Università degli Studi dell’Aquila Dipartimento di Scienze Umane – Area di Lettere e Filosofia Corso di Laurea in Culture per la comunicazione Tesi di Laurea Roberto Ettorre Welfare e lotta alla povertà Relatore prof. Mario Di Gregorio Il relatore Il candidato Prof. Mario Di Gregorio Roberto Ettorre Anno Accademico 2013/2014
This document is posted to help you gain knowledge. Please leave a comment to let me know what you think about it! Share it to your friends and learn new things together.
Transcript
Università degli Studi dell’Aquila
Dipartimento di Scienze Umane – Area di Lettere e Filosofia
Corso di Laurea in Culture per la comunicazione
Tesi di Laurea
Roberto Ettorre
Welfare e lotta alla povertà
Relatore prof. Mario Di Gregorio
Il relatore Il candidato
Prof. Mario Di Gregorio Roberto Ettorre
Anno Accademico 2013/2014
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
2
A Nonna Forestina,
per ringraziarla delle tante volte in
cui mi parlò dell’importanza della Cultura
come strumento di emancipazione e libertà.
“La carta” gridò Scarpone con la collera di chi finalmente vede l’inganno con i propri
occhi. La vista di Baldissera non arrivava fin là. “C’è già la carta?” egli chiese ansioso.”
Allora il tradimento è compiuto.” Attorno alla carta noi vedemmo raggrupparsi loro signori
e far circolo per qualche minuto e infine scambiarsi inchini, strette di mano,
congratulazioni; ma le loro voci non giungevano fino a noi. (Più tardi ci dissero che la
perdita dell’acqua sarebbe durata dieci lustri e che questa proposta sarebbe stata avanzata
in nostro favore da don Circostanza; ma nessuno di noi sapeva quanti mesi o quanti anni
BREVE STORIA DEL WELFARE ................................................................................................... 9
WELFARE STATE, ORIGINI E USO DEL TERMINE ............................................................................................... 9 UNA BREVE STORIA DELLE POLITICHE DI WELFARE E LOTTA ALLA POVERTÀ: DAL MEDIOEVO A BISMARCK 13
LA SVOLTA NOVECENTESCA: IL RAPPORTO BEVERIDGE................................................. 25
IL WELFARE INGLESE ALL’INIZIO DEL NOVECENTO....................................................................................... 25 BIOGRAFIA DI WILLIAM BEVERIDGE ............................................................................................................ 28 LIBERALISMO E LIBERALISMO SOCIALE: ANTESIGNANI, CONTRADDIZIONI E MERITI NELLO SVILUPPO DEL
WELFARE ...................................................................................................................................................... 37 IL RAPPORTO BEVERIDGE ............................................................................................................................ 42 I TRE PILASTRI .............................................................................................................................................. 44
WELFARE E MERITOCRAZIA: MODERNITÀ O RITORNO AL PASSATO? .......................... 51
DEFINIZIONE DI “MERITOCRAZIA” ................................................................................................................ 51 BIOGRAFIA DI MICHAEL YOUNG .................................................................................................................. 52 UN RITORNO INDIETRO ................................................................................................................................. 59
Nel secondo capitolo mi concentrerò in particolare sulle vicende storiche e sociali inglesi
che portarono all’elaborazione del primo moderno sistema di protezione sociale. Ispiratore
di molti altri sistemi sociali di protezione in Europa e nel resto del mondo.
Nel capitolo seguente cercherò di analizzare il dibattito attuale sul concetto di meritocrazia
come elemento discriminante per l'accesso ai servizi di welfare. In questo capitolo, cercherò
di dimostrare che la meritocrazia è solo un modo per giustificare moralmente le
diseguaglianze sociali. Si oppone quindi diametralmente al concetto di Welfare.
Nella conclusione proverò a tirare le somme di questo modesto lavoro concentrandomi sulla
dimostrazione della tesi che intendo sostenere sulla scorta di quanto scritto nelle pagine
precedenti.
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
9
Capitolo 1
Breve storia del welfare
Welfare state, origini e uso del termine
Nella storia è possibile rinvenire diversi nomi che hanno assunto le comunità politiche in
relazione alle forme di governo. Queste forme di governo si sono differenziate in particolare
sul ruolo che ad esse andava attribuito. Già Aristotele, interrogandosi su quale dovesse essere
il rapporto fra cittadini e democrazia, offrirà una concezione politica del ruolo del governo
secondo la quale il:
"[...] nesso concettuale [...] fra cittadinanza e democrazia - in una realtà storica che non
conobbe l'istituto della rappresentanza politica - prevede cittadini liberi dal bisogno, con
tempo libero a disposizione per potersi dedicare alla vita politica [...]".3
A partire dalla polis greca passando per i concetti romani di Repubblica e Civitas fino ad
arrivare alle città-stato italiane, le forme di governo e i termini per designarle mutarono
costantemente accanto al dibattito sugli obblighi che la forma di governo doveva attribuirsi
rispetto al popolo. Il moderno concetto di Stato designa l’unità politica comprensiva della
popolazione. Il concetto moderno di <<Stato sociale>> o <<Stato del benessere>> interpreta
una missione dello Stato che trae origine da antiche riflessioni. Ovvero che lo Stato debba
occuparsi di perseguire il bonum commune, il bene collettivo, quindi di assicurare anche
attraverso l’uso della forza: la pace, l’ordine e la giustizia.
Nel corso del Medioevo la riflessione sui compiti dello Stato si sposta su posizioni meno
materiali. Il teologo viennese Nikolaus Von Dinkelsbul, durante il concilio di Costanza del
3 G. Zanetti, Il pensiero politico di Aristotele, in Il pensiero politico. Idee, teorie, dottrine. A cura di
Carlo Dolcini, Volume primo: Età antica e Medioevo. Torino, Utet, 1999, 61.
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
10
1414, affermò alla presenza di re Sigismondo che gli obblighi dell’imperatore consistevano
nel perseguire pax et tranquillitas, commodum et salus del mondo e felicitas del popolo.4
Questa responsabilità venne intesa come responsabilità nella salvezza delle anime dei sudditi
dell’impero.
Nel corso del settecento con la graduale trasformazione dei sudditi in cittadini, i pensatori
politici iniziano ad interrogarsi sugli strumenti che il governo avrebbe dovuto adottare per
garantire la felicità materiale del popolo. Videro la luce i primi provvedimenti dei sovrani
illuminati per elevare lo status del popolo. Essi vennero definiti paternalisti, poiché
escludevano i lavoratori e i cittadini dalle decisioni di merito ed erano affidati
esclusivamente alla buona volontà del sovrano che si presumeva operasse per il bene
collettivo.
Nell’ottocento, alla definizione prodotta dalla riflessione dei pensatori tedeschi sulla teoria
dello Stato secondo cui esso è neutrale e apartitico, Marx ed Engels contrappongono una
visione diametralmente opposta. Scriverà Engels nel 1883:
“Marx ed io siamo stati dell’avviso, fin dal 1845, che una delle conseguenze ultime della
futura rivoluzione proletaria sarà la progressiva dissoluzione dell’organizzazione politica
indicata con il nome Stato. Lo scopo principale di tale organizzazione è sempre stato quello
di garantire, attraverso la violenza armata, l’oppressione economica della maggioranza
lavoratrice da parte di una minoranza soltanto facoltosa. Con lo scomparire di una
minoranza soltanto facoltosa scompare anche la necessità di un potere armato statale o
repressivo”5
L’autore rifiuta l’idea di Stato come elemento neutrale e garante ma lo considera uno
strumento nelle mani della classe dominante attraverso il quale essa impone e mantiene il
proprio potere sulle classi subalterne.
Nell’accezione della prima metà dello scorso secolo, il termine Stato indicava non solo,
come già accennato precedentemente, l’insieme delle organizzazioni governative e del
4 J. Dominicus, Sacrorum Conciliorum Nova et Amplissima Collectio, vol. 28, Graz, 1961, pag. 516-
519. 5 S. Ghisu, Breve introduzione alla storia critica delle idee, IPOC, 2012, pag. 74.
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
11
popolo, ma esso trovava la sua definizione nei compiti che ad esso venivano affidati. Dallo
Stato si poteva dunque pretendere il diritto alla partecipazione politica e:
“[…] anche la garanzia di alcuni diritti sociali fondamentali, tra cui il diritto al
sostentamento o al lavoro”6
I concetti di “Stato del benessere” o “Stato sociale” si affermano sull’onda delle riflessioni
politiche in merito ai compiti dello Stato. Adolph Wagner, economista tedesco di idee
socialiste, già nel 1879 utilizzò i termini in senso positivo. Egli fu il creatore della celebre
Legge di Wagner sull’aumento della spesa pubblica, secondo la quale la spesa pubblica tende
ad aumentare più che proporzionalmente rispetto all’aumento del reddito pro-capite poiché,
all’aumentare del reddito, i cittadini chiedono allo Stato servizi più complessi e costosi.
I termini in questione vennero invece utilizzati in senso negativo dal Governo Von Papen,
nella fase finale della Repubblica di Weimar. Il 4 giugno 1932, Von Papen diramava questo
comunicato:
“I governi postbellici hanno creduto di poter ridurre ampiamente le preoccupazione
materiali del lavoratori e dei datori di lavoro incrementando il socialismo di Stato. Hanno
tentato di trasformare lo Stato in una sorta di Stato del benessere, indebolendo così le forze
morali della nazione”7
In questo comunicato il Cancelliere equipara lo Stato del benessere al socialismo di Stato,
affermando che la riduzione delle preoccupazioni materiali del popolo possa in un qualche
modo comprometterne le capacità morali.
In Gran Bretagna il termine Welfare, intorno al 1900, iniziò ad essere utilizzato in senso
moderno da economisti liberali come Hobson, che parlava di welfare policy intendendo le
politiche statali di miglioramento delle condizioni materiali della classe operaia, al di là
dell’assistenza ai poveri.8
6 G. A. Ritter, Storia dello Stato sociale, Bari, Laterza, 2011, pag. 10. 7 Comunicato del 4 giugno 1932, in Ernst Rudolf Huber (a cura di), Dokumente zur deutschen
Verfassungsgeschichte, vol. 3, Stuttgart-Berlin-Köln-Mainz 1966, pag. 486. 8 G. A. Ritter, Storia dello Stato sociale, Bari, Laterza, 2011, pag. 11.
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
12
Il definitivo esorcismo del termine Welfare fu adoperato grazie al pensiero di uno dei
massimi esponenti del socialismo cristiano inglese: William Temple, arcivescovo di York
(1929-42), successivamente arcivescovo di Canterbury e primate della Chiesa anglicana
(1942-44). Egli utilizzò l’espressione in un tentativo di:
“caratterizzare il radicale contrasto con lo Stato di potenza e di guerra dei nazisti”9
Questa accezione del termine venne utilizzata in un momento di forte scontro ideologico e
militare fra la democrazia liberale inglese e la Germania nazista di Hitler. Il Governo Inglese
paventava la realizzazione di un Welfare State in chiave propagandistica per contrastare la
fama di Stato-protettore dei propri cittadini della Germania nazista.10
Nel giugno 1941, il Ministro del lavoro britannico Arthur Greenwood, incaricò William
Beveridge, economista e sociologo inglese, di dirigere il Committee on Social Insurance and
Allied Services. Il compito di questa commissione, nelle intenzioni del Governo, avrebbe
dovuto essere estremamente modesto limitandosi ad una semplice ricognizione del sistema
di assistenza esistente. Infatti il sistema di protezione sociale inglese dell’epoca non era
affatto ordinato ma frammentato, disomogeneo e sperequativo. Ciò generava disparità di
trattamento e numerose inefficienze in particolare a danno di bambini e di alcune categorie
di anziani. In realtà Beveridge non si limiterà ad una ricognizione delle criticità esistenti ma
intraprenderà un progetto molto più ambizioso. Questo progetto di lavoro porterà alla
pubblicazione di quello che è oggi considerato il testo fondativo del Welfare State ovvero il:
Report of the Inter-Departmental Committee on Social Insurance and Allied Services,
meglio conosciuto come Rapporto Beveridge. Il Rapporto prevedeva un piano di azione
contro quelli che Beverdige definiva i cinque giganti che tenevano schiava l’umanità: il
bisogno, la malattia, l’ignoranza, la miseria e l’ozio. Tuttavia il termine Stato del benessere
9 Cfr. Lo sviluppo del welfare state in Europa e in America, a cura di P. F Lora e A.J. Heidenheimer,
Bologna, Il Mulino,1993, pag 28. 10 D. Benassi, William Beveridge e il piano del 1942: alle origini del Welfare State in Alle origini del
Welfare State, Il Rapporto su assicurazioni sociali e servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D.
Benassi, E. Mingione, Milano, Franco Angeli, 2013, pag. 17.
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
13
venne contestato dallo stesso Beveridge che preferiva parlare di Social service state per
sottolineare che il cittadino aveva anche doveri oltre che diritti.11
Una breve storia delle politiche di Welfare e lotta alla povertà: dal medioevo a
Bismarck
Durante il Medioevo l’iniziativa volontaria privata cristiana a sostegno dei poveri, supplì
inadeguatamente alla mancanza di uno Stato sociale. Le istituzioni del Medioevo infatti
erano del tutto insufficienti a garantire la sicurezza sociale e il sostentamento dei bisognosi
o degli inabili al lavoro, compito che era perlopiù affidato a famiglia e parenti. Il
Cristianesimo individuò la povertà come uno dei suoi maggiori settori d’intervento. Questo
perché l’uomo medioevale considerava la proprietà privata legittima ma al tempo stesso era
considerato doveroso e “cristiano” donare il superfluo ai poveri. Quando la Chiesa iniziò ad
organizzarsi sul territorio, la carità materiale venne considerata dai primi sacerdoti un
considerevole strumento di propaganda per avvicinare credenti, sottraendoli così alle
superstizioni pagane.
L’assistenza della Chiesa nei confronti dei poveri iniziò ad organizzarsi nel VI secolo con
colui che venne definito il primo uomo del Medioevo: Gregorio Magno. Egli, quando
divenne pontefice nel 570 d.C. col nome di Gregorio I, redistribuì le rendite dei vasti
possedimenti della Chiesa a fini caritatevoli attraverso le “sante industrie” che lui stesso creò
e che servivano ad elargire direttamente ai poveri i sussidi materiali.
Anche Papa Callisto e Papa Fabiano operarono nel senso di meglio organizzare le opere
assistenziali in favore dei bisognosi.
Dal IV al VI secolo sorsero i primi centri residenziali, i primi ospedali guidati da donne
aristocratiche e cominciarono a svilupparsi anche le prime istituzioni specializzate
nell’assistenza alle persone in condizione di bisogno.
Nel corso dell’VIII secolo furono create le prime “diaconie”, enti che provvedevano a fornire
assistenza religiosa e sociale. Sempre nello stesso secolo, presero piede le “domus cultae”
11 Cfr. Josè Harris, William Beverdidge. A Biography, Oxford, Oxford University Press, 1977, pag.
448,459.
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
14
ovvero fattorie che funzionavano alla stregua delle attuali cooperative agricole, organizzate
per produrre e distribuire cibo ai cittadini indigenti.12
Si iniziarono a costituire, nell’alto Medioevo, le prime corporazioni. Queste organizzazioni,
raggruppavano persone che esercitavano la medesima professione, in special modo mercanti
e artigiani. Queste associazioni operavano su diversi fronti a favore degli associati:
garantivano loro il lavoro, educavano gli apprendisti al mestiere e, attraverso
l’autotassazione, provvedevano all’assistenza dei loro associati malati o invalidi e alle loro
famiglie.
Inoltre esisteva un obbligo di tutela da parte dei proprietari terrieri e dei datori di lavoro nei
confronti dei loro dipendenti ed una consuetudine che a quel tempo si andava affermando:
la carità dei ricchi e dei sovrani. Difatti il modello preminente di vita cristiana che si andò
affermando in quel periodo, vedeva ricchi e potenti in una gara a chi si dimostrava essere
più caritatevole. Questo perché da un lato si poteva così ostentare la propria ricchezza e
dall’altro ci si poteva garantire la salvezza della propria anima aiutando la Chiesa nelle opere
pie o agendo direttamente l’azione caritatevole.
Le fondazioni di beneficenza dell’epoca, sostenevano gli Ospedali, nei quali veniva dato
rifugio a poveri e mendicanti oltre che ai prebendari, uomini e donne che cedevano
all’Ospedale i propri beni in cambio di cibo e alloggio durante la vecchiaia.
A quell’epoca la povertà era un fenomeno di massa, si stima che nel tardo Medioevo circa il
10-20% della popolazione residente nelle città della Germania Meridionale, dipendeva dalle
istituzioni caritatevoli.
“La miseria era considerata un <<fenomeno costante>>, <<naturale ed inevitabile come
le catastrofi naturali >>, un destino per chi ne era colpito, un problema sociale minaccioso
e terribile in costante aumento dopo il XIII secolo”13
A fronte del disprezzo e dell’umiliazione sociale a cui i poveri dovevano “naturalmente”
sottostare, sorsero nell’XI, XII e XIII secolo ordini monastici che facevano della povertà,
del rifiuto del denaro e della civiltà moderna i loro caposaldi, abbracciando volontariamente
12 D. Buracchio, A. Tiberio, I Servizi sociali tra memoria e progresso, Roma, EISS, 1996. 13 G. A. Ritter, Storia dello Stato sociale, Bari, Laterza, 2011, pag. 35.
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
15
una vita terrena povera come quella che aveva dovuto vivere Cristo. In questo senso essi si
preparavano già alla vita dopo il ritorno del Messia sulla terra.
Coloro i quali rimanevano esclusi dall’elemosina diretta dei potenti o dall’assistenza delle
corporazioni venivano assistiti dalle parrocchie e dalle varie altre articolazioni caritatevoli
della Chiesa. Questo compito a livello locale veniva affidato a Monasteri e Chiese, che si
occupavano di ammalati, mendicanti, invalidi e malati di mente, avvalendosi delle
elargizioni dei potenti o attraverso il ricavato di specifiche imposte locali.
Nel XV secolo con lo sviluppo dell’urbanizzazione, i fenomeni sociali connessi alla povertà
iniziarono a divenire un problema dilagante specie nelle città sovrappopolate. Se da un lato
si iniziò a cercare di rafforzare i sistemi di assistenza ai bisognosi14, dall’altro i controlli sui
poveri aumentarono iniziando a classificare in maniera decisa i diversi gradi di povertà. I
mendicanti iniziarono ad essere suddivisi fra coloro i quali erano stanziali e “appartenevano”
all’ambito locale, e coloro i quali invece erano di passaggio. Il soccorso delle istituzioni
caritatevoli, fatta questa distinzione, si concentrò prevalentemente sui poveri del luogo. Il
dilagante fenomeno della povertà che, come ho già accennato, aveva una dimensione enorme
portò le organizzazioni a tentare di distinguere i poveri “immeritevoli”, ovvero coloro che
pur essendo abili a lavoro per presunta pigrizia mendicavano dai poveri “meritevoli”, che
erano finiti in una situazione di bisogno per condizioni oggettive: vecchi, malati, storpi,
vedove, orfani. I poveri che erano classificati come “immeritevoli” dalle rigide selezioni
istituzionali erano perseguitati. Ai falsi poveri e falsi mendicanti poteva essere addirittura
inflitto il carcere, cosa sino ad allora desueta, poiché essi sottraevano ingiustamente le
elemosina. Le pene potevano esser comminate non solo al diretto interessato ma anche a chi
elargiva donazioni a poveri considerati “immeritevoli”.
“La povertà dei bisognosi abili al lavoro non era più ritenuta – come nel Medioevo – un
destino o un’espressione di particolare vicinanza al Signore, né come accadde all’inizio del
XX secolo – un frutto dei rapporti sociali, bensì la conseguenza di ozio, prodigalità o
imprevidenza, e quindi un difetto morale del singolo, che bisognava correggere. Come
strumento di risoluzione del problema della povertà, ma anche come punizione o educazione
14 G. A. Ritter, Storia dello Stato sociale, Bari, Laterza, 2011, pag. 36.
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
16
del singolo – in particolare dei bambini poveri – all’indipendenza economica, il lavoro
coatto assunse un’importanza centrale”15
L’autore ci propone la visione medioevale del concetto di povertà intesa come colpa. Da ciò
deduciamo anche che la povertà veniva intesa come un elemento naturale, sempre esistito e
che sempre esisterà, e perciò inestirpabile nel profondo. Nel mentre nell’alto Medioevo la
povertà era vista come un elemento di vicinanza a Cristo al punto che nacquero ordini
religiosi che facevano della povertà una condotta monastica. Nel XX secolo, come vedremo
in seguito, la povertà sarà invece considerata in relazione alle condizioni oggettive date dai
rapporti sociali ed economici. In questo periodo del Medioevo invece si afferma la visione
per la quale la povertà è intesa come colpa morale. Il giudizio della società nei confronti
della povertà muta considerevolmente in senso negativo, portando le istituzioni dell’epoca a
promulgare norme sempre più severe nei confronti dei mendicanti. La repressione divenne
ancora più marcata nelle zone calviniste e luterane dell’Europa settentrionale, dove l’etica
del lavoro protestante mal si conciliava con una visione bonaria e pietista della povertà.
Nell’etica protestante di allora il povero era colui che era fuori dalla grazia del Signore, e
chissà quali colpe aveva dovuto commettere per esser stato punito da Dio con la povertà.
Tuttavia in questo periodo nascono anche istituti che non colpevolizzano tout court la
povertà e non operano attraverso internalizzazioni e lavoro coatto. Gli oratori di san Filippo
Neri, gli ospedali di san Giovanni di Dio (gli attuali “Fatebenefratelli”) e l’opera di san
Vincenzo De Paoli ne sono testimonianze. Queste organizzazioni religiose iniziarono a
ricercare ed ideare soluzioni per gli annosi problemi dell’epoca come, ad esempio: tutela
dell’infanzia abbandonata, l’ignoranza della gioventù povera, l’isolamento degli anziani.
Tutto ciò si configura come un approccio alle questioni sociali nel più moderno spirito
“sociale e umanitario”.16
Venne affrontato anche il problema dell’usura con la creazione dei primi Monti di pietà ad
opera della Chiesa Cattolica.
15 Ivi, pag. 38. 16 D. Buracchio, A. Tiberio, Società e servizio sociale. La centralità delle politiche sociali, Milano,
FrancoAngeli, 2012, pag.118.
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
17
La diffusione delle pene detentive e delle case di correzione per i mendicanti abili al lavoro
portò una quantità considerevole di manodopera a basso costo poiché gli “ospiti” spesso
venivano obbligati a lavorare e lasciati allo sfruttamento dei datori di lavoro. All’inizio del
XVI secolo l’uso della pena denominata: “remo in galera” riservata a poveri e mendicanti,
venne incoraggiata per supplire alla penuria di rematori liberi per le flotte di navi e fornire
così forza-lavoro a un costo molto basso.17
Fra le tappe fondamentali dello sviluppo delle politiche di “assistenza sociale” annoveriamo
il provvedimento chiamato Poor Law. La norma venne approvata per venire incontro alla
carenza assistenziale dovuta alla soppressione degli istituti monastici a seguito dell’entrata
in vigore della riforma anglicana.18 Nei fatti essa è da considerarsi come la prima legge di
“assistenza sociale” in Europa.19 La Poor Law venne emanata nel 1601 da Elisabetta I,
rimase in vigore fino al 1834. Essa è la sintesi di tutti i precedenti provvedimenti in materia
di assistenza. Questa disposizione prevedeva l’istituzione degli overseers of the poor, essi
erano gli ispettori dei poveri il cui lavoro era a loro volta controllato dai giudici di pace. La
nuova regolamentazione non solo ridisegnava gli strumenti amministrativi attraverso i quali
intervenire ma determinava gli scopi dell’assistenza, ovvero: avviare al lavoro i ragazzi
poveri, aiutare i poveri invalidi e anziani, cercare lavoro ai poveri abili al lavoro. Questi
ultimi spesso venivano internati nelle cosiddette work-houses allo scopo di introdurli al
lavoro coatto. Queste divennero tristemente note come le “Bastiglie del terrore”20, luoghi
di sfruttamento e lavori forzati di cui molto ha raccontato anche Charles Dickens. Permaneva
la concezione della povertà come colpa individuale ed essa non veniva combattuta cercando
di estirpare le ragioni che la producevano. All’epoca la povertà veniva combattuta
esclusivamente allo scopo di lenire le sue conseguenze sociali.
17 A. Brancati, Popoli e civiltà, Firenze, La nuova Italia, 1989. 18 Dizionario di Storia moderna e contemporanea, Poor Laws, in:
http://www.pbmstoria.it/dizionari/storia_mod/p/p179.htm 19 D. Buracchio, A. Tiberio, Società e servizio sociale. La centralità delle politiche sociali, Milano,
FrancoAngeli, 2012, pag.120.
20 B. Geremek, La pietà e la forca. Storia della miseria e della carità in Europa, Editore
“Il bisognoso restava l’oggetto dell’assistenza pubblica solo per la sua pericolosità
sociale”21
La questione del pauperismo era dunque derubricata a mera questione di ordine pubblico e
di debolezza caratteriale del singolo. Il problema dei bisognosi venne dunque lasciato in
mano allo Stato e ai Comuni, pur non impedendo forme di assistenza privatistiche sia laiche
che religiose. Nei secoli XVI e XVII la repressione nei confronti dei poveri toccò il suo picco
massimo. Internamenti, pene corporali eseguite in pubblico e editti emanati con l’obiettivo
di espellere i poveri dalle città si diffusero in tutt’Europa.
Nel corso del XVII secolo iniziarono a svilupparsi e diffondersi in Europa le prime riflessioni
riguardo la necessità di affrontare il tema degli ordinamenti giuridici in termini “razionali”.
Si iniziò a rifiutare l’idea secondo la quale il potere era di diretta emanazione divina e si
diede più peso al consenso dei cittadini come giustificazione del potere stesso. Al problema
della povertà ci si iniziava ad avvicinare partendo dal presupposto che per eliminarla era
necessario sradicare le ragioni politiche, sociali ed economiche che la producevano. Essa
iniziò ad essere vista non più come un fatto naturale o una prova di vicinanza a Cristo ma
come un fatto sociale. Con la laicizzazione del pensiero in Europa si andò anche estinguendo
l’ascetismo medioevale22 che della povertà aveva addirittura fatto una virtù. Alla diffusione
di questa convinzione contribuirono gli illuministi. Essi, infatti, credevano che:
“[…] la povertà non fosse un male eterno ed inestirpabile. Il problema della povertà doveva
essere risolto, in sintonia con la fede generale nel progresso verso un’umanità razionale,
dal punto di vista oggettivo attraverso l’eliminazione delle sue cause e l’incremento delle
possibilità produttive e lavorative, e dal punto di vista soggettivo attraverso un’educazione
migliore, soprattutto dei giovani23”
Mentre il Medioevo era stata l’epoca della carità, l’Età Moderna fu l’epoca dell’assistenza.
Questo fu il momento in cui si gettarono le basi della moderna concezione di aiuto ai cittadini
e alle cittadine in stato di bisogno. Alla punizione corporale, al lavoro coatto e agli editti di
21 D. Buracchio, A. Tiberio, Società e servizio sociale. La centralità delle politiche sociali, Milano,
FrancoAngeli, 2012, pag.119. 22 H.J. Laski, Le origini del liberalismo europeo, Firenze, La Nuova Italia, 1962. 23 G. A. Ritter, Storia dello Stato sociale, Bari, Laterza, 2011, pag. 43.
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
19
espulsione dalle città si sostituì un’idea di assistenza basata sulla solidarietà tra gli uomini.
Un’idea per la quale l’uomo iniziava ad essere portatore di diritti in sé, cui quindi spettava
il diritto alla felicità e assistenza dallo Stato in caso di necessità.
In campo organizzativo si iniziò a provvedere alla statalizzazione dei servizi di assistenza.
La laicizzazione, l’ateismo e più in generale il pensiero settecentesco illuminista, iniziarono
ad essere in forte contrasto con il concetto di carità cristiana. Essa aveva infatti una
caratteristica saliente: quella di occuparsi nell’immediato dei bisogni degli assistiti senza
tuttavia volgere lo sguardo verso le cause che generavano la povertà. Inoltre spesso gli
interventi ecclesiali in campo religioso era disomogenei e disorganizzati.
“Tutto questo rendeva vani gli sforzi, toglieva efficacia ai risultati di queste iniziative,
peraltro già contestate dai nuovi orientamenti dello spirito pubblico24”
Ad esempio Giuseppe II d’Asburgo-Lorena (1741 – 1790), realizzò una riforma allo scopo
di confiscare i beni degli ordini religiosi come: ospedali, ospizi e orfanotrofi. Egli realizzò
quindi strutture pubbliche in cui veniva garantito ai poveri l’accesso all’assistenza. Il
pensiero dell’epoca, grazie a personaggi del calibro di Rousseau o Hobbes, si indirizzò
sempre più verso un’idea di società che vedeva l’assistenza come un diritto del cittadino e
non come una supplica che il povero doveva rivolgere all’organizzazione di riferimento.
A partire dalla metà del XVIII secolo si avviò una grande processo di desegregazione dei
poveri da quelli che erano diventati centri di detenzione invece che strutture di recupero. Si
iniziarono a promuovere politiche di assistenza domiciliare, a carico dello Stato, sulla scorta
delle riflessioni politiche e giuridiche dei parlamenti e dei Governi che ispiravano la loro
azione alla Rivoluzione francese. Si arrivò, come già accennato in precedenza, ad una fase
embrionale di politiche moderne di welfare e di prevenzione della povertà, riassumibili nella
seguente affermazione:
“Non è un uomo povero perché nulla possiede, ma perché non lavora25”
Sotto la spinta degli ideologhi illuministi furono introdotte anche integrazioni nel testo della
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino compresa nella Costituzione francese del
24 D. Buracchio, A. Tiberio, I servizi sociali tra memoria e progetto, Roma, EISS, 1996. 25 Montesquieu, Lo spirito delle leggi, Ginevra, 1748, Cap.29.
Anche in Germania le idee illuministiche sollecitarono parte della società ad intervenire
contro la povertà. Difatti all’epoca sorsero diverse società filantropiche tedesche come
l’Associazione di Lubecca per lo sviluppo di attività di pubblica utilità o la Società di Kiel
dei liberi amici dei poveri. La filantropia si distingueva dalla carità cristiana poiché essa
trovava le sue radici nelle teorie illuministe dell’epoca di uguaglianza e fratellanza di tutti
gli uomini. Mentre la filantropia disponeva nella sua riflessione gli uomini in rapporto con
la società e li considerava in sé stessi, la carità cristiana poneva gli esseri umani sempre in
relazione col divino. Anche in Germania queste idee si tradussero in atti normativi e così si
determinò l’obbligo per lo Stato di mantenere coloro i quali non avevano altri mezzi per farlo
autonomamente e di provvedere ad assegnare un lavoro, secondo le rispettive capacità, a chi
era in grado di eseguirlo. Questi principi vennero traslati in norme nel Codice generale
prussiano del 1794. Quest’ultimo riconosceva esplicitamente che compito dello Stato era
quello di perseguire il benessere del singolo.
All’inizio del XIX secolo, a seguito della Rivoluzione industriale inglese che via via si
propagò anche nel continente, la povertà divenne un fenomeno dilagante. Il Pauperismo, il
nome dato alla povertà di massa, provocò molteplici risposte da parte degli Stati. In Francia
e in Inghilterra si tentò di porre rimedio al pauperismo attraverso politiche che riducevano
26 G. A. Ritter, Storia dello Stato sociale, Bari, Laterza, 2011, pag. 46.
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
21
l’assistenza sociale pubblica ai bisognosi, sulla scorta delle riflessioni liberali dell’epoca.
Tra questi ultimi era opinione diffusa che la causa della povertà dilagante era dettata dalle
eccessive premure dello Stato assistenziale che – con le sue politiche di sostegno ai poveri –
disincentivava e deresponsabilizzava i cittadini alla ricerca di un lavoro e all’auto sussistenza,
favoriva i matrimoni sconsiderati e rovinava il contribuente. Furono questi gli anni in cui
venne fortemente ridimensionato l’intervento dello Stato nell’assistenza pubblica mentre le
strutture di tipo mutualistico e di stampo sindacale iniziarono la loro ascesa per sopperire
alle mancanze dello Stato.
Nella Francia del XIX secolo la povertà era un fenomeno che aveva assunto proporzioni
enormi. Oltre alla già citata industrializzazione e inurbazione di massa, l’aumento della
povertà era anche dovuto all’assenza quasi totale dell’assistenza religiosa e alla volontà delle
classi sociali ricche e dominanti di limitare l’imposizione fiscale e l’apparato burocratico
dello Stato. In Francia:
“La principale istituzione assistenziale pubblica era costituita dai cosiddetti bureaux de
bienfaisance, che, controllati e finanziati essenzialmente da notabili del luogo, ricevevano
limitati sussidi statali. Nel 1847 essi esistevano però solo in un quarto dei comuni francesi
[…]”27
L’autore conferma che nella Francia di quegli anni l’assistenza era delegata ai privati con
qualche piccola integrazione da parte dello Stato. A giustificazione del non interventismo
statale intervennero le teorie liberali che vedevano la legiferazione in merito alle questioni
sociali come un’indebita interferenza della politica, che andava quindi a contraddire i
principi del laissez faire.
In Inghilterra le teorie liberali e utilitaristiche spinsero il parlamento britannico a varare una
riforma dei servizi assistenziali: la riforma sui poveri del 1834. Erano più di duecento anni
che il sistema assistenziale inglese non subiva modifiche e precisamente dal 1601, anno in
cui la Regina Elisabetta I emanò la “Poor law”, la prima legge di “assistenza sociale” del
mondo europeo 28 . Con la riforma del 1834 il ruolo dello Stato nell’assistenza venne
27 G. A. Ritter, Storia dello Stato sociale, Bari, Laterza, 2011, pag. 51. 28 D. Buracchio, A. Tiberio, Società e servizio sociale. La centralità delle politiche sociali, Milano,
FrancoAngeli, 2012, pag. 120.
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
22
fortemente ridimensionato, i criteri per accedere ai vari sostegni divennero fortemente
restrittivi. Tornava in auge l’idea per la quale la povertà era una colpa individuale, non
venivano affatto considerate le condizioni sociali, economiche e politiche. Le politiche di
assistenza più che un aiuto divennero un avvertimento, un ammonimento a cercare a tutti i
costi l’indipendenza e risparmiare soldi per la vecchiaia per evitare lo stigma sociale
dell’assistenza pubblica. Tuttavia le cause della povertà, al di là delle debolezze caratteriali
del singolo, andavano ricercate altrove:
“[…] la mancanza, nelle campagne, di sufficienti occasioni di guadagno e la disoccupazione
congiunturale e stagionale nelle zone industriali. Per la massa di lavoratori non qualificati,
considerato il salario basso e spesso non regolarmente pagato, era inoltre impossibile
risparmiare per i momenti di bisogno o per la vecchiaia29”
Molta dell’analisi politica dell’epoca sulle cause della povertà non era in grado di spingersi
oltre un recinto al cui centro vi era l’individuo con le sue presunte debolezze caratteriali. La
società nel suo complesso, con le sue strutture economiche e sociali, non era ancora vista
come una discriminante oggettiva rispetto alle condizioni di vita materiali delle persone. Il
lavoro nelle workhouses, con la riforma del 1834, rafforzò il suo carattere di semi regime
carcerario a lavoro forzato. Coloro i quali entravano in questi istituti venivano persino privati
dei loro diritti civili. Gradualmente, grazie anche ad un vasto movimento d’opinione che
spingeva per una lotta alla povertà in chiave non punitiva, le workhouses si trasformarono in
asili per l’infanzia e centri per gli anziani poveri perdendo il loro carattere di centri di
detenzione e lavoro coatto. A cavallo tra il XVIII e il XX secolo, in Inghilterra:
“[…] si cominciò a verificare un movimento dal basso tendente all’affermazione e al
riconoscimento giuridico di diritti sociali dei poveri e dei bisognosi con l’obiettivo di
garantire il diritto al lavoro e alla protezione di tutti i lavoratori30”
Come ho già scritto in precedenza, la deresponsabilizzazione dello Stato nei confronti del
benessere dei cittadini e delle cittadine, produsse automaticamente un aumento delle società
29 G. A. Ritter, Storia dello Stato sociale, Bari, Laterza, 2011, pag. 55. 30 F. Di Flumeri, Fondamenti del servizio sociale, Roma, EISS, 1992, pag. 27.
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
23
di mutuo soccorso che si organizzavano in difesa degli interessi dei loro associati e attorno
a degli ideali comuni di difesa delle classi lavoratrici. Le Friendly society erano:
“[…] organization formed voluntarily by individuals to protect members against debts
incurred through illness, death, or old age. Friendly societies arose in the 17th and 18th
centuries and were most numerous in the 19th century. Friendly societies had their origins
in the burial societies of ancient Greek and Roman artisans. In the Middle Ages the guilds
of Europe and England extended the idea of mutual assistance to other circumstances of
distress, such as illness. The friendly societies went a step further by attempting to define the
magnitude of the risk against which it was intended to provide and how much the members
should contribute to meet that risk. Offshoots of the friendly societies include trade unions,
fraternal orders (such as the International Order of Odd Fellows), and life insurance
companies. Today some insurance companies in the United Kingdom and in other countries
of the Commonwealth still refer to themselves as friendly societies31”
Prima di passare al successivo capitolo, dove avrò modo di parlare della Storia
contemporanea dello sviluppo del Welfare con un focus sul noto Rapporto Beveridge, in
questi ultimi paragrafi del capitolo intendo scrivere riguardo un fondamentale passaggio
oikonomia-2013/ottobre-2013/12-attualita-del-rapporto-beveridge 45 J. Harris, William Beveridge, A Biography, Oxford, Clarendon Press, 1997, pag. 365. 46 A. Cherubini, Storia della previdenza sociale, Roma, Editori Riuniti, 1997, pag. 347.
volentieri se potrà avere l’impressione che il Governo avrà pronti al momento opportuno
piani e progetti per il miglioramento delle condizioni universali; e che se questi piani e
progetti dovranno essere pronti in tempo, bisogna che siano preparati sin da ora47”
La pubblicazione del Beveridge’s Report il cui titolo completo era “Social Insurance and
Allied Services, Report by Sir William Beveridge” si trasforma in un vero e proprio evento
editoriale per l’epoca. Nel giro di poco tempo il rapporto vende oltre 200.000 copie più altre
400.000 di una versione ridotta48. Come si evince dal titolo, sarà Beveridge ad intestarsi la
paternità dell’opera, anche se frutto del lavoro di un’intera commissione interministeriale.
Tuttavia egli non verrà successivamente coinvolto nella discussione per tradurre le sue
deduzioni e il suo modello in atti normativi. Presumibilmente, a fronte del fatto che il suo
carattere continuava ad esser considerato dalle alte sfere della politica di allora poco avvezzo
al compromesso e scarsamente diplomatico.
Nel 1944 si candida al Parlamento inglese con il Partito liberale e viene eletto nel seggio
elettorale di Berwick-on-Tweed (Northumberland). Con la crisi del Governo di unità
nazionale guidato da Winston Churchill nel 1945 si andrà ad elezioni anticipate, i Liberali
subiranno una pesante sconfitta e Beveridge non verrà rieletto. Il 1945 sarà però anche l’anno
in cui vedrà la luce un lavoro di Beveridge dal titolo Full Employment in a Free Society49.
Commissionato alcuni anni prima da un gruppo di uomini d’affari, in questo ultimo lavoro
egli elabora le sue riflessioni riguardo la “piena occupazione”, sulla scorta di quanto già
elaborato da John Maynard Keynes (1883 – 1946) nel suo celeberrimo lavoro dal titolo:
Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta pubblicato nel 1936. In
quest’opera Beveridge abbraccia le teorie economiche di Keynes, postulando che anche lo
Stato deve assumersi il compito di mantenere un elevato livello di occupazione50 e che la
47 William Beverdige, Il Piano Beveridge, Compendio ufficiale della relazione di Sir William
Beveridge al Governo Britannico, in Alle origini del Welfare State, Il Rapporto su assicurazioni
sociali e servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D. Benassi, E. Mingione, Milano, Franco Angeli,
2013, pag. 132. 48 D. Benassi, William Beveridge e il piano del 1942: alle origini del Welfare State in Alle origini del
Welfare State, Il Rapporto su assicurazioni sociali e servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D.
Benassi, E. Mingione, Milano, Franco Angeli, 2013, pag. 17. 49 W. Beveridge, L’impiego integrale del lavoro in una società libera, Torni, Einaudi, 1948. 50 G. Sta., Occupazione piena, in Enciclopedia Treccani
regolazione dell’occupazione debba agire non tanto sull’offerta di lavoro quanto sulla
domanda51. In questo modo Beveridge si allontana definitivamente dal modello economico
“Classico” o “Liberista” secondo cui basterebbe evitare rigidità verso il basso dei salari per
poter ripristinare un buon livello occupazionale.
Nel 1946 Beveridge viene nominato barone ed entra dunque nella Camera dei lord. Diviene
immediatamente leader dei liberali nella Camera alta e inizia finalmente a partecipare ai
dibattiti dai quali scaturiranno gli atti normativi che hanno come fonte la sua indagine. Tra
questi ricordiamo: il National Insurance Act ,l’Industrial Injuries Act, il National Health
Service Act e il National Assistance Act.
Non tutti i provvedimenti approvati dal Parlamento rispecchieranno fedelmente
l’impostazione del suo rapporto, tanto è vero che egli non verrà mai ascoltato ufficialmente
dal Governo britannico per esporre probabili linee guida di attuazione dei suggerimenti
espressi nella sua indagine. Tuttavia, anche ad un occhio inesperto, non sfugge che le idee
generali alla base di tutti i provvedimenti di Welfare dal 1946 in poi avranno
un’impostazione decisamente ispirata al Beveridge’s Report.
Il National Deposit Friendly Society, una delle più grandi società di mutuo soccorso allora
esistenti, nel 1946, chiede a Beveridge di redigere un’analisi sull’andamento delle pratiche
di mutuo soccorso in Inghilterra che, come ho scritto precedentemente, erano molto diffuse
nell’Inghilterra vittoriana. La lunga tradizione delle Friendly Society britanniche che, lo
ricordo, si basavano sul principio del mutuo aiuto sembrava cozzare con le nuove politiche
interventiste e universaliste dello Stato52 che intendevano sostituirsi agli istituti privati nella
gestione dell’assistenza sociale. Questa, però, non era la visione di Beveridge il quale non
affermava affatto che l’individuo non potesse agire in autonomia, o tramite strutture, per
soddisfare ulteriormente i propri bisogni (che non fossero stati quelli minimi materiali a cui
51 D. Benassi, William Beveridge e il piano del 1942: alle origini del Welfare State in Alle origini
del Welfare State, Il Rapporto su assicurazioni sociali e servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D.
Benassi, E. Mingione, Milano, Franco Angeli, 2013, pag. 17. 52 D. Benassi, William Beveridge e il piano del 1942: alle origini del Welfare State in Alle origini
del Welfare State, Il Rapporto su assicurazioni sociali e servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D.
Benassi, E. Mingione, Milano, Franco Angeli, 2013, pag. 18.
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
36
doveva pensare lo Stato) o bisogni collettivi. Ce lo dimostra l’introduzione del capitolo
“Progetti di pace in tempo di guerra” tratto dal Rapporto di Beveridge:
“Vi sono molti che pensano che la ricerca della protezione sociale sia uno scopo errato,
perché per essi le parole “protezione” e “sicurezza” significano qualcosa che non va
d’accordo con l’iniziativa, con lo spirito di avventura, e con la responsabilità individuale.
Ma questa non è la giusta interpretazione della Protezione Sociale quale viene progettata
in questa relazione. Questo piano non è stato fatto perché venga concesso a tutti qualcosa
gratuitamente e senza fatica, o qualcosa che li liberi per sempre da responsabilità
individuali”53
Come afferma l’autore, la responsabilità individuale nei confronti di se stessi e della società
è un pilastro fondamentale nel modello sociale da lui proposto. Da ciò se ne deduce che
anche l’iniziativa privata volta all’auto tutela, come potevano essere le Friendly Society, era
non solo accettata da Beveridge ma auspicata.
Il rapporto Voluntary Action: A Report on methods of Social Advance, vede la luce del 1948
ed è il frutto del lavoro commissionato dal National Deposit Friendly Society di cui ho
accennato precedentemente. Sarà proprio in quest’opera che Beveridge metterà in guardia la
società inglese dal delegare tutti i compiti allo Stato, scrivendo nel suo ultimo lavoro:
“La formazione di una buona società dipende non dallo Stato ma dai cittadini, che agiscono
individualmente o in libere associazioni. La felicità o l’infelicità della società in cui viviamo
dipende da noi stessi quali cittadini, non dallo strumento del potere politico che noi
chiamiamo Stato. Lo Stato deve incoraggiare l’azione volontaria in ogni specie per il
progresso sociale.”54
Grazie alla popolarità conquistata durante la pubblicazione del suo primo rapporto,
Beveridge continua ad influenzare il dibattito inglese sul Welfare ancora per diverso tempo.
53 W. Beverdige, Il Piano Beveridge, Compendio ufficiale della relazione di Sir William Beveridge
al Governo Britannico, in Alle origini del Welfare State, Il Rapporto su assicurazioni sociali e
servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D. Benassi, E. Mingione, Milano, Franco Angeli, 2013,
pag. 131. 54 W. Beveridge, L’azione volontaria, Milano, Edizioni di Comunità, 1954.
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
37
Muore nella sua casa, ad Oxford, il 16 Marzo 1963 all’età di 84 anni.
Liberalismo e Liberalismo sociale: antesignani, contraddizioni e meriti nello sviluppo
del welfare
Prima di addentrarmi nella disamina del rapporto vorrei chiarire per quali misure questo
lavoro viene considerato fondatore del moderno Welfare State, segnalare alcuni antesignani
del Liberalismo sociale e evidenziare alcune contraddizioni nelle teorie liberali. Negli anni
quaranta del Novecento Beveridge ebbe il merito di definire <<un modello di politica sociale
che parve imporsi indipendentemente dalle contrapposizioni politiche fra conservatori e
progressisti>>55 equilibrio tuttora conservato in diversi paesi europei dove, nei fatti, le
politiche sociali non vengono affatto messi in discussione, né da destra né da sinistra.
Tuttavia, prima di Beveridge, l’approccio Liberale ai diritti dei cittadini e delle cittadine era
stato quasi esclusivamente imperniato su ideali legati ai diritti politici e civili dei singoli. E
leggeremo nei prossimi paragrafi il perché scrivo “quasi”. Ipocritamente per buona parte dei
Liberali, specie quelli che definiamo “classici”, in una democrazia, ai cittadini, non devono
essere concessi i diritti basilari ovvero quei diritti che rispondono a bisogni materiali, poiché
ognuno deve essere artefice del proprio destino e non possono esser premiati gli “oziosi”
men che meno con un intervento dello Stato, che deve ben guardarsi dall’interessarsi delle
condizioni sociali dei singoli. Appare oggi più che scontato che i diritti basilari sono
imprescindibili poiché, se essi non sono soddisfatti, i diritti politici e individuali divengono
inesigibili.
Altre contraddizioni nel Liberalismo pre-Beveridge, le mette bene in luce Lucio Magri, che
scrive:
“[…] quali contraddizioni irriducibili marcarono, per secoli, il liberalismo tra ideali
solennemente affermati (la comune natura umana, la libertà di pensiero e di parola, la
sovranità conferita al popolo) e pratiche che li smentivano in modo permanente (schiavismo,
dominazione coloniale, espulsione dei contadini dalle terre comuni, guerre di religione)?
55 C. Galli, E. Greblo, S. Mezzadra, Il pensiero politico del Novecento, a cura di Carlo Galli,
Bologna, Il Mulino, 2005 pag. 178.
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
38
Contraddizioni di fatto ma legittimate nel pensiero: l’idea che alla libertà non potessero né
dovessero accedere se non coloro che avessero per censo e cultura, perfino per razza e
colore, la capacità di esercitarla saggiamente; e l’idea correlativa che la proprietà dei beni
era un diritto assoluto e intoccabile e dunque escludeva il suffragio universale”56
Dall’analisi di Magri ne consegue che essendo la proprietà dei beni un diritto assoluto, si
esclude ogni forma di redistribuzione della ricchezza. Così facendo, lo Stato, non ha i mezzi
necessari per garantire, ad esempio, un’adeguata istruzione o sostegni materiali ai cittadini
e alle cittadine indigenti. Questa condizione, come ho scritto prima, rende inesigibili i diritti
civili e politici.
Aver trasformato i cittadini e le cittadine da semplici portatori di diritti politici a portatori di
diritti sociali è, senza ombra di dubbio, un merito sia del Liberalismo sociale impersonato
da Beveridge (e non solo) sia dei tanti movimenti legati ai nuovi soggetti sociali che la
Rivoluzione industriale aveva prodotto.
Il vero balzo qualitativo che produce il Rapporto Beveridge, non è tanto rappresentato
dall’architettura istituzionale che lui disegna, quanto dall’espressione di un principio:
l’universalismo dell’accesso alle prestazioni sanitarie. A differenza di chi lo ha preceduto,
Beveridge afferma che l’accesso alle prestazioni mediche dev’essere aperto a tutti e tutte a
prescindere dal fatto che essi o esse abbiano o meno un lavoro regolare. Il Rapporto stabilisce
un limite materiale al di sotto del quale il cittadino o la cittadina diviene schiavo/a del
bisogno e non è in grado di provvedere né a se stesso/a né al benessere collettivo della
comunità in cui vive.
A questo compromesso e a questo posizionamento politico nei confronti del “bisogno”, il
Liberalismo socialista o “New Liberalism” giunge a seguito di anni di riflessioni e dibattiti,
alle volte laceranti, specie per la rappresentanza partitica della cultura politica Liberale
inglese. Si pensi, a questo proposito, alle idee di John Stuart Mill, prodromiche per alcuni
versi rispetto al “New liberalism”, nelle quali il Mill tentava di coniugare individualismo e
politiche sociali. Il Liberalismo, per il filosofo, non sarebbe stato veramente compiuto se non
avesse accolto in sé anche le istanze sociali. Comprendere la complessa struttura di pensiero
56 L. Magri, Il sarto di Ulm, Milano, Il Saggiatore, 2011, pag. 13,14.
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
39
di Mill è cosa lunga, e non possiamo qui soffermarci, si tenga tuttavia in considerazione che
egli addirittura sviluppa una critica al surplus. Il surplus, o plusvalore, nelle successive teorie
di stampo marxista è rappresentato da quel valore aggiunto ottenuto a seguito della
reificazione delle materie prime, grazie dunque al lavoro degli operai, e che viene acquisito
dal capitalista a scapito dell’operaio.
“Il surplus…grande o piccolo che sia, viene solitamente strappato ai produttori, o dal
governo al quale sono soggetti, o dagli individui i quali, o perché superiori, o perché
approfittano dei sentimenti religiosi o tradizionali di subordinazione, si sono dichiarati
padroni della terra”57
In queste righe egli quindi afferma che la questione legata al plusvalore è una questione di
classe. Un’affermazione che, da sola, potrebbe rendere chiaro il perché Mill viene
considerato colui che ha avvicinato liberalismo e socialismo.
“Among the active members of the (Fabian) society were George Bernard Shaw; the
reverend Stewart Headlam, an eccentric curate of Radical wiews; Helen Taylor, the step-
daughter of John Stuart Mill who was active in many advanced causes”58
E’ interessante notare come la figliastra di Mill, Helen Taylor (1831 – 1907), fosse membro
della Fabian society.
Ma c’è dell’altro. Mill ritiene errata l’idea secondo cui si debba semplicemente abolire la
proprietà privata. Ritiene invece corretto incidere pesantemente sui meccanismi di
redistribuzione della ricchezza avanzando anche una proposta che potremmo definire di
"capitalismo senza capitalisti”. Secondo il filosofo, il peso che la classe operaia assumerà
nella vita politica di lì a poco sarà decisivo. Arriva a postulare l’idea per la quale nel futuro
non vi sarà lotta di classe ma l’organizzazione della produzione attraverso aziende rette da
associazioni di operai e capitalista o, in altri casi, sole associazioni di operai. Per Mill, lo
57 J. S. Mill, Principles of Political Economy, Toronto, University of Toronto Press, 1965,
pag. 13 (tr. It. Principi di economia politica, Torino, UTET, 1983) 58 The Letters of Sidney and Beatrice Webb: Volume 1, Apprenticeships, Edited by Norman
Mackenzie, Cambridge, 1978, pag. 75. Tra i membri attivi della Società Fabiana vi furono
George Bernard Shaw; il reverendo Stewart Headlam, un eccentrico curato di idee radicali;
Helen Taylor, la figliastra di John Stuart Mill che fu attiva in tante cause avanzate. Trad.
aut.
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
40
spirito e la pratica cooperativistica, riusciranno a garantire pacificamente un’equa
distribuzione delle ricchezze ed un’uguaglianza sostanziale. Autogestendo l’azienda e
provvedendo ad eleggere tra loro rappresentanti pro tempore, gli operai saranno in grado di
coordinare la produzione e dividere equamente la ricchezza prodotta. Secondo il Filosofo
inglese, il cooperativismo cancellerà tutte le distinzioni sociali, salvo quelle giustamente
meritate per le attività personali.59
Mill verrà profondamente influenzato dalle posizioni di Jeremy Bentham (1749 – 1832),
massimo teorizzatore del principio filosofico chiamato “Utilitarismo”. Bentham offrirà il suo
contributo anche nel campo del pensiero sociale criticando aspramente le Poor law per la
loro inadeguatezza ad affrontare il problema della povertà dilagante. Obiettivo di Bentham
non è l’abolizione delle Workhouses quanto una loro migliore organizzazione sotto la guida
di principi utilitaristi. Bentham, nella sua celebre e controversa opera: il Panopticon60, offre
un modello ideale di carcere utilitarista, in cui un unico secondino è in grado di sorvegliare
contemporaneamente tutti gli internati grazie alla struttura edificata in forma circolare. La
legislazione “sociale” delle Poor law, sempre secondo Bentham, va completamente rivisitata
poiché gli interventi di assistenza che produce sono frammentati, propagandano l’ozio e la
negligenza, sono fortemente stigmatizzanti nei confronti di chi ne fa ricorso e perpetuano la
povertà anziché risolverla. Per il filosofo combattere il pauperismo secondo principi
utilitaristi, vuol dire efficientare la macchina delle case di lavoro coatto, facendo svolgere
agli internati lavori realmente utili, in grado di poter creare un utile da utilizzare per
abbassare la pressione fiscale. Bentham propone inoltre di incentivare la scolarizzazione dei
poveri che ne sono privi per poterli agevolmente reinserire all’interno di società private.
“Limate talune asprezze e impazienze della fase “panoptica” del loro maestro, molti suoi
continuatori troveranno nel pensiero di Bentham stimoli per lavorare concretamente alla
riforma delle Poor law e per ribadire l’ampiezza dei compiti dello stato, che dalla garanzia
59 G. Bedeschi, Liberalismo, Enciclopedia Treccani in:
L’autore, a differenza di Bentham, ipotizza che vi siano piaceri migliori di altri e dunque
persone in grado di godere appieno di piaceri superiori. Coloro che sono in gradi di godere
dei piaceri superiori, secondo Mill dovrebbero far parte di quella classe dirigente che
determina e amministra le azioni volte alla promozione della felicità generale. Se ci sono
persone che sanno godere saggiamente e più degli altri di alti piaceri, si spiega, in parte,
l’origine della contraddizione in seno al Liberalismo che Lucio Magri evidenzia, ovvero
“l’idea che alla libertà non potessero né dovessero accedere se non coloro che avessero per
censo e cultura, perfino per razza e colore, la capacità di esercitarla saggiamente”. Questa
concezione di Mill legata ad una visione verticista dei piaceri è comunque alla base di una
visione “aristocratica” del potere tanto quanto lo è una visione “meritocratica” del potere
come vedremo nel capitolo successivo. Pone, inoltre, seri interrogativi: chi determina la
nozione di piacere? Chi determina le differente fra alti e bassi piaceri? Gli ideali di libertà e
di uguaglianza del Liberalismo si scontrano vivacemente con queste considerazioni.
Nel 1949, il sociologo Thomas Humprhrey Marshall (1893 – 1981), tiene una conferenza
intitolata Cittadinanza e classe sociale in cui le teorie Liberali sociali e, in definitiva,
progressisti e conservatori del blocco occidentale sembrano trovare un punto, un’intesa sulla
nozione di cittadinanza. Marshall, nella conferenza, rilegge la storia politica degli ultimi
decenni come un progressivo includere soggetti che prima erano esclusi all’interno della
sfera della cittadinanza. Operazione che culmina poi con il rifiuto della libertà formale,
sancita nelle teorie liberali classiche, per approdare al concetto di riconoscimento di alcuni
fondamentali diritti sociali dell’uomo. Per il sociologo la cittadinanza è un concetto che
include una sfera di diritti che devono essere garantiti a chi appartiene ad una comunità,
diritti che lui intende come portatori di un’uguaglianza umana sostanziale. Per Marshall lo
Stato sociale è un compromesso fra classe capitalista e proletaria. Anche se egli ammette che
comunque le classi sociali continueranno ad esistere, il sociologo afferma che in uno Stato
sociale esse possono cooperare poiché le differenze di classe sono legittimate sotto l’aspetto
della giustizia sociale grazie agli strumenti messi a disposizione dal Welfare.
Il Rapporto Beveridge
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
43
Il Rapporto e più in generale la discussione sulla necessità di un intervento dello Stato
nell’economia e a sostegno delle fasce deboli della popolazione, si inserisce in un quadro
storico ben determinato che favorisce la nascita di politiche di Welfare. Prima lo sforzo
bellico e poi la ricostruzione, specie in Inghilterra, fanno da collante fra le diverse fasce
sociali della popolazione che iniziano davvero a provare un senso di unità nazionale. Questo
produce nell’Inghilterra del dopoguerra un inedito senso delle priorità interclassista che vede
al primo posto i bisogni della collettività. Questo clima, prima permetterà a Beveridge di
scrivere un piano in cui si prospetta un grande investimento dello Stato, poi al Primo Ministro
Attlee di approvare agilmente le riforme ispirate dal Piano. Tuttavia è da notare che:
“[…] sarebbe sbagliato ritenere che il Rapporto sia frutto esclusivamente di quelle
circostanze. Al contrario, Beveridge era andato maturando le basi ideologiche e politiche
della sua proposta lungo tutta la sua esperienza da amministratore e studioso”64
In particolare, grazie all’esperienza amministrativa maturata durante la prima guerra
mondiale egli comprende che lo Stato può intervenire laddove nessun’altro può, ed influire
così nei grandi processi socio-economici. Questa considerazione è per lui importante poiché
scioglie un dualismo che lo pervade per tutta la sua esistenza, quello fra le libertà individuali
e l’intervento dello Stato nella sfera privata degli individui.
La versione originale del Rapporto Beveridge è composta di 170 pagina più altre 130 di
appendice. Complessivamente è strutturato in sei parti e contiene decine di tabelle con dati
molto specifici riguardo l’applicazione della riforma da lui delineata. La prima parte,
Introduzione e sommario, contiene i principi generali a cui si inspira il Rapporto, le
innovazioni nel campo dell’assistenza sociale che intende apportare e gli obiettivi. La
seconda parte, chiamata Le principali modifiche che vengono proposte e la loro ragione di
essere, come suggerisce il titolo descrive in maniera dettagliata le 23 proposte del piano. La
terza parte, Tre problemi speciali, si sostanzia invece nella descrizione delle tre
problematiche che Beveridge ipotizza siano ostative nei confronti della realizzazione del suo
piano, ovvero: la domanda di un sostegno sociale durante un contenzioso aperto (ad esempio:
64 D. Benassi, William Beveridge e il piano del 1942: alle origini del Welfare State in Alle origini
del Welfare State, Il Rapporto su assicurazioni sociali e servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D.
Benassi, E. Mingione, Milano, Franco Angeli, 2013, pag. 23.
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
44
incidente sul lavoro, divorzio, ecc); come agiscono i differenziali nel costo della vita nella
determinazione dei sostegni monetari; la questione riguardante l’età pensionabile e
l’introduzione del nuovo sistema pensionistico. La quarta parte, Bilancio preventivo della
protezione sociale, indica con un dettaglio impressionante le voci di spesa di ogni singolo
provvedimento e le modalità per il loro finanziamento attraverso il sistema contributivo e
assicurativo. Nella quinta parte, la commissione guidata da Lord Beveridge, si dedica
nell’elencare le somme dei sostegni da destinare agli indigenti, sulla scorta di un’accurata
analisi dei bisogni. La quinta parte è chiamata: Piano di protezione sociale. Nella sesta ed
ultima parte, Protezione sociale e politica sociale, si determinano i tre presupposti essenziali
affinché la riforma possa avere un esito positivo: la creazione di un sistema sanitario
nazionale universale, l’attivazione di sussidi per l’infanzia ed una condizione economica
tendente al pieno impiego. Nell’analisi di questi tre pilastri mi dedicherò in maniera
particolare.
I tre pilastri
Affinché il nuovo sistema di Welfare funzioni, nel Rapporto vengono indicate tre misure
indispensabili: la creazione di un Sistema Sanitario Nazionale universale, una politica
economica che tenda alla piena occupazione e sussidi per l’infanzia. Per Beveridge infatti la
disoccupazione e quindi la conseguente dipendenza del disoccupato dal regime di sostegno
sociale deve essere transitoria. Per questo, sulla scorta delle politiche keynesiane, Beveridge
chiede che come presupposto della sua riforma il Governo attui politiche economiche anti-
cicliche e strategie di promozione dell’occupazione. Sostegni economici devono essere
garantiti nelle fasi di mancanza di lavoro, qualsiasi sia la causa: disoccupazione, malattia,
infortunio, invalidità. Per Beveridge di fatti la sicurezza di un reddito è il fattore più
importante di tutti ma:
“La sicurezza di un reddito […] se viene considerata quale solo o principale fattore di
felicità umana, è talmente inadeguata che non varrebbe nemmeno la pena di proporla.
Bisogna quindi che sia accompagnata dalla dichiarazione di una ferma decisione di usare i
poteri dello Stato, nella misura in cui sarà necessario, per garantire a tutti, anche se non
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
45
un’assoluta continuità di lavoro, almeno una seria possibilità di trovare un’occupazione
produttiva”65
Per l’autore promozione dell’occupazione e sostegno alla disoccupazione devono andare di
pari passo poiché Lord Beveridge ha maturato la consapevolezza che <<una lunga
dipendenza dai sussidi può scoraggiare la ricerca di una nuova occupazione>>66.
Beveridge però ammette che una quota di disoccupazione è inevitabile:
“Nelle industrie a occupazione stagionale un ritmo di lavoro ineguale è inevitabile; in un
sistema economico soggetto a mutamenti ed a progresso è impossibile evitare alti e bassi
nella prosperità dei singoli datori di lavoro e delle industrie speciali […] non (si) pretende
l’abolizione completa della disoccupazione, ma solo l’abolizione della disoccupazione in
massa, e quella disoccupazione che si protrae di anno in anno per uno stesso individuo”67
Nel Rapporto è previsto l’impatto, in termini di costi per lo Stato, che la Riforma avrà
andando a dover intervenire in una situazione sociale, quella del dopoguerra, segnata da una
disoccupazione di massa, scarsi consumi e mancanza di reddito per le famiglie. Beveridge,
nel suo Piano di Protezione Sociale, si premura di affrontare questo nodo, affermando che la
sua Riforma è in grado di assicurare indennità per una media di disoccupazione al 15%. In
generale, nelle tabelle relative ai bilanci, Beveridge espone in tutta chiarezza la sostenibilità
economica della riforma.
Le indennità infantili sono un ulteriore condicio sine qua non affinché il piano possa operare
i benefici sperati. Beverdige dà ormai per scontato che nessuno metta più in discussione il
sostegno che deve essere accordato agli adulti che hanno in carico i figli. Non già per
65 W. Beverdige, Il Piano Beveridge, Compendio ufficiale della relazione di Sir William Beveridge
al Governo Britannico, in Alle origini del Welfare State, Il Rapporto su assicurazioni sociali e
servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D. Benassi, E. Mingione, Milano, Franco Angeli, 2013,
pag. 123. 66 D. Benassi, William Beveridge e il piano del 1942: alle origini del Welfare State in Alle origini
del Welfare State, Il Rapporto su assicurazioni sociali e servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D.
Benassi, E. Mingione, Milano, Franco Angeli, 2013, pag. 26. 67 W. Beverdige, Il Piano Beveridge, Compendio ufficiale della relazione di Sir William Beveridge
al Governo Britannico, in Alle origini del Welfare State, Il Rapporto su assicurazioni sociali e
servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D. Benassi, E. Mingione, Milano, Franco Angeli, 2013,
pag. 123.
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
46
deresponsabilizzare il genitore dall’allevare la propria prole, ma per affermare che lo Stato
è pronto ad accettare una nuova fetta di responsabilità nella cura dei nuovi cittadini britannici.
Di fatti, come viene ben spiegato nel testo della Riforma, il costo del mantenimento della
prole deve:
“[…] essere condiviso tra i genitori e la comunità, e questo può ottenersi in due modi: sia
col concedere per ogni figlio un sussidio che sia minore del costo di mantenimento, sia con
l’escludere dal sussidio un figlio in ogni famiglia, ed accordarne invece uno più importante
od a piena quota per ciascuno degli altri figli”68
L’autore postula questa affermazione in relazione al fatto che lui considera adeguato il
salario medio di un padre di famiglia per mantenere due persone (moglie e figlio). Il concetto
di un onere diviso fra Stato ed individuo sembra permeare completamente la sua proposta di
Riforma ed è perfettamente in linea con l’ideologia di Beveridge il quale non nasconde le
forti responsabilità individuali che si hanno nel determinare la propria esistenza. La ragione
dell’importanza dei sussidi infantili, anche in ragione degli ulteriori benefit, la scriverà la
stessa commissione nella premessa della sesta parte del Rapporto:
“[...] è inutile cercare di garantire un reddito sufficiente per la sussistenza mentre il lavoro
è interrotto per disoccupazione od invalidità, se non si provvede ad un reddito sufficiente
anche durante il periodo di lavoro” 69
La commissione rigetta però le integrazioni al salario che i Comuni garantivano nelle riforme
sociali precedenti, causando gravi storture poiché i datori di lavoro scaricavano sul pubblico
l’onere di un salario dignitoso:
“[…] un minimo nazionale per famiglie, qualunque sia il numero dei famigliari, non può
essere ottenuto con un sistema di salari che devono essere basati sulla capacità produttiva
del lavoratore e non sul numero dei suoi famigliari”70
68 W. Beverdige, Il Piano Beveridge, Compendio ufficiale della relazione di Sir William Beveridge
al Governo Britannico, in Alle origini del Welfare State, Il Rapporto su assicurazioni sociali e
servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D. Benassi, E. Mingione, Milano, Franco Angeli, 2013,
pag. 113. 69 Ivi, pag. 111. 70 Ibid.
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
47
Ritornano due concetti: quello della responsabilità individuale e la critica ai precedenti
sistemi di integrazione salariale a cui ho appena accennato. Nel Rapporto, si richiama anche
l’importanza che i sussidi avranno nel favorire un aumento della natalità, poiché renderanno
più facile concepire altra prole senza danneggiare i figli già nati.
Il terzo pilastro su cui si basa la Riforma di Beveridge è un Sistema Sanitario Nazionale
universale. Per i membri della Commissione: <<il recupero della salute è un dovere dello
Stato e dell’ammalato stesso, prima di ogni altra considerazione>>71. Questa citazione, tratta
dal Rapporto, delinea chiaramente l’approccio alla questione dell’assistenza sanitaria da
parte di Beveridge. Come ho già avuto modo di scrivere, l’elemento centrale e innovativo
della Riforma proposta da Beveridge è senza ombra di dubbio l’universalismo dell’accesso
alle cure mediche, destinate sia a chi ha un lavoro che a chi è disoccupato. L’ottica entro la
quale si sviluppa il ragionamento di Beveridge riguardo il Sistema Sanitario Nazionale è
quella di riabilitare il prima possibile l’individuo malato, per renderlo di nuovo operativo
come forza lavoro. E’ un vantaggio anche per i capitalisti, secondo il pensiero Liberale, avere
i lavoratori in salute e in grado di produrre. A questo, secondo Beveridge, deve pensare lo
Stato con il suo intervento:
“[…] un esteso servizio sanitario nazionale assicurerà ad ogni cittadino ogni forma di
assistenza di cui possa aver bisogno, ed in qualsiasi modo gli sia necessaria, fornita da
medici, da specialisti o da consulenti, sia a domicilio sia in appositi istituti, come pure
provvederà apparecchi oftalmici, dentari, o chirurgici, infermieri e levatrici, ed il servizio
di riabilitazione dopo un infortunio”72
Di fianco al Sistema Sanitario Nazionale, Beveridge non esclude che possano coesistere
istituti sanitari di diritto privato, a cui se vorranno i cittadini che hanno i soldi per pagare
potranno accedere.
Ecco disegnato il quadro entro il quale la riforma potrà espandersi e attuare tutti i benefici
che si propone. E’ un quadro che ruota tutto intorno all’eliminazione del “bisogno” e teso
71 W. Beverdige, Il Piano Beveridge, Compendio ufficiale della relazione di Sir William Beveridge
al Governo Britannico, in Alle origini del Welfare State, Il Rapporto su assicurazioni sociali e
servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D. Benassi, E. Mingione, Milano, Franco Angeli, 2013,
pag. 117. 72 Ibid.
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
48
alla riabilitazione lavorativa del cittadino o della cittadina. La situazione di bisogno e
l’intervento dello Stato con i sostegni, devono essere sempre azioni transitorie. La
responsabilità dell’individuo nella ricerca di un lavoro, nel farsi curare e nell’avere cura della
propria prole, sono elementi indispensabili per il Welfare disegnato da Beveridge.
Lo stesso scriverà nel paragrafo 11 del suo Report:
“[…] il benessere collettivo deve essere raggiunto attraverso una stretta cooperazione fra
lo Stato e l’individuo. Lo Stato deve offrire protezione in cambio di servizi e contribuzioni,
e nell’organizzazione di tale protezione lo Stato non deve soffocare né le ambizioni, né le
occasioni, né le responsabilità; stabilendo pertanto un minimo di attività nazionale non deve
però paralizzare le iniziative che portano l’individuo a provvedere più di quel dato minimo,
per se stesso e per la sua famiglia”73
Per l’autore non è solo la povertà a minare lo sviluppo della nazione. Egli elenca gli altri
quattro “giganti” che la Riforma si propone di sconfiggere: l’ignoranza, la malattia, l’ozio e
lo squallore. Per Beveridge, il momento più appropriato per proporre una riforma di ampio
respiro è proprio la ricostruzione, il periodo post-bellico, periodo nel quale le differenze
sociali si sono attenuate, lo spirito nazionale si è ravvivato e nel paese c’è aria di
cambiamento. Citando degli studi condotti qualche anno prima in alcune città inglesi come
Londra, York, Bristol, ecc., l’autore mostra come dall’analisi degli esiti di queste indagini
emerga chiaramente che la povertà è principalmente dovuta alla mancanza di reddito causata
dalla perdita di lavoro. Una porzione più piccola, evidenzia come la causa delle condizioni
di povertà sia da individuare nella sproporzione fra il reddito percepito e il numero dei
famigliari. Appare ora chiaro il perché la Riforma prenda in seria considerazione il sostegno
al reddito delle persone che perdono il lavoro e lo strumento degli assegni famigliari.
Tra i vari principi che sono alla base di questo sistema di assicurazione sociale, ve ne sono
due che ritengo importante evidenziare. Il sistema assicurativo ideato da Beveridge si regge
in base ad una contribuzione che non è progressiva ma uguale per tutti, ricchi e poveri,
73 W. Beverdige, Il Piano Beveridge, Compendio ufficiale della relazione di Sir William Beveridge
al Governo Britannico, in Alle origini del Welfare State, Il Rapporto su assicurazioni sociali e
servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D. Benassi, E. Mingione, Milano, Franco Angeli, 2013,
pag. 48.
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
49
indipendentemente dai mezzi di cui sono provvisti, gli assicurati pagano una quota fissa. A
questa quota fissa di contributo corrisponde una quota fissa di benefici di sussistenza.
Nel rapporto viene poi specificato in cosa consistono questi benefici e vengono, inoltre,
delineati tre tipi di protezione: l’assicurazione sociale, dove si provvede al pagamento in
contanti , che è però condizionato ai contributi obbligatori versati in precedenza; l’assistenza
nazionale, che prevede l’erogazione di contributi monetari, una volta verificata la situazione
di bisogno, indipendentemente dai contributi versati anteriormente; l’assicurazione
volontaria, ovvero forme integrative di previdenza sociale a cui può accedere colui il quale
ritenga che i benefici dello Stato siano insufficienti a garantire il proprio stile di vita.
Il principio alla base del sistema proposto è che tutti i contribuenti paghino un uguale
contributo per un uguale beneficio. Beveridge critica il sistema di progressività dell’imposta
poiché lo ritiene nei fatti una tassa sul reddito per un servizio che l’autore definisce
“speciale”. Un’unica eccezione viene fatta rispetto la contribuzione relativa alle
“occupazioni più rischiose”. E’ previsto nel piano che i datori di lavoro proprietari di aziende
ad alto rischio versino un’imposta <<proporzionata ai rischi incorsi e alle paghe>> 74 .
Saranno esclusi dal versamento contributivo unicamente anziani, minori e disabili. Questi
ultimi, secondo Beveridge, potranno essere gli unici a dipendere a tempo indeterminato dal
sistema di assistenza pubblica. Inoltre, saranno esclusi dal versamento contributivo coloro
che, nel periodo di transizione tra il vecchio e il nuovo sistema, non avranno maturato i
requisiti per richiedere il sussidio ma ormai per età non siano più in grado di lavorare. Quelli
che oggi definiamo gli “esodati”. Nei cinque giganti che Beveridge afferma di voler
sconfiggere trova posto anche l’ozio. Nel solco della tradizione assistenziale inglese, il piano
disegnato ripropone il meccanismo della Less Elegibility. Per evitare che i sostegni
divengano più vantaggiosi del lavorare, il rapporto determina una quota di reddito minimo
in cui ciascun cittadino deve rientrare che è notevolmente disincentivante per chi intende
sopravvivere esclusivamente grazie ai sostegni pubblici. Questo meccanismo trova la sua
radice nella modifica legislativa delle Poor law effettuata nel 1834, la quale prevedeva che
74 W. Beverdige, Il Piano Beveridge, Compendio ufficiale della relazione di Sir William Beveridge
al Governo Britannico, in Alle origini del Welfare State, Il Rapporto su assicurazioni sociali e
servizi assistenziali, Saggi di U.Ascoli, D. Benassi, E. Mingione, Milano, Franco Angeli, 2013,
pag. 93.
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
50
le condizioni di vita all’interno delle workhouses dovessero essere notevolmente peggiori
della condizione di povertà all’esterno della struttura, di modo che questo venisse
considerato un deterrente per richiedere il pubblico sostegno.
In ultimo, ma non per ordine di importanza, viene ipotizzato dal Rapporto la creazione di un
unico dicastero deputato alla protezione sociale. Unificare tutte le competenze in un unico
Ministero, invece di essere spalmate in maniera disomogenea fra tanti uffici, ha prodotto un
notevole balzo qualitativo nell’elargizione dei sostegni sociali. Contribuendo così ad una
migliore organizzazione delle prestazioni, ad una minore sperequazione di trattamento dei
cittadini e a un’ottimizzazione delle risorse impiegate.
Tra luci ed ombre, il rapporto Beveridge in qualche modo rimane ancorato ad una visione
“punitiva” della povertà anche se in misura nettamente inferiore rispetto al passato. Questo
fatto rappresenta di certo un’ombra nella visione dell’autore come d’altronde la mancata
progressività dell’imposta che finanzia il sistema. Di contro, è innegabile il progresso
rivoluzionario prodotto dall’universalismo delle prestazioni sanitarie e dalla visione del
cittadino come portatore anche di diritti sociali ed economici.
La diffusione del Welfare in Europa ha garantito pace sociale, pace fra gli Stati e uno
sviluppo socio-economico senza precedenti nella storia del Vecchio Continente.
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
51
Capitolo 3
Welfare e meritocrazia: modernità o ritorno al passato?
Oggi l’accesso ad alcune prestazioni sociali, come ad esempio le borse di studio, è
subordinato all’acquisizione di specifici “meriti”. Il dibattito su Welfare e meritocrazia,
ovvero sulla possibilità di accedere ad alcune prestazioni sociali previa verifica di alcuni
requisiti di merito, affascina alcuni commentatori e politici in Italia e altrove. Per essere più
precisi, il tipo di welfare cui faccio riferimento è chiamato Modello particolaristico-
meritocratico, in cui lo Stato definisce la politica sociale come uno strumento correttivo del
mercato e dove il grado di benessere cui un soggetto ha diritto dipende dalla sua posizione
nel mercato del lavoro. Il Rapporto Beveridge sembra grandi linee ritrovarsi nella
definizione di modello particolaristico-meritocratico.
Come ho accennato all’inizio, in Italia, l’esempio più chiaro di Welfare meritocratico è
adottato nelle politiche per il Diritto allo studio. Il primo anno il voto di maturità diventa
sempre più determinante per accedere ai benefici, oppure raggiungere un tetto di crediti
annuali serve come requisito per poter mantenere la borsa di studio e così via.
Anche le stesse Università, allo scopo di scoraggiare gli studenti fuori corso, provvedono
all’istituzione di blocchi creditizi per potersi iscrivere di anno in anno oppure emanano
provvedimenti che aumentano le tasse a chi è in ritardo con gli studi. La meritocrazia sembra
aver affascinato il sistema formativo italiano più che altri settori dello Stato.
Definizione di “meritocrazia”
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
52
Il termine “meritocrazia” venne coniato dal sociologo inglese Michael Young e citato per la
prima volta nel suo celebre libro Rise of meritocracy75, pubblicato nel 1958 in Inghilterra e
nel 1961 in Italia dalle celebri Edizioni di comunità, casa editrice fondata da Adriano Olivetti.
La definizione di Meritocrazia che Young offre nella sua opera è abbastanza distante anche
della definizione che oggi, in Italia, l’immaginario collettivo sembra affidarle. Nel libro, per
definire il merito, viene addirittura utilizzata una formula. Il merito è ridotto ad un equazione:
M=Iq+E dove M sta per merito, IQ per quoziente intellettivo e E per sforzo76. Detto ciò con
il termine meritocrazia si intende un sistema di governo in cui, la selezione per l’accesso alle
cariche pubbliche, si effettua attraverso criteri di merito. Oggi invece nel nostro paese questo
termine viene percepito come il contrario di clientelismo o nepotismo, invece che come un
sistema di governo in cui amministra chi è più intelligente e volenteroso.
Ritengo utile, come già fatto con Beveridge, ripercorrere alcune tappe della vita del
sociologo inglese.
Biografia di Michael Young
Michael Young nasce a Manchester il 9 Agosto 1915. Figlio di un violinista e critico
musicale di origini australiane e di una attrice e pittrice di origini irlandesi. Molto piccolo si
trasferisce a Melbourne dove vive fino all’età di otto anni. Quando i genitori divorziano,
torna in Inghilterra e inizia a frequentare diverse scuole. Entra finalmente nella Dartington
Hall, scuola di chiara impostazione progressista ove non erano praticate le punizioni
corporali, non vi era nessuna segregazione dei sessi e latino e greco non erano materie di
studio obbligatorie. Studia alla London School of Economics, quella fondata dai coniugi
Webb77, diviene avvocato e inizia ad esercitare la professione nel 1939.
Si iscrive nel Partito laburista inglese, ottiene alcuni incarichi governativi durante il Governo
Attlee, ma lascia la carriera amministrativa nel 1950. Nel 1952 inizia un dottorato presso la
London School of Economics e approfondisce i temi legati al governo locale e alle
problematiche abitative. Fonda l’“Institute of Community Studies”, che utilizzerà come
75 M. Young, L’avvento della meritocrazia, Edizioni di Comunità, 1961. 76 F. Raciti, L’Imbroglio della meritocrazia, Città di castello (PG), Editori riuniti, 2013, pag. 11. 77 Cfr. Pag. 28.
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
53
veicolo principale per esplorare le sue idee di riforma sociale. Il suo obiettivo principale era
quello di fornire ai cittadini maggior voce in capitolo nella determinazione delle politiche
che li riguardavano.
In quegli stessi anni è coautore, insieme a Peter Willmott (1923 – 2000), di diverse ricerche
sociali. Nel 1958, scrive e pubblica il celebre romanzo distopico: “Rise of meritocracy”, è
interessante notare che la pubblicazione del romanzo viene proposta in principio alla Fabian
society78 che però, stranamente, si rifiuta di pubblicarlo.
Successivamente si dedica a svariate ricerche sociali sull’istruzione che producono, tra il
1965 e 1976, diverse riforme istituzionali riguardo il sistema scolastico inglese.
Negli anni cinquanta e sessanta aiuta a fondare diverse associazioni e istituzioni fra cui:
l’Associazione dei Consumatori e diverse libere Università. Fondò anche una Language Line,
allo scopo di aiutare chi aveva difficoltà con la lingua inglese nell’accesso ai servizi pubblici.
Durante l’ultimo periodo della sua vita Young si concentra particolarmente nell’aiutare le
persone anziane. E’ co-fondatore dell’Università della Terza Età, nella quale riunisce e
favorisce lo scambio di informazioni e conoscenze fra persone anziane senza nipoti e giovani
senza nonni.
Nel 1978, gli viene affidato il titolo di Baron Young of Dartington.
Estremamente deluso dall’accezione positiva che la parola meritocrazia assume nel dibattito
politico, il 29 giugno 2001, pubblica una lettera sul quotidiano The Guardian indirizzata al
Primo Ministro di allora Tony Blair, nella quale lo rimprovera per l’utilizzo del termine che
lo stesso sta compiendo. A scanso di equivoci e per rendere chiaro il pensiero di Young a
proposito del modello di Governo da lui stesso ideato nel suo libro distopico, pubblico
l’intera lettera.
“I have been sadly disappointed by my 1958 book, The Rise of the Meritocracy. I coined a
word which has gone into general circulation, especially in the United States, and most
recently found a prominent place in the speeches of Mr Blair. The book was a satire meant
to be a warning (which needless to say has not been heeded) against what might happen to
78 Cfr. Pag 26.
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
54
Britain between 1958 and the imagined final revolt against the meritocracy in 2033. Much
that was predicted has already come about. It is highly unlikely the prime minister has read
the book, but he has caught on to the word without realising the dangers of what he is
advocating. Underpinning my argument was a non-controversial historical analysis of what
had been happening to society for more than a century before 1958, and most emphatically
since the 1870s, when schooling was made compulsory and competitive entry to the civil
service became the rule. Until that time status was generally ascribed by birth. But
irrespective of people's birth, status has gradually become more achievable.
It is good sense to appoint individual people to jobs on their merit. It is the opposite when
those who are judged to have merit of a particular kind harden into a new social class
without room in it for others. Ability of a conventional kind, which used to be distributed
between the classes more or less at random, has become much more highly concentrated by
the engine of education. A social revolution has been accomplished by harnessing schools
and universities to the task of sieving people according to education's narrow band of values.
With an amazing battery of certificates and degrees at its disposal, education has put its seal
of approval on a minority, and its seal of disapproval on the many who fail to shine from the
time they are relegated to the bottom streams at the age of seven or before. The new class
has the means at hand, and largely under its control, by which it reproduces itself. The more
controversial prediction and the warning followed from the historical analysis. I expected
that the poor and the disadvantaged would be done down, and in fact they have been. If
branded at school they are more vulnerable for later unemployment. They can easily become
demoralised by being looked down on so woundingly by people who have done well for
themselves. It is hard indeed in a society that makes so much of merit to be judged as having
none. No underclass has ever been left as morally naked as that. They have been deprived
by educational selection of many of those who would have been their natural leaders, the
able spokesmen and spokeswomen from the working class who continued to identify with the
class from which they came. Their leaders were a standing opposition to the rich and the
powerful in the never-ending competition in parliament and industry between the haves and
the have-nots. With the coming of the meritocracy, the now leaderless masses were partially
disfranchised; as time has gone by, more and more of them have been disengaged, and
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
55
disaffected to the extent of not even bothering to vote. They no longer have their own people
to represent them. To make the point it is worth comparing the Attlee and Blair cabinets.
The two most influential members of the 1945 cabinet were Ernest Bevin, acclaimed as
foreign secretary, and Herbert Morrison, acclaimed as lord president of the council and
deputy prime minister. Bevin left school at 11 to take a job as a farm boy, and was
subsequently a kitchen boy, a grocer's errand boy, a van boy, a tram conductor and a
drayman before, at the age of 29, he became active locally in Bristol in the Dock Wharf,
Riverside and General Labourers' union.
Herbert Morrison was in many ways an even more significant figure, whose rise to
prominence was not so much through the unions as through local government. His first job
was also as an errand boy and assistant in a grocer's shop, from which he moved on to be a
junior shop assistant and an early switchboard operator. He later became so influential as
leader of the London county council partly because of his previous success as minister of
transport in the 1929 Labour government. He triumphed in the way Livingstone and Kiley
hope to do now, by bringing all London's fragmented tube service, buses and trams under
one unified management and ownership in his London passenger transport board. It made
London's public transport the best in the world for another 30-40 years and the LPTB was
also the model for all the nationalised industries after 1945. Quite a few other members of
the Attlee cabinet, like Bevan and Griffiths (miners both), had similar lowly origins and so
were also a source of pride for many ordinary people who could identify with them.
It is a sharp contrast with the Blair cabinet, largely filled as it is with members of the
meritocracy.
In the new social environment, the rich and the powerful have been doing mighty well for
themselves. They have been freed from the old kinds of criticism from people who had to be
listened to. This once helped keep them in check - it has been the opposite under the Blair
government. The business meritocracy is in vogue. If meritocrats believe, as more and more
of them are encouraged to, that their advancement comes from their own merits, they can
feel they deserve whatever they can get. They can be insufferably smug, much more so than
the people who knew they had achieved advancement not on their own merit but because
they were, as somebody's son or daughter, the beneficiaries of nepotism. The newcomers can
ROBERTO ETTORRE, Welfare e lotta alla povertà
56
actually believe they have morality on their side. So assured have the elite become that there
is almost no block on the rewards they arrogate to themselves. The old restraints of the
business world have been lifted and, as the book also predicted, all manner of new ways for
people to feather their own nests have been invented and exploited. Salaries and fees have
shot up. Generous share option schemes have proliferated. Top bonuses and golden
handshakes have multiplied.
As a result, general inequality has been becoming more grievous with every year that passes,
and without a bleat from the leaders of the party who once spoke up so trenchantly and
characteristically for greater equality. Can anything be done about this more polarised
meritocratic society? It would help if Mr Blair would drop the word from his public
vocabulary, or at least admit to the downside. It would help still more if he and Mr Brown
would mark their distance from the new meritocracy by increasing income taxes on the rich,
and also by reviving more powerful local government as a way of involving local people and
giving them a training for national politics. There was also a prediction in the book that
wholesale educational selection would be reintroduced, going further even than what we
have already. My imaginary author, an ardent apostle of meritocracy, said shortly before
the revolution, that "No longer is it so necessary to debase standards by attempting to extend
a higher civilisation to the children of the lower classes". At least the fullness of that can
still be avoided. I hope.”79
79 M. Young, Down with meritocracy, The Guardian, 29 giugno 2001, in
http://www.theguardian.com/politics/2001/jun/29/comment Sono stato amaramente deluso dal mio
libro del 1958 The Rise of Meritocracy. Ho coniato una parola che è entrata nel linguaggio corrente,
in particolare negli Stati Uniti, e che più recentemente ha trovato un posto privilegiato nei discorsi di
Mr. Blair. Il libro era una satira che intendeva lanciare un allarme (che, non c’è bisogno di dirlo, non
è stato ascoltato) contro quello che sarebbe potuto accadere in Inghilterra tra il 1958 e la immaginata
rivolta finale contro la meritocrazia del 2033. Molto di quello che è stato predetto è già successo. E’
molto improbabile che il Primo Ministro abbia letto il libro, infatti ha colto il termine senza
comprendere i pericoli di ciò che stava promuovendo. Ad avvalorare il mio argomento era un’analisi
storica non controversa su ciò che era accaduto alla società per più di un secolo, prima del 1958, e
con più forza dal 1870, quando l’istruzione scolastica è stata resa obbligatoria e la competizione per
l’accesso nell’amministrazione dello Stato è diventata la regola. Fino a quel momento lo status
sociale era generalmente assegnato dalla nascita. Ma a prescindere dalla condizione di nascita delle
persone, un buono status è diventato gradualmente più raggiungibile. E’ di buon senso assumere le
singole persone sulla base del loro merito. Diventa l’opposto di quando quelli che considerano di
“La più accanita protestava che non aveva mai cercato e mai avuto notizie sulle famiglie
dei ragazzi: <<Se un compito è da quattro io gli do quattro>>. E non capiva, poveretta,
che era proprio di questo che era accusata. Perché non c’è nulla che sia ingiusto quanto far
le parti uguali fra diseguali”85
Daniele Cecchi, docente di Economia politica all’Università degli studi di Milano, ha
dedicato nel 2008 una ricerca sul tema. Ha studiato un campione di studenti lombardi di una
terza media. Quello che è emerso è che: <<il destino scolastico futuro degli alunni viene
progressivamente segnato dalle origini sociali, delle quali non portano alcuna
responsabilità>>. Lo studioso è andato anche oltre, affermando che anche gli insegnanti si
fanno influenzare dalla classe di appartenenza del bambino. Dai risultati della sua ricerca
emerge inoltre che: << il figlio di un genitore laureato ha una probabilità nulla di ricevere
un orientamento verso la formazione professionale e molto raramente (meno del 10%) una
indicazione di un istituto di formazione professionale. È invece possibile l’opposto: il figlio
di genitori analfabeti (che sono meno del 2% del campione) ha una probabilità su cinque di
ricevere l’indicazione di un liceo>>86.
Proseguire nel legare gli strumenti di Welfare per il sostegno al Diritto allo studio a criteri
meritocratici, non farà che aumentare le disparità sociali e diminuire la mobilità sociale del
paese. Don Milani e i ragazzi della Scuola di Barbiana rimproverando un’ipotetica
professoressa dalla bocciatura facile, scrivono un pezzo memorabile:
“Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. Ma Dio
non fa questi dispetti ai poveri. E’ più facile che i dispettosi siate voi”87
Per queste motivazioni che ho esposto, affermo che il vero Welfare, inteso come strumento
di emancipazione sociale, non dovrebbe guardare all’uguaglianza delle opportunità (cosa
che come abbiamo visto è assai difficile, se non impossibile) ma guardare all’uguaglianza
85 Scuola di Barbiana, Lettera ad una Professoressa, Pisa,Libreria Editrice Fiorentina, pag 55. 86 S. Favasulli, In terza media è il ceto a decidere che superiori farai, Linkinkiesta in
http://www.linkiesta.it/come-scegliere-la-scuola-superiore 87 Scuola di Barbiana, Lettera ad una Professoressa, Pisa, Libreria Editrice Fiorentina, pag 60.