo la resistenza finale del composito. In molte
applicazioni non è necessario l’utilizzo di fibre lunghe: fibre corte tagliate
possono essere convenientemente utilizzate conducendo a valori di resistenza
simili ai compositi a fibre lunghe, qualora la lunghezza della fibra superi un valore
minimo detto lunghezza critica della fibra. Consideriamo il carico massimo
sopportabile da un composito a fibre corte tagliate, costituito da una matrice con
un carico di snervamento di taglio pari a 𝜎𝜏𝑚 (𝜎𝜏
𝑚 ≈1
2𝜎𝑦𝑚 ). La Fig. 11 mostra che
la forza assiale elementare trasmessa ad un elementino di fibra di diametro d,
lungo un tratto di lunghezza 𝛿x è pari a:
𝛿𝐹 = 𝜋𝑑𝜎𝜏𝑚𝛿𝑥 (1.5)
La forza applicata sulla fibra cresce quindi dal valore zero in corrispondenza
dell’estremità, fino al valore
18
𝐹 = 𝜋𝑑𝑥
0𝜎𝜏𝑚d𝑥 = 𝜋𝑑𝜎𝜏
𝑚𝑥 (1.6)
a distanza x dall’estremo. La fibra si romperà, allorché tale forza raggiungerà il
valore
Fig. 11. Il trasferimento del carico dalla matrice alla fibra fa sì che la sollecitazione di
trazione risulti massima al centro della fibra. La fibra giunge a rottura se la
sollecitazione supera il carico di rottura della fibra stessa.
𝐹𝐶 =𝜋𝑑2
4𝜎𝑅𝑓 (1.7)
Eguagliando le due precedenti espressioni, troviamo che la fibra si romperà ad
una distanza dall’estremità pari a:
𝑥𝐶 =𝑑
4
𝜎𝑅𝑓
𝜎𝜏𝑚 (1.8)
Se la lunghezza della fibra è inferiore a 2xc la fibra non si romperà, ma non
supporterà il carico che le sarebbe possibile sopportare. Se, d’altra parte, la
lunghezza della fibra è molto superiore a 2xc, non si ottiene alcun miglioramento
di resistenza dalla lunghezza eccedente il valore ottimale di 2xc, il quale risulta
19
oltretutto quello cui corrisponde la maggiore efficienza. La sollecitazione media
sostenuta da una fibra è semplicemente pari alla metà del suo carico di rottura
mentre il massimo di resistenza è pari a
𝜎𝑇𝑆 =𝑉𝑓𝜎𝑅
𝑓
2+ 1 − 𝑉𝑓 𝜎𝑦
𝑚 (1.9)
cioè ad oltre la metà della resistenza di un composito a fibre lunghe (eq. 1.3), o
proprio il valore dato dalla 1.3 nell’ipotesi che le fibre siano tutte allineate nella
stessa direzione, ipotesi che ovviamente non è rispettata in un composito a fibre
corte.La resistenza a compressione dei compositi è inferiore a quella che essi
presentano in trazione, poiché le fibre sono soggette ad inginocchiamento o, con
accezione ormai comunemente accettata, subiscono il fenomeno del buckling.
Tenacità. La tenacità Gc di un composito rappresenta, come per ogni altro
materiale, l’energia assorbita per unità d’area della cricca. Se la cricca si
propagasse in modo rettilineo attraverso la matrice (di tenacità 𝐺𝑐𝑚) e le fibre
(tenacità 𝐺𝑐𝑓), potremmo aspettarci che la tenacità del composito sia ottenuta dalla
semplice applicazione della regola delle miscele:
𝐺𝐶 = 𝑉𝑓𝐺𝑐𝑓
+ 1 − 𝑉𝑓 𝐺𝑐𝑚 (1.10)
Purtroppo in genere ciò non avviene.
Si è già avuto modo di costatare che, se la lunghezza delle fibre è inferiore
a 2xc, esse non arriveranno a fratturarsi, ma piuttosto dovranno subire, durante
l’apertura e avanzamento della cricca, il fenomeno del pull out (Fig. 12),
aumentando di conseguenza il lavoro di frattura e quindi la tenacità. Se la
resistenza al taglio della matrice è, come visto in precedenza, 𝜎𝜏𝑚 , allora il lavoro
necessario per sfilare la fibra dalla superficie di frattura (ossia il lavoro di pull
out), è dato approssimativamente da:
𝐹d𝑥𝑙
2
0= 𝜋𝑑𝜎𝜏
𝑚𝑥d𝑥𝑙
2
0= 𝜋𝑑𝜎𝜏
𝑚 𝑙2
8 (1.11)
20
Essendo il numero di fibre per unità d’area della cricca pari a 4𝑉𝑓 𝜋𝑑2
(poiché la frazione volumetrica è proporzionale alla frazione di area in un piano
perpendicolare alle fibre), il lavoro di frattura totale per unità d’area della cricca
sarà pari a:
𝐺𝑐 = 𝜋𝑑𝜎𝜏𝑚 𝑙2
8×
4𝑉𝑓
𝜋𝑑2 =𝑉𝑓
2𝑑𝜎𝜏𝑚 𝑙2 (1.12)
Nella precedente relazione, si assume che l sia inferiore alla lunghezza
critica. In caso contrario, se cioè risultasse l >2xc, le fibre si romperebbero invece
di subire il pull out. Quindi l’optimum di tenacità si ottiene nel caso l =2xc, che
sostituita nella precedente ci dà:
𝐺𝑐 =2𝑉𝑓
𝑑𝜎𝜏𝑚𝑥𝑐
2 =2𝑉𝑓
𝑑𝜎𝜏𝑚
𝑑
4
𝜎𝑅𝑓
𝜎𝜏𝑚
2
=𝑉𝑓𝑑
8
𝜎𝑅𝑓
2
𝜎𝜏𝑚 (1.13)
Dall’equazione si vede che, per avere una elevata tenacità, è necessario
utilizzare fibre resistenti in una matrice più debole (nonostante una matrice debole
porti a una minore resistenza). Questo meccanismo fa sì che i compositi rinforzati
a fibre di carbonio (CFRP) e di vetro (GFRP), presentino una tenacità (dell’ordine
dei 50 KJ/m2) di molto superiore sia a quella della matrice (~ 5 KJ/m
2) che delle
Fig. 12. Fenomeni di pull out (sfilamento della fibra) e debonding (scollamento della
fibra dalla matrice), durante la propagazione di una cricca.
21
fibre (~ 0,1 KJ/m2); senza questo meccanismo nessuno dei due materiali potrebbe
essere utilizzato per scopi ingegneristici.
22
1.2-Nanotecnologia e nanostrutture
1.2.1-Introduzione alle nanotecnologie
Il termine “nanotecnologie” sta acquistando sempre maggiore popolarità:
esso è, infatti, impiegato per descrivere una varietà di campi di ricerca e sviluppo,
spesso di carattere interdisciplinare, entro i quali ci si confronta con strutture
aventi dimensioni caratteristiche inferiori a 100 nm. Si potrebbe dire che riguarda
lo studio e la manipolazione di “oggetti piccoli”, con dimensioni comprese
grossolanamente tra 0.1 a 100 nm. La scala spaziale caratteristica delle
nanotecnologie è allora il nanometro (un milionesimo di millimetro, tre ordini di
grandezza inferiore rispetto al micron che è l‟unità di riferimento tradizionale per
la microelettronica).
Per dare un‟idea si consideri che 1nm (= 10-9
m) è confrontabile con la
larghezza del DNA (circa 2.5 nm) ed è la lunghezza di una catena lineare
costituita da 6 atomi di carbonio. La scala nanometrica può anche essere illustrata
con un semplice esempio (Fig.1): se il diametro di un pallone da calcio (~30 cm =
3×10-1
m), viene ridotto di 10.000 volte, raggiungiamo il diametro di un capello
piuttosto fine (~30 µm = 3×10-5
m). Riducendo il diametro del capello dello
stesso fattore, arriviamo al diametro di un nano tubo di carbonio (~3 nm = 3×10-9
m).
(a) (b) (c)
Fig. 1. Confronto tra differenti oggetti del macro e del nano mondo: (a) un pallone da calcio con
diametro di ~30cm (3×10-1m); (b) un capello umano con diametro di ~30µm (3×10-5m), qui posizionato su
un microchip; (c) il diametro di un nanotubo di carbonio (nella micrografia posizionato sopra degli elettrodi metallici) è 10.000 volte inferiore al diametro di un capello, ossia ~3nm (3×10-9m)
23
Il “nanomondo” è allora popolato da oggetti come atomi, molecole,
“macchine molecolari” come il ribosoma (un organo cellulare che produce
proteine nel corpo umano) che possono opportunamente essere assemblati in
nanostrutture: gli obiettivi principali delle nanotecnologie sono appunto
realizzare,studiare e sfruttare le nanostrutture.
L‟intuizione che si potesse giungere a manipolare e posizionare addirittura
singoli atomi e molecole a questa “nanoscala” risale storicamente al fisico teorico
Richard Feynman, quando, nel 1959, espose una famosa relazione dal titolo
“There’s Plenty of Room at the Bottom” [10] (ovvero “C‟è abbondanza di spazio
là sotto”) al congresso annuale dell‟American Physical Society. In quell‟occasione
affermò che “i principi della fisica non sono contro la possibilità di manipolare le
cose, un atomo alla volta…è un qualcosa che può essere fatto”, e per illustrarne
l‟impatto proponeva di scrivere l‟intero contenuto dei 24 volumi
dell‟Enciclopedia Britannica sulla punta di uno spillo!
Tuttavia è solo negli anni‟80 che si registra il vero impulso alle
nanotecnologie con l‟invenzione del primo microscopio a effetto tunnel (STM,
Scanning Tunneling Microscope) da parte di Binnig e Rohrer mediante il quale la
risoluzione arrivò alla scala atomica. Nel 1989, si attualizza quanto prefigurato da
Feynman quando alcuni ricercatori dell‟IBM riescono a “scrivere” il logo
aziendale impiegando un AFM, per trascinare dei singoli atomi di xenon su un
substrato di nichel [11].
È stato peraltro sottolineato come lo sviluppo delle nanotecnologie abbia
tratto la sua forza dall‟evoluzione delle tecnologie microelettroniche a carattere
top-down, caratterizzata dalla legge di Moore, che ha portato a una
miniaturizzazione sempre più spinta dei circuiti integrati. Esse sono giunte ormai
alla soglia delle nanotecnologie: infatti, il continuo miglioramento delle tecniche
fotolitografiche ha consentito di realizzare dispositivi con dimensioni minime
anche inferiori a 100 nm, tanto che spesso sono state conglobate sotto il nome di
nanoelettronica.
Lo scenario delle nanotecnologie è molto ampio: esso abbraccia le
tecnologie a stato solido, le biotecnologie e le tecnologie fisico-chimiche, e vi
24
s‟intravede la potenzialità di rivoluzionare sia le modalità con cui sono realizzati i
materiali e i prodotti derivanti sia le funzionalità che si possono ottenere. Le
tematiche d‟interesse comprendono allora:
tecniche di fabbricazione e lavorazione su scala inferiore a 100
nm;
aspetti delle tecnologie realizzative dei dispositivi elettronici,
compresi laser a pozzo quantico e circuiti integrati su silicio e
arseniuro di gallio, nei quali le dimensioni minime siano inferiori a
100 nm;
microscopia a sonda di scansione e relative applicazioni, sia a
scopo di caratterizzare i materiali sia per la loro
nanomanipolazione;
materiali innovativi per i quali, almeno in una dimensione, la
struttura sia definita su una scala inferiore a 100 nm;
strutture molecolari auto assemblanti o auto organizzanti,
comprendendo in esse anche i sistemi biologici e biomedici.
Cercare di fabbricare e interagire con strutture sempre più piccole
migliorando la risoluzione e le prestazioni degli apparati macroscopici per la
manipolazione dei materiali è un primo approccio che storicamente è stato
condotto dall‟industria microelettronica per la realizzazione di circuiti integrati a
sempre più elevata complessità. La parola chiave in questo contesto è stata, infatti,
Fig. 2. Gli ormai famosi 35 atomi di xenon depositati nel 1989 dagli scienziati della IBM
su un substrato di nickel.
25
“scalabilità”, definendo così una metodologia prettamente di tipo top-down, per
ottenere la quale si è lavorato soprattutto sulla progressiva riduzione della
lunghezza d‟onda della luce incidente nella tecnica fotolitografica, nonché sul
miglioramento dei relativi materiali e dell‟intero processo tecnologico. Si tratta di
un tipico approccio ingegneristico che tende a produrre strutture molto definite,
stabili, regolari e tipicamente planari, e che, allo stato attuale, facendo uso di
radiazioni ad alta energia (raggi X, ioni o elettroni), può consentire di realizzare
nanostrutture a stato solido. In questo contesto, gli strumenti delle nanotecnologie
basati sui microscopi a sonda di scansione hanno consentito di sviluppare tecniche
nano litografiche a carattere complementare in grado di supportare questa
metodica.
Dal punto di vista concettuale, infatti, la maggior parte di queste tecniche
sono basate sulla rimozione spazialmente selettiva di un polimero o mediante una
deposizione/formazione locale di molecole nelle zone desiderate. Un esempio
significativo è la cosiddetta dip pen nanolithography [12], nella quale si sfrutta la
punta di un microscopio a forza atomica (AFM, Atomic Force Microscope), che
viene ricoperta da molecole come i tioli, in grado di reagire chimicamente con una
superficie di oro formando forti legami covalenti con essa. Controllando il
movimento della punta sulla superficie si può sfruttare una goccia d‟acqua come
canale per far migrare le molecole dalla punta al campione, ottenendo un processo
analogo alla scrittura con una penna a inchiostro.
All‟interno delle nanotecnologie esiste, però, una metodologia alternativa
che sta sempre più emergendo negli ultimi anni e che di fatto è quella più
caratterizzante: costruire dal basso verso l‟alto (bottom-up). Rappresenta il
tentativo di costruire entità complesse sfruttando le capacità di auto assemblaggio
o di auto organizzazione dei sistemi molecolari. È pertanto un approccio di tipo
chimico o biologico, potenzialmente in grado di creare strutture tridimensionali
complesse a basso costo e in grande quantità. Nelle tecnologie di tipo bottom-up
rientrano in particolare strutture molecolari a base di carbonio, come nanotubi e
fullereni ed i nanowires.
26
1.2.2-Nanostrutture
Secondo una classificazione dovuta a Gleiter [13] i materiali
nanostrutturati o NSMs (Nano Structured Materials), vengono distinti, in base alla
forma o alla composizione chimica dei cristalliti. Stando alla classificazione
riguardante la forma, abbiamo rispettivamente: cristalliti con forma planare (layer-
shaped), a barrette ed infine cristalliti equiassiali. In relazione invece alla
classificazione basata sulla composizione chimica, si hanno quattro principali
famiglie di NSMs: nella prima famiglia rientrano i cristalliti e le interfacce con
stessa composizione chimica (ad esempio nei metalli puri nanostrutturati); nella
seconda famiglia rientrano i NSMs con diversa composizione chimica; nella terza
famiglia troviamo i NSMs con variazioni di composizione tra i cristalliti e le
interfacce (ad esempio leghe nelle quali atomi di una specie si trovano segregati ai
bordi dei grani); infine nella quarta famiglia sono compresi i cristalliti nano
dimensionati, immersi in una matrice di diversa composizione chimica. Non è
necessario che tutti gli elementi strutturali dei NSMs abbiamo struttura cristallina:
ad esempio i grani della matrice possono trovarsi in fase vetrosa. I NSMs possono
anche contenere dei componenti quasi-cristallini.
Come si vede i NSMs presentano un ampio spettro di variazioni nella
composizione, fase e microstruttura, che ne fanno i candidati ideali per la
soddisfazione dei più disparati aspetti della tecnologia del prossimo futuro. Le
famiglie di NSMs sopra menzionate, consistono di “mattoncini elementari”
(building blocks) nanodimensionati, delimitati da interfacce. Dal momento che
questi materiali possiedono una elevata energia libera immagazzinata lungo le
interfacce, cosa che li porta ben lontani dall‟equilibrio termodinamico, essi sono
stati definiti come NSMs di non-equilibrio. Di conseguenza anche i metodi di
preparazione saranno basati su processi di non-equilibrio, cambiando i quali si
avrà una variazione della nano struttura finale e delle sue proprietà. E‟ proprio
controllando opportunamente le procedure di lavorazione, che si può manipolare
la struttura e proprietà dei NSMs, ottenendo una infinita varietà di combinazioni e
caratteristiche. Allo stesso tempo però, l‟ampia possibilità di variazioni, genera il
problema del controllo, della stabilità e della riproducibilità delle singole
27
proprietà: è questo la sfida maggiore che attende i ricercatori nella ottimizzazione
delle future tecniche di preparazione dei nanocristalli [14].
In realtà, secondo alcuni autori [15], è possibile distinguere tra
nanostrutture e nanofasi o nanoparticelle, intendendo con i primi, materiali in bulk
costituiti da grani di dimensioni nanometriche e, per quanto riguarda gli ultimi,
semplici nanoparticelle disperse.
Fig. 3. Nanofilamenti di GaN cresciuti per CVD su substrato di ossido di Al e Li (a), e di ossido
di Mg (b).
Confinamento quantistico. Un parametro fondamentale nello studio dei
nanomateriali, è il rapporto tra superficie/interfaccia e volume, ossia quello che
generalmente viene indicato come “sviluppo superficiale”. La grande quantità di
atomi in superficie, produce un gran numero di fenomeni legati alle dimensioni.
28
La dimensione finita delle particelle confina la distribuzione spaziale degli
elettroni, dando luogo a livelli energetici quantizzati , dovuti all‟effetto
dimensionale. L‟effetto di confinamento quantistico trova applicazioni nel campo
dei semiconduttori dell‟optoelettronica e dell‟ottica non lineare. I nanocristalli
costituiscono uno strumento ideale per comprendere gli effetti quantistici in un
sistema nanostrutturato, dandoci l‟opportunità di ottenere enormi sviluppi nel
campo della fisica dello stato solido.
1.2.3-Proprietà dei nanomateriali
Nel precedente paragrafo si è accennato a come le piccole dimensioni dei
nanomateriali possano influire sulle loro proprietà finali. Questa variazione è
l‟effetto di due meccanismi principali, che vanno sotto il nome di effetti da
dimensione quantistica. In effetti nei singoli nanocristalli i livelli energetici
risultano quantizzati, come per gli elettroni dei singoli atomi e non continui, come
invece avviene nel materiale in bulk. A questo fenomeno è stato attribuito il nome
di quantum confinement e conseguentemente i nanocristalli, in cui tutte e tre le
dimensioni sono nel campo dei nanometri, sono spesso indicati come quantum
dots, sistemi zero (o quasi-zero) dimensionali e particelle quantizzate (o Q-
particelle) [16].
Per quanto riguarda il secondo meccanismo, bisogna osservare che le
tipologie di atomi che costituiscono la struttura di un solido, sono essenzialmente
due: atomi interni ed atomi di superficie. La quasi totalità delle proprietà di un
corpo solido dipendono dalla natura degli atomi presenti nella percentuale più
elevata. Essendo in questi fenomeni coinvolta esclusivamente la superficie del
corpo, il comportamento del materiale dipenderà totalmente da quello degli atomi
di superficie. La quantità di atomi di superficie presenti in un solido massivo,
anche se micrometrico o lievemente sub-micrometrico, è assolutamente
trascurabile rispetto agli atomi interni ed il suo comportamento risulterà pertanto
dettato esclusivamente da quello di un sistema collettivo di atomi interni.
Tuttavia, quando la dimensione del corpo scende sotto il limite dei cento
29
nanometri, la percentuale di atomi di superficie rispetto al numero totale di atomi
diviene via via più significativa, fino a predominare su quella degli atomi interni
quando la dimensione è assai prossima al nanometro.
Quindi, quando le dimensioni del solido divengono veramente piccole le
proprietà del materiale cambiano, in quanto mutano in quelle proprie di una
collettività di atomi di superficie. Le proprietà degli atomi di superficie sono
profondamente diverse da quelle degli atomi interni per ragioni principalmente
legate all'insaturazione del loro numero di coordinazione. Difatti solo gli atomi
interni sono coordinativamente saturi, in quanto circondati dal massimo numero
possibile di atomi, gli atomi di superficie a seconda che si trovano su un piano
basale, su uno spigolo o in un vertice del cristallo risulteranno circondati da un
numero di atomi che risulta rispettivamente poco o molto inferiore al numero di
coordinazione degli atomi interni. Essere coordinativamente insaturo non
comporta esclusivamente una maggiore reattività chimica, ma significa anche
avere proprietà chimico-fisiche totalmente diverse. Il fatto di essere 'affacciati'
all'esterno dell'edificio cristallino comporta per gli atomi una maggiore libertà
vibrazionale da cui nuovi valori delle funzioni termodinamiche (energia interna,
entropia, energia libera, ecc.) e nuove caratteristiche fisiche (polarizzabilità
elettrica, capacità termica, conducibilità termica, ecc.).
Il fatto che gli atomi di superficie, parzialmente insaturi, si trovino in uno
stato energetico diverso dagli atomi presenti nel volume del materiale, può essere
evidenziato con una semplice relazione, che mette subito in luce l‟effetto delle
dimensione sull‟importanza relativa degli atomi superficiali e di volume.
Se infatti consideriamo un solido di volume V e superficie esterna S,
possiamo scrivere il suo contenuto energetico totale per unità di volume, come:
𝐸𝑡
𝑉= 𝑒𝑖 +
𝑆
𝑉 𝑒𝑠
Dove
Et = contenuto energetico totale del solido;
30
ei = energia interna per unità di volume;
es = energia superficiale per unità di volume.
Il ruolo dell‟energia superficiale diviene preponderante quando il rapporto
S/V diviene dell‟ordine dei 106÷10
7 cm
-1 [18]. Questo fa sì che quando le
particelle hanno dimensioni comprese tra 1 e 10 nm, esse risultano costituite da un
numero finito di atomi, dell‟ordine dei 10-1000 e conseguentemente risultano
variate, rispetto al materiale in bulk, le proprietà chimico-fisiche. Un esempio
evidente è la drastica diminuzione della temperatura di fusione di alcuni materiali
al diminuire delle dimensioni, come nel caso delle nanoparticelle di CdS, per cui è
stata riportato un calo della temperatura di fusione di ben 800°C riducendo il
diametro delle nanoparticelle da 4 a 1 nm [19], o dell‟oro [20], per il quale tale
relazione è nota da diversi decenni (Fig. 4).
Fig. 4. Temperatura di fusione di nanoparticelle di Au in funzione del diametro.
Analizziamo adesso le proprietà specifiche dei nanomateriali e relative
applicazioni:
31
Proprietà chimiche. Come è stato sottolineato in precedenza, una delle
caratteristiche più rimarchevoli dei nanomateriali è il loro elevatissimo sviluppo
superficiale, cui consegue notevole aumento di reattività chimica. Questa
peculiarità, rende i nanomateriali particolarmente adatti all‟utilizzo come
catalizzatori, ad esempio per l‟eliminazione di gas tossici e nocivi (come CO, o gli
NOx,) nelle marmitte catalitiche degli autoveicoli, o usati negli apparati di
generazione dell‟energia, prevenendo l‟inquinamento causato dall‟utilizzo di
petrolio e carbone.
La tecnologia delle celle a combustibile è un altro campo riguardante
l‟applicazione di nanoparticelle di metalli nobili come catalizzatori. Allo stato
attuale, i catalizzatori delle celle a combustibile sono basati su metalli del gruppo
del platino, comunemente indicati come PGM (platinum group metals), tra i quali
sono molto utilizzate leghe del Pt e Pt-Ru. L‟utilizzo di questi metalli ha inciso
pesantemente sul costo delle celle a combustibile, tanto da limitarne lo sviluppo.
Le nanoparticelle bimetalliche offrono una concreta possibilità di produrre
catalizzatori economici.
Proprietà elettriche. I nanomateriali possono avere contenuti energetici
molto più elevati dei materiali convenzionali, grazie alla grande estensione dei
bordi di grano. Sono materiali nei quali è possibile introdurre una banda di
assorbimento ottico, o in cui si può alterare una banda esistente tramite il
passaggio di corrente o mediante applicazione di un campo elettrico.
La miniaturizzazione dei dispositivi rompe i principi fondamentali della
fisica classica, basati sul movimento delle particelle. Diventano fondamentali i
fenomeni della meccanica, quali la quantizzazione dei livelli energetici degli
elettroni, l‟interferenza tra le funzioni d‟onda degli stessi, l‟effetto di tunneling
quantistico tra due livelli energetici corrispondenti a nanostrutture adiacenti e la
discretizzazione dei portatori di carica (ad esempio nel caso di conduzione ad
opera di un solo elettrone).
32
I dispositivi quantistici si basano sull‟effetto tunnel, attraverso le barriere
di potenziale, proibite dalla “teoria classica”. Tramite l‟instaurazione di un
opportuno voltaggio tra due nanostrutture, si ha la “risonanza” del tunnel, con la
conseguenza di ottenere un brusco aumento della “corrente di tunneling”.
L‟elettronica a singolo elettrone, utilizza l‟energia richiesta per il trasporto di un
solo elettrone per ottenere uno switch, un transistor o un elemento di memoria.
Questi nuovi effetti non solo fanno sorgere nuove questioni fondamentali
nel campo della fisica, ma aprono anche ulteriori sfide verso i nuovi materiali. Ci
sono due problemi principali nei materiali. Il primo è la scelta dei nanocristalli
adatti alla nanoelettronica. Il secondo, nei dispositivi che operano con elevate
densità di corrente, è la realizzazione di interconnessioni che minimizzino la
Fig. 5. Immagine panoramica e in sezione di un SET
a singolo elettrone, in cui la connessione tra drain e
source è assicurata da un solo CNT.
33
dissipazione di calore, presentino elevate caratteristiche meccaniche e resistenza
alla migrazione elettronica. La sfida maggiore è comunque rappresentata dalla
manipolazione delle nanostrutture nell‟assemblaggio dei dispositivi, problema non
soltanto ingegneristico ma scientifico, date le piccole dimensioni delle
nanostrutture.
Proprietà magnetiche. Generalmente la forza di un magnete è misurata dai
valori del suo campo coercitivo e della magnetizzazione di saturazione. Poiché tali
valori crescono al diminuire delle dimensioni dei grani e all‟aumentare dello
sviluppo superficiale, è evidente che i nanomateriali presentano ottime qualità
anche in questo campo. Le differenze di comportamento tra le nanoparticelle
magnetiche e i materiali in bulk sono dovute principalmente a due effetti. Il
primo, ossia l‟elevata superficie specifica vista sopra, comporta ambienti
localmente diversi per gli atomi superficiali durante l‟interazione/accoppiamento
magnetico con gli atomi vicini.
A differenza dei materiali ferromagnetici in bulk, che sono in genere
costituiti da domini magnetici multipli, alcune nanoparticelle ferromagnetiche
possono essere costituite da un singolo dominio magnetico. In quest‟ultimo caso
si ha la comparsa di un fenomeno noto come superparamagnetismo, caratterizzato
dalla distribuzione casuale della magnetizzazione delle singole particelle, le quali
risultano allineate solo durante l‟applicazione di un campo magnetico, rimosso il
quale si ha la scomparsa dell‟allineamento. Nei dispositivi di immagazzinamento
dati ultra-compatti, ad esempio, è la dimensione dei domini a determinare la
densità di immagazzinamento. Alcune eterostrutture metalliche multistrato,
costituite di strati alternati ferromagnetici ed amagnetici, come Fe-Cr e Co-Cu,
hanno mostrato di possedere una enorme magnetoresistenza (GMR ossia Giant
Magnetoresitance), una elevata variazione della resistenza elettrica quando la
corrente fluisce parallelamente agli strati sotto applicazione di un campo
magnetico esterno. Il fenomeno appena mostrato trova importanti applicazioni
nella sensoristica e nel data storage.
Proprietà ottiche. Anche le proprietà ottiche dei nanocristalli differiscono
notevolmente dalle corrispettive del bulk. Contributi fondamentali in questo
34
campo vengono da fattori quali il confinamento quantistico dei portatori di carica
entro le nanoparticelle, l‟efficiente trasferimento di carica ed energia entro la
nanoscala ed, in molti sistemi, il ruolo molto importante delle interfacce.
Mentre la tecnologia di questi materiali cresce, aumenta la necessità di
comprendere in dettaglio le basi in vista delle applicazioni in optoelettronica e
nano fotonica. Tanto le proprietà ottiche lineari di questi materiali, che le non
lineari, possono essere adattate finemente controllando le dimensioni dei cristalli e
la chimica delle superfici.
I plasmoni superficiali (PS) sono all‟origine del colore nei nanomateriali.
Un PS non è che la naturale oscillazione del gas di elettroni all‟interno di una data
nanosfera. Se la sfera ha dimensioni piccole rispetto alla lunghezza d‟onda della
luce, e la luce ha una frequenza prossima a quella del plasmone, quest‟ultimo
assorbirà energia. La frequenza del PS dipende dalla funzione dielettrica del nano
materiale e dalla forma della nano particella. Ad esempio per una particella sferica
di Au, la frequenza è circa 0,58 volte la frequenza di plasma del materiale in bulk,
cosicché, anche se quest‟ultima cadesse nel campo degli UV, la frequenza del PS
sarebbe nel visibile. Supponendo di avere delle nanoparticelle in sospensione in
un liquido e di applicare un‟onda luminosa, il campo elettrico locale può venire
incrementato enormemente dalla risonanza del PS.
Applicazioni. Colle contenenti nanoparticelle presentano proprietà ottiche
interessanti per l‟utilizzo in optoelettronica. Rivestimenti contenenti
nanoparticelle utilizzate in dispositivi elettronici, come i computer, costituiscono
sistemi di schermatura migliorati contro le interferenze elettromagnetiche.
Proprietà meccaniche. Grazie alle dimensioni nanometriche, molte delle
proprietà meccaniche dei materiali convenzionali vengono modificate, come ad
esempio la durezza, il modulo elastico, la tenacità a frattura, la resistenza ai graffi
e all‟abrasione e la vita a fatica. La realizzazione di componenti in scala
nanometrica influenza la dissipazione di energia, l‟accoppiamento meccanico tra
componenti in serie e le non linearità di origine meccanica. Questo approccio
35
include anche l‟interpretazione di comportamenti meccanici insoliti (ad esempio il
raggiungimento di resistenze prossime ai limiti teorici) e l‟esplorazione di nuovi
modi per integrare diverse classi di materiali nanometrici meccanicamente
funzionali.
Le caratteristiche più interessanti introdotte dalle dimensioni
nanometriche, derivano dal grado di perfezione strutturale di questi materiali. Le
piccole dimensioni possono influire in diversi modi: si può arrivare alla totale
eliminazione di imperfezioni strutturali, come dislocazioni e precipitati di
impurezze; se invece sono presenti difetti di vario tipo ed impurezze, il loro scarso
numero non è sufficiente a causare una cedimento meccanico. Possedendo poi, le
imperfezioni nanometriche un elevato contenuto energetico, operando una
ricottura esse migreranno in superficie per ridurre il loro surplus di energia,
purificando il materiale e lasciando strutture perfette all‟interno di quest‟ultimo.
Inoltre, anche le superfici esterne del nanomateriale saranno esenti o quasi da
difetti e, se confrontate con lo stesso materiale in bulk, presenteranno un
incremento delle proprietà meccaniche [22].
Applicazioni. Utensili da taglio composti da nanomateriali, come i carburi
di tungsteno, tantalio e titanio, presentano durezza, resistenza all‟usura e durata
molto superiore agli stessi materiali con struttura convenzionale (a grani non
nanometrici). Inoltre, poiché per la miniaturizzazione dei circuiti nella
microelettronica, sono richiesti microtrapani con resistenza all‟usura molto
elevata, vengono attualmente utilizzati carburi nanocristallini con maggiore
durezza e resistenza all‟usura.
Nel campo automobilistico, si prevede l‟utilizzo dei nanomateriali nei
sistemi di accensione (candele) grazie alla loro durezza, resistenza all‟abrasione e
all‟usura. Inoltre, dato che nelle automobili i motori dissipano grandi quantità di
energia, con conversione in energia termica, si prevede di ricoprire i cilindri del
motore con materiali ceramici nanocristallini, come zirconia o allumina, che
trattengono il calore con efficienza molto superiore, col risultato di una completa
ed efficiente combustione.
36
Una delle proprietà fondamentali richieste ai componenti degli aeromobili
è la loro resistenza a fatica, che diminuisce con l‟età del componente, ma aumenta
al diminuire delle dimensioni dei grani del materiale. I nanomateriali offrono una
riduzione delle dimensioni del grano così ampia rispetto ai materiali
convenzionali, da produrre un allungamento della vita a fatica anche del 200-
300%. Nei veicoli spaziali, una caratteristica cruciale è la resistenza dei materiali
alle alte temperature, dato che diversi componenti, come i motori a razzo o gli
ugelli di spinta, operano a temperature e velocità molto più elevate che nei comuni
aeromobili.
Nonostante i materiali ceramici siano solitamente duri, fragili e di difficile
lavorazione anche ad elevate temperature, con la riduzione della dimensione dei
grani si ha un drastico cambiamento delle loro proprietà. I ceramici nanocristallini
possono essere pressati e sinterizzati a temperature molto inferiori. Ad esempio, la
Zirconia, che è generalmente un materiale duro e fragile, è stata resa superplastica
con la struttura nanocristallina, potendo arrivare a deformazioni del 300%, rispetto
alle sue dimensioni iniziali. Materiali ceramici nanostrutturati, basati su nitruri e
carburi di silicio, sono stati utilizzati in applicazioni auto motive, come nelle
molle ad alta resistenza o nei cuscinetti a sfere, grazie alla loro elevata lavorabilità
e formabilità, unite a eccellenti proprietà fisiche, chimiche e meccaniche.
Gli aerogel sono materiali nanocristallini porosi estremamente leggeri, con
la capacità di sopportare pesi anche 100 volte superiori al proprio. Attualmente
vengono utilizzati come isolanti termici e acustici nelle case e negli uffici;
cominciano però, ad essere utilizzati anche per la realizzazione di finestre
intelligenti, che si opacizzano quando sono esposte ad elevate intensità di luce e si
schiariscono alle basse intensità.
Altre possibili applicazioni dei nanomateriali possono aversi sia nel campo
“nano”, come i nano risonatori meccanici (Fig. 5), i sensori di massa, nano pinze e
punte per le sonde dei microscopi elettronici, sia in campo “macro” come rinforzi
strutturali nei materiali polimerici o in materiali leggeri ad alta resistenza.
37
Fig. 5. Micrografia al SEM di un risonatore, realizzato con un nanowire in sospensione.
Proprietà termiche. Lo studio delle proprietà ottiche dei nanomateriali ha
incontrato diversi problemi, in parte dovuti alla difficoltà di misurare
sperimentalmente e controllare il trasporto termico in scala nanometrica. Il
microscopio a forza atomica, o AFM, è stato introdotto per misurare il trasporto
termico delle nanostrutture, tramite l‟alta risoluzione spaziale della scala
nanometrica. Si può aggiungere che le simulazioni e le analisi teoriche sul
trasporto termico delle nanostrutture, sono ancora nella fase embrionale. I diversi
approcci teorici disponibili, tra cui le soluzioni numeriche dell‟equazione di
Fourier, il calcolo computazionale basato sull‟equazione del trasporto di
Boltzmann e le simulazioni di dinamica molecolare, presentano delle limitazioni.
Una difficoltà ancora più importante riguarda il problema della definizione
della temperatura, quando le dimensioni arrivano alla scala nanometrica. Nei
sistemi materiali non metallici, l‟energia termica viene principalmente trasportata
dai modi fononici, i quali presentano grande variabilità nelle frequenze e nel
cammino libero medio (clm). I fononi che trasportano calore hanno spesso degli
elevati vettori d‟onda e un clm dell‟ordine del nanometro a temperatura ambiente,
cosicché le dimensioni delle nanostrutture risultano paragonabili al clm e alle
lunghezze d‟onda dei fononi [23]. Tuttavia la definizione generale di temperatura
si basa sull‟energia media di un sistema in equilibrio. Per i sistemi macroscopici,
le dimensioni sono grandi abbastanza da definire una temperatura locale in ogni
38
regione del materiale, la quale in genere varia da una regione all‟altra, cosicché è
possibile studiare le proprietà di trasporto termico, basandosi sulla distribuzione di
temperatura all‟interno del materiale. Per i nanomateriali non è, al contrario,
possibile definire una temperatura locale. Inoltre, risulta problematico anche l‟uso
del concetto di temperatura per i processi di non equilibrio, di trasporto termico
nei nanomateriali, creando difficoltà per l‟analisi teorica.
Nonostante le difficoltà teoriche e sperimentali, recenti scoperte hanno
mostrato che alcuni nanomateriali presentano proprietà termiche eccezionali
rispetto alle loro controparti macroscopiche. Nei sistemi nanostrutturati, alcuni
aspetti, come le dimensioni ridotte, le geometrie particolari e l‟estensione delle
interfacce fanno sì che le proprietà termiche risultino piuttosto differenti da quelle
dei materiali in bulk. Come accennato prima, col diminuire delle dimensioni,
poiché il clm e la lunghezza d‟onda dei fononi risultano comparabili con le
dimensioni in gioco, si hanno effetti di quantizzazione e confinamento sul
trasporto termico. Ad esempio, i nanowires di Si presentano conducibilità molto
inferiore al silicio in bulk [24]. Anche la particolare struttura può influire sulle
proprietà termiche, come avviene ad esempio in strutture tubolari come i nanotubi
di carbonio, in cui la conducibilità termica è molto elevata in direzione assiale pur
presentando una notevole anisotropia riguardo alla trasmissione del calore lungo
altre direzioni [25].
Anche le interfacce interne giocano un ruolo importante nella
determinazione delle proprietà termiche dei nanomateriali. Poiché, in genere, le
interfacce e i bordi di grano ostacolano i flussi termici tramite fenomeni di
scattering dei fononi, i nanomateriali nanostrutturati che presentano una elevata
densità di interfacce, dovrebbero ridurre la conducibilità termica nel materiale.
1.2.4-Applicazioni dei nanomateriali
I nanomateriali e le nanostrutture offrono infinite applicazioni nei più
disparati campi, che coprono l‟elettronica, la medicina, la meccanica, la
39
sensoristica, la catalisi, etc. Nell‟impossibilità di citarle tutte, sarà presentata una
rassegna di quelle di maggiore interesse.
Elettronica. In campo elettronico grande importanza stanno guadagnando i
cosiddetti “dispositivi a singolo elettrone”. Questi dispositivi sono basati sul
cosiddetto „Coulomb blockade‟, un effetto classico che avviene in presenza di
capacità molto ridotte: il trasferimento di un elettrone in un condensatore (con una
capacità estremamente piccola, dell‟ordine dell‟attofarad) si traduce in un
corrispondente potenziale negativo che supera l‟energia termica kT (dove k è la
costante di Boltzmann e T è la temperatura espressa in kelvin). Se ad esempio,
consideriamo una nano particella sferica (Fig. 6) del diametro di 10 nm, un
elettrone in prossimità di essa, creerà un campo elettrico dell‟ordine dei 140
kV/cm, tanto intenso da impedire l‟aggiunta di un secondo elettrone, a meno di
non aumentare la differenza di potenziale di iniezione. L‟iniezione di un elettrone
in una buca quantica modifica le energie impedendo ulteriori immissioni di
elettroni. Il dispositivo è generalmente composto da una sorgente di elettroni (per
es., silicio cristallino), un pozzo per l‟uscita degli elettroni (anch‟esso fatto di
silicio cristallino) con un punto quantico nel mezzo. Il punto quantico è separato
dalla sorgente e dal pozzo da due strati di ossido estremamente sottili (che sono
isolanti e costituiscono la barriera per gli elettroni). Gli elettroni penetrano e
attraversano il punto quantico grazie all‟effetto tunnel.
40
(a) (b)
Fig. 6. (a) In prossimità di una nano particella del diametro di 10 nm, un elettrone provoca un
elevato campo elettrico, che impedisce l’aggiunta di altri elettroni. (b) Schema di un transistor
a singolo elettrone.
Questo schema rappresenta, con una porta di controllo che permetta di
modificare il potenziale sul punto, la base per un transistor a singolo elettrone o
SET (Single Electron Transistor) nel quale, variando la tensione di gate, si può
controllare l‟ingresso di un elettrone alla volta [25]. Grazie alla loro elevatissima
sensibilità alla carica, questi dispositivi, che lavorano a temperature variabili tra i
20 mK e 1 K, vengono utilizzati negli elettrometri ultrasensibili (risoluzioni di
frazione di carica dell‟elettrone), nel conteggio di precisione degli elettroni e per
gli standard di capacità e corrente.
L‟invenzione delle memorie a elettrone singolo operanti a temperatura
ambiente ha rappresentato un grosso passo in avanti in microelettronica. L‟effetto
di memoria fu osservato per la prima volta in uno strato di Si policristallino dove
potevano essere immagazzinate molte cariche elettriche con l‟effetto di modificare
la tensione di soglia per la formazione del canale di conduzione. La presenza o
meno delle cariche nel polisilicio (floating gate) rappresenta l‟informazione (stati
0 e 1). Più di recente, si è dimostrato come i nanocristalli incorporati in SiO2
possano agire come floating gate in dispositivi di memoria. Il processo consiste
nel caricare il punto quantico con un elettrone mediante effetto tunnel. Il punto
quantico carico modifica la tensione di soglia per la formazione di un canale tra
una sorgente e un pozzo. Il processo generale è, in linea di principio, simile a ciò
41
che accade nelle EEPROM (electrically erasable programmable read only
memory), ma in questo caso tutte le dimensioni sono estremamente ridotte. I
problemi sono relativi al trattenimento della carica, dato che una perdita
dell‟elettrone intrappolato costituisce una perdita totale dell‟informazione
immagazzinata. Quando memorie affidabili a elettrone singolo, basate su
nanostrutture, saranno disponibili in commercio, si avrà, a parità di capacità di
memoria, una drastica riduzione nelle dimensioni dei dispositivi.
Le eterostrutture a semiconduttore sono solitamente indicate come
“materiali monodimensionali strutturati artificialmente”, composti di strati con
differenti fasi e composizione. Questi materiali multistrato risultano
particolarmente interessanti quando lo spessore del singolo strato è inferiore al
cammino libero medio dell‟elettrone, dando luogo ad un sistema ideale per le
strutture a pozzo quantico (quantum wells), candidati eccellenti per la produzione
di nanodispositivi per l‟elettronica e la fotonica.
Nell‟industria della microelettronica, con la drastica riduzione delle
dimensioni dei componenti, è prospettabile un elevato incremento delle velocità
dei microprocessori, con la possibilità di effettuare calcoli anche complessi in
tempi molto ridotti. I nanomateriali possono aiutare a superare i problemi connessi
con gli elevati sviluppi di calore dovuti all‟aumento di velocità e la conseguente
diminuzione della vita media dei componenti, attraverso l‟utilizzo di materiali di
base nanocristallini ultrapuri, con migliore conducibilità termica e più duraturi.
Materiali nanocristallini come i solfuri di Zn e Cd e il seleniuro di Zn,
sintetizzati mediante la tecnica del sol-gel, sono candidati ideali per l‟incremento
della risoluzione degli schermi dei monitor. Si prevede che l‟utilizzo dei nano
fosfori, possa ridurre sensibilmente il costo di questi display, rendendo le
televisioni ad alta definizione (HDTVs) accessibili a tutti. Analogamente si
prevede una riduzione dei costi e un aumento di risoluzione degli schermi piatti
utilizzati nei computer portatili, grazie all‟utilizzo di nano fosfori, i quali inoltre,
grazie alle migliori proprietà elettriche e magnetiche, presentano luminosità e
contrasto superiori ai display convenzionali.
42
Un dispositivo elettrocromatico è costituito da un materiale in cui, tramite
il passaggio di corrente o l‟applicazione di un campo elettrico, è possibile
introdurre una banda di assorbimento ottico o modificare una banda già esistente.
Materiali nanocristallini, come l‟ossido tungstico idrato (WO3•H2O) gel, sono
utilizzati nella realizzazione di display elettrocromatici di grandi dimensioni. La
reazione che governa l‟elettrocromatismo (un processo di colorazione reversibile,
che avviene sotto l‟applicazione di un campo elettrico), è la doppia iniezione di
ioni (o protoni H+) ed elettroni i quali, combinandosi con l‟acido tungstico, danno
luogo alla formazione di un bronzo al W. Questi dispositivi sono simili ai display
a cristalli liquidi (LCD), usati comunemente nei calcolatori. Al contrario di questi
ultimi, i display elettrocromatici generano l‟informazione cambiando colore sotto
l‟applicazione di un certo potenziale. La risoluzione, la luminosità ed il contrasto
di questi dispositivi dipendono tutti dalla dimensione dei grani dell‟acido di W [16
pag 2504]. Con l‟utilizzo delle nanostrutture, la variazione di colore sarà più
veloce ed uniforme.
Energia e catalisi. L‟US Department of Energy Hydrogen Plan ha stabilito
un limite inferiore per l‟assorbimento reversibile di idrogeno. Lo standard stabilito
prevede un efficienza in peso del sistema (cioè il rapporto tra il peso dell‟idrogeno
e quello del sistema) almeno del 6,5%, corrispondente ad una densità volumetrica
di 63 kg di H2/m3. Il sistema ideale per lo stoccaggio di idrogeno dovrebbe essere
leggero, compatto, relativamente poco costoso, sicuro, facile da usare e
riutilizzabile senza il bisogno di rigenerazione. Tutte le tecniche sulle quali si è
focalizzata la ricerca sino ad ora, come i sistemi a idrogeno liquido o compresso,
i sistemi metallici ibridi e i sistemi a carboni superattivi, presentano seri
inconveniente. Ad esempio, i sistemi a idrogeno liquido sono molto costosi,
soprattutto perché bisogna raffreddare l‟idrogeno a circa -252°C e inoltre perché
quest‟ultimo va tenuto a bassa temperatura per evitare che, con l‟ebollizione si
abbiano perdite. L‟idrogeno compresso è molto meno costoso dell‟idrogeno
liquido, ma anche più denso (bulkier). I problemi relativi all‟utilizzo di sistemi a
metalli ibridi, riguardano invece il peso elevato (circa 8 volte quello di un sistema
a idrogeno liquido) e il riscaldamento necessario per il rilascio dell‟idrogeno.
43
I carboni superattivi sono alla base di un altro sistema per lo stoccaggio di
idrogeno che inizialmente sembrava avere un certo potenziale di
commercializzazione. Il carbonio superattivo è un materiale simile al carbone
attivo ad alta porosità, utilizzato nei filtri per l‟acqua, ma può tranquillamente
legare molecole d‟idrogeno, tramite fisiadsorbimento a temperature inferiori allo
zero. Il maggior inconveniente di questo sistema è il costante raffreddamento
richiesto per evitare il distacco dell‟idrogeno, a causa delle deboli forze che lo
tengono unito al carbonio.
Recentemente nella comunità scientifica hanno suscitato un certo interesse
alcune pubblicazioni riguardanti l‟assorbimento reversibile di idrogeno in
nanotubi di carbonio e piastrine di nanofibre (platelet), con applicazioni
prevedibili nel campo dei trasporti e dell‟energia (celle a combustibile). Un
gruppo della Northeastern University è riuscito per primo a immagazzinare
idrogeno in nanostrutture di carbonio stratificate, aventi un certo grado di
cristallinità (Fig. 7). Secondo i ricercatori che hanno svolto il lavoro, nelle
“piastrine” di nanofibre (con spessori di 3-50 nm) è possibile immagazzinare fino
al 75% in peso di idrogeno, ossia un rapporto C/H pari a 1/9, avendosi completo
desorbimento solo ad elevate temperature.
44
Fig. 7. Stoccaggio di idrogeno tra piani grafitici di diversa spaziatura.
Gli stessi autori hanno recentemente sottolineato il ruolo fondamentale del
trattamento cui vanno sottoposte le nanofibre di carbonio prima dell‟assorbimento
di H2 (1000°C in gas inerte), necessario per rimuovere le eventuali molecole
gassose adsorbite chimicamente, e la drastica riduzione di H2 adsorbito nel caso in
cui tale trattamento venga meno. In questo lavoro, gli autori hanno registrato un
adsorbimento di idrogeno del 20 e 40%, eseguendo l‟esperimento a temperatura
ambiente e una pressione di H2 di 100 mbar, nonostante simulazioni successive,
da parte di altri gruppi, abbiano messo in forte dubbio i valori riportati.
Nel contempo sono stati realizzati diversi lavori sullo stoccaggio di
idrogeno, tramite nanotubi di carbonio a parete singola, riportando percentuali di
adsorbimento variabili tra l‟1 ed il 14%.
Nanomacchine. Questi sistemi rappresentano l‟evoluzione dei cosiddetti
MEMS (Micro Electro Mechanical System), che sono stati sviluppati negli ultimi
due decenni. I NEMS (Nano Electro Mechanical Systems) vengono utilizzati in
applicazioni in cui è determinante che il sistema presenti la più piccola massa
45
possibile, come ad esempio nei sensori di forza, nei sensori chimici e biologici e
nei risonatori a frequenze ultraelevate.
I processi di fabbricazione dei NEMS sono distinti in base al tipo di
approccio utilizzato: nell‟approccio di tipo Top-down, per la produzione del
dispositivo, vengono utilizzate tecniche basate sulla litografia sub micrometrica
(come la litografia a fascio di elettroni, la convenzionale crescita dei film e
l‟attacco chimico) a partire dai materiali massivi, siano essi in forma di film sottili
o di substrati spessi; nel Bottom-up, si cerca invece di ottenere il componente
partendo direttamente dall‟assemblaggio di atomi e molecole. I NEMS di “prima
generazione” hanno usufruito sia di tecniche di produzione già utilizzate per i
MEMS e i circuiti integrati submicrometrici, sia degli stessi materiali studiati per
qusti ultimi componenti, come SiC, Si, Si3N4 e GaAs. Tale prima generazione di
NEMS include travi nano meccaniche sospese, oscillatori puddle e placchette
legate ottenute con l‟utilizzo di semplici processi di nano lavorazione su superfici
in bulk e monostrato [14].
Altre applicazioni dei MEMS e NEMS comprendono sensori di pressione,
accelerometri, giroscopi, sensori resistivi e capacitivi per diversi scopi, induttori
Fig. 8. (a) Micrografia al SEM di una serie di risonatori nano meccanici di GaAs serrati alle
estremità; (b) Confronto tra le dimensioni di un comune acaro ed una serie di nano ingranaggi.
(a) (b)
46
capacitivi e dispositivi ottici per l‟immagazzinamento dati, display ad altissima
risoluzione ed attuatori di vario tipo.
Altra categoria applicativa è poi quella dei nano motori molecolari e dei
nano ingranaggi. Tra i primi sono spesso impiegate molecole già esistenti in
natura, previa manipolazione opportuna mentre tra i nano ingranaggi si possono
citare quelli realizzati dall‟unione di nanotubi di carbonio e anelli aromatici (Fig.
9).
Nanomedicina. Molte delle applicazioni sulle quali è oggi concentrata la ricerca
scientifica riguardano il campo biomedico. Esse includono:
Fig. 2. In alto a sinistra: alcuni esempi di nano motori; in
alto a destra: una nano macchina il cui funzionamento si
basa su reazioni di scambio acido-base; in basso a
destra: nano ingranaggio realizzato mediante due SWNT
i cui denti sono costituiti da anelli benzenici legati sulla
superficie esterna.
47
Utilizzo di semiconduttori nanocristallini (quantum dots a differente
frequenza di emissione) nella diagnostica medica per immagini, utilizzati
al posto dei marcatori fluorescenti convenzionali, rispetto ai quali
presentano maggiore sensibilità e stabilità (oltre a consentire una minore
esposizione);
Biosensori basati su nanoparticelle per la rivelazione semplice e rapida di
batteri (E.coli) negli alimenti: nanoparticelle di silice (SiO2; 60nm)
vengono drogate con molecole di colorante fluorescente (migliaia per
nanoparticella). Anticorpi specifici per E. coli vengono poi innestati sulle
nanoparticelle, che si aggregano così a migliaia a ciascun batterio. La
fluorescenza indotta sulle nanoparticelle permette l‟individuazione del
batterio anche quando questo si presenta in basse concentrazioni;
Nanoparticelle magnetiche vengono utilizzate nella distruzione iper
localizzata di cellule tumorali attraverso un processo, noto dagli anni ‟50
come ipertermia. L‟evoluzione moderna viene comunemente indicata
come Ipertermia con fluidi magnetici (MFH) ed utilizza nanoparticelle di
ossidi di ferro o altri metalli nanostrutturati i quali, sotto l‟applicazione di
un campo magnetico variabile, provocano un innalzamento localizzato di
temperatura nelle cellule cui si sono legati, con effetti diversi che possono
arrivare alla cosiddetta termoablazione magnetica [27].
Drug delivery. Nanoparticelle polimeriche e ceramiche, micelle, libosomi,
dendrimeri e nanoparticelle magnetiche, sono state utilizzate anche come
dispositivi per il rilascio mirato dei farmaci. La maggior parte delle
nanoparticelle usate per questo scopo hanno la forma di nano capsule in
cui il farmaco è confinato in una cavità, circondata da una membrana. I
metodi di fabbricazione includono la microemulsificazione, i fluidi
supercritici, gli aerosol e la precipitazione reattiva [16].
Altre interessanti applicazioni comprendono il rilascio di farmaci
mediante l‟utilizzo di dispositivi come i NEMS, o robot nanometrici oggi
comunemente indicati come nanobots e la riparazione di tessuti danneggiati.
48
Nanocompositi. Le applicazioni dei nanocompositi metallo-polimero
risultavano originariamente limitate alla preparazione di membrane catalitiche non
porose, basate su dispersioni di nanopolveri di catalizzatori eterogenei (Pd, Pt e
loro leghe) in polimeri idrofili (PVP, PVA, PEO, ecc.). Questi sistemi sono
caratterizzati da una attività catalitica superiore a quella prevedibile sulla base del
solo aumento di area di superficie (effetto supercatalitico) e di una selettività e
specificità diversa da quella caratteristica delle analoghe polveri micrometriche,
dovuta alla prevalenza del comportamento dei siti agli spigoli ed ai vertici dei
cristalli su quello relativo ai siti dei piani basali. Oggi vengono riconosciuti a
questi materiali una miriade di potenzialità applicative in svariati settori
tecnologici [28]. Tra queste particolarmente importanti sono le applicazioni nei
settori dell‟ottica, delle microonde, della sensoristica e della fotonica. Compositi a
base di polimeri caricati con nanopaticelle metalliche o nanotubi di carbonio
possono essere inoltre utilizzati per la schermatura da radiazione
elettromagnetiche e per applicazioni strutturali.
Fig. 10. Cellule tumorali contenenti nanopartcelle magnetiche.
49
1.3-Nanotubi di carbonio
1.3.1-Introduzione
La storia dei nanotubi di carbonio cominciò nel 1985 con la scoperta della
terza forma allotropica del carbonio da parte di H. W. Kroto, della University of
Sussex e R. E. Smalley della Rice University [29]. Alla nuova classe di molecole
fu attribuito il nome di fullereni, in onore dell’architetto R. Buckminster Fuller,
progettista delle famose cupole geodetiche di cui questi composti richiamano la
forma, mentre il nome di Buckyball o Buckminster fullerene rimase ad indicare la
più famosa delle geometrie dei fullereni, il C60, costituito da 60 atomi di carbonio
disposti a formare 20 facce esagonali e 12 pentagonali. La scoperta dei nanotubi
di carbonio si deve invece a Sumio Iijima dei NEC Labs di Tsukuba in Giappone
il quale, nel 1991, osservando al TEM il prodotto di una scarica ad arco mirata
alla produzione di fullereni, notò la presenza di “microtubuli di carbonio
grafitico” che divennero in seguito noti come nanotubi di carbonio a parete
multipla o MWNT (Multi Wall carbon NanoTubes), poiché costituiti da più pareti
cilindriche concentriche [30].
(a) (b) (c)
Due anni più tardi i nanotubi di carbonio a parete singola o SWNT
(Single Wall carbon NanoTubes), furono scoperti in contemporanea dal gruppo di
Iijima e da quello di Donald Bethune dell’IBM Almaden Research Center in
Fig. 1. (a) Il “padre” dei nanotubi di carbonio, Sumio Iijima; (b) la molecola del C60; (c) cupola
geodetica di Buckminster Fuller.
50
California. Da allora la ricerca su queste affascinanti strutture è proseguita senza
sosta, investendo i più svariati campi.
1.3.2-Allotropi del carbonio
Il carbonio può combinarsi con se stesso o altri elementi attraverso tre tipi
d’ibridazione: su questa caratteristica si basa il gran numero di composti che il
carbonio può formare allo stato solido, la chimica organica e la vita stessa.
Con una configurazione elettronica esterna del tipo 2s22p
2, con 4 elettroni
di valenza che possono partecipare alla formazione di legami, il carbonio ha la
possibilità di formare 3 tipi di orbitali ibridi:
Nell’ibridazione di tipo sp3 si ha la formazione di 4 orbitali ibridi
2sp3 equivalenti, orientati secondo un tetraedro intorno all’atomo di
carbonio (Fig.2), con la possibilità di formare 4 legami σ identici,
per sovrapposizione con gli orbitali di un altro atomo;
Nell’ibridazione di tipo sp2 si formano invece 3 orbitali ibridi
identici giacenti sullo stesso piano e orientati a circa 120° tra di
loro, che hanno la possibilità di formare legami σ con atomi vicini,
mentre il terzo orbitale p non partecipa all’ibridazione e può
soltanto formare legami π con altri atomi.
L’ibridazione sp1 è caratterizzata dalla formazione di 2 orbitali
ibridi 2sp1 lineari (disposti a 180° l’uno dall’altro), mentre 2
orbitali 2p rimangono inalterati. I legami σ sono originati dalla
sovrapposizione degli orbitali 2sp1 ibridi degli atomi circostanti,
mentre si formano 2 legami π con la sovrapposizione di orbitali
non ibridizzati di due atomi di carbonio.
Nel legame aromatico carbonio-carbonio, di cui è un esempio la molecola
del benzene (C6H6), gli atomi di C si trovano legati tramite legami sp2 σ a formare
51
un esagono regolare. Gli orbitali π originari sono tutti orbitali di legame,
completamente occupati; la grande delocalizzazione degli elettroni contribuisce
alla stabilità della molecola.
Grafite. E’ la forma allotropica più comune del carbonio. Gli atomi di C
formano un network esagonale con struttura a nido d’ape e con i singoli piani
impilati secondo la sequenza ABAB (Fig. 3). La distanza tra atomi primi vicini
(ac-c) entro il piano è pari ad 1,421 Å, con costante reticolare a0=2,462 Å, mentre
la costante reticolare sull’asse c è c0=6,708 Å con distanza interplanare pari a
c0/2=3,354 Å [31]. Entro ogni piano di grafite (detto grafene), gli atomi di C sono
legati da 3 legami covalenti forti di tipo σ, generati dalla sovrapposizione di una
coppia di orbitali atomici ibridi di tipo sp2 e da un legame π delocalizzato
originato dalla sovrapposizione laterale di orbitali atomici di tipo p aventi assi di
simmetria perpendicolari al piano reticolare (cioè a quello dei legami σ); i vari
piani sono invece tenuti assieme dalle deboli forze di Van der Waals. La
delocalizzazione dei legami π rende conto dell'elevata conducibilità elettrica della
grafite lungo una qualunque direzione che giaccia nel piano reticolare e della
bassa conducibilità in direzioni perpendicolari ad esso.
Il tipo di grafite più utilizzata commercialmente è la cosiddetta HOPG
(Highly Oriented Pyrolytic Graphite), la quale viene sintetizzata mediante pirolisi
di idrocarburi a temperature superiori ai 2000°C e successivamente ricotta a
3300°C. L’HOPG presenta proprietà meccaniche, termiche ed elettroniche molto
simili a quelle di un cristallo ideale di grafite, grazie alla struttura fortemente
Fig. 2. Le tre diverse possibilità di ibridazione del carbonio: (a) sp1; (b) sp2; (c) sp3.
52
orientata: questa caratteristica la rende adatta all’utilizzo come cristallo
monocromatore per diffrazione a raggi X e ai neutroni.
Ciò che differenzia la grafite dal diamante è la struttura della cella
cristallina elementare che è esagonale e piana nella grafite mentre è tetraedrica e
spaziale nel diamante. Ne consegue che, mentre il diamante ha un comportamento
essenzialmente isotropo ossia, con caratteristiche meccaniche identiche in tutte le
direzioni, la grafite, al contrario, ha un comportamento fortemente anisotropo,
ossia essa esibisce una grande resistenza meccanica (soprattutto a trazione) nel
piano in cui si sviluppano i cristalli, mentre risulta estremamente debole se
sottoposta a trazione in direzione ortogonale a tale piano giacché i vari piani
cristallini sono legati tra loro solo da deboli legami di Van der Waals.
Diamante. Il diamante costituisce la seconda forma stabile del carbonio.
Esso è un esempio tipico di cristallo covalente, in cui ogni atomo di carbonio è
legato attraverso un legame covalente di tipo σ ad altri quattro atomi, secondo una
distribuzione tetraedrica, dando origine ad un reticolo tridimensionale (Fig. 4). La
forza di questi legami fa del diamante il materiale più dure esistente in natura. In
questa struttura gli angoli di legame C-C-C sono tutti 109,5° e ciascun atomo di
carbonio utilizza per la formazione del legame, orbitali ibridi sp3.
Fig. 3. Struttura della grafite con cella unitaria
indicata.
53
Il diamante esiste sia nella forma cubica che in quella esagonale
(Lonsdaelite). Nella più comune forma cubica ogni atomo di C è legata ad altri
quattro atomi di C da altrettanti legami σ con ibridazione sp3, dando origine ad
angoli di legame C-C-C di 109,5° e lunghezza di legame pari a 1,544 Å. La
struttura cristallina è del tipo della zincoblenda (cfc), mentre per la forma
esagonale la struttura è quella della wurzite, con una distanza di legame pari a
1,52 Å. Entrambi i tipi di diamante presentano una densità di 3,52 g/cm-3
a fronte
dei 2,26 g/cm-3
della grafite grazie alla maggiore densità atomica, nonostante le
distanze di legame siano maggiori che in quest’ultima.
(a) (b)
Fullerene. Una terza forma allotropica del carbonio, artificiale,
cineticamente (ma non termodinamicamente) stabile, è costituita dai fullereni.
Questi rappresentano una delle più notevoli scoperte della chimica dell'ultimo
decennio. La scoperta avvenne per caso nel Settembre del 1985 da parte di Harold
W. Kroto dell'Università del Sussex (Inghilterra) di Richard E. Smalley e di
Robert F. Curl, i quali nel 1986 ricevettero, grazie ad essa, il premio Nobel per la
Chimica. Kroto stava cercando di riprodurre in laboratorio le molecole che sono
presenti nello spazio interstellare ed invece scoprì che il carbonio formava
Fig. 4. (a) Diamante nella forma cubica della zincoblenda e (b) con il reticolo esagonale della wurzite.
54
molecole con 60 atomi in grande quantità quando si raccoglieva la fuliggine
prodotta da un arco elettrico fra due barrette di grafite. Studi teorici e sperimentali
hanno mostrato che la forma più stabile per cluster di carbonio formati al massimo
da 10 atomi, è quella di una catena lineare [32]. Per cluster costituiti da un numero
di atomi di C variabile tra 10 e 30, la forma più stabile risulta invece essere quella
d anello [33]. La genesi di cluster formati da un numero di atomi di C compreso
entro i 30-40 risulta invece improbabile [34], mentre al di sopra dei 40 atomi si ha
la formazione di strutture chiuse a gabbia.
I fullereni sono costituiti da cluster di atomi di carbonio, che formano una
struttura chiusa, cava all'interno, con un numero di atomi che sembra possa
arrivare fino a 540. In particolare, la molecola C60 è un icosaedro tronco con
diametro variabile tra i 7 e i 15 Å e le facce costituite da 12 pentagoni e 20
esagoni in accordo con il teorema di Eulero per i poliedri:
𝑓 + 𝑣 = 𝑒 + 2 (1.3.1)
in cui f, v ed e sono rispettivamente il numero delle facce, dei vertici e degli
spigoli del poliedro.
La distanza media tra atomi primi vicini è ac-c= 1,44 Å , quasi uguale al
valore trovato per la grafite. Ogni atomo di C è legato con geometria trigonale ad
Fig. 5. Molecola del C60 o Buckyball.
55
altrettanti atomi di C mediante gli orbitali ibridi sp2, anche se la curvatura del C60
comporta la presenza di qualche orbitale ibrido sp3 caratteristico del diamante con
configurazione tetraedrica, ma assente nella grafite [35]. Altre forme stabili del
fullerene sono il C70, C78, C80, etc. I fullereni vengono prodotti artificialmente con
un sistema di vaporizzazione del carbonio ad alta temperatura, ma sono stati
ritrovati in minime percentuali anche nella miniera di carbone Yinpingland, in
Cina.
1.3.3-Struttura dei nanotubi di carbonio
Un nanotubo di carbonio, o più semplicemente CNT (Carbon NanoTube),
può essere considerato come un cilindro cavo, ottenuto arrotolando su se stesso un
foglio di grafene (ossia un singolo piano di grafite, Fig. 6).
Il legame all’interno dei CNT è essenzialmente di tipo sp2, anche se, a
causa della curvatura circolare, ha luogo un effetto di confinamento quantistico,
con reibridazione degli orbitali σ-π e ottenimento di tre legami σ leggermente
fuori dal piano; per compensazione gli orbitali π si troveranno maggiormente
delocalizzati all’esterno del tubo. Il meccanismo descritto dona ai CNT maggiore
resistenza meccanica, conducibilità elettrica e termica, reattività chimica e
biologica, rispetto alla grafite, oltre a far sì che difetti topologici, come ettagoni e
Fig. 6. Arrotolando un foglio di grafene si ottiene un nanotubo a parete singola (SWNT).
56
pentagoni, siano incorporati nel network esagonale, per formare CNT chiusi,
piegati, di forma toroidale o ad elica; tutto ciò avviene mentre gli elettroni
vengono localizzati nei pentagoni ed ettagoni, a causa della ridistribuzione degli
elettroni sugli orbitali π. Per convenzione un CNT che consista del solo network
esagonale viene detto privo di difetti, mentre esso viene considerato difettivo se
contiene anche difetti topologici, come ettagoni e pentagoni, o altri difetti di tipo
chimico e strutturale [36].
In base al numero di cilindri presenti nella struttura è possibile distinguere
tra nanotubi a parete singola (SWNTs) e a parete multipla (MWNTs).
SWNTs. Un SWNT (Single Wall NanoTube) può essere descritto come un
foglio di grafene arrotolato su se stesso e chiuso alle estremità da due emisferi di
fullerene. Un nanotubo è generalmente caratterizzato dal diametro dt e dall’angolo
chirale θ (0 ≤ 𝜃 ≤ 30°) (Fig. 7).
Fig. 7. Definizione della cella unitaria di un nanotubo di carbonio.
57
Il vettore chirale Ch, che descrive la circonferenza del nanotubo, è definito
tramite i due interi (n,m) ed i vettori di base del foglio di grafene:
𝐶ℎ = 𝑛𝑎1 + 𝑚𝑎2 ≡ (𝑛,𝑚) (1.3.2)
L’angolo chirale θ è l’angolo compreso tra il vettore chirale Ch e la
cosiddetta direzione di “zigzag” (n,0). Gli interi (n,m) determinano dt e θ:
𝑑𝑡 =𝑎
𝜋 𝑛2 + 𝑚2 + 𝑛𝑚 , sin 𝜃 =
3 𝑚
2 𝑛2+𝑚2+𝑛𝑚 (1.3.3)
Arrotolando semplicemente il foglio di grafene nella direzione del vettore
chirale Ch si ottiene un nanotubo del tipo (n,m). Classi particolari di nanotubi sono
rappresentate dai cosiddetti CNT “armchair” nei quali n = m ed indicati quindi dal
binomio (n,n), ed i nanotubi a “zigzag” per i quali invece è nullo uno dei due
indici chirali, ad esempio (n,0). Tutti gli altri tipi di nanotubi sono detti
semplicemente chirali con indici (n,m), essendo n ≠ m and m ≠ 0 (Fig.8).
Fig. 8. Differenti geometrie dei nanotubi ottenute variando i due
indici chirali (n,m).
58
La cella unitaria del nanotubo, traslabile in una sola direzione, è definita
dal rettangolo formato dal vettore chirale Ch e dal vettore di traslazione T, definito
da:
𝑇 = 𝑡1𝑎1 + 𝑡2𝑎2, dove 𝑡1 =2𝑚+𝑛
𝑑𝑅 e 𝑡2 = −
2𝑛+𝑚
𝑑𝑅 (1.3.4)
dove dR è il massimo comun divisore di (2n + m, 2m + n). Il vettore di
traslazione T rappresenta il più piccolo vettore reticolare, che sia perpendicolare al
vettore chirale.
Nonostante il SWNT più piccolo che possa essere chiuso da due metà di
un fullerene C60, risulti avere un diametro di 6.78 Å, sono stati riportati nanotubi
con diametri inferiori ai 4 Å [37, 38].
La chiralità o elicità (ossia il vettore chirale) del nanotubo determina il suo
comportamento da metallo o da semiconduttore (Fig. 8):
Se 𝑛−𝑚
3= 𝑘 ⇒ Metallico
Se 𝑛−𝑚
3≠ 𝑘 ⇒ Semiconduttore con 𝑘 ∈ ℕ
Soltanto un terzo dei CNT è metallico, mentre i rimanenti 2/3 sono
costituiti da semiconduttori. Generalmente i SWNT si trovano riuniti in fasci
(bundles), all’interno dei quali essi sono tenuti assieme da deboli legami di Van
der Waals.
Fig. 9. Rappresentazione dei principali indici chirali, sul piano di grafene, per la
determinazione di CNT zig-zag ed Arm-chair.
59
MWNTs. I nanotubi a pareti multiple sono costituiti da più fogli di grafene
annidati uno dentro l’altro, a formare un insieme di cilindri coassiali (Fig. 10).
Possono essere presenti dei legami tra le varie pareti (lip-lip interactions)
che pare stabilizzino la crescita di questi nanotubi (Fig. 11). Il diametro dei
MWNT è di norma maggiore di quello dei SWNT, e cresce con il numero di
pareti, potendo arrivare fino alle centinaia di nanometri.
Fig. 10. Le immagini registrate il microscopio elettronico a trasmissione ad alta risoluzione (HRTEM), mostrano MWNTs con differenti diametri e numero di pareti.
Fig. 11. L’elaborazione al computer mostra MWNTs con evidenziate
le lip-lip interactions.
60
Il confine tra i nanotubi a pareti multiple e i nanofilamenti non è molto ben
definito, e un MWNT di grandi dimensioni può essere considerato come un caso
particolare di fibra tubolare. L'eventuale presenza di un grande numero di difetti
strutturali o di interazioni tra pareti all'interno del tubo rende ancora più labile
questa separazione. A causa del raggio di curvatura, nei MWNT non sono
possibili impilaggi di tipo AAB o ABC. Stando ai calcoli teorici la distanza tra
due cilindri del tubo dovrebbe essere di 3,39 Å, leggermente maggiore della
distanza interplanare nella grafite, mentre l’osservazione delle micrografie al
TEM ha permesso di stabilire che tale interspazio è esattamente di 3,4 Å. Le
lunghezze riportate per i CNT possono arrivare fino a 4 [39] o anche 10 cm [40] e
sembrano essere limitate dalle sole dimensioni del forno utilizzato.
1.3.4-Difetti nei nanotubi di carbonio
I nanotubi di carbonio presentano principalmente tre tipi di difetti:
1. Difetti da legami insaturi: dovuti a mancato legami degli atomi di
C con gli atomi circostanti e comportano la presenza di vacanze,
dislocazioni ed atomi in posizione interstiziale o di sostituzione
(impurezze di boro e azoto);
2. Difetti topologici: consistono soprattutto di pentagoni ed esagoni
presenti nella struttura a celle esagonali, propria del reticolo
“perfetto” e possono portare a deformazioni e variazioni di chiralità
del nanotubo (Fig. 12). In questa categoria rientrano anche i
cosiddetti difetti di Stone-Wales, consistenti nella presenza di due
coppie di pentagoni ed eptagoni, opposti gli una agli altri, generati
da una rotazione di 90° di uno dei legami nel reticolo esagonale
[Smalley], i quali provocano piccole variazioni locali del diametro,
senza variare la chiralità (Fig. 13).
3. Difetti di reibridazione: provengono dalla presenza di una linea di
elementi ibridati sp3, all’interno di un reticolo con ibridazione di
tipo sp2.
61
I difetti nei CNT possono essere introdotti in diversi modi: ad esempio
attraverso il bombardamento di ioni ad alta energia o mediante trattamenti termici
ad elevate temperature; l’introduzione di tali difetti comporta un ampliamento
dello spettro di applicazioni e proprietà di queste nanostrutture. La presenza di
Fig. 12. Differenti tipi di difetti topologici.
Fig. 13. Difetto topologico di tipo Stone-Wales.
62
difetti implica spesso una variazione delle proprietà dei nanotubi: ad esempio la
rigidità diminuisce all’aumentare dei difetti topologici, mentre aumenta con il
grado di funzionalizzazione. La generazione e crescita dei difetti possono essere
osservate durante la deformazione e la frattura dei CNT. La presenza di difetti è
inoltre indispensabile per la creazione di giunzioni tra CNT metallici e
semiconduttori, come anche per la creazione di giunzioni ad Y.
All’interno dei diversi tipi di difetti, quelli di Stone-Wales giocano un
ruolo fondamentale, permettendo riorganizzazione degli atomi su larga scala, nei
network a struttura esagonale grafitica. Una volta formatisi, gli eptagoni e
pentagoni da cui tali difetti sono costituiti, possono muoversi lungo la struttura
dando vita a centri di dislocazione, sia in zone a curvatura Gaussiana positiva che
negativa, comportando, alla fine, la chiusura della struttura. Inoltre i difetti di
Stone-Wales si trovano al centro di importanti trasformazioni strutturali che danno
luogo, ad esempio, alla coalescenza tra CNT e fullereni, alla formazioni delle
suddette giunzioni intramolecolari per dispositivi nano elettronici, nonché al
comportamento plastico o fragile dei CNT sottoposti a deformazione meccanica.
Nonostante la loro importanza e ai numerosi lavori teorici di cui sono stati e sono
tuttora oggetto, l’identificazione sperimentale dei difetti di S-W ha fornito
soltanto prove indirette.
I difetti possono comparire durante la crescita e purificazione dei CNT, o
in seguito, ad esempio durante la lavorazione del dispositivo o del composito. Essi
possono inoltre essere introdotti deliberatamente, mediante trattamento chimico o
irraggiamento, raggiungendo la funzionalizzazione desiderata, col fine di
aumentare ad esempio l’adesione tra CNT e matrice all’interno di un composito a
matrice polimerica, incrementandone le caratteristiche meccaniche.
63
1.3.5-Metodi di sintesi dei CNTs
Scarica ad arco: E’ stato il primo metodo utilizzato per la produzione dei
CNT nel 1991. Nella scarica ad arco, gli atomi di carbonio vengono fatti
evaporare per mezzo di un plasma, utilizzando come gas generalmente He o Ar: il
plasma ha origine dalle elevate correnti che vengono fatte passare tra i due
elettrodi di grafite. Con questa tecnica è possibile produrre CNT di elevate qualità
e purezza, sia del tipo SWNT che MWNT. I MWNT possono essere ottenuti
controllando le condizioni di crescita, come la pressione del gas inerte e la
corrente tra gli elettrodi. Per la prima volta nel 1992, Ebbesen ed Aiayan
ottennero MWNT di elevata qualità e purezza, in quantità dell’ordine dei grammi,
dando grande risalto a questa tecnica di sintesi [41]. In genere i MWNT prodotti
con la scarica ad arco presentano lunghezze dell’ordine della decina di µm e
diametri tra i 5 e i 40 nm e si trovano legati insieme a formare bundles (fasci),
grazie a forti interazioni di van der Waals: la loro forma rettilinea deriva
dall’elevata cristallinità. Sulle pareti dei MWNT ottenuti con tale tecnica si
trovano difetti quali pentagoni ed eptagoni. I prodotti secondari sono costituiti
principalmente da particelle grafitiche multistrato di forma poliedrica, che sono
tuttavia eliminabili mediante semplice ossidazione termica (in ambiente di
ossigeno),a causa della quale si ha però anche la scomparsa delle pareti esterne dei
CNT. Al termine della sintesi i MWNT si trovano concentrati, sotto forma di
deposito, sulla superficie dell’elettrodo di grafite, costituente il catodo.
Per la crescita dei SWNT è invece necessario un catalizzatore, costituito
generalmente da un metallo di transizione, come Ni, Co o Y. Il primo successo
nella produzione di SWNT, mediante scarica ad arco, in quantità apprezzabili, fu
riportato da Bethune et al. nel 1993 [42], utilizzando un anodo di C, contenente
una piccola percentuale di Co. A differenza dei MWNT, I SWNT vengono
raccolti dalle pareti interne della camera di sintesi.
64
Ablazione laser: E’ una tecnica molto simile alla scarica ad arco,
utilizzando anch’essa un bersaglio costituito da un elettrodo di grafite fu utilizzata
per la prima volta nel 1996 dal gruppo guidato da R. Smalley [43]. Con tale
tecnica si dimostrò che i CNT possono essere prodotti all’interno di un tubo
orizzontale di quarzo, all’interno del quale viene fatto fluire un gas inerte a
pressione controllata. In tali condizioni, mentre il tubo è riscaldato a 1200°C per
mezzo di una fornace, un impulso laser colpisce un bersaglio costituito da una
miscela di grafite e metalli di transizione, provocandone la sublimazione. Il gas
inerte, oltre a stabilizzare la temperatura di vaporizzazione, veicola il materiale
prodotto durante il processo di sintesi su di un collettore raffreddato, situato al di
fuori della zona riscaldata dalla fornace.
Uno dei parametri fondamentali per il controllo del tasso di produzione dei
CNT è la stabilità richiesta per la temperatura del collettore e del bersaglio. Anche
con questo metodo di sintesi si ha la presenza di prodotti secondari carboniosi nel
deposito ottenuto sul collettore, nonostante le percentuali di CNT ottenuti siano
pari al 60-70%. Uno degli svantaggi di tale tecnica è comunque la bassa quantità
di nanotubi ottenibili [44].
Fig. 14. Schema di un apparato per la sintesi dei CNT mediante ablazione
laser.
65
Deposizione chimica da fase vapore. Questa tecnica, comunemente nota
con l’acronimo di CCVD (Catalytic Chemical Vapour Deposition) ha soppiantato
negli ultimi anni i metodi di sintesi precedentemente utilizzati, grazie alla
possibilità di produrre grandi quantità di nanotubi, nonché a quella di orientarli e
ottenerli secondo geometrie predefinite. Il metodo di sintesi si basa sulla
decomposizione termica di idrocarburi, in presenza di catalizzatori metallici. La
CVD è una tecnica più versatile delle precedenti, grazie ad una serie di vantaggi,
come ad esempio la possibilità di far crescere i CNT su un substrato che può
essere, all’occorrenza, sagomato secondo geometrie specifiche che si riflettono
sulla direzione di crescita. I parametri principali di questo tipo di sintesi sono la
natura e le dimensioni del catalizzatore, il tipo di substrato e la sua interazione con
le specie metalliche, nonché parametri fisici quali la pressione e temperatura di
processo e le specie utilizzate come sorgente di carbonio (idrocarburi, alcooli,
derivati organici complessi).
L’apparato per la CVD può inoltre essere facilmente modificato per
operare in modalità PECVD (Plasma Enhanced CVD) o mediante l’utilizzo di
microonde come MWCVD (Micro Wave CVD). La presenza del catalizzatore,
utilizzato per decomporre le molecole ricche di C (generalmente derivanti da
idrocarburi), consente un notevole abbassamento della temperatura di processo
rispetto alle tecniche precedentemente citate, con valori ben al disotto dei 1000°C,
mentre la pressione può variare dai pochi Torr alla pressione atmosferica. I
catalizzatori metallici utilizzati sono generalmente in forma solida, come Fe, Ni,
Co, Pt, Pd, e in fase vapore, come ad esempio il ferrocene. Tra i substrati vengono
invece utilizzati Si, silicio poroso, Allumina, Quarzo, Silice e in taluni casi anche
zeoliti. In genere i MWNT vengono prodotti utilizzando come fonte di C,
acetilene, etilene o metano, mentre per la sintesi dei SWNT ci si affida, oltre che
ai suddetti, anche al benzene.
Lo schema generale della sintesi con CVD, comprende il flusso di un
idrocarburo gassoso all’interno di un tubo di quarzo, in cui è presente il
66
catalizzatore, posizionato sul substrato, che viene riscaldato a temperature tra i
600 e i 1200 °C, provocando la decomposizione dell’idrocarburo.
Come si è già detto, uno dei principali vantaggi di questo metodo è
l’elevata quantità di CNT producibili, come ad esempio quelle riportate dai gruppi
guidati da E. Costeau [45] e R. Smalley [46] per la produzione rispettivamente di
MWNT (100g/die) e SWNT (10g/die).
1.3.6-Meccanismi di crescita dei nanotubi
Il meccanismo di crescita dei nanotubi di carbonio è ancora una questione
fortemente dibattuta: una delle principali ragioni di questo dibattito è che le
condizioni che consentono la crescita dei nano filamenti di C sono molto diverse,
implicando differenti meccanismi di crescita. Per un dato set di condizioni è
probabile che il reale meccanismo sia una combinazione, o un compromesso, tra i
vari proposti. Un’ulteriore ragione risiede nel fatto che i fenomeni che hanno
luogo durante la crescita sono piuttosto rapidi e difficili da osservare “in situ”.
Tuttavia è opinione comune che la crescita avvengo in modo da minimizzare i
legami liberi per ragioni energetiche.
Crescita in assenza di catalizzatore: La crescita di nanotubi di C multi
parete mediante la tecnica di scarica ad arco è un raro esempio di crescita di nano
filamenti di C senza l’utilizzo di un catalizzatore. La forza motrice di questo
processo è il campo elettrico, ossia il trasferimento di carica da un elettrodo
all’altro, attraverso le particelle contenute nel plasma. Non è ancora chiaro in che
modo si formi il nucleo dei MWNT ma, una volta formato, sembra che si abbia
l’incorporamento di specie C2 nel reticolo primario del grafene, come dimostrato
da recenti misure sulla concentrazione dei radicali C2, che evidenziano come la
concentrazione di tali specie cresca passando dall’anodo che si consuma, al catodo
in crescita [47].
Crescita con catalizzatore: Secondo diversi studi sembra che i parametri
più importanti in questo caso siano quelli termodinamici (in particolare al
67
temperatura), la dimensione delle particelle di catalizzatore e la presenza di un
eventuale substrato. La temperatura costituisce un fattore critico e rende conto
delle discrepanze tra i metodi basati su sorgenti solide di carbonio e la CCVD.
Processi a bassa temperatura: La crescita a bassa temperatura viene
utilizzata comunemente nella tecnica CCVD, in cui i CNT vengono prodotti a
temperature ben al di sotto dei 1000°C. Se il catalizzatore è un solido cristallizzato
la crescita comporta un meccanismo di tipo VLS (Vapore-Liquido-Solido) in tre
fasi:
1. Assorbimento e decomposizione delle particelle (moieties) gassose
contenenti C sulla superficie del catalizzatore;
2. Dissoluzione e diffusione delle specie carboniose attraverso il
catalizzatore con formazione di una soluzione solida;
3. Ri-precipitazione del C solido sotto forma di pareti dei nanotubi.
La tessitura risulta quindi determinata dall’orientamento delle facce,
relativamente all’asse del nanotubo.
Se le condizioni sono tali che il catalizzatore sia in forma di particella
liquida, a causa dell’alta temperatura o perché si utilizza un catalizzatore basso
fondente, allora si può ancora avere un meccanismo simile al suddetto, che risulta
realmente di tipo VLS (dove V=specie C gassose, L=catalizzatore fuso,
S=grafeni), ma non si hanno ovviamente le facce cristalline da orientare
preferenzialmente con i grafeni “rigettati”. La minimizzazione dell’energia
comporta che i fogli di grafene crescano concentrici e paralleli all’asse del
nanotubo.
Con catalizzatori di dimensioni maggiori (o in assenza di un substrato), il
meccanismo suddetto seguirà generalmente uno schema del tipo “tip growth”
(crescita dalla punta, Fig. 15a): mentre il catalizzatore procede in avanti, il
carbonio espulso forma il nanotubo dietro, indipendentemente dalla presenza di
un substrato. In tal caso è probabile che una delle estremità rimanga aperta.
68
D’altro canto, quando le particelle di catalizzatore depositate sul substrato
sono abbastanza piccole (nanoparticelle) da poter essere mantenute in loco dalle
semplici forze di interazione col substrato, il meccanismo di crescita seguirà uno
schema di tipo “base growth” (crescita dalla base), in cui i CNT crescono
allontanandosi dal substrato, lasciando le particelle di catalizzatore attaccate a
quest’ultimo (Fig. 15b).
Risulta quindi chiaro che per ognuno dei meccanismi visti, ad ogni
particella di catalizzatore corrisponde un nanotubo. Ciò rende conto del fatto che,
nonostante sia possibile produrre SWNT mediante CCVD, il controllo delle
dimensioni delle particelle di catalizzatore è fondamentale, giacché influenza la
crescita dei CNT. Ad esempio, per la crescita di SWNT con la tecnica CCVD, si
possono utilizzare soltanto nanoparticelle con diametro <2nm, dal momento che
(a)
(b)
Fig. 15. I due differenti meccanismi di crescita dei CNT, secondo i modelli
“tip growth” (a) e “base growth” (b).
69
nanotubi a parete singola di diametri maggiori non sono energeticamente favoriti.
Altro aspetto caratteristico della CCVD, e del relativo meccanismo di crescita, è
che il processo può avvenire lungo tutta la zona isoterma della fornace, essendo
questa rifornita continuamente da una fonte ricca di carbonio, generalmente in
eccesso, con composizione e flusso costante: in particolare, più è lunga la zona
isoterma (in condizioni di eccesso di C gassoso), più lunghi risulteranno i CNT,
affermazione che rende conto della maggiore lunghezza dei CNT prodotti con tale
tecnica rispetto a quelli sintetizzati a partire da sorgenti solide.
Processo ad alta temperatura: Alte temperature vengono solitamente
raggiunte nei processi che utilizzano sorgenti solide di carbonio, come la scarica
ad arco, l’ablazione laser e la sintesi con forno solare. Le elevatissime temperature
in gioco (migliaia di °C) atomizzano sia la sorgente di C che il catalizzatore.
Ovviamente i SWNT, basati su catalizzatore, non si formano nelle zone con le
temperature più elevate (al contrario dei MWNT nella scarica ad arco); il mezzo è
costituito da una miscela di atomi e radicali, alcuni dei quali è probabile che
ricondensino nella stessa particella liquida da cui si sono formati. A una certa
distanza dalla zona di atomizzazione, il mezzo è quindi costituito da goccioline di
leghe metallo-carbonio e specie secondarie, che vanno da C2 a molecole di C di
ordine superiore, come il corannulene, formato da un pentagono centrale,
circondato da 5 esagoni. La formazione di tali molecole può essere spiegata
mediante la suddetta associazione di atomi di C a formare pentagoni: tale strada
risulta più veloce (e a minor costo energetico) per limitare i legami insaturi,
fornendo inoltre un sito di associazione per altri atomi di C (e molecole C2);
questi, a loro volta, tendono a chiudere la struttura con geometrie anulari, in
particolare esagoni (dal momento che pentagoni adiacenti non sono favoriti
energeticamente), sempre con il fine di limitare i legami insaturi: queste molecole
sono considerate i precursori dei fullereni.
Una volta raggiunta la saturazione in C delle goccioline di lega metallo-
carbonio, quest’ultimo in eccesso precipita al di fuori della particella, a causa
dell’effetto del gradiente termico, decrescente nel reattore, che comporta una
riduzione di solubilità di C. Una volta che gli atomi di C interni hanno raggiunto
la superficie del catalizzatore, incontrano gli atomi “esterni”, i quali
70
contribuiscono a chiudere i nanotubi in fase di crescita. Una volta formatisi e
chiusi, i nanotubi possono proseguire la loro crescita sia mediante il meccanismo
di tipo VLS proposto da Saito et al. [48] tramite gli atomi esterni, sia mediante il
meccanismo ad atom proposto da Bernholc et al. [49], secondo il quale atomi di C
del mezzo circostante il reattore si trovano a contatto con l’interfaccia nanotubo-
catalizzatore, favorendone il successivo inglobamento nella base del tubo.
Il meccanismo di crescita segue quindi principalmente lo schema di tipo
“base growth”; tuttavia, una volta che le estremità del CNT sono chiuse, qualsiasi
molecola di tipo C2 che incontri il CNT in crescita, in una zona lontane
dall’interfaccia con il catalizzatore, può entrare a far parte del nanotubo sia sulla
punta che sulle pareti laterali, dando luogo eventualmente a difetti di tipo S-W.
Un’altra differenza fondamentale tra la crescita ad alta e bassa
temperatura, come si ha nella CCVD, è che nel primo caso si possono generare
molti nanotubi da una singola particella di catalizzatore, di diametro relativamente
elevato (10-50 nm), cosicché la distribuzione dimensionale non risulta un fattore
critico (nonostante particelle di dimensioni troppo elevate possono indurre la
formazione di gruppi poliaromatici, piuttosto che di CNT): è per questo motivo
che i diametri dei SWNT cresciuti ad alta temperatura, risultano molto più
omogenei di quelli cresciuti con tecniche di CVD. La regione per la quale il
diametro medio più frequente è di 1,4 nm, è di tipo energetico: SWNT con
diametro > 2,5 nm non risultano energeticamente stabili. D’altro canto la
distorsione del legame C-C cresce al diminuire del raggio di curvatura: il diametro
“ottimo” di 1,4 nm dovrebbe quindi corrispondere al miglior compromesso
energetico.
Altra differenza importante con i processi a “bassa” temperatura di tipo
CVD, è che nella sintesi ad alta temperatura sono elevati anche i gradienti termici
e la composizione della fase gassosa che circonda il catalizzatore varia molto
velocemente: ciò rende conto della minore lunghezza e quantità dei CNT prodotti
mediante scarica ad arco rispetto a quelli prodotti per CCVD. Con quest’ultima
tecnica, la particella metallica può agire da catalizzatore per tutto il tempo nel
quale le condizioni sono mantenute costanti. Nel secondo caso invece, le
71
condizioni al contorno variano molto rapidamente e la finestra per una catalisi
efficace risulta molto stretta. La riduzione dei gradienti di temperatura che si
hanno nei processi a sorgente di C solida, come la scarica ad arco, potrebbe quindi
incrementare la produzione e lunghezza dei SWNT.
1.3.7-Metodi di purificazione e funzionalizzazione
Purificazione: In genere il materiale di sintesi contiene una miscela di
SWNT, MWNT, carbonio amorfo e particelle metalliche di catalizzatore; il
rapporto tra i costituenti varia da processo a processo e dipende dalle condizioni
di crescita. I metodi di purificazione sono stati sviluppati al fine di rimuovere i
componenti indesiderati, ottenendo la più alta produttività di CNT, senza
danneggiarli. I metodi di purificazione comprendono l’ossidazione controllata, i
trattamenti chimici, la filtrazione e altre procedure tutte con i propri vantaggi e
svantaggi. Il primissimo metodo utilizzato consisteva nel bruciare il deposito
“grezzo” in presenza di aria, sfruttando il fatto che i residui grafitici e amorfi sono
meno resistenti dei CNT all’ossidazione. Nonostante questo metodo producesse
un residuo di CNT relativamente pure, esso comportava un danneggiamento delle
pareti e delle punte dei CNT, con una perdita di materiale fino al 99% [54]. Con
l’utilizzo di agenti superficiali (surfactanti) e successiva filtrazione è possibile
conservare una percentuale di tubi molto maggiore. Un metodo di separazione in
fase liquida di CNT e nanoparticelle è stato eseguito filtrando una dispersione
colloidale stabile, costituita dal materiale carbonioso in una soluzione si acqua e
agente superficiale, consentendo l’estrazione dei CNT dalla sospensione, mentre
le nanoparticelle rimangono nel filtrato. Un più elevato grado di purificazione è
stato raggiunto con il controllo dimensionale attraverso la flocculazione
controllata della dispersione: con questo processo sono state ottenute produttività
del 90%, dopo la fase di separazione finale, senza alcun danneggiamento alle
pareti e punte dei CNT [31 pag 330]. La fig. 16 mostra il residuo della
separazione, contenente come prodotto secondario una grande quantità di
nanoparticelle poliedriche di carbonio con forma “a cipolla” (onion like).
72
Funzionalizzazione: La funzionalizzazione viene utilizzata sui CNT con
finalità diverse, tra le quali possiamo menzionare il miglioramento dell’adesione
con la matrice nei compositi, l’utilizzo come sensori chimici e biologici e
l’assorbimento di elementi specifici come l’idrogeno. Le tipologie di
funzionalizzazione si distinguono in base al tipo di legame formato tra gruppo
funzionale e il nanotubo:
Funzionalizzazione covalente: I trattamenti che producono legami
covalenti comportano la rottura di legami sulla superficie dei CNT,
distruggendo il legame delocalizzato π e rompendo il legame σ, in
Fig. 16. Deposito subito dopo la sintesi con scarica ad arco, in seguito a centrifugazione (foto in alto);
il prodotto secondario ottenuto, formato da nanoparticelle di C di forma “onion like” (in basso a sinistra);
i CNT dopo il processo di purificazione (in basso a destra).
73
modo da permettere l’incorporazione di altre specie chimiche sulla
superficie. L’introduzione di difetti sulla superficie dei CNT può
alterarne significativamente le proprietà ottiche, elettriche e
meccaniche, comportando la diminuzione delle “prestazioni” dei
compositi in cui siano utilizzati come filler [57]. Il vantaggio di
questo tipo di modificazione risiede nella possibilità di migliorare
l’adesione tra il nanotubo e la matrice, nel materiale composito, in
modo da incrementare il trasferimento degli sforzi da quest’ultima
ai CNT, ottenendo in definitiva un miglioramento delle proprietà
meccaniche.
Funzionalizzazione non-covalente: Nonostante i metodi che
implicano questo tipo di modificazione superficiale non
comportino la distruzione della struttura sp2 del grafene,
preservando quindi le proprietà dei CNT, lo svantaggio in questo
caso consiste nelle deboli interazioni tra le molecole funzionali e i
CNT che si ripercuotono sule trasferimento di sforzi suddetto, tra i
CNT e l’eventuale matrice.
La modificazione chimica della superficie può comunque migliorare la
dispersione dei CNT in un dato solvente, come anche l’omogeneità e stabilità di
tale dispersione nel composito finale.
Tra i metodi di funzionalizzazione chimica più utilizzati troviamo il
trattamento con HNO3 e H2SO4, il quale dà luogo alla comparsa, sulla superficie
dei CNT, di gruppi OH e SO3− [55], oltre a tecniche che comportano il legame dei
CNT con gruppi carbossilici e carbonilici. Altri metodi prevedono la
funzionalizzazione con gruppi amminici (partendo da una TETA), con incremento
della resilienza dei compositi realizzati con questo tipo di CNT modificati [56].
La letteratura scientifica riporta anche tecniche più inusuali, come l’utilizzo di
plasma a radio frequenza, con ottenimento di gruppi funzionali contenenti
ossigeno, idrogeno o fluoro, attraverso la variazione del gas di partenza [58].
74
1.3.8-Proprietà dei CNT
Proprietà elettriche: Una delle proprietà più interessanti dei CNT è
sicuramente quella di poter assumere un comportamento da metalli o
semiconduttori a seconda della loro chiralità: più precisamente i nanotubi
metallici presentano solitamente una struttura di tipo ”arm-chair” e costituiscono
circa un terzo dei nanotubi sintetizzati, essendo i rimanenti due terzi costituiti da
CNT semiconduttori. Nello stato metallico la conducibilità elettrica dei nanotubi
risulta molto alta: è stato calcolato che i CNT possono arrivare a trasportare
correnti dell’ordine dei 109 A/cm
2, mentre il rame fonde a 10
6 A/cm
2 a causa
dell’elevato surriscaldamento per effetto Joule [62, pag121]. Una delle ragioni di
questa elevatissima conducibilità è che ci sono pochi difetti per dar luogo a
scattering elettronico, la qual cosa risulta in una resistenza molto bassa. Altra
differenza rispetto al rame è la capacità dei CNT di trasportare correnti, anche
elevate, senza surriscaldarsi, grazie ad un fenomeno chiamato “conduzione
balistica”. Nel 1998, Frank et al. eseguirono misure sulla conducibilità elettrica
dei nanotubi facendo uso, attraverso un SPM (Scanning Probe Microscope) una
superficie di Hg per i contatti. I risultati mostrarono che i CNT agiscono da
conduttori balistici con un comportamento di tipo quantistico. La conducibilità dei
MWNT presentava incrementi di 1G0 allorché tubi diversi venivano toccati dal
Fig. 17. Prova sperimentale della quantizzazione della conducibilità dei CNT.
75
mercurio. Il valore trovato per G0 è pari a 1/12,9 kΩ-1
, dove G0= 2e2/h. Si scoprì
anche che il coefficiente del “quanto” di conduttanza poteva assumere sia valori
interi che non interi, come 0,5 G0 [50].
Il gap di banda per un SWNT semiconduttore con diametro di circa 1 nm
può variare tra 0,7 e 0,9 eV. Per un nanotubo metallico di tipo non armchair, con
diametro < 1,5 nm, la reibridazione σ-π può portare alla comparsa di un piccolo
gap dell’ordine dei 0,002 eV [36]. Quando si analizzano fasci di SWNT o un
MWNT, bisogna tenere conto degli effetti di accoppiamento tra i diversi tubi, i
quali possono portare alla comparsa di un piccolo gap per i CNT metallici o ad
una sua riduzione (~40%) per tubi semiconduttori in un fascio di SWNT. Giacché
gli effetti di accoppiamento diminuiscono all’aumentare del diametro del tubo, per
i MWNT questi effetti sono rilevabili solo nei tubi di diametro inferiore. Tutti i
tubi semiconduttori nei MWNT tendono ad essere semi-metallici come la grafite,
grazie alla riduzione del gap energetico per i tubi di diametro maggiore, mentre i
piccoli gap, a volte riportati negli esperimenti, sono attribuiti alla presenza di
difetti o ad una barriera nei contatti elettrici.
Proprietà chimiche (adsorbimento gas): Le proprietà chimiche d’interesse
dei CNT comprendono l’apertura dei tubi, la bagnabilità, il riempimento,
l’adsorbimento, il trasferimento di carica ed il drogaggio. Le relative applicazioni
includono invece la separazione chimica, la purificazione, la sensoristica e
rilevazione, lo stoccaggio energetico e l’elettronica.
Apertura: Le estremità di un CNT sono molto più reattive delle pareti laterali e
questo a causa della presenza di pentagoni, della grande curvatura e dell’eventuale
catalizzatore residuo della sintesi. Per l’apertura dei nanotubi sono stati utilizzati
vari metodi, quali l’ossidazione termica, l’attacco al plasma e reazioni chimiche
con utilizzo di acidi, come HNO3. Le estremità aperte terminano in genere con
alcuni gruppi funzionali come i carbossilici, carbonilici, fenolici, etc. L’apertura è
indispensabile per talune applicazioni, come il riempimento.
Bagnabilità e riempimento: I CNT sono idrofobici e non sono bagnati dalla
maggior parte dei solventi acquosi. Diversi studi hanno mostrato che i CNT
76
possono essere bagnati da vari solventi organici, da HNO3, S, Cs, Rb, Se e da vari
ossidi come Bi2O2 e gli ossidi di Pb. Dato che i CNT mostrano una pressione
capillare proporzionale ad 1/D, i solventi organici possono essere guidati per
riempirli attraverso l’applicazione di tale pressione. E’ inoltre possibile riempire i
CNT con agenti non bagnanti, applicando una pressione maggiore della pressione
capillare. Un’alternativa efficace è l’utilizzo di agenti bagnanti come il succitato
acido nitrico per “assistere” il bagnamento per opera di agenti non bagnanti.
Adsorbimento e trasferimento di carica: Sperimentalmente è stato
osservato un forte adsorbimento e trasferimento di carica dall’ossigeno ai CNT a
temperatura ambiente. La capacità di adsorbire specie gassose e il trasferimento di
carica dipendono dal numero di siti e dal tipo di molecola gassosa. I siti sui quali
una molecola gassosa può essere adsorbita comprendono interstizi tra fasci di
CNT, scanalature nei vuoti tra due CNT vicini, nano pori entro il tubo e la
superficie di un singolo tubo. Le distanze di equilibrio calcolate tra le molecole di
gas ed il CNT più vicino variano tra 0,193 nm per NO2 a 0,332 per l’Ar, le energie
di adsorbimento tra 30,6 kJ/mol per il C8N2O2Cl2 a 1 kJ/mol (per l’Ar), mentre le
cariche parziali variano tra 0,212 per C8N2O2Cl2 a 0,01 per l’azoto: tali valori
risultano a metà tra quelli misurati comunemente per l’adsorbimento fisico e
chimico. Gas come l’O2 o NO2 mostrano un comportamento da accettore,
presentando una carica negativa ottenuta dal CNT, mentre altri gas si comportano
da donori, caricandosi positivamente. Per le applicazioni di tipo “sensoristico”
bisogna però tener conto della variazione di conducibilità elettrica dei CNT
allorché essi vengono in contatto con alcune molecole gassose.
Drogaggio, intercalazione, stoccaggio energetico: Il primo approccio
utilizzato per il drogaggio dei CNT è stato quello di utilizzare atomi “di
sostituzione” come boro e azoto, in modo da creare CNT di tipo p ed n. Tuttavia
l’adsorbimento di molecole gassose, discusso in precedenza, fornisce un
approccio più semplice e “non-covalente” per trasformare un CNT in un tipo p,
mediante adsorbimento di O2 e acqua, o in un tipo n, utilizzando ad esempio
C6H12. D’altra parte per aumentare la conducibilità elettrica di nanotubi metallici,
si usa l’intercalazione con metalli alcalini, mentre gli alogenuri sono utilizzati per
77
immagazzinamento di carica e stoccaggio energetico. Osservazioni sperimentali e
calcoli teorici hanno mostrato che questi agenti d’intercalazione entrano negli
spazi tra i tubi o nei difetti di superficie, incrementando le potenzialità
elettrochimiche, come anche il trasferimento di carica e lo stoccaggio di energia,
permettendo ai CNT di presentare elevate potenzialità elettrochimiche quando
sono utilizzati come elettrodi. Le reazioni di riduzione e ossidazione che hanno
luogo negli elettrodi, producono un flusso di elettroni che consente la generazione
e lo stoccaggio di energia, oltre a produrre un segnale utilizzabile per la
rilevazione di agenti chimico-biologici. Nelle batterie convenzionali, gli elettrodi
di grafite o di altri materiali, consentono lo stoccaggio reversibile di un solo ione
Li+ ogni sei atomi di carbonio, mentre nei CNT tale capacità risulta raddoppiata.
Studi teorici hanno mostrato come le estremità aperte dei CNT facilitino la
diffusione degli atomi di Li nei siti interstiziali.
Proprietà meccaniche: I nanotubi di carbonio devono le loro eccellenti
proprietà meccaniche alla presenza di soli legami σ, ossia i legami più forti
esistenti in natura. I risultati di calcoli teorici e misure sperimentali convergono
nel confermare che i CNT sono rigidi almeno quanto il diamante, presentando i
più alti moduli elastici e resistenze a trazione conosciuti. La maggior parte dei
calcoli teorici sono eseguiti su CNT privi di difetti, dando risultati coerenti. La
tabella 1 riporta il modulo di Young la resistenza a trazione teorica per un SWNT
(10,10), un bundle di SWNT, un MWNT ed il relativo confronto con altri
materiali.
Tab. 1. Modulo di Young e resistenza a trazione “teoriche” di alcuni tipi di CNT, in confronto
con le relative proprietà per l’acciaio e la grafite.
78
I risultati sperimentali mostrano invece elevate discrepanze, soprattutto per
i MWNT, a causa del fatto che questi contengono differenti percentuali di difetti,
derivanti da diversi meccanismi di crescita. In generale i diversi tipi di CNT
perfetti, ossia privi di difetti, risultano più resistenti della grafite, grazie
soprattutto al fatto che la componente assiale del legame σ risulta assai accresciuta
quando un foglio di grafite è arrotolato su se stesso a formare una struttura
cilindrica. Il modulo elastico non dipende dalla chiralità del tubo, mentre dipende
dal suo diametro, presentando il valore più elevato, pari a 1 TPa, per un diametro
tra 1 e 2 nm. All’aumentare del diametro del tubo, oltre questi valori, si va verso i
valori riscontrati nella grafite, mentre diametri inferiori sono affetti da instabilità
meccanica. Quando differenti diametri coesistono in un MWNT (che possiamo
vedere come formato da tanti SWNT concentrici), il modulo di Young assumerà il
valore competente al SWNT più rigido più un contributo dovuto alle interazione
di accoppiamento tra i vari tubi coassiali (lip-lip interactions di tipo van der
Waals). Il modulo di Young per un MWNT risulterà quindi più elevato che per un
SWNT, (tipicamente 1,1 e 1,3 TPa) come determinato sia teoricamente che
sperimentalmente. D’altra parte quando molti SWNT si trovano riuniti in bundles
o ropes, le deboli forze di van der Waals inducono delle forti tensioni di taglio tra
i nanotubi impacchettati, portando ad una diminuzione del modulo elastico. E’
stato dimostrato sperimentalmente che il modulo di Young decresce da 1 TPa a
100 GPa, quando il diametro di un fascio di SWNT aumenta da 3 a 20 nm.
Al pari delle proprietà viste, anche la risposta dei CNT alle deformazioni è
eccellente. Mentre la maggior parte dei materiali rigidi arriva a rottura con
deformazioni dell’1% (a causa della propagazione di dislocazioni e difetti vari), i
CNT hanno dimostrato di poter raggiungere deformazioni del 15% prima di
giungere a rottura, la qual cosa implica, assumendo un modulo elastico di 1 TPa,
che la resistenza a trazione può essere di 150 GPa. Un allungamento a rottura così
elevato viene attribuito al buckling elastico, attraverso il quale si ha un rilascio
delle tensioni. Il buckling elastico interviene anche nella torsione e nel
piegamento dei CNT, tanto che i nanotubi possono essere ripetutamente di 90°
senza rompersi. Un comportamento così elastico è dovuto alla re-ibridazione degli
orbitali sp2, attraverso cui si ha il rilascio delle tensioni. Questo meccanismo di re
79
ibridazione porta tuttavia ad una modifica delle proprietà elettroniche dei CNT:
calcoli teorici hanno mostrato che i CNT chirali o asimmetrici (0°<θ<30°)
subiranno una variazione delle proprietà elettroniche sia sotto deformazioni
torsionali che di trazione, mentre i CNT simmetrici di tipo arm-chair o zig-zag
possono o meno subire tale variazione. Nei CNT asimmetrici entrambi i
meccanismi di deformazione suddetti portano alla re ibridazione del legame sp2,
mentre per i CNT simmetrici l’effetto di una deformazione sulle proprietà
elettroniche non è così diretto. Il più interessante di tali effetti è la transizione
metallo-isolante prevista dalla teoria. Nonostante i CNT di tipo armchair siano
intrinsecamente metallici, in presenza di una deformazione torsionale si assiste
alla comparsa di un gap tra la banda di valenza e quella di conduzione. Alcuni tipi
di CNT zig-zag subiranno lo stesso effetto per deformazioni di trazione, mentre
CNT metallici chirali, come si è già detto, faranno lo stesso per entrambe le
deformazioni [36].
Proprietà magnetiche: Anche in questo caso ci sono discrepanze nelle
misure sperimentali, sebbene esse risultino qualitativamente compatibili con le
analisi teoriche. Analogamente al comportamento “elettromeccanico” dei CNT,
precedentemente illustrato, calcoli teorici portano a prevedere che anche sotto
applicazione di un campo magnetico parallelo all’asse del tubo, si possa avere la
transizione metallo-isolante (semiconduttore) e la variazione del gap di banda.
Una risposta simile si può avere anche quando il campo magnetico risulta
perpendicolare all’asse del tubo. Una delle caratteristiche più interessanti di questa
teoria è che la variazione del gap di banda sia oscillatoria. Nel caso di
applicazione di un campo magnetico il comportamento suddetto è detto effetto di
Aharonov-Bohm. Il comportamento oscillatorio è stato osservato
sperimentalmente, misurando la variazione di resistenza di un MWNT sottoposto
ad un campo magnetico parallelo al suo asse [36].
Proprietà termiche: Date le elevate capacità termiche e i calori specifici
della grafite e del diamante, proprietà termiche simili sono da aspettarsi per i CNT
a elevate temperature e a temperatura ambiente, mentre c’è da aspettarsi un
comportamento inusuale a temperature inferiori ai 100 K a causa dell’effetto di
quantizzazione dei fononi. Sia la teoria che le misure sperimentali hanno mostrato
80
un debole accoppiamento (termico) tra i CNT presenti in fasci di SWNT e nei
MWNT, per temperature superiori ai 100 K. Risultati sperimentali hanno messo in
luce la dipendenza del calore specifico dei MWNT dalla temperatura, in
concordanza con le deboli interazioni tra i vari tubi coassiali. A temperature > 100
K sia i SWNT che i MWNT, come anche fasci di SWNT, seguono l’andamento
del calore specifico della grafite, pari a circa 700 mJ/g*K, mentre a temperature
più basse interviene l’effetto di confinamento quantistico. Ad esempio, la capacità
termica vale 0,3 (mJ/g*K) per un SWNT (10,10), circa 0 per un fascio di SWNT e
per la grafite, mentre varia tra 2 e 10 per un MWNT o un fascio di essi [51,52].
Sia per I SWNT che per i MWNT la conducibilità termica dovrebbe
riflettere la struttura fononica sul tubo, indipendentemente dall’accoppiamento tra
tubi diversi. Misure sperimentali di conducibilità termica hanno mostrato un
comportamento simile alla grafite per i MWNT, ma un comportamento piuttosto
differente per i SWNT, i quali mostrano una dipendenza lineare da T alle basse
temperature, in concordanza con la monodimensionalità dei modi fononici: la
conducibilità termica, come la elettrica, risulta monodimensionale per i CNT.
Anche in questo caso le misure forniscono un ampio range di risultati, che variano
dai 200 W/mK ai 6000 W/mK, dipendendo fortemente dalla qualità e
dall’allineamento dei CNT utilizzati. La teoria e le misure sperimentali hanno
mostrato che la conducibilità termica per fasci di SWNT e per i MWNT a
temperatura ambiente, può variare tra 1800 e 6000 W/mK, mentre un valore
superiore ai 3000 W/mK è stato confermato da misure effettuate su un singolo
MWNT [53, 36].
1.3.9-Applicazioni dei nanotubi di C
Applicazioni basate sull’emissione di campo: L’emissione di campo è un
fenomeno quantistico utilizzato come sorgente di elettroni, in competizione con
l’effetto termoionico. L’emissione si basa sull’applicazione di un campo elettrico
opportuno, attraverso il quale gli elettroni che si trovano al di sotto del livello di
81
Fermi, possono superare la barriera di potenziale, tramite un fenomeno detto
tunneling quantistico. Per le applicazioni tecnologiche è bene che il materiale
emettitore di elettroni presenti una bassa tensione di “accensione” ed una grande
stabilità ad elevate densità di corrente. Per l’utilizzo nei display a cristalli liquidi,
o FED (Field Emission Display) è necessaria una densità di corrente emessa pari a
1-10 mA/cm2, mentre per gli amplificatori a microonde sono richiesti almeno 500
mA/cm2. Poiché il cosiddetto fattore di amplificazione del campo (field
enhancement factor) aumenta al diminuire del raggio di curvatura della punta
emettitrice, i CNT si trovano rispondere in pieno alle caratteristiche necessarie per
creare dei buoni emettitori, presentando un diametro nanometrico e un’elevata
conducibilità elettrica. In rapporto agli emettitori convenzionali I CNT presentano
un campo elettrico di soglia inferiore, come mostrato in tabella 2.
Tra le applicazioni più interessanti di questo fenomeno c’è l’utilizzo nei
sistemi di illuminazione a raggi catodici. Con l’utilizzo di schermi di materiali
fosforescenti diversi, stampati nella parte interna del bulbo di vetro, è possibile
ottenere l’emissione di vari colori (Fig. 17): la luminescenza degli schermi al
fosforo basati sui CNT, misurata lungo l’asse del tubo è pari a 6,4*104 cd/cm
2 per
la luce verde, con una corrente anodica di 200 µA, cioè pari a circa il doppio della
luminescenza dei tubi a raggi catodici convenzionali (CRT), di tipo termoionico, a
parità di condizioni operative.
Tab. 2. Campo elettrico di soglia per una densità di corrente emessa pari a 10mA/cm2, per diversi materiali.
82
Altra applicazione di grande risalto sono i già citati FED: essi sono dei
display a schermo piatto, che utilizzano CNT come emettitori di elettroni. Un
prototipo basato su tale principio, messo a punto dalla Northwestern University
negli USA, consiste di strisce di CNT- resina epossidica depositate sul vetro
catodico e da un vetro anodico ricoperto di strisce di ITO (ossidi di stagno e indio)
coperte di fosforo (Fig. 18a): i pixel si formano all’intersezione tra le strisce
catodiche e anodiche. Con una distanza catodo-anodo di 30 µm, sono richiesti 230
V per ottenere la densità di corrente emessa, necessaria a pilotare il display a
diodi. Recentemente la Samsung ha realizzato un prototipo FED da 4,5 pollici,
basato sull’utilizzo di strisce di SWNT sul catodo e strisce di ITO, ricoperte di
fosforo, all’anodo in posizione ortogonale alle prime.
Fig. 18. Sorgenti luminose basate sull’emissione di campo, con l’utilizzo di nanotubi di carbonio come catodo (prodotte dalla Ise Electronic Co, Giappone).
83
Stoccaggio energetico: Per l’immagazzinamento e la produzione di
energia i CNT costituiscono la nuova frontiera della ricerca, grazie alle loro
piccole dimensioni e alla specificità della superficie, dal momento che si trovano
esposti soltanto i piani basali della grafite. La velocità di trasferimento di elettroni
negli elettrodi di carbonio determina l’efficienza delle celle a combustibile: essa
dipende da diversi fattori, come la struttura e morfologia del materiale carbonioso
utilizzato per gli elettrodi. Diversi esperimenti hanno dimostrato che, rispetto ai
convenzionali elettrodi di C, nei CNT la cinetica di trasferimento degli elettroni è
più veloce. Elettrodi realizzati con nanotubi sono stati usati con successo in
reazioni bio-elettro-chimiche, mostrando prestazioni superiori ad altri elettrodi di
C, in termini di velocità di reazione e reversibilità. MWNT puri o depositati con
catalizzatori metallici (come Pt, Pd e Ag) sono stati usati per “elettro-catalizzare”
una reazione di riduzione con ossigeno, importante per le celle a combustibile.
Altro settore di interesse è quello delle batterie ricaricabili a ioni di litio, il
cui funzionamento è basato sull’intercalazione e de intercalazione elettrochimica
(a) (b)
Fig. 19. (a) Prototipo di FED basato su CNT, ideato dalla Northwestern University; (b) Il FED da
4,5 pollici, realizzato dalla Samsung.
84
del Li tra due elettrodi. Nelle batterie al Li si usano convenzionalmente dei catodi
costituiti da ossidi di metalli di transizione, mentre come anodi vengono utilizzati
materiali a base di C, come grafite o carbonio amorfo. La capacità energetica di
queste batterie è determinata dalla saturazione nella concentrazione di Li dei
materiali costituenti gli elettrodi. Per la grafite la concentrazione di equilibrio di
saturazione è pari a 372 mAh/g, mentre per i SWNT sono stati riportati valori di
400-650 mAh/g per la capacità reversibile e 1000 mAh/g per quella irreversibile,
valore raggiunto dalla prima qualora i nanotubi vengano sottoposti a macinazione
mediante mulini a sfere [31].
I maggiori sforzi della ricerca nel settore dell’immagazzinamento
energetico basato sui CNT sono stati rivolti allo stoccaggio di idrogeno, campo
nel quale i diversi studi hanno dato risultati contrastanti. Ricerche differenti hanno
comunque mostrato lo straordinario e reversibile assorbimento di idrogeno in
materiali contenenti SWNT e GNF (nanofibre di grafite); alcuni dei risultati sono
mostrati in tabella 3.
Tab. 3. Stoccaggio gravimetrico di H2 per diversi materiali carboniosi.
85
I dati resi disponibili dalle varie ricerche mostrano capacità di stoccaggio
variabili tra il 4-5% in pero di H2 per SWNT “aperti” tramite ossidazione termica,
fino al 14-20% riportato tra 20 e 400°C in sistemi composti da CNT intercalati
con metalli alcalini, suggerendo che i CNT siano le strutture di carbonio con le
capacità di immagazzinamento più elevate.
Nanosonde e sensori: L’utilizzo di un singolo MWNT attaccato alla punta
di un SPM (Scanning Probe Microscope) è già stato dimostrato e data la loro
conducibilità, i CNT possono essere utilizzati sia negli AFM (Atomic Force
Microscope) che negli STM (Scanning Tunneling Microscope). Il vantaggio
nell’utilizzo dei CNT some sonda per i suddetti microscopi, risiede ancora una
volta nelle loro piccolissime dimensioni, grazie alle quali si ha la possibilità di
ottenere immagini di particolari molto piccoli, altrimenti praticamente non
sondabili con le comuni punte di Si o metalliche.
L’ulteriore vantaggio dei CNT, rispetto agli altri tipi di punte, è quello di
non subire danneggiamenti dovuti a contatti accidentali, i quali provocano
soltanto il buckling del nanotubo. Le punte con CNT possono anche essere usate
per la nanomanipolazione. E’ stato dimostrato che se due CNT vengono
(a) (b)
Fig. 20. (a) Schema mostrante l’utilizzo di un MWNT, inserito sulla sommità di una fibra di
carbonio, come sonda per un AFM; (b) Immagine SEM di una CNT cresciuto sulla superficie
di una punta piramidale.
86
appropriatamente posizionati sulla punta di un AFM, possono essere utilizzati
come delle “nano-pinzette” per manipolare nanostrutture sulle superfici.
Poiché le punte di CNT possono essere modificate chimicamente tramite
l’attaccamento di diversi gruppi funzionali, i CNT possono anche essere utilizzati
come sonde molecolari, con applicazioni sia in chimica che in biologia.
Altra applicazione è quella nel campo degli attuatori elettromeccanici. E’
stato dimostrato che SWNT sotto forma di fogli (intercalati con un polimero)
subiscono grandi deformazioni sotto applicazione di un piccolo voltaggio
(qualche Volt), mimando il comportamento dei muscoli naturali [59]. Gli attuatori
basati su CNT risulterebbero superiori ai dispositive basati su polimeri
“conduttivi”, giacché per i primi non c’è bisogno dell’intercalazione con ioni.
Infine la caratteristica dei CNT di variare la propria conducibilità elettrica
quando sono esposti ad ambienti gassosi contenenti molecole come NH3, NO2 ed
O2 ne rende possibile l’applicazione come sensori chimici di elevata sensibilità
[31].
Elettronica: Il fatto che i CNT possano essere ottenuti come metalli o
semiconduttori ha ispirato la fantasia di molti scienziati che, già nel 1995,
proposero la possibilità di realizzare un diodo raddrizzatore mediante una etero-
giunzione, ottenuta congiungendo un SWNT metallico con uno semiconduttore. I
CNT possono inoltre essere utilizzati per la realizzazione di transistor a effetto
campo (FET), attaccando un SWNT semiconduttore tra due elettrodi (source e
drain), depositato su di un substrato isolante che funzioni da elettrodo di gate (Fig.
20): tramite l’accoppiamento di due FET si questo tipo è possibile ottenere un
invertitore di voltaggio.
Nonostante queste applicazioni risultino affascinanti e molto promettenti, è
necessario ancora un certo progresso prima di poter realizzare dei circuiti integrati
basati su CNT, che possano essere prodotti su larga scala. Un dei problemi
principali è la possibilità di preparare selettivamente CNT metallici o
semiconduttori, cosa che a tutt’oggi non risulta ancora possibile su larga scala,
nonostante sia stato proposto un metodo per eliminare selettivamente SWNT
87
metallici da fasci di nanotubi indifferenziati. Sarebbe inoltre necessario produrre
nanotubi privi di difetti, possibilità legata ad una sfida ancora maggiore, ossia
l’essere in grado di fabbricare circuiti integrati comprendenti componenti
nanodimensionati (visualizzabili solo attraverso tecniche sofisticate come l’AFM)
su scala industriale.
Nanoutensili e nanodispositivi: Grazie all’abilità del grafene di espandersi
quando viene caricato elettricamente, è stato scoperto che i CNT possono essere
utilizzati come attuatori. Sono state realizzate nano pinze capaci di afferrare e
manipolare e rilasciare nano oggetti, come anche di misurarne le proprietà
elettriche: ciò è stato possibile semplicemente depositando due rivestimenti di Au,
non interconnessi, in una micro pipetta di vetro e connettendo in seguito due
MWNT (o due fasci di SWNT) di circa 20-50 nm di diametro ad ognuno degli
elettrodi d’oro. L’applicazione di un piccolo voltaggio (0-8,5 V) tra i due
elettrodi, comporta l’apertura e chiusura reversibili delle punte dei tubi in modo
controllato. Un esperimento simile, è consistito nel montare due strisce basate su
Fig. 21. Schema di un FET realizzato utilizzando un canale costituito da un
SWNT.
88
SWNT (bucky-paper) su entrambe le facce di un nastro isolante. Le due strisce di
bucky-paper erano state caricate in precedenza con ioni Na+
e Cl- rispettivamente
in modo che, con l’applicazione di una ddp di 1 V tra di esse, nonostante
entrambe si espandessero, l’intero sistema era costretto a flettersi, poiché
l’espansione della striscia caricata con Na+ risultava lievemente maggiore.
Nonostante sia stato ottenuto in un ambiente liquido, questo comportamento ha
suggerito il futuro impiego di tali sistemi nei “muscoli artificiali”.
Un altro esempio di questi affascinanti nano utensili è costituito dal nano
termometro, proposto da Gao et al. [60], ottenuto tramite un MWNT riempito
parzialmente con del gallio liquido. Il funzionamento si basa sul fatto che le
variazioni di temperatura nel campo 50-500°C, causano il movimento reversibile
del Ga lungo la cavità del nanotubo a livelli riproducibili, rispetto ai valori di
temperatura da misurare [47].
.
1.3.10-Caratterizzazione dei CNTs
La scoperta dei nanomateriali ha comportato inevitabilmente la necessità
di sviluppare metodologie in grado di consentire l'analisi delle strutture su
dimensioni nanometriche. La caratterizzazione di un campione di materiale
nanostrutturato necessita, infatti, di estrema sensibilità e di altissima risoluzione.
Il microscopio ottico non possiede risoluzione sufficiente, poichè il potere
risolutivo risulta inversamente proporzionale alla lunghezza d'onda della
radiazione impiegata. La scoperta della possibilità di trattare gli elettroni come
una radiazione di lunghezza d'onda molto piccola ha suggerito l'impiego di fasci
di elettroni per ottenere poteri risolutivi assai elevati. Pertanto, si utilizzano per
l'analisi delle nanostrutture microscopi elettronici in grado di soddisfare la
richiesta di risoluzione a livello nanometrico, se non a livello atomico, con
ingrandimenti che possono superare i 106×.
89
Tra questi si annoverano il microscopio a scansione elettronica (SEM -
Scanning Electron Microscopy) e il microscopio a trasmissione elettronica
(TEM – Trasmission Electron Microscopy).
Microscopio a scansione elettronica. Il microscopio a scansione elettronica
utilizza un fascio di elettroni per produrre informazioni sulla morfologia dei
campioni analizzati. Si fa uso di elettroni in quanto particelle cariche facilmente
ottenibili da vari materiali tramite diverse tecniche di emissione, in grado di essere
deflesse tramite campi o lenti magnetiche e di essere rese visibili facilmente
attraverso l'uso di uno schermo fluorescente.
Inoltre la piccola massa degli elettroni permette loro, da un lato, di non
causare danni ai campioni, dall'altro, di risentire considerevolmente
dell'interazione con le particelle che incontrano.
Fig. 22. Rappresentazione schematica dei diversi componenti
presenti in un SEM.
90
Generalmente la fonte di elettroni consiste in un filo di tungsteno o
esaboruro di lantanio, riscaldati fino a permetterne l’emissione per effetto
termoionico. Gli elettroni, emessi con energie comprese tra poche centinaia di eV
e 100 KeV, vengono fatti convergere tramite l'uso di lenti magnetiche, in un
sottilissimo fascio la cui sezione varia tra 0.4 nm e 5 nm. Il fascio,
opportunamente deflesso da bobine di scansione, viene indirizzato sulla superficie
del campione.
L'interazione con gli atomi della superficie provoca lo scattering degli
elettroni del fascio, che comporta una modifica della loro traiettoria e, in alcuni
casi, perdita di energia. Distinguiamo,infatti, due tipi di scattering: elastico e
anelastico.
Lo scattering elastico si verifica quando l'elettrone interagisce con il
nucleo atomico: la sostanziale differenza di massa tra i due produce un
trasferimento di energia pressoché nullo.
Quello anelastico, invece, è accompagnato da perdita di energia
dell'elettrone incidente, trasferita agli elettroni dell'atomo coinvolto, con
conseguente eccitazione di essi.
Tali interazioni danno vita a differenti processi che costituiscono l'oggetto
di analisi:
elettroni secondari: quando l'energia trasferita in uno scattering
inelastico, tra elettrone primario e elettrone di valenza dell'atomo investito dal
fascio, è sufficiente, dalla superficie del campione vengono estratti ed emessi
elettroni con energia minore di 50 eV;
elettroni retrodiffusi: si tratta degli elettroni del fascio primario che
vengono scatterati all'indietro per interazione elastica con i nuclei degli atomi del
campione, mantenendo, pertanto, l'energia di partenza;
91
raggi-x: essi vengono emessi quando un elettrone dopo aver
acquistato energia, in una collisione con il fascio primario, la rilascia ricadendo
nello stato iniziale.
Ognuno di questi tre processi fondamentali gioca un ruolo essenziale
nell'analisi del campione: gli elettroni secondari forniscono informazioni sulla
morfologia e la topologia del materiale analizzato, la retrodiffusione dipende
fortemente dal numero atomico e contiene, quindi, le informazioni sul numero
atomico medio e sulla struttura cristallina; i raggi-x rivelano la composizione
elementare del campione.
Tutte queste informazioni si ottengono raccogliendo i prodotti delle
interazioni tramite opportuni rivelatori che trasformano il segnale fornendo
l'immagine ingrandita dell'oggetto analizzato.
La risoluzione spaziale di un SEM, tipicamente di 2-5 nm, dipende dal
diametro del fascio, a sua volta determinato dal sistema ottico costituito da lenti e
bobine. Le dimensioni del fascio risultano generalmente maggiori della distanza
interatomica, pertanto il potere risolutivo del SEM non consente di ottenere
l'immagine dei singoli atomi, come è invece possibile tramite l'uso del TEM.
Microscopio a trasmissione elettronica. Il microscopio a trasmissione
elettronica è costituito da una struttura simile a quella del SEM per quanto
riguarda la pistola di elettroni e il sistema ottico, ma utilizza metodi diversi per
produrre e ingrandire le immagini da analizzare. Un'ulteriore differenza
fondamentale tra i due strumenti sta nel fatto che nel TEM gli elettroni del fascio
vengono accelerati verso il basso tramite l'applicazione di alti voltaggi e
raggiungono energie massime di 300 KeV, molto più elevate rispetto a quelle
tipiche del SEM.Poichè la lunghezza d'onda è legata all'energia E dalla
relazione di de Broglie
𝜆 =ℎ
2𝑚𝐸 (1.3.5)
92
(dove h è la costante di Planck e m è la massa della particella) si ottiene,
accelerando gli elettroni, la riduzione della lunghezza della radiazione, che
permette di aumentare il potere risolutivo. Questo rende il TEM uno strumento
d'analisi molto più potente del SEM, capace di fornire informazioni sulla struttura
interna del campione analizzato.
Il fascio di elettroni prodotto come nel SEM e accelerato viene fatto
passare attraverso il dispositivo magneto-ottico e inviato sul materiale in esame, il
cui spessore deve essere opportunamente sottile da permettere ad alcuni elettroni
di attraversarlo. Tali elettroni sono in parte assorbiti dal campione, in parte deviati
irregolarmente, diffratti.
Fig. 23. Rappresentazione schematica di un apparato TEM.
93
Dopo il campione è posta una sequenza di lenti - obiettivo, intermedia e
proiettore – che rispettivamente focalizzano il fascio uscente dall'oggetto, lo
allargano e lo proiettano su uno schermo fluorescente. Sia gli elettroni diffratti che
quelli trasmessi senza subire deviazioni passano attraverso le lenti e vanno a
formare sullo schermo l'immagine, contribuendo con diverso contrasto, ovvero
con intensità differenti che permettono di distinguere sullo schermo le diverse
parti dell'immagine. E` possibile intervenire selezionando per la formazione
dell'immagine solo il fascio diretto o solo quello diffratto. I due metodi di
visualizzazione sono rispettivamente detti bright field imaging mode, e dark field
imaging mode.
Attraverso i fenomeni di contrasto è dunque possibile analizzare gli spettri
di diffrazione e ottenere informazioni sulla struttura cristallina del campione,
visualizzando possibili difetti e imperfezioni del reticolo che causano la
diffrazione. L'analisi consente di ricavare anche la misura della distanza
interatomica, utilizzando la legge di Bragg
𝑛𝜆 = 2𝑑 sin 𝜃 (1.3.6)
dove:
n è l'ordine di diffrazione
è la lunghezza d'onda del fascio di elettroni
è l'angolo formato dal fascio incidente con il piano cristallino.
Si osserva sperimentalmente che l'angolo tra la direzione incidente e quella
diffratta è 2 .
94
Approssimando per angoli piccoli (sin ) e considerando il primo
ordine di diffrazione (n=1) riesce
𝜆 = 2𝑑𝜃 (1.3.7)
Fig. 24. Rappresentazione della diffrazione del fascio incidente secondo la legge di Bragg.
Fig. 25. Diffrazione del fascio nella camera del TEM.
95
𝑅
𝐿= tan 2𝜃 ≈ 2𝜃 (1.3.8)
Da cui
𝑑 =𝜆𝐿
𝑅 (1.3.9)
dove R è il raggio dell'anello di diffrazione e L la lunghezza della camera.
Il prodotto L è detto costante di camera dello strumento.
Microscopia SPM. La microscopia SPM (Scanning Probe Microscopy)
comprende sia i microscopi a effetto tunnel (STM), sia i microscopi a forza
atomica (AFM): entrambi fanno uso di una sonda molto sottile per la scansione di
una superficie 2D ed entrambi utilizzano un servomeccanismo per alzare o
abbassare la punta, in modo da mantenere costante la corrente di tunneling o le
forze tra punta e superficie, fornendo in tal modo una immagine topografica della
superficie scansionata. Entrambi i microscopi sono inoltre capaci di manipolare
singoli atomi o molecole, costituendo il punto di partenza per l’assemblaggio di
macchine o nanostrutture, atomo per atomo. Il principio di funzionamento di base
di questi strumenti è presentato in Fig. 25 (a) e (b).
Con un STM è possibile raggiungere la risoluzione atomica, come
mostrato in Fig.26, la quale mostra un rendering 3D di un SWNT, mediante il
quale è possibile la misura della chiralità del nanotubo. Il principio di
funzionamento di un STM si basa sul fenomeno del tunneling quantistico, che ha
luogo allorché la funzione d’onda di un atomo sulla superficie della punta di
scansione si sovrappone alla funzione d’onda di un atomo della superficie da
scansionare. Nel caso ideale queste funzioni d’onda decadono esponenzialmente
in funzione di distanze caratteristiche, dell’ordine del raggio di Bohr, intorno a 0,1
nm. Con una distanza di decadimento così piccola, un singolo atomo della punta
96
può farsi carico di quasi tutta la corrente osservata sperimentalmente. Se la
funzione d’onda su quell’atomo rappresenta, ad esempio, un orbitale di legame
diretto, la risoluzione spaziale può risultare estremamente elevata, come a volte è
possibile osservare.
Le velocità massime di scansione e campionamento sono in gran parte
determinate dalle frequenze di risonanza della struttura di supporto, della punta e
dell’elemento piezoelettrico xyz sul quale quest’ultima è montata. Nei migliori
strumenti il limite superiore di tali frequenze è intorno a 1 MHz.
L’AFM è più complicato. La rilevazione della forza tra la punta e la
superficie avviene attraverso la misura della deflessione della levetta (cantilever)
sulla quale è montata la punta, per mezzo della deflessione di un fascio laser,
puntato sulla superficie superiore del cantilever, oppure attraverso le variazioni di
resistenza con la deflessione di un apposito cantilever di tipo piezoresistivo. I
primi strumenti rilevavano la deflessione del cantilever dalla variazione della
corrente di tunneling tra il sostegno della punta ed il sensore di deflessione a
(a) (b)
Fig. 26. (a) Schema di funzionamento di un microscopio STM; (b) Schema di principio di un AFM.
97
molla. A “grandi distanze” la forza tra la punta e il campione è di tipo attrattivo
(regime di van der Waals), mentre per piccole distanze la forza diventa repulsiva.
Anche mediante l’AFM sono state riportate immagini con risoluzione atomica,
nonostante siano più difficili da ottenere che con l’STM [61]. In Fig 27 sono
riportate alcune immagini di CNT acquisite mediante AFM.
Fig. 27. Imaging di un SWNT mediante microscopia STM con ottenimento di risoluzione dei
singoli atomi.
98
(a)
(b)
Fig. 28. (a) Immagine AFM di MWNT (area di scansione
741x741 nm); (b) bundle formato da due SWNT (area di scansione 2,8x2,8 µm).
99
Spettroscopia Raman. La spettroscopia Raman è una tecnica
spettroscopica usata sopratutto in chimica per lo studio dei materiali. Dallo
spettro della luce diffusa da materiali illuminati da radiazione coerente e
monocromatica (tipicamente nel visibile) infatti, è possibile ottenere informazioni
sui moti vibrazionali (e rotazionali per i gas) delle molecole. Se una molecola
viene investita da luce proveniente da laser, gran parte dei fotoni è diffusa
elasticamente senza perdita di energia, cioè alla stessa frequenza della radiazione
incidente (diffusione elastica o Rayleigh); parte viene invece diffusa
anelasticamente cedendo (diffusione Raman Stokes) o acquisendo (diffusione
Raman anti-Stokes) energia nell'interazione con la molecola. L'intensità della luce
diffusa è tipicamente 10-3
-10-5
dell'intensità incidente per lo scattering elastico, 10-
7-10
-10 per lo scattering anelastico, e lo spettro risulta caratteristico delle molecole
investite dalla radiazione.
Capitolo 2
Parte sperimentale
100
Capitolo 2- Parte sperimentale
2.1-Materiali utilizzati
2.1.1-Resina epossidica
Le resine epossidiche costituiscono una classe di polimeri reticolati,
preparati tramite un processo di polimerizzazione in due stadi. Il primo stadio
porta all’ottenimento dei prepolimeri, o meglio dei pre-oligopolimeri, ed è basato
sulla reazione di polimerizzazione di un epossido alchilenico, contenente un
gruppo funzionale, con un nucleofilo bi o polifunzionale, attraverso il quale si
ottengono prepolimeri formati da due gruppi terminali epossidici. Nel secondo
stadio della preparazione i prepolimeri tetra funzionali (almeno) ottenuti vengono
curati (cured) con l’indurente opportuno.
La coppia di monomeri più utilizzata per la preparazione del prepolimero
epossidico è costituita da bisfenolo A (2-2'-bis 4-idrossifenil propano) ed
epicloridrina (Fig. 1).
Fig. 1. Sintesi del DGEBA a partire dalla reazione di policondensazione tra Bisfenolo A ed epicloridrina in presenza di una base (nel caso in figura, soda caustica).
101
La formazione del prepolimero deriva da una reazione di
policondensazione dei due componenti suddetti. Il polimero ottenuto, detto
diglicidil-etere del bisfenolo A, presenta un certo numero di gruppi -OH- nella
catena principale insieme ad alcuni gruppi epossidici alle estremità (generalmente
due)(Fig. 2 ).
(a)
(b)
Al crescere del peso molecolare Mw, ossia della lunghezza della catena di
atomi di C (indicata dal valore di n), si osserva l’incremento di viscosità del
polimero, che passa dallo stato di liquido poco viscoso, fino a quello di solido
(anche se ancora fusibile, data la linearità della catena). Con l’aggiunta
dell’indurente, e la conseguente reazione di curing, si ha la reticolazione delle
catene lineari, catalizzata dall’eventuale aumento di temperatura, con il
raggiungimento dello stato di solido infusibile.
Il tipo di resina epossidica utilizzata nei nostri test è un prodotto
commerciale della Shell Chemicals, denominata Epon 828, le cui caratteristiche
sono riportate in Tab. 1:
Fig. 2. (a) Struttura del monomero del diglicidil-etere del bisfenolo A (DGEBA) e (b) gruppo epossidico presente alle estremità.
102
Tabella 1. Caratteristiche chimico-fisiche della resina utilizzata.
Viscosità 100÷150 Pa s a 25°C
Equivalenti epossidici 182÷194
Peso specifico 1,16 g/cm3
La resina si presenta come un liquido a viscosità medio-bassa a
temperatura ambiente ed è induribile mediante reazione di curing con poliammine.
L’indurimento a temperature superiori ai 70°C dona alla resina finale le migliori
caratteristiche.
2.1.2-Indurente
Partendo da una comune TEPA (Tetra-Etilen Pentammina) è stato ottenuto
un prodotto modificato mediante reazione con formaldeide (CH2O):
+
TEPA
Formaldeide
103
La reazione di modificazione risultante è del tipo “ad addizione”,
con inserimento di un gruppo alchilolico (-CH2OH) su uno degli atomi di azoto
della catena:
Questo tipo di prodotto è già stato sperimentato come indurente per resine
epossidiche del tipo DGEBA. Per la preparazione dell’indurente ad 1 mole di
TEPA ( 189 cm3) viene aggiunta lentamente (goccia a goccia) 1 mole di
formaldeide (in soluzione acquosa al 36%). Durante l’aggiunta, per evitare
reazioni di condensazione di due molecole di TEPA ad opera della formaldeide
aggiunta, la temperatura deve essere mantenuta al di sotto dei 50°C. Al termine
dell’aggiunta, la miscela di reazione viene gradualmente scaldata fino a 110°C e
mantenuta a tale temperatura per circa 3-4 h in modo da eliminare l’acqua
aggiunta con la formaldeide e far avvenire la completa addizione con formazione
della molecola poliammino-alchilolica. Per maggiore sicurezza, una volta
completata l’eliminazione dell’acqua, il prodotto viene portato per breve tempo a
150°C. La fase finale comporta il soggiorno della miscela a 110°C per 24 h.
La tabella seguente riporta le caratteristiche chimico-fisiche dell’A1:
Peso molecolare crioscopico 510
Peso specifico 1,02 g/cm3
Viscosità (a 25°C) 0,21 Pa*s
Num H attivi 12
Pot life 45 min
Phr (rispetto a Epon 828) 23
104
2.1.3-Grafite
La grafite utilizzata è costituita da una polvere micrometrica con le
caratteristiche riportate nella tabella seguente:
Densità 2,24 g/cm3
Granulometria < 20 µm
Purezza 99,99 %
2.1.4-Nanotubi di carbonio
Per i test sono stati utilizzati sia CNTs sintetizzati in laboratorio sia
commerciali, questi ultimi acquistati da due diversi produttori e di differenti
tipologie. Le tabelle seguenti presentano una rassegna dei CNT utilizzati, divisi
sia per produttore che per caratteristiche, unitamente alle micrografie SEM e
TEM degli stessi (Fig.3,4,5):
MWNTs prodotti dalla Sigma-Aldrich
Densità 1,7÷2,1 g/cm3 a 25°C
Lunghezza 5÷9 µm
Diametro 110÷170 nm
Metodo di sintesi Chemical Vapour Deposition
Purezza 90 %
105
SWNT prodotti dalla Sigma-Aldrich
Densità 1,7÷1,9 g/cm3 a 25°C
Lunghezza 0,5÷100 µm
Diametro 1÷2 nm
Metodo di sintesi Chemical Vapour Deposition
Composizione C amorfo ~ 3%, SWNT > 50%, altri
nanotubi ~ 40%
Area superficiale (BET) 400 m2 / g
Fig. 3. Micrografia TEM dei nanotubi multi parete prodotti dalla Sigma-Aldrich.
106
SWNT prodotti dalla Heji
Densità apparente 0,3 g/ cm3 a 25°C
Lunghezza 10÷20 µm
Diametro 1÷2 nm
Metodo di sintesi CVD
Composizione Purezza > 95% con SWNTs > 90%
Area superficiale (BET) 400 m2 / g
Modulo di Young ~ 1000 GPa
Resistenza a trazione ~ 150 GPa
Fig. 4. Micrografia TEM dei nanotubi a parete singola prodotti dalla
Sigma-Aldrich.
107
MWNTs prodotti dalla Heji
Densità reale 2,1 g/cm3
Densità apparente Tipo 1 0,07 g/cm3
Densità apparente Tipo 2 0,05 g/cm3
Lunghezza 0,5÷200 µm
Diametro Tipo 1 8÷15 nm
Diametro Tipo 2 20÷40 nm
Metodo di sintesi CVD
Composizione Contenuto di MWNTs > 95%
Area superficiale (BET) 40÷600 m2 / g
Modulo di Young ~ 1200 GPa
Fig. 5. Micrografia TEM dei nanotubi a parete singola prodotti dalla Heji.
108
Resistenza a trazione ~ 150 GPa
Entrambi i tipi di MWNTs prodotti dalla Heji, sono stati utilizzati anche
nella versione “funzionalizzata”, contenente rispettivamente gruppi funzionali OH
o COOH (~ 5% in peso).
Sono stati infine utilizzati nanotubi sintetizzati nei Laboratori Nazionali di
Frascati, dei quali si parlerà nel prossimo paragrafo.
2.2-Sintesi dei nanotubi di carbonio
2.2.1-Scarica ad arco di plasma
Il metodo da noi seguito è basato sull’innesco di un arco elettrico in
presenza di un gas inerte: è quindi opportuno fare un breve cenno ai plasma.
Fig. 6. Micrografia TEM dei nanotubi a pareti multiple prodotti dalla Heji.
109
Plasma. Nella metà del diciannovesimo secolo, il fisiologo Ceco Jan
Evangelista Purkinje introdusse per primo la parola greca “plasma” (che significa
“forma” o “stampo”), per indicare il fluido chiaro, rimanente dopo la rimozione di
tutti i corpuscoli materiali dal sangue. Mezzo secolo dopo, lo scienziato
americano Irving Langmuir avanzò l’ipotesi che gli elettroni, gli ioni e gli atomi
neutri in un gas ionizzato, potessero allo stesso modo, essere considerati come i
corpuscoli materiali intrappolati in un qualche mezzo fluido, e chiamò questo
mezzo fluido “plasma”. Secondo la definizione odierna, un plasma è un sistema
quasi-neutro costituito da un gran numero di particelle cariche, esibenti un
comportamento comune: esso è ordinariamente indicato come il quarto stato di
aggregazione della materia, essendo gli altri tre costituiti rispettivamente dallo
stato solido, liquido e gassoso. I campi elettrici e magnetici agiscono sul plasma
proprio tramite le particelle cariche e la relativa densità dei portatori è valutata
attraverso un parametro, noto come grado di ionizzazione, definito dalla relazione
𝛼 =𝑛𝑒
𝑛𝑔+𝑛𝑒=
𝑛+
𝑛𝑔+𝑛+ (2.1)
dove ne, n+, ng, rappresentano rispettivamente il numero di elettroni, di
ioni a carica unitaria positiva e di atomi neutri. Normalmente se α < 10-4
si parla
di plasma debolmente ionizzato ed è proprio l’elevato o il basso grado di
ionizzazione a dare al gas presente il comportamento rispettivamente di
conduttore o isolante.
Il metodo di sintesi della scarica ad arco si basa essenzialmente sul
trasferimento di energia dal gas ionizzato, costituito da una miscela di vapori di
carbonio ed elio gassoso, agli elettrodi. La sublimazione cui si assiste è la
conseguenza di questo trasferimento di energia dall’arco all’anodo, costituito da
un elettrodo di grafite. Poiché il grado di erosione dell’anodo dipende da
parametri diversi, come la potenza dell’arco e dalle altre condizioni sperimentali,
è bene sottolineare che un’elevata erosione anodica non comporta
necessariamente un’alta produzione di nanotubi [47].
L’apparecchiatura per la sintesi con scarica ad arco consiste
essenzialmente di una camera cilindrica di acciaio inossidabile, ad asse verticale o
110
orizzontale. All’esterno della camera sono presenti diverse espansioni con tenuta
ad alto vuoto (fatte di gaskets in rame) con varie funzioni, quali: l’innesto delle
valvole per l’ingresso dell’elio nella camera e il raccordo con la pompa da vuoto,
l’inserimento di manometri analogici e pressure gauges; è inoltre presente una
finestra di quarzo per l’ispezione dall’esterno. Il controllo del processo avviene
tramite un manipolatore lineare, che permette lo spostamento di uno degli
elettrodi durante la sintesi in modo da mantenerne costante la distanza al
procedere dell’erosione dell’anodo.
In fase di sperimentazione è stata utilizzata una camera di sintesi con
elettrodi di grafite puri al 99,997% di forma cilindrica, con diametro di circa 6
mm per il catodo e 10 mm per l’anodo e lunghezza di 150 mm, disposti in
posizione orizzontale (Fig. 7 ). Ai fini dell’ottenimento del cosiddetto plasma
caldo si rende necessario l’utilizzo di un gas inerte: in tal caso è stato utilizzato
l’elio. Prima dell’innesco dell’arco è inoltre opportuno creare un determinato
livello di vuoto entro la camera, con il fine di ridurre al minimo il rischio di
combustione e ossidazione degli elettrodi di grafite.
Fig. 7. Gli elettrodi di grafite utilizzati nella camera al plasma.
111
La tabella seguente riporta i parametri di sintesi utilizzati:
Pressione vuoto ~10-4
mbar
Pressione He 700 mbar
Voltaggio 22-24 V
Corrente 110 A
Durata arco ~3' 30''
La camera utilizzata per la sintesi (schema e foto in Figg. 9 e 10) è
costituita da una struttura cilindrica in acciaio inossidabile del diametro di circa 25
cm e lunga 40 cm. La camera presenta sei raccordi con le seguenti funzioni:
2 raccordi per l’alloggiamento degli elettrodi;
1 raccordo a T per l’ingresso dell’He e l’inserimento del pressure
gauge;
1 raccordo per il collegamento della pompa da vuoto;
1 raccordo per il manipolatore lineare esterno del sostegno
catodico;
1 finestra di quarzo per l’ispezione interna.
All’interno della camera sono presenti due porta-elettrodi in ottone,
calettati su passanti in rame per l’adduzione di corrente. L’elettrodo di grafite
costituente il catodo è solidale con il manipolatore esterno e può essere traslato
durante la sintesi, in modo da mantenere costante il gap tra gli elettrodi e
stabilizzare i parametri di processo durante l’avanzamento della scarica. Sulla
superficie esterna si trovano infine saldate le tubature in rame per il
raffreddamento della camera, mediante H2O corrente. Le tenute da vuoto sono
112
costituite da due O-rings in Viton per le piastre basali e da gasket in rame per le
restanti flange e raccordi.
La tipica procedura di sintesi si compone delle seguenti operazioni:
1. Creazione del grado di vuoto desiderato entro la camera mediante
pompa bi stadio;
2. Pulizia del condotto di adduzione dell’He, per eliminare l’aria
rimasta eventualmente intrappolata;
3. Riempimento della camera con He fino alla pressione desiderata;
4. Innesco dell’arco mediante generatore esterno in c.c. e regolazione
della distanza tra gli elettrodi, in modo da stabilizzare i parametri;
5. La sintesi (Fig. 11) procede per 3-4 min durante i quali è opportuno
provvedere ad un adeguato raffreddamento delle pareti della
camera;
Al termine della sintesi, dopo aver atteso il tempo necessario al
raffreddamento della camera, si provvede ad aprirla e ad estrarre il catodo. Sulla
superficie di quest’ultimo (Fig. 8 ), si possono individuare due zone chiaramente
distinguibili:
Una zona periferica di colore grigiastro con riflessi metallici,
costituita principalmente da carbonio amorfo e grafite;
La zona più interna, costituita da un vero e proprio “tappeto” di
nanotubi di carbonio di elevata purezza (~85%) disposti secondo
dei cluster di forma approssimativamente circolare.
Dopo aver estratto il catodo i nanotubi, questi devono essere “grattati” via
dalla superficie mediante un taglierino di precisione. Una volta ottenuto il
prodotto di sintesi si procede alla pesata mediante bilancia analitica. Il peso del
prodotto ottenuto da una singola scarica varia tra 1 e 3 mg (misure effettuate
mediante bilance analitiche Mettler Toledo AB54-S e AE240 Dual Range).
113
Fig. 8. Il deposito catodico, così come appare dopo l’estrazione dalla camera di sintesi.
114
Fig. 9. La camera a scarica ad arco utilizzata per la sintesi dei nanotubi di carbonio
nei laboratori dell’INFN.
115
Fig. 10. Schema della camera di sintesi utilizzata all’INFN di Frascati in differenti prospetti.
116
(a)
(b)
117
(c)
(d)
118
2.3-Realizzazione dei provini
Ai fini dell’ottenimento di provini adatti alle prove meccaniche e
compatibilmente con la disponibilità di materiale (nanotubi, resina epossidica e
indurente) sono stati preparati provini di forme diverse per i test di trazione e
resilienza, realizzati medianti due tipi differenti di stampi in ottone (Fig. 12).
(e)
Fig. 11. Diverse fasi della sintesi dei CNT con il metodo della scarica ad arco: (a)
Allineamento degli elettrodi prima della fase di innesco; (b), (c) due momenti dell’innesco dell’arco
riprese rispettivamente senza e con l’utilizzo di un filtro; (e) la fase immediatamente successiva allo
spegnimento dell’arco, nella quale si nota la luminescenza residua della durata di qualche secondo; (e)
gli elettrodi come appaiono dopo la conclusione della sintesi: si noti la presenza del deposito scuro sulla
superficie del catodo (elettrodo di sinistra).
119
(a)
(b)
Fig. 12. (a) Forma e (b) stampo utilizzato per la sintesi dei provini di forma parallelepipeda
a sezione costante per i test di impatto.
Fig. 13. Stampo utilizzato per la realizzazione dei provini di
forma Dog-bone, secondo la norma ASTM D638.
120
Per entrambi i tipi di provini si è adottata una procedura di
preparazione diversa per i campioni prodotti con e senza l’aggiunta della seconda
fase (nanotubi o grafite micrometrica); le procedure utilizzate sono costituite dalle
seguenti fasi (Fig. 14):
1. Degasaggio della sola resina (Epon 828) sotto vuoto a circa 1-3 mbar per 12-
14 h, per eliminare l’aria intrappolata all’interno;
2. Dopo breve riscaldamento della resina (5-10 min a 80°C), lenta miscelazione
della stessa con 20% in peso di indurente (A1), cercando di prevenire la
formazione di bolle d’aria;
- Nel caso si preveda l’aggiunta della seconda fase, quest’ultima deve essere
dispersa per evitare la formazione di agglomerati; a tal fine la fase 2 è
preceduta dalla dispersione dei nanotubi (o della grafite) in alcol
isopropilico con successiva immersione in bagno ad ultrasuoni per circa 1h
30';
- Segue la miscelazione del propanolo, contenente i nanotubi dispersi, con la
resina epossidica (precedentemente riscaldata per diminuirne la viscosità)
e successiva evaporazione dell’alcol in forno a 140-150°C per 2h, per
evitare che parte del solvente rimanga intrappolato nel composito finale in
forma di bolle;
- E’ necessario ricorrere nuovamente all’utilizzo del bagno ad ultrasuoni per
circa 1h 30', con il fine di disperdere omogeneamente i nanotubi nella
matrice epossidica;
3. Una volta miscelata la resina (eventualmente contenente la seconda fase) e
l’indurente nelle opportune proporzioni, si procede al colaggio della miscela
ottenuta negli stampi tenendo conto della continua diminuzione di lavorabilità
dovuta alla ridotta pot life della miscela;
4. La procedura di curing prevede, dopo il colaggio, che i provini vadano tenuti
circa 20' in aria e poi 1 h a 40°C per rimuovere le eventuali inclusioni
aeriformi presenti in superficie;
121
5. La cura continua con circa 20÷24 h in aria, seguite da ulteriori 6 h a 80°C..
(a)
(b)
122
(c)
(d)
123
Lo stampo utilizzato per il colaggio deve inoltre essere accuratamente
pulito e sgrassato prima della suddetta fase; per facilitare la rimozione dei provini
dallo stampo è stato utilizzato un distaccante della Henkel (Frekote HMT-2) a
base non acquosa.
La seguente tabella riporta un elenco delle differenti miscele utilizzate, con
le relative percentuali di nanotubi o grafite incluse:
(e)
Fig. 14. Diverse fasi della preparazione dei provini per test di trazione: (a) Degasaggio
delle resine epossidiche in camera da vuoto; (b) operazione di pesata dopo dispersione dei nanotubi
in propanolo mediante bagno ad ultrasuoni; (c) miscelazione della resina contenente i nanotubi (dopo
evaporazione del solvente) con l’indurente; (d) colaggio nello stampo; (e) estrazione del provino
finito.
124
Seconda fase\
Percentuale1
0,1% 0,5% 1%
Grafite × × ×
MWNT
Aldrich
× × ×
SWNT
Aldrich
× × ×
CNTs Lab.2 ×
MWNT
HEJI
× × ×
MWNT
HEJI funz.
× × ×
SWNT HEJI × × ×
1 Percentuale in peso di seconda fase, valutata in rapporto al peso di resina utilizzata
secondo le proporzioni Resina:20 % indurente:% rinforzo.
2 Nanotubi sintetizzati con scarica ad arco, nei laboratori dell’INFN.
2.3.1-Preparazione dei provini per test di trazione
Dopo aver estratto i provini dagli stampi, avendo cura di evitare tensioni
residue che potrebbero falsare le prove, si è proceduto alla lavorazione
superficiale mediante carte abrasive con mesh variabili tra 150, per le espansioni
alle estemità, e 600-800 per il tratto utile sul quale vanno applicate le strain gages.
125
Una volta finiti superficialmente i provini, sono state applicate delle strain
gages elettriche di due tipi diversi, prodotte dalla Vishay, con resistenze nominali
rispettivamente di 120 e 350 Ω. Infine si è passati al cablaggio, saldando due fili
di rame argentato, come mostrato in Fig. 15, in cui sono inoltre riportati i diversi
stadi dell’intera procedura.
(a)
(b)
126
(c)
(d)
Fig. 15. (a), (b), (c), (d): le diverse fasi dell’applicazione delle strain gages
ai provini, fino alla saldatura dei filini di rame argentato con l’ottenimento
del campione pronto per la fase di testing.
127
2.3.2-Preparazione dei provini per test di resilienza
Anche in questo caso dopo l’estrazione dallo stampo, dal quale vengono
ricavati due provini, si procede con la lavorazione con carta abrasiva fino a 400
mesh. Terminata questa fase si deve procedere alla creazione dell’intaglio a V,
della profondità di 2 mm, necessario per l’esecuzione della prova Charpy: un
esempio di provino finito è mostrato in Fig. 17.
Fig. 17. Provino per prova di resilienza Charpy pronto per essere testato.
Fig. 16. I due diversi tipi di strain gages utilizzate, in
confronto diretto con le dimensioni di una monetina da 5
Euro cent.
128
Sezione 2.4-Risultati e discussione
2.4.1-Caratterizzazione dei nanotubi
Come detto nel capitolo 1.3, per la caratterizzazione dei CNT sintetizzati
nei Laboratori Nazionali di Frascati sono state utilizzate tecniche di microscopia
elettronica e tecniche spettroscopiche.
Microscopia SEM. Le analisi al microscopio elettronico a scansione sono
state effettuate utilizzando un microscopio (modello ISI ABT-DS 130S, Fig. 1) ad
emissione termoionica con filamento di tungsteno, lavorando ad un potenziale
accelerante di 20 kV.
Una volta rimosso il catodo dalla camera di sintesi, è stata tagliata la parte
terminale contenente il deposito ed incollata su uno stub di Al, mediante un nastro
biadesivo conduttore. Le immagini seguenti costituiscono alcune delle
Fig. 1. Il microscopio a scansione elettronica utilizzato per la caratterizzazione morfologica dei CNT prodotti.
129
micrografie acquisite sui campioni sintetizzati in laboratorio mediante la tecnica
della scarica ad arco (le prime due immagini sono state acquisite in campo ottico):
(a)
(b)
Fig. 2. (a) Immagine al microscopio ottico (circa 20x) del deposito
catodico, come appare una volta estratto l’elettrodo al termine della
sintesi; (b) particolare della parte centrale del deposito, sul quale
risultano visibili delle "isole” costituite da grovigli di CNT.
130
(a)
(b)
Fig. 3. (a) Micrografia SEM del bordo esterno sulla
superficie del catodo, in cui è possibile notare la differente
morfologia tra la zona periferica, formata da carbonio
amorfo (di colore argenteo in campo ottico), e la zona più
interna, costituita da un vero “tappeto” di CNT (53x); (b)
Particolare a 310 ingrandimenti della zona interna, in cui
risulta evidenziata l’organizzazione in “isole” dei CNT.
131
(b)
Fig. 4. (a) Dettaglio a 5000x di una delle “isole”, in cui sono
chiaramente distinguibili i singoli tubi, formanti un network
intricato. (b) Immagine a 15000x in cui si possono notare le
particelle di carbonio amorfo presenti soprattutto nei punti
in cui si intersecano CNT diversi.
(a)
132
Dalle micrografie delle pagine precedenti (Figg. 2, 3, 4) è possibile notare
i differenti aspetti topografici presentati dalla superficie del catodo, al variare
della zona osservata. Nel campo ottico la parte esterna, costituita da carbonio
amorfo, appare di colore argenteo mentre, andando verso la zona centrale, si nota
dapprima una regione con una aspetto “vellutato” e poi, nell’area centrale, un’area
“ad isolotti”, visibile con maggior dettaglio al SEM. L’analisi al SEM (Figg. 3,4)
permette di apprezzare ancora meglio l’organizzazione dei CNT nelle diverse aree
e dettagli come la lunghezza ed il diametro medio, per i quali sono stati trovati
rispettivamente valori di poche decine di µm e di 20-60 nm. Ad ingrandimenti
medio-alti è possibile apprezzare il grado di purezza dei CNT di sintesi, che
presentano impurezze costituite soprattutto da carbonio amorfo concentrato in
particolare nelle aree d’intersezione di più CNT. Dalle micrografie è possibile
estrapolare un grado di purezza superiore all’80% in CNT.
Microscopia TEM. Le analisi mediante microscopia elettronica in
trasmissione sono state effettuate presso il Centro Interdipartimentale Grandi
Strumenti di Modena, utilizzando un microscopio JEOL JEM 2010 (Fig. 5)
equipaggiato con un sistema per la microanalisi Link Inka 100, attraverso il quale
è possibile ottenere uno spettro relativo agli elementi presenti nella zona in
osservazione.
Fig. 5. Il TEM
Jeol JEM 2010
utilizzato per
l’analisi in
trasmissione dei
CNT di sintesi.
133
I campioni sono stati preparati disperdendo i CNT di sintesi in alcool
isopropilico e sonicando il tutto per qualche minuto. Una goccia della sospensione
è stata poi depositata su di una griglia di Cu con 400 mesh e si è proceduto
all’evaporazione del propanolo. Le immagini seguenti sono state acquisite sotto
un potenziale di accelerazione di 200 keV.
(a)
(b)
134
(c)
Fig. 5. (a) Immagine TEM in cui è possibile notare la
distribuzione dei diametri dei nanotubi multi parete in
presenza di particelle di carbonio amorfo legate alle pareti
esterne. (b) Singolo nanotubo multi parete con diametro
esterno di circa 20 nm e interno di circa 10 nm. Da queste
immagini è possibile sincerarsi dell’effettiva presenza del
canale interno, il quale distingue i nanotubi dalle nanofibre.
(c) Micrografia TEM della parte terminale di un CNT che, a
causa della presenza di difetti topologici, non presenta la
punta arrotondata, caratteristica dell’emifullerene.
Fig. 6. Spettro X-EDS
su un campione di CNT
di sintesi. I picchi
mostranti la presenza
di rame sono relativi
alla griglia utilizzata
per l’analisi al TEM. Le
impurezze di silice
provengono invece
dall’anodo di grafite
utilizzato per la
sintesi.
135
Dalle immagini precedenti è possibile verificare l’effettiva presenza di
nanotubi di carbonio, segnalata dall’esistenza del canale centrale che li differenzia
dalle nanofibre. La Fig. 5 (c) mette in luce la presenza di una punta “aguzza”
all’estremità di un CNT, effetto della presenza di difetti topologici nella parte
terminale che ne fanno discostare la morfologia da quella ideale, costituita da una
semisfera di Fullerene. La Fig. 6 mostra invece lo spettro ai raggi X a dispersione
di energia, ottenuto tramite i microanalizzatore Link Inca 100, nel quale, oltre ai
picchi relativi al Cu dovuti alla griglia utilizzata per l’analisi, si notano i picchi
relativi al silicio e all’ossigeno, presenti come impurezze negli elettrodi utilizzati
come sorgenti di C per la sintesi dei CNT.
136
2.4.2-Prove di trazione
Per le prove meccaniche di trazione è stata utilizzata una macchina Lloyd,
modello T20000 con cella di carico da 5 kN (FIg. 1). I dati relativi al carico
applicato sono stati rilevati utilizzando una centralina estensimetrica esterna della
HBM, modello Spider 8, dotata di 8 canali, interfacciata con la macchina
attraverso l’uscita del plotter. Gli estensimetri, come detto nel precedente capitolo,
sono prodotti dalla Vishay, ed hanno resistenze nominali di 120 e 350 Ω, relative
rispettivamente ai modelli EA-06-031DE-120 e EA-13-062AQ-350.
Per la compensazione termica si è scelto di utilizzare un altro campione,
realizzato con la stessa formulazione epossidica di prova, ma non soggetto a sforzi
di alcun tipo, realizzando in tal modo la configurazione detta ad “un quarto di
ponte” (Fig. 2), in cui l’elemento attivo (il provino soggetto al carico di trazione e
alla conseguente deformazione) occupa soltanto un ramo del ponte di Wheatstone.
Fig. 2. Macchina utilizzata per la valutazione del
carico di rottura e del modulo elastico dei
nanocompositi.
137
La cella di carico è stata tarata, utilizzando la centralina estensimetrica, ottenendo
una sensibilità di 2mV/N. Per la valutazione della deformazione percentuale si è
utilizzata la relazione relativa al quarto di ponte, ossia:
𝑉0 ≈ 𝐸𝐾𝜀
4 (2.2)
in cui
V0 è la tensione misurata ai capi del ponte;
ε è la deformazione che intendiamo misurare;
E è la tensione di alimentazione del ponte;
K è il fattore di ponte, variabile nel nostro caso tra 2,01 e 2,145.
I dati relativi al carico ed alla deformazione vengono quindi acquisiti, sulla
stessa base dei tempi, dalla centralina e mostrati in output sotto forma di mV per il
carico e di mV/V per la deformazione, ottenendo direttamente la curva di carico
relativa al campione testato.
Con lo stesso tipo di prova è stato possibile ottenere sia il carico di rottura
che il modulo di Young dei campioni testati. Le prove sono state eseguite, in
accordo alla norma ASTM D 638 Tipo V, utilizzando una velocità di
allontanamento dalle traverse di 1 mm/min. Ai fini della determinazione dello
sforzo dai dati relativi al carico applicato è stata effettuata la misura di tre sezioni
per ogni provino lungo il tratto utile, sul quale sono state applicate le strain gages.
Fig. 3. Ponte di wheatstone nella configurazione ad un quarto di ponte utilizzata nelle prove di trazione.
138
In accordo alla norma suddetta, lo sforzo a rottura è stato valutato sulla
base della sezione minima, tra le tre precedentemente misurate. Per ogni tipo di
CNT, con esclusione quelli di sintesi (per il quali è stato possibile realizzare
soltanto la formulazione contenente lo 0,1% in peso) sono stati prodotti provini
contenenti rispettivamente lo 0,1%, 0,5% e 1% in peso di nanotubi, percentuali
relative al peso di resina epossidica utilizzata. Per ogni specifica formulazione
sono state eseguite almeno tre prove su altrettanti provini identici ed è stata
valutata la semidispersione λ dei risultati ottenuti, ricavata mediante la relazione:
𝜆 =𝑋𝑀𝑎𝑥 −𝑋𝑚𝑖𝑛
2 (2.3)
nella quale:
λ rappresenta la semidispersione;
XMax la misura più elevata ottenuta;
Xmin la misura minore.
Analogamente è stata valutata la deviazione standard, anche se meno
significativa rispetto alla semidispersione, dato il ridotto numero delle misure.
Grazie a queste prove è stato possibile valutare l’influenza sullo sforzo a
rottura e sul modulo di Young di diversi parametri, quali:
Il diametro medio dei tubi e la conseguente estensione
dell’interfaccia con la resina;
L’effetto della funzionalizzazione superficiale dei CNT e la
conseguente adesione all’interfaccia CNT-matrice;
La diversa polarità dei gruppi funzionali utilizzati.
Nella Fig. 4 della pagina seguente sono riportate alcuni immagini relative
ai diversi stadi della prova di trazione.
139
La tabella alla pagina seguente riporta i risultati delle prove effettuate, inerenti la
determinazione del carico di rottura. La grafite è stata utilizzata come controllo.
(a) (b)
(c)
Fig. 4. Provino “dog-bone” tra le ganasce della pressa, prima (a) e
dopo la rottura (b); (c) particolare della zona di rottura.
140
1: Formulazione epossidica non caricata, che ha subito lo stesso trattamento di diluizione
con propanolo e conseguente evaporazione in forno, per migliorare la confrontabilità dei risultati.
2: Nanotubi prodotti nei laboratori dell’INFN mediante scarica ad arco.
Nella pagina successiva è riportata un’analoga tabella, relativa alla
determinazione del modulo di Young.
Composizione Sigma medio
(MPa)
Dev st
Sigma
Semid
Sigma
N° provini
σ
Epon 828 con alcool1 56.65 10.21 12.46 5
Epon 828 74.91 0.72 0.51 2
MWNT Aldr 0,1% 60.22 5.59 5.48 3
MWNT Aldr 0,5% 61.22 19.49 17.60 3
MWNT Aldr 1% 66.26 11.76 11.73 3
SWNT Aldr 0,1% 56.08 10.68 12.16 4
SWNT Aldr 0,5% 59.37 7.23 6.96 3
SWNT Aldr 1% 64.34 2.98 2.98 3
MWNT Heji 0,1% 54.02 2.35 2.35 3
MWNT Heji 0,5% 49.00 3.65 3.65 3
MWNT Heji 1% 63.45 4.73 4.42 3
MWNT Heji -OH-
0,1% 62.76 1.42 1.42 3
MWNT Heji OH
0,5% 69.13 4.86 3.44 2
MWNT Heji OH 1% 62.30 3.52 3.28 3
MWNT Heji -
COOH- 0,1% 59.09 8.27 9.43 4
MWNT COOH 0,5% 58.64 13.05 14.93 4
MWNT COOH 1% 67.06 3.25 3.22 3
Grafite 0,1% 57.96 7.04 4.98 2
Grafite 0,5% 67.40 2.87 2.03 2
Grafite 1% 65.99 2.57 2.56 3
CNT 0,1%2 76.35 6.23 7.23 4
141
1: Per i CNT prodotti in laboratorio è stato possibile effettuare soltanto un test per la
determinazione del modulo elastico
Nelle pagine seguenti sono invece riportate le variazioni % di sforzo a
rottura e modulo elastico rispetto alla matrice non caricata.
Composizione E medio (GPa) Dev st E Semid E N° prov E
Epon 828 con alcool 2.45 0.49 0.56 4
Epon 828 2.81 0.27 0.26 2
MWNT Aldr 0,1% 2.62 0.04 0.04 3
MWNT Aldr 0,5% 2.78 0.18 0.16 3
MWNT Aldr 1% 2.72 0.10 0.10 3
SWNT Aldr 0,1% 2.87 0.25 0.18 2
SWNT Aldr 0,5% 2.73 0.16 0.16 3
SWNT Aldr 1% 2.81 0.21 0.21 3
MWNT Heji 0,1% 2.48 0.07 0.06 3
MWNT Heji 0,5% 2.83 0.51 0.50 3
MWNT Heji 1% 2.91 0.19 0.19 3
MWNT Heji -OH-
0,1% 2.81 0.21 0.21 3
MWNT Heji OH
0,5% 2.58 0.17 0.12 2
MWNT Heji OH 1% 2.56 0.20 0.19 3
MWNT Heji -
COOH- 0,1% 2.84 0.17 0.17 4
MWNT COOH 0,5% 2.55 0.26 0.27 4
MWNT COOH 1% 2.83 0.11 0.10 3
Grafite 0,1% 2.57 0.21 0.15 2
Grafite 0,5% 2.57 0.16 0.12 2
Grafite 1% 2.47 0.04 0.04 3
CNT 0,1%1 3.00 - - 1
142
143
144
Dagli istogrammi delle pagine precedenti si può notare che, mentre tutte le
formulazioni caricate presentano un incremento del modulo di Young, la stessa
cosa non può dirsi per quanto riguarda lo sforzo a rottura: in quest’ultimo caso,
alcune miscele mostrano un miglioramento, altre (tre) addirittura un
peggioramento di questo parametro. Ai fini di una maggiore chiarezza nella
visualizzazione dei risultati ottenuti, le pagine seguenti riportano un confronto
diretto, riportato sotto forma di istogrammi, tra i diversi tipi di filler a parità di %
in peso. I primi tre istogrammi riguardano lo sforzo a rottura, mentre gli ultimi tre
si riferiscono al modulo elastico.
56.65 60.22 56.08 54.0262.76 59.09 57.96
76.35
0
10
20
30
40
50
60
70
80
Epon 828
con
alcool
MWNT
Aldr
0,1%
SWNT
Aldr
0,1%
MWNT
Heji
0,1%
MWNT
Heji OH
0,1%
MWNT
Heji
COOH
0,1%
Grafite
0,1%
CNT
0,1%
Sfr
ozo
(MPa
)
Tipo di filler
Sigma a rottura con lo 0,1% in peso di filler
145
56.6 61.2 59.449.0
69.158.6
67.4
0
10
20
30
40
50
60
70
Epon 828
con alcool
MWNT
Aldr 0,5%
SWNT Aldr
0,5%
MWNT
Heji 0,5%
MWNT
Heji OH
0,5%
MWNT
COOH
0,5%
Grafite
0,5%
Sfr
ozo
(MPa
)
Tipo di filler
Sigma a rottura con lo 0,5% in peso di filler
56.666.3 64.3 63.4 62.3 67.1 66.0
0
10
20
30
40
50
60
70
Epon 828
con alcool
MWNT
Aldr 1%
SWNT
Aldr 1%
MWNT
Heji 1%
MWNT
Heji OH
1%
MWNT
COOH 1%
Grafite
1%
Sfr
ozo
(MPa
)
Tipo di filler
σR con l'1% in peso di filler
146
2.452.62
2.87
2.482.81 2.84
2.57
3.00
2.0
2.2
2.4
2.6
2.8
3.0
3.2
Epon
828 con
alcool
MWNT
Aldr
0,1%
SWNT
Aldr
0,1%
MWNT
Heji
0,1%
MWNT
Heji OH
0,1%
MWNT
Heji
COOH
0,1%
Grafite
0,1%
CNT
0,1%
E (Gpa
)
Tipo di filler
Modulo di Young con lo 0,1% wt di filler
2.45
2.78 2.732.83
2.58 2.55 2.57
2.2
2.3
2.4
2.5
2.6
2.7
2.8
2.9
Epon 828
con alcool
MWNT
Aldr 0,5%
SWNT
Aldr 0,5%
MWNT
Heji 0,5%
MWNT
Heji OH
0,5%
MWNT
COOH
0,5%
Grafite
0,5%
E (Gpa
)
Tipo di filler
Modulo di Young con lo 0,5% wt di filler
147
Dagli istogrammi riportati si evincono andamenti contrastanti per le
diverse formulazioni caricate. In particolare, per quanto riguarda lo sforzo a
rottura, si rilevano incrementi significativi per le seguenti miscele:
MWNT della Aldrich all’1% in peso, ossia i CNT con il maggior
diametro in assoluto tra quelli presi in analisi, per i quali
l’incremento rilevato rispetto alla sola matrice è del 16,97%, con
un valore medio di 66,3 MPa;
SWNT della Aldrich all’1% in peso, con i minori diametri in
assoluto tra i CNT analizzati, mostranti un incremento del 13,57%
rispetto alla resina di partenza, con un valore medio del σR pari a
64,3 MPa;
2.45
2.722.81
2.91
2.56
2.83
2.47
2.2
2.3
2.4
2.5
2.6
2.7
2.8
2.9
3.0
Epon 828
con alcool
MWNT
Aldr 1%
SWNT Aldr
1%
MWNT
Heji 1%
MWNT
Heji OH
1%
MWNT
COOH 1%
Grafite 1%
E (Gpa
)
Tipo di filler
Modulo di Young con l'1% wt di filler
148
MWNT della Heji (allo 0,5% in peso),funzionalizzati con gruppi
ossidrilici, per i quali si riscontra un aumento del 22,04% rispetto
alla matrice non caricata, con un valore dello sforzo a rottura medio
pari a 69,1 MPa;
MWNT prodotti dalla Heji (all’1% in peso),funzionalizzati con
gruppi carbossilici, con un valore dell’incremento del 18,38% ed
un valore assoluto di 67,1 MPa;
CNT sintetizzati nei laboratori dell’INFN di Frascati per i quali a
fronte della esigua frazione ponderale dello 0,1% in peso, si è
rilevato un incremento di ben il 34,77% sulla resina di partenza,
con un valore medio di 76,35 MPa;
c’è da segnalare anche il comportamento della polvere
micrometrica di grafite nelle percentuali in peso dello 0,5 e dell’1
%, per la quale si rilevano incrementi rispettivamente del 18,97% e
del 16,9%, relativi ai valori registrati di 67,4 MPa e 66 MPa.
Una significativa riduzione dello sforzo a rottura si rileva invece, per la
formulazione contenente lo 0,5% di MWNT della Heji, per la quale il decremento
percentuale relativo alla resina non caricata è pari al 13,51%, con un valore medio
dello sforzo a rottura di soli 49 MPa.
Diverso è invece l’effetto apportato sul modulo di Young, per il quale tutti
i filler utilizzati riportano aumenti, più o meno lievi. Gli incrementi maggiori si
rilevano in tal caso per le miscele seguenti:
SWNT della Aldrich allo 0,1% e 1% in peso, con aumento del
modulo elastico rispetto alla matrice “sola”, rispettivamente del
17,12% e del 14,72%, con valori medi pari a 2,87 GPa e 2,81 GPa;
MWNT della Heji non funzionalizzati, con frazioni ponderali dello
0,5% e 1%, per i quali gli incrementi relativi sono rispettivamente
del 15,44% e del 18,73%, con valori assoluti pari a 2,83 e 2,91
GPa;
149
MWNT Heji funzionalizzati con COOH, introdotti nella matrice
allo 0,1% in peso, determinanti un aumento del modulo del
14,88%, con valore medio pari a 2,81 GPa;
MWNT Heji funzionalizzati con gruppi carbossilici, nelle
percentuali in peso dello 0,1% e dell’1%, per i quali si ottiene un
miglioramento, nei riguardi della resina, rispettivamente del
15,75% e del 15,46%, con valori medi di 2,84 GPa e 2,83 GPa;
anche in questo caso, l’incremento maggiore è stato rilevato per i
CNT sintetizzati nei laboratori dell’INF, con un incremento di ben
il 22,45% a fronte dell’aggiunta alla resina di solo lo 0,1% in peso
di nanotubi: il valore di 3 GPa è stato però rilevato mediante
un’unica misura, e non può essere considerato ripetibile;
Per l’interpretazione e discussione dei risultati ci riferiremo invece ai tre
parametri precedentemente accennati, ossia all’influenza sulle proprietà discusse
rispettivamente: del diametro, della funzionalizzazione e del grado di adesione tra
matrice e CNT.
Effetto del diametro medio sullo sforzo a rottura. L’influenza dei diversi
diametri è stata valutata prendendo in considerazione tre tipi diversi di CNT, e
precisamente:
SWNT Aldrich, con diametri compresi tra 1 e 2 nm;
MWNT Heji con diametri medi nell’intervallo 20-40 nm;
MWNT Aldrich con i maggiori diametri medi tra quelli testati, con
valori compresi tra 110 e 170 nm (dati del produttore).
Ai fini di una più immediata visualizzazione si riporta l’andamento dello
sforzo a rottura dei tre CNT analizzati, al variare della loro frazione ponderale
nella resina epossidica.
150
Dal diagramma riportato si osserva che, mentre i CNT Aldrich, (sia a
pareti singole che multiple) mostrano un costante aumento dello sforzo a rottura
all’aumentare della % in peso, la stessa cosa non può dirsi per i MWNT Heji (con
diametro intermedio tra i due suddetti), per i quali si osserva un evidente calo del
σR allo 0,5% in peso. Tale comportamento può essere imputato a due diversi
aspetti, ossia: alla peggiore dispersione dei MWNT Heji (Fig. 5) rispetto agli
Aldrich ed alla lunghezza media inferiore, caratteristica questa, molto influenzata
dal processo di sonicazione utilizzato per migliorarne la dispersione (Fig. 6).
56.0859.37
64.34
54.02
49.00
63.4560.22
61.22
66.26
45.00
50.00
55.00
60.00
65.00
70.00
0.0% 0.2% 0.4% 0.6% 0.8% 1.0%
Sfo
rzo
(MPa
)
% in peso di CNT
Effetto del diametro su σR
SWNT Aldrich
MWNT Heji
MWNT Aldrich
151
Fig. 5a. Micrografie acquisite mediante microscopio SEM a emissione di campo (Enea
Frascati): nella foto in alto (10.000x) è mostrata la superficie di frattura di un
campione di resina caricata con lo 0,5% di MWNT Heji, rotto per trazione; il
particolare in basso (~30.000x) mostra degli agglomerati di CNT, indicativi di una
dispersione non ottimale.
152
Fig 5 b. La micrografia SEM in alto (2.000x) è relativa ad un
campione contenente l’1% in peso di MWNT Aldrich, rotto per
flessione dopo immersione in azoto liquido. Dalla foto si apprezza
l’omogeneità di dispersione di questo tipo di CNT nella matrice
epossidica; in basso, immagine acquisita mediante FE-SEM
(~83.000x) in cui è invece mostrato un particolare della superficie
di un campione rotto in trazione con lo 0,5% di MWNT Aldrich; sono
evidenti il debonding e il pull out di alcuni CNT le cui tracce sono
rivelate dai fori nella matrice.
153
Fig. 6. Le micrografie, acquisite mediante un FE-SEM, mostrano MWNT Heji prima
(immagine in alto a 100.000x) e dopo 4 h di sonicazione (in basso a 126.000x):
l’impressione è che ci sia una riduzione della lunghezza media dei tubi, senza
peraltro ottenere la dispersione sperata.
154
Dai tre andamenti riportati a pag. 150, si nota che le differenze tra i vari
CNT si mantengono coerenti all’aumentare delle percentuali utilizzate, eccezion
fatta per i MWNT Heji allo 0,5%, i quali mostrano una netta diminuzione di
resistenza rispetto alle altre formulazioni parimenti caricate. Ciò può essere
imputabile, come sottolineato da alcuni autori, alla presenza di una soglia
(riguardante il quantitativo in peso di CNT utilizzati) a ridosso della quale si
risente maggiormente degli effetti della cattiva dispersione e della formazione di
zone ricche di agglomerati. Al di sotto di tale soglia, mediante sonicazione, si
riesce ad avere una ragionevole dispersione mentre, al di sopra di essa, le zone
depauperate dai CNT diminuiscono, con l’effetto di riportare a un nuovo
incremento della resistenza a trazione.
Effetto della funzionalizzazione (e polarità dei gruppi funzionali) sullo
sforzo a rottura. Per la valutazione dell’influenza dell’aggiunta di gruppi
funzionali sulla superficie dei CNT, sono stati presi in considerazione solo i CNT
prodotti dalla Heji, poiché omogenei nelle dimensioni, in modo da eliminare il
contributo del fattore dimensionale. In particolare l’analisi è stata svolta su:
MWNT prodotti dalla Heji non funzionalizzati;
MWNT della Heji, funzionalizzati mediante l’aggiunta di gruppi
ossidrilici (circa 5% in peso);
MWNT della Heji, funzionalizzati con gruppi carbossilici (circa
5% in peso).
L’analisi può essere fatta a partire da un diretto confronto della variazione
dello sforzo a rottura tra i tre tipi di CNT, all’aumentare della loro frazione
ponderale nella matrice epossidica: nella pagina seguente sono riportati i tre
diversi andamenti.
155
In questo caso la funzionalizzazione superficiale dei CNT apporta un
incremento del σR per entrambi i tipi (COOH ed OH), rispetto all’utilizzo dei soli
CNT non trattati, soltanto per le percentuali dello 0,1% e dello 0,5%. All’1% in
peso la funzionalizzazione con gruppi ossidrilici non sembra avere effetto, mentre
l’attaccamento dei gruppi COOH ai CNT comporta un lieve incremento dello
sforzo a rottura. Il valore medio più alto si riscontra comunque con l’aggiunta
dello 0,5% in peso di CNT con gruppi funzionali OH.
La spiegazione di un tale comportamento può essere data ancora una volta
ipotizzando l’esistenza di una “regione di soglia” a ridosso della quale, per
meccanismi contrastanti, l’omogeneità di dispersione raggiunge un minimo (Fig.
7).
62.76
69.13
62.3059.09
58.64
67.06
54.02
49.00
63.45
45.00
50.00
55.00
60.00
65.00
70.00
75.00
0.0% 0.2% 0.4% 0.6% 0.8% 1.0% 1.2%
Sfo
rzo
a r
ottu
ra (M
Pa)
% in peso di CNT
Effetto della funzionalizzazione su σR
MWNT OH
MWNT COOH
MWNT non funz
156
Inoltre il maggior incremento dell’effetto di rinforzo dei gruppi OH
rispetto ai COOH (con polarità maggiore) nelle percentuali in peso dello 0,1% e
0,5%, può essere spiegata dall’eccessiva adesione di questi ultimi alla matrice,
unitamente alle difficoltà di dispersione accennate. In particolare, come già detto,
l’effetto di rinforzo risulta molto elevato allo 0,5% in peso di CNT con gruppi
OH, con un incremento del 22,04% rispetto alla resina non caricata e addirittura
del 41% rispetto agli stessi MWNT non funzionalizzati. All’1% in peso la
tendenza si inverte decisamente, verosimilmente a causa dell’esistenza di
un’analoga regione di soglia per i MWNT OH, ma spostata a percentuali più alte.
Fig. 7. Micrografia acquisita con FE-SEM sulla superficie di frattura di un campione rotto a
trazione, contenente lo 0,5% in peso di CNT funzionalizzati con COOH (8.460x). Ancora
una volta saltano all’occhio le eterogeneità in fase di dispersione nella resina, evidenziate
da zone totalmente prive di CNT ed altre (segnalate dalle frecce) in cui sono presenti
agglomerati.
157
Una possibile ipotesi è che al crescere della % di CNT, da un lato la dispersione
risulti sempre più difficoltosa e dall’altro che ci sia un contemporaneo aumento
della superficie di contatto con la matrice, fenomeno che gioca a favore
dell’effetto di rinforzo.
Passiamo adesso alla valutazione dell’influenza dei parametri appena visti,
sul modulo di Young.
Effetto del diametro medio su E. L’influenza del diametro medio dei CNT
(e della conseguente estensione dell’interfaccia CNT-matrice) sul modulo elastico
è stata valutata relativamente ai tre tipi di CNT, già visti per lo sforzo a rottura.
Nel diagramma seguente sono riportati gli andamenti del modulo con le %
aggiunte alla resina per i tre tipi di CNT.
2.62
2.78
2.72
2.87
2.73
2.81
2.48
2.83
2.91
2.45
2.5
2.55
2.6
2.65
2.7
2.75
2.8
2.85
2.9
2.95
0 0.002 0.004 0.006 0.008 0.01 0.012
E (GPa
)
% in peso di CNT
Influenza del diametro medio su E
MWNT Aldrich
SWNT ALdrich
MWNT Heji
158
Il diagramma mostra che, a basse frazioni ponderali, i SWNT comportano
la maggiore rigidità. Seguendo la ben nota regola delle miscele (Cap . 1.1) ci si
sarebbe aspettati un modulo maggiore per i campioni contenenti CNT a pareti
multiple, data la loro comprovata rigidità già riportata in letteratura. In realtà però,
a basse percentuali in peso, sembra prevalere la maggiore estensione
dell’interfaccia dei SWNT con la matrice, grazie all’elevatissimo aspect ratio di
questi CNT (che può raggiungere valori di 100.000, tre ordini di grandezza più
alto del corrispettivo valore, pari a 100, per i MWNT della Aldrich).
All’aumentare della percentuale di CNT aggiunti le tendenze si invertono, fino a
vedere, all’1% in peso, il prevalere della rigidità impartita dai MWNT della Heji
con diametri intermedi tra i due della Aldrich. Ciò indica che, a percentuali più
elevate, prevale la rigidità dei singoli tipi di CNT sull’effetto impartito
dall’estensione della zona interfacciale.
Effetto della funzionalizzazione dei CNT sul modulo elastico. Per la
valutazione di quest’ultimo parametro il confronto è stato effettuato sulle stesse
famiglie di CNT, viste per lo sforzo a rottura. Di seguito (pagina seguente) sono
riportati i rispettivi andamenti del modulo di Young all’aumentare delle quantità
di CNT aggiunti alla matrice epossidica. Per percentuali aggiunte dello 0,1% in
peso, l’effetto della funzionalizzazione risulta molto marcato, tanto da portare ad
aumenti di rigidità (rispetto alla resina caricata con CNT non trattati) del 14,51% e
del 13,3%, relativi rispettivamente ai MWNT con gruppi COOH e a quelli con
gruppi OH. Allo 0,5% in peso la tendenza sembra invertirsi nettamente e sono i
MWNT non funzionalizzati a dare i risultati migliori. Alle maggiori percentuali la
differenza tra i MW funzionalizzati con COOH e i non funzionalizzati, rientra
nella incertezze sperimentali, mentre rimane ancora netta la differenza dei MW
con OH rispetto agli altri. La spiegazione di ciò può essere ricercata, come
osservato in relazione al carico di rottura, nel raggiungimento del valore di soglia
per la concentrazione dei MW con gruppi ossidrilici.
159
2.81
2.58 2.56
2.84
2.55
2.83
2.48
2.83
2.91
2.45
2.50
2.55
2.60
2.65
2.70
2.75
2.80
2.85
2.90
2.95
0.0% 0.2% 0.4% 0.6% 0.8% 1.0% 1.2%
Mod
ulo
di You
ng
% in peso di CNT
Effetto della funzionalizzazione sul modulo di Young
MWNT OH
MWNT COOH
MWNT non funz
160
2.4.3-Prove di resilienza
La resilienza è definita come la parte dell’energia a rottura del campione,
che viene assorbita in campo elastico sotto l’azione di una sollecitazione
impulsiva. Essa corrisponde quindi grossomodo all’area sottesa dal primo tratto
(quello elastico) di una curva di carico. In realtà essa viene determinata mediante
prove di impatto utilizzando magli con pesi differenti a seconda del materiale in
prova.
Per i test di impatto ci si è riferiti alla prova Charpy, utilizzando provini
con un intaglio a V in posizione centrale, profondo 2 mm. La macchina utilizzata
è una CEAST, con maglio da circa 0,5 kg (Fig. ).
Fig. 8. La macchina CEAST utilizzata per le prove d’impatto con provini di tipo Charpy.
161
La norma di riferimento è la ASTM E 23. La prova di tipo Charpy prevede
che il provino sia ancorato alle estremità e che il maglio a pendolo, munito di
coltello con bordi smussati, colpisca il provino nel centro, dal lato opposto rispetto
a quello su cui è praticato l’intaglio.
Per le prove di resilienza sono stati preparati soltanto campioni contenenti
lo 0,1 e lo 0,5% di CNT: questo a causa del “peso elevato” dei campioni utilizzati,
che avrebbe richiesto (anche solo con l’1% in peso) l’utilizzo di una quantità di
CNT troppo elevata rispetto alle disponibilità. I CNT utilizzati in questo caso sono
stati solo quelli commerciali (oltre alla grafite, utilizzata come controllo) per il
motivo suddetto, e precisamente:
SWNT prodotti dalla Heji Company;
MWNT prodotti dalla Heji Company;
MWNT funzionalizzati con COOH prodotti dalla Heji Company.
Per ogni tipo di formulazione sono stati testati dai 4 ai 6 provini dello
stesso tipo. Poiché la macchina per le prove d’impatto forniva i risultati in kgf*cm
è stato necessario convertire il lavoro di frattura in kJ/m2, riferendosi alla reale
sezione resistente. Nella seguente tabella sono riportati i risultati delle prove
effettuate, ciascuna con il rispettivo numero di provini sottoposti al test.
Composizione
Media misure
(kJ/m2) Dev. Standard Semidispersione N° provini
Epon+20%A1 1.39 0.26 0.30 5 MWNT COOH
0.1% 1.89 0.16 0.18 4 MWNT Heji
0.1% 2.32 1.22 1.58 6 SWNT Heji
0.1% 1.98 0.53 0.50 5
Grafite 0.1% 1.88 0.99 1.09 5
COOH 0.5% 1.15 0.32 0.30 3 MWNT Heji
0.5% 1.44 0.01 0.01 3 SWNT Heji
0.5% 1.60 0.60 0.74 4
Grafite 0.5% 2.47 0.01 0.01 5
162
I due istogrammi seguenti riportano invece un confronto diretto tra i valori
medi delle misure e la variazione della resilienza (espressa in punti percentuali)
rispetto alla formulazione epossidica di partenza non caricata, per i vari filler:
Come si può notare dall’istogramma in basso, grosso modo tutti i tipi di
riempitivi utilizzati allo 0,1% in peso apportano un incremento dell’energia
0.00
0.50
1.00
1.50
2.00
2.50
1.391.89
2.321.98 1.88
1.151.44 1.60
2.47
Resilienz
a (kJ
/mq)
Tipo e % in peso di filler
Media misure (kJ/m2)
-20%
0%
20%
40%
60%
80%
MWNT
COOH
0.1%
MWNT
Heji
0.1%
SWNT
Heji
0.1%
Grafite
0.1%
COOH
0.5%
MWNT
Heji
0.5%
SWNT
Heji
0.5%
Grafite
0.5%
35.76%
66.79%
41.85%34.86%
-17.70% 3.63%15.11%
77.44%
Variazione
%
Tipo e % in peso di filler
Variazione % di resilienza rispetto alla resina non
caricata
163
assorbita nella prova d’impatto. Gli incrementi registrati vanno dal 34,86% con lo
0,1% in peso di grafite al 66,79%, relativo, com’era da prevedersi, allo 0,1% di
MWNT funzionalizzati con gruppi carbossilici. Più complessa risulta l’analisi del
comportamento riguardante le formulazioni contenenti lo 0,5% in peso di filler: in
questo caso è la polvere grafitica a mostrare l’incremento maggiore, mentre la
miscela contenente lo 0,5% in peso di MWNT funzionalizzati con gruppi COOH,
porta addirittura a un peggioramento del 17,7% dell’energia assorbita
nell’impatto, rispetto alla formulazione di partenza non caricata. Questo
comportamento può essere giustificato attraverso due osservazioni:
Come già citato per i provini rotti a trazione, bisogna tener conto della
differente dispersione dei CNT e della grafite nella resina utilizzata; questa
differenza risulta evidente nelle micrografie al SEM delle superfici di frattura,
riportate in Fig. 9: la tendenza dei CNT, rispetto alla grafite, ad agglomerarsi
risulta evidente;
D’altro canto è bene considerare che, se da un lato la funzionalizzazione
dei CNT porta ad un incremento dell’energia di adesione di questi ultimi con la
matrice, dall’altro un’adesione troppo elevata può essere deleteria per il corretto
trasferimento degli sforzi di taglio dalla matrice al rinforzo (la frazione dello 0,5%
sembra essere a ridosso della zona di soglia già evidenziata nel paragrafo
precedente).
La dispersione dei CNT nella resina è limitata da diversi fattori, come ad
esempio il drastico aumento che si osserva nella viscosità e la riduzione del pot
life, dovuto all’amplificazione dell’effetto esotermico del cross-linking, causato
dalla grande conducibilità termica dei CNT. Tutti questi fattori concorrono nel
giustificare la riduzione della resilienza, per tutti i campioni contenenti le %
maggiori di CNT, per i quali la lavorabilità è risultata molto difficile.
164
(a) (b)
(c) (d)
Fig. 9. (a) Micrografia SEM (330x) sulla superficie di frattura di un provino Charpy, rotto
durante le prove d’impatto, contenente lo 0,5% in peso di MWNT: si può notare il cattivo grado di
dispersione dei CNT e la presenza di un agglomerato di circa 50x80µm; (b) dettaglio a 3300x
dell’agglomerato mostrato in (a), in cui sono chiaramente distinguibili i CNT; (c) superficie di
frattura di un provino contenente lo 0,5% in peso di grafite micrometrica a basso ingrandimento
(63x) in cui è visibile la zona d’innesco della frattura (in alto a sx) a ridosso della zona intagliata
(più chiara in alto nella foto); (d) particolare a 360x del campione contenente grafite in cui è
apprezzabile la dispersione omogenea delle particelle di grafite.
165
L’elevata adesione dei MWNT funzionalizzati con la resina è risentita
particolarmente allo 0,5% in peso di carica: in questo caso l’adesione è talmente
alta da non permettere lo scorrimento delle macromolecole di polimero in
condizioni di carico impulsivo. Ne risulta che gran parte dei CNT si fratturano in
corrispondenza della superficie di frattura, piuttosto che contribuire all’incremento
dell’energia a rottura, attraverso meccanismi quali il debonding ed il pull-out.
Questa ipotesi è suffragata dalle analisi al SEM che hanno permesso di rilevare
questi meccanismi, per i campioni contenenti gli stessi CNT non funzionalizzati,
mentre non è stato addirittura possibile osservare i MWNT con gruppi carbossilici
(Fig. 10), segnale della netta frattura senza alcuno sfilamento.
Fig. 10. Micrografia SEM a 20000x di un campione contenente lo 0,5% di
MWNT non funzionalizzati. La bontà del meccanismo di dispersione
dell’energia di frattura è dimostrato dalla presenza di fenomeni quali lo sfilamento di alcuni tubi e lo scollamento di altri dalla matrice.
166
2.4.4-Prove di durezza
Le prove di durezza sono state effettuate utilizzando un durometro Shore
D, il quale permette la valutazione di questa proprietà attraverso la misura della
profondità di penetrazione di un indentatore costituito da un cono di acciaio con
angolo al vertice di circa 30° (Fig.11). La norma di riferimento è la UNI EN ISO
868
Per la rilevazione della durezza sono stati utilizzati gli stessi provini usati
nelle prove di resistenza all’impatto: la preparazione supplementare è consistita
semplicemente nel sincerarsi della planarità della superfici da sottoporre a
indentazione e di quelle di appoggio. Per tutti i campioni lo spessore era di 10mm.
Fig. 9. Durometro Shore D utilizzato per le prove di durezza dei nanocompositi.
167
Per ogni tipo di formulazione sottoposta alla prova di durezza, sono stati
testati dai 4 ai 6 provini diversi, effettuando 3 misurazioni (in altrettanti punti
sulla superficie del campione) per ognuno di essi. I risultati sono riassunti nella
tabella seguente, nella quale vengono anche indicate la deviazione standard e la
semidispersione delle misure effettuate.
Dall’analisi dei risultati mostrati emerge, come era prevedibile, che tutti i
filler utilizzati aumentano la resistenza all’indentazione della formulazione
epossidica di base, nonostante gli incrementi siano modesti. In tal caso,
diversamente da quello analizzato nel paragrafo precedente, l’elevata adesione tra
CNT funzionalizzati e matrice, non inficia la durezza, che invece sembra
beneficiare del maggior consolidamento superficiale. Gli istogrammi alla pagina
seguente mostrano un confronto diretto tra i valori medi ottenuti per le diverse
miscele, insieme alle variazioni percentuali di tali valori rispetto al valore medio
della durezza per la matrice priva di filler.
Composizione Media misure Semidisperisione
Deviaz.
Standard N° Provini
Epon+20%A1 82.69 2.42 1.71 6
MWNT
COOH 0.1% 85.14 0.42 0.31 6
MWNT Heji
0.1% 85.39 1.08 0.70 6
Grafite 0.1% 84.58 1.67 1.18 6
SWNT Heji
0.1% 84.53 0.92 0.84 6
SWNT Heji
0.5% 84.71 0.42 0.34 4
COOH 0.5% 85.70 0.67 0.55 5
Grafite 0.5% 85.14 0.50 0.36 6
MWNT Heji
0.5% 84.33 2.33 2.24 4
168
8181.5
8282.5
8383.5
8484.5
8585.5
86
82.69 85.14 85.39 84.58 84.53 84.71 85.70 85.14 84.33Dur
ezz
a
Tipo e % in peso di filler
Durezza Shore D
2.96% 3.27%2.29% 2.23% 2.45%
3.64%2.97%
1.99%
0.0%
0.5%
1.0%
1.5%
2.0%
2.5%
3.0%
3.5%
4.0%
MWNT
COOH
0.1%
MWNT
Heji 0.1%
Grafite
0.1%
SWNT
Heji 0.1%
SWNT
Heji 0.5%
COOH
0.5%
Grafite
0.5%
MWNT
Heji 0.5%
Variazion
e %
Tipo e % in peso di filler
Variazione % di durezza rispetto a resina
non caricata
Capitolo 3
Conclusioni
e
prospettive future
169
Conclusioni
Lo scopo di questa tesi era la valutazione dell’integrità meccanica di
nanocompositi a matrice epossidica caricati con nanotubi di carbonio, da applicare
come rivestimento di circuiti per impieghi (EMI Shielding) in ambiente
aerospaziale.
Per quanto concerne le variazioni di resistenza meccanica e rigidità, si
sono riscontrate differenze relative ai diversi CNt utilizzati:
1. CNT non funzionalizzati: tra tutti i tipi sperimentati, i migliori sono
risultati essere i MWNT prodotti dalla Sigma-Aldrich, per i quali si
è riscontrato un deciso incremento del valore della resistenza a
trazione al crescere della percentuale aggiunta; altrettanto si può
dire per il modulo elastico, il quale tuttavia presenta il valore
massimo quando aggiunto allo 0,5% nella matrice epossidica. I
MWNT prodotti dalla Heji Company, con diametro intermedio tra i
due tipi della Sigma-Aldrich analizzati, presentano un valore di
ragionevole incremento all’1% in peso, mentre in quantità inferiori,
determinano un indebolimento della resina, anche se, per il modulo
elastico, si ha un buon incremento.
2. MWNT funzionalizzati (prodotti dalla Heji): Rispetto alla resina
non caricata, l’inserimento di CNT funzionalizzati comporta un
incremento sia della resistenza meccanica che della rigidità; la
funzionalizzazione con gruppi OH però, fornisce un valore
massimo di σR con l’aggiunta dello 0,5% in peso, mostrando tutta
via buoni incrementi dello sforzo a rottura anche per le altre
percentuali; l’aumento del modulo di Young allo 0,1% in peso,
risulta invece sensibilmente migliore che per le altre frazioni in
peso; per quanto riguarda la funzionalizzazione con gruppi
carbossilici, la migliore combinazione di sforzo a rottura e modulo
elastico si ottiene per una percentuale in peso dell’1%, nonostante
170
il nano composito presenti un ottima rigidità anche con lo 0,1%: in
genere comunque, per quest’ultimo tipo di filler, quantitativi
inferiori all’1%, non forniscono risultati particolarmente affidabili.
3. CNT sintetizzati nei LNF: Per questo tipo di CNT non si hanno
ancora risultati definitivi; tuttavia l’aggiunta di solo lo 0,1% in
peso alla matrice epossidica, ne determina un forte incremento
nella resistenza a trazione (+34,77%); dai primi test effettuati, lo
stesso andamento sembra potersi estendere al modulo elastico.
Questo risultato sembra indicare che il trattamento di sintesi con la
tecnica della scarica ad arco fornisca risultati migliori rispetto alla
crescita dei nanotubi, tramite CVD: tale miglioramento è
ascrivibile alla minore densità di difetti topologici dei CNT
prodotti al plasma, rispetto a quelli cresciuti per deposizione
chimica; come riportato da alcuni autori [63] la loro minore
tendenza ad intricarsi, potrebbe migliorarne la dispersione. Altro
punta loro favore è il miglioramento (con solo lo 0,1% di aggiunta
alla resina), rispetto all’aggiunta dello 0,5% di MWNT
funzionalizzati con gruppi OH (secondo miglior risultato): questo
comportamento è ancora spiegabile con la minor difettosità dei
CNT di sintesi rispetto ai funzionalizzati; questi ultimi infatti, per
raggiungere un alto grado di purezza e, ai fini dell’attaccamento dei
gruppi funzionali, hanno subito diversi trattamenti chimici, che
hanno sicuramente introdotto difetti.
In conclusione, per quanto concerne le caratteristiche meccaniche, i
migliori risultati possono essere ottenuti con nanotubi prodotti mediante la tecnica
della scarica ad arco.
Il primo stadio della ricerca, volta all’identificazione del tenore e del tipo
di nanotubi da inserire nella resina epossidica senza comprometterne le
caratteristiche meccaniche, si può considerare concluso; rimane, naturalmente, da
171
sperimentare l’efficacia della capacità di schermatura alle EMI (Electro Magnetic
Interference), di un film di resina e CNT di sintesi.
E’ tuttavia da prendere in considerazione il fatto che, a fronte del miglior
comportamento i “nostri CNT” presentano un inconveniente: la tecnica utilizzata
consente di ottenerne solo piccoli quantitativi, per cui un successivo stadio della
ricerca dovrà riguardare l’ottimizzazione del processo di sintesi.
Prospettive future
Preso atto dei problemi rilevati nella sintesi dei nanocompositi, la ricerca
futura dovrà essere volta alla soluzione dei seguenti punti:
Ottimizzazione del processo di dispersione, che si è mostrato molto
difficoltoso, soprattutto ai maggiori tenori di CNT aggiunti: oltre
alla sonicazione ed in dipendenza dalla viscosità della resina
utilizzata, dovrà prevedersi uno stadio di miscelazione ad alta
velocità ed alti sforzi di taglio, che è sembrata dare buoni risultati
in esperimenti riportati in letteratura;
Miglioramento della fase di degassaggio della resina, in modo da
minimizzare l’inclusione di vuoti d’aria;
Minimizzazione delle fasi “manuali” del procedimento di
realizzazione dei nanocompositi, in modo da incrementare la
riproducibilità del processo e limitare le incertezze correlate al
“fattore umano”.
Bibliografia
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Ringraziamenti
La realizzazione di questo lavoro è stata lunga e non priva di ostacoli ma è
soprattutto grazie al costante sostegno di coloro che hanno creduto in me, nella
mia passione e caparbietà se questa tesi oggi è qui. Nell’impossibilità di
menzionare tutti coloro che hanno contribuito al raggiungimento di questo
obiettivo, (stimolandomi nella ricerca, consigliandomi nei metodi e soprattutto
sostenendomi moralmente nei momenti difficili) sento di dover dire Grazie…
Grazie a tutti voi.
In particolare ringrazio:
Il Prof. Gilberto Rinaldi, per avermi guidato e consigliato nel superamento dei
numerosi ostacoli di natura pratica.
Il Dott. Stefano Bellucci, per avermi dato la possibilità di vivere questa bellissima
esperienza nel mondo della ricerca e per aver fatto il possibile (e a volte anche
l’impossibile) per supportarmi con la strumentazione necessaria.
Al Signor Livio Bettinali Persona di incommensurabile esperienza e perizia
tecnica, per avermi gentilmente instradato alla soluzione di diversi problemi di
natura tecnica e per avermi iniziato all’Arte dell’estensimetria.
Al Prof. Giancarlo De Casa, vero Deus ex Machina delle prove di trazione, per
avermi assistito ed essersi ingegnato nella soluzione di situazioni fortemente
critiche.
La mia amata Folletta, per avermi sopportato e supportato in tutti i modi possibili
in questo lunghissimo anno. A lei devo anche la realizzazione del progetto a colori
della camera di sintesi, nonché la revisione grammaticale ed artistica di questa
tesi. Devo inoltre ringraziarla per i continui stimoli, che non sono mai venuti
meno, nenche nei momenti più difficili. Grazie di cuore!!!
Al Dott. Francesco Celani ed al suo tecnico Vincenzo per avermi supportato nelle
lavorazioni meccaniche dei provini per trazione e per i buoni consigli dati.
Ad Antonio Grilli (tecnico INFN), per le interminabili ore passate a girovagare al
SEM e per i preziosi consigli.
Al personale dell’officina: Giovanni Bisogni, Mauro e Alessandro, per la
realizzazione dei primi stampi.
Al Sig. Alvaro Ceccarelli (Lab. Metrologlia INFN): per i primi test di trazione
A Monks, per essermi stato vicino in tutti questi anni di autentica amicizia ed
avermi spronato nei momenti più bui, riuscendo a strapparmi sempre e comunque
un sorriso.
Al Dott. Balasubramanian, per le lunghe e costruttive discussioni in materia di
CNT e per il supporto morale da grande amico.
Ai colleghi del laboratorio: Alessandra, Roberto, Federico, Imma e Andrey, per
aver reso piacevole e costruttiva la mia esperienza all’INFN, dimostrandomi
sempre gentilezza e disponibilità e per non essersi mai tirati indietro quando è
stato necessario.
Al Dott. Simone Bini, per l’aiuto di carattere tecnico e soprattutto per la
metallizzazione dei provini.
Al Dott. Benjamin Robouch per le sue perle di saggezza e per avermi fatto
conoscere il prezioso Bettinali.
Gerundio per avermi dimostrato di non essere solo in questa valle di lacrime!!!
Pollo, per avermi aiutato nella preparazione degli ultimi esami.
I miei zii: zio Antonio, zia Titti, zio Luciano, zia Annamaria ed i cuginetti, per
avermi ospitato nei primi anni di questo lungo viaggio e per non aver mai cessato
di credere in me.
A Nina, per il prezioso supporto negli ultimi esami e per avermi aiutato nella
revisione del primo capitolo.
Alle mie sorelle: Gabriella, Barbara e Simona, per essermi sempre state vicine
nonostante le oggettive distanze geografiche e per aver capito la mia sbadataggine
degli ultimi tempi.
Ai miei AMICI: Don’Z, Donna W, Aleska, per i bei momenti passati insieme.
…ed infine ai miei genitori, i veri “sponsor” di tutto questo lavoro! Nonostante
tutti i piccoli intoppi di questo lungo percorso, mi hanno sempre spronato e
sostenuto con piccoli e grandi sacrifici. Grazie di cuore!