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§ PARAGRAFO RIVISTA DI LETTERATURA & IMMAGINARI
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Vol. Paragrafo 1 - dinamico2.unibg.itdinamico2.unibg.it/paragrafo/docs/arts/Paragrafo 01_06_Solinas.pdf · Questo numero è stato stampato con il contributo del Dipartimento di Lettere,

Feb 18, 2019

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§PARAGRAFORIVISTA DI LETTERATURA & IMMAGINARI

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ParagrafoRivista di Letteratura & Immaginari

pubblicazione semestrale

Redazione

FABIO CLETO ([email protected]), DANIELE GIGLIOLI ([email protected]),MERCEDES GONZÁLEZ DE SANDE ([email protected]),

FRANCESCO LO MONACO ([email protected]),STEFANO ROSSO ([email protected]), AMELIA VALTOLINA ([email protected])

Ufficio 211Università degli Studi di Bergamo

P.za Rosate 2, 24129 Bergamotel: +39-035-2052744 / 2052706

email: [email protected]: www.unibg.it/paragrafo

La responsabilità delle opinioni e dei giudizi espresso negli articoliè dei singoli collaboratori e non impegna la Redazione

Questo numero è stato stampato con il contributo delDipartimento di Lettere, Arti e Multimedialità dell’Università di Bergamo

© Università degli Studi di BergamoISBN 88-87445-88-5

Edizioni Sestante / Bergamo University PressVia dell’Agro 10, 24124 Bergamo

tel. 035-4124204 - fax 035-4124206email: [email protected] - web: www.sestanteedizioni.it

Stampato da Stamperia Stefanoni - Bergamo

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PRESENTAZIONE 5

FORME

§1. STEFANIA CONSONNI, Disegni e realtà. Le finzioni di Don DeLillo

§2. LUCA BERTA, Il neon di David Foster Wallace e il punto di vistadell’aldilà

§3. LAURA OREGGIONI, La punta dell’iceberg. Sten Nadolny e il sensodella possibilità

GENERI

§4. NICCOLÒ SCAFFAI, Altri canzonieri. Sulle antologie della poesiaitaliana (1903-2005)

§5. GABRIELE BUGADA, Lo specchio del sogno. Lo statuto della rappre-sentazione in Mulholland Drive di David Lynch

§6. GIOVANNI SOLINAS, Il mito senza fine. Poetica dell’immagine econcezione mitica in André Breton - Una proposta d’analisi

TEMI

§7. ANDREA GIARDINA, Il viaggio interrotto. Il tema del cane fedelenella letteratura italiana del Novecento

§8. MICHELA GARDINI, Derive urbane fin de siècle

§9. GRETA PERLETTI, Dal mal sottile al mal gentile. La malattiapolmonare e il morboso ‘interessante’ nella cultura dell’Ottocento

I COLLABORATORI DI QUESTO NUMERO 199

ParagrafoI (2006)

Sommario

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Nella riflessione del surrealismo storico convivono paradossalmente l’esal-tazione per l’universo mitico ed una visione del linguaggio basata sul riget-to delle forme codificate. La pratica della scrittura automatica, ed ancorpiù il procedimento di costruzione dell’immagine poetica (nell’accezioneche il Manifesto riprende dalla formula originaria di Reverdy),1 corrispon-dono al tentativo di obliterare lo stesso ordine concettuale della conserva-zione, garante della riutilizzabilità infinita di una riserva di identità e di si-gnificati fissati. Il surrealismo – lo si sa – aspira all’assurdo logico di unalingua che non è codice, ed in cui tutto si dà come per la prima volta. Inche modo un simile orientamento può essere compatibile con il funziona-mento di quel linguaggio mitico che è invece, teoricamente, figlio dellaconservazione? Un linguaggio che prevede la cristallizzazione dei suoi con-tenuti in forme prototipiche, in motivi e schemi che, per quanto sottopo-sti a variazioni costanti, fanno della riconoscibilità il proprio carattere spe-cifico, tanto da costituirsi come luoghi di una memoria condivisa.

In realtà credo che un’analisi approfondita dei termini di questo para-dosso possa portare, in parte, a chiarire i motivi per cui essi non vengonoconcepiti come incompossibili dal pensiero surrealista. Ciò che queste pa-gine dovranno proporsi di fare sarà dunque mettere in evidenza come(per quanto negli effetti la contraddittorietà tra i due ambiti non possaessere abolita) le motivazioni che portano il surrealismo a coltivarli en-

1 Notissima la definizione di Reverdy: “L’immagine è una creazione pura dello spirito.Non può nascere da un paragone, ma dall’accostamento di due realtà più o meno distanti.Più i rapporti delle due realtà accostate saranno lontani e giusti, più l’immagine sarà forte”.Pierre Reverdy in Nord-Sud, marzo 1918, cit. in André Breton, Manifeste du surréalisme(1924), trad. it. di Guido Neri, Manifesti del Surrealismo, Torino: Einaudi, 1987, p. 26.

§6

Giovanni Solinas

Il mito senza finePoetica dell’immagine e concezione mitica in André Breton

Una proposta d’analisi

PARAGRAFO I (2006), pp. 123-41

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trambi siano da ascrivere ad un medesimo orizzonte teorico. Si prenderàin considerazione in particolare la riflessione di André Breton, sia quella– di area linguistica – relativa alla questione dell’‘immagine’ surrealista,sia quella che interessa, invece, il tema del mito; ciò nel tentativo di mo-strare come la logica che presiede alla visione bretoniana della sfera miti-ca, considerata nella sua natura di complesso di forme simboliche che in-teragiscono con la mentalità collettiva, sia apparentabile a quell’attitudinevitalistica che anima la sua concezione del linguaggio poetico.

Il senso sospeso

Per mettere in chiaro da subito l’angolo di approdo che si intende assume-re nell’avvicinare la complessa questione dell’immagine surrealista, potràessere fruttuoso ricorrere ad una sorta di gioco di sponde tutto interno almacrotesto di Breton. Si può partire, cioè, dalle pagine di Nadja in cui ilpoeta introduce la nozione di signal.2 Il signal è l’avvenimento casuale, for-tuito, che si pone di fronte al soggetto con una profonda forza di solleci-tazione. Un evento che chiama dall’esterno, e che si fa portatore – per chilo sa recepire e si dispone a farlo – di un significato rivelativo. Manifesta-zioni di questo particolare fenomeno sono i deliri onirici di Desnos, capa-ce di far sgorgare dallo stato di semiveglia cui si abbandonava immaginied analogie sorprendenti per precisione e potenza invocativa,3 o (per citareun altro celebre caso) la permanenza insistente, nella memoria visiva delBreton flâneur, della scritta di un’insegna parigina (il famoso Bois-Char-bons ricordato in Nadja).4 Il signal verbale, apparentemente insensato, deltutto autoreferenziale, racchiude il potere di indurre, o quantomeno diannunciare degli eventi rivelatori. Alla sua apparizione, come di fronte aduna formula magica, si attende la risposta di un accadimento.

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2 André Breton, Nadja (1928), Paris: Gallimard, 1964, p. 21. Dove non altrimenti in-dicato, la traduzione è mia.

3 Sostiene l’autore che chi non abbia assistito di persona a questo impressionante fiottodi “sbalorditive equazioni poetiche” (ivi, p. 35) non avrà mai la possibilità di comprenderequale fosse l’impatto di quelle parole nuove, in che cosa consistesse “il valore assoluto dioracolo” (ibidem) assunto dal linguaggio in quell’occasione.

4 Racconta Breton: “Le parole Bois-Charbons, che si dispiegano nell’ultima pagina diChamps Magnetiques, mi hanno consentito, per un’intera domenica durante la quale hopasseggiato con Soupault, di poter esercitare uno strano talento di prospezione nei con-fronti di tutti i negozi che esse servono ad indicare. Ho l’impressione che potessi dire aquale altezza sulla destra, sulla sinistra questi negozi sarebbero apparsi nelle strade che im-boccavamo” (ivi, p. 29).

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Ora, se si considera la particolare natura dei signals tralasciando l’a-spetto più propriamente letterale del loro potere oracolare, e concentran-dosi sulla dimensione della sospensione implicita nell’idea dell’annuncio,dell’anticipazione-induzione che essi sono detti attuare, si riesce ad otte-nere un modello descrittivo direttamente applicabile all’immagine. Cosìcome il potere pragmatico del signal, la natura linguistica dell’immaginesurrealista, è anch’essa dotata, infatti, di una natura liminale, sospesa.L’immagine si colloca in una sorta di terra di nessuno, al di là dell’ordina-rietà denotativa del linguaggio, ma allo stesso tempo distante dal poteresemantico di secondo grado della metafora, il tropo che più le si avvicina.

Vediamo di spiegare. Le svariate proposte d’interpretazione del mecca-nismo metaforico, al di là dell’eterogeneità teorica delle loro prospettive,sono comunque accomunate dal considerare il processo di generazione disenso della figura come un’azione scandita su due tempi successivi: adun’impennata iniziale, con cui il discorso sembra smarcarsi improvvisa-mente da ogni regola di coerenza, segue il momento interpretativo, checonsente al lettore di decifrare l’immagine. Dunque tensione e rilascio,rottura traumatica della coerenza semantica, corrispondente all’esplosionedell’immagine, e momento interpretativo immediatamente susseguente,che riporta lo scarto entro l’alveo del senso; un senso, naturalmente, piùo meno complesso, più o meno rivelatore nel suo apporto cognitivo, mala cui apparizione assume comunque una valenza propositiva, capace disubordinare a sé il gesto della negazione iniziale.

Ora, lo spazio di sospensione entro cui si colloca l’immagine surrealistasembra coincidere esattamente con lo iato che separa questi due momenti.A detta di gran parte dei teorici che hanno commentato il problema, in-fatti, l’immagine, nonostante sia esteriormente identica, nella struttura, alnesso metaforico, non può essere ricondotta all’ambito della figuralità;5 la

IL MITO SENZA FINE / 125

5 Per questa prospettiva si può vedere, ad esempio, Groupe m, Rhétorique de la poésie(1977), trad. it. di Alfredo Luzi, Retorica della poesia, Milano: Mursia, 1985, p. 185. Inte-ressanti anche: Monroe Beardsley, “La metafora come tensione categoriale”, in MarianoCristaldi (a cura di), La metafora e lo stato. Saggi di retorica e politica, Cassino: Garigliano,1979, p. 194; Lucio Gabellone, L’oggetto surrealista, Torino, Einaudi, 1977, p. 27. La po-sizione più estrema, in questo senso, è però quella che si trova in Michel Riffaterre, Laproduction du texte (1979), trad. it. di Giorgio Zanetti, La produzione del testo, Bologna: IlMulino, 1989, p. 296. Un caso opposto è rappresentato dalla visione di Lotman, che in-vece considera gli accostamenti fra realtà apparentemente incomunicabili introdotti dalleavanguardie, come esempi emblematici del funzionamento dei tropi, e del loro potere dirinnovamento linguistico-conoscitivo.

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distanza fra le realtà che essa collega è tale da non consentire alcuna inter-pretazione a posteriori capace di gettare la luce rigenerante del senso sulplesso verbale. Quest’ultimo, si potrebbe dunque concludere, attua la pri-ma delle due fasi analizzate, gettandosi con un deciso gesto di rottura fuoridallo spazio cartografato della cogenza semantica, ma non accede al secon-do momento, e resta imprigionato nella regione interlocutoria dello statotensionale con cui si identifica l’evento del suo darsi.

In un saggio del 1978, Michel Deguy fa precedere l’analisi della poe-sia di Breton Sphynx Vertebral dal confronto con le pagine di Signe ascen-dant, uno degli scritti teorici in cui lo stesso Breton si è soffermato sulproblema dell’analogia all’interno dell’immagine e sulle questioni riguar-danti la sua definibilità e la sua funzione espressiva ed estetica. Il testo diBreton, ed ancor più il filtro interpretativo attraverso cui Deguy fa scorre-re i suoi argomenti, risulta – mi sembra – illuminante per l’ottica che quicerco di sviluppare. Breton sembra voler rielaborare la sua originaria defi-nizione di ‘immagine’, fornendo certe chiarificazioni, ma soprattutto in-troducendo alcuni nuovi, significativi concetti: “L’immagine analogica[…] si muove, tra le due realtà in presenza, in un senso determinato chenon è in alcun modo reversibile. Dalla prima di queste due realtà alla se-conda, essa segna una tensione vitale rivolta il più possibile verso la salu-te, il piacere, la quiete, la grazia resa, gli usi consentiti”.6

Ad un primo livello di lettura l’enunciato può essere inteso comeun’indicazione di ordine espressivo. Per innescare la scintilla dell’immagi-ne non basta semplicemente accostare due termini qualunque, purchédrasticamente distanti. Il secondo termine è chiamato ad elevare il primo,a potenziarlo, si dovrebbe dire, esteticamente, a portarlo insomma versola luce.7 Il saggio di Deguy prospetta, però, un ulteriore piano interpreta-tivo. A questo livello il termine decisivo è quello di irreversibilità, l’irre-versibilità di un movimento di ascesa, dunque l’abbandono di una condi-zione originaria. Il passaggio dal primo al secondo dei termini presi nel-l’immagine segna una sorta di salto, di elevazione improvvisa rispetto alla

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6 André Breton, Signe ascendant (1947), in Id, Œuvres complètes, vol. 3, Paris: Galli-mard, 1992, p. 769. Alle Œuvres di Breton si rimanderà d’ora in poi nel testo con la siglaO, seguita dal numero di volume e di pagina.

7 A conclusione del saggio Breton riporta questo ‘apologo zen’: “Per bontà buddisticaBashô modificò un giorno, con ingegnosità, un haikaï crudele composto dal suo umoristicodiscepolo Kikakou. Avendo questi detto: ‘Una libellula rossa – strappatele le ali – un pe-peroncino’, Bashô vi sostituì: ‘Un peperoncino – mettetegli delle ali – una libellula rossa’”(O, 3, p. 769).

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quale non è possibile tornare indietro. Deguy considera la “tensioneascendente, siderante”8 che caratterizza il percorso univettoriale del rap-porto analogico fra le due realtà linguistiche, come una ‘risalita’, un re-monter. Ma qual è l’elemento che fa da resistenza al remonter del linguag-gio? ‘Contro cosa’ il linguaggio risale?

“In contro-pendenza, controcorrente… di che cosa? Se non di se stes-so?” (ibid.). Il linguaggio si dà svolgendosi contro se stesso. Ancora unavolta siamo nell’ambito dell’opposizione fra la ‘normalità’ del discorso de-notativo, letterale, e la capacità della lingua di infrangere quest’ordina-rietà per confondere il rapporto biunivoco fra parole e cose.

Secondo Deguy è unicamente attraverso questa dinamica di autocon-traddizione della parola che il logos può aspirare a palesarsi nella sua for-ma più autonoma, più pura. Il linguaggio nega la propria natura elemen-tarmente nominativa, cerca di inibire la propria vocazione indicale, la suatendenza ad aggrapparsi a dei sensi riconoscibili. Crea così una sorta dicorto circuito interno al proprio funzionamento, grazie al quale ciò che è‘al di sopra del visibile’, il logos, appunto, inteso come qualcosa di nonnominabile, di ‘indicible’, trova lo spazio attraverso cui mostrarsi. Dun-que: “Il dire assume il contraddirsi”, e “nell’intenzione che le interdice, le‘parole’, negate, possono dire ‘l’indicibile’ a dirsi” (ibid.).

Mi sembra che questa lettura, svincolata dal suo versante più marcata-mente idealista, dal riferimento ad un indefinibile pneuma al quale il ca-rattere autocontraddittorio del linguaggio sarebbe in grado di dare acces-so, metta in rilievo un dato molto importante. Deguy sembra suggerire,cioè, che il linguaggio dell’immagine trovi la sua qualità essenziale in unasorta di stato tensionale costante. Qual è il senso di quella ascensione si-derante di cui Deguy parla? Probabilmente è proprio la dinamica per cuiognuno dei due termini del plesso verbale fa decollare l’altro, lo strappadalle radici che lo tengono ancorato alla significazione, vale a dire al rife-rimento. Credo che la descrizione si applichi soprattutto alle immaginipiù astratte, meno legate ad un carattere allucinatamente visivo. Si pensisoltanto, per esempio, al titolo di uno dei componimenti di Revolver àcheveux blancs: “Noeud de miroirs”. Dal punto di vista linguistico ciò cheavviene è facilmente spiegabile. Le due realtà, una volta accostate secondoun vincolo assolutamente arbitrario, perdono la nettezza dei confini altri-menti appartenente al proprio campo di senso. Si genera così un effetto

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8 Michel Deguy, “Du Signe ascendant au Sphinx vertébral”, Poétique, 34, 1978, p. 231.

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di sovrapposizione, di indebolimento dei discrimini. Un annebbiamentoche (per dirla con gli strutturalisti) mette in discussione la certezza delledifferenze. C’è però qualcosa di più del semplice spaesamento provocatodall’assurdità del legame.

Ciascuno dei significati originari viene letteralmente rapito dall’altro(tensione siderante), e condotto in una sorta di illocalizzabile regione del-l’assenza in cui non è più se stesso, ma neanche, in realtà, qualcosa dinuovo (autoannullamento del linguaggio). Il plesso linguistico così for-mato, trasfigurati i termini che lo compongono, si innalza verso uno statod’astrazione dal quale non ridiscende, dal momento che l’impertinenzarifiuta di essere sciolta in un senso metaforico di secondo grado. Il lin-guaggio dunque fugge dalla dinamica di riferimento in cui la significazio-ne consiste. Riferirsi, applicarsi a un significato, ad un concetto, anchenel momento in cui questo concetto fosse del tutto nuovo (è il caso dellemetafore non scontate) significherebbe ricadere, essere riportato nell’am-bito di ciò che trova luogo, che accetta la propria collocabilità.

Oppure, se la si vuole vedere da un’altra angolazione, è il suo senso adessere preso in una sorta di indecidibilità. Esso tende costantemente versoun nuovo che non realizza, e vive di questo stato di tensione, che gli con-sente di non depositarsi, cioè di non determinarsi, e dunque di non esserefissato.

Sarà proprio la ricerca di un simile stato di fluidità, la propensione an-ti-determinativa coincidente con la promozione di una condizione tensi-va che non conosce rilascio, e che fugge la localizzazione definitiva, a ri-presentarsi entro l’idea di mito coltivata da Breton.

Un nuovo mito collettivo

A ben guardare l’interesse del surrealismo per la dimensione del mito puòessere indagato secondo due differenti angolazioni d’approccio, corri-spondenti, se si vuole, alle due principali modalità attraverso le quali gliesponenti del gruppo hanno percepito ed elaborato il loro rapporto conl’universo mitologico. La prima nasce contestualmente al sorgere stessodel movimento, ed è ampiamente condivisa dai suoi membri storici, per iquali, da subito, il mito assume la valenza del vero e proprio ideale collet-tivo. Istituendo un gioco d’abîme fra l’oggetto ed i modi della sua consi-derazione si dovrebbe dire che la questione è sviluppata proprio nei modidella produzione e dell’esaltazione fideistica di un contenuto mitico. A

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trovare alimento è, insomma, una sorta di mitologia del mitico, bastipensare alle forme in cui si esprime l’interesse per il tema in questione: sela lingua dei miti è per definizione sovrapersonale, se la leggenda si vuoleracconto non riconducibile ad un’origine, una storia che non deriva danessuno ed appartiene a tutti, allo stesso modo la celebrazione surrealistadella sfera mitica tende a trasmettersi attraverso il mezzo di una sorta divoce collettiva. I temi, i concetti, il linguaggio dei luoghi della produzio-ne surrealista in cui il tema appare, paiono confondersi, divengono quasiinterscambiabili.

In questa accezione il piano di interesse prioritario è costituito dallanaturale affinità che avvicina il dominio della libera immaginazione allospazio mitico. Al mito appartiene un orizzonte conoscitivo che ignora inparte le norme costrittive del pensiero positivo, della logica diurna; unorizzonte in cui trova posto il meraviglioso, onnipresente idolo del pen-siero surrealista. In questo senso, ne Le Paysan de Paris Aragon istituisceun rapporto pressoché identificativo fra la nuova mitologia di cui registrala nascita e la dimensione del ‘meraviglioso quotidiano’.9 I due dominivengono considerati dall’autore quasi indistinguibili, il che contribuiscenon poco a gettare luce su questo primo livello della visione surrealistadel mito. Nelle pagine del testo il mito – la natura sovrannaturale di ciòche appartiene al mito – è associato alla potenza rivelativa cui assurgonogli incontri con gli esseri animati e inanimati dei passages parigini, unavolta che agli stessi si applica il détournement immaginativo del flâneur. Sipensi alle pagine che descrivono il venditore di canne.10 Colto dallosguardo deformante di Aragon il dato reale è investito di un’energia aura-tica, che gli assegna la valenza epifanica dell’evento straordinario. La suaapparenza ordinaria esplode per rivelare la meraviglia di un fuoco d’artifi-cio. Lo schema sembra chiaro: la nuova mitologia professata dal surreali-smo corrisponde ad una percezione del quotidiano cui è restituita la com-

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9 Andrà ricordato che Le Paysan de Paris è introdotto da una breve “Prefazione a unamitologia moderna”. Aragon vi si esprime in questo modo: “Dei miti nuovi nascono sottociascuno dei nostri passi. Là dove l’uomo ha vissuto comincia la leggenda, là dove vive.Voglio rivolgere la mie mente soltanto a queste disprezzate trasformazioni. Ogni giorno simodifica il sentimento moderno dell’esistenza. Una mitologia si annoda e si snoda. È unascienza delle vita che appartiene soltanto a coloro che non ne hanno esperienza”. LouisAragon, Le Paysan de Paris (1926), Paris: Gallimard, 1981, p. 15.

10 La visione delle canne è l’occasione che consente al nastro delle trasformazioni imma-ginarie di innescarsi: la devanture del venditore si metamorfizza in una sorta di paesaggiosottomarino, rischiarato da un luce soprannaturale, ed abitato da una sirena (ivi, p. 31).

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ponente magica, incantata, la meraviglia, appunto. Una percezione che siriappropria del sacro, per dirla con Leiris. Il contributo offerto da que-st’ultimo alle riflessioni del Collège de sociologie è rappresentato da un te-sto intitolato proprio Le sacré dans la vie quotidienne;11 qui Leiris dà vitaad una sorta di immersione nel ricordo che, per quanto egli tenesse a di-stinguere (perché più vicina all’autoetnografia) dalle operazioni esplicita-mente autobiografiche de L’âge d’homme (1939) o di Biffures (1948), as-sume una connotazione marcatamente letteraria. Leiris ritrova nelle sen-sazioni dell’infanzia la traccia di una visione miticizzante del reale. Il sa-cro è identificato proprio con l’esito di una dinamica di deformazione di-latante che il Leiris bambino esercitava su realtà men che ordinarie aduno sguardo adulto (la stufa, le stanze della casa, i prati vicini). Il meravi-glioso, il sacro corrispondono dunque alla possibilità di riconquistare allarealtà lo spazio dell’ultranaturale, di associare alle figure che affollano laquotidianità dell’esistenza la stessa aura di potere magico e di forza rivela-trice che è propria del mondo mitologico.

Quest’ordine di motivazioni è, certo, determinante anche per quellache si è definito come la seconda modalità di elaborazione surrealista del-la problematica mitica. Solamente in parte, però. Rispetto ad essa, infatti,una valenza prioritaria è rivestita da un altro plesso di questioni, che nonsi identifica semplicemente con l’apertura alla sfera del meraviglioso quo-tidiano, ma è semmai da mettere in stretto rapporto con la natura sospesae con la propensione alla non riconducibilità associabile al linguaggio del-l’immagine. Va detto che questa ulteriore accezione comincia a delinearsia partire dalla metà dagli anni trenta, ed assume un profilo definitivo sol-tanto nel decennio successivo. Inoltre essa è affidata in modo quasi esclu-sivo all’elaborazione teorica del solo André Breton. Tentando di riassu-merla con una formula si dovrebbe riprendere la definizione utilizzata daJacqueline Chenieux-Gendron: il mito, in questa prospettiva, è visto neitermini del “modello proiettivo”.12 Viene considerato, cioè, dal punto divista della sua possibile azione sulla mentalità sociale, sulla fisionomia delpensiero collettivo. In questo senso esso non è più soltanto sinonimo dimeraviglioso, e la mitologizzazione dell’esistenza non si limita ad identifi-carsi con il recupero del mistero, del sacro, chiamati a far vibrare l’ingrigi-

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11 Il testo è raccolto in Denis Hollier (a cura di), Le collège de sociologie. 1937-39 (1979),trad. it. di Marina Galletti, Il collegio di sociologia, Torino: Bollati Boringhieri, 1991.

12 Jacqueline Chenieux-Gendron, Le surréalisme, Paris: PUF, 1984, p. 147.

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to commercio tra l’individuo e la realtà. Il mito, il suo modo di produrresenso, e di offrirlo all’interpretazione, diventa un sistema complessivo diriferimento; il bacino della nuova mitologia, alla cui definizione contri-buirà innanzitutto l’arte surrealista, rappresenta una costellazione di sim-boli a partire dalla quale dovrà prendere vita una nuova forma di coscien-za collettiva. Dunque, apparentemente, mito come modello. Tutto sta,credo, nel tentativo di definire quale sia la natura di tale modello, quale ilmodo della sua azione. Se di dinamica modellizzante si può parlare, infat-ti, lo si dovrà fare in un’accezione talmente indebolita da disperdere lostesso specifico concettuale della nozione. Ma procediamo con ordine.

All’altezza degli anni Trenta il riferimento al ‘mito collettivo’, e, piùprecisamente, al surrealismo come istanza generatrice di un nuovo mitocollettivo, si segnala per la sua quasi formulaica ricorsività all’interno deldiscorso teorico di Breton. Lo si trova ad esempio in un testo di estremaimportanza programmatica come Posizione politica dell’arte di oggi (1935),in cui Breton si esprime in questi termini: “Ed ecco perché, in queste con-dizioni, forse non si tratta neppure più, nell’arte, della creazione di un mi-to personale, ma col surrealismo, della creazione di un mito collettivo.Perché questo fatto fosse contestabile, bisognerebbe, come ho già detto,che al surrealismo potesse essere contrapposto […] un movimento ditutt’altro carattere che abbia rilevato la stessa forza d’attrazione sulla men-te dei giovani”.13

Il passo comincia a chiarire in quale ottica debba essere letto l’impiegodella nozione di mito: innanzitutto la nuova mitologia coincide con lacrescente massa di produzioni d’arte d’ispirazione surrealista. In secondoluogo, come detto, essa interessa soprattutto per la sua capacità di inter-venire sulle forme della coscienza collettiva. In questa prospettiva il moti-vo si ripresenta negli scritti successivi. Del 1938 l’intervista in cui Bretonribadisce come, per quanto sia evidente che nel fiorire di testi concepitisecondo la tecnica della scrittura automatica, il rapporto fra quantità equalità non possa che andare a sfavore della seconda, è comunque neces-sario continuare a percorrere quella via. Ed è vitale, aggiunge Breton, checosì facendo “il mito collettivo al quale noi vogliamo giungere continui aelaborarsi” (O, 3, p. 122).

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13 André Breton, Position politique de l’art d’aujourd’hui, trad. it. in Id, Manifesti, cit., p.162. Il passo riprende un accenno più breve al medesimo motivo, presente già nella prefa-zione a Posizione politica del surrealismo. Si parlava, lì, del surrealismo come “modalità dicreazione di un mito collettivo” (ivi, p. 136).

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A partire dai primi anni quaranta il tema si fa più esplicito. I Prolego-meni al terzo manifesto del surrealismo (1942) affrontano di petto la que-stione: Breton fa propria la domanda cui, ricorda, molti degli intellettualidi allora si sforzavano di trovare risposta: “Che cosa pensare del postulato‘non c’è società senza mito sociale?’; in quale misura possiamo scegliere eadottare, e imporre un mito in rapporto con la società che riteniamo desi-derabile?”.14 Breton non si discosta da una visione squisitamente proget-tuale. L’attributo cui fa ricorso Chenieux-Gendron, in questo senso, si ri-vela quanto mai appropriato. Il ragionamento bretoniano si svolge neitermini della mera proiezione: quale sarà l’esito di un percorso di forma-zione di un’identità collettiva ancora a venire, fondata sull’adesione ad unlinguaggio simbolico esso stesso in via di elaborazione?

Precedenti di qualche anno i Prolegomeni, le pagine di Limites non fron-tières du surréalisme (1937) si erano confrontate, invece, con un altroaspetto del problema, vale a dire con il tentativo di fornire una – se purmolto abbozzata – interpretazione della natura e dell’origine dell’immagi-nario mitologico, di cui Breton spiega la forza pervasiva riconducendola alsuo legame con l’inconscio collettivo dell’epoca in cui sorge. Ne viene fuo-ri una lettura storica pseudo-deterministica, che sembra voler eleggere suoiimpliciti padrini teorici Marx e Jung assieme: la fortuna del romanzo goti-co settecentesco si deve prevalentemente alla sua capacità di aver dato for-ma visibile alle tensioni che agitavano l’inconscio di un intera comunità.Allo stesso modo il surrealismo dovrà proporsi non di tradurre il contenu-to storico “manifesto” dei suoi anni, ma il loro “contenuto latente” (O, 3,p. 665). Il che, ribadisce Breton, corrisponde esattamente alla “elaborazio-ne del mito collettivo proprio alla nostra epoca, allo stesso titolo con cui,volente o nolente, il genere ‘noir’ dev’essere considerato come patognomi-ca del grande sconvolgimento sociale che s’impossessa dell’Europa alla finedel XVIII secolo” (O, 3, p. 667).

Questi due aspetti del nesso mito/coscienza collettiva (la visione proiet-tiva e quella per così dire eziologica) ritornano in due testi del 1947 moltoimportanti per la mia prospettiva, Devant le rideau e Comète surrealiste. Idue scritti condividono la medesima occasione extratestuale. Entrambi, in-fatti, costituiscono un commento della esposizione internazionale del sur-realismo che si tenne a New York in quello stesso anno.15 L’esposizione,

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14 André Breton, Manifesti, cit., p. 220.15 Devant le rideau apparve come introduzione del catalogo della mostra. Per la ricostru-

zione dell’evento cfr. la “Notice” in O, 3, p. 1367.

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nella forma del suo allestimento, nei suoi contenuti ed in genere nel signi-ficato complessivo che l’intera operazione avrebbe dovuto assumere, eratotalmente ispirata alla dimensione del mito. Il projet initial, sorta di guidaper il visitatore redatta dallo stesso Breton, ed annessa al catalogo illustrati-vo dell’esposizione, spiegava come il percorso della mostra andasse conce-pito alla stregua di un cammino iniziatico, durante il quale il visitatore eraposto di fronte alla “emergenza poetica e plastica di un mito nuovo, pre-sente allo stato latente e che cerca la sua figurazione nella sala dei dodici‘altari’ mitici” (O, 3, p. 1367). La mostra, dunque, cercava di ricrearequantomeno un’allegoria del rapporto di fruizione partecipativa, fideisticase si vuole, che gli individui, nelle culture in cui alla mitologia si assegna osi è assegnata una valenza sacrale, con quei contenuti stabiliscono.16 Evi-dentemente la mostra rappresenta un episodio fortemente significativonella storia del rapporto fra il movimento e la sfera del mito. Un episodiocon cui fa il paio un altro capitolo di quella vicenda, vale a dire la compo-sizione del libretto per immagini e didascalie De la survivance de certainsmythes, nel quale il poeta assembla un florilegio di icone (foto, dipinti, fo-togrammi di film) attinte dalla storia, antica e recente, del repertorio im-maginario umano, associandole a temi mitologici sia ancestrali che moder-ni. L’invito alla costruzione di una nuova fantasmagoria mitica, destinata astimolare e ad alimentare la sensibilità collettiva, trova in questi esempi deitentativi embrionali di applicazione. E del significato di questi esperimentigli scritti riferiti all’esposizione de 1947 contribuiscono a fornire una spie-gazione. Devant le rideau torna senza mezzi termini sugli argomenti già in-travisti. Il potere di attrazione e di fascinazione esercitato sul pensiero dallecreazioni surrealiste assegna a queste ultime – spiega Breton – una valenzarivelativa. Esse “determinano un movimento di adesione, provocano undono di se stessi così totale” (O, 3, p. 749) che difficilmente si potrà conti-nuare a descriverle semplicemente come opere d’arte. “Il carattere insor-gente di queste opere così come l’interrogazione, la sollecitazione semprepiù ardente di cui esse sono oggetto, la resistenza che oppongono ai mezzi

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16 Dal piano terra, dove cominciava la visita, lo spettatore accedeva al piano superiore, at-traverso una scala di 21 gradini, recanti ognuno un simbolo degli arcani maggiori dei taroc-chi. Si entrava così alla “Sala delle superstizioni” la quale, spiegava Breton nel Projet initial,“deve rappresentare la sintesi delle principali superstizioni esistenti e obbligare a superarleper proseguire la visita” (O, 3, p. 1367). La sala finale era quella degli altari, divisa in spaziottagonali: “Ognuno dei dodici alveoli ottagonali […] sarà consacrato a un essere, una cate-goria di esseri o un oggetto SUSCETTIBILE DI ESSERE DOTATO DI VITA MITICA” (ibid.).

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di apprensione che l’intendimento umano, al suo stato attuale, conferisce[…] accreditano l’idea che un mito parta da esse, che dipenda soltanto danoi definirlo e coordinarlo” (ibid.). L’approccio proiettivo ad un mito informazione a partire dal quale potrà cominciare a definirsi una nuovamentalità collettiva, è riproposto del resto in Comète surréaliste. Qui torna-no anche, come già accennato, i termini della lettura eziologica preceden-temente intravista, che fa del mito il collettore delle tensioni latenti, delledinamiche inconsce degli individui. Il nutrimento che nell’ambito del sur-realismo, spiega Breton, l’immaginario poetico ha offerto alle forme plasti-che è un segnale determinante; esso: “potrebbe già indurre a pensare che leforme frammentarie e sparse del desiderio collettivo, il quale resta un se-greto per ogni essere umano, tendono a un punto di convergenza unico eche al loro punto di incontro un mito nuovo ci attenda” (O, 3, p. 754).

Andrà detto, per completare il quadro, che nell’elaborare la visioneproiettiva relativa all’azione del mito sul pensiero collettivo, Breton sem-bra tener presente l’impostazione del Collegio di Sociologia, il gruppo diricerca che costituiva in pratica il corrispettivo scientifico della riflessionesurrealista sul mito. Bataille e Caillois professavano, in quegli anni, la ne-cessità di ricostituire, entro il tessuto delle società occidentali, un princi-pio unificatore che consentisse di considerarle non semplicemente comela somma di una serie di soggettività, ma come organismi complessi e vi-tali; organismi definibili a partire da ciò che i due intellettuali chiamava-no “movimento comuniale”, vale a dire da quello stato di coerenza eletti-va che nelle società arcaiche era assicurato anche e soprattutto dalla cre-denza condivisa nel mito. Vicinissimo, d’altronde, al ragionamento diBreton il passo in cui Caillois chiama in causa i tre poli della letteratura,del mito e del pensiero collettivo. Balzac e Baudelaire, sostiene Caillois,hanno inteso “integrare nella vita le richieste che i romantici si rassegna-vano a soddisfare sul piano dell’arte”, e si sono votati così ad un’impresa“ben apparentabile al mito, che significa sempre un accrescimento del ruolodell’immaginazione nella vita, dal momento che per natura, esso è suscet-tibile di spingere all’atto”.17 In questa direzione, secondo Caillois, si do-vrebbe chiedere all’arte contemporanea di proseguire: “È in effetti altret-tanto importante concepire la possibilità di piegare l’estetica verso ladrammaturgia, cioè verso l’azione sull’uomo”.18

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17 Roger Caillois, Le Mythe et l’homme (1938), Paris: Gallimard, 2002, pp. 172, 172-73.18 Ivi, p. 174.

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A questo punto i dati su cui basare un’analisi più approfondita del par-ticolare carattere ‘modellizzante’ assegnato da Breton al mito ci sono tutti.E credo che si debba partire proprio dalla compresenza, nella riflessionedel poeta, dei due aspetti che si è cercato di evidenziare in questa rapidapanoramica. Secondo Breton il linguaggio mitico è traduzione, o se sivuole espressione, dell’interiorità profonda, inconscia della collettività –dunque emanazione di una componente costitutiva dell’identità del sog-getto sociale – ed allo stesso tempo bacino immaginario cui il pensierocollettivo tende, insieme di simboli esterno agli individui, in riferimento alquale essi sviluppano una nuova visione: in definitiva qualcosa cui ispirar-si, cui conformare la propria coscienza. La circolarità di questo rapportomostra tutta la propria natura paradossale: l’immaginazione mitica è, allostesso tempo, dentro (sebbene inconsciamente) e fuori l’individuo; essa ègenerata dal soggetto, ma insieme è fattore, istanza della rigenerazionedello stesso. In definitiva, dunque, è attivata, promossa ma contempora-neamente subita dall’uomo. Quest’ultimo la crea e la riceve, è attivo e pas-sivo insieme. In realtà la dinamica non dovrebbe stupire più di tanto chiha una certa confidenza con alcune delle nozioni varate da Breton. Si pen-si al concetto di humour objectif, che Breton riferisce a quegli incontri,quegli eventi totalmente casuali nei quali, però, paradossalmente l’indivi-duo riconosce il segno del proprio destino.19 La necessità nasce dall’aleato-rietà, ciò che è frutto dell’hazard è, allo stesso tempo, qualcosa che nonpoteva che essere così. Anche in questo caso, dunque, circolarità. E nondiverso è il corto circuito fra passato e futuro implicito nella ricostruzionestorica dell’evoluzione letteraria saltuariamente abbozzata nei testi delpoeta: in Rimbaud, Nerval, Roussel e negli altri numi protettori del movi-mento, il surrealismo vede non soltanto il proprio passato storico, ma an-che il proprio futuro: non solo ciò che è stato, ma ciò che dovrà essere.20

Gli autori del passato sono insieme punto di partenza ed indicazione diun termine d’arrivo.

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19 L’humour oggettivo chiama in causa la nozione di casualità oggettiva, cioè “quellaspecie di casualità attraverso la quale si manifesta in modo ancora molto misterioso perl’uomo una necessità che gli sfugge, sebbene egli la provi vitalmente come necessità”. An-dré Breton, Manifesti, cit., p. 199.

20 In Originalité et liberté (solo per citare un esempio), Breton si riferisce alla consuetaserie di autori invocati quali antenati del surrealismo (Novalis, Nerval, Blake, Poe…):“una linea di resistenza imprescrittibile passa attraverso questi nomi, che noi abbiamo tro-vato rivolti non verso il passato, ma verso l’avvenire, carica di forza premonitrice sulla no-stra strada” (O, 3, p. 179).

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Ora, non è probabilmente possibile indagare, nello spazio di queste pa-gine, la particolare specificità epistemologica di un modello di visione cheprevede il superamento delle vecchie ‘antinomie’ ancora vigenti fra ‘realtà’e ‘immaginazione’, ‘passato’ e ‘futuro’, ‘tradizione’ e ‘libertà’.21 Ciò che misembra interessante sottolineare è l’idea di irrisolvibilità legata alla dinami-ca della circolarità. Se si traduce il modello della co-implicazione nei termi-ni dello schema chiastico, in cui due linee divergenti condividono la stessaorigine, si dispone di una sorta di versione visualizzabile di tale irrisolvibi-lità. Ognuno dei due principi non riesce a vedere interamente l’altro comedato assoluto, a sé esterno, e da sé distanziato. Per quanto tenti di farlo c’èsempre un tratto, anche minimo, in cui i due corpi si confondono.

D’altronde, a questa prima declinazione della circolarità entro la di-mensione del mito, ne corrisponde un’altra tutta interna alla questionedella credenza: anche in questo caso la collettività è assieme soggetto atti-vo ed oggetto passivo, funzione d’innesco ed allo stesso tempo istanza ri-cettiva. Essa determina la condizione sacrale dell’universo mitico, concedead esso la propria disponibilità a credere e così facendo lo investe di unostatuto sovrannaturale. Nello stesso tempo, però, si pone come il destina-tario della sacralità, come il bacino su cui questa si esercita, come lo spa-zio in cui il mito è ricevuto e recepito come tale. Non diversamente attra-verso il rito la comunità, riattualizza (torna a conferire realtà), di volta involta, i contenuti mitici, ma con lo stesso gesto definisce la propria con-dizione di comunità di fedeli, dunque il suo statuto di mero recettore dellasacralità del mitico. Del resto la stessa meccanica della trasmissione oraledei materiali mitologici prevede, secondo Detienne, il passaggio dei con-tenuti leggendari attraverso il filtro selettivo dell’ascolto comunitario; di-ventano mitologia soltanto quelle narrazioni che sono passate attraversola “‘censura preventiva’ del gruppo”.22

Lo schema della circolarità che governa tutti questi aspetti del rappor-to fra mito e collettività, si ripropone, infine, in un ultimo ambito. Inmodo identico, infatti, esso sembra governare il circuito chiuso che si in-staura fra la creazione ex novo di inedite forme simboliche – creazione chesolo inizialmente dovrà essere portata avanti dagli artisti surrealisti, ma

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21 L’appello all’abbandono di una visione che considera i termini di questi binomi nellaprospettiva della insormontabile contraddizione lo si trova in Situation du surréalisme en-tre les deux guerres (O, III, p. 722).

22 Marcel Detienne, L’Invention de la mythologie (1981), trad. it. di Flavio Cuniberto,L’invenzione della mitologia, Torino: Boringhieri, 1983.

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che in seguito dovrà essere di tutti – e la volontà di identificarle ad unmoderno tessuto mitologico al quale ci si affida come ad un esterno patri-monio di riferimento. Evidentemente si è posti di fronte ad una fusioneimplicativa fra il gesto attivo per antonomasia, quello dell’invenzione,della realizzazione di qualcosa a partire dal nulla,23 e la disposizione passi-va ad aderire – come fosse un dato di natura – alla costellazione di formeche è l’esito di tale processo creativo. L’uomo produce lo stesso contenutomitologico che riceve. O se si vuole, quest’ultimo si esercita sull’uomo edinsieme ne è esercitato.

Si è visto come per definire l’azione del nuovo mito surrealista sullacollettività la Chenieux-Gendron faccia ricorso alla formula del ‘modelloproiettivo’. Ma come definire un sistema di modellizzazione in cui, a piùlivelli, il modello è in gran parte generato da ciò che dovrebbe modellare,in cui, cioè, i due principi, anziché distinguersi, si coappartengono?

In questa prospettiva non è la stessa specificità concettuale del concet-to di modellizzazione che finisce per dissolversi? Modellare significa asse-gnare a qualcosa una forma che corrisponde ad un’altra forma, o ad unoschema, un insieme di coordinate, ideale o fisico, predeterminato o anco-ra da determinare, ma che comunque ad un certo punto deve darsi,dev’essere fissato in modo stabile. Non ci può ispirare ad un modello, far-vi riferimento, cioè ri-portarsi ad esso, se questo non è definito, se non èlocalizzabile.

Nella dinamica circolare che si è illustrato il modello è in pratica inde-cidibile, non si dà mai in modo definitivo. È infatti costantemente presoin quel rapporto di implicazione con il soggetto (cui dovrebbe rivolgersi),che non gli permette di staccarsi da quest’ultimo per diventare un datoassoluto, dove l’aggettivo è da intendersi nel suo significato strettamenteetimologico di sciolto da, individuato.

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23 In effetti la dimensione della creazione presenta, en abîme, l’ulteriore grado di circola-rità di cui si è detto: la creazione è assolutamente libera, è innovazione pura, ma allo stes-so tempo viene riconosciuta come riproduzione, traduzione di un fondo inconscio, di uncontenuto interiore. Ricorda però Beaujour come secondo Patrick Waldberg il “nuovomito” che Breton aspirava a creare durante gli anni del suo esilio a New York “non avreb-be dovuto fondarsi su alcun contenuto predeterminato”. Qualsiasi oggetto, al di là dellasua valenza simbolica, era suscettibile di essere eletto a nuova forma mitica. Per dirla conle parole dello stesso Waldberg (citato in Michel Beaujour, Réthorique et terreur, Paris: Pla-ce, 1999, p. 79): “Breton dava fortemente l’impressione di non interessarsi ad una simileavventura se non nella misura in cui essa diventava perturbante, vale a dire esteriore, ed incui provocava la creazione di nuove forme”.

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Quest’ordine di considerazioni può probabilmente contribuire a spie-gare come, per Breton, il ricorso al mito istituisse un paradigma alternati-vo a quello su cui ordinariamente si basa il rapporto della mentalità socia-le con l’ordine della tradizione. In quest’ultimo il meccanismo è basato sulriconoscimento di un fondamento, sulla possibilità di rifarsi, appunto, adun insieme di conoscenze e di contenuti determinato; nel rapporto conl’universo mitologico, al contrario, è in qualche modo negata la condizio-ne che permette la riconducibilità dell’identità collettiva ad un patrimo-nio dato. Tale patrimonio, infatti non arriva mai a porsi come qualcosa didefinitivamente esterno al pensiero collettivo. Non arriva mai, cioè – sem-bra suggerire Breton – a depositarsi definitivamente, a divenire repertorio.Cosa che, a sua volta, sottrae alla coscienza sociale la possibilità di definir-si conformandosi ad esso. Alla mancata piena codificazione del nuovo mi-to, corrisponde la mancata codificazione dell’identità degli individui.

Se si accetta questa interpretazione del pensiero di Breton, il rapportocon la visione che si è visto sottendere la concezione dell’immagine risul-terebbe innegabile. I due campi della riflessione bretoniana sembranoispirati da un ideale comune. Naturalmente anche nella sua applicazioneall’ambito del mito, un simile ideale si rivelerebbe minato da una serie diaporie che ne pregiudicano la realizzabilità. Si pensi, per citare quellaprincipale, all’obiezione fondamentale che la distinzione fra tradizione emito solleva.

Perché, infatti, distinguere fra contenuti mitici e contenuti apparte-nenti alla tradizione? Le vicende e le figure mitiche fanno tradizione.Tanto più che anch’esse, ed anzi esse in misura maggiore, possono essereassociate alla natura del modello. I miti sono per definizione dei prototi-pi, dei topoi. Introducendo la nozione di mitema, Lévi-Strauss ha forma-lizzato un aspetto da sempre connaturato al mito.24 Le sue varianti posso-no essere ridotte ad un’unità sintagmatica minima, cioè ad una strutturabase, uno schema immutabile di motivi che ne permette la riconoscibilitàqualunque sia la versione che lo reinterpreta. Impossibile non parlare diuna forte funzione modellizzante.

Certo, la dinamica della circolarità si applica non al rapporto fra ilprototipo ed i suoi rimodellamenti, ma a quello fra il pensiero collettivo ela galassia mitologica. Ciò non toglie, però, che quest’ultima, se secondo imodi del linguaggio mitologico deve funzionare, verrà recepita dagli indi-

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24 Claude Lévi-Strauss, L’Homme nu, Paris: Plon, 1971, p. 560.

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vidui nella forma di una serie di archetipi, di contenuti topici fortementecodificati.

Vediamo la cosa da un’altra angolazione. In un recente articolo IvaneRiallanc riprende un concetto introdotto a suo tempo da Jauss; si trattadi una sorta di variante in chiave ermeneutica dell’idea strutturalista dimitema. Il filosofo tedesco spiega come la relazione ipertestuale fra le ver-sioni successive dello stesso motivo mitico, si svolga sullo sfondo di unasorta di terzo assente, coincidente con il mito stesso quale “testo ideale”.Quest’ultima è l’espressione che Riffaterre utilizza per definire la nozionedi intertesto, molto vicina a quella di “terzo assente”. Non esiste una ver-sione originaria del mito, un testo-archetipo che incarni un primum asso-luto. L’intertesto (o il terzo assente) si definisce, in sostanza, come la ‘me-dia’ – riducibile, poi, ad una frase matriciale – risultante da una nebulosadi versioni che del testo ideale rappresentano le singole, concrete realizza-zioni. Il terzo assente è interessato da una doppia dinamica: da una parteè frutto di un’accumulazione potenzialmente infinita di variazioni, dun-que è indefinitamente modificato, costitutivamente aperto ed in accresci-mento, non si fissa. Da un’altra parte il testo ideale funziona come un fat-tore di riduzione ad un’unità di base immodificabile (lo schema matrice)delle singole variazioni. Dunque è modello, prototipo. La nebulosa miti-ca, “prende posto come terzo assente, spazio aperto insieme diacronico esincronico, bricolage e palinsesto”.25

Breton sembra voler vedere soltanto il primo aspetto, la continua ac-cumulazione, la ridefinizione perpetua, la nebulosa, anziché il prototipo.Forse per questo il mito dev’essere un ‘mito nuovo’, un mito in cui il te-sto ideale non si è ancora formato, in cui i simboli e le figure che lo com-pongono si aggiungono ridefinendolo, modificandolo senza che esso necancelli la specificità e le omologhi ad uno schema base.26 In realtà, però,

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25 Ivan Raillanc, “Mythe et ipertextualité”, documento disponibile online all’indirizzo<http://www.fabula.org/atelier.php?Mythe_et_hypertextualit%26eacute%3B>. A ben ve-dere questo è forse il livello più profondo delle dinamiche di circolarità che interessanol’universo del mito: non a caso viene chiamato in causa Jauss: il modello fonda le sue in-terpretazioni ed allo stesso tempo ne è costituito. Il che, però, non toglie che esso possiedaper il pensiero collettivo una valenza fortemente prototipica.

26 Il fatto che la concezione del mito come alternativa alla tradizione modellizzante siasoltanto uno dei motivi dell’adesione del surrealismo all’ordine della mitologia, è dimo-strato dall’atteggiamento non univoco dei suoi membri. Breton e gli altri sono infatti benlontani dal limitarsi alla produzione di miti nuovi. Attingono anzi a piene mani dal reper-torio mitologico antico. Sulla convivenza di rito antico e mito contemporaneo cfr. Philip-pe Lavergne, André Breton et le mythe, Paris: Corti, 1985, soprattutto pp. 75-76.

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anche questo non basterebbe: il mito, se tale, prima o poi diviene prototi-po, fondamento, tradizione. Anche prima che la comunità cessi di creder-vi, prima che la leggenda si trasformi in letteratura. Si è già detto dell’ipo-tesi di Detienne, che vedeva esistere già a livello della trasmissione oraledel mito un principio di selezione dei racconti basato sulla loro memora-bilità: delle diverse versioni che si susseguono, spiega Detienne parafra-sando Lévi-Strauss, di tutto l’insieme dei discorsi, si deposita “soltantociò che dà a un racconto una struttura più stabile”.27

In definitiva è come se il surrealismo aspirasse alla realizzazione di unamitologia che riesce a non divenire repertorio, al paradosso di una fanta-smagoria simbolica percepita come tessuto culturale condiviso senza esse-re riserva memoriale. In questo senso, probabilmente, va letta la correzio-ne che Chenieux-Gendron apporta alla sua stessa definizione, precisandocome la mitologia surrealista si debba vedere: “non un contenuto di cre-denze, imposto dall’esterno a una coscienza umana […] ma il desiderio dispaesamento sensibile, il cui contenuto è da inventare da parte di ognunodi noi”.28

L’ottica è pressoché identica a quella adottata nella discussione sul lin-guaggio: alla nuova parola poetica si chiede di non ricadere nella signifi-cazione, di evitare il riferimento, cioè la condizione della fissabilità (edunque della repertorizzazione) del significato. Le si chiede di restare inuna condizione di tensione, che non le permetta di essere ricondotta alladimensione del riferimento, dunque dell’identificazione (cioè della loca-lizzazione) di un senso. Allo stesso modo si vuole che il linguaggio miticonon si depositi, non possa essere termine di riferimento, piedistallo, marimanga preso in un rapporto di continuo movimento, di costante flui-dità, che rende il suo rapporto con il pensiero collettivo un commerciovivente, una storia in svolgimento. Forse uno dei più ostinati contenutimitici coltivati da Breton è proprio questo, il mito dell’identificazione co-stante fra il soggetto e la pura energia tensionale del mutamento. In que-sto senso lo sguardo dell’individuo è sempre rivolto in avanti, sempre di-retto verso ciò che si deve compiere. Del resto è proprio in Arcane 17, inun’opera in cui così centrale è il ruolo del mito, che Breton fornisce la de-scrizione esatta di quel demone della tensione che impone all’individuodi incarnare l’energia dinamica, il movimento stesso di quella trasforma-

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27 Marcel Detienne, op. cit, p. 57.28 Jacqueline Chenieux-Gendron, op. cit., p. 152.

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zione incessante che è il corpo della temporalità al suo stato più puro:la libertà, ribadisce “non può esistere che allo stato dinamico”, e chiosa:“Alle aspirazioni dell’uomo alla libertà dev’essere mantenuto il potere diricrearsi incessantemente; è per questo che essa dev’essere concepita noncome stato, ma come forza viva, implicata in una progressione con-tinua”.29

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29 André Breton, Arcane 17 (1947), in O, 3, pp. 91, 92.