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collana diretta da Giorgio Agamben NERI POZZA la quarta prosa
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Agamben, Giorgio - Altissima Poverta

Dec 15, 2015

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Susana Scramim

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collana diretta daGiorgio Agamben

NERI POZZAla quarta prosa

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Giorgio Agamben

Altissima povertàRegole monastiche e forma di vita

NERI POZZA EDITORE

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Indice

Prefazione

. Regola e vitaSoglia

. Liturgia e regolaSoglia

. Forma-di-vitaSoglia

Bibliografi a

Indice dei nomi

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Prefazione

Oggetto di questa ricerca è il tentativo – indagato nel caso esemplare del monachesimo – di costruire una forma-di-vita, cioè una vita che si lega così strettamente alla sua forma, da risultarne inseparabile. È in questa prospettiva che la ricerca si confronta innanzitutto col problema del rapporto fra regola e vita, che defi nisce il dispositivo attraverso il quale i monaci provarono a realizzare il loro ideale di una forma di vita comune. Si trattava non tanto – o non solo – di investigare l’ardua congerie di puntigliosi precetti e di tecniche ascetiche, di chiostri e horologia, di tentazioni solitarie e di litur-gie corali, di esortazioni fraterne e di punizioni feroci attraverso cui il cenobio si costituisce, in vista della sal-vezza dal peccato e dal mondo, come una « vita regola-re », quanto piuttosto di comprendere innanzitutto la dialettica che viene così a istaurarsi fra i due termini « regola » e « vita ». Questa dialettica è, infatti, così fi t-ta e complessa, che, agli occhi degli studiosi moderni, essa sembra risolversi a volte in una perfetta identità: vita vel regula, secondo l’esordio della Regola dei Padri o, nelle parole della Regula non bullata di Francesco, haec est regula et vita fratrum minorum… Si è preferito qui, tuttavia, lasciare al vel e all’et tutta la loro ambiguità se-mantica, per guardare piuttosto al cenobio come a un campo di forze percorso da due intensità contrappo-

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ste e, insieme, intrecciate, nella cui reciproca tensione qualcosa di inaudito e di nuovo, cioè una forma-di-vita, si è ostinatamente avvicinato alla propria realizzazione e l’ha, altrettanto ostinatamente, mancata. La grande novità del monachesimo non è la confusione di vita e norma né una nuova declinazione del rapporto di fatto e diritto, bensì l’identifi cazione di un piano di consi-stenza, impensato e forse ancora oggi impensabile, che i sintagmi vita vel regula, regula et vita, forma vivendi, forma vitae cercano faticosamente di nominare, e in cui tanto la « regola » che la « vita » perdono il loro signifi ca-to familiare per far segno in direzione di un terzo che si tratta appunto di portare alla luce.

Nel corso della ricerca, tuttavia, ciò che è apparso far ostacolo all’emergenza e alla comprensione di que-sto terzo non è tanto l’insistenza su dispositivi che ai moderni possono apparire giuridici, come il voto e la professione, quanto piuttosto un fenomeno assoluta-mente centrale nella storia della Chiesa quanto opaco per i moderni, cioè la liturgia. La grande tentazione dei monaci non è stata quella che la pittura del Quattrocen-to ha fi ssato nelle seminude fi gure femminili e nei mo-stri informi che assillano Antonio nel suo eremitaggio, ma la volontà di costruire la loro vita come una liturgia integrale e incessante. Per questo la ricerca, che si pro-poneva all’inizio di defi nire, attraverso l’analisi del mo-nachesimo, la forma-di-vita, ha dovuto misurarsi con il compito, per nulla scontato e, almeno in apparenza, fuorviante ed estraneo, di un’archeologia dell’uffi cio (i cui risultati si pubblicano, contemporaneamente a que-sta ricerca, in un volume separato col titolo Opus Dei. Archeologia dell’u! cio).

Solo una defi nizione preliminare del paradigma ontologico e pratico a un tempo, intessuto insieme di

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essere e di agire, di divino e di umano, che la Chiesa non ha cessato di modellare e di articolare nel corso della sua storia, dalle prime, incerte prescrizioni delle Costi-tuzioni apostoliche fi no alla minuziosa architettura del Rationale divinorum o! ciorum di Guglielmo di Mende (sec. ) e alla calcolata sobrietà dell’enciclica Mediator Dei (), poteva infatti permettere di comprendere l’esperienza, insieme vicinissima e remota, che era in questione nella forma-di-vita.

Se la comprensione della forma di vita monastica poteva avvenire soltanto in un assiduo contrappunto al paradigma liturgico, l’esperimento forse cruciale della ricerca non poteva, tuttavia, che situarsi nell’analisi dei movimenti spirituali dei secoli e , che culmina-no nel francescanesimo. In quanto situano la loro espe-rienza centrale non più sul piano della dottrina e della legge, ma su quello della vita, essi si presentano in que-sta prospettiva come il momento in ogni senso decisivo nella storia del monachesimo, in cui la sua forza e la sua debolezza, i suoi successi come i suoi fallimenti raggiun-gono la loro tensione estrema.

Il libro si chiude, pertanto, su una interpretazio-ne del messaggio di Francesco e dei teorici francescani della povertà e dell’uso che, da una parte, una precoce leggenda e una sterminata letteratura agiografi ca hanno ricoperto con la maschera troppo umana del pazzus e del giullare o con quella, non più umana, di un nuovo Cristo, e, dall’altra, un’esegesi attenta più ai fatti che alle loro implicazioni teoriche ha rinchiuso nei confi ni disciplinari della storia del diritto e della Chiesa. In un caso come nell’altro, ciò che restava indelibato era il la-scito forse più prezioso del francescanesimo, con il quale sempre di nuovo l’Occidente dovrà tornare a misurar-si come al suo compito indiff eribile: come pensare una

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forma-di-vita, cioè una vita umana del tutto sottratta alla presa del diritto e un uso dei corpi e del mondo che non si sostanzi mai in un’appropriazione.

Un tale compito esigerà l’elaborazione di una teo-ria dell’uso, di cui mancano nella fi losofi a occidentale anche i principi più elementari, e, a partire da essa, una critica di quell’ontologia operativa e governamentale, che, sotto i travestimenti più svariati, continua a deter-minare i destini della specie umana. Esso resta riservato all’ultimo volume di Homo sacer.

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. Regola e vita

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. Nascita della regola

.. Tra il e il secolo dell’era cristiana si assiste alla nascita di una particolare letteratura che, almeno a prima vista, non sembra aver precedenti nel mondo classico: le regole monastiche. L’insieme dei testi che la tradizione classifi ca sotto questa rubrica è, almeno per quanto concerne la forma e la presentazione, così etero-geneo, che l’incipit dei manoscritti non può che com-pendiarli sotto i titoli più diversi: vitae, vita vel regula, regula, horoi kata platos, peri t"s ask"se#s t#n makari#n pater#n, instituta coenobiorum, praecepta, praecepta atque instituta, statuta patrum, ordo monasterii, historiae mo-nachorum, ask"tikai diataxeis… Ma anche se ci si attiene a una concezione più stretta del termine, qual è quella sottesa al Codex regularum, in cui Benedetto di Aniane all’inizio del secolo raccoglie circa venticinque rego-le antiche, la diversità dei testi non potrebbe essere più grande. E non solo quanto alle dimensioni (dalle quasi trecento pagine della Regula magistri ai pochi fogli della regola di Agostino o della seconda Regola dei Padri), ma quanto alla presentazione (domande e risposte – erota-pokriseis – fra monaci e maestro in Basilio, collezione impersonale di precetti in Pacomio, processo verbale di una riunione di Padri nella Regola dei quattro Padri) e, soprattutto, al contenuto, che varia da questioni riguar-danti l’interpretazione delle scritture o l’edifi cazione spi-

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rituale dei monaci, all’enunciazione secca o minuziosa di precetti e divieti. Non si tratta, almeno a prima vista, di opere giuridiche, sebbene pretendano di regolare, spesso nei minimi dettagli e attraverso precise sanzioni, la vita di un gruppo di individui; non sono narrazioni storiche, sebbene a volte sembrino semplicemente trascrivere il modo di vita e le consuetudini dei membri di una co-munità; non sono agiografi e, sebbene si confondano a volte a tal punto con la vita del santo o dei padri fonda-tori, da presentarsi come la sua registrazione in forma di exemplum o forma vitae (in questo senso, Gregorio Na-zianzeno poteva aff ermare che la vita di Antonio scrit-ta da Atanasio era « una legislazione (nomothesia) della vita monacale in forma narrativa (en plasmati di"g"se#s) » (G N, p. ). Benché il loro scopo ultimo sia senza dubbio la salvezza dell’anima secondo i precetti del Vangelo e la celebrazione dell’uffi cio divino, le regole non appartengono alla letteratura e alla pratica ecclesiastica, da cui prendono, senza polemica ma fer-mamente, le distanze. Non sono, infi ne, hypomneumata o esercizi di etica, come quelli che Michel Foucault ha analizzato alla fi ne del mondo antico: e, tuttavia, la loro preoccupazione centrale è proprio quella di governare la vita e i costumi degli uomini, tanto singolarmente che collettivamente.

La presente ricerca intende mostrare come, in que-sti testi, insieme disparati e monotoni, la cui lettura ri-sulta così disagevole al lettore moderno, si compia, in misura probabilmente più decisiva che nei testi giuri-dici, etici, ecclesiastici o storici della stessa epoca, una trasformazione che investe tanto il diritto che l’etica e la politica e implica una riformulazione radicale della stessa concettualità che articolava fi no a quel momen-to la relazione fra l’azione umana e la norma, la « vita »

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e la « regola », senza la quale la razionalità politica ed etico-giuridica della modernità non sarebbe pensabile. In questo senso, i sintagmi vita vel regula, regula et vita, regula vitae non sono una semplice endiadi, ma defi -niscono, nella presente ricerca, un campo di tensioni storiche ed ermeneutiche, che esige un ripensamento di entrambi i concetti. Che cos’è una regola, se essa sem-bra confondersi senza residui con la vita ? E che cos’è una vita umana, se essa non può più essere distinta dalla regola?

.. La comprensione perfetta di un fenomeno è la sua parodia. Nel , alla fi ne della Vie très horrifi que du grand Gargantua, Rabelais racconta come Gargan-tua, per ricompensare il monaco con cui ha condiviso le sue poco edifi canti imprese, faccia costruire per lui un’abbazia che sarà chiamata D élème. Dopo aver de-scritto nei particolari la struttura architettonica dell’edi-fi cio (en fi gure exagone, en telle façon que à chascun angle estoit bastie une grosse tour – R, p. ), la disposi-zione degli alloggi, la foggia del vestito dei D elemiti e la loro età, Rabelais spiega comment estoient reigléz leur manière de vivre, in una forma che non è, secondo ogni evidenza, che la parodia di una regola monastica. Come in ogni parodia, si assiste a un’inversione puntuale del cursus monastico, scrupolosamente scandito dal ritmo degli horologia e delle uffi ciature, in quella che, alme-no a prima vista, sembra essere un’assoluta mancanza di regole:

Et parce que ès religions de ce monde, tout est com-passé, limité et reiglé par heures, feut decrété que là ne seroit horologe ny quadrant aulcun, mais selon les occa-sions et opportunitéz seroient toutes les oeuvres dispen-

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sées; car (disoit Gargantua) la plus vraye perte du temps qu’il sceust estoit de compter les heures – quel bien en vient-il? – et la plus grande resverie du monde estoit soy gouverner au son d’une cloche, et non au dicté de bon sens et entendement (ibid., p. ).

Toute leur vie estoit employée non par loix ou reigles, mais selon leur vouloir et franc arbitre. Se levoient du lict quand bon leur sembloit, beuvoient, mangeoient, travailloient, dormoient quand le désir leur venoit; nul le esveilloit, nul ne les parforceoit ny à boire ny à man-ger ny à faire chose aultre quelconque. Ainsi l’avoit es-tably Gargantua. En leur reigle n’estoit que ceste clause: (ibid., p. ).

È stato detto che « D élème è l’antimonastero » (F, p. ); e, tuttavia, a ben guardare, non si trat-ta semplicemente di un’inversione dell’ordine in disor-dine e della regola in anomia: anche se contratta in una sola frase, una regola esiste e ha un autore (ainsi l’avoit estably Gargantua) e il fi ne che essa si propone è, mal-grado la puntuale dimissione di ogni obbligo e l’incon-dizionata libertà di ciascuno, perfettamente omogeneo a quello delle regole monastiche: il « cenobio » (koinos bios, la vita comune), la perfezione di una vita in tutto e per tutto comune (unianimes in domo cum iocunditate habitare, secondo recita una regola antica):

Par ceste liberté entrèrent en louable émulation de faire tous ce que à un seul voyoient plaire. Si quelqu’un ou quelcune disoit: « beuvons », tous beuvoient; si disoit: « jouons », tous jouoient; si disoit: « Allons à l’esbat ès champs », tous y alloient (R, p. ).

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La formulazione abbreviata della regola non è, del resto, un’invenzione di Rabelais, ma risale all’autore di una delle prime regole monastiche, e, cioè, ad Agostino, che, nel commento alla prima epistola di Giovanni (, , ), aveva compendiato il precetto della vita cri-stiana nella clausola genuinamente gargantuesca: dilige et quod vis fac, ama e fa’ quello che vuoi. Essa corrispon-de, inoltre, puntualmente al modo di vita di quei mona-ci che, secondo una tradizione inaugurata da Cassiano, venivano denominati spregiativamente « sarabaiti » e la cui sola regola era il capriccio e il desiderio (pro lege eis est desideriorum voluntas). La parodia rabelaisiana, in apparenza buff a, è, dunque, così seria, che si è potuto comparare l’episodio di D élème alla fondazione fran-cescana di un ordine di nuovo genere (G, pp. -): la vita comune, identifi candosi senza residui con la regola, la abolisce e cancella.

.. Nel , nella sua cella nella prigione della Ba-stiglia, Donatien Alphonse de Sade scrive in soli venti giorni, riempiendo con una calligrafi a microgramma-tica un rotolo di carta lungo dodici metri, quello che molti considerano il suo capolavoro: Les $%& journées de Sodome. La cornice della narrazione è nota: il novem-bre di una data imprecisata alla fi ne del regno di Luigi , quattro potenti e ricchi scellerati, il duca di Blangis, il vescovo suo fratello, il presidente de Curval e il fi nan-ziere Durcet, si chiudono con quarantadue vittime nel castello di Silling per celebrarvi un’orgia senza limiti e, tuttavia, perfettamente e ossessivamente regolata. An-che qui il modello è inequivocabilmente la regola mo-nastica; ma mentre, in Rabelais, il paradigma è evocato direttamente (D élème è un’abbazia) per essere puntual-mente negato o rovesciato (niente orologi, niente divi-

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sione dei tempi, nessun comportamento obbligato), a Silling, che è un castello e non un’abbazia, il tempo è scandito secondo una meticolosa ritualità che ricorda l’indefettibile ordo dell’uffi cio monastico. Subito dopo essersi chiusi (anzi murati) nel castello, i quattro amici scrivono e promulgano i règlements che dovranno gover-nare la loro nuova vita comune. Non soltanto, come nei conventi, ogni momento del « cenobio » è prefi ssato, i ritmi della veglia e del sonno sanciti, i pasti e le « celebra-zioni » collettive rigidamente programmati, ma persino la defecazione dei ragazzi e delle ragazze è oggetto di una regolazione minuziosa. On se lèvera toujours à dix heures du matin, esordisce la regola, parodiando la scansione delle ore canoniche, à onze heures les amies se rendront dans l’appartement des jeune fi lles… de deux à trois heures on servira les deux premières tables… en sortant du souper, on passera dans le salon d’assemblée (è la synaxis o collecta o conventus fratrum della terminologia monastica) pour la célébration (lo stesso termine che nelle regole designa gli uffi ci divini) de ce qu’on appelle les orgies…

Alla lectio delle sacre Scritture (o, come nella Regu-la magistri, dello stesso testo della regola) che nei con-venti accompagna i pasti e le occupazioni quotidiane dei monaci, corrisponde qui la narrazione rituale che le quattro historiennes, la Duclos, la Champville, la Mar-taine e la Desgranges, fanno della loro vita depravata. All’obbedienza senza limiti e fi no alla morte dei monaci all’abbate e ai prepositi (oboedientia praeceptum est re-gulae usque ad mortem – Regula monachorum, , , ), corrisponde l’assoluta docilità delle vittime ai de-sideri dei padroni fi no all’estremo supplizio (le moindre rire, ou le moindre manque d’attention ou respect ou de soumission dans les parties de débauche sera une des fautes les plus graves et les plus cruellement punies; nello stesso

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senso, le regole monastiche puniscono il riso durante le riunioni: Si vero aliquis depraehensus fuerit in risu… iubemus… omni fl agello humilitatis coherceri (V , , pp. -).

Anche qui, come a D élème, l’ideale cenobitico è, dunque, parodicamente mantenuto (anzi, esasperato); ma mentre, nell’abbazia, la vita, facendo del piacere la propria regola, fi niva con l’abolirla, a Silling la legge, identifi candosi in ogni punto con la vita, non può che distruggerla. E mentre il cenobio monastico è concepito per durare senza limiti, qui, dopo solo cinque mesi, i quattro scellerati, che hanno sacrifi cato la vita dei loro oggetti di piacere, abbandonano frettolosamente il ca-stello ormai semivuoto per tornare a Parigi.

.. Che l’ideale monastico, nato come fuga in-dividuale e solitaria dal mondo, abbia dato vita a un modello di vita comunitaria integrale, può apparire sorprendente. Eppure, non appena Pacomio mette ri-solutamente da parte il modello anacoretico, il termine monasterium equivale nell’uso a cenobio e l’etimologia che rimanda alla vita solitaria è a tal punto rimossa, che, nella Regola del maestro, monasteriale può essere propo-sto come traduzione di cenobita, ed è glossato militans sub regula vel abbate (V , , p. ). Già la regola di Basilio mette in guardia contro i pericoli e l’egoismo della vita solitaria, che « contraddice apertamente la leg-ge della carità (machomenon t#i t"s agap"s nom#i) » (B-, Regulae fusius tractatae, , , ). « Se separiamo la vita » aggiunge Basilio « non potremo né gioire con chi è glorifi cato, né compatire con chi patisce, poiché ci sarà impossibile conoscere lo stato del prossimo » (ibid.). Nella comunità di vita (en t"i t"s z#"s koinoniai), invece, il dono di ciascuno diventa comune a quelli che vivono

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insieme con lui (sympoliteuomen#n) e l’attività (energeia) dello Spirito santo in ciascuno si comunica a tutti gli altri (ibid., ). Al contrario, « chi vive da solo, anche se può eventualmente avere un carisma, lo rende inutile per via dell’inoperosità (dia t"s argias) ed è come se lo seppellisse dentro di sé (katoryxas en eaut#i) » (ibid.). Se, nella Regola dei quattro Padri, a sconsigliare la solitudine sono invocati all’inizio « la desolazione dell’eremo e il terrore dei mostri », subito dopo il cenobio è fondato, attraverso rimandi scritturali, nella letizia e nell’unani-mità della vita comune: volumus ergo fratres unianimes in domo cum iocunditate habitare (V , , p. ). La sospensione temporanea dalla vita comune (excommu-nicatio – ibid., p. ) è la pena per eccellenza, mentre l’uscita dal monastero (ex communione discedere) equiva-le, nella Regula Macharii, a scegliere le tenebre infernali (in exteriores ibunt tenebras – ibid., p. ). Ancora in Teodoro Studita, il cenobio è paragonato a un paradiso (paradeisos t"s koinobiak"s z#"s) e l’uscita da esso equivale al peccato di Adamo. « Figlio mio » egli ammonisce un monaco che vuole ritirarsi a vita solitaria, « in che modo Satana arcimaligno ti ha scacciato dal paradiso della vita comune, proprio come Adamo sedotto dal consiglio del serpente? » (Ep. , , , ).

Il tema della vita comune aveva il suo paradigma negli Atti, dove la vita degli apostoli e di coloro che « perseveravano nel loro insegnamento » è descritta in termini di « unanimità » e di comunismo: « Tutti i cre-denti erano nello stesso (luogo) e avevano tutte le cose in comune… ogni giorno perseverando unanimamente (homothymadon) nel tempio, spezzavano il pane in casa e condividevano il cibo con gioia e semplicità di cuore » (Act., , -); « la moltitudine dei credenti aveva un solo cuore e una sola anima; nessuno chiamava proprio

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ciò che aveva, ma tutto era fra loro comune » (ibid., , ). È in riferimento a questo ideale, che Agostino nella sua regola defi nisce come primo scopo della vita mona-stica « l’abitare unanimi nella stessa casa, con una sola anima e un solo cuore in Dio » (primum propter quod in unum estis congregati, ut unanimes habitetis in domo et sit vobis anima una et cor unum in Deo – A, Regula ad servos dei, , , ). E Girolamo, che nel traduce da una versione greca la regola di Pacomio, in un’epistola si riferisce espressamente al termine copto che, nell’originale, defi niva coloro che vivono in comu-nità: coenobitae, quod illi « sauses » gentili lingua vocant, nos « in commune viventes » possumus appellare (Ep. , , , , ).

Almeno fi no al rinnovamento monastico del secolo , che vede riaccendersi con Romualdo e Pier Damia-ni la « tensione fra cenobio e eremo » (C, p. ), il primato della vita comunitaria su quella eremitica è una tendenza costante, che culmina nella decisione del Concilio di Toledo (), secondo la quale, con un’evi-dente inversione del processo storico che aveva portato dall’anacoresi al convento, nessuno può essere ammes-so alla vita eremitica, se prima non è passato attraverso quella cenobiale. Il progetto cenobitico è defi nito alla lettera dal koinos bios, dalla vita comune da cui trae il nome e senza di questa non può essere in alcun modo compreso.

ē L’idea di una « vita comune » sembra avere un ovvio signifi cato politico. Nella Politica, Aristotele, che defi nisce la città come una « comunità perfetta » (koinonia teleios – b ) e si serve del termine syz"n, « vivere insieme » per defi nire la natura politica degli uomini (« essi desiderano vi-vere insieme » – b ), non parla, però, mai di un koinos

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bios. La polis nasce, certo, in vista del vivere (tou z"n eneka – b ), ma la sua ragion d’essere è il « vivere bene » (to eu z"n – ibid.). Nell’introduzione alle Istituzioni cenobiti-che, Cassiano menziona come scopo del suo libro, accanto all’« emendazione dei costumi », anche la esposizione della « vita perfetta » (C , p. ). Il monastero, come la po-lis, è una comunità che si propone di realizzare la « perfezione della vita cenobiale » (perfectionem… coenobialis vitae – ibid., p. ). Nelle Conlationes, Cassiano distingue, pertanto, il monastero dal cenobio, perché monastero « è solo il nome di un luogo, cioè dell’abitacolo dei monaci, mentre cenobio signifi ca anche la qualità e la disciplina della stessa profes-sione. Monasterio può anche signifi care l’abitazione di un solo monaco, cenobio designa soltanto la comunione unita di molti che vivono insieme » (plurimorum cohabitantium… unita communio – C , p. ). Il cenobio non nomi-na soltanto un luogo, ma innanzitutto una forma di vita.

.. È a partire da questa tensione fra privato e co-mune, fra eremo e cenobio, che sembra essere stata ela-borata la curiosa articolazione tripartita o quadripartita dei genera monachorum, che si trova in Girolamo (Ep. ), Cassiano (Conlationes, , -), nella lunga digres-sione all’inizio della Regola del maestro, in Benedetto, e, in forme diverse, in Isidoro, Giovanni Climaco, Pier Damiani e Abelardo fi no ai testi dei canonisti. Il senso di questa articolazione, che, dopo aver distinto i cenobi-ti, in commune viventes, dagli anacoreti, qui soli habitant per desertum, oppone ad essi, come genere « detestabile e immondo », i sarabaiti (e, nella variante quadripartita, che diventa canonica a partire dalla Regola del maestro e dalla regola benedettina, i girovaghi), si chiarisce, tut-tavia, solo se si comprende che in questione non è tan-to l’opposizione fra solitudine e vita comune, quanto

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quella, per così dire « politica », fra ordine e disordine, governo e anarchia, stabilità e nomadismo. Già in Gi-rolamo e in Cassiano il « terzo genere » (qualifi cato di teterrimum, deterrimum ac infi dele) si defi nisce attraver-so il fatto che essi « vivono insieme in due o tre, a loro arbitrio e comando (suo arbitratu ac ditione) » e « non sopportano di essere governati dalla cura e dal potere dell’abbate (abbatis cura atque imperio gubernari) ». « Per loro » ribadisce la Regola del maestro, « l’arbitrio dei de-sideri tiene luogo di legge » (pro lege eis est desideriorum voluntas – V , , p. ); essi vivono « senza esse-re stati messi alla prova da alcuna regola » (nulla regula adprobati – P, p. ).

In questo « luogo comune dell’omiletica monasti-ca » (P, p. ) che è la quadripartizione dei genera monachorum, si tratta, cioè, di opporre ogni volta una comunità ben governata all’anomia, un paradigma po-litico positivo a uno negativo. In questo senso, la classi-fi cazione non è aff atto, com’è stato suggerito (C, p. ) priva di logica; piuttosto, com’è evidente nella variante isidoriana, in cui i generi diventano sei, ogni gruppo ha il suo doppio o la sua ombra negativa, in modo che essi si dispongono puntualmente secondo un’opposizione binaria (tria optima, reliqua vero teter-rima – I, De ecclesiasticis o! ciis, , , , , -). In un’illustrazione della Regola di Benedet-to, conservata nella biblioteca comunale di Mantova, il miniaturista oppone icasticamente i due paradigmi: ai cenobiti, esemplifi cati da quattro monaci che pregano devotamente insieme, e agli anacoreti, rappresentati da un austero monaco solitario, corrispondono le imma-gini deteriori dei sarabaiti, che camminano in direzioni opposte voltandosi le spalle, e dei girovaghi, che ingur-gitano senza freno cibi e bevande. Una volta lasciata da

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parte l’eccezione anacoretica, il problema del monache-simo sarà sempre più quello di costituirsi e di aff ermarsi come una comunità ordinata e ben governata.

.. L’abitazione comune è il fondamento necessa-rio del monachesimo. Tuttavia nelle regole più antiche, il termine habitatio sembra indicare non tanto un sem-plice fatto, quanto piuttosto una virtù e una condizio-ne spirituale. « Le virtù che distinguono i fratelli, cioè l’abitazione e l’obbedienza » recita un passo della Regola dei quattro Padri (P, p. ). Nello stesso senso, il termine habitare (frequentativo di habeo) sembra desi-gnare non solo una situazione fattizia, ma un modo di vita: la Regola del maestro può, così, stabilire che i chieri-ci possono dimorare anche a lungo come ospiti (hospites suscipiantur) nel monastero, ma non possono « abitar-vi » (in monasterio habitare), cioè assumere la condizione monacale (V , , pp. -).

È nel contesto della vita monastica, che il termine habitus, che signifi ca in origine « modo di essere o di agire » e, nella Stoa, diventa sinonimo di virtù (habitum appellamus animi aut corporis constantem et absolutam aliqua in re perfectionem – C., Inv., , ), tende sem-pre più a designare il modo di vestire. È signifi cativo che, quando questa accezione concreta del termine co-mincia ad aff ermarsi in età postaugustea, non sia sem-pre facile distinguerla dal senso più generale, tanto più che l’habitus era spesso accostato alla veste, che era parte in qualche modo necessaria del « modo di atteggiarsi ». Se, quando leggiamo in Cicerone virginali habitu atque vestitu (Verr., , , ), la distinzione e, insieme, la pros-simità fra i due concetti sono perfettamente chiare, non è altrettanto sicuro che, nel passo di Quintiliano in cui habitus sembra identifi carsi con veste (' eopompus La-

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cedaemonis, cum permutato cum uxore habitu e custodia ut mulier evasit… – Q., , , ), il termine non possa riferirsi piuttosto all’aspetto e all’atteggiamento femminile nel suo complesso.

Si apra ora il primo libro delle Istituzioni cenobitiche di Cassiano, il cui titolo recita: De habitu monachorum. Si tratta qui, al di là di ogni possibile dubbio, di una descrizione delle vesti dei monaci, che si presenta come parte integrante della regola: « Al momento di parlare delle istituzioni e delle regole dei monasteri (de institutis ac regulis monasteriorum), quale inizio più conveniente che esordire dallo stesso abito monacale (ex ipso habitu monachorum)? » (C , p. ). Questo uso del termine è, però, reso possibile dal fatto che le vesti dei monaci, che Cassiano enumera e descrive nei dettagli, sono state sottoposte a un processo di moralizzazione che fa di ciascuna di esse il simbolo o l’allegoria di una virtù e di un modo di vita. Per questo, descrivere la ve-ste esteriore (exteriorem ornatum) equivarrà a esporre un modo di essere interiore (interiore cultum… exponere – ibid.). L’abito del monaco non concerne, infatti, la cura del corpo, ma è, piuttosto, morum formula, « esempio di una forma di vita » (ibid., p. ). Così il piccolo cap-puccio (cucullus) che i monaci portano giorno e notte è un ammonimento a « conservare in ogni istante l’inno-cenza e la semplicità dei bambini » (ibid.). Le maniche corte della loro tunica di lino (colobion) « signifi cano la rinuncia a ogni atto e a ogni opera mondana » (p. ) (sappiamo da Agostino che le maniche lunghe – tunicae manicatae – erano ricercate come segno di eleganza). Le bretelle di lana che, passando sotto le ascelle, manten-gono le vesti aderenti al corpo dei monaci, signifi cano che essi sono pronti a ogni lavoro manuale (inpigri ad omnes opus expliciti – p. ). La mantellina (palliolus) o

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sopraveste (amictus) con cui si coprono il collo e le spal-le simboleggia l’umiltà. Il bastone (baculus) ricorda loro che « non devono camminare inermi in mezzo alla mol-titudine abbaiante dei vizi » (p. ). I sandali (gallicae) che mettono ai piedi signifi cano che « i piedi dell’anima devono essere sempre pronti alla corsa spirituale » (p. ).

Questo processo di moralizzazione dell’abito rag-giunge il suo apice nella cintura di pelle (zona pellicia, cingulus) che il monaco deve sempre indossare: essa lo costituisce come « soldato di Cristo », pronto a combat-tere in ogni circostanza il demonio (militem Christi in procinctu semper belli positum), e, nello stesso tempo, lo iscrive in una genealogia, già attestata nella regola di Basilio, che risale, attraverso gli apostoli e Giovanni il Battista, fi no a Elia e a Eliseo (p. ). Di più: l’habitus cinguli (che non può ovviamente signifi care « la veste della cintura », ma equivale a hexis e a ethos e indica un’a-bitudine costante) costituisce una sorta di sacramentum, un sacro segno (forse anche nel senso tecnico di giu-ramento: in ipso habitu cinguli inesse parvum quod a se expetitur sacramentum – p. ), che signifi ca e manifesta la « mortifi cazione delle membra in cui sono contenuti i semi della lussuria e della libidine » (ibid.).

Di qui, nelle regole antiche, il carattere decisivo del momento in cui il neofi ta depone le sue vesti secola-ri per ricevere l’abito monacale. Già Girolamo, tradu-cendo Pacomio, ha cura di opporre i vestimenta secolari all’habitus del monaco (tunc nudabunt eum vestimentis saecularibus et induent habitum monachorum – B, p. ). Nella Regola del maestro, l’habitus propositi, che non deve essere facilmente concesso al neofi ta (V , , p. ), è certamente molto di più di una veste: esso è l’habitus – insieme veste e modo di vita – corrispon-

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dente al propositum, cioè al progetto a cui il neofi ta si impegna. E quando, poco più sotto, la regola stabilisce che il converso che decida di abbandonare la comunità per tornare nel mondo, deve essere exutus sanctis vestibus vel habitu sacro (ibid., p. ), non si tratta qui, come ritiene l’editore, di una « ridondanza »: l’« abito sacro » è qualcosa di più che « le sante vesti », perché esprime il modo di vita di cui esse sono il simbolo.

Abitare insieme signifi ca dunque per i monaci con-dividere non semplicemente un luogo e una veste, ma innanzitutto degli habitus; e il monaco è, in questo sen-so, un uomo che vive sul modo dell’« abitare », cioè se-guendo una regola e una forma di vita. È certo, tuttavia, che il cenobio rappresenta il tentativo di far coincidere abito e forma di vita in un habitus assoluto e integrale, in cui non fosse possibile distinguere fra veste e modo di vita. La distanza che divide i due signifi cati del termine habitus non scomparirà, però, mai completamente e se-gnerà durevolmente con la sua ambiguità la defi nizione della condizione monastica.

ē La non corrispondenza fra habitus-veste e habitus come forma di vita del monaco è già stigmatizzata dai canonisti rispetto ai chierici: Ut clerici, qui se fi ngunt habitu et nomine monachos esse, et non sunt, omnimode corrigantur atque emen-dentur, ut vel veri monachi sint vel clerici (I C, Decretum, , , ). L’ambiguità diventerà proverbiale nell’adagio secondo cui « l’abito non fa il monaco » (o, al con-trario, in ambito tedesco, dove Kleiden machen Leute).

.. Le regole monastiche (in particolare il primo capitolo delle Istituzioni di Cassiano) sono i primi te-sti della cultura cristiana in cui le vesti acquistano un signifi cato integralmente morale. E ciò è tanto più si-

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gnifi cativo, se si pensa che ciò avviene in un momen-to in cui il clero non si distingue ancora attraverso il vestito dagli altri membri della comunità. Possediamo una lettera di Celestino del , in cui il pontefi ce ammonisce i chierici delle chiese gallo-romane a non in-trodurre distinzioni nel vestiario, in particolare attraver-so la cintura (lumbos praecincti, il che può far pensare a un’infl uenza monastica che il papa intende contrastare). Non soltanto ciò è contrario alla tradizione ecclesiastica (contra ecclesiasticum morem faciunt), ma il papa ricorda che i vescovi devono distinguersi dal loro popolo « non per la veste, ma per la dottrina; non per l’abito, ma per il modo di vita; non per l’eleganza, ma per la purezza del-la mente » (discernendi a plebe vel ceteris sumus doctrina, non veste; conversatione, non habitu; mentis puritate, non cultu). È solo dopo che il monachesimo ebbe trasforma-to la veste in un habitus, rendendola indiscernibile da un modo di vita, che la Chiesa (a partire dal concilio di Macon, ) dà inizio al processo che porterà alla chiara diff erenziazione fra abito clericale e abito secolare.

Naturalmente il vestiario aveva avuto in ogni epoca un signifi cato morale e, in ambito cristiano, la narrazio-ne della Genesi legava l’origine stessa della veste alla ca-duta di Adamo ed Eva (al momento di cacciarli dall’E-den, Dio fa loro indossare delle vesti di pelle – tunicae pelliciae – simbolo del peccato); ma è solo a partire dal monachesimo che si assiste a una moralizzazione inte-grale di ogni singolo elemento dell’abbigliamento. Per trovare un equivalente al capitolo de habitu monachorum delle Istituzioni di Cassiano, occorrerà aspettare i grandi trattati liturgici di Amalario, di Innocenzo e di Gu-glielmo di Mende (e, in ambito profano, il Libro delle cerimonie di Costantino Porfi rogenito). Se apriamo, infatti, il Rationale divinorum o! ciorum di Guglielmo,

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subito dopo la trattazione della Chiesa e dei suoi mini-stri, vediamo che il libro terzo è dedicato a un’analisi degli « indumenti e ornamenti dei sacerdoti », che, esat-tamente come in Cassiano, espone il signifi cato simbo-lico di ogni singolo elemento della veste sacerdotale, di cui è spesso possibile indicare il corrispettivo nell’abito monacale. Prima di descrivere minuziosamente ciascun indumento, Guglielmo compendia in questo modo la vestizione del sacerdote:

Il pontefi ce che si accinge a celebrare si spoglia delle vesti quotidiane e indossa quelle pure e sacre. Innan-zitutto calza i sandali, che ricordano l’incarnazione del Signore. Poi, indossa l’amictus, per contenere i movi-menti e i pensieri, la bocca e la lingua affi nché il suo cuore diventi puro e si rinnovi lo spirito che percepisce rettamente nelle viscere. Terzo, l’alba talare, simbolo di purezza e di perseveranza. Quarto, la cintura, che raff re-na l’impeto della lussuria. Quinto, la stola, segno di ob-bedienza. Sesto, la tunica color ametista, che signifi ca la vita celeste. Settimo, sovrappone la dalmatica, simbolo della santa religione e della mortifi cazione della carne. Ottavo, copre le mani con i guanti (cirotyhecae), perché scompaia la vanagloria. Nono, l’anello, affi nché ami la sposa come se stesso. Decimo, la casula (o planeta), che signifi ca carità. Undicesimo, il sudario, affi nché lavi con la penitenza ogni peccato di debolezza ed ignoranza. Dodicesimo, sovrappone il mantello, che lo costituisce imitatore di Cristo, che assunse su di sé le nostre debo-lezze. Tredicesimo, la mitra, affi nché agisca in modo da meritare la corona della gloria eterna. Quattordicesimo, il bastone (baculus), simbolo di autorità e di dottrina (G, p. ).

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In un altro scorcio, le vesti sacerdotali sono elenca-te, secondo la metafora militare cara ai monaci, come una panoplia di armi nella lotta contro il male spirituale:

Primo, il sacerdote indossa i sandali come schinieri per-ché nessuna macchia lo contamini. Secondo, copre il capo con l’amictus a guisa di elmo. Terzo, l’alba riveste tutto il suo corpo come una corazza. Quarto, la cintura (cingulum) gli serve da arco e il subcingulum, che col-lega la stola alla cintura, da faretra. Quinto, la stola gli circonda il collo, quasi scagliando una lancia contro il nemico. Sesto, il manipolo gli serve da clava. Settimo, la planeta lo copre come uno scudo, mentre la mano tiene un libro come una spada (ibid., p. ).

Le prescrizioni delle regole sugli habitus monacho-rum, nella loro povertà e sobrietà, sono la staff etta che annuncia la codifi cazione gloriosa delle vesti liturgiche. Gli uni e le altre sono accomunati dall’essere segni e sacramento di una realtà spirituale: « Il sacerdote abbia cura di non portare mai un segno senza signifi cato o una veste senza virtù, perché non diventi simile a un sepol-cro imbiancato di fuori, dentro pieno di ogni sporcizia » (ibid.).

.. Siamo abituati ad associare la scansione crono-metrica del tempo umano alla modernità e alla divisione del lavoro nelle fabbriche. Foucault ha mostrato che, alle soglie della rivoluzione industriale, i dispositivi discipli-nari (le scuole, le caserme, i collegi, le prime manufat-ture reali) già a partire dalla fi ne del secolo avevano cominciato a dividere la durata in segmenti, successivi o paralleli, per ottenere poi, attraverso la combinazione delle singole serie cronologiche, un risultato comples-

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sivo più effi cace. Di rado è stato notato, tuttavia, che, quasi quindici secoli prima, il monachesimo aveva rea-lizzato nei suoi cenobi, a fi ni esclusivamente morali e religiosi, una scansione temporale dell’esistenza dei mo-naci, il cui rigore non soltanto non aveva precedenti nel mondo classico, ma, nella sua intransigente assolutezza, non è stato forse uguagliato in alcuna istituzione della modernità, nemmeno dalla fabbrica taylorista.

Horologium è il nome che, nella tradizione orien-tale, designa signifi cativamente il libro che contiene l’ordine degli uffi ci canonici secondo le ore del giorno e della notte. Nella sua forma originaria, esso risale all’a-scesi monastica palestinese e siriaca fra il e l’ se-colo. Gli uffi ci della preghiera e della salmodia vi sono ordinati come un « orologio », che segna il ritmo della preghiera dell’alba (orthros), del mattino (prima, terza, sesta e nona), del vespro (lychnikon) e della mezzanot-te (che, in certe occasioni, durava tutta la notte: pan-nychis). Questa attenzione a scandire la vita secondo le ore, a costituire l’esistenza del monaco come un horo-logium vitae, è tanto più sorprendente, se si considera non soltanto la primitività degli strumenti di cui essi disponevano, ma anche il carattere approssimativo e variabile della stessa divisione delle ore. Il giorno e la notte erano divisi in dodici parti (horae), dal tramonto del sole all’alba. Le ore non avevano, pertanto, come oggi, una durata fi ssa di sessanta minuti, ma, tranne agli equinozi, variavano secondo le stagioni, e quelle diurne erano più lunghe in estate (nel solstizio raggiungevano gli ottanta minuti) e più corte in inverno. La giornata di preghiera e di lavoro era, dunque, in estate, il doppio di quella invernale. Inoltre, gli orologi solari, che sono in quest’epoca la regola, funzionano solo durante il giorno e con cielo sereno, per il resto del tempo il quadrante è

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« cieco ». Tanto più il monaco dovrà attenersi indefetti-bilmente all’esecuzione del suo offi cio: « Quando il tem-po è nuvoloso » si legge nella Regola del maestro « e il sole nasconde al mondo i suoi raggi, tanto nel monastero, che in viaggio o nei campi, i fratelli stimeranno il tra-scorrere del tempo calcolando mentalmente le ore (per-pensatione horarum) e quale sia l’ora, compiranno il loro uffi cio consueto, e anche se sia in ritardo o in anticipo di un’ora l’opera di Dio (opus Dei) non sarà trascurata, dal momento che, per l’assenza del sole, l’orologio è cieco » (V , , p. ). Cassiodoro ( sec.) informa i suoi monaci di aver fatto istallare nel cenobio un orologio ad acqua, in modo da poter calcolare le ore anche durante la notte: « Non abbiamo tollerato che voi ignoriate del tutto la misurazione delle ore (horarum modulos), così utile al genere umano. Per questo, oltre all’orologio che funziona con la luce del sole, ne abbiamo voluto un al-tro idraulico (aquatile), che misura la quantità delle ore tanto di giorno che di notte » (De institutione divinarum litterarum, , , a-b). E, quattro secoli più tardi, Pier Damiani invita i monaci a trasformarsi in orologi viventi, misurando le ore colla durata delle loro salmo-die: « Il monaco, se vuole calcolare le ore quotidiane, si abitui a misurarle col suo canto, in modo che, quando le nuvole coprono il cielo, si costituisca una specie di orologio (quoddam horologium) con la durata regolare delle sue salmodie » (De perfectione monachorum, , , c-d).

In ogni caso, alla scansione del ritmo delle ore provvedono, sotto la responsabilità dell’abbate, degli appositi incaricati (signifi catores horarum, li chiama Pier Damiani; Cassiano e la Regola del maestro semplicemen-te conpulsores e excitantes), la cui importanza non può essere sopravvalutata: « Il segnaore deve sapere che nes-

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suna dimenticanza nel monasterio è più grave della sua. Se egli anticipa o ritarda l’ora di una riunione, tutta la successione delle ore è turbata » (ibid.).

I due monaci che, nella Regola del maestro, hanno il compito di svegliare i fratelli (e, innanzitutto, l’ab-bate, tirandolo leggermente per i piedi, mox pulsantes pedes – V , , p. ) svolgono una funzione così essenziale, che, per onorarli, la regola li chiama « vigigal-li », galli sempre desti (« così grande è presso il Signore la ricompensa di coloro che destano i monaci all’opera divina, che la regola per onorarli li chiama vigigallos » – ibid., p. ). Essi dovevano disporre di orologi in grado di segnare le ore anche in assenza del sole, perché la regola ci informa che era loro cura guardare l’orologio (horolegium, secondo l’etimologia medievale, quod ibi horas legamus) di notte non meno che di giorno (in nocte et in die – ibid.).

.. Quali che fossero gli strumenti per misurare le ore, è certo che tutta la vita del monaco è modellata se-condo un’implacabile e incessante articolazione tempo-rale. Assumendo la direzione del monastero costantino-politano dello Stoudion, Teodoro Studita descrive con queste parole l’inizio della giornata conventuale: « Tra-scorsa la seconda custodia della notte o dopo l’ora sesta, al momento in cui sta per cominciare la settima, squilla il segnale dell’orologio ad acqua (piptei tou ydrologiou to syssemon) e a questo suono il risvegliante (afypnistes) si alza e percorre le celle con la lucerna, destando i fratelli alla dossologia mattutina. Istantaneamente rintoccano i legni su e giù e mentre al segnale tutti i fratelli si riu-niscono nel nartece e pregano in silenzio, il sacerdote con in mano il turibolo incensa il sacro bema… » (De-scriptio constitutionis monasterii Studi, , , ). Il

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cenobio è, in questo senso, innanzitutto una scansione oraria integrale dell’esistenza, in cui a ogni momento corrisponde il suo uffi cio, così di preghiera e di lettura che di lavoro manuale. Certo, già la Chiesa primitiva aveva elaborato una liturgia delle ore e, in continuità con la tradizione della sinagoga, la Didachè prescriveva ai fedeli di riunirsi per la preghiera tre volte al giorno. La Tradizione apostolica, attribuita a Ippolito ( sec.) svol-ge e articola questa consuetudine legando le ore della preghiera agli episodi della vita di Cristo. Alla preghiera della terza ora (« a quest’ora Cristo è stato visto appeso alla croce » – I, p. ), della sesta e della nona (« a quest’ora il costato di Cristo ferito ha versato acqua e sangue »), Ippolito aggiunge la preghiera di mezzanot-te (« se tua moglie è con te e non è credente » precisa il testo « ritirati in un’altra stanza e prega » – p. ) e quella al canto del gallo (« levati al canto del gallo e prega, per-ché a quell’ora, al canto del gallo, i fi gli di Israele hanno rinnegato Cristo » – p. ).

La novità del cenobio è che, prendendo alla let-tera la prescrizione paolina della preghiera incessante (adialeipt#s proseuchesthe, $ ' es., , ), esso, attraverso la scansione temporale, trasforma l’intera vita in uffi -cio. Confrontandosi con questo precetto apostolico, la tradizione patristica ne aveva tratto la conseguenza che Origene riassume nel De oratione, e cioè che il solo modo possibile di intendere questo precetto fosse che, « se la vita del santo è una grande incessante preghiera, una parte di questa, cioè la preghiera nel senso stret-to del termine, deve farsi almeno tre volte al giorno » (, , ). Tutta diversa è l’interpretazione monasti-ca. Cassiano, esponendo le istituzioni dei Padri egizia-ni, che rappresentano per lui il paradigma perfetto del cenobio, scrive:

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Quegli uffi ci che noi siamo costretti dal segnale del pre-posto a compiere per il Signore a ore e intervalli distinti (per distinctiones horarum et temporis intervalla), essi li celebrano spontaneamente senza interruzione (iugiter) per tutta la durata del giorno, aggiungendovi il lavoro. Così ciascuno nella sua cella, separatamente, esercita incessantemente l’opera delle mani (operatio manuum), senza per questo omettere la recitazione dei salmi e del-le altre scritture. Mescolando a ogni istante preghiere e orazioni, essi passano l’intero giorno in quegli uffi ci, che noi celebriamo invece solo in tempi stabiliti (statuto tempore celebramus – C , p. ).

Ancora più chiaro è il dettato delle « conferenze » che egli dedica alla preghiera, in cui la continuità dell’o-razione defi nisce la stessa condizione monacale: « Tutto il fi ne del monaco e la perfezione del suo cuore consi-ste nella continua e ininterrotta perseveranza nella pre-ghiera (iugem atque indisruptam orationis perseverantia) » (C , p. ) e la « sublime disciplina » del ceno-bio è quella che « ci insegna a aderire a Dio senza inter-ruzione (Deo iugiter inhaerere) » (ibid., p. ). Nella Re-gola del maestro, l’« arte santa » che il monaco apprende deve essere esercitata « notte e giorno incessantemente » (die noctuque incessanter adinpleta – V , , p. ).

Non si potrebbe dire in modo più chiaro che l’i-deale monacale è quello di una mobilitazione integra-le dell’esistenza attraverso il tempo. Mentre la liturgia ecclesiastica divide la celebrazione dell’uffi cio dal la-voro e dal riposo, la regola monastica, com’è evidente nel passo citato delle Istituzioni di Cassiano, considera l’opera delle mani come parte indiscernibile dell’opus Dei. Già Basilio interpreta la frase dell’apostolo (« sia che beviate, sia che mangiate, qualunque cosa faccia-

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te, fatelo per la gloria di Dio » – $ Cor., , ) come implicante una spiritualizzazione di tutta l’attività del monaco. Non soltanto, in questo modo, tutta la vita del cenobio si presenta come l’esecuzione di un’« opera divina », ma Basilio ha cura di moltiplicare gli esempi tratti dal lavoro manuale: come il fabbro, mentre batte il metallo, ha in mente la volontà del committente, così il monaco esegue con cura « ogni sua azione, piccola o grande » (pasan energeian kai mikran kai meizona), per-ché è consapevole in ogni istante di fare la volontà di Dio (Regulae fusius tractatae, , , -). Anche nel passo della Regola del maestro in cui gli uffi ci divini sono chiaramente distinti dai lavori manuali (opera corporalis – V , , p. ), questi ultimi devono, però, essere eseguiti con la stessa attenzione con cui si eseguono i primi: mentre il fratello esegue un lavoro manuale, deve fi ssare l’attenzione nell’opera e occupare la mente (dum oculis in laboris opere fi git, inde sensum occupat – ibid., p. ); non sorprende, quindi, che gli exercitia actuum, che si alternano con l’uffi cio divino, siano defi niti poco più sotto un’« opera spirituale » (spiritale opus – p. ). La spiritualizzazione dell’opera delle mani che in questo modo si realizza può essere vista come un precursore signifi cativo di quell’ascesi protestante del lavoro, di cui il capitalismo, secondo Max Weber, rappresenta la secolarizzazione. E, se la liturgia cristiana, che culmina nella creazione dell’anno liturgico e del cursus horarum, è stata effi cacemente defi nita una « santifi cazione del tempo », in cui ogni giorno e ogni ora viene costituita come un « memoriale delle opere di Dio e dei misteri di Cristo » (R, p. ), il progetto cenobitico può essere invece più precisamente defi nito come una santi-fi cazione della vita attraverso il tempo.

La continuità della scansione temporale, interioriz-

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zata nella forma di una perpensatio horarum, di un’arti-colazione mentale dello scorrere delle ore, diventa qui l’elemento che permette di agire sulla vita dei singoli e della comunità con un’effi cacia incomparabilmente maggiore di quella che poteva raggiungere la cura di sé degli stoici e degli epicurei. E se noi siamo oggi perfetta-mente abituati ad articolare la nostra esistenza secondo tempi e orari e a considerare anche la nostra vita inte-riore come un decorso temporale lineare omogeneo e non come un’alternarsi di unità discrete ed eterogenee da misurare secondo criteri etici e riti di passaggio, non dobbiamo tuttavia dimenticare che è nello horologium vitae cenobitico che tempo e vita sono stati per la prima volta intimamente sovrapposti fi no quasi a coincidere.

.. Nella letteratura monastica, il termine tecnico per questa mescolanza e quasi ibridazione fra lavoro ma-nuale e preghiera, fra vita e tempo, è meditatio. Bacht ha dimostrato che questo termine non signifi ca meditazio-ne nel senso moderno, bensì designa in origine la reci-tazione a memoria (solitaria o comune) delle Scritture, in quanto distinta dalla lettura (lectio). Nella vita di Pa-comio, l’abbate Palamone, a cui il futuro fondatore del cenobio si è rivolto per essere iniziato al monachesimo, menziona, come dovere fondamentale accanto al digiu-no, la meditazione costante: « Io trascorro metà della notte in preghiera e in meditazione della parola di Dio » (B, p. ). Nelle regole del successore di Pacomio, Horsiesius, la meditazione è defi nita come « una ricca provvista di testi memorizzati » (ibid., p. ) e, se non si è meditato suffi cientemente durante la notte, si pre-scrive la « meditazione » di almeno dieci Salmi (ibid.).

È noto come a partire dal secolo si diff onda la pratica della lettura silenziosa, che Agostino osserva con

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stupore nel suo maestro Ambrogio. « Mentre leggeva » scrive Agostino (Conf., , ) « gli occhi percorrevano le pagine e il cuore scrutava l’intelletto, ma la voce e la lingua tacevano ». La meditatio è la continuazione di questa pratica senza più necessità della lectio, perché il testo è ormai disponibile nella memoria per una inin-terrotta ed eventualmente solitaria recitazione, che può così accompagnare e scandire temporalmente dall’inter-no tutta la giornata del monaco e diventare insepara-bile da ogni suo gesto e da ogni sua attività. « Mentre operano (operantes) » recita la regola di Pacomio « non dicano nulla di profano, ma meditino le parole sante o tacciano » (B, p. ). « Appena ode il segnale della tromba che chiama alla collecta, subito esce dalla sua cel-la, meditando qualche passo della Scrittura (de scriptu-ris aliquid meditans) fi no a che raggiunge la porta della sala di riunione » (ibid., p. ). Nel passo sopracitato di Cassiano il lavoro manuale non è mai disgiunto dalla « meditatio dei Salmi e delle altre Scritture ». Nello stesso senso, le regole di Horsiesius precisano che « quando il monaco lascia la collecta, deve meditare mentre cammi-na fi no alla sua abitazione, anche se sta facendo qualcosa che riguarda il convento » e aggiunge che solo in que-sto modo verranno osservati « i precetti vitali » (ibid., p. ).

La perpensatio horarum e la meditatio sono i due dispositivi attraverso i quali, ben prima della scoperta kantiana, il tempo è diventato di fatto la forma del sen-so interno: alla minuziosa regolazione cronologica di ogni atto esteriore corrisponde un’altrettanto puntiglio-sa scansione temporale del discorso interiore.

.. L’espressione « precetti vitali », che si trova per la prima volta nella traduzione di Girolamo della regola

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di Pacomio (haec sunt praecepta vitalia nobis a maioribus tradita – ibid., p. ), acquista il suo senso pregnante solo se si comprende che essa si riferisce alla regola in quanto, attraverso la pratica della meditazione, della scansione temporale e della preghiera incessante, può coincidere non con l’osservanza di singoli precetti, ma con l’intera vita del monaco (in questo senso, essa si op-pone tacitamente ai praecepta legalia del giudaismo). La meditazione, che può accompagnarsi a qualsiasi attivi-tà, è, in questo senso, anche il dispositivo che permette la realizzazione della pretesa totalitaria dell’istituzione monacale.

Decisivo è, però, che, in questo modo, la regola en-tri in una zona di indecidibilità rispetto alla vita. Una norma che non si riferisce a singoli atti ed eventi, ma all’intera esistenza di un individuo, alla sua forma vi-vendi, non è più facilmente riconoscibile come diritto, così come una vita che si istituisce nella sua integrali-tà nella forma di una regola non è più veramente vita. Circa otto secoli dopo, Stefano di Tournay può così ri-prendere e in qualche modo parafrasare la formula pa-comiana praecepta vitales scrivendo che, dal momento che il « libretto » (libellus) che contiene le costituzioni dei Granmontani « non è chiamato da essi regola, ma vita (non regula appellatur ab eis, sed vita) », essi dovreb-bero allora, per diff erenziarsi da coloro che, in quanto osservano la regola, si dicono « regolari », essere chiamati piuttosto « vitali » (vitales) (Ep. , , , ). Come i precetti, non più separabili dalla vita del monaco, ces-sano di essere « legali », così i monaci stessi non saranno più « regolari », ma « vitali ».

ē Nella Scala claustralis di Bernardo, la scala « attraverso la quale i monaci sono sollevati dalla terra in cielo » compor-

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ta quattro gradini: la lettura (lectio), che « appresta alla boc-ca quasi un solido cibo », la meditazione, che lo « mastica e rompe » (masticat et frangit), la preghiera (oratio), che « sente il sapore », la contemplazione, che « è la stessa dolcezza che ristora e rende gioiosi » (, , col. ).

Günter Bader (Melancholie und Metapher, Tübingen, Mohr, ) ha mostrato come, agli inizi del monachesimo, la lettura si presenta come il rimedio per eccellenza contro il terribile male che affl igge monaci e anacoreti: l’acedia. Con una curiosa circolarità, questa sorta di catastrofe antropologi-ca che minaccia a ogni istante gli homines religiosi si presenta, tuttavia, anche come ciò che rende impossibile la lettura. « Se il monaco accidioso » recita il De octo spiritibus malitiae di san Nilo (cap. ) « legge, s’interrompe inquieto e, un minuto dopo, scivola nel sonno; si sfrega la faccia con le mani, di-stende le dita e, tolti gli occhi dal libro, va avanti per qualche riga, ribalbettando la fi ne di ogni parola che legge; e, intanto, si riempie la testa con calcoli oziosi, conta il numero delle pagine e i fogli dei quaderni; e gli vengono in odio le lettere e le belle miniature che ha davanti agli occhi fi nché, da ultimo, richiude il libro e lo usa come un cuscino per la sua testa, cadendo in un sonno breve e profondo… »

Nell’aneddoto di Antonio riferito da Evagrio, il supera-mento dell’acedia si presenta come uno stadio in cui la na-tura stessa si presenta come un libro e la vita del monaco come una condizione di assoluta e ininterrotta leggibilità: « Un saggio si recò a visitare il giusto Antonio e gli disse: “Pa-dre, come puoi fare a meno del conforto dei libri?” “Il mio libro” rispose Antonio “è la natura delle cose generate ed esso è disponibile ogni volta che voglio leggere le parole di Dio” » (B, pp. -). La vita perfetta coincide con la leggibilità del mondo, il peccato con l’impossibilità di leggere (col suo diventare illeggibile).

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. Regola e legge

.. Tanto più urgente è, a questo punto, porre il problema della natura giuridica o meno delle regole monastiche. Già i giuristi e i canonisti, che pure sem-brano tener conto nelle loro raccolte dei precetti della vita monastica, si erano chiesti, in certi casi, se il diritto potesse essere applicato a un fenomeno così particolare. Così, nel suo Liber minoriticarum, Bartolo, a proposito dei francescani, nello stesso gesto in cui riconosce che i sacri canones si erano occupati di essi (circa eos multa senserunt, ma l’edizione veneziana del ha sanxerunt, « sancito, legiferato »), aff erma senza riserve che « così grande è la novità della loro vita (cuius vitae tanta est no-vitas), che il corpus iuris civilis non sembra potersi appli-care ad essa (quod de ea in corpore iuris civilis non reperi-tur authoritas) » (B, p. v). Nello stesso senso, la Summa aurea di Hostiensis evoca la diffi coltà per il diritto a includere nel proprio ambito di applicazione lo status vitae dei monaci (non posset de facili status vitae ipsorum a iure comprehendi). Anche se le ragioni del di-sagio sono diverse nei due casi – per Bartolo, il rifi uto francescano di ogni diritto di proprietà, per Hostiensis, la molteplicità e la varietà delle regole (diversas habent istitutiones) – l’imbarazzo dei giuristi tradisce una dif-fi coltà che concerne la peculiarità della vita monastica nella sua vocazione a confondersi con la regola.

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Yan D omas ha mostrato che, nella tradizione del diritto romano, la norma giuridica non si riferisce mai immediatamente alla vita come realtà biografi ca com-plessiva, ma sempre alla personalità giuridica come centro d’imputazione astratto di singoli atti o eventi. « Celle-ci [la personalità giuridica] sert à masquer l’indi-vidualité concrète derrière une identité abstraite, deux modalités du sujet dont les temps ne peuvent pas se confondre, puisque la première est biographique et la seconde est statutaire » (T, p. ). La fi oritu-ra delle regole monastiche a partire dal secolo, con la loro minuziosa regolamentazione di tutti i dettagli dell’esistenza, che tende a una indecidibilità di regula e vita, costituisce, secondo D omas, un fenomeno sostan-zialmente estraneo alla tradizione giuridica romana e al diritto tout court: « “Vita vel regula”, la vie ou la règle, c’est-à-dire la vie comme règle. Tel est le registre – et assurément pas celui du droit – où put être pensée la légalité de la vie comme loi incorporée » (ibid.). Svol-gendo l’intuizione di D omas in una direzione opposta, altri ha creduto di vedere nelle regole monastiche l’e-laborazione di una tecnica normativa che ha permesso la costituzione in oggetto giuridico della vita come tale (C, p. ).

.. Un esame del testo delle regole mostra che esse presentano rispetto alla sfera del diritto un atteggiamen-to quanto meno contraddittorio. Da una parte, infatti, esse non soltanto enunciano con fermezza veri e pro-pri precetti di comportamento, ma contengono anche spesso un elenco dettagliato delle pene in cui incorrono i monaci che li trasgrediscono; dall’altra, esse invitano con altrettanta insistenza i monaci a non considerare le regole come un dispositivo legale. « Che il Signore vi

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conceda » recita la conclusione della regola di Agostino « di osservare tutto ciò con gioia… non come servi sot-to la legge, ma come costituiti in libertà sotto la grazia (ut observetis haec omnia cum dilectione… non sicut servi sub lege, sed sicut liberi sub gratia costituti) » (Regula ad servos Dei, , , ). A un monaco che gli chiede come debba comportarsi con i discepoli, Paemon, il leggendario maestro di Pacomio, risponde: « Sii per essi un esempio (typos) e non un legislatore (nomothet"s) » (Apophtegmata patrum, , , ). Nello stesso sen-so, Mar Abraham, al momento di esporre la regola del suo monastero, ricorda che non dobbiamo considerarci « legislatori, né per noi stessi né per gli altri » (non enim legislatores sumus, neque nobis neque aliis – cfr. M, p. ).

L’ambiguità è evidente nei Praecepta atque iudicia pacomiani, che esordiscono con l’aff ermazione risolu-tamente antilegalistica: plenitudo legis caritas, per enun-ciare immediatamente dopo una serie di fattispecie di carattere esclusivamente penale (B, p. ). Casi-stiche di questo tipo s’incontrano molto spesso nelle regole, o nello stesso contesto dei precetti o raccolte in sezioni all’interno della regola (i capitoli e della Re-gola del maestro, o - nella regola di san Benedetto) o separate (come nei citati Praecepta atque iudicia o nelle Poenae monasteriales di Teodoro Studita).

Una visione d’insieme di quello che si potrebbe de-fi nire il sistema penale monastico si può desumere dai capitoli - della Concordia regularum, in cui Benedet-to di Aniane ha ordinato per materia le regole antiche. La pena per eccellenza è l’excommunicatio, cioè l’esclu-sione totale o parziale dalla vita comune per un periodo più o meno lungo secondo la gravità della colpa. « Se un fratello è trovato colpevole di colpe lievi » recita la rego-

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la benedettina « gli sia proibito di partecipare al pasto comune (a mensae participatione privetur)… all’oratorio non intoni con gli altri né un salmo né un’antifona e non reciti la lettura fi no all’espiazione. Prenda il cibo da solo, dopo il pasto dei fratelli… fi no a quando ottenga il perdono con un’adeguata penitenza » (P, p. ). A colpe più gravi, corrisponderà l’esclusione da ogni contatto con i fratelli, che ignoreranno la sua presenza: « Nessuno lo benedica né sia benedetto il cibo che gli viene dato… Se un fratello oserà avere contatti o parlare con un fratello scomunicato o inviargli un messaggio senza l’autorizzazione dell’abbate subisca la stessa sco-munica » (ibid., p. ). Nel caso di recidiva, si procede-rà all’applicazione di pene corporali e, nel caso estremo, all’espulsione dal monastero: « Se i fratelli scomunicati si mostrano orgogliosi e, perseverando nella superbia del cuore, non vorranno dare soddisfazione all’abbate, al terzo giorno, all’ora nona, saranno imprigionati e fru-stati fi no al sangue e, se l’abbate lo giudicherà opportu-no, saranno espulsi dal monastero » (V , , p. ). In alcuni monasteri, sembra essere perfi no previsto un locale adibito a prigione (carcer), in cui venivano isolati coloro che erano incorsi nelle colpe più gravi: « Il mo-naco che molesta i bambini o gli adolescenti » recita la regola di Fruttuoso, « costretto con catene di ferro, sarà punito per sei mesi nel carcere (carcerali sex mensibus angustia maceretur) » (O, p. ).

E, tuttavia, non soltanto la pena non è prova suffi -ciente del carattere giuridico di un precetto, ma le regole stesse, in un’epoca in cui le pene avevano un caratte-re essenzialmente affl ittivo, sembrano suggerire che la punizione dei monaci ha un signifi cato essenzialmente morale ed emendativo, paragonabile alla terapia pre-scritta da un medico. Al momento di stabilire la pena

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della scomunica, la regola di san Benedetto precisa così che l’abbate deve avere una cura particolare dei fratelli scomunicati:

L’abbate si prenda cura con ogni sollecitudine dei fratel-li colpevoli, perché non sono i sani ad aver bisogno del medico, ma gli ammalati. E perciò deve servirsi di ogni mezzo come il medico sapiente e inviargli dei senapi-smi, cioè dei fratelli anziani e saggi che quasi di nascosto consolino il fratello esitante, lo incitino a espiare con umiltà e lo consolino perché non sia sommerso da una tristezza eccessiva (P, p. ).

A questa metafora medica, fa riscontro in Basilio l’iscrizione dell’obbligo dell’obbedienza non nell’oriz-zonte di un sistema legale, ma in quello più neutrale delle regole di un’ars o di una tecnica. « A colui che ac-cede all’esercizio delle arti » si legge nel capitolo del-la sua regola, dedicato all’« autorità e all’obbedienza », « non si deve permettere che apprenda quella che vuole secondo il suo arbitrio, ma quella per cui è stato giudi-cato più adatto; il monaco che ha negato se stesso e si è spogliato di ogni sua volontà non fa quel che vuole, ma quello che gli si insegna a fare… Colui che esercita un’arte con l’approvazione della comunità non deve ab-bandonarla, poiché è prova d’incostanza e debolezza di proposito non tener conto dei compiti presenti; se non l’esercita, non scelga da sé, ma accetti quella che è stata decisa dagli anziani, in modo da osservare in ogni cosa l’obbedienza » (Regulae fusius tractatae, , , ).

Nella Regola del maestro, quella che in Basilio era un’analogia riferita soprattutto al lavoro manuale dei monaci diventa la metafora che defi nisce tutta la vita e la disciplina monastica, concepita sorprendentemen-

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Foucault parresia obediencia
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te come l’apprendimento e l’esercizio di un’ars sancta. Dopo aver elencato tutti i precetti spirituali che l’abba-te deve insegnare, la regola conclude: « Questa è l’arte santa che dobbiamo mettere in opera con gli strumenti spirituali » (ecce haec est ars sancta, quam ferramentis de-bemus spiritalibus operari – V , , p. ). Tutta la terminologia della regola è in questo registro tecnico, che ricorda il vocabolario delle scuole e delle botteghe tardoantiche e medievali. Il monastero è defi nito o! cina divinae artis: « Il monastero è l’offi cina, in cui gli stru-menti del cuore disposti nella clausura del corpo pos-sono compiere l’opera dell’arte divina » (ibid., p. ). L’abbate è l’artifex di un’arte, il cui « ministero è com-piuto non per se stessi, ma per il Signore » (p. ). Lo stesso termine magister, che designa colui che parla nel testo, va verisimilmente riferito al magistero di un’ars. Non si potrebbe dire più chiaramente che i precetti che il monaco deve osservare assomigliano piuttosto alle re-gole di un’arte che a un dispositivo legale.

ē Il paradigma dell’ars ha esercitato un’infl uenza non tra-scurabile sul modo in cui i monaci concepiscono non sol-tanto le regole, assimilate alle regole di un’ars, ma anche la loro stessa attività. Cassiano, nelle Conlationes, paragona così la professione della vita monastica all’apprendimento di un’arte: « Chiunque voglia conseguire perizia in un’arte » egli scrive a proposito di coloro che vogliono abbracciare la vita monastica « se non si dedica con ogni cura e vigilanza allo studio della disciplina che desidera conoscere e non osserva i precetti e le regole dei maestri perfetti di quell’attività, inva-no cercherà di uguagliare coloro la cui cura e industria rifi uta di emulare » (C , p. ).

Abbiamo mostrato altrove che una analoga compara-zione con il modello delle arti (tanto con le artes in e( ectu,

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che si realizzano in un’opera, che con le artes actuosae, come la danza e il teatro, che hanno in se stesse il loro fi ne) è stata importante in teologia per determinare lo statuto dell’azione liturgica (cfr. A , , ).

In questo senso, il monastero è forse il primo luogo in cui la vita stessa – e non soltanto le tecniche ascetiche che la formano e regolano – è stata presentata come un’arte. Questa analogia non deve essere intesa, tuttavia, nel senso di una estetizzazione dell’esistenza, quanto piuttosto in quello, che sembra avere in mente Michel Foucault negli ultimi scritti, di una defi nizione della propria vita in relazione a una pratica incessante.

.. Il carattere del tutto particolare dei precetti monastici e della loro trasgressione emerge con forza in un aneddoto della vita di Pacomio, contenuto nel Va-ticanus Graecus %&)$. Vogüé, che ha attirato l’attenzione su questo testo, lo fa risalire a una versione più antica della biografi a di Pacomio, testimonianza dei primor-di del cenobio orientale. L’aneddoto riferisce che, nel corso di un litigio, un fratello ha colpito un altro, che ha risposto alla violenza con un colpo uguale. Pacomio convoca i due monaci alla presenza di tutta la comunità e, dopo averli interrogati e ottenuto la loro confessione, scaccia colui che aveva colpito per primo e scomunica l’altro per una settimana. « Mentre il primo fratello veni-va condotto fuori dal monastero » recita l’aneddoto « un vecchio venerabile di ottant’anni, di nome Gnositheo, che, conformemente al suo nome, possedeva la scienza di Dio, si fece avanti e gridò ai fratelli: “Anch’io sono un peccatore e me ne vado con lui. Se qualcuno è senza peccato, resti pure qui”. Tutti i fratelli, unanimi, segui-rono il vecchio dicendo: “Anche noi siamo peccatori e andiamo con lui”. Vedendoli uscire, il beato Pacomio

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corse davanti a loro, si gettò a terra con il viso contro il suolo, si cosparse il capo di polvere e chiese perdono a tutti ». Dopo il ritorno di tutti i fratelli, compreso il colpevole, Pacomio, rientrato in sé, pensa: « Se gli assas-sini, gli adulteri e coloro che si sono resi colpevoli di un peccato si rifugiano nel monastero per trovarvi salvez-za attraverso la penitenza, chi sono io, per scacciare un fratello? » (V , pp. -). E non soltanto un epi-sodio analogo è attribuito negli Apophthegmata patrum all’abbate Bessarione (, , b), ma ancora la Regola di Isidoro (cap. ) ribadisce che il monaco delinquente non deve essere espulso dal monastero, « perché colui che poteva emendarsi attraverso un’assidua penitenza, una volta scacciato, non sia divorato dal demonio ».

L’analogia, a prima vista plausibile, fra il giudizio dell’abbate e un processo penale perde qui ogni credi-bilità.

.. Al problema della natura giuridica delle regole monastiche ha dedicato una monografi a Candido Ma-zon. La conclusione a cui egli giunge dopo un’ampia disamina del testo delle regole, tanto orientali che occi-dentali, è che esse « non erano vere leggi o precetti nel senso stretto del termine » e che, tuttavia, nemmeno fos-sero riducibili a « meri consigli, che lasciavano ai monaci libertà di seguirli o meno » (M, p. ). Si trattava, secondo Mazon, di norme di « carattere eminentemente direttivo », il cui scopo non era tanto di « imporre » degli obblighi, quanto di « dichiarare e mostrare ai monaci gli impegni che essi avevano contratto, dato il genere di vita che avevano professato » (ibid.).

La soluzione è così poco soddisfacente che l’auto-re, non riuscendo a prendere partito fra coloro che so-stengono la natura giuridica delle regole e coloro che

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le riducono a semplici consigli, fi nisce col considerarle come una sorta di ibrido, « qualcosa che va al di là di un consiglio, ma non giunge a essere legge in senso pro-prio » (ibid., p. ).

Aff ermando questa tesi certamente non perspicua, l’autore non fa che cercare una soluzione di compro-messo a una questione che aveva diviso la scolastica fra il e il secolo. Non è qui il luogo di ricostruire la storia di questo dibattito, che coinvolge, fra gli altri, personalità come Bernardo di Chiaravalle, Umberto de Romanis, Enrico di Gand, Tommaso d’Aquino e Suárez, e in cui è in gioco il problema del carattere obbligatorio delle regole. Ci soff ermeremo su tre momenti, in cui il problema emerge alla luce secondo tre diverse modalità e trova ogni volta una soluzione che ne mette a fuoco un aspetto signifi cativo.

Il primo momento è il commento di Umberto de Romanis alla regola agostiniana, e, in particolare, alla frase haec igitur sunt quae ut observetis praecipimus in monasterio constituti, con cui Agostino introduce le sue prescrizioni. Il problema, che Umberto espone all’ini-zio nella forma tradizionale di una quaestio, è « se tut-to ciò che è contenuto nella regola sia in praecepto » (sia, cioè, obbligatorio – R, p. ). Il problema è, cioè, quello della relazione fra regula e praeceptum. Se questa relazione è pensata come coincidenza, allora tutto ciò che è nella regola è precetto: è la posizione di coloro che, nelle parole di Umberto, ritengono che, nella frase di Agostino, il pronome dimostrativo haec « indica tutto ciò che è nella regola » (demonstrat omnia quae sunt in regula – ibid.). A questo tesi rigorista – che troverà il suo campione in Enrico di Gand – Umberto contrappone la posizione di coloro che sostengono la non coincidenza di regola e precetto, o nel senso che

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l’obbligatorietà si riferisce all’osservanza della regola in generale e non ai singoli precetti (observantia regulae est in praecepto, sed non singula quae continentur in regula) ovvero – e questa è la tesi che egli professa – che l’inten-zione del santo fosse di obbligare all’osservanza di quei tre precetti essenziali che sono l’obbedienza, la castità e l’umiltà e non a tutto ciò che riguarda la perfezione del monaco. Come, infatti, nel Vangelo si deve distinguere fra prescrizioni che hanno sia la forma che l’intenzio-ne del precetto (modum et intentionem praecepti), come il comandamento dell’amore reciproco, altre che sono precetti nell’intenzione, ma non nella forma (come il precetto di non rubare), e altre, infi ne, che sono tali nel-la forma, ma non nell’intenzione, così di deve pensare che un uomo saggio come Agostino « anche se ha par-lato sul modo del precetto, non intendeva porre tutto sotto il precetto, dando in questo modo occasione di dannazione a coloro che erano venuti alla regola per tro-vare la salvezza » (p. ). In un altro testo, Umberto si riferisce ai tre precetti obbligatori (obbedienza, castità, umiltà) come ai tria substantialia (Epistula Humberti…quam scripsit de tribus votis substantialibus religionis) e in questa formulazione abbreviata la sua tesi si im-pose alla maggioranza dei teologi e dei canonisti. Nel suo commento al libro terzo delle Decretali, Hostiensis la enuncia in questo modo: « La regola è nel precetto, ma ciò che dice sull’osservanza della regola, deve essere inteso come riferito indistintamente ai tre sostanziali. Tutte le altre cose che sono contenute nella regola non riteniamo che siano nel precetto, altrimenti a stento un monaco su quattro potrebbe salvarsi » (M, p. ).

.. Un altro modo di porre il problema dell’obbli-gatorietà della regola non riguarda la relazione fra rego-la e precetto, ma la natura stessa dell’obbligo, che può

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essere ad culpam, nel senso che la trasgressione produce un peccato mortale, o soltanto ad poenam, nel senso che la trasgressione implica una pena, ma non un peccato mortale. È in questo contesto che il problema assume la forma tecnica del carattere giuridico o meno (più esat-tamente: legale) delle regole.

Il primo a formulare tematicamente il problema dell’esistenza di leggi puramente penali è Enrico di Gand. E lo fa nella forma canonica di una quaestio che chiede « se si possano trasgredire precetti penali senza commettere un peccato, purché si sconti la pena stabi-lita per la loro trasgressione » (ibid., p. ). L’esempio evocato è quello di una regola monastica, che proibisca di parlare dopo la compieta. La formulazione del divieto può avvenire in due modi: o stabilendo prima il divie-to legale (nullus loquatur post Completorium), facendolo poi seguire da una sanzione penale (si aliquis post Com-pletorium loquatur, dicat septem Psalmos poenitentiales); oppure formulando insieme l’osservanza e la pena (qui-cumque loquatur post Completorium dicet septem Psalmos poenitentiales). È solo nel secondo caso, e qualora si ac-certi che l’intenzione del legislatore non era di escludere ogni possibilità di trasgressione, ma solo di far sì che la trasgressione non si produca senza un motivo ragione-vole, che si può parlare di una trasgressione senza colpa e, conseguentemente, di una legge meramente penale.

È signifi cativo che soltanto nella scolastica più tar-da, a partire del sec. , il problema, appena evocato in Enrico di Gand, si trasformi nel problema della natura legale delle regole religiose. Il campo si dividerà allora fra coloro che, come Pedro de Aragón, aff ermano che, dal momento che una legge deve obbligare tanto ad culpam che ad poenam, le regole dei religiosi non sono vere leggi, ma piuttosto ammonizioni o consigli (proprie

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loquendo non sunt leges, sed potius quaedam decreta homi-num prudentum, habentia vim magis consilii quam legis (ibid., p. ) e coloro che, come Suárez, sostengono che, poiché le leggi possono obbligare anche soltanto alla pena, le regole non sono consigli, ma vere e proprie leggi (item quia sunt actus iurisdictionis et superioris im-ponenti necessitatem aliquam sic operandi, ergo excedunt rationem consilii – p. ).

.. Il problema del rapporto fra regole e diritto è complicato dal fatto che, a partire da un certo mo-mento, la professione di vita monastica si associa alla promessa di un voto. Il voto è un istituto, che, come il giuramento, appartiene verisimilmente a quella sfera più arcaica, in cui è impossibile distinguere fra diritto e religione, che Gernet chiamava impropriamente « pre-diritto ». I suoi caratteri essenziali ci sono noti attraverso le testimonianze romane, nel cui contesto esso appare come una forma di consacrazione agli dei (sacratio), il cui prototipo è nella devotio attraverso cui il console Decio Mure alla vigilia della battaglia decisiva consacra la sua vita agli dei infernali per ottenere la vittoria. Og-getto della consacrazione può anche essere una vittima sacrifi cale, che viene immolata a condizione di ottenere l’esaudimento di un desiderio.

Il voto – scrive Benveniste – nella religione romana è oggetto di una stretta regolamentazione. Occorre in-nanzitutto la nuncupatio, la pronuncia solenne dei voti, affi nché la « devozione » sia accettata dai rappresentanti dello Stato e della religione nelle forme solenni. Occorre poi formulare il voto, votum concipere, conformandosi a un certo modello. Questa formula, di competenza del sacerdote, deve essere ripetuta esattamente dal votante.

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L’autorità può a questo punto accettare il voto, sanzio-nandolo con l’autorizzazione uffi ciale: votum suscipere. Una volta accettato il voto, veniva il momento in cui l’interessato, in cambio di ciò che chiedeva, doveva ese-guire la sua promessa: votum solvere. Infi ne, come in ogni operazione del genere, erano previste sanzioni nel caso in cui l’impegno non fosse mantenuto: colui che non aveva compiuto la promessa era voti reus, persegui-to come tale e condannato: voti damnatus (B, p. ).

Più esattamente, colui che pronuncia il voto, più che essere obbligato o condannato all’esecuzione, diven-ta, almeno nel caso estremo della devotio del console, un homo sacer, la cui vita, in quanto appartiene agli dei inferi, non è più veramente tale, ma dimora nella soglia fra la vita e la morte e può, perciò, essere impunemente uccisa da chiunque.

Inutilmente si cercherebbero un simile formalismo e una simile radicalità nelle regole monastiche dei primi secoli. La monografi a che Catherine Capelle ha dedi-cato al voto nel mostra che proprio sul senso, la natura e la stessa esistenza di un voto monastico regna, tanto nelle fonti più antiche che negli autori moderni, la più grande confusione. Innanzitutto terminologica, sia per la molteplicità dei vocaboli (professio, votum, propositum, sacramentum, homologia, synth"k") che per l’incostanza del loro signifi cato, che varia da « condot-ta » a « dichiarazione solenne », da « preghiera » e « giu-ramento » a « desiderio » (C, pp. -). Né Basi-lio, né Pacomio, né Agostino sembrano voler legare la condizione monastica a un atto formale di carattere in qualche modo giuridico. « Homologia signifi ca, in Basi-lio, ora la proclamazione di fede, ora una sorta di pro-

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messa, un impegno o l’adesione a un modo di vita… Vi è impegno, certo, ma indirettamente e soltanto perché vi è consacrazione. Siamo qui sul piano cultuale, non su quello morale e ancor meno su quello giuridico » (ibid., pp. -). Quanto all’obbedienza, « la sua funzione è innanzitutto ascetica; si tratta di riprodurre il modello che fu Cristo… essa non è né l’oggetto di in impegno religioso, né la conseguenza di una situazione giuridica determinata » (p. ). Analogamente in Pacomio, anche se la necessità dell’obbedienza all’abbate è enfatizzata, essa resta una virtù fra le altre. « Sembra che in questio-ne sia qui solo l’aspetto ascetico dell’obbedienza, e non una forma giuridica conseguente al legame del voto. Se la traduzione latina pare suggerire, se non in Pacomio almeno nei suoi successori, l’esistenza di una professio-ne… il contesto mostra bene che non si tratta di un impegno giuridico, ma semplicemente della risoluzione di servire Dio attraverso la perfezione del proprio agire » (p. ).

La lettura dei capitoli - del libro delle Istitu-zioni di Cassiano, dedicati all’ammissione del postulan-te nel monastero, mostra che anche qui non vi è traccia di voti o di impegni giuridici. Colui che chiede di essere ammesso nel monastero è sottoposto per dieci giorni a umiliazioni e insulti per mettere alla prova la serietà e la costanza del suo proposito: « Gettatosi in ginocchio davanti a tutti i fratelli che passano, è da tutti espressa-mente respinto e disprezzato, come se non volesse entra-re nel monastero per religione, ma per qualche necessità pratica » (C, p. ). Una volta che avrà sop-portato con pazienza e umiltà queste prove, particolare attenzione è posta sulla deposizione delle vecchie vesti e sull’assunzione dell’abito monacale; ma anche questa non basta ad ammetterlo a pieno titolo tra i fratelli e per

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un intero anno deve dimorare presso l’entrata del mo-nastero sotto la guida di un anziano. L’ammissione alla condizione di monaco dipende dalla tenacia del novizio e dalla sua capacità di osservare la regula oboedientiae (ibid., p. ), e non dalla pronuncia di un voto. « I voti non esistono in Cassiano, perché egli trasmette all’Oc-cidente il monachesimo egiziano, che li ignora: nessun impegno può obbligare per tutta la vita, né legare a un determinato monastero » (C, p. ).

Quanto ad Agostino, nessuno dei tre testi che ci tramandano la sua regola (siano essi o meno opera sua) fa la minima allusione a qualcosa come una cerimonia d’iniziazione o la pronuncia di un voto.

.. Si suole aff ermare che la situazione comincia a cambiare con la Regola del maestro e con la regola bene-dettina, che sembrano supporre una vera e propria pro-messa giuridica da parte del novizio. Si legga, tuttavia, il capitolo della Regola del maestro, che porta il titolo signifi cativo Quomodo debeat frater novus in monasterio suum fi rmare introitum. Dopo un periodo di prova di due mesi, alla fi ne del quale il futuro monaco promette genericamente fermezza nell’osservanza della regola che gli è stata letta più volte (repromissa lectae regulae fi rmi-tate – V , , p. ), si svolge fra l’abbate e il no-vizio una sorta di dialogo cerimoniale, che è il novizio, tirandolo umilmente per un capo della veste (humiliter adpraehenso eius vestimento), a sollecitare con questa for-mula singolare: « Ho qualcosa da portare a conoscenza (est quod suggeram) innanzitutto a Dio e a questo santo oratorio, e poi a te e alla comunità » (ibid., p. ). Ri-chiesto di dire di che si tratta, il novizio dichiara: « Vo-glio servire Dio attraverso la disciplina della regola che mi è stata letta nel tuo monastero (volo Deo servire per

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disciplinam regulae mihi lectae in monasterio tuo) ». « È questo che ti piace? » chiede l’abbate. « Innanzitutto a Dio » risponde il novizio « e poi anche a me ». A que-sto punto, l’abbate enuncia, con una formula cautelare, quello che è stato a volte interpretato come un vero e proprio voto:

Vedi, fratello, non è a me che prometti, ma a Dio e a questo oratorio o al sacro altare. Se obbedirai in tutto ai divini precetti o ai miei ammonimenti, nel giorno del giudizio riceverai la corona delle tue buone azioni e io l’indulgenza per i miei peccati, per averti esortato a vincere il diavolo e il mondo. Se invece non vorrai obbedire in qualcosa, ecco io prendo Dio a testimone e anche questa comunità mi sarà testimone nel giorno del giudizio, che, se mi avrai disobbedito, nel giudizio di Dio io sarò assolto e tu invece dovrai rendere conto per la tua anima e per il tuo disprezzo (pp. -).

Non soltanto non è il novizio a pronunciare la pro-messa di obbedienza, ma la formula che egli « suggeri-sce » (voglio servire Dio…) è con ogni evidenza una ge-nerica professione ascetica e non un impegno legale. Un vero e proprio atto giuridico avviene subito dopo, ed è la donazione irrevocabile (o, piuttosto, la sua conferma, perché la donazione aveva già avuto luogo al momen-to della richiesta di ammissione) dei beni del novizio al monastero; ma, nella tradizione monastica, questa donazione è costantemente interpretata come la prova della serietà del proposito ascetico del futuro monaco.

Diversa sembra essere la situazione nella regola benedettina. Qui non soltanto il periodo di prova si allunga fi no a dieci mesi, scandito da ripetute letture della regola, che è ormai soltanto un documento scritto,

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ma, al momento della professione, il novizio « promette davanti a tutti e davanti a Dio e ai suoi santi stabilità, forma di vita e obbedienza » (coram omnibus promittat de stabilitate sua et conversatione morum suorum et obo-edientiam coram deo et sanctis eius – P, p. ). La promessa è ulteriormente raff orzata dalla stesura di un documento detto petitio (autografo, se sa scrivere, ma comunque da lui sottoscritto), che il novizio colloca sull’altare (de qua promissione faciat petitionem ad no-men sanctorum… quam petitionem manu sua scribat… et manu sua eam super altare ponat – ibid., p. ).

Secondo alcuni studiosi, la professione benedettina deve essere interpretata come un vero e proprio con-tratto, modellato sul paradigma della stipulatio romana (Z, p. ). E poiché la stipulatio, come contratto orale, si svolgeva attraverso un formulario di doman-de e risposte (del tipo: Spondesne? Spondeo), gli stessi studiosi hanno privilegiato quei documenti (come un manoscritto di Albi del secolo) in cui la promessa del novizio ha appunto la forma di un dialogo (« Promittis de stabilitate tua et conversatione morum tuorum et obo-edientia coram Deo et sanctis eius? » « Iuxta Dei auditium et meam intelligentiam et possibilitatem promitto » – ibid., p. ). Documenti più antichi mostrano, tuttavia, che la forma più comune della professione era quella di una dichiarazione unilaterale, e non di un contratto. La stes-sa petitio si presenta, nei documenti superstiti, come una semplice conferma (roboratio) della promessa, il cui contenuto non concerne, come in una stipulatio, degli atti specifi ci, ma la stessa forma di vita del monaco. Il formulario di una petitio monachorum di Flavigny (sec. -) recita infatti:

Domino venerabili in Christo patre illo abate de mona-

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sterio illo… Petivimus ergo beatitudinem caritatis, ut nos in ordine congregacionis vestrae digni sitis recipere, ut ibidem diebus vitae nostrae sub regula beati Benedic-ti vivere et conversare deberemus… Habrenunciamus ergo omnes voluntates nostrae pravas, ut dei sola volun-tas fi at in nobis, et omnis rebus quae possidemus, sicut evangelica et regularis tradicio edocit… oboedientia vobis, in quantum vires nostrae subpetunt et Dominus adderit nobis adiutorium, conservare promittimus… Manu nostrae subscripcionis ad honorem Domni et pa-tronis nostri sancti hanc peticionem volumus roborare (C, p. ).

Il monaco non si obbliga qui tanto a dei singoli atti, quanto piuttosto a far vivere in sé la volontà di Dio; inoltre, l’obbedienza è promessa nella misura delle pro-prie forze e sotto condizione dell’aiuto di Dio.

Il commento di Smaragdo alla regola benedettina (sec. ) suggerisce forse in questa prospettiva le consi-derazioni più istruttive. Non soltanto esso ci trasmette il testo di una petitio che sembra mancare di ogni caratte-re giuridico, ma contiene una defi nizione della professio che la situa nel suo contesto proprio: Ista ergo regularis professio, si usque ad calcem vitae in monasterio operibus impleatur, recte servitium sanctus vocatur, quia per istam sanctus e( ectus monachus, sancto Domino sociatur (, , ). Il termine servitium, esattamente come o! -cium, indica la vita e l’attività propria del monaco o del sacerdote, in quanto si modella sulla vita e sul « servizio » prestato da Cristo come sommo sacerdote e « leitourgos del santuario e del vero tabernacolo » (Heb., , ). Si esprime qui con chiarezza quella tendenza a considerare la vita del monaco come un uffi cio e una liturgia inin-terrotta, che abbiamo già menzionato e su cui avremo

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occasione di tornare.

ē Come si deve intendere la petitio menzionata nella re-gola benedettina? Nel diritto romano si parla di petitio nel processo (actio de iure petendi) e per la candidatura a una carica pubblica (petitio facta pro candidato). Nel diritto reli-gioso, essa indicava una richiesta rivolta agli dei in forma di preghiera. Quest’ultimo signifi cato, in cui si potrebbe scor-gere un precursore del voto, è comune negli autori cristiani dei primi secoli (così in Tertulliano, Orat., , : orationis o! -cia… vel venerationem Dei aut hominum petitionem). Posse-diamo però dei documenti (come il formulario sopracitato di Flavigny) che mostrano inequivocabilmente che il senso del termine nella pratica monastica benedettina non è né quello del diritto romano né quello di voto, ma era inteso come una semplice conferma scritta della richiesta di ammissione alla vita monastica.

.. Nel corso del tempo, e, in particolare, a partire dall’età carolingia, la regola benedettina, sostenuta dai vescovi e dalla curia romana, si impone progressivamen-te nei cenobi, fi no a diventare fra il e l’ secolo la re-gola per eccellenza che i nuovi ordini devono adottare o al cui modello devono conformare la propria organizza-zione. È probabile, in questo senso, che proprio la giu-ridizzazione tendenziale della professione monastica che vediamo aff acciarsi nella regola abbia contribuito al suo primato e alla sua diff usione in un’epoca in cui la Chie-sa (e, con essa, l’imperatore) cercava di stabilire un di-screto, ma fermo controllo sulle comunità monastiche. Una serie di decreti del serenissimus et christianissimus imperator, che culminano nell’editto Capitula canonum et regula dell’, prescrive così la regola benedettina, di cui vengono espressamente ricordati i capitoli sull’obbe-

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dienza e sulla professione, a tutti i monaci. Nell’età che segue la regola benedettina e fi no alla

formazione delle prime raccolte di canoni, tanto il ter-mine votum che il verbo voveo (o devoveo – se deo vovere, voventes) appaiono con frequenza crescente nelle fonti. E, tuttavia, anche questa volta una vera e propria teoria del voto monastico, come sarà sviluppata nella scolasti-ca da Tommaso a Suárez, sembra mancare nei canonisti.

Apriamo il libro del Decreto di Ivo di Chartres, il cui tema si enuncia De monachorum et monacharum singularitate et quiete, et de revocatione et poenitentia eo-rum qui continentiae propositum transgrediuntur, o la se-zione De vita clericorum dei Panormia dello stesso auto-re. Benché il testo consista essenzialmente in un collage eterogeneo di passi di Agostino, Ambrogio, Girolamo e da estratti dai canoni conciliari o dalle lettere dei pon-tefi ci o da costituzioni imperiali, l’approccio del pro-blema ha essenzialmente la forma di una casistica. Un servo non può diventare monaco all’insaputa del suo padrone (praeter scientiam domni sui – Decretum, cap. , , , ); conseguentemente, il periodo di prova prima dell’accettazione del novizio è visto nella prospet-tiva dell’accertamento della sua condizione giuridica di uomo libero o servo, in modo da permettere al padrone di recuperare entro tre anni il servo fuggitivo (ibid., cap. , ). Se le ragazze che hanno fatto il voto di casti-tà non costrette dai parenti successivamente si sposano, sono colpevoli anche se non sono state ancora consacra-te (cap. , ); le vergini che si sposano dopo la consa-crazione sono impure (incestae – Panormia, ibid., ); se un monaco dopo la professione lascia il monastero, i suoi beni restano proprietà del monastero; infatti, « il propositum del monaco, liberamente assunto, non può essere abbandonato senza peccato » ().

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Lo stesso vale per Graziano. Se un bambino ha ri-cevuto la tonsura e l’abito senza il suo consenso, la sua professione può non essere defi nitiva, e, eventualmente, può essere annullata (q. -); se il monaco vuole pro-nunciare un voto, deve essere autorizzato dall’abbate (q. ). La questione se i voventes possano contrarre matri-monio riceve, nello stesso senso, un’ampia trattazione. In questione, ogni volta, sono le puntuali implicazioni giuridiche della professione, non una teoria della pro-fessione in quanto normativamente costitutiva della vita monastica come tale.

.. Le considerazioni fi n qui svolte dovrebbero rendere evidente in che senso sia quasi impossibile porre il problema della natura giuridica o non-giuridica delle regole monastiche senza cadere in anacronismi. Anche ammesso che qualcosa come il nostro termine « giuridi-co » sia sempre esistito (il che è quanto meno dubbio), è certo, in ogni caso, che esso signifi ca una cosa nel di-ritto romano, un’altra nei primi secoli della cristianità, un’altra ancora a partire dall’età carolingia e un’altra, infi ne, nell’età moderna, quando lo Stato comincia ad assumere il monopolio del diritto. Inoltre, i dibattiti che abbiamo analizzato sul carattere « legale » o « consiliare » delle regole, che sembrano avvicinarsi all’enunciato del nostro problema, diventano intellegibili solo se non si dimentica che essi si sovrappongono al problema teolo-gico della relazione fra le due diath"kai, la Legge mosai-ca e il Nuovo Testamento.

In questo senso, il problema cessa di essere anacro-nistico solo se lo si restituisce al suo contesto teologico proprio, che è quello del rapporto fra evangelium e lex (cioè, innanzitutto, la legge ebraica). La teoria di questo rapporto è stata elaborata nelle lettere paoline e culmina

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nell’enunciazione che Cristo, il messia, è telos nomou, fi ne e compimento della legge (Rom., , ). Anche se, nella stessa lettera, questa tesi messianica radicale – e l’opposizione che essa implica fra pistis e nomos – è com-plicata fi no a dar vita a una serie di aporie (come in , : « Rendiamo dunque inoperante la legge attraverso la fede? Non sia! Anzi, la confermiamo »), è certo, però, che la vita del cristiano non è più « sotto la legge » e non può essere in nessun caso concepita in termini giuridici. Il cristiano, come Paolo, è « morto alla legge » (nom#i apethanon – Gal., , ) e vive nella libertà dello spirito; e anche quando l’Evangelo sarà contrapposto alla legge mosaica come una « legge della fede » (Rom., , ), o, più tardi, come una nova lex alla vetus, resta che né la sua forma né il suo contenuto sono omogenei a quelli del nomos. « La diff erenza fra la legge e il Vangelo » si legge Nel Liber di! nitionum di Isidoro (cap. ) « è questa: nella legge vi è la lettera, nel Vangelo la grazia… la prima è stata data per la trasgressione, la seconda per la giustifi cazione; la legge mostra il peccato a colui che non lo conosceva, la grazia aiuta a evitarlo… nella legge vengono osservati i comandamenti, nella pienezza del Vangelo si consumano le promesse ».

È in questo contesto teologico che si devono si-tuare le regole monastiche. Basilio e Pacomio, a cui si devono per così dire gli archetipi delle regole, sono perfettamente consapevoli dell’irriducibilità della forma di vita cristiana alla legge. Basilio, nel suo trattato sul battesimo, ribadisce esplicitamente il principio paolino secondo cui il cristiano muore alla legge (apothanein t#i nom#i) e, come abbiamo visto, i Praecepta atque iudicia di Pacomio si aprono con l’aff ermazione che l’amore è il compimento della legge (plenitudo legis caritas). La re-gola, il cui modello è il Vangelo, non può quindi avere

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la forma della legge ed è probabile che la scelta stessa del termine regula implicasse una contrapposizione alla sfe-ra del comandamento legale. È in questo senso che un passo di Tertulliano sembra opporre il termine « regola » alla « forma della legge » mosaica: « Una volta dissolta la forma della vecchia legge (veteris legis forma soluta), gli apostoli per l’autorità dello Spirito santo hanno dato questa regola ai gentili che cominciarono a essere am-messi nella chiesa… » (De pudicitia, ). La nova lex non può avere la forma della legge, ma, come regula, si avvicina alla stessa forma della vita, che guida e orienta (regula dicta quod recte ducit, recita una etimologia di Isidoro – , ).

Il problema della natura giuridica delle regole mo-nastiche trova qui tanto il suo contesto specifi co che i suoi limiti propri. Certamente la Chiesa andrà progres-sivamente costruendo un sistema di norme che culmi-nerà nel secolo nel sistema del diritto canonico, che Graziano compendia nel suo Decretum; ma, se la vita del cristiano può incontrare senza dubbio puntualmen-te la sfera del diritto, è altrettanto certo che la stessa forma vivendi cristiana – che è quanto la regola ha in vista – non può esaurirsi nell’osservanza di un precetto, non può avere natura legale.

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. Fuga dal mondo e costituzione

.. Vi è, tuttavia, un aspetto delle regole secondo il quale possono essere considerate come atti giuridici, ma esso non riguarda il diritto civile né quello penale, bensì il diritto pubblico. È possibile, cioè, guardare alle rego-le come atti costituenti, che portano alla formazione di quelle comunità « politiche » – anche se in un senso par-ticolare – che sono indubbiamente i cenobi e i conventi. Alla base di questa natura giuspubblicistica delle regole sta la dottrina, elaborata da Filone e raccolta e svilup-pata da Ambrogio, della fuga saeculi come processo per così dire costituente della comunità dei credenti.

Sia il De fuga et inventione di Filone. Qui innanzi-tutto la fuga di Giacobbe è motivata dal fatto che La-bano ha abbandonato ogni sollecitudine per la legge, in modo che le « potenze ascetiche » che spingono Giacob-be a fuggire agiscono per rivendicare un’eredità che è stata loro tolta ingiustamente. E i luoghi di rifugio o di esilio (phygadeut"ria; phyg", in greco, signifi ca innanzi-tutto esilio) sono qui – sulla base di un midrash su Num., , -, a proposito dei luoghi dove poteva trovare asi-lo il colpevole di un omicidio involontario – delle vere e proprie città, che simboleggiano, però, ciascuna una potenza divina. Esse sono sei: la prima, la città-madre (m"tropolis), è la parola (logos) divina, la prima in cui è utile cercare rifugio. Le altre cinque, che sono « colonie »

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(apoikiai) rispetto alla prima, sono così descritte: « La prima è la potenza creativa (poietik"), attraverso cui Dio ha creato il mondo con la sua parola; la seconda è la po-tenza regale (basilik"), attraverso cui il creatore comanda (archei) su ciò che ha fatto; la terza è la potenza della misericordia (hile#s), attraverso cui l’artefi ce ha cura e compassione della sua opera; la quarta è la potenza le-gislativa, attraverso la quale egli ordina ciò che va fatto; la quinta è quella parte della potenza legislativa con la quale vieta quello che non va fatto » (, ).

La fuga è dunque concepita come un processo che porta il fuggitivo o l’esule attraverso sei città che sono altrettante potenze « politiche » costitutive: la parola di-vina (identifi cata col grande sacerdote), la creazione, il regno, il governo, la legislazione positiva e negativa.

Le città sono, inoltre, città dei Leviti, perché i Levi-ti sono anch’essi in qualche modo fuggiaschi ed esiliati (phygades), che, per piacere a Dio, hanno abbandona-to genitori, fi gli e fratelli. Ai Leviti e ai sacerdoti sono affi date la custodia del tempio e la leitourgia (cioè, la funzione pubblica del culto). Allo stesso modo, anche i fuggiaschi, che si sono resi colpevoli di una colpa invo-lontaria, « prestano un servizio pubblico (leitourgousi) » (-). In questo denso midrash, che doveva avere una lunga posterità nel cristianesimo, l’esilio è visto para-dossalmente come una « liturgia », come una prestazione pubblica, attraverso la quale gli esiliati sono assimilati a dei sacerdoti.

È noto che il De fuga saeculi di Ambrogio dipende fortemente dal testo fi loniano e che, in questo senso, esso non brilla certo per originalità. Tuttavia proprio il fatto che egli abbia deciso di inserire il midrash fi lonia-no in una delle opere fondative dell’ascetismo cristiano iscrive il tema della fuga dal mondo in una prospettiva

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particolare, in cui rinuncia e ascetismo si legano stret-tamente all’esercizio del sacerdozio, cioè a una pratica pubblica. Non soltanto il capitolo riprende quasi alla lettera l’esegesi fi loniana delle città di asilo, ma, con uno svolgimento gravido di signifi cato, il sommo sacerdote, che già Filone assimilava al logos divino, è identifi cato senza riserve col Figlio.

Chi è questo sommo sacerdote se non il Figlio di Dio, il Verbo di Dio, che abbiamo come intercessore presso il Padre, che è esente da tutte le colpe sia volontarie che involontarie e in cui si fonda tutto ciò che esiste tanto in cielo che in terra?… Tutte le cose sono congiunte insie-me dal vincolo del Verbo, sono tenute insieme dalla sua potenza e hanno in lui il loro fondamento, poiché in lui sono state create e in lui dimora ogni pienezza. Per que-sto tutto permane, perché egli non permette che si dis-solva ciò che ha unito attraverso la sua volontà; e tutto ciò che vuole lo costringe col suo comando, lo governa e lega nella concordia della natura… (A, p. ).

Sulla suggestione di Filone e della lettera paolina agli ebrei, il Verbo è immediatamente identifi cato col grande sacerdote di Ps., , .

Sappi che egli è il grande principe dei sacerdoti. Il Padre ha giurato per lui dicendo: « Tu sei sacerdote in eter-no »… Questo è il verbo di Dio in cui risiede il sommo sacerdozio, le cui vesti Mosè descrive come indumenti intellegibili, poiché attraverso la sua potenza si riveste del mondo e, come avvolto in esso, risplende in tutte le cose… Cristo è il capo di tutti, da cui si sviluppa tutto il corpo, che è congiunto da commessure reciproche e cresce attraverso l’edifi cazione dell’amore (ibid., pp. -

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).

Qui il tema della fuga dal mondo, così costitutivo per il monachesimo, si salda con l’esercizio di una pra-tica ecclesiale in cui il fuggiasco appare come il vero mi-nistro della comunità: « colui che fugge dai suoi è il mi-nistro del sacro altare di Dio » (fugitans igitur est suorum sacri altaris eius minister – p. ). Ed è su questa base che anche l’esilio monastico dal mondo poteva essere concepito come la fondazione di una nuova comunità e di una nuova sfera pubblica.

ē Facendo dell’esilio un principio politico costituente, Fi-lone si riferiva, in realtà, a una tradizione consolidata nella fi -losofi a greca, che si serviva dell’esilio come metafora della vita perfetta del fi losofo. Nel celebre passo del Teeteto ( a-b), in cui l’assimilazione a Dio è presentata come una phyg" (phyg" de homoi#sis the#i kata ton dynaton), occorre restituire a phyg" il suo signifi cato originario di esilio (« l’assimilazione a dio è virtualmente un esilio »). Ed è in perfetta analogia con la metafora platonica che, nella Politica ( a -), Aristotele può defi nire « straniera » (xenikos bios) la forma di vita del fi losofo. E quando, secoli dopo, Plotino, alla fi ne delle En-neadi, defi nirà la vita degli uomini « divini e felici » (cioè dei fi losofi ) come una phyg" monou pros monon, il passo diven-ta pienamente intellegibile solo se non si perde il carattere politico dell’immagine: « esilio di un solo presso un solo ». L’« esilio dal secolo » è, innanzitutto, un gesto politico, che, in Filone e in Ambrogio, equivale alla costituzione di una nuova comunità.

.. Nel Ildefons Herwegen, l’iniziatore del movimento liturgico nell’abbazia benedettina di Ma-ria Laach, ha richiamato l’attenzione su un documen-

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to eccezionale, che getta una nuova luce sulle regole e sulle professioni monastiche e permette, in particolare, di situarle in una prospettiva giuspubblicistica. Si tratta del cosiddetto Pactum, che si trova alla fi ne della regu-la communis di san Fruttuoso di Braga. L’interesse di questo documento, di poco anteriore al , è che esso si presenta come un accordo o contratto fra due parti, l’insieme dei monaci da un lato (designati col termi-ne generico nos omnes) e l’abbate dall’altro (defi nito tu dominus), in cui essi fondano e regolano la comunità attraverso la statuizione di obbligazioni reciproche.

Accesi da un divino ardore, noi tutti, che più sotto fi r-miamo, consegniamo a Dio e a te, nostro signore e pa-dre, le nostre anime, per vivere insieme in uno stesso cenobio, nell’esempio di Cristo e nel tuo insegnamen-to, secondo l’editto degli apostoli e la regola e secondo quanto sancito dall’autorità dei santi padri che ci hanno preceduti. Tutto ciò che per la salute delle nostre ani-me tu vorrai proclamare, insegnare, fare, ammonire, comandare, scomunicare e correggere secondo la regola (annuntiare, docere, agere, increpare, imperare, excom-municare, secundum regulam emendare), tutto ciò noi lo compiremo con l’aiuto della grazia divina in umiltà di cuore, deposta ogni arroganza, con attenzione e arden-te desiderio, senza cercare scuse (inexcusabiliter) e con l’approvazione di Dio. E se qualcuno di noi mormorerà contro la regola e il tuo comando e sarà riottoso, disob-bediente e cavillatore (contra regulam et tuum praecep-tum murmurans, contumax, inobediens vel calumniator), tu avrai allora la potestà di convocarci tutti insieme e, dopo aver letto davanti a tutti la regola, di giudicare pubblicamente la colpa e ciascuno convinto del suo de-litto riceverà le pene o la scomunica in proporzione alla

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sua colpa. E se poi qualcuno di noi contro la regola or-dirà occultamente e in assenza dell’abbate padre nostro un complotto con i parenti, i fratelli, i fi gli, i cognati o altre relazioni o peggio con un fratello che abita con lui, allora tu avrai la potestà di infl iggere a chiunque avrà tentato questo crimine l’esclusione per sei mesi dalla co-munità in una cella oscura, vestito di una coperta o di un cilicio, senza cintura né calzatura, nutrito di solo pa-ne e acqua. E se qualcuno non si sottoporrà incondizio-natamente a questa penitenza, riceverà sul corpo nudo settantadue frustate e, deposto l’abito del monastero e indossata la veste che aveva al suo ingresso, sarà espulso dal cenobio con grande vergogna (H, pp. -).

Di fronte a questo assoggettamento dei monaci alla sovranità dell’abbate sta, però, l’obbligo dell’abbate di governare con giustizia ed equità:

Ma se tu, signore – cosa che Dio non vorrà e non osia-mo credere – tratterai qualcuno di noi con ingiustizia, superbia o ira, o darai la tua preferenza a uno di noi e disprezzerai con odio e livore un altro, se a uno coman-derai e l’altro lusingherai, come fa il volgo, allora noi avremo la potestà a noi concessa da Dio di presentare senza arroganza né ira la nostra lagnanza per mezzo di un nostro rappresentante, che esporrà la nostra querela inginocchiandosi umilmente davanti a te, e tu dovrai ascoltarlo e secondo la regola comune piegare il capo, correggerti ed emendarti. E se non vorrai farlo, allora avremo la potestà di avvertire altri monasteri o di chia-mare in nostro aiuto un vescovo che viva sotto la regola o un conte cattolico difensore della chiesa, affi nché tu ti corregga davanti ad essi e compia la regola (ibid., pp. -).

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Herwegen, che si soff erma sul signifi cato giuridico del documento, si rende conto del carattere costituti-vo del patto rispetto alla comunità conventuale, senza però trarne tutte le conseguenze. « La formula » egli scri-ve « è espressione di un negozio giuridico attraverso il quale una molteplicità si unisce per una comune vita claustrale. A un abbate defi nito come “signore e padre” viene conferito nella forma di una professione religiosa un potere superiore sotto riserva di determinati diritti. La convenzione si presenta quindi come la fondazione di un convento, connessa alla soggezione dei monaci all’abbate » (p. ). In questa prospettiva, egli cerca di di-mostrare il possibile infl usso sul pactum da una parte dei giuramenti di soggezione fra sudditi e sovrano contenu-ti nella lex Visigothorum e, dall’altra, del giuramento di obbedienza del legionario romano. Tanto più sorpren-dente è che, esclusivamente preoccupato di riportare il pactum al suo contesto visigotico e di distinguerlo dalla professione monastica in senso stretto, Herwegen non si accorga che il pactum costituisce forse il primo e unico esempio di un contratto sociale, in cui un gruppo di uomini si sottopone incondizionatamente all’autorità di un dominus, attribuendogli il potere di dirigere in tutti i suoi aspetti la vita della comunità che viene così fonda-ta. Rispetto al Covenant hobbesiano o al contratto socia-le di Rousseau, in cui l’autorità del sovrano non conosce limiti, all’obbligo di soggezione dei monaci corrisponde qui l’obbligo di governare con giustizia da parte dell’ab-bate. In ogni caso, però, decisivo è che il pactum non è in alcun modo assimilabile a una stipulazione privata e che, sottraendo la questione al dibattito, tutto sommato sterile, sul carattere stipulatorio o votivo della professio-ne monastica, esso permette di considerare in qualche modo le regole nella loro integrità come veri e propri

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documenti costituenti (constitutiones, come del resto spesso vengono designate) della comunità claustrale.

.. In realtà, decisivo non è qui tanto il problema della natura più o meno giuridica delle regole, che è del tutto improponibile per le regole più antiche, quanto, più in generale, quello della particolare relazione che nella regola viene a stabilirsi fra la vita e la norma. In questione non è, cioè, che cosa nella regola sia precetto e che cosa consiglio, né il grado di obbligatorietà che essa implica, quanto, piuttosto, un modo nuovo di concepi-re la relazione fra la vita e la legge, che revoca in questio-ne gli stessi concetti di osservanza e di applicazione, di trasgressione e di adempimento.

Già nelle regole più antiche, le disposizioni penali spesso non si riferiscono a singole azioni, ma a qualcosa come un vizio o una condizione spirituale del monaco. Qui facilis est ad detrahendum, si in hoc peccato fuerit deprehensus… iracundus et furiosus si frequenter irascitur si legge nei Praecepta atque iudicia pacomiani; Si quis frater contumax aut superbus aut murmurans aut inobo-ediens… comincia il capitolo de excommunicatione cul-parum nella Regola del maestro (V , , p. ); e, nella regola di Isidoro, la rubrica che enumera i delitti più gravi assomiglia più a un catalogo di vizi che alla confi gurazione di fattispecie colpevoli: si temulentus quisquam sit, si discors, si turpiloquus, si feminarum fami-liaris, si seminans discordias, si iracundus… (, , ).

Ciò vale a maggior ragione per gli obblighi positivi del monaco. Un passo del De praecepto et dispensatione di Bernardo di Chiaravalle è, in questa prospettiva, par-ticolarmente signifi cativo. Rispondendo, in un dialogo immaginario, a un monaco che, avendo professato la regola, lamenta di non poter adempiere il suo voto nel

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monastero in cui si trova, Bernardo scrive:

Il tuo lamento non è giusto. Colui che si ritiene sper-giuro, perché non osserva la regola in tutto il suo rigo-re (ad purum), mostra di non aver inteso che cosa ha giurato. Nessuno, infatti, quando fa la sua professione (cum profi tetur), promette la regola (spondet regulam), ma si impegna più precisamente a dirigere a partire da quel momento la sua conversione e la sua forma di vi-ta (conversionem suamque…conversationem dirigere) se-condo la regola (secundum regulam). Questo è in verità oggi la professione comune a tutti i monaci. E benché nei diversi monasteri si serva Dio con diverse osservan-ze, fi nché ciascuno conserva i buoni usi del luogo, vive senza dubbio secondo la regola, poiché i buoni usi non discordano dalla regola (B, pp. -).

Come la contrapposizione fra un termine tecnico del diritto (spondere, obbligarsi personalmente a qual-cosa) e un’espressione tratta dal linguaggio ascetico (di-rigere la propria forma di vita) mostra con evidenza, il passo testimonia di una trasformazione che investe il modo di intendere il rapporto fra la norma e la vita: colui che promette non si obbliga, come avviene nel di-ritto, al compimento di singoli atti previsti nella regola, ma mette in questione il suo modo di vivere, che non si identifi ca con una serie di azioni né si esaurisce in esse. Come Bernardo aggiunge subito dopo, « coloro che de-cidono di vivere secondo la regola (secundum regulam vivere), anche se non la osservano integralmente in ogni dettaglio (ad unguem), tuttavia non si allontanano dal-la professione regolare, fi nché non cessano di vivere in modo sobrio, pio e giusto (sobrie et iuste et pie vivere) secondo i costumi dei loro fratelli » (ibid., p. ).

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È verisimilmente in riferimento a questo passo che Tommaso può scrivere che « colui che professa la regola non si obbliga a osservare tutto ciò che è nella regola (non vovet observare omnia quae sunt in regula), ma vota la vita regolare (vovet regularem vitam) che consiste es-senzialmente nei tre principi [cioè: obbedienza, castità, umiltà]. Per questo, in alcuni ordini, più cautamente i monaci non promettono la regola, ma di vivere secon-do la regola (profi tentur non quidem regulam, sed vivere secundum regulam) » (S. ' ., , , qu. , art. ). Anche se Tommaso sembra ridurre il problema a quello della diff erenza fra precetto e regola, il punto decisivo, che gli autori hanno diffi coltà a mettere a fuoco, è la trasforma-zione che è in questione nel passaggio da « promettere la regola » a « promettere di vivere secondo la regola » (promettere la vita). L’oggetto della promessa non è più qui un testo legale da osservare o una certa azione o una serie di comportamenti determinati, ma la stessa forma vivendi del soggetto.

.. In Suárez, questo carattere speciale della profes-sione monastica assume la forma paradossale di un’ob-bligazione che non ha per oggetto un certo atto umano, ma l’obbligazione stessa. Egli comincia innanzitutto col distinguere due accezioni del termine votum: nella pri-ma, esso designa « l’obbligazione e il vincolo che perma-ne in colui che ha pronunciato il voto (pro obligatione et vinculo quod manet in homine habente votum) », nella seconda, « l’atto da cui nasce immediatamente l’obbliga-zione (pro actu illo a quo immediate nascitur obligatio) » (S, p. ). « Dico » egli continua « che il voto propriamente detto, in quanto signifi ca quell’atto, at-traverso il quale l’uomo si obbliga rispetto a Dio, non ha per oggetto un altro atto umano, ma la stessa obbli-

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gazione, cioè il vincolo da realizzare attraverso l’atto di votarsi (non habere pro obiecto alium actum humanum sed obligationem ipsam, seu vinculum e! ciendum per ac-tum vovendi) » (ibid.).

Il voto, in quanto « non è altro che l’obbligazione, attraverso cui qualcuno si lega spontaneamente a Dio (se spontanee obligat deo), non obbliga, come la legge, semplicemente a compiere determinati atti e ad astener-si da altri, ma produce nella volontà un « vincolo per-manente e quasi abituale » (vinculum permanens et quasi in habitu – ibid.). Il voto è, qui, cioè, « voto del voto » (habet pro obiecto votum), nel senso che non si riferisce immediatamente a una certa azione o una certa serie di atti, ma innanzi tutto al vincolo che è esso stesso a produrre nella volontà:

E quella volontà, attraverso cui l’uomo si obbliga rispet-to a Dio, ha per oggetto la stessa obbligazione a Dio e quindi ha per oggetto il voto o la promessa, nella mi-sura in cui questa signifi ca lo stesso vincolo da realizza-re attraverso il voto, e non nella misura in cui signifi ca l’atto di votare o promettere (habet pro obiecto votum vel promissionem, quatenus haec signifi cat vinculum ip-sum e! ciendum per votum, non quatenus signifi cat actum vovendi aut promittendi – ibid.).

Ciò che qui Suárez cerca faticosamente di pensare moltiplicando le sue distinzioni è il paradosso di un’ob-bligazione il cui contenuto primo non è un certo com-portamento, ma la forma stessa della volontà di colui che, promettendo il voto, si è legato a Dio. Il voto ha, cioè, la forma della legge, ma non il suo contenuto e, come l’imperativo kantiano, non ha immediatamente alcun oggetto, se non la volontà stessa del devoto. Per

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questo, nel capitolo successivo, Suárez ha cura di distin-guere il votum in senso proprio, che si realizza attraverso la sola promessa (per solam promissionem), dalla traditio, che si aggiunge ad esso nel caso del voto solenne di ca-stità, in cui il votante « consegna e consacra a Dio il suo corpo in perpetua castità » (ibid., p. ). A diff erenza della devotio pagana, in cui il devotus consegna agli dei il suo corpo e la sua vita biologica, il voto cristiano è, per così dire, oggettualmente vuoto e non ha altro con-tenuto che il prodursi di un habitus nella volontà, il cui risultato ultimo sarà una certa forma di vita comune (o, nella prospettiva liturgica, l’inverarsi di un certo o! -cium e di una certa religio).

Ancora una volta, il nucleo decisivo della condi-zione monastica non è una sostanza o un contenuto, ma un habitus o una forma e comprendere quella con-dizione signifi cherà tornare a misurarsi col problema dell’« abito » e della forma di vita.

ē Nella nostra archeologia dell’uffi cio (A , , ), abbiamo mostrato che religio è il nome che i teologi danno a questa singolare relazione fra norma e vita, che confi gura una sorta di dovere giuridico nella forma di una virtù e di un habitus.

Per comprendere la nuova fi gura della relazione fra nor-ma e vita che qui comincia a delinearsi, occorre riferirsi a situazioni giuridiche che troveranno la loro forma tecnica soltanto più tardi nel diritto amministrativo – cioè in quella branca del diritto moderno che ha avuto la sua gestazione nell’ambito della prassi dell’amministrazione ecclesiastica. È qui che si incontrano delle norme (dette strumentali) che prevedono veri e propri schemi di comportamento, legati alla defi nizione di una « competenza-dovere », cioè a un obbligo o a una legittimazione ad agire che derivano da una deter-

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minata situazione (per esempio, l’assunzione di una carica). I « doveri di uffi cio » che ne risultano confi gurano un tipo o uno schema normativo di prassi che non si esaurisce in una singola azione, ma defi nisce una vera e propria condotta di vita, in cui elemento oggettivo ed elemento soggettivo ten-dono a coincidere e che ricorda, in questo senso, il vivere secundum regulam e la religio del monaco.

.. Decisivo, in ogni caso, è che la forma di vita che è in questione nelle regole è un koinos bios, una vita comune. Ogni interpretazione delle regole monastiche deve innanzitutto situarle in questo contesto, dal qua-le esse non possono essere separate. Quando ci si in-terroga sulla relazione fra i monaci e la regola, occorre non dimenticare l’osservazione di Wittgenstein secondo cui non è possibile seguire una regola in modo privato, poiché il riferirsi a una regola implica necessariamente una comunità e un’abitudine. Anche per il monaco vale il principio secondo cui « Non è possibile che un solo uomo abbia seguito una regola una sola volta… Segui-re una regola, fare una comunicazione, dare un ordine, giocare una partita a scacchi sono abitudini (usi, istitu-zioni) » e « Seguire la regola è una prassi. E credere di seguire la regola non è seguire la regola. Per questo non si può seguire una regola privatim… » (W , pp. -).

È importante precisare pertanto che la vita comune non è l’oggetto che la regola deve costituire e governare; al contrario – come provano tanto la rivendicazione di una « potestà a noi concessa da Dio » nel patto di san Fruttuoso che l’insistenza sulla distinzione fra « promet-tere la regola » e « promettere la vita » in Bernardo e in Tommaso – è la regola che sembra nascere dal « ceno-bio », che, per usare il linguaggio del diritto pubblico

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moderno, sembra porsi rispetto ad essa come il potere costituente rispetto al potere costituito. Se l’ideale di una « vita comune » ha ovviamente un carattere politi-co, il cenobio è forse il luogo in cui la comunità di vita come tale è rivendicata senza riserve come l’elemento in ogni senso costitutivo. In questione, nella vita del ceno-bio, è, cioè, una trasformazione del canone stesso della prassi umana, che è stata così determinante per l’etica e la politica delle società occidentali, che forse ancora oggi non riusciamo ad aff errarne pienamente la natura e le implicazioni.

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Soglia

È solo coi francescani che questa trasformazione giunge, come vedremo, alla piena consapevolezza e può, pertanto, essere rivendicata come tale, revocando insie-me in questione la stessa consistenza della regola come insieme di norme separate dalla vita.

Nel commento di Ugo di Digne alla regola france-scana la diff erenza fra promittere regulam e promittere vi-vere secundum regulam è ripresa, ma non per distinguere fra precetti e consigli o, come in Umberto de Romanis, fra i tre voti sostanziali (obbedienza, povertà e castità) e il resto della regola, ma per lasciare il posto a una as-soluta indecidibilità fra forma regulae e forma vivendi. Colui che promette di osservare la vita e la regola del beato Francesco, scrive Ugo, promette secondo la for-ma della regola (secundum formam regulae profi tetur) e, pertanto, non si obbliga a osservare né le singole norme né i tre voti principali, ma tutto indistintamente (omnia indistincte), in modo che la stessa forma di vita (forma vivendi) del monaco cade sub voti e! cacia (U D-, , p. ). Non senza analogia con quanto Suárez tenterà di pensare tre secoli dopo nel suo trattato sul voto, ciò che viene promesso soltanto secondo la forma della legge è la stessa forma di vita del monaco. Attraver-

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so il concetto di « forma », regola (forma regulae) e vita (forma vivendi) entrano nella prassi del monaco in una soglia di indistinzione.

Per questo la promessa francescana non è né un promettere la regola né un promettere di vivere secondo la regola, ma una promessa incondizionata e indivisibi-le della regola e della vita (regulae vitaeque): Promittere quidem non regulam, sed vivere secundum regulam, minus ad singula regulae dicitur obligare; sed hic plena regulae vitaeque promissio ponitur, nec additur « vivendo in obe-dientia, sine proprio et castitate » (ibid., p. ).

Commentando questa espressione della regola (« vi-vendo in obbedienza »), Pietro di Giovanni Olivi scrive: « Nota che ha più senso dire “vivendo in obbedienza” che dire “osservando l’obbedienza” o “obbedendo”: si dice, infatti, che qualcuno vive in un certo stato o in una certa opera solo se si è così applicato ad essa con tutta la sua vita (cum tota sua vita est sic applicatus ad illud), che a ragione si dice essere e vivere e dimorare (esse et vivere et conversari) in essi » (O , p. ). L’i-dea giuridica tradizionale dell’osservanza di un precetto è qui rovesciata: non solo il minorita non obbedisce alla regola, bensì « vive » l’obbedienza, ma, con un’inversio-ne ancora più estrema, è la vita ad applicarsi alla norma e non la norma alla vita.

In questione, nelle regole monastiche, è, dunque, una trasformazione che sembra investire il modo stesso in cui si concepisce l’azione umana, che dal piano della prassi e dell’agire si sposta a quello della forma di vita e del vivere. Questa dis-locazione dell’etica e della po-litica dalla sfera dell’azione a quella della forma di vita costituisce il lascito più arduo del monachesimo, che la modernità non è riuscita a delibare. Come intende-re, infatti, questa fi gura di un vivere e di una vita, che,

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aff ermandosi come « forma di vita », non si lascia, però, ricondurre né al diritto né alla morale, né a un precetto né a un consiglio, né a una virtù né a una scienza, né al lavoro né alla contemplazione e che, tuttavia, si dà esplicitamente come canone di una perfetta comunità? Qualunque sia la risposta che si dà a questa domanda, è certo che il paradigma dell’azione umana che in essa è in questione ha esteso progressivamente la sua effi cacia ben al di là del monachesimo e della liturgia ecclesia-stica in senso stretto, penetrando nella sfera profana e infl uenzando durevolmente tanto l’etica che la politica occidentale. Se esso si defi nisce, come abbiamo visto, come una soglia di indistinzione tendenziale fra regola e vita, è questa soglia che dovremo indagare se vogliamo comprenderne la natura.

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. Liturgia e regola

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. Regula vitae

.. Gli storici e i teologi che hanno lavorato sulle regole monastiche si riferiscono di solito in modo som-mario alla storia semantica del termine regula e si li-mitano solitamente a registrarne le accezioni all’interno del corpus in questione. Naturalmente tutti sanno (o do-vrebbero sapere) che, a partire dal secolo d. C., i Padri fanno spesso uso dei sintagmi regula fi dei (così Rufi no traduce kanon piste#s nel testo di Origene), regula veri-tatis, regula traditionis, regula scripturarum, regula pieta-tis, e, tuttavia, la loro relazione col sintagma regula vitae (o regula vivendi), che s’incontra nel testo delle regole monastiche, non è stata analizzata in modo esaustivo. D’altra parte, al di fuori del contesto teologico, è nota l’importanza delle regulae iuris nella tradizione della giurisprudenza romana; meno noto è, però, che que-sta tradizione doveva essere familiare ai Padri, se Rufi no può riferirsi alle stesse regole e costituzioni monastiche come a dei responsi giurisprudenziali (sancti cuiusdam iuris responsa – F, p. ).

Peter Stein, a cui si deve un ampio studio sulle regu-lae iuris, ha mostrato che il termine deriva dal dibattito sull’analogia (cioè sulla regolarità) e l’anomalia (cioè, la consuetudine e l’uso) che divise i grammatici greci e ro-mani a partire già dal secolo a. C. (S, pp. sgg.). Ciò signifi ca che anche espressioni grammaticali come

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regula loquendi o regula artis grammaticae potevano non essere estranee ai redattori delle regole monastiche, che, come abbiamo visto, fanno spesso uso della metafora dell’ars. Un passo di Varrone sulla relazione fra regola e uso (che egli estende, signifi cativamente, anche al di fuori dell’ambito linguistico) mostra anzi al di là di ogni dubbio come questioni grammaticali possano rivelarsi preziose per la comprensione dello stesso problema in ambito monastico. « Se dobbiamo seguire la regolarità (si analogia sequenda est nobis) » scrive Varrone (De lin-gua latina, , ) « dobbiamo osservare o la regolarità che si trova nell’uso ovvero quella che non si trova in esso. Se si segue la prima, non c’è bisogno di precetti, perché, se si segue l’uso, è la regolarità che ci segue (pra-eceptis nihil opus est, quod, cum consuetudinem sequemur, ea nos sequetur) ».

Se è vero, come mostrano gli studi di Spitzer sulla semantica storica del lessico europeo, che non è possibi-le comprendere il signifi cato di un termine se si ignora-no le sue relazioni col contesto linguistico nel suo com-plesso, un’indagine sulla semantica del termine regula tanto in ambito teologico che nel diritto e nella gram-matica (e nelle artes in generale) resta ancora da fare. Ci limiteremo qui a qualche considerazione preliminare di carattere ermeneutico generale.

Innanzitutto il termine regula tende, come abbia-mo visto, a comporsi in sintagma con un altro termi-ne al genitivo (regula fi dei, regula iuris, regula loquendi ecc.). Si tratta di un genitivo soggettivo (di cui ius è sog-getto) o di un genitivo oggettivo (di cui ius è l’oggetto)? Nel caso del sintagma regula iuris, possiamo dare alla domanda una risposta sicura. Il digesto attribuisce in-fatti a Paolo questa concisa defi nizione: Regula est quae rem quae est breviter enarrat. Non ex regula ius sumatur,

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sed ex iure quod est regula fi at (D., , , ). Genitivo soggettivo, dunque, anche se in un senso particolare: la regola è prodotta (o deve essere prodotta: fi at) a partire dal diritto esistente (ex iure quod est).

.. Una prima ricognizione nei testi patristici dei primi secoli mostra che in questione nei sintagmi regula fi dei e regula veritatis è appunto un genitivo soggettivo di questo tipo. Tertulliano, che è fra i primi a servirsene in senso tecnico, nel De virginibus velandis aff erma, con una metafora giuridica, il primato della verità, che nes-suna prescrizione può infi rmare (cui nemo praescribere potest), sulla consuetudine. Se la verità non può, come avviene invece per la legge, essere prescritta o alterata dalla consuetudine, ciò è perché, nel caso della fede, la verità è Cristo stesso (Christus veritatem se, non consue-tudinem, cognominavit – T , p. ). Solo a questo punto egli può enunciare la regula fi dei, sola immobilis et irreformabilis, credendi scilicet in unicum deum onnipotentem, mundi creatorem, et Filium eius, na-tum ex virgine Maria, crucifi xum sub Pontio Pilato, tertia die resuscitatum a mortuis, receptum in caelis, venturum iudicare vivos et mortuos per carnis etiam resurrectionis (ibid., p. ). Il credo – o, piuttosto, la regula fi dei –, che vediamo qui nell’atto della sua progressiva elabora-zione, non ha ancora assunto la forma dogmatica che ri-ceverà nei concili. Come osserva acutamente Agostino, commentando la formula paolina ed evangelica credere in Christum, esso non è ancora, come sarà nel dogma, una norma esterna che dà alla fede e alla verità il suo contenuto; piuttosto è la fede in Cristo a fornire alla regula la sua unica verità, che è essenzialmente di ordine pragmatico e implica l’adesione immediata e totale alla presenza e all’azione di Cristo (ut credatis in eum, non ut credatis ei… quid est ergo credere in eum? Credendo ama-

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re, credendo diligere, credendo in eum ire, et eius membris incorporari – In Johannis Evang., , ; hoc est credere in Deum, quod utique plus est quam credere Deo… credendo adhaerere ad bene cooperandum bona operanti Deo – En. in Psalm., , ).

Ciò è evidente nell’Expositio symboli di Rufi no: quel-la che i Padri formulano (componunt, mettono insieme)come regula è tratta dall’esperienza della fede e della verità di ciascuno di essi (conferendo in unum quod sen-tiebat unusquisque) e il symbolon che ne risulta non è pertanto che un indicium, un segno e una testimonianza comune della loro fede (symbolon enim Graece et indi-cium dici potest et conlatio, hoc est quod plures in unum conferunt). Parafrasando la defi nizione del Digesto, si può dire anche qui che non ex regula fi des sumatur, sed ex fi de quae est regula fi at.

Nel De doctrina christiana di Agostino, regula fi dei e regula veritatis si riferiscono spesso all’interpretazione delle Scritture, di cui contribuiscono a guidare la lettu-ra. Ma anche qui, la regola che sarà usata per chiarire le oscurità della Scrittura deriva innanzitutto dalla Scrit-tura stessa (« Se qualcuno ha una incertezza quanto alla lettura o all’interpunzione di un testo, deve ricorrere alla regula fi dei, che avrà tratto dai luoghi più chiari delle Scritture (consulat regulam fi dei, quam de scripturarum planioribus locis… percepit) » (A, p. ). Il mo-dello di Agostino è qui Ticonio, al cui Liber regularum, che si può considerare in qualche modo l’archetipo dei trattati sull’ermeneutica testuale, egli dedica buona parte del terzo libro dell’opera. All’inizio del suo trat-tato, Ticonio precisa che le « regole mistiche » che egli intende approntare come « chiavi e lumi » per le sacre Scritture si trovano nel testo stesso, di cui occupano la parte più interna e nascosta (quae universae legis recessus

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obtinent) e solo dopo che la loro ratio sarà stata rivela-ta « ciò che è chiuso si spalancherà e ciò che è oscuro si chiarirà » (T, p. ). Ancora una volta i criteri dell’interpretazione del testo (regulae scripturarum) non sono esteriori ad esso, ma ne derivano: il genitivo non è oggettivo, ma soggettivo.

.. Se torniamo ora al sintagma regula vitae che incontriamo, per esempio, nel prologo della Regola dei quattro Padri (qualiter conversationem vel regulam vitae ordinare possimus), è lecito chiedersi se anche qui, come nei testi che abbiamo appena esaminato, non si tratti appunto di un genitivo soggettivo. Come, nei sintagmi regula iuris e regula fi dei, il diritto e la fede non sono retti dalla regola né derivano da essa, ma viceversa, allo stesso modo è possibile che nel sintagma regula vitae non sia tanto la forma di vita a derivare dalla regola, quanto la regola dalla forma di vita. O, forse, si dovreb-be dire piuttosto che il movimento va nei due sensi e che, nell’incessante tensione verso la realizzazione di una soglia di indiff erenza, la regola si fa vita nella stessa misura in cui la vita si fa regola.

Nel suo trattato Sulla prescrizione contro gli eretici, Tertulliano spiega l’espressione regula fi dei con una for-mula istruttiva: la regola della fede è quella « attraverso la quale si crede » (Regula est autem fi dei… illa scilicet qua creditur – T , p. ). Nello stesso sen-so, si potrebbe allora dire che la regula vitae è quella at-traverso la quale si vive, il che corrisponde perfettamente all’espressione regula vivifi cans che in Angelo Clareno defi nirà la regola francescana. La regola non si applica alla vita, ma la produce e, insieme, si produce in essa. Che tipo di testi sono allora le regole, se esse sembra-no realizzare performativamente la vita che dovrebbero

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regolare? E che cos’è una vita che non può più essere distinta dalla regola?

ē L’impossibilità di distinguere agevolmente fra regola e vita appare con chiarezza nelle vite dei Padri dei monasteri del Giura, il cui incipit recita Vita vel regula sanctorum pa-trum Romani, Lupicini et Eugendi, monasteriorum iurensium abbatum. Il curatore della più recente edizione (Jura, p. ) suppone una lacuna importante alla fi ne della terza vita, dove, subito dopo la narrazione biografi ca, avrebbe dovuto, secondo lui, trovarsi l’enunciato della regola. La supposizio-ne non ha alcuna base materiale nel manoscritto, ma deriva unicamente dal fatto che secondo il curatore, l’autore aveva promesso, in un passo della biografi a di Romano, di esporre la regola nel terzo libro, cioè nella vita di Eugendo; giunto, però, alla fi ne della terza biografi a, invece di enunciare la re-gola, conclude con la narrazione della morte dell’abbate. Di qui l’ipotesi di una lacuna, la cui lunghezza potrebbe, secon-do il curatore, uguagliare quella della stessa biografi a.

In realtà siamo qui davanti al caso esemplare di una emendazione (negativa, in questo caso) introdotta nel ma-noscritto soltanto perché il curatore non ha capito il testo. Se l’autore aveva promesso di esporre la regola, egli argomenta, non poteva limitarsi a una narrazione biografi ca. Ciò signifi -ca non comprendere il particolare rapporto di indetermina-zione che lega nel testo e, con particolare evidenza, nell’in-cipit (vita vel regula, la vita ovvero la regola), i due termini « vita » e « regola ». All’inizio della prima biografi a, l’autore dichiara, infatti, di volere « ripercorrere fedelmente con la memoria (fi deliter replicare) gli atti, la vita e la regola (actus vitamque ac regulam) dei padri giurensi, come io stesso l’ho vista e secondo quanto appresi dalla tradizione degli anziani » (ibid., p. ). Actus vitamque ac regulam (come sottolineano l’enclitica -que e la congiunzione ac, che coordina i vocaboli

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più strettamente di et) è un solo concetto in tre parole, e si riferisce a qualcosa (la forma di vita dei Padri) che può essere espresso adeguatamente solo attraverso tre termini indivisi-bili.

Se l’autore non trascrive una regola separata, ciò è per-ché questa era già perfettamente contenuta nella narrazione della vita di Eugendo. Annunciando l’esposizione della re-gola, egli aveva scritto, infatti, di riservarla per il terzo libro, quia rectius hoc in vita beatissimi Eugendi depromitur. La frase non signifi ca, come traduce imprecisamente il curatore, il est plus normal en e( et de vous le donner avec la vie de st. Oyend, bensì, secondo il signifi cato proprio del verbo depromi (che vale « estrarre, desumere »), « poiché ciò si lascia esprimere nel modo più giusto nella vita del beatissimo Eugendo ». Una let-tura attenta della biografi a mostra, del resto, che questa con-tiene, in particolare nei paragrafi -, un’accurata descri-zione del modo in cui l’abbate ha organizzato la vita comune dei monaci; essenziale è, però, in ogni caso, che, nel testo, l’esposizione della regola sia inseparabile da quella della vita.

.. A partire da Wittgenstein, il pensiero contem-poraneo e, più di recente, i fi losofi del diritto, hanno cercato di defi nire un tipo particolare di norme, le nor-me dette costitutive, che non prescrivono un certo atto né regolano uno stato di cose preesistente, ma pongono esse stesse in essere quell’atto o quello stato di cose. L’e-sempio di cui si serve Wittgenstein sono le pedine degli scacchi, che non esistono prima del gioco, ma sono co-stituite dalle regole del gioco (« L’alfi ere è la somma delle regole, attraverso cui viene mosso » – W , pp. -). È evidente che l’esecuzione di una regola di questo genere, che non si limita a prescrivere a un agente una certa condotta, ma produce questa condot-ta, diventa estremamente problematica.

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Parafrasando il detto scolastico forma dat esse rei, si potrebbe aff ermare qui che norma dat esse rei (C, p. ). Una forma di vita sarebbe così l’insieme delle regole costitutive, che la defi niscono. Ma si può dire, in questo senso, che il monaco sia, come l’alfi ere negli scacchi, defi nito dalla somma delle prescrizioni secondo cui vive? Non si potrebbe dire, piuttosto, con altrettanta verità esattamente il contrario, e cioè che è la forma di vita del monaco a creare le sue regole? Forse entrambe le tesi sono vere, a condizione di precisare che regole e vita entrano qui in una zona di indiff erenza, in cui, nel venir meno della stessa possibilità di distinguerle, esse lasciano apparire un terzo, che i francescani, pur senza riuscire a defi nirlo con precisione, chiameranno, come vedremo, « uso ».

In realtà, come Wittgenstein sembra suggerire, l’idea stessa di una regola costitutiva implica che sia neutralizzata la rappresentazione corrente secondo cui il problema della regola consisterebbe semplicemen-te nell’applicazione di un principio generale a un caso singolo – cioè, secondo il modello kantiano del giudi-zio determinante, in un’operazione meramente logica. Il progetto cenobitico, spostando il problema etico dal piano della relazione fra norma e azione a quello del-la forma di vita, sembra revocare in questione la stes-sa dicotomia di regola e vita, universale e particolare, necessità e libertà, attraverso le quali siamo abituati a comprendere l’etica.

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. Oralità e scrittura

.. È in questa prospettiva che cercheremo ora di interrogare la natura delle regole a partire dalla loro struttura testuale, quale si presenta nelle regole più an-tiche e, in particolare, in un testo, la Regola del maestro, che, anche per la sua infl uenza sulla regola benedetti-na, ha ricevuto dagli studiosi un’attenzione speciale. È stato osservato che, nella letteratura monastica più antica, gli autori, spesso ignoti, sembrano introdurre più o meno consapevolmente una relazione complessa e quasi una tensione fra oralità e scrittura, a proposito della quale si è potuto parlare di una « oralità fi ttizia » (F, p. ). Già nell’archetipo basiliano, il proemio delle Regulae fusius tractatae esordisce riferendosi a una « riunione » (synel"lythamen, ci siamo riuniti insieme), i cui partecipanti, che intendono « vivere secondo pietà » (tou biou tou kat’ eusebeian), si propongono di conoscere ciò che può guidarli verso la salvezza (mathein ta ton pros s#t"rian – , , p. ). Che si tratti di una vera e propria messa in scena è provato dal fatto che il testo prosegue evocando un luogo e un tempo indetermi-nati, ma opportuni, in cui si deve supporre che siano pronunciate (e poi messe per iscritto) le domande e le risposte che costituiscono la regola (« il momento pre-sente è opportuno e il luogo ci off re silenzio e pace dai tumulti esteriori » (ibid.).

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L’apertura della Regola dei quattro Padri rimanda, in modo analogo, a un incontro e a un colloquio fra i quattro protagonisti allo scopo di « ordinare il modo di vivere o la regola di vita dei fratelli » (Sedentibus nobis in unum… – « mentre siedevamo insieme » – … qualiter fratrum conversationem vel regulam vitae ordinare possi-mus – V , p. ). E, nel secondo discorso, quello di Macario, il padre si riferisce esplicitamente al fatto che la regola viene messa per iscritto man mano che si svolge la conversazione: quoniam fratrum insignia virtu-tum… superius conscripta praevenerunt…, « dal momen-to che i caratteri delle virtù dei fratelli sono stati appena messi per scritto » (ibid., p. ). Con un singolare artifi -cio e attraverso una sapiente messa in scena dell’oralità, il testo si riferisce alla propria stessa scrittura.

Nella Seconda regola dei Padri, se la messa in scena sembra la stessa (Residentibus nobis in unum…), la ten-sione fra oralità e scrittura cambia, perché si tratta ora espressamente di conscribere vel ordinare regulam, quae in monasterio teneatur ad profectum fratrum, « mettere per iscritto e ordinare la regola che deve essere osservata nel monastero per il profi tto del fratelli » (p. ). Una volta che lo scopo della seduta è esplicitamente quello di scrivere la regola, si apre la possibilità di un’oscillazione semantica che permette di leggere il termine regula non solo nel senso di « modo di vita » (come era nell’incipit della Regola dei quattro Padri), ma anche in quello di « testo scritto ».

Nella Terza regola dei Padri (che secondo Vogüé è opera di un vescovo), il passaggio dall’oralità alla scrittu-ra è ormai avvenuto e si tratta pertanto non più di scri-vere, ma di leggere la regola: « Poiché ci eravamo riuniti con i nostri fratelli nel nome del Signore, decidemmo di leggere, procedendo secondo l’ordine, la regola e gli

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istituti dei Padri (regula et instituta patrum per ordinem legerentur) » (p. ). La regola è ormai un testo scritto, che, però, può e deve essere letto, innanzitutto al con-verso che chiede di entrare nel monastero (« se qualcu-no vorrà convertirsi dal secolo al monastero, gli si legga all’ingresso la regola… » – ibid.).

Con la regola benedettina assistiamo alla fi ne del-la tensione fra oralità e scrittura che aveva animato le regole dei Padri da cui pure deriva. La regola è ormai unicamente un testo, che l’ultimo capitolo designa come regula descripta (regulam hanc descripsimus… hanc minimam regulam descriptam… perfi ce – P, pp. -). Mentre il conscribere delle prime regole evoca-va un testo dettato dalla viva voce dei Padri ed estratto e trascritto dalla vita stessa dei monaci, describere è il termine tecnico per lo scriba che copia da un altro testo. Secondo una consuetudine che, come abbiamo visto, comincia a diventare obbligatoria in età carolingia, la regola è sempre regula descripta, in cui tanto la tensione fra oralità e scrittura che quella fra signifi cato soggetti-vo e signifi cato oggettivo del sintagma regula vitae sono ormai spente.

.. Qual è il senso della dialettica che, almeno fi no a san Benedetto, il testo delle regole istaura fra oralità e scrittura? Perché le regole mettono così ostinatamente in scena la loro scrittura come la loro lettura? Non si tratta semplicemente della costruzione retorica di un’o-ralità fi ttizia né soltanto di mostrare (come pure sicura-mente è il caso), attraverso il gioco fra oralità e scrittura, la regola in atto di costituirsi come testo e di acquisire la sua autorità passando dalla regola-forma di vita alla regola-testo. In questione qui sembra essere piuttosto la costituzione dello speciale statuto del testo della regola,

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che non è soltanto un testo scritto né semplicemente un discorso orale e la cui consistenza non coincide con la trascrizione di una prassi vitale né, inversamente, con l’esecuzione pratica di una regola scritta. La regola met-te, cioè, in scena qualcosa che non si esaurisce in nes-suna di queste dimensioni, ma trova la sua verità pro-prio e soltanto nella tensione che istaura fra di esse. Né scrittura né viva voce, né codice legale né prassi vitale, la regola si muove incessantemente fra queste polarità, alla ricerca di un ideale della perfetta vita comune che si tratta, appunto, di defi nire.

La Regola del maestro off re, in questa prospettiva, degli spunti esemplari. Già il prologo, spingendo il pa-radigma dell’oralità fi ttizia fi no al parossismo, cancella e rende quasi indiscernibili i confi ni fra oralità e scrittura. Esso si apre con un’apostrofe, la cui struttura è persino grammaticalmente così complicata che gli interpreti, pur rilevandone la peculiarità, hanno preferito ignorar-la:

O homo, primo tibi qui legis, deinde et tibi qui me au-scultas dicentem, dimitte alia modo quae cogitas et me tibi loquentem et per os meum deum te convenientem cognosce. « O uomo, (dico) innanzitutto a te (il dativo tibi sembra sottindere un dico) che (mi) leggi, poi anche a te che mi ascolti mentre parlo, lascia ora i tuoi altri pensieri e conosci me che ti parlo e, attraverso la mia bocca, Dio che t’incontra » (V , , p. ).

Chi è che qui parla? Che si tratti, come appare più probabile, della regola stessa o, come sembra pensare Vogüé, del suo autore, in ogni caso la relazione fra ora-lità e scrittura è qui propriamente inestricabile. Da una parte, la primordialità della scrittura è fuori questione,

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dal momento che il testo si rivolge a un lettore (tibi qui legis) e, nelle righe successive, si riferisce deitticamente a se stesso come a una scrittura: « Dunque, o uditore che mi ascolti mentre parlo, capisci ciò che non la mia boc-ca, ma attraverso questa scrittura (per hanc scripturam) Dio dice… ». Dall’altra, però, il testo scritto, che si met-te in questo modo en abîme dentro di sé, parla e si rife-risce curiosamente non solo a un lettore, ma anche a un uditore (deinde et tibi qui me auscultas dicentem). E poco più avanti, colui che, parlando, aveva però presupposto un lettore, si presenta come colui che leggerà a voce alta « questa scrittura » (hanc scripturam quam tibi lecturus sum – ibid., p. – evidentemente il testo della regola).

Se l’identità dell’apostrofante, divisa com’è fra scrittura e parola, è propriamente indiscernibile, non meno problematica è quella di colui che viene apostro-fato come homo. Anch’egli si sdoppia, infatti, in un let-tore e in un ascoltatore e sembra ritrovare la sua unità solo come destinatario di « questa scrittura » e di « questa regola » (haec regula – ibid.), che dovrà osservare fedel-mente.

.. Vi è, tuttavia, nel testo della regola, un passo che sembra contenere la chiave di tutti questi enigmi e che, insieme, permette di defi nire la consistenza e la natura propria della regola. Si tratta del capitolo , il cui titolo recita De ebdomadario lectore ad mensas, « Del lettore settimanale durante il pasto ». La regola dice qui che in ogni stagione, in estate come in inverno, « quan-do si consuma il pasto all’ora sesta o alla nona, ogni prevosto darà lettura a turno per una settimana del te-sto della regola » (ibid., , p. ). Come il testo precisa subito dopo, si tratta di una lectio continua, cioè di una lettura che viene ripresa ogni giorno dal punto in cui è

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stata interrotta: « (Il lettore) leggerà ogni giorno questa regola (regulam hanc), mettendo un segno per marcare fi no a che punto ha letto, in modo che la lettura possa farsi di seguito giorno per giorno (sequenter cottidie), ma integralmente, e che, continuando a turno ogni settima-na, si possa fi nire e poi riprendere da capo la lettura » (p. ). La regola precisa il modo in cui il lettore assumerà la sua funzione (« colui che dovrà fare la lettura si pre-senterà e dirà a voce alta: pregate per me, miei signori, poiché io entro nella mia settimana di lettura a mensa » – p. ), come dovrà leggere, senza aff rettarsi (non ur-guendo) e in modo che gli uditori possano comprendere chiaramente quello che la regola comanda loro di fare.

Si deve dunque immaginare che vi sarà necessaria-mente un momento, in cui il lettore, giunto al capito-lo , leggerà il passo che gli ingiunge di leggere ogni giorno la regola. Che cosa avverrà in quel momento? Mentre, leggendo gli altri passi della regola, il lettore esegue il precetto della lettura, ma non realizza ciò che il testo in quel momento gli ingiunge di fare, in questo caso lettura e messa in atto della regola coincidono sen-za residui. Leggendo la regola che gli prescrive di leggere la regola, il lettore esegue ipso facto performativamente la regola. La sua lectio realizza, cioè, l’istanza esemplare di un’enunciazione della regola che coincide con la sua esecuzione, di un’osservanza che si rende indiscernibile dal comando cui obbedisce.

La dialettica fra oralità e scrittura è qui perfetta: vi è un testo scritto, ma esso non vive, in realtà, che attraver-so la lettura che ne viene fatta. E quanto la regola sug-gerisce poco dopo, defi nendo, in un inciso signifi cativo, la lettura quotidiana della regola come un in usu mittere (nam cum cottidie in usu ipsa regula mittitur, ex notitia melius observatur – p. ). La regola suppone una pre-

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cedenza della scrittura, ma si tratta di una scrittura in sé inerte, che deve essere « messa in uso » attraverso la lettura. Ciò è ribadito qualche pagina dopo, raccoman-dando al monaco in viaggio di fare la lettura, e, se non può, di ricorrere almeno alla meditatio, alla recitazione a memoria, « in modo da dare alla regola ciò che le com-pete » (ut cottidie regulae reddat quod suum est). Lectio e meditatio appartengono costitutivamente alla regola e ne defi niscono lo statuto.

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. La regola come testo liturgico

.. La lectio è fi n dall’inizio parte essenziale della li-turgia cristiana. Che essa derivi dalla pratica della lettu-ra, probabilmente cantillata, della Torah (qeri’at Torah) nella sinagoga è, oggi, generalmente ammesso. Di que-sta lettura, la cui origine la tradizione fa risalire a Mosè (Deut., , -: « Alla fi ne di ogni sette anni, al tempo dell’anno del condono, alla festa delle capanne, quan-do tutto Israele verrà a presentarsi davanti al Signore Dio tuo, nel luogo che avrà scelto, leggerai questa legge davanti a tutto Israele, agli orecchi di tutti »), due fra le testimonianze più antiche sono contenute nel Nuo-vo Testamento. La prima (Act., . ) mostra Paolo che assiste con i suoi compagni alla lettura della legge (ana-gnosis tou nomou) nella sinagoga di Antiochia ed è poi invitato a commentare il passo letto (« Dopo la lettura della legge e dei profeti, i capi della sinagoga fecero dire loro: “Fratelli, se avete qualche parola di consolazione per il popolo, ditela” »). Nella seconda (Luc., , -), è Gesù stesso a praticare la lettura nella sinagoga di Naza-reth e a commentarla:

Era sabato, e, secondo la sua abitudine, entrò nella si-nagoga e si alzò a leggere. Gli fu consegnato il libro del profeta Isaia e avendo svolto il rotolo trovò il luogo dove era scritto: « Lo spirito del Signore è sopra di me, per

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questo mi ha consacrato e mi ha inviato a portare ai poveri la buona novella, la liberazione ai prigionieri e la vista ai ciechi, per liberare coloro che sono oppressi e annunciare l’anno di grazia del Signore ». Poi, arro-tolato il volume, lo restituì al servitore e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga erano fi ssati su di lui. Allora cominciò a dire: « Oggi questa scrittura si è adempiuta nei vostri orecchi ».

Queste due testimonianze mostrano che, già ai tempi di Gesù, si leggeva nella sinagoga il testo della Torah, forse già diviso (come sappiamo da fonti più tar-de) in parashot (pericopi); e che, oltre al Pentateuco, si leggevano anche passi dei Profeti (detti haftarot) e che la lettura era seguita da un commento omiletico (de-rashah), di cui Paolo e Gesù ci off rono un esempio.

La lettura della Torah assunse a poco a poco la for-ma di una lectio continua, che, in Palestina, era articolata secondo un ciclo triennale, che aveva inizio il primo o il secondo sabato del mese di nisan; in Babilonia, la durata era di un anno, con inizio dopo la festa dei Tabernacoli (W, p. ). La lettura dei Profeti non era, invece, continua, ma consisteva ogni volta di un passo isolato scelto in corrispondenza del passo della Torah che veni-va letto in quel giorno.

La chiesa seguì l’esempio della sinagoga, istituendo letture, all’inizio verisimilmente settimanali, dell’Antico Testamento, a cui fu aggiunta, almeno a partire dalla fi ne del secolo, la lectio dei testi neotestamentari. An-che se non sappiamo quale fosse in origine l’ordine e la consistenza delle letture, la liturgia ambrosiana, quel-la mozarabica e la gallicana più antica conservano una successione di tre lectiones, una dall’Antico Testamento e due dal Nuovo. Il principio dominante era all’inizio

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quello della lectio continua, ma è probabile che, nel cor-so dei primi tre secoli, fosse il vescovo a indicare ogni volta al diacono e al lector i passi da leggere. A partire dalla fi ne del secolo, invece della lectio continua, si as-siste alla scelta e alla fi ssazione di una serie di pericopi in rapporto con la costituzione dell’anno liturgico. Questo sistema sfocia nella produzione di libri (detti lectionarii, comites o epistolaria), che raccolgono le pericopi da leg-gere in ciascun giorno. Uno dei più antichi lezionari, il Liber comicus de toto circuli anni mozarabico, presenta così le pericopi ordinate secondo le feste del calenda-rio liturgico, nella forma: legendum in $* dominico de adventu Domini ad missam, seguito dai testi da leggere (in questo caso, due passi di Isaia e uno dalla lettera ai Romani). Parte integrante della lectio, nella forma della lectio solemnis, erano la cantillazione e la salmodia.

.. Se l’anno liturgico è, come abbiamo visto, una sorta di memoriale delle opere di Dio scandito secondo il calendario, la lettura delle Scritture sacre è il modo eminente in cui ogni giorno e, al limite, ogni ora sono messi in relazione anamnestica con un evento della sto-ria sacra. Tuttavia, secondo l’intenzione profonda che defi nisce la liturgia cristiana, la lettura non si limita a ricordare o commemorare gli eventi passati, ma rende in qualche modo presente la « parola del Signore », come se essa fosse nuovamente pronunciata in quel momen-to dalla viva voce divina. Cum sacrae scripturae in Ec-clesia leguntur, recita il Missale romanum, Deus ipse ad populum suum loquitur et Christus, praesens in verbo suo, Evangelium annuntiat. L’anamnesi contenuta nella lectio « rappresenta » in senso etimologico, cioè rende perfor-mativamente presente la realtà di ciò che viene letto.

Questo carattere performativo della lettura liturgica

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è espresso con chiarezza da Nicolas Cabasilas nella sua Interpretazione della divina liturgia. Nelle parole lette o cantate, egli scrive, « noi vediamo (hor#men) fi gurato Cristo e le opere e la passione che ha compiuto per noi. Nelle salmodie e nelle letture, come in tutti gli atti del sacerdote durante tutta la celebrazione, viene signifi cata (s"mainetai) tutta l’economia del salvatore » (C, p. ). E se la « mistagogia tutta intera è come l’icona di un corpo che è la vita del salvatore », i canti e le letture signifi cano e ci « mettono davanti agli occhi » (yp’ opsin agousa) i vari momenti dell’economia di Cristo (ibid., p. ). La speciale effi cacia della lectio coincide con la sua duplice azione, che è, insieme, di « santifi care (ha-giazein) i fedeli e di signifi care l’economia… in quanto scritture divine e parole ispirate da Dio, i canti e le let-ture santifi cano coloro che leggono o cantano; ma, per il fatto che sono state scelte e ordinate in quel modo, essi hanno anche un’altra potenza (dynamin) e realizzano la signifi cazione (s"masian) della presenza (parousias) e del-la vita di Cristo » (p. ).

Che il termine s"masia designi qui ben più che una semplice « signifi cazione » linguistica, è chiarito al di là di ogni dubbio da Cabasilas, precisando che le let-ture « rendono visibile la manifestazione del Signore (t"n phanerosin tou Kyriou d"lousin) » (p. ). Secondo l’intenzione messianica implicita nelle parole di Gesù nell’episodio della lettura nella sinagoga di Nazareth, la scrittura si adempie in chi ne ascolta la lettura (« oggi questa scrittura si è adempiuta (pepl"r#tai) nei vostri orecchi »). Ed è sulla base di questa particolare effi ca-cia performativa delle parole della lectio, che, com’era già avvenuto nella sinagoga, esse possono acquisire uno statuto sacramentale e presentarsi nel canone della mes-sa come oblatio rationabilis e logik" thysia, sacrifi cio di

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parole.

.. Se torniamo ora al problema della natura delle regole monastiche, è possibile allora avanzare l’ipotesi che la Regola del maestro, facendo della regola l’oggetto di una lectio continua, ne aff ermi in realtà con decisione lo statuto liturgico. Il testo della regola è, cioè, un testo in cui non soltanto scrittura e lettura tendono a confon-dersi, ma in cui, anche, scrittura e vita, essere e vivere diventano propriamente indiscernibili nella forma di una liturgizzazione integrale della vita e di una vivifi ca-zione altrettanto integrale della liturgia. Per questo non ha senso isolare nel corpo della regola, come fa Vogüé, una « sezione liturgica », sottolineandone l’ampiezza e la meticolosità, « che nessun documento liturgico an-teriore agli ordines romani riesce a uguagliare » (V , , p. ). Non vi può essere, nelle regole, una sezio-ne liturgica, perché, come abbiamo visto, tutta la vita del monaco è stata trasformata in un uffi cio e la stessa acribia delle prescrizioni che concernono la preghiera e la lettura articola altrettanto minuziosamente ogni altro aspetto della vita nel cenobio. Come la meditatio rende potenzialmente ininterrotta la lectio, così ogni gesto del monaco, ogni più umile attività manuale diventa un’o-pera spirituale, acquista lo statuto liturgico di un opus Dei. E proprio questa ininterrotta liturgia è la sfi da e la novità del monachesimo, che la Chiesa non tarderà a raccogliere, cercando di introdurre, sia pure entro cer-ti limiti, anche nel culto cattedrale l’esigenza totalitaria propria del culto monastico.

Di qui la singolare somiglianza fra la struttura profonda delle regole e quella dei testi in senso stret-to liturgici: all’attenzione monastica alle forme e al si-gnifi cato dell’abito corrispondono nei testi liturgici le

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ampie sezioni de indumentis sacerdotum, alle prescrizio-ni sulla professione cenobitica i capitoli de ministris e sull’ordinazione sacerdotale, alla descrizione ossessiva e puntuale degli offi zi diurni e notturni dei monaci, la grandiosa articolazione dell’anno liturgico. Ma di qui, anche le diff erenze e le tensioni, che resteranno in qual-che modo presenti in tutta la storia della Chiesa. Poi-ché, se la Chiesa aveva estratto dalla vita una liturgia, questa si era costituita, però, in una sfera separata, il cui titolare era il sacerdote, che impersonava il sacer-dozio di Cristo. I monaci cancellano la separazione e, facendo della forma di vita una liturgia e della liturgia una forma di vita, istituiscono fra le due una soglia di indiscernibilità carica di tensioni. Di qui, nelle regole, il predominio dell’offi zio della preghiera, della lettura e della salmodia su quello in senso proprio sacramentale: la Regola del maestro, così meticolosa nella descrizione del primo, nomina appena la messa a proposito della salmodia nei giorni di festa (ibid., , p. ) e tratta curiosamente della comunione nella sezione dedicata al servizio ebdomadario dei monaci nella cucina (p. ). Di qui, anche, la ferma distinzione fra il monaco e il sacerdote, che può essere ospitato a titolo di pellegrino (peregrinorum loco) nel convento, ma non può abitarvi stabilmente né pretendere ad alcuna forma di potere al suo interno (nihil praesumant aut eis liceat vel aliquid ordinationis aut dominationis aut dispensationis Dei vin-dicent – p. ).

Se la liturgia si trasforma integralmente in vita, al-lora il fondamentale principio dell’opus operatum, che, già a partire da Agostino, sancisce l’indiff erenza delle qualità morali del sacerdote rispetto all’effi cacia del suo uffi cio, non può valere. Mentre il sacerdote indegno re-sta in ogni caso un sacerdote e gli atti sacramentali che

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egli compie non perdono la loro validità, un monaco indegno semplicemente non è un monaco.

Malgrado la progressiva estensione del controllo della Chiesa sui monasteri, che, come abbiamo visto, a partire almeno dall’epoca carolingia, vengono posti sot-to la tutela del vescovo, la tensione fra le « due liturgie » non sparirà mai completamente e, proprio quando la Chiesa sembra aver integrato il cenobio nei suoi ordina-menti, essa torna col francescanesimo e coi movimenti religiosi fra il e il secolo a riattivarsi fi no al con-fl itto aperto.

ē In questa prospettiva, la riforma protestante può esse-re vista legittimamente come la rivendicazione implacabile, promossa da un monaco agostiniano, Lutero, della liturgia monastica contro quella ecclesiastica; e non è certo un caso se, dal punto di vista strettamente liturgico, essa si defi nisca attraverso la preminenza della preghiera, della lettura e della salmodia (forme proprie della liturgia monastica) e la mini-malizzazione dell’uffi cio eucaristico e sacramentale. ē Il termine greco leitourgia deriva da laos (« popolo ») e ergon (« opera ») e signifi ca « prestazione pubblica, servizio per il popolo ». Il termine appartiene fi n dall’origine al lessico della politica e designa le prestazioni che i cittadini abbienti devono alla polis (organizzare i giochi pubblici, armare una trireme, allestire un coro per le feste della città). Aristotele, nella Politica ( a ), mette così in guardia contro l’abitu-dine nelle democrazie di « prestare costose e inutili liturgie, come le coreghie, le lampadarchie e altre di questo genere ».

È signifi cativo che i rabbini alessandrini che realizzaro-no la traduzione della Bibbia in greco nota come la Settan-ta abbiano scelto proprio il verbo leitourge# (spesso unito a leitourgia) per tradurre l’ebraico seret ogni volta che questo termine, che signifi ca genericamente « servire », viene usato

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in senso cultuale. Altrettanto signifi cativo è che, nella Let-tera agli ebrei, Cristo stesso sia defi nito « leitourgos delle cose sacre » (, ) e si dica di lui che « ha ottenuto una leitourgia migliore » (, ). In entrambi i casi, l’originario signifi cato politico del termine (servizio fatto per il popolo) è ancora presente. Come Peterson doveva ricordare nel suo Libro degli angeli, la liturgia della Chiesa terrena ha « una relazione ori-ginaria con la sfera politica » (P, p. ).

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Soglia

Il monachesimo è stato certamente il tentativo for-se più estremo e rigoroso di realizzare la forma vitae del cristiano e di defi nire le fi gure della prassi in cui essa si risolve. Altrettanto certo è, tuttavia, che questo tentati-vo è andato progressivamente anche se non esclusiva-mente assumendo la forma di una liturgia, sia pure in un senso che non coincideva perfettamente con quello secondo cui la Chiesa andava elaborando il canone del suo uffi cio. Per questo la vitalità e l’identità del mona-chesimo dipenderanno dalla misura in cui esso riuscirà a mantenere la propria specifi cità rispetto alla liturgia ecclesiastica, che, per parte sua, si andava sistematizzan-do secondo il modello dell’eff ettualità sacramentale e di un’articolazione e, insieme, una disgiunzione fra la sog-gettività del sacerdote e l’effi cacia ex opere operato della sua prassi.

In questo contesto problematico, il cenobio appa-re come un campo di forze percorso da due tensioni opposte, una volta a risolvere la vita in una liturgia e l’altra tesa a trasformare la liturgia in vita. Da una parte, tutto si fa regola e uffi cio al punto che la vita sembra scomparire; dall’altra, tutto si fa vita, i « precetti legali » si trasformano in « precetti vitali », in modo che la legge

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e la stessa liturgia sembrano abolirsi. A una legge che s’indetermina in vita, fa riscontro, con un gesto simme-tricamente inverso, una vita che si trasforma integral-mente in legge.

Si tratta, a ben guardare, di due aspetti di uno stes-so processo, in cui è in questione l’inedita e aporetica fi -gura che l’esistenza degli uomini assume al tramonto del mondo classico e all’inizio dell’era cristiana, quando le categorie dell’ontologia e dell’etica entrano in una crisi durevole ed economia trinitaria ed eff ettualità liturgica defi niscono i nuovi paradigmi tanto dell’agire divino che di quello umano. In questione è, cioè, in entrambi i casi, una progressiva e simmetrica cancellazione della diff erenza fra essere e agire e fra legge (scrittura) e vita, quasi che l’indeterminarsi dell’essere in agire e della vita in scrittura che la liturgia ecclesiastica realizza operati-vamente funzionasse in quella monastica in senso inver-so, muovendo dalla scrittura (dalla legge) verso la vita e dall’agire verso l’essere.

Naturalmente, come suole avvenire in questi casi, la novità del fenomeno convive perfettamente con con-tinuità sotterranee e brusche convergenze, che vedono aggregarsi in modo imprevedibile insieme al cristianesi-mo etica stoica e tardo platonismo, tradizioni giudaiche e culti pagani; e, tuttavia, il monaco non vive e agisce, come il fi losofo stoico, per osservare una legge mora-le che è anche un ordine cosmico né, come il patrizio romano, per seguire scrupolosamente una prescrizione giuridica o un formalismo rituale; non compie, come l’ebreo, le sue mitzwot in virtù del patto fi duciario che lo lega al suo Dio e nemmeno, come il cittadino ateniese, esercita la sua libertà perché vuole « cercare la bellezza (philokalein) con semplicità e la saggezza (philosophein) senza femminilità ».

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È in questo campo di tensioni storiche che, accan-to alla liturgia e quasi in concorrenza con essa, qualco-sa come un nuovo piano di consistenza dell’esperienza umana comincia lentamente a farsi strada. È come se la forma di vita in cui la liturgia si è trasformata cer-casse progressivamente di emanciparsi da questa e, pur ricadendovi incessantemente e altrettanto ostinatamen-te liberandosene, lasciasse intravedere un’altra e incerta dimensione dell’agire e dell’essere.

La forma-di-vita è, in questo senso, ciò che deve in-cessantemente essere strappato dalla separazione in cui lo mantiene la liturgia. La novità del monachesimo non è stata soltanto la coincidenza di vita e norma in una liturgia, ma anche e innanzitutto, nel suo esito estremo, la ricerca e l’identifi cazione di qualcosa che i sintagmi vita vel regula, regula et vita, forma vivendi, forma vitae tentano faticosamente di nominare e che si tratta ora di provarci a defi nire.

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. Forma-di-vita

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. La scoperta della vita

.. Tra l’ e il secolo nascono e si diff ondono in Europa – in Francia, in Italia e poi nelle Fiandre e in Germania – dei fenomeni complessi che gli storici, non riuscendo a classifi carli altrimenti, hanno rubricato come « movimenti religiosi », anche perché, dal punto di vista della storia della Chiesa, hanno dato luogo nel corso del tempo alla fondazione di ordini monastici o a sette eretiche, come tali aspramente combattute dal-le gerarchie ecclesiastiche. Dedicando nel a questi fenomeni una monografi a ormai classica, dal titolo Re-ligiöse Bewegungen im Mittelalter, « Movimenti religiosi nel Medioevo », Herbert Grundmann si era proposto, contro la tendenza della storiografi a confessionale a non considerare che gli ordini monastici e le sette eretiche che ne erano risultati, di restituirli appunto alla loro natura di « movimenti ». D’altra parte, contro l’oppo-sta tendenza di alcuni storici a privilegiare soltanto l’a-spetto economico-sociale dei fenomeni in questione, si trattava, per Grundmann, di comprenderne le « caratte-ristiche originali » e le « mete religiose », ponendosi in-nanzitutto il problema di quali avvenimenti, pressioni e crisi profonde avessero determinato la « trasformazione in diversi ordini e sette di quelli che erano in un primo tempo soltanto movimenti religiosi » (G, p. ).

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Se si esamina, tuttavia, l’ampio materiale preso in considerazione da Grundmann, si nota immediatamen-te che le fonti, tanto dirette che indirette, situano le rivendicazioni dei movimenti su un piano che è certo religioso, ma che presenta delle novità non indiff erenti rispetto al modo in cui la tradizione ecclesiastica e il monachesimo avevano defi nito e delimitato l’ambito e la pratica della religione e che è possibile, pertanto, pro-varsi a considerare come tale, prima o al di qua del signi-fi cato religioso o economico-sociale che indubbiamente gli compete. Che si tratti di Roberto di Arbrissel, di Val-do, di Norberto di Xanten, di Bernardo Prim o di Fran-cesco, e tanto se i loro seguaci si defi niscono « umiliati », « poveri di Cristo », « uomini buoni », « fratelli minori » o « idioti », in ogni caso ciò che essi aff ermano e rivendica-no non riguarda, infatti, questioni teologiche o dogma-tiche, articoli di fede o problemi di interpretazione delle Scritture, ma la vita e il modo di vivere, un novum vitae genus, che essi chiamano « vita apostolica » (haeretici qui se dicunt vitam apostolicam ducere…; nos formam aposto-licae vitae servamus…) o « evangelica » (pure evangelica et apostolica vita… vivere; vita Vangelii Jesu Christi; vivere secundum formam Sancti Evangelii). La rivendicazione della povertà, che è presente in tutti i movimenti e che in sé non è certo nuova, non è che un aspetto di questo modo o forma di vita, che colpisce in modo particolare gli osservatori (nudipedes incedebant; pecunias non reci-piunt; neque peram neque calciamenta neque duas tunicas portabant – ibid., p. ); essa non rappresenta, tuttavia, com’era nella tradizione monastica, una pratica ascetica o mortifi catoria per ottenere la salvezza, ma è ora parte inseparabile e costitutiva della vita « apostolica », e « san-ta », che essi dichiarano di praticare in perfetta letizia. È signifi cativo, in questo senso, che Olivi, in polemica

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con l’opinione di Tommaso, secondo cui la povertà è solo uno dei modi di raggiungere la perfezione e non la perfezione stessa (quod paupertas non est perfectio, sed instrumentum perfectionis), possa invece aff ermare che essa coincide essenzialmente e integralmente con la per-fezione evangelica (usum pauperem esse de integritate et substantia perfectionis evangelicae – E, p. ).

Va da sé che, fi n dalle origini, il monachesimo è inseparabile da un certo modo di vita; ma, il proble-ma, nei cenobi e negli eremi, non era tanto la vita come tale, quanto i modi, le norme e le tecniche attraverso cui riuscire a regolarla in tutti i suoi aspetti. Per usare la terminologia di un testo cistercense, la vita dei monaci era tradizionalmente concepita come « penitenziale », mentre ora si rivendica il suo carattere « apostolico », cioè « angelico » e « perfetto » (vita monachorum est apo-stolica et habitus eorum est angelicus et corona quam ha-bent est et perfectionis signum et clericale… monachorum vita non sit penitentialis, sed apostolica… – ' esaurus, pp. -). E altrettanto ovvio è che una forma di vita praticata con rigore da un gruppo di individui avrà necessariamente delle conseguenze sul piano dottrinale, che potranno portare – come di fatto hanno portato – a scontri e contrasti anche estremi con le gerarchie ecclesiastiche; ma è proprio su questi contrasti che si è prevalentemente focalizzata l’attenzione degli storici, lasciando nell’ombra il fatto che, forse per la prima vol-ta, in questione, nei movimenti, non era la regola, ma la vita, non il poter professare questo o quell’articolo di fede, ma il poter vivere in un certo modo, praticare lietamente e apertamente una certa forma di vita.

È noto, per esempio, che la rivendicazione della po-vertà e dell’usus pauper da parte dei francescani portò, a un certo punto, a uno scontro dottrinale senza quartiere

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con la curia romana, combattuto da entrambe le parti con dovizia di argomenti non solo teologici, ma anche giuridici; tuttavia, come aveva intuito fi n dall’inizio Bartolo, il punto non era tanto un contrasto dogma-tico o esegetico, quanto la novitas di una forma di vita, a cui il diritto civile risultava diffi cilmente applicabile. Per questo, confrontata a questa « novità », la strategia della Chiesa consistette, da una parte, nel cercare di or-dinarla, regolarla e conformarla in modo da convogliare i movimenti in un nuovo ordine monastico o inserirli in uno già esistente; dall’altra, quando questo risultava im-possibile, nello spostare il confl itto dal piano della vita a quello della dottrina, condannandoli come ereticali. In entrambi i casi, ciò che restava non pensato era proprio l’aspirazione originaria che aveva condotto i movimenti a rivendicare una vita e non una regola, una forma vitae e non un sistema più o meno coerente di idee e di dot-trine – o, più precisamente, a proporre non una qualche nuova esegesi del testo sacro, ma la sua pura e semplice identifi cazione con la vita, quasi che essi non volessero leggere e interpetrare il Vangelo, ma soltanto viverlo.

Nelle pagine che seguono cercheremo pertanto di provare a comprendere, nel caso esemplare del france-scanesimo, non tanto o non solo le implicazioni dottri-narie, teologiche o giuridiche della forma di vita riven-dicata dai movimenti, quanto di interrogare piuttosto il signifi cato del fatto stesso che queste rivendicazioni siano state poste essenzialmente sul piano della vita. Ci chiederemo, cioè, innanzitutto se attraverso gli stessi termini « vita », « forma di vita » (forma vitae), « forma del vivere » (forma vivendi) non si cercasse di nominare qualcosa, il cui senso e la cui novità restano ancora da decifrare e che, proprio per questo, non hanno cessato di riguardarci da vicino.

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.. Il sintagma « forma di vita » non soltanto non è, come alcuni studiosi sembrano ritenere, un’invenzione francescana, ma è ben anteriore alle stesse origini del mo-nachesimo e alla biografi a tardo-antica, da cui, secondo altri (C, p. ), l’agiografi a medievale l’avrebbe ri-cevuto. Uno spoglio del ' esaurus mostra con ogni evi-denza che l’espressione si trova già in Cicerone (nostrae quidem rationis ac vitae quasi quandam formam… vides) e, dopo di lui, fra gli altri, in Seneca (hanc… sanam ac salubrem formam vitae tenete) e in Quintiliano (nella va-riante certa forma ad quam viveremus). Il valore seman-tico di forma che i redattori del D esaurus registrano per questi casi è imago, exemplar, exemplum, norma rerum e, come mostra il passo di Quintiliano, è verosimile che proprio il signifi cato di « esempio, modello » abbia por-tato alla coniazione del sintagma forma vitae.

Così nell’Itala (Tit., , ) e nella Vulgata, forma tra-duce typos (a volte reso dalla Vulgata con exemplum): ut nosmet ipsos formam daremus vobis ad imitandum (% Tess., , ); forma esto fi delis ($ Tim., , ; la Vulgata ha: exem-plum esto fi delium).

Ed è in questo senso che l’espressione compare in Rufi no (emendationis vitae formam modumque – Hist. mon., , a), in Ilario (Christus formam se ipsum agen-di sentiendique constituens), in Sulpicio Severo (esto…omnibus vivendi forma, esto exemplum – Ep., , ), in Ambrogio (cognitio verbi et ad imaginem eius forma vi-vendi – Fug., , ) e in Agostino, nel De moribus Ec-clesiae, sia in riferimento alla vita dei cristiani (Nam Christianis haec data est forma vivendi, ut diligamus Do-minum Deum nostrum ex toto corde… – , , ) che in chiave tipologica (in his… valet forma mortis ex Adam, in aeternum autem valebit vitae forma per Christum –

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Ep., , ; quasi con le stesse parole, nel commento alla lettera ai Corinzi, l’Ambrosiaster: Adam enim forma mortis est, causa peccati; Christus vero forma vitae propter iustitiam – , , ).

Il senso di forma è qui « esempio, paradigma »; ma la logica dell’esempio è tutt’altro che semplice e non coincide con l’applicazione di una legge generale (cfr. A, pp. -). Forma vitae designa, in questo senso, un modo di vita che, in quanto aderisce stretta-mente a una forma o modello, dal quale non può essere separato, si costituisce per ciò stesso come esempio (così in Bernardo di Chiaravalle, Contra quaedam capitula er-rorum Abelardi, cap. : (Christus) ut traderet hominibus formam vitae vivendo…).

È singolare che la penetrazione dell’espressione nel-la letteratura monastica sia relativamente tarda. Essa non compare nelle Regole dei Padri, nella Regola del maestro (dove si trova più volte il termine forma da solo nel sen-so di esempio) né nella Regola benedettina. Quando, a partire dal secolo , i movimenti spirituali riprendono con forza il sintagma, l’accento cade in uguale misura sui due termini che lo compongono, a signifi care una perfetta coincidenza di vita e di forma, di esempio e di sequela. Ma è soltanto con i francescani che il sintagma forma vitae assume il carattere di un vero e proprio ter-mine tecnico della letteratura monastica e la vita come tale diventa la questione in ogni senso decisiva.

.. Nel , più di ottanta anni dopo la morte di Francesco, Clemente interviene nella disputa che oppone Spirituali e Conventuali con la bolla Exivi de Paradiso. Dopo aver paragonato l’ordine dei Minori a un giardino in quo quietius et securius vacaretur con-templandis servandisque huiusmodi operibus exemplaris,

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il pontefi ce evoca il modo di vita dei francescani con queste parole: haec est illa coelestis vitae forma et regu-la, quam descripsit ille confessor Christi eximius sanctus Franciscus. L’accostamento del sintagma « forma di vita » col termine « regola » non è nuovo e lo si incontra più volte nella stessa letteratura francescana; ma proprio per questo sarà utile chiedersi innanzitutto se si tratta di una endiadi in cui le due espressioni risultano sinonimiche o se invece il loro valore semantico sia diverso e, in questo caso, in che cosa consista la diff erenza e quale sia il senso strategico della loro congiunzione.

Uno scrutinio delle occorrenze del sintagma « for-ma di vita » nelle fonti francescane mostra che esso non appare come tale negli scritti attribuiti a Francesco. La Regola non bollata, dopo aver esordito, come abbiamo visto, con la drastica dichiarazione Haec est vita Evan-gelii Iesu Christi, quam frater Franciscus petiit a Domi-no Papa concedi et confi rmari sibi, accosta i due termi-ni regula e vita (regula et vita istorum fratrum haec est, scilicet vivere in oboedientia, in castitate et sine proprio – F , , p. ). L’accostamento è ripreso nella Regola bollata del (regula et vita minorum fratrum haec est… – ibid., p. ). Nel Testamento, tuttavia, il termine forma compare; esso è accostato non a vita, ma a vivere, nel passo in cui Francesco scrive che Cristo stes-so gli ha rivelato quod deberem vivere secundum formam sancti Vangelii. Poiché, poco prima, Francesco, parlando dei sacerdoti, li defi nisce come coloro « che vivono se-condo la forma della santa Chiesa Romana » (qui vivunt secundum formam sanctae Ecclesiae Romanae – ibid., p. ), è chiaro che il Testamento distingue esplicitamente e fermamente due forme di vita. Da una parte France-sco dichiara che il Signore gli ha dato « una così grande fede » nei sacerdoti che vivono « secondo la forma della

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Chiesa Romana », che, anche se gli facessero persecuzio-ne (è signifi cativo che questa possibilità sia stata con-templata), egli vorrebbe temerli, amarli e onorarli come suoi signori; dall’altra, ha cura di precisare che « dopo che il Signore mi dette dei fratelli, nessuno mi mostrava che cosa dovevo fare (quid deberem facere), ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere (quod deberem vi-vere) secondo la forma del santo Vangelo », e aggiunge immediatamente: « e io (lo) feci scrivere con poche pa-role e con semplicità e il signor papa me (lo) confermò » (Et ego paucis verbis et simpliciter feci scribi et dominus papa confi rmavit mihi – ibid., p. ).

L’opposizione tecnica fra il quid (che cosa dovevo fare) sostanziale e contenutistico e il quod (che dovevo vivere) esistenziale e fattuale mostra che Francesco non può riferirsi a una regola in senso proprio, che stabilisce precetti e divieti (quod deberem facere). E l’opposizione non è soltanto fra il « che cosa » e il « che », ma anche tra il « fare » e il « vivere », l’osservare dei precetti e delle norme e il semplice fatto di vivere secondo una forma (abbiamo visto che Ugo di Digne distinguerà in questo senso fra promittere regulam e promittere vivere secundum regulam). Come avversari e seguaci intesero immedia-tamente, la « forma del santo Vangelo » non è in alcun modo riducibile a un codice normativo.

Ma che cosa vuol dire allora Francesco dicendo che egli « fece scrivere » quel modo di vivere con poche pa-role e con semplicità? Questa « scrittura » (la cosiddet-ta regola breve del ) coincide, secondo gli studiosi, con il testo del prologo e del primo capitolo della Regola bollata, in cui la regula et vita dei fratelli è compendiata nelle « poche parole »: vivere in oboedientia, in castitate et sine proprio, seguite da quattro citazioni evangeliche. Le due regole successive non fanno che aggiungere a questo

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nucleo essenziale, generico e, tuttavia, considerato con ogni evidenza come esaustivo (le enunciazioni haec est vita e regula et vita… haec est sono perentorie e non la-sciano dubbi in proposito) prescrizioni che riguardano l’accettazione dei nuovi fratelli, il rapporto fra i ministri e gli altri fratelli, le correzioni, le malattie, casi partico-lari come l’andare a cavallo, i rapporti con le donne, il ricevere elemosina, il viaggiare per il mondo, la predi-cazione e varie altre questioni, rispetto alle quali si limi-tano a suggerire indicazioni in ossequio alla tradizione delle regole monastiche, senza toccare in alcun modo la defi nizione del « vivere secondo la forma del santo Van-gelo » già compendiata micrologicamente nell’esordio.

Il nucleo originale della regola consisteva, quindi, nell’attribuire uno « status normativo alla narrazione neotestamentaria » come tale (T, p. ): rispetto a questo nucleo, le prescrizioni e i divieti che seguono (nelle edizioni moderne della Regola non bollata, i capi-toli - – la scansione in capitoli ovviamente manca nei manoscritti) rappresentano soltanto delle glosse in vista di una casistica con ogni evidenza non esaustiva. Confondendo in questo modo il Vangelo e la regola, la regola archetipa o Urregel implicava conseguenze inac-cettabili per la curia, che, già con la bolla Quo elongati del , introdusse una distinzione fra esempio evan-gelico e regola, decidendo che il monaco fosse obbligato solo a quei consigli evangelici che erano stati incorporati nella regola.

ē Il principio francescano secondo cui la regola è la stessa vita di Cristo si trova già enunciato in un testo – le Ask"tikai diataxeis o Costituzioni ascetiche – che la tradizione attribui-sce a Basilio e che doveva essere ben familiare agli spirituali francescani, in particolare a Clareno, traduttore in latino del

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monaco cappadoce. « Ogni azione… e ogni parola (pasa pra-xis… kai pas logos) del nostro Salvatore Gesù Cristo » si legge in questo testo (, , a-b) « è una regola (kanon) di pietà e di virtù »; poco dopo troviamo anche articolata l’idea della vita di Cristo come modello e immagine di vita: « Il Salvato-re propose a tutti coloro che vogliono vivere piamente una forma e un modello di virtù (typon aret"s kai programma)… e diede a tutti coloro che vogliono seguirlo la sua propria vita come immagine del modo di vita migliore (eikona politeias arist"s) » (ibid., d). La stessa regola benedettina esordisce ricordando che « ogni pagina e ogni discorso della divina au-torità nel Vecchio e nel Nuovo Testamento è una rectissima norma vitae humanae ». Del resto, com’è stato notato (T-, p. ), attribuire valore normativo al testo evangelico non era, in sé, un fatto nuovo (la Concordantia di Graziano defi nisce il diritto naturale come quod in Lege et Evangelio continetur); nuovo era, però, trarre dall’equazione integrale e senza residui di regola e vita di Cristo una trasformazione radicale nel modo di concepire tanto la vita che la regola.

.. Il fatto è che, come Francesco non si stanca di ricordare, in questione nella « regola e vita » non è tanto una precettistica, ma anche e innanzitutto una sequela (Domini nostri Iesu Christi… vestigia sequi – F , p. ; o, con ancora più forza, nella cosiddetta « ultima volontà » a santa Chiara: volo sequi vitam et paupertatem altissimi Domini – ibid., p. ). Non si tratta tanto di applicare una forma (o una norma) alla vita, ma di vi-vere secondo quella forma, cioè di una vita che, nella sequela, si fa essa stessa forma, coincide con essa.

Per questo, riallacciandosi alla dichiarazione inizia-le (haec est vita), la conclusione della Regola non bol-lata può riferirsi alle cose quae in ista vita scripta sunt: proprio perché scritta è stata qui una vita e non una

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regola, una forma del vivere e non un codice di norme e precetti, il testo stesso può essere defi nito « vita ». Ed è in questo senso che si deve intendere la ripetizione puntua-le del termine vita accanto a regula (anche ammesso che questo secondo termine non sia stato aggiunto, come ritengono alcuni studiosi, in un momento ulteriore): la forma di vita evangelica, la coelestis vitae formae evocata da Clemente , non è mai soltanto regula, ma, insieme, regula et vita o semplicemente vita. Per questo la Regola non bollata può usare vita dove ci si aspetterebbe regula (si quis volens accipere hanc vitam… si fuerit fi rmus acci-pere vitam nostram… – ibid., p. ) e, nello stesso senso, riferire indiff erentemente alla vita termini che si riferi-scono solitamente alla regola (promittentes vitam istam semper et regulam observare – p. ).

È chiaro che Francesco ha qui in mente qualcosa che non può semplicemente chiamare « vita », ma che nemmeno si lascia classifi care soltanto come « regola ». Di qui la diffi coltà degli studiosi, di fronte a quello che sembra essere un uso indistinto dei due termini (T-, p. ; cfr. C, p. ), ma è, in verità, il contrario esatto di un’inutile ridondanza: i due vocaboli sono messi in reciproca tensione, per nominare qualco-sa che non si lascia nominare altrimenti. Se la vita s’in-determina in regola nella misura stessa in cui la regola s’indetermina in vita, ciò è possibile soltanto perché in questione in entrambe è quella novitas che Francesco chiama vivere secundum formam (Sancti Evangelii) e che dobbiamo ora provarci a defi nire.

ē Una indeterminazione di vita e regola s’incontra già, come abbiamo visto, nella tradizione monastica nella formu-la vita vel regula all’inizio delle Vite dei Padri del Giura (cfr. anche, nella Regola dei quattro Padri: qualiter vitam fratrum,

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vel regulam tenere possit – V , p. ). Tuttavia l’et fran-cescano non ha il valore disgiuntivo del vel nella formula di Lerins. Mentre questo implica che la vita si confonda con la regola (la vie ou la règle, c’est à dire la vie comme règle – T-, p. ), l’et va inteso piuttosto nel senso di una giustap-posizione, che è, insieme, una separazione (signifi cativa, nella Regola non bollata, è la sequenza haec est vita Evangelii… e regula et vita istorum fratrum haec est…: prima la vita da sola, e poi la giustapposizione di vita e regola). Sostituendo al vel un et, Francesco congiunge e, insieme, disgiunge i due termini, quasi che la forma di vita che egli ha in mente potes-se situarsi solo nel luogo dell’et, nella tensione reciproca fra regola e vita.

Nella letteratura francescana la prossimità e, insieme, la distinzione fra vita (modus vivendi) e regula sono sempre mantenute. Così in Bonaventura: Ex quibus patenter elucet, quod Fratrum minorum regula non discordat a vita, nec com-munis ipsorum modus vivendi discordat a regula (B- , p. – , ). In modo ancora più evidente, Ubertino da Casale distingue il modus vivendi e lo status regularis, la forma evangelica in vivendo data da Cristo agli apostoli e la regula: (Franciscus) in auditu illius verbi in quo Christus, ut dictum est, formam tribuit apostolis evangelicam in vivendo… statum regularem et modum vivendi accepit, predicte norme apostolice per omnia se coactans, et in hoc ordinem suum ince-pit; et ideo dicitur in principio regule: « Regula et vita minorum fratrum hec est, scilicet Domini nostri Ihesu Christi sanctum evangelium observare », quasi summarie omnia que sunt in re-gula reducens ad formam evangelicam in vivendo (U, p. ). Subito dopo, Ubertino, citando il passo della regola in cui si dice che i frati « promettono di osservare questa vita e la regola » (promictentes istam vitam et regulam observare), lo mette in corrispondenza con la forma vite et norma quam Christus servavit (ibid., p. ). Come in Francesco, i due ter-

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mini accostati non sono identifi cati, ma piuttosto messi in reciproca tensione.

ē È signifi cativo che Francesco, quando un compagno gli chiede perché non intervenga a correggere la decadenza dell’ordine, i cui membri hanno abbandonato « la semplicità e la povertà, che erano il principio e il fondamento del nostro ordine », lo rimproveri con fermezza di volerlo implicare in questioni che non riguardano il suo compito (vis… me im-plicare in his que non pertinent ad o! cium meum). « Se non posso vincere e correggere i vizi con la predicazione e l’esem-pio, non voglio diventare carnefi ce per percuotere e frustare, come il potere di questo mondo » (nolo carnifex fi eri ad percu-tiendum et fl agellandum, sicut potestas huius seculi – F- , , pp. -). Nella tensione che il francescanesimo istaura fra regola e vita, non c’è posto per qualcosa come una applicazione della legge alla vita, secondo il paradigma dei poteri mondani (fra i quali, nel vocabolario dell’epoca, pote-va essere inclusa più o meno direttamente anche la Chiesa).

.. Le altre fonti francescane, che si servono più volte del sintagma forma vitae, confermano questo ca-rattere peculiare delle « regole » dettate dal fondatore. La regola di santa Chiara, defi nitivamente approvata da In-nocenzo nel , imita nel suo esordio la defi nizione della Regola non bollata, sostituendo però alla « regola e vita » del testo francescano il sintagma « forma di vita » (« La forma di vita dell’ordine delle sorelle povere, isti-tuita dal beato Francesco, è questa » – F , , p. ). Poco dopo Chiara, riportando le parole di France-sco, dice che « il beato padre… scrisse per noi la forma del vivere in questo modo (scripsit nobis formam vivendi in hunc modum – ibid., p. ) ». Il breve testo che segue non contiene, però, né precetti né regole, ma, dopo aver

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appena accennato al fatto che le sorelle hanno scelto di « vivere secondo la perfezione del santo Vangelo », for-mula semplicemente una promessa (« voglio e promet-to, da parte mia e dei miei fratelli, di avere sempre di voi, come di loro, attenta cura e sollecitudine speciale »). Chiara chiama quindi « forma di vita » non un codice di norme, ma qualcosa che sembra corrispondere a quel che Francesco chiama « vita », « regola e vita » o, nel Te-stamento, « vivere secondo la forma del santo Vangelo ».

Gli studiosi si sono chiesti (M, pp. -) se della forma vivendi scritta da Francesco esistesse una re-dazione più ampia. È signifi cativo, tuttavia, che nell’An-gelis gaudium, con cui Gregorio nega ad Agnese di Praga l’autorizzazione a seguire il modello francescano, il pontefi ce defi nisca in modo diminutivo il testo di Francesco formula vitae e opponga ad esso le costituzio-ni di Ugolino designate come « regola » (ipsae – le cla-risse –, formula predicta postposita, eamdem regulam… observarunt… te ac sorores tuas ab observantia predictae formulae de indultae nobis a Domino potestatis plenitudi-ne absolventes volumus et mandamus quatenus eamdem regulam tibi sub bulla nostra transmissa reverentia fi liali suscipias – ibid., p. ). Gregorio nega esplicitamente alla formula di Francesco – paragonata al potum lactis dei neonati e opposta al cibum solidum delle costituzio-ni – il carattere di regola, segno che forma vitae e regula non erano percepite come sinonimi. « Scegliere di vivere secondo la perfezione del santo Vangelo » è una formula vitae, non una regola.

Un passo della Leggenda maggiore (, ), composta da Bonaventura da Bagnoregio nel , contiene, in questa senso, una indicazione decisiva. Sotto la guida di Francesco, scrive Bonaventura, « la Chiesa si sarebbe rinnovata in tre modi: secondo la forma di vita, secondo

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la regola e secondo la dottrina di Cristo da lui proposte » (secundum datam ab eo formam, regulam et doctrinam Christi triformiter renovanda erat Ecclesia). La triparti-zione articolata da Bonaventura (che svolge un passo della Vita di Tommaso da Celano: ad cuius formam, re-gulam et doctrinam – F , , p. ) corrispon-de ai tre piani o modi in cui si struttura l’attività della Chiesa; ma decisivo è che la forma di vita non coincida qui né con un sistema normativo (per la Chiesa, il di-ritto canonico) né con un corpus di dottrine (l’insieme dei dogmi in cui la Chiesa articola la fede cattolica). Essa è un terzo fra la dottrina e la legge, fra la regola e il dogma, ed è soltanto a partire dalla consapevolezza di questa specifi cità che la sua defi nizione potrà diventare possibile.

.. Tommaso da Celano, che, nella sua biografi a, affi anca spesso forma di vita e regola, mostra di distin-guere il primo termine tanto dalla regola che dalla vita in senso generico. Al momento di narrare l’episodio del-la redazione della prima regola, egli lo fa in questi ter-mini: scripsit sibi et fratribus suis… simpliciter et paucis verbis vitae formam et regulam (ibid., p. ). Poiché con ogni evidenza Tommaso sta qui parafrasando e citando le parole di Francesco nel Testamento, si deve pensare che l’espressione vitae forma et regula corrisponda al vi-vere secundum formam sancti Evangelii del testo e che, pertanto, l’endiadi che tornerà così spesso nella lette-ratura francescana sia un tentativo di spiegare il vivere secundum formam di Francesco, affi ancando al termine « regola » il sintagma « forma di vita », quasi a sottolinea-re in questo modo che esso non poteva esaurirsi in una serie di precetti normativi.

Più avanti, dopo aver narrato i miracoli del santo,

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Tommaso scrive: « Poiché tuttavia ci siamo proposti di descrivere non i miracoli, che non fanno la santità, ma la manifestano, quanto piuttosto l’eccellenza della vita e la sua sincerissima forma di vita (sed potius excellentiam vitae ac sincerissimam conversationis ipsius formam)… » (p. ). Conversatio signifi ca « condotta », « modo di vita »: giustapponendo il termine a forma, in un senso più o meno equivalente a forma vitae, Tommaso mostra di avere in mente non un semplice modo di vita, ma un modo di vita esemplarmente qualifi cato, che non può, però, essere inteso come una regola. In un passo precedente, il piano della vita (qualiter denique vita et mores ipsorum… forent proximis ad exemplum) è distinto in questo senso tanto da quello dell’osservanza di una regola (qualiter regulam quam susceperant possent since-re servare) che dalla relazione diretta a Dio (qualiter in omni sanctitate et religione coram Altissimo ambularent – pp. -). Il vivere secondo una forma implica indub-biamente, secondo un frequente signifi cato del termi-ne forma nel latino medievale, una relazione esemplare con altri, e, tuttavia, non è semplicemente sinonimo di exemplum.

In Bonaventura, il sintagma forma (o formula) vi-tae – o, anche, semplicemente forma (Forma igitur pra-escripta apostolis… – B , p. ) – appare più volte, tanto in riferimento alla regola (scripsit sibi et fratribus suis simplicis verbis formulam vitae – Leg. Ma-ior, , ) che nel signifi cato di modo di vita (per esem-pio, nelle Costituzioni generali, il titolo di , , de forma interius conversandi, cui corrisponde subito dopo la ru-brica de modo exterius exeundi; e, nell’Apologia pauperum (, ), forma vivendi riferito al modo di vita della Virgo et Mater Domini nostri Iesu Christi.

In ogni caso, il sintagma « forma di vita » sembra

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acquisire nel francescanesimo un signifi cato tecnico, che è importante non lasciarsi sfuggire. Come abbiamo già visto per l’espressione regula vitae, il genitivo non è soltanto oggettivo, ma anche soggettivo; la forma non è una norma imposta alla vita, ma un vivere che, nella sequela della vita di Cristo, si dà e si fa forma.

.. Nei commenti alla regola la specifi cità del con-cetto francescano di « vita », espressa compendiariamen-te nel sintagma forma vitae, è più volte ribadita. Nell’Ex-positio regulae di Angelo Clareno, l’incipit del testo dà così luogo a un ampio commentario terminologico, in cui, da una parte, il termine regula è sottratto alla sfera giuridica in senso stretto e, dall’altra, vita si oppone alla vita meramente vegetativa e diventa sinonimo di una « santa » e « perfetta » forma di vita. Leggiamo questo passo, in cui la familiarità di Clareno con la lingua e la tradizione monastica greca e, insieme, la sua perplessità di fronte al testo di Francesco sono evidenti:

Regula, id est evangelicus canon, sanctifi cans decretum et lex gratiae et iustitiae Christi humilitatis et forma vi-vendi secundum exemplar Christi Iesus paupertatis et crucis. Regula, quia recte ducit, et modum recte vivendi sine omni errore docet. Quos enim nostri grammatici decli-nare in partibus declinabilis orationis dicunt, hoc Grae-ci regulare et canonizare nuncupant. Vita vero apud Graecos dicitur zoi et pro vita vegetativa et animali imponitur, vios vero apud eos pro virtuosa sanctorum conversatione tantum scribitur. Ita et nunc in regula et in omnibus sanctorum historiis hoc nomen vita pro sancta conversatione et perfecta virtutum ope-ratione accipitur (C, p. ).

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Non soltanto la regola, in quanto evangelicus canon, è defi nita « forma del vivere » secondo il modello del Vangelo, ma essa è assimilata a una regola grammaticale piuttosto che a una legge in senso proprio (« I greci chia-mano regolare e canonizzare ciò che i nostri grammatici chiamano declinare »). D’altra parte, opponendo, grazie alla distinzione greca fra zo" e bios, due signifi cati del termine « vita », bios è considerato equivalente a sancta conversatio, cioè alla forma di vita perfetta. In realtà tutto il passo testimonia della diffi coltà di Clareno di fronte all’uso linguistico di Francesco, che stringe insie-me nel sintagma regula et vita qualcosa – la « forma del vivere » – che il commentatore non riesce a intendere se non distinguendo, da una parte, zo" e bios e, dall’altra, giustapponendo termini contraddittori (sanctifi cans de-cretum, lex gratiae).

I due termini « regola » e « vita » così avvicinati sono, tuttavia, tanto poco identifi cati, che la loro dualità per-mane anche nel modello cristologico: Francesco, scrive Clareno, che « aveva accettato come regola il Vangelo (Evangelium pro regula acciperet) » diceva per questo di aver promesso di osservare come regola « il Vangelo di Cristo e la sua vita » (pro regula Evangelium Christi et vitam eius promisisse servare – ibid., p. ).

Anche Olivi, che è il modello e il riferimento co-stante di Clareno, nel suo commento si soff erma sul sin-tagma francescano regula et vita: Francesco, egli scrive, « chiamando (la regola) non solo regola, ma anche vita, ha inteso chiarire il senso della regola, che è retta legge e forma del vivere e regola vivifi ca che conduce alla vita di Cristo » (vocans eam non solum regulam sed et vitam, ut sit sensus quod est regula, id est recta lex et forma vivendi et regula vivifi ca ad Christi vitam inducens – O , p. ). Una tale regola, egli aggiunge immediatamente,

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non consiste in un testo scritto (in charta vel litterae), ma « nell’atto e nell’operazione della vita (in acti et opere vitae) » e non si risolve « in un obbligo e nella professio-ne dei voti (in sola obligatione et professione votorum), bensì consiste essenzialmente in un’operazione di parola e di vita e nell’esercizio attuale… delle virtù (in verba-li et vitali opere et in actuali applicatione… virtutum) » (ibid.).

Non si potrebbe dire più chiaramente che dove a fornire il paradigma della regola è una vita (la vita di Cristo), allora la regola si trasforma in vita, diventa for-ma vivendi et regula vivifi ca. Il sintagma francescano re-gula et vita non signifi ca una confusione di regola e vita, ma la neutralizzazione e la trasformazione di entrambe in una « forma di vita ».

È nel più antico commento alla regola, l’Expositio quatuor magistrorum, che la diff erenza fra regola e forma di vita è aff ermata con maggiore chiarezza. A proposi-to del problema della possibilità di derogare in caso di necessità dalla regola che imponeva ai fratelli di cammi-nare a piedi nudi, il testo, dopo aver distinto, secondo una casistica tipicamente giuridica, le varie forme di ne-cessità (secondo lo stato, il luogo, il tempo e l’uffi cio), aff erma: Calciari vero dispensationis est regulae in necessi-tate, non calciari est forma vitae (« Portare scarpe dipende da una dispensa dalla regola in caso di necessità; non portare scarpe è la forma di vita » – Quatuor mag., p. ). Il principio così lapidariamente enunciato oppone la sfera della regola (rispetto alla quale lo stato di neces-sità implica un’eccezione alla norma) e quella della for-ma di vita come due piani tangenti, ma assolutamente non coincidenti. Dove è in questione una valutazione di carattere giuridico (la possibilità di una dispensatio), si ha regola; di fronte a questa, camminare a piedi scalzi

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non invera l’osservanza di una regola (in questo caso il testo avrebbe dovuto recitare: non calciari est regula), ma realizza una forma vitae.

ē Che la massima enunciata dai quattro maestri avesse nella tradizione francescana il valore di un vero e proprio principio è provato dal fatto che essa è testualmente citata con particolare rilievo nei commenti successivi, in particola-re da Ugo di Digne e da Ubertino da Casale. È interessante notare che mentre la dottrina giuridica prevalente concepiva lo stato di necessità come motivo di un’eccezione alla norma, qui, nello stato di necessità, regola e vita si separano: lo stato normale si presenta non come applicazione della regola, ma come « forma di vita », mentre l’eccezione appare come di-spensatio regulae.

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. Rinunciare al diritto

.. Decisivo a questo punto è defi nire il rapporto fra la « regola e vita » e la forma vivendi francescane da una parte e la sfera del diritto dall’altra, non solo perché è questa relazione che costituirà la materia bruciante del confl itto con la curia, ma anche e soprattutto perché solo una sua chiara comprensione renderà possibile va-lutare pienamente tanto la novità che l’inadeguatezza del movimento francescano, il suo straordinario succes-so come il suo prevedibile fallimento, che sembra velare di una così disperata amarezza gli ultimi anni della vita del fondatore.

È tutta la questione della povertà, che converrà al-lora innanzitutto esaminare in questa luce. L’altissima paupertas, con cui il fondatore aveva inteso defi nire la vita dei frati minori, è, infatti, il luogo in cui si decido-no le sorti del francescanesimo, tanto all’interno dell’or-dine, con il confl itto fra conventuali e spirituali, che nei rapporti con il clero secolare e la curia, che raggiungono il punto di rottura sotto il pontifi cato di Giovanni . Gli storici hanno ricostruito nei particolari le vicende di questa controversia, dalla bolla Exit qui seminat del , con cui Nicola , recependo le tesi di Bonaven-tura, sancisce il principio che i francescani, avendo ab-dicato a ogni diritto, tanto di proprietà che di uso (quod proprietatem usus et rei ciuisque dominium a se abdicasse

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videtur), mantengono però il semplice uso di fatto sulle cose (simplex facti usus – M, p. ), alla bolla Ad conditorem canonis del , in cui Giovanni , abro-gando la decisione del suo predecessore, aff erma l’inse-parabilità dell’uso dalla proprietà e attribuisce all’ordine la proprietà in comune dei beni di cui fa uso (nec ius utendi, nec usus facti, separata a rei proprietate seu domi-nio, possunt constitui vel haberi – ibid., p. ).

L’attenzione degli studiosi si è, tuttavia, a tal punto focalizzata sulla storia dell’ordine e dei suoi tormentati rapporti con la curia, che di rado ci si è provati ad ana-lizzare sul piano della teoria quale fosse la posta in gioco in questi confl itti. Al di là della diversità delle posizioni e della sottigliezza degli argomenti teologici e giuridi-ci dei francescani che intervengono nella controversia (oltre a Bonaventura, occorre citare almeno Olivi, Mi-chele da Cesena, Bonagrazia da Bergamo, Riccardo di Conington, Francesco di Ascoli, Guglielmo di Ockham e Giovanni Peckham), il principio che resta per essi dall’inizio alla fi ne immutato e non negoziabile si può riassumere in questi termini: in questione, per l’ordine come per il suo fondatore, è l’abdicatio omnis iuris, cioè la possibilità di un’esistenza umana al di fuori del dirit-to. Ciò che i francescani non si stancano di ribadire e su cui anche il ministro generale dell’ordine, Michele da Cesena, che pure aveva collaborato con Giovanni nella condanna degli spirituali, non è disposto a transi-gere, è la liceità per i frati di servirsi dei beni senza avere su di essi alcun diritto (né di proprietà né di uso): nelle parole di Bonagrazia, sicut equus habet usus facti, « come il cavallo ha l’uso di fatto, ma non la proprietà dell’ave-na che mangia, così il religioso che ha abdicato a ogni proprietà ha il semplice uso di fatto (usum simplicem facti) del pane, del vino e delle vesti » (B, p.

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). Nella prospettiva che qui c’interessa, il francesca-nesimo può essere, cioè, defi nito – e in questo consiste la sua novità, ancor oggi impensata e, nelle condizioni presenti della società, del tutto impensabile – come il tentativo di realizzare una vita e una prassi umane asso-lutamente al di fuori delle determinazioni del diritto. Se chiamiamo « forma-di-vita » questa vita inattingibile dal diritto, allora possiamo dire che il sintagma forma vitae esprime l’intenzione più propria del francescanesimo.

ē L’assimilazione della forma di vita francescana a una vita animale in Bonagrazia e Riccardo di Connington corrispon-de fedelmente alla speciale importanza che gli animali hanno nella biografi a di Francesco (la predica agli uccelli, la libera-zione della pecora e dei due agnellini, l’amore per i vermi: circa vermiculos nimio fl agrabat amore – F , , p. ). Se, da una parte, gli animali sono umanizzati e diventa-no « frati » (« chiamava tutte le creature col nome di fratelli » – ibid.), per converso, i frati sono equiparati, dal punto di vista del diritto, a degli animali.

.. Vale la pena di analizzare le modalità e gli ar-gomenti attraverso i quali i francescani realizzano questa neutralizzazione del diritto rispetto alla vita. Innanzitut-to il termine stesso « fratres minores » aveva delle implica-zioni propriamente giuridiche, che gli studiosi moderni, pur registrandole puntualmente, hanno curiosamente lasciato in ombra rispetto a quelle morali, cioè all’umil-tà e alla soggezione spirituale. Ugo di Digne, nel suo commento alla regola, mostra di esserne perfettamente cosciente: fratris autem minoris est iuxta nomen suum, quod minor est, semper attendere… (U D , pp. -). In quanto « minori », i francescani sono, dal punto di vista giuridico, tecnicamente alieni iuris,

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equiparati al fi liusfamilias e al pupillus sottoposto alla tutela di un adulto sui iuris. Nell’Apologia pauperum, Bonaventura svolge con precisione questo argomento, chiamando in causa la tradizione del diritto romano. Se tutti i cristiani, egli argomenta, sono secondo il diritto comune fi gli del sommo Pontefi ce, come tali sottomessi alla sua autorità, ma, in quanto fi gli emancipati, capa-ci di disporre dei beni ecclesiastici, i francescani sono invece « come bambinetti e fi gli di famiglia totalmente sottomessi al governo del padre » (tamquam parvuli et fi -liifamilias totaliter ipsius regimini deputati), come questi, pertanto, giuridicamente incapaci, secondo il Digesto, di possedere alcunché, poiché la proprietà compete solo al padre ed essi possono soltanto usare le cose (propterea, sicut lege cavetur, quod « fi liusfamilias nec retinere nec re-cuperare posse possessionem rei peculiaris videtur » (Digest., L, $+, De regulis iuris), sed patri per eum quaeritur; sic et in his pauperibus intelligendum est, quod rerum eisdem colla-tarum et sustentationem ipsorum patri pauperum depute-tur dominium, illis vero usus – B , p. ). Per la stessa ragione (e l’insistenza con cui Francesco si qualifi ca non soltanto come parvulus, ma anche come pazzus è da considerare in questa prospettiva) essi pos-sono essere assimilati al furiosus, che non può acquistare per usucapione la proprietà di un bene, anche se esso si trova in suo possesso: Propter quod et iurisconsultus Iu-lianus ait: « furiosus et pupillus sine tutoris auctoritate non possunt incipere possidere, quia a( ectionem tenendi non habent, licet res suo corpore contingant, sicut si dormienti aliquid in manu ponatur » (ibid., p. ).

.. Tarello, in uno studio importante, ha mostra-to come la premessa della strategia francescana nel-la questione della povertà vada cercata nella ricezione

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patristica e canonistica della dottrina della comunione originaria dei beni (T, p. ). Secondo questa dottrina, accolta nel Decretum di Graziano, nello stato di innocenza « per diritto naturale tutte le cose sono di tutti (iure naturali sunt omnia omnibus) »; la proprietà e tutto il diritto umano cominciano con la caduta e con la costruzione di una città da parte di Caino. È su que-sta base che Bonagrazia, svolgendo le tesi di Bonaven-tura, può aff ermare che, come, nello stato di innocen-za, l’uomo aveva l’uso delle cose, ma non la proprietà, così i francescani, seguendo l’esempio di Cristo e degli apostoli, possono rinunciare a ogni diritto di proprie-tà, mantenendo però l’uso di fatto delle cose (apostoli et fratres minores potuerunt a se abdicare dominium et proprietatem omnium rerum… et sibi in omnibus rebus tantumodo usum facti retinere – B, p. ). Nello stesso senso, il trattato De fi nibus paupertatis di Ugo di Digne, che defi nisce la povertà come spontanea propter Dominum abdicacio proprietatis, fonda la liceità di questa abiura e della separazione fra proprietà e uso che ne risulta, nel diritto naturale, che esige che ciascu-no possa conservare la propria natura (U D , pp. -).

L’abdicatio iuris (con il ritorno che essa implica allo stato di natura precedente alla caduta) e la separazio-ne della proprietà dall’uso, costituiscono il dispositivo essenziale, di cui i francescani si servono per defi nire tecnicamente la peculiare condizione che essi chiamano « povertà ».

ē È signifi cativo che i teorici francescani tendano ostina-tamente a confi gurare la rinuncia al diritto in termini giuri-dici. Così Ugo di Digne, che nel trattato De fi nibus pauper-tatis aveva scritto che i frati minori « questo solo hanno in

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proprio, di non avere nulla di proprio nelle cose transeunti » (U D , p. ), nel suo commento alla regola francescana riprende la stessa formulazione aggiungendovi però che essi « questo solo diritto hanno, di non avere alcun diritto » (Hoc autem est fratrum minorum proprium: nihil sub coelo proprium possidere. Hoc ius: nullum in his que transeunt ius habere – U D , p. ).

.. Accanto all’abdicatio iuris, l’altro argomento di cui si servono i francescani nella polemica con la cu-ria è una geniale generalizzazione e, insieme, inversione del paradigma dello stato di necessità. Seguiamo l’argo-mentazione di Ockham, nell’opera che dichiara di aver « completato faticosamente in novanta giorni, in fretta e senza ornamenti » (hoc opus nonaginta dierum, quamvis cursim et sermone nullatenus falerato, multo tamen com-plevi labore) e che, malgrado l’apparente imparzialità, è, in realtà, una critica puntuale e feroce della bolla Quia vir reprobus, con la quale Giovanni aveva risposto nel all’Appellatio e alla fuga di Michele da Cesena.

Ockham, come aveva già fatto Bonagrazia, parte dal principio già presente nel diritto romano (la lex Ro-dia de iactu), secondo cui, in caso di estrema necessità (pro tempore necessitatis extremae) ciascuno ha per diritto naturale la facoltà di usare delle cose altrui. Contro il pontefi ce, che aff erma che non vi è diff erenza fra ius e licentia e che pertanto non vi può essere per i fran-cescani una licentia utendi separata dallo ius utendi, Ockham comincia col distinguere fra lo ius utendi na-turale, che riguarda tutti gli uomini e vale soltanto nel caso di necessità, e lo ius utendi positivum, che deriva ex constitutione aliqua vel humana pactione. I frati minori, aff erma Ockham, pur non avendo alcun diritto positivo sulle cose che usano, hanno tuttavia su di esse un diritto

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naturale, ma limitatamente al caso di estrema necessità (O, p. ). « Da ciò risulta che la licenza di usare non è un diritto di usare (quod licentia utendi non est ius utendi); i frati minori, infatti, hanno licenza di usare le cose in un tempo diverso da quello di estrema necessità (pro alio tempore quam pro tempore necessitatis extremae), ma hanno un qualche diritto di uso solo nel caso di estrema necessità; dunque la licenza di usare non è un diritto di usare (ibid.) ». Essi hanno rinunciato a ogni proprietà e a ogni facoltà di appropriarsi, ma non al di-ritto naturale di uso, che, in quanto diritto naturale, è irrinunciabile (proprietati et potestati appropriandi licet renuntiare, sed iuri utendi naturali nulli renuntiare licet – p. ).

Occorre non lasciarsi sfuggire la sottigliezza della strategia di Ockham rispetto al diritto: si tratta, per così dire, di tenersi insieme fuori e dentro il diritto, di riaf-fermare con forza il principio della liceità dell’abdicatio iuris sancito dalla Exit qui seminat e, nello stesso tempo, contro Giovanni , di non privare i francescani del ri-corso al diritto naturale, ma limitandolo al caso di estre-ma necessità. Ciò signifi ca, a ben guardare, che i frati minori operano una inversione e, insieme, una assolu-tizzazione dello stato di eccezione: nello stato normale, in cui agli uomini competono diritti positivi, essi non hanno alcun diritto, ma solo una licenza d’uso; nello stato di estrema necessità, essi recuperano un rapporto col diritto (naturale, non positivo).

Diventa più chiaro, in questa prospettiva, anche il senso della massima citata dell’Expositio quattuor magi-strum, secondo la quale calciari vero dispensationis est re-gulae in necessitate, non calciari est forma vitae. La neces-sità, che dispensa i frati minori dalla regola, li restituisce al diritto (naturale); al di fuori dello stato di necessità,

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essi non hanno rapporto col diritto. Ciò che per gli altri è normale, diventa così per essi l’eccezione; ciò che per gli altri è eccezione, diventa per essi una forma di vita.

.. Emanuele Coccia, in un saggio esemplare, de-dicato all’analisi delle regole monastiche dal punto di vista del diritto, ha defi nito la novità e, insieme, l’aporia del francescanesimo nella forma di un « paradosso giu-ridico ». Se proprio del monachesimo in generale è il tentativo di costituire a oggetto del diritto non tanto le relazioni fra i soggetti o fra i soggetti e le cose, quanto la vita stessa nella sua relazione alla propria forma, la spe-cifi cità del francescanesimo consisterebbe nel fare di un dispositivo giuridico, qual è, secondo Coccia, la regola, l’operatore di un « vuoto giuridico » (C, p. ), di una sottrazione radicale della vita alla sfera del diritto.

Abbiamo visto come i francescani operino nella loro rivendicazione senza riserve di una vita fuori del diritto. Non tanto la regola, quanto lo stato di necessità è il di-spositivo attraverso il quale essi cercano di neutralizzare il diritto e, insieme, di assicurarsi un estremo rapporto con esso (nella forma dello ius naturale). Ma così come la regola non è un dispositivo giuridico, nemmeno lo stato di eccezione può essere defi nito propriamente tale. Esso è, piuttosto, la soglia nella quale la forma di vita francescana tocca il diritto. Alla fi ne del suo commento, Clareno, citando Olivi, paragona la regola francescana a una sfera, il cui centro è Cristo e che tocca il piano dei beni terreni soltanto nel « punto dell’uso semplice e ne-cessario » (haec regula tanquam vere sphaerica non tangit planitiem terrenorum nisi in puncto simplicis et necessarii usus – C, p. ). Lo stato di necessità è l’altro punto di tangenza, in cui la forma di vita francescana (la regola-vita) tocca il diritto (naturale, non positivo).

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È tra questi due punti di tangenza, il punctum usus e il tempus necessitatis, che dobbiamo situare la sfera della regola-vita minorile che, nelle parole che seguono im-mediatamente, « si rifl ette tutta circolarmente intorno a Cristo e al suo Vangelo come al proprio intimo centro, e, secondo la forma del cerchio, da dove comincia, là anche fi nisce » (totaque se refl ectit circa Christum circu-lariter et Evangelium eius tanquam circa suum intimum centrum, sicut instar circuli, unde exordium sumpsit, in idipsum fi nit – ibid.). L’uso e lo stato di necessità sono i due estremi che defi niscono la forma di vita francescana.

.. È venuto allora forse il momento di riprendere la nostra analisi delle regole monastiche nel punto in cui la avevamo interrotta per interrogare la loro rela-zione con la liturgia. Il cenobio era apparso in questa prospettiva come un campo di forze percorso da due tensioni opposte, una volta a trasformare la vita in li-turgia e l’altra tesa a fare della liturgia una vita. Non è possibile, tuttavia, intendere pienamente il senso di queste tensioni se non le si considerano nella loro rela-zione – insieme antitetica e di fi tto scambio – con il pa-radigma dell’uffi cio sacerdotale che la Chiesa era andata progressivamente elaborando. Se la vita del sacerdote si presenta qui come un o! cium, se l’o! cium istituisce, come abbiamo visto, una soglia di indiff erenza fra la vita e la norma e fra l’essere e la prassi, nello stesso tempo la Chiesa aff erma con decisione quella netta distinzione fra vita e liturgia, fra individuo e funzione che culmi-nerà nella dottrina dell’opus operatum e dell’eff ettualità sacramentale dell’opus Dei. Non soltanto la prassi sacra-mentale del sacerdote è valida ed effi cace ex opere opera-to indipendentemente dall’indegnità della sua vita, ma, com’è implicito nella dottrina del character indelebile, il

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sacerdote indegno resta sacerdote malgrado la sua inde-gnità.

A una vita che riceve il suo senso e il suo rango dall’uffi cio, il monachesimo oppone l’idea di un o! -cium che ha senso solo se diventa vita. Alla liturgizza-zione della vita, corrisponde qui un’integrale vivifi cazione della liturgia. Il monaco è, in questo senso, un essere che è defi nito soltanto dalla sua forma di vita, cosicché al limite un monaco indegno semplicemente non è un monaco.

Se la condizione monastica si defi nisce pertanto attraverso la sua diff erenza specifi ca rispetto all’uffi cio sacerdotale (cioè a una prassi la cui effi cacia è indipen-dente dalla forma di vita), è chiaro allora che è proprio nell’articolarsi della dialettica fra queste due fi gure della relazione vita-o! cium che dovranno decidersi le sorti storiche del monachesimo. Allo sfumare della diff erenza corrisponderà la progressiva clericalizzazione dei mona-ci e la loro crescente integrazione nella Chiesa, mentre al suo accentuarsi corrisponderanno tensioni e confl itti fra gli ordini e la curia.

L’esplosione dei movimenti religiosi fra il e il secolo è il momento in cui queste tensioni raggiungono il loro punto critico. È signifi cativo che sia proprio il principio della separazione fra opus operans e opus opera-tum che i movimenti intendono innanzitutto mettere in questione. Così ciò che i Valdesi obiettano alla Chiesa non è soltanto l’ineffi cacia dei sacramenti amministrati da un sacerdote indegno, ma, ancora più radicalmen-te, che il principio secondo cui il diritto di legare e di sciogliere, di consacrare e benedire e di amministrare i sacramenti non deriva dall’ordo e dall’o! cium, ma dal merito, è, cioè, una questione non di diritto e di succes-sione gerarchica, ma di imitazione della vita apostolica.

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Nelle parole di Alano di Lilla:

Aiunt predicti heretici, quod magis operantur meritum ad consecrandum vel benedicendum, ligandum et sol-vendum quam ordo et offi cium… Dicunt etiam se pos-se consecrare, ligare et solvere, quia meritum dat pote-statem, non offi cium et ideo qui se dicunt apostolorum vicarios, per merita debent habere eorum offi cia (De fi de contra hereticos, , , p. ; cfr. G, p. ).

Il principio secondo cui non è l’uffi cio a conferire il potere sacerdotale, ma il meritum vitae, è aff ermato anche dal giurista Ugo Speroni, al quale il magister Va-cario obietta in nome della Chiesa che il « sacerdozio è una questione di diritto » (Sacerdotium res iuris est) e che l’uffi cio non ha niente in comune con la religione e con la carità (quid enim commune habet o! cium admi-nistrationis, qui est in rebus ipsis, ad meritum religionis et caritatis, quae est in mente ipsius hominis – ibid., p. ).

Ciò che in entrambi i casi viene stigmatizzato come eresia non è, in verità, un principio dottrinale, ma solo la conseguenza necessaria di un atteggiamento spirituale che fa della forma di vita e non dell’uffi cio la questione decisiva.

ē Grundmann ricorda che è proprio per far fronte a que-ste eresie che Innocenzo chiama in causa il principio della distinzione fra opus operans e opus operatum: In sacramento corporis Christi nihil a bono maius, nihil a malo minus per-fi citur sacerdote… quia non in mente sacerdotis, sed in verbo confi citur creatoris… Quamvis igitur opus operans aliquando sit immundum, semper tamen opus operatum est mundum (De sacrii altaris mysterio, , , ). La separazione fra vita e

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offi cio non poteva essere espressa in termini più chiari.

.. Il francescanesimo rappresenta il momento in cui la tensione fra forma vitae e o! cium si scioglie, non perché la vita sia assorbita nella liturgia, ma, al contra-rio, perché vita e uffi cio raggiungono la loro massima disgiunzione. Non vi può essere in Francesco alcuna ri-vendicazione del meritum vitae contro l’ordo, come nei movimenti religiosi a lui contemporanei, né, come nel monachesimo delle origini, una trasformazione della vita in liturgia e preghiera incessante, perché la vita dei frati minori non è defi nita dall’o! cium, ma unicamente dalla povertà. Naturalmente tanto la regola che il testa-mento e le lettere menzionano l’uffi cio, ma esso non è con ogni evidenza che il punto in cui il « vivere secondo la forma del santo Vangelo » incrocia il « vivere secondo la forma della santa Chiesa Romana ». È signifi cativo che il Testamento, dopo aver distinto le due forme di vita e defi nito la povertà, ricordi senza alcuna enfasi e quasi di sfuggita che o! cium dicebamus clerici sicut alios clericos, laici dicebant pater noster. E la regola bollata può enunciare sobriamente: « I chierici dicano l’uffi cio di-vino secondo la forma della santa Chiesa Romana… i laici invece dicano ventiquattro padre nostro… ». Per i chierici, « che vivono rettamente secondo la forma del-la Chiesa romana » (qui vivunt recte secundum formam Ecclesiae Romanae – F , , p. ), si tratta di osservare un precetto ecclesiastico, per i laici di recitare la preghiera che Francesco preferiva su tutte le altre; ma in nessun caso l’uffi cio defi nisce l’identità francescana (ammesso che abbia senso parlare di identità per una vita che rifi uta ogni proprietà). Per questo il gesto di Francesco non conosce l’« antisacerdotalismo » così ca-ratteristico di molti movimenti spirituali che gli sono

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contemporanei ed egli può sempre rimettere senza po-lemica alla Chiesa quel che è della Chiesa, cioè l’am-ministrazione dell’o! cium che le compete. « Nessuno deve giudicare i sacerdoti anche se sono peccatori » re-cita un’ammonizione; e se anche, fedele in questo alla tradizione monastica, nella Lettera a tutto l’ordine Fran-cesco ricorda ai chierici che essi devono dire l’uffi cio con devozione, « così che la voce concordi con la mente » (ibid., p. ), tanto il testamento che l’ammonizione ribadiscono che solo ai sacerdoti compete il ministero del « santissimo corpo e sangue del signore nostro Gesù Cristo » (p. ).

La distinzione fra le due forme di vita, che si tocca-no nell’uffi cio, era, del resto, così netta che, nella prima « forma di vita o regola », scritta paucis verbis et simpli-citer, l’uffi cio non era nemmeno menzionato. La prima vita di Tommaso da Celano riferisce, nello stesso senso, che i frati che si riunivano intorno a Francesco a Rivo-torto « non conoscevano ancora l’uffi cio » e gli « chiesero per questo con insistenza che insegnasse loro a pregare ».

ē L’importanza della chiara distinzione fra le due forme di vita nel testamento di Francesco (« vivere secondo la forma della santa Chiesa romana » e « vivere secondo la forma del santo Vangelo ») è sfuggita agli studiosi e ai commentatori, mentre è soltanto a partire da questa distinzione che la stra-tegia di Francesco rispetto alla Chiesa diventa pienamente comprensibile.

Anche se Francesco aff erma più volte l’incondizionata soggezione dei frati minori ai chierici, questa è possibile e acquista il suo senso solo sulla base dell’eterogeneità radicale delle due forme di vita. Ed è signifi cativo che quando Fran-cesco compone per i fratelli un uffi cio della passione, egli sceglie di cominciarlo con il verso dei Salmi (, ) che suona:

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Deus vitam meam annuntiavi tibi (F , , p. ). L’uffi cio francescano è soltanto un’esposizione della propria vita davanti a Dio.

.. Una analoga disgiunzione si verifi ca, come ab-biamo visto, tra vita e diritto. Il francescanesimo, più radicalmente degli altri movimenti religiosi contempo-ranei e più di ogni altro ordine monastico, può essere defi nito come l’invenzione di una « forma-di-vita », cioè di una vita che resta inseparabile dalla sua forma, non perché si costituisce come o! cium e liturgia, né perché in essa la legge ha preso per oggetto la relazione fra una vita e la sua forma, ma proprio in virtù della sua ra-dicale estraneità al diritto e alla liturgia. Certo il mo-nachesimo è fi n dalle origini l’invenzione di un modo di vita, ma questo era essenzialmente una regula vitae, una intensifi cazione senza precedenti della preghiera e dell’o! cium, che, divenuto coestensivo alla vita, dove-va esercitare un infl usso decisivo sull’elaborazione della liturgia ecclesiastica; proprio per questo, tuttavia, esso doveva fatalmente urtarsi al problema di una crescente integrazione nell’ambito della Chiesa, che aveva fatto della liturgia e dell’uffi cio la sua prassi per eccellenza. I movimenti religiosi contemporanei del francescanesi-mo, d’altra parte, ponevano certo decisamente le loro rivendicazioni, anche pauperistiche, sul piano della vita; ma proprio in quanto non erano riusciti a identifi care nella forma di vita un elemento radicalmente eteroge-neo alle istituzioni e al diritto, essi dovevano fi nire col porsi come la vera Chiesa ed entrare in confl itto con la gerarchia ecclesiastica.

Se il francescanesimo riuscì a evitare per quasi un secolo dopo la morte del fondatore il confl itto decisivo con la Chiesa, ciò si deve alla preveggenza di France-sco, che, distinguendo forma vitae e o! cium, il « vivere

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secondo la forma del santo Vangelo » e il « vivere secon-do la forma della santa Chiesa romana », era riuscito a fare della vita minorile non una liturgia incessante, ma un elemento la cui novitas sembrava del tutto estranea al diritto, tanto civile che canonico. La vita secondo la forma del santo Vangelo si situa su un piano così diver-so rispetto alla vita secondo la forma della santa Chie-sa romana, che non può entrare in confl itto con essa. Altissima paupertas è il nome che la Regola bollata dà a questa estraneità al diritto (F , , p. ), ma il termine tecnico che nella letteratura francescana defi -nisce la prassi in cui essa si realizza è usus (simplex usus, usus facti, usus pauper).

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. Altissima povertà e uso

.. L’introduzione del concetto di usus per carat-terizzare la vita francescana si deve a Ugo di Digne e a Bonaventura. Il De fi nibus paupertatis di Ugo di Di-gne si presenta come un breve trattato almeno in appa-renza giuridico, che mira a defi nire la povertà rispetto alla proprietà. La defi nizione della povertà è puramente negativa: essa è spontanea propter Dominum abdicacio proprietatis, mentre la proprietà è defi nita tecnicamente come ius dominii, quo quis rei dominus dicitur esse, quo iure res ipsa dicitur esse sua, id est domini propria (U D , p. ). Seguono le defi nizioni dei due modi in cui la proprietà si acquisisce secondo il diritto ro-mano: l’occupazione (distinta secondo che si riferisca a beni di proprietà di qualcuno o alle cose que in nullis sunt bonis) e l’obbligazione (che può essere mutua o non mutua).

Il concetto di uso è introdotto poche pagine dopo, in risposta all’obiezione secondo cui, dal momento che la legge naturale prescrive a ogni uomo di conservare la propria natura, non si può rinunciare a quei beni senza i quali questa conservazione sarebbe impossibile. La legge naturale, risponde Ugo, prescrive agli uomini di avere l’uso delle cose necessarie alla loro conservazione, ma non li obbliga in alcun modo alla proprietà (Haec siqui-dem, ut earum habeatur usus, sine quibus non conservatur

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esse nature, sed ut proprietas habeatur, nullatenus compel-lit – ibid., pp. -). « Non è infatti la proprietà degli alimenti e dei vestiti a conservare la natura, ma l’uso; pertanto è possibile sempre e dovunque rinunciare alla proprietà, all’uso mai e in nessun luogo (proprietati ubi-que et semper renunciari potest, usui vero nunquam et nu-squam). L’uso delle cose è, dunque, non soltanto lecito, ma anche necessario » (ibid.).

L’uso, opposto in questo modo al diritto di pro-prietà, non viene, però, in alcun modo defi nito. Non stupisce, pertanto, che, come abbiamo visto, Ugo possa presentare la condizione francescana, sia pure forse iro-nicamente, ancora in termini giuridici, come il diritto di non avere alcun diritto.

Nell’Apologia pauperum, scritta nel in risposta all’attacco dei maestri secolari di Parigi contro gli ordi-ni mendicanti, Bonaventura distingue quattro possibili relazioni alle cose temporali: la proprietà, il possesso, l’usufrutto e il semplice uso (cum circa res temporales quatuor sit considerare, scilicet proprietatem, possessionem, usumfructum et simplicem usum – , ; B , p. ). Di questi, solo l’uso è assolutamente necessario alla vita degli uomini e, come tale, irrinunciabile (et pri-mis quidem tribus vita mortalium possit carere, ultimo vero tanquam necessario egeat: nulla prorsus potest esse professio omnino temporalium rerum abdicans usum). I frati mino-ri, che si sono votati a seguire Cristo in estrema povertà, hanno conseguentemente rinunciato a ogni diritto di proprietà, conservando, però, l’uso delle cose che altri concede loro. La trattazione dell’uso che segue è sempre svolta in puntuale rapporto al diritto. Bonaventura sa (era questa una delle obiezioni dei maestri secolari) che nelle cose consumabili la proprietà non può essere sepa-rata dall’uso, ma trova nella bolla Quo elongati di Gre-

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gorio il fondamento giuridico della loro separazione. Stabilendo che i frati minori « non hanno la proprietà né in comune né in privato, ma che l’ordine abbia l’uso (usum habeat) degli utensili, dei libri e delle cose che è lecito avere e i frati… ne facciano uso (his utantur) », il pontefi ce, la cui auctoritas è superiore a ogni altra, « ha separato la proprietà dall’uso (proprietatem separavit ab usu), mantenendo per sé e per la Chiesa la proprietà e concedendo l’uso per la necessità dei frati » (ibid., p. ). Ancor più che in Ugo di Digne, l’argomentazione è qui essenzialmente giuridica: come, nel diritto roma-no, il fi liusfamilias può ricevere dal padre un peculium, di cui ha l’uso e non la proprietà, così i frati minori sono parvuli et fi liifamilias del pontefi ce, cui spetta la pro-prietà delle cose di cui essi hanno l’uso (ibid.). E come non si può acquistare la proprietà di un bene se non si ha l’animus acquirendi o possidendi, allo stesso modo i frati minori, che per defi nizione mancano di tale ani-mus e hanno anzi la volontà contraria, « non possono acquistare la proprietà o il possesso né dirsi possessori o proprietari di qualcosa » (p. ).

La rivendicazione dell’uso contro il diritto di pro-prietà è condotta a tal punto, almeno in apparenza, sul piano del diritto, che gli studiosi hanno potuto chie-dersi se il simplex usus non sia per Bonaventura qualco-sa come un diritto reale (T, p. ) o se non sia qui il diritto stesso a produrre al suo interno un vuoto giuridico (C, p. ). Se è certo, tuttavia, che l’ar-gomentazione giuridica è qui volta ad aprire uno spazio al di fuori del diritto, altrettanto certo è che la disatti-vazione del diritto è operata non dal diritto stesso, ma attraverso una prassi – l’abdicatio iuris e l’uso – che il diritto non produce, ma riconosce come esterna a sé.

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.. La bolla Exiit qui seminat, emanata da Niccolò nel per porre fi ne alle dispute fra maestri secola-ri e ordini mendicanti, compie un passo ulteriore nella defi nizione dell’uso, ma sempre in relazione al diritto. Com’è stato notato (M, p. ), il pontefi ce, che sembra conoscere e accogliere a volte quasi alla lette-ra le tesi di Bonaventura, introduce, però, nell’elenco bonaventuriano delle quattro possibili relazioni alle res temporales, due importanti variazioni. Da una parte, accanto alla proprietà, al possesso e all’usufrutto viene introdotta una quarta fi gura giuridica, lo ius utendi; dall’altra, il simplex usus di Bonaventura si presenta ora come simplex facti usus. Il signifi cato di questa specifi -cazione è defi nito poco dopo: si tratta di un uso « che si dice soltanto di fatto e non di diritto, perché, essen-do solo di fatto, nell’usare non off re a coloro che usano nulla di giuridico » (usus non iuris sed facti tantumodo nomen habens, quod facti est tantum, in utendo praebet utentibus nihil iuris – Exit, p. ).

La precisazione è importante non tanto perché, in questo modo, l’opposizione concettuale non corre più fra dominium e usus, ma all’interno dell’uso stesso, fra ius utendi e simplex usus facti (L, p. ); de-cisiva è, piuttosto, l’opposizione fra fatto e diritto, quid iuris e quid facti, che, come tale, era ben nota ai giuri-sti e non soltanto in via generale, ma proprio rispetto all’uso. La Summa istitutionum di Azzone distingue in questo senso, proprio rispetto alle cose consumabili, un uso che è diritto (ius) o servitù (servitus) da un « uso che è fatto o consiste nel fatto, come bere e mangiare (qui est factum vel in facto consistit, ut bibendo et comeden-do) » (M, p. ). È interessante notare che qui la distinzione quid iuris / quid facti non serve, come nella tradizione giuridica, a identifi care la situazione di fatto

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corrispondente a una certa fattispecie giuridica: piut-tosto, come avverrà più tardi nelle argomentazioni dei francescani contro Giovanni , il bere e il mangiare si presentano come paradigmi di una prassi umana pu-ramente fattuale e priva di ogni implicazione giuridica.

Il dispositivo su cui si fonda la bolla è, come già in Bonaventura, la separazione della proprietà dall’uso. È, pertanto, con perfetta consequenzialità, che Niccolò può dichiarare che la proprietà di tutti i beni di cui i francescani hanno l’uso spetta al papa e alla Chiesa (pro-prietatem et dominum… in Nos et Romanam Ecclesiam apostolica auctoritate recepimus – ibid., p. ).

.. La disputa fra conventuali e spirituali, che si accende dopo la proclamazione della Exiit qui seminat, pur non portando a una nuova defi nizione dell’uso, ne fi ssa alcuni caratteri e formula delle esigenze che è utile registrare. Nella prospettiva che qui ci interessa, la posta in gioco nella disputa si lascia cogliere agevolmente nelle obiezioni di Ubertino da Casale alla Declaratio commu-nitatis in cui i conventuali avevano esposto le loro tesi. Secondo la Declaratio, l’usus facti in cui si manifesta la povertà francescana si identifi ca senza residui con la ri-nuncia alla proprietà e non, come volevano gli spirituali, con un carattere intrinseco dell’uso stesso, l’usus pauper: « La perfezione della regola consiste nella rinuncia alla proprietà e non nella scarsità dell’uso » (abdicacio autem dominii et non usus parcitas est illa in qua consistit perfec-tio regulae – U, p. ). Per ovviare al carattere puramente negativo di questa defi nizione, la dichiara-zione precisa che, come ogni preceptum negativum, essa prescrive in verità due atti positivi: « volere non avere nulla di proprio quanto all’atto interiore, e usare della cosa come non propria quanto all’atto esteriore » (velle

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non habere proprium quantum ad actum interiorem et uti re ut non sua quantum ad actum exteriorem – ibid., pp. -). Ancora una volta, l’aspetto esteriore dell’ab-dicatio proprietatis è defi nito con un semplice rovescia-mento della formula che, nel diritto romano, defi niva l’animus possidendi: usare la cosa come propria (uti re ut sua). E proprio in quanto il frate minore usa sempre del-la cosa come non sua, continua la declaratio, « uno stesso atto può essere tanto uso povero che ricco (potest esse aliquando idem actus vel usus pauperis et divitis), com’è evidente nel caso in cui il povero mangi in casa del ricco lo stesso cibo di questi » (p. ).

È questa defi nizione puramente negativa e indeter-minata che Ubertino intende confutare.

L’atto e il suo oggetto – egli argomenta – sono correla-tivi e la ragione dell’uno è inclusa in quella dell’altro… poiché dunque i precetti negativi implicano che vi sia un atto positivo non solo interiore, ma anche esterno… quando si dice che l’atto esteriore della povertà è usare la cosa come non propria, io obietto: l’espressione « come non propria » non designa l’atto né la ragione formale di un atto esteriore, ma si identifi ca con la stessa rinuncia alla proprietà o a una sua parte; è necessario, pertanto, che, come colui che pronuncia il voto di obbedienza, voti anche un atto estrinseco determinato secondo il luogo e il tempo, anche se, obbedendo, usa la volontà propria come non sua, così colui che si vota alla povertà vota anche l’uso povero (usum pauperem), anche se in ogni caso usi le cose come non sue (p. ).

L’esigenza degli spirituali è qui che l’uso non sia defi nito soltanto negativamente rispetto al diritto (uti re ut non sua), ma abbia una ragione formale propria e

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si risolva in un’operazione oggettivamente determina-ta. Per questo, mobilitando la concettualità fi losofi ca, Ubertino defi nisce la relazione fra l’uso povero e la ri-nuncia alla povertà nei termini della relazione fra forma e materia (abdicatio enim proprietatis omnium se habet ad pauperem seu moderatum usum, sicut perfectibile ad suam perfectionem et quasi sicut materia ad suam formam – p. ) o, invocando l’autorità di Aristotele, come una relazione di operazione e abito (sicut operatio ad habi-tum comparatur – p. ). Olivi aveva già percorso que-sta strada, scrivendo che « l’uso povero sta alla rinuncia a ogni diritto come la forma sta alla materia (sicut forma se habet ad materiam, sic usus pauper se habet ad abdica-tionem omnis iuris) » e che, pertanto, senza l’usus pauper, la rinuncia al diritto di proprietà resta « vuota e vana » (unde sicut materia sine forma est informis et confusa, in-stabilis, fl uxibilis et vacua seu vana et infructuosa, sic ab-dicatio omnis iuris sine paupere usu se habet – E, p. ).

In verità, più che nelle argomentazioni pauperi-stiche degli spirituali, è in quelle, apparentemente più indeterminate, dei conventuali che è possibile cogliere gli elementi di una defi nizione dell’uso rispetto alla pro-prietà, che non insista soltanto sui loro aspetti giuridi-ci, ma anche e soprattutto su quelli soggettivi. In uno dei trattati pubblicati da Delorme, l’uti re ut sua come carattere defi nitorio della proprietà viene radicalizzato in termini psicologici, fi no a rendere incompatibili, nel caso esemplare dell’avaro e dell’amator divitiarum, pro-prietà e uso:

Duplice è il fi ne delle ricchezze: uno intrinseco e prin-cipale, che è di usare le cose come proprie, e un altro estrinseco e meno principale, attraverso il quale ciascu-

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no usa le cose o per il proprio piacere, come fa l’intem-perante, o per il benessere e il perfetto sostentamento della natura, come fa il temperante, o per il sostenta-mento necessario della vita, come fa il povero evange-lico, come conviene alla sua condizione. Che l’usare qualcosa per il proprio piacere (ad delectationem) non costituisca, in sé, il fi ne di colui che ama la ricchezza è evidente nel caso dell’avaro, che ama sommamente le ricchezze, tuttavia non le usa per il proprio piacere, anzi quasi non osa mangiare, e quanto più cresce in lui l’amore delle ricchezze, tanto più diminuisce l’uso che ne fa, poiché egli non le vuole usare, ma conservarle e ammassarle come proprie (quia eis non vult uti, sed conservare ut proprias et congregare)… Usare le cose per il piacere non è dunque il fi ne a cui la proprietà è di per sé ordinata e, conseguentemente, chi rinuncia alla proprietà non rinuncia necessariamente anche a questo secondo uso (D, p. ).

Anche se l’argomentazione è qui diretta contro la tesi di Ubertino secondo cui « si cerca la ricchezza in vista dell’uso e chi rifi uta la prima deve pertanto rifi u-tare anche l’uso nella misura in cui è superfl uo », l’uso (in particolare per quanto riguarda il piacere che se ne trae) viene qui restituito a una concretezza che manca di solito nei trattati francescani sulla povertà.

.. Il momento critico nella storia del francesca-nesimo è quello in cui Giovanni con la bolla Ad conditorem canonum revoca in questione la possibilità di separare proprietà e uso e, in questo modo, cancella lo stesso presupposto su cui si fondava la paupertas mi-norile.

L’argomentazione del papa, che aveva una indubbia

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competenza in utroque iure, riposa infatti sull’identifi ca-zione di un ambito (le cose consumabili, come il cibo, le bevande, le vesti e simili, essenziali alla vita dei frati minori) in cui la separazione della proprietà dall’uso è impossibile. Già secondo il diritto romano, l’usufrut-to si riferiva solo a quei beni che potessero essere usati senza distruggerne la sostanza (salva rerum substantia); le cose consumabili, pertanto, rispetto alle quali non si parlava di usufrutto ma di quasi-usufrutto, diventava-no proprietà di colui al quale venivano lasciate in uso. Anche Tommaso, di cui Giovanni preparava la ca-nonizzazione, aveva aff ermato che nelle cose « il cui uso coincide con il loro consumo… l’uso non può essere separato dalla cosa stessa, ma se si concede a qualcuno l’uso, si cede anche la cosa (cuicumque conceditur usus, ex hoc ipso conceditur res) » (S. th., a, ae, qu. , art. ).

Fondandosi su questa tradizione, la bolla Ad con-ditorem canonum sancisce che nelle cose consumabili è impossibile costituire o avere uno ius utendi o un usus facti, se si pretende di separarli dalla proprietà della cosa (nec ius utendi nec usus facti separata a rei proprietate seu dominio possunt constitui vel haberi – M, p. ). La diff erenza fra ius utendi e usus facti, su cui si regge-vano le tesi di Bonaventura e di Niccolò , viene così neutralizzata. E, a escludere la stessa possibilità di riven-dicare un uso di fatto o un actus utendi sine iure aliquo, la bolla nega che un tale uso, in quanto coincide con la distruzione della cosa (abusus), possa essere posseduto (haberi) o persino esistere come tale in rerum natura.

Qui l’argomentazione della bolla mostra tutta la sua sottigliezza, non soltanto giuridica ma anche fi lo-sofi ca. Il problema, schiettamente ontologico, è se un uso che consiste soltanto in un abuso (cioè in una di-struzione) possa esistere ed essere posseduto altrimenti

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che come diritto di proprietà (il diritto comune defi ni-va appunto la proprietà come ius utendi et abutendi). Nell’uso, argomenta il pontefi ce, si devono distinguere tre elementi, una servitù personale, dovuta all’usuario, uno ius personale e l’actus utendi, che non è servitù né diritto, ma solo una certa prassi e uso (tantum actus quidam et usus). « Se fosse possibile avere un tale uso » continua il pontefi ce « esso dovrebbe essere avuto o pri-ma dell’atto, o nell’atto stesso, o dopo aver completato l’atto in questione. Che ciò non sia possibile risulta dal fatto che quel che non esiste non si può in alcun modo avere. Ora è chiaro che l’atto stesso, prima di essere eser-citato, o mentre è esercitato o dopo essere stato compiu-to, non esiste in natura e pertanto non può essere avuto (actus ipse, antequam exercetur, aut etiam dum exercetur, aut postquam perfectus est, in rerum natura non est: ex quo sequitur, quod haberi minime potest) » (ibid., p. ). Un atto in divenire (in fi eri), infatti, in quanto una sua parte è già passata e un’altra ancora da venire, non esi-ste propriamente in natura, ma solo nella memoria o nell’aspettativa (non est in rerum natura, sed in memoria vel apprehensione tantum): è un essere istantaneo, che come tale può essere pensato, ma non posseduto (quod autem fi t instantaneum est, quod magis intellectu quam sensu perpendi potest – ibid.).

ē Opponendo radicalmente uso e consumo, Giovanni , con una inconsapevole profezia, fornisce il paradigma di una impossibilità di usare che doveva trovare la sua rea-lizzazione compiuta molti secoli dopo nella società dei con-sumi. Un uso che non è mai possibile avere e un abuso che implica sempre un diritto di proprietà ed è pertanto sempre proprio defi niscono, infatti, il canone stesso del consumo di massa. In questo modo, tuttavia, forse senza rendersene

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conto, il pontefi ce mette a nudo anche la vera natura della proprietà, che si aff erma con la massima intensità proprio nel punto in cui coincide con il consumo della cosa.

.. Le risposte dei teorici francescani riuniti intor-no al ministro generale Michele da Cesena alla decretale di Giovanni insistono ostinatamente sulla possibili-tà e sulla legittimità della separazione dell’usus facti dalla proprietà. È nel tentativo di provare questa separabili-tà che essi giungono, tuttavia, ad aff ermare una vera e propria primordialità ed eterogeneità dell’uso rispetto al dominio. Già la declaratio dei francescani, che aveva provocato la decretale pontifi cia, sosteneva che, nella vita degli apostoli, comune non era la proprietà, ma sol-tanto l’uso (« l’aria e la luce del sole sono comuni a tutti nel senso che sono comuni solo secondo l’uso comu-ne » – solum secundum usum communem, M, p. ). Bonagrazia, nel suo Tractatus de paupertate, svolge questa tesi aff ermando che, nello stato paradisiaco, il comandamento divino di mangiare degli alberi del giar-dino (tranne uno) implicava non solo che il loro uso fosse irrinunciabile, ma che, secondo il diritto naturale e divino, comune in origine fosse non la proprietà, ma l’uso (de iure nature et divino communis usus omnium re-rum que sunt in hoc mundo omnibus hominibus esse debu-it… ergo usus rerum que per usu consumuntur non habet necessarium annexum meum et tuum – B, p. ). L’uso comune delle cose precede anche genealogi-camente la proprietà comune o divisa delle stesse, che deriva solo dal diritto umano.

Particolarmente interessanti da un punto di vista fi losofi co sono le obiezioni di Francesco di Ascoli all’ar-gomento di Giovanni , secondo cui l’uso di fatto dei beni consumabili non esiste in natura e non può quindi

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competere ad alcuno. Per giustifi care anche in questo caso la possibilità dell’uso, Francesco elabora una vera e propria ontologia dell’uso, in cui essere e divenire, esi-stenza e tempo sembrano coincidere.

L’uso dei beni consumabili (che, con un termine signifi cativo, egli chiama anche usus corporeus) appartie-ne al genere delle cose « successive », che non si possono avere in modo simultaneo e permanente (simul et per-manenter). Come i beni consumabili esistono in diveni-re (in fi eri) così in divenire e successivo è anche il loro uso (F A, p. ).

In ciò il cui essere coincide col divenire (cuius esse est eius fi eri) – egli argomenta con una straordinaria sottigliez-za fi losofi ca – l’essere signifi ca il divenire; ma l’essere di una cosa successiva è il suo divenire e, per converso, il suo divenire è il suo essere (suum fi eri est suum esse): pertanto, l’essere dell’uso attuale signifi ca il suo divenire e, per converso, il suo divenire signifi ca il suo essere. È dunque falso che l’uso attuale di fatto (usus actualis facti) non esista mai in natura, altrimenti per la stessa ragione si dovrebbe dire che mai in natura avviene (fi e-ret) un uso di fatto, dal momento che il suo essere è il suo divenire, e ciò che è il suo divenire, se non è mai in natura, nemmeno avviene in natura (si numquam est in rerum natura, numquam fi t in rerum natura), il che è assurdo ed erroneo » (ibid., p. ).

L’uso appare qui come un essere fatto di tempo, la cui pensabilità e la cui esistenza coincidono con quelle del tempo:

Se l’uso, poiché non è, nemmeno si può mai avere, per la stessa ragione allora nemmeno il tempo, che non è

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più di quanto sia l’uso di fatto, si può avere. Ma allora sarebbe falso ciò che si legge nell’Ecclesiaste (, ): « Tutte le cose hanno tempo » (ibid.).

Diversamente che in Bonagrazia, l’eterogeneità e la priorità dell’uso rispetto al diritto è defi nita da Ockham nei termini della diff erenza essenziale fra il semplice atto di usare (actus utendi) e il diritto di usare (ius utendi). All’inizio dell’Opus nonaginta dierum, dopo aver di-stinto quattro signifi cati del temine usus (uso opposto a fruitio, uso nel senso di consuetudine, uso come atto di usare di una cosa esterna – actus utendi re aliqua exte-riore – e uso in senso giuridico, cioè diritto di usare delle cose altrui, salva la loro sostanza), egli identifi ca riso-lutamente l’usus facti francescano col semplice atto di usare di qualcosa: « Essi (i francescani) defi niscono l’uso di fatto come l’atto di usare di una cosa esterna, come abitare, mangiare, bere, cavalcare, indossare una veste e simili (actus utendi re aliqua exteriori, sicut inhabitare, comedere, bibere, equitare, vestem induere et huiusmodi) » (O, p. ). Nello stesso senso, Riccardo di Co-nyngton distingue dal diritto l’applicatio actus utendi ad rem, che in sé è « una cosa puramente naturale » e, come tale, non è né giusta né ingiusta: « infatti il cavallo appli-ca l’actus utendi alla cosa, e tuttavia il suo atto non è né giusto né ingiusto » (R C, p. ).

La diff erenza fra l’usus facti e l’usus iuris coincide in Ockham con quella fra il puro esercizio fattuale di una prassi vitale e il diritto di usare, che è, invece, sempre « un certo diritto positivo determinato, istituito da un ordine umano, attraverso il quale qualcuno ha la leci-ta potestà e autorità di usare di una cosa altrui, salva la sua sostanza » (quoddam ius positivum determinatum, institutum ex ordinatione humana, quo quis habet licitam

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potestatem et auctoritatem uti rebus alienis, salva rerum substantia – O, p. ). Vi è, in questo senso, eterogeneità radicale fra diritto e atto: « In qualsiasi si-gnifi cato si prenda l’espressione usus iuris, essa designa sempre un diritto e mai l’atto di usare. Così chi ha lo-cato una casa per abitarvi, ha l’usus iuris di essa anche se attualmente non vi abita; si aggiunge iuris per diff eren-ziarlo dall’usus facti, che è l’atto esercitato rispetto alla cosa esterna » (ibid., p. ).

ē È a partire da questa netta separazione della proprietà dall’uso che studiosi come Michel Villey (La formation de la pensée juridique moderne, Paris, , ) e Paolo Gros-si (« Usus facti ». La nozione di proprietà nella inaugurazione dell’età nuova, in « Quaderni fi orentini per la storia del pen-siero giuridico moderno », , ) hanno potuto individuare proprio nei maestri francescani i fondamenti di una teoria moderna del diritto soggettivo e di una teoria pura della pro-prietà intesa come actus voluntatis. Occorre, però, non di-menticare che la defi nizione del diritto di proprietà come po-testas in Ockham e quella della proprietà come uti re ut sua e volontà di dominio tanto nei trattati pubblicati da Delorme che in Riccardo di Conyngton e in Bonagrazia sono state for-mulate solo per fondare la separabilità e l’autonomia dell’uso e per legittimare la povertà e la rinuncia a ogni diritto. La teoria del diritto soggettivo e del dominium è stata elaborata dai francescani per negare o, piuttosto, per limitare il potere del diritto positivo, e non, come sembrano pensare Villey e Grossi, per fondarne l’assolutezza e la sovranità; e, tuttavia, proprio per questo, è altrettanto certo che essi hanno dovuto defi nirne i caratteri propri e l’autonomia.

.. Forse da nessuna parte l’ambiguità del gesto francescano rispetto al diritto appare con maggiore evi-

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denza che nella questione di Olivi Quid ponat ius vel dominium. Poiché si tratta, per Olivi, di rispondere alla domanda se la proprietà o la giurisdizione regale o sa-cerdotale aggiungano qualcosa di reale (aliquid realiter addant) alla persona che le esercita o alle cose e alle per-sone su cui si esercita, e, inoltre, se la signifi cazione in atto aggiunga qualcosa di reale alla sostanza dei segni e delle cose signifi cate, si può dire che la quaestio con-tenga nulla di meno che una ontologia del diritto e dei segni (compresi quei particolari segni effi caci che sono i sacramenti).

Il collegamento della sfera del diritto a quella dei segni non è casuale, perché mostra che in questione è il modo di esistenza e l’effi cacia propria di quegli enti (il diritto, il comando, i segni) su cui si fondano i po-teri che regolano e reggono la società umana (comprese quelle speciali società che sono gli ordini monastici). La trattazione del problema si svolge opponendo sette ar-gomenti positivi (che provano che diritti e segni aliquid realiter addant) e altrettanti argomenti negativi (che ar-gomentano che essi nichil realiter addant).

Grossi ha letto questo testo come la prima opera nella storia del diritto in cui « l’essere proprietari, la pro-prietarietas, era oggetto di una costruzione teorica che la erigeva a vero e proprio tipo sociologico distinto, un tipo costruito su saldi presupposti teologici » (G, p. ). Se è vero che Olivi propone nella quaestio, come abbiamo visto, una ontologia del diritto e dei segni, si rischia, tuttavia, di lasciarsi sfuggire l’essenziale, se non si precisano le modalità in cui questa ontologia viene articolata. Si consideri la conclusione di Olivi rispetto alle argomentazioni contrapposte:

Rispetto alla comprensione di questi argomenti e senza

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pregiudizio di un’opinione migliore, sembra che si possa aff ermare secondo probabilità che le suddette abitudini (la proprietà, la giurisdizione regale ecc.) pongono ve-ramente qualcosa di reale, ma non aggiungono tuttavia una qualche diversa essenza che informi realmente i sog-getti, di cui e in cui si dicono (vere ponunt aliquid reale, non tamen addunt aliquam diversam essentiam realiter informantem illa subiecta, quorum et in quibus dicuntur – O , p. ).

Nei termini della fi losofi a medievale, ciò signifi ca che le realtà in questione non si situano sul piano della essenza e del quid est, ma soltanto in quello dell’esistenza o del quod est; esse sono, cioè, come scriverà Heidegger molti secoli dopo, dei puri esistenziali e non degli essen-ziali.

L’importanza della quaestio dal punto di vista della storia della fi losofi a è, allora, che in essa vediamo arti-colarsi, secondo un’intenzione che caratterizza indub-biamente il pensiero francescano, un’ontologia per così dire esistenzialista e non essenzialista. Ciò signifi ca che, nel momento stesso in cui si riconosce al diritto e ai segni un’effi cacia reale (ponunt aliquid reale), essi sono destituiti dal piano delle essenze e fatti valere come pure eff ettualità che dipendono unicamente da un comando della volontà umana o divina.

Ciò è particolarmente evidente nel caso dei segni.

Per quanto tu possa considerarli con sottigliezza e per-spicacia – scrive Olivi – troverai che la signifi cazione non aggiunge all’essenza reale della cosa che si usa co-me segno null’altro che l’intenzione mentale di coloro che l’hanno istituita e ne accettano la validità e di colui che in atto la assume per signifi care e di colui che la

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ode o la riceve come segno. Ma nella voce o nel gesto che vengono prodotti dal comando di quell’intenzione (ab imperio talis intentionis), la signifi cazione aggiunge all’intenzione del signifi cante e all’essenza della cosa che funge da segno l’abito dell’eff etto comandato (habitudi-nem e( ectus imperati) e il comando prodotto dall’inten-zione di colui che signifi ca (ibid., p. ).

Il fatto che, nel caso di quei segni speciali che sono i sacramenti e in quello dell’autorità regia, il fondamento della loro effi cacia sia da cercare in ultima analisi nella volontà divina non toglie nulla al fatto che anche qui abbiamo a che fare con un puro comando assolutamen-te inessenziale. La sfera della prassi umana, coi suoi di-ritti e i suoi segni, è reale ed effi cace, ma essa non pro-duce nulla di essenziale né genera alcuna nuova essenza al di là dei suoi stessi eff etti. L’ontologia che qui è in questione è, cioè, puramente operativa ed eff ettuale. Il confl itto col diritto – o, piuttosto, il tentativo di disat-tivarlo e renderlo inoperoso attraverso l’uso – si situa sullo stesso piano puramente esistenziale in cui agisce l’operatività del diritto e della liturgia. La forma di vita è quel puramente esistenziale che deve essere liberato dalle segnature del diritto e dell’uffi cio.

.. Proviamo a tirare sia pure provvisoriamente le somme della nostra analisi della povertà come uso nei teorici francescani. Occorre innanzitutto non dimenti-care che questa dottrina era stata elaborata all’interno di una strategia difensiva contro gli attacchi prima dei maestri secolari parigini e poi della curia avignonese, che mettevano in questione il rifi uto francescano di ogni forma di proprietà. Il concetto di usus facti e l’idea di una separabilità dell’uso dalla proprietà hanno rap-

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presentato indubbiamente, in questa prospettiva, uno strumento effi cace, che ha permesso di dare consistenza e legittimità al generico vivere sine proprio della regola francescana, assicurando anche, almeno in un primo tempo, con la bolla Exiit qui seminat, una vittoria forse inaspettata contro i maestri secolari. Tuttavia, come suo-le spesso avvenire, questa dottrina, proprio in quanto si proponeva essenzialmente di defi nire la povertà rispetto al diritto, si è rivelata un’arma a doppio taglio, che ha aperto la strada all’attacco decisivo portato da Giovanni proprio in nome del diritto. Una volta defi nito lo statuto della povertà con argomenti puramente negativi rispetto al diritto e secondo modalità che presuppone-vano la collaborazione della curia, che si era riservata la proprietà sui beni di cui i francescani avevano l’uso, era chiaro che la dottrina dell’usus facti rappresentava per i frati minori uno scudo assai fragile contro l’artiglieria pesante dei giuristi curiali. È possibile, anzi, che, rece-pendo nella Exiit qui seminat la dottrina di Bonaventu-ra sulla separabilità dell’uso dalla proprietà, Niccolò fosse cosciente dell’utilità di defi nire in qualche modo in termini giuridici, sia pure negativi, una forma di vita che si presentava altrimenti inassimilabile per l’ordina-mento ecclesiastico.

Si può dire che, da questo punto di vista, Francesco fosse stato più preveggente dei suoi successori, rifi utan-do di articolare in una concettualità giuridica e lascian-do aff atto indeterminato il suo vivere sine proprio; ma è anche vero che la novitas vitae che poteva essere tollerata in un piccolo gruppo di monaci girovaghi (poiché tali erano all’inizio i francescani), poteva diffi cilmente essere accettata per un potente e numeroso ordine religioso.

Si può dire che le argomentazioni dei teorici fran-cescani siano frutto, insieme, di una sopravvalutazione

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e di una sottovalutazione del diritto. Da una parte, ne usano la concettualità e non ne mettono mai in questio-ne validità e fondamenti; dall’altra, pensano di poter as-sicurare con argomenti giuridici la possibilità, abdican-do al diritto, di condurre un’esistenza fuori dal diritto.

Sia la dottrina dell’usus facti: essa si fonda, secon-do ogni evidenza, sulla possibilità di distinguere uso di fatto e diritto e, più in generale, quid iuris e quid facti. La forza dell’argomento sta nel mettere a nudo la natura della proprietà, che si rivela così non avere altra realtà che psicologica (uti re ut sua, intenzione di possedere la cosa come propria) e procedurale (potere di rivendi-care in giudizio); tuttavia, invece di insistere su questi aspetti, che avrebbero messo in questione la stessa con-sistenza del diritto di proprietà (che, in Olivi, perde, come abbiamo visto, ogni essenzialità, per presentarsi come una mera, anche se effi cace, segnatura), i france-scani preferiscono arroccarsi sulla dottrina della liceità giuridica della separazione dell’uso di fatto dal diritto.

Ciò signifi ca, però, misconoscere la struttura stessa del diritto, che si articola costitutivamente sulla possibi-lità di distinguere factum e ius, istituendo fra di essi una soglia di indiff erenza, attraverso la quale il fatto viene incluso nel diritto. Così, rispetto alla proprietà, il di-ritto romano conosceva delle fi gure, come la detentio o possessio, che sono unicamente degli stati di fatto (l’avere una cosa fattiziamente in proprio possesso, indipenden-temente da un titolo giuridico, come avveniva appunto nell’uso di fatto dei francescani), ma che, come tali, po-tevano avere delle conseguenze giuridiche. Dedicando a questo tema un’opera ormai classica, Savigny scriveva così che « il possesso in sé, secondo il suo concetto origi-nale, è un mero fatto (ein blosses Factum ist); è altrettanto certo, però, che ad esso sono collegate delle conseguenze

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giuridiche. Esso è pertanto fatto e diritto insieme (Fac-tum und Recht zugleich), un fatto secondo la sua essenza, ma uguale a un diritto per le sue conseguenze » (S-, p. ). Coerentemente, Savigny poteva defi nire il possesso come « lo stato fattizio (factische Zustand) che corrisponde alla proprietà come stato giuridico (recht-lichen Zustand) » (ibid., p. ). Il factum del possesso fa sistema, in questo senso, col diritto di proprietà.

Allo stesso modo, in diritto romano sono dette res nullius le cose che non sono proprietà di nessuno, come le conchiglie abbandonate sul bagnasciuga dal mare o gli animali selvatici. Ma poiché il primo che le raccoglie o cattura ne diventa ipso facto proprietario, è evidente (ed è per questo che i francescani hanno sempre evita-to di prenderle a esempio del loro usus facti) che esse, che sono in apparenza fuori dal diritto, non sono che il presupposto dell’atto di appropriazione che ne sanci-sce la proprietà. Il carattere fattuale dell’uso non è in sé suffi ciente a garantire un’esteriorità rispetto al diritto, perché ogni fatto può trasformarsi in diritto, così come ogni diritto può implicare un aspetto fattuale.

Per questo i francescani devono insistere sul carat-tere « espropriativo » (paupertas altissima… est expropria-tiva, ita quod nichil nec in communi nec in speciali possint sibi appropriare, nec aliquis frater nec totus ordo – E, p. ) della povertà e sul rifi uto di ogni animus possiden-di da parte dei frati minori, che si servono delle cose ut non suae; ma, in questo modo, essi si avvolgono sempre più in una concettualità giuridica da cui, alla fi ne, saran-no sopraff atti e sconfi tti.

.. Manca, nella letteratura francescana, una defi -nizione dell’uso in se stesso e non soltanto in contrap-posizione al diritto. La preoccupazione di costruire una

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giustifi cazione dell’uso in termini giuridici ha impedito di raccogliere gli spunti di una teoria dell’uso presenti nelle lettere paoline, in particolare in $ Cor., , -, in cui l’usare il mondo come non usandolo o non abusan-done (et qui utuntur hoc mundo, tamquam non utantur; l’originale greco h#s m" katachr#menoi signifi ca « come non abusanti ») defi niva la forma di vita del cristiano e avrebbe potuto fornire un utile argomento contro le tesi di Giovanni sull’uso delle cose consumabili come abusus. Nello stesso senso, la concezione della povertà come « espropriativa » da parte degli spirituali avrebbe potuto essere generalizzata al di là del diritto a tutta l’e-sistenza dei frati minori, collegandola a un passo impor-tante delle Admonitiones, in cui Francesco identifi cava il peccato originale con l’appropriazione della volontà (ille enim comedit de ligno scientiae boni, qui sibi suam voluntatem appropriat… – F , , p. ). Pro-prio quando, nell’elaborazione della teologia scolastica, la volontà era diventata il dispositivo che permetteva la defi nizione della libertà e della responsabilità dell’uomo come dominus sui actus, nelle parole di Francesco la for-ma vivendi dei frati minori è, invece, quella vita che si mantiene in relazione non solo alle cose, ma anche a se stessa sul modo dell’inappropriabilità e del rifi uto della stessa idea di una volontà propria (il che smentisce ra-dicalmente le tesi di quegli storici del diritto che, come abbiamo visto, scorgono nel francescanesimo la fonda-zione del diritto soggettivo).

La concentrazione esclusiva sugli attacchi prima dei maestri secolari e poi della curia, imprigionando l’uso all’interno di una strategia difensiva, ha impedito ai teo-rici francescani di metterlo in relazione con la forma di vita dei frati minori in tutti i suoi aspetti. Eppure la con-cezione dell’usus facti come essere successivo e sempre in

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fi eri in Francesco di Ascoli e il suo conseguente collega-mento col tempo avrebbe potuto fornire lo spunto per uno svolgimento del concetto di uso nel senso dell’ha-bitus e dell’habitudo. Cioè esattamente il contrario di quello che faranno Ockham e Riccardo di Conyngton, che, defi nendo l’usus facti, ancora una volta per opporlo al diritto, come actus utendi, rompono con la tradizione monastica che privilegiava la costituzione degli habitus e, con un evidente riferimento alla dottrina aristotelica dell’uso come energeia, sembrano concepire la vita dei frati minori come una serie di atti che non si costituisce mai in abito e consuetudine, cioè in forma di vita.

È l’aver tenuto ferma questa concezione dell’uso come atto ed energeia, che ha fi nito col bloccare la dot-trina francescana dell’uso nel confl itto tutto sommato sterile fra conventuali, che ne sottolineano la natura di actus intrinsecus e spirituali, che esigono che esso si tra-duca in un actus extrinsecus. Invece di confi nare l’uso sul piano di una pura prassi, come una serie fattizia di atti di rinuncia al diritto, sarebbe stato più fecondo provarsi a pensare la sua relazione con la forma di vita dei frati minori, chiedendosi in che modo quegli atti potevano costituirsi in un vivere secundum formam e in un abito.

L’uso, in questa prospettiva, avrebbe potuto con-fi gurarsi come un tertium rispetto al diritto e alla vita, alla potenza e all’atto e defi nire – non soltanto nega-tivamente – la stessa prassi vitale dei monaci, la loro forma-di-vita. ē A partire dal secolo, vediamo nascere nei conventi agostiniani, benedettini e cistercensi, accanto alla regola, dei testi detti consuetudines e, a volte, usus (usus conversorum) che raggiungeranno il loro massimo sviluppo più tardi nella de-votio moderna. L’interpretazione di questi testi – che di fatto descrivono semplicemente il contegno abituale del monaco,

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spesso in prima persona (Suscitatus statim volo surgere et in-cipere cogitare de materia preparando me studendo et habere sensus meos apud me in unum collectos… facto prandio et hym-no dicto sub silentio, calefacio me si frigus est – Consuetudi-nes, pp. -) come complementi o integrazioni delle regole è fuorviante: si tratta in realtà di una restituzione delle regole alla loro natura originaria di trascrizione della conversatio o modo di vita dei monaci. La regola che, nata dall’abito e dalla consuetudine, si era andata progressivamente costituendo in uffi cio e liturgia torna ora a presentarsi nella veste dimes-sa dell’uso e della vita. Le Consuetudines vanno, cioè, lette nel contesto del processo che, a partire dal secolo, sposta il baricentro della spiritualità dal piano della regola e della dottrina a quello della vita e della forma vivendi. Ma è signi-fi cativo che la forma di vita si attesti in questi scritti soltanto nella forma della consuetudo, quasi che le azioni del monaco acquistassero il loro senso proprio solo costituendosi come uso.

.. In questa prospettiva, l’aff ermazione di Olivi secondo cui l’usus pauper sta all’abdicatio iuris come la forma alla materia (supra, .) acquista un nuovo e de-cisivo signifi cato. L’abdicatio iuris e la vita al di fuori del diritto sono qui soltanto la materia che, determinan-dosi attraverso l’usus pauper, deve farsi forma di vita: Sicut autem forma ad sui existentiam preexigit materiam tanquam sue existentie fundamentum, sic professio paupe-ris usus preexigit abdicationem omnis iuris tanquam sue grandissime existentie et ambitus capacissimam materiam (E, p. ). Usus non signifi ca più qui la pura e semplice rinuncia al diritto, ma ciò che costituisce que-sta rinuncia in una forma e in un modo di vita.

Ed è proprio in un testo di Olivi che questa rile-vanza decisiva del piano della forma di vita giunge a una

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piena consapevolezza teorica e, quindi, anche e per la prima volta a un’esplicita giustifi cazione in termini esca-tologici. Nell’ottava questione De perfectione evangelica, Olivi accetta le tesi gioachimite sulle sei età del mondo, ripartite secondo tre status: il Padre (il Vecchio Testa-mento), il Figlio (il Nuovo Testamento), lo Spirito (fi ne e compimento della legge), a cui egli aggiunge l’eternità come settimo tempo. Ciò che defi nisce, però, secondo Olivi, l’eccellenza del sesto e settimo tempo è l’appari-zione non semplicemente della « persona » di Cristo, ma della sua « vita »:

Il sesto e settimo tempo non potrebbero costituire la fi ne dei tempi precedenti, se in essi la vita di Cristo non apparisse in modo particolare e unico (nisi in eis vita Christi singulariter appareret) e se, attraverso lo spirito di Cristo, non fosse allora data al mondo la pace parti-colare dell’amore di Cristo e della sua contemplazione. Come, infatti, la persona di Cristo è la fi ne del Vecchio Testamento e di tutte le persone, così la vita di Cristo è la fi ne del Nuovo Testamento e, per così dire, di tutte le vite (sic vita Christi fi nis est Novi Testamenti et, ut ita dicam, omnium vitarum – O , p. ).

Si rifl etta alla teologia della storia che è implicita in queste tesi. L’avvento dell’età dello Spirito coincide, cioè, non con l’avvento della persona di Cristo (che defi -niva il secondo stato), ma con quello della sua vita, che costituisce la fi ne e il compimento non solo della nuova legge, ma anche di tutte le vite (il « per così dire » – ut ita dicam – mostra che Olivi è perfettamente cosciente del-la novità della sua aff ermazione). Certo la vita di Cristo era apparsa anche nelle epoche precedenti, secondo un principio di dispensazione epocale dei « modi di vita »

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nella storia della Chiesa (« è certo che la vita di Cristo è una e migliore di ogni altra, ma nei cinque stati prece-denti della Chiesa sono apparsi successivamente molte vite e molti modi di vivere (multae vitae et multi modi vivendi successive apparuerunt) » (ibid., p. ). Tuttavia è solo alla fi ne dei tempi (in fi ne temporum) che essa può manifestarsi « secondo la piena conformità alla sua uni-cità e alla sua forma » (secundum plenam conformitatem suae unitati et specie – ibid.). E come, al momento del primo avvento di Cristo, era stato eletto « come profeta e più che profeta » Giovanni il Battista, così, nell’ultimo tempo, è stato scelto Francesco « per introdurre e rinno-vare la vita di Cristo nel mondo » (ad introducendam et renovandam Christi vitam in mundo – ibid., p. ).

Lo specifi co carattere escatologico del messaggio francescano non si esprime in una nuova dottrina, ma in una forma di vita attraverso cui la stessa vita di Cri-sto si fa nuovamente presente nel mondo per portare a compimento non tanto il signifi cato storico delle « per-sone » nell’economia della salvezza, quanto la loro vita come tale. La forma di vita francescana è, in questo sen-so, la fi ne di tutte le vite (fi nis omnium vitarum), l’ulti-mo modus, dopo il quale non è più possibile la moltepli-ce dispensazione storica dei modi vivendi. L’« altissima povertà », col suo uso delle cose, è la forma-di-vita che comincia quando tutte le forme di vita dell’Occidente sono giunte alla loro consumazione storica.

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Soglia

Ciò che è mancato alla dottrina francescana dell’uso è appunto il tentativo di pensare quel nesso con l’idea di forma di vita che il testo di Olivi sembra implicitamente esigere. È come se l’altissima paupertas, che doveva de-fi nire secondo il fondatore la forma di vita francescana come vita perfetta (e che in altri testi, come il Sacrum commercium Sancti Francisci cum Domina Paupertate, ha eff ettivamente questa funzione), collegandosi col con-cetto di usus facti perdesse la sua centralità e fi nisse col caratterizzarsi soltanto in negativo rispetto al diritto. Certo, grazie alla dottrina dell’uso, la vita francescana ha potuto aff ermarsi senza riserve come quell’esistenza che si situa al di fuori dal diritto, cioè che, per essere, deve abdicare al diritto – e questo è certamente il lascito a cui la modernità si è dimostrata incapace di far fronte e che il nostro tempo non sembra neppure in grado di pensare. Ma che cos’è una vita fuori del diritto, se essa si defi nisce come quella forma di vita che fa uso delle cose senza mai appropriarsene? E che cos’è l’uso, se si cessa di defi nirlo solo negativamente rispetto alla proprietà?

È il problema del nesso essenziale fra uso e forma di vita che diventa a questo punto indiff eribile. Come può l’uso – cioè una relazione al mondo in quanto inap-

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propriabile – tradursi in un ethos e in una forma di vita? E quale ontologia e quale etica corrisponderanno a una vita che, nell’uso, si costituisce come inseparabile dalla sua forma? Il tentativo di rispondere a queste domande esigerà necessariamente un confronto con il paradigma ontologico operativo nel cui stampo la liturgia, attraver-so un processo secolare, ha fi nito col costringere l’etica e la politica dell’Occidente. Uso e forma di vita sono i due dispositivi attraverso i quali i francescani hanno cercato, in un modo certamente insuffi ciente, di spezzare questo stampo e di confrontarsi a quel paradigma. Ma è cer-to che solo a partire dalla ripresa del confronto in una nuova prospettiva potrà eventualmente decidersi se e in che misura quella che si presenta in Olivi come l’estre-ma forma di vita dell’Occidente cristiano ha, per esso, ancora un senso o se, invece, il dominio planetario del paradigma dell’operatività esige di spostare il confronto decisivo su un altro terreno.

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Indice dei nomi

Abelardo, Adamo, , Agamben, Giorgio, , ,

Agnese di Praga, Agostino d’Ippona, , ,

, , , , , , , , , , , ,

Amalario, Ambrogio, , , , , ,

Ambrosiaster, Antonio, , , Aristotele, , , , Atanasio,

Bacht, Heinrich, , , ,

Bader, Günter, Bartolo, , Basilio, , , , , , ,

, , , Benedetto, , , , Benedetto di Aniane, , ,

Benveniste, Émile, , Bernardo di Chiaravalle,

, , , , , Bernardo Prim, Bessarione, Bonagrazia da Bergamo,

, , , , ,

Cabasilas, Nicolas, Caino, Calati, Benedetto, Capelle, Catherine, , ,

, Cassiano, , , , , ,

, -, , , , Cassiodoro, Celestino , Chiara, , Cicerone, , Clareno, Angelo, , ,

-Clemente , , Coccia, Emanuele, , ,

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, , Costantino Porfi rogeni-

to, Delorme, Ferdinand, ,

,

Ehrle, Franz, , , ,

Elia, Eliseo, Enrico di Gand, -Eugendo, , Eva, Evagrio,

Febvre, Lucien, Filone Alessandrino, , -

Foucault, Michel, , , Francesco di Ascoli, ,

, , Francesco di Assisi, , , ,

, -, -, , , , , -, , , ,

Frank, Karl S., , Fruttuoso di Braga, , ,

Gernet, Louis, Gesù Cristo, , , , ,

, , , , , , , , , , , , , , , , ,

, , , , , , , ,

Giacobbe, , Gilson, Étienne, Giovanni, Giovanni Climaco, Giovanni il Battista, , Giovanni Peckham, Giovanni , , , ,

, , -, ,

Girolamo, , , , , Graziano, , , , Gregorio , , Gregorio Nazianzeno, Grossi, Paolo, , Grundmann, Herbert, ,

, Guglielmo di Mende, , ,

Herwegen, Ildefons, -Horsiesius, , Hostiensis, ,

Innocenzo , , Innocenzo , Isidoro, , , , , ,

Ivo di Chartres, ,

Lambertini, Roberto, Luigi ,

Page 189: Agamben, Giorgio - Altissima Poverta

Mäkinen, Virpi, , , ,

Mar Abraham, Marini, Alfonso, Mazon, Cándido, , ,

, Michele da Cesena, ,

, Mosè, ,

Niccolò (Nicola) , , , , ,

Nilo, Norberto di Xanten,

Ockham, Guglielmo di, , , , -,

Ohm, Juliane, Olivi, Pietro Giovanni, ,

, , , , , , -, , , , ,

Pacomio, , , , , , , , , , ,

Paemon, Palamone, Paolo, , , , Pedro de Aragón, Penco, Gregorio, Peterson, Erik, Pier Damiani, , , , Plotino,

Pricoco, Salvatore, , , , ,

Quintiliano, , Rabelais, François, -Riccardo di Conington,

, , , Righetti, Mario, Roberto di Arbrissel, Romualdo, Rousseau, Jean-Jacques, Rufi no, , ,

Sade, Donatien Alphonse de,

Savigny, Friedrich Carl von,

Smaragdo, Spitzer, Leo, Stefano di Tournay, Stein, Peter, Suárez, Francisco, , ,

, , ,

Tabarroni, Andrea, Tarello, Giovanni, , ,

, Teodoro Studita, , , Tertulliano, , , , D omas, Yan, , Ticonio, Tommaso d’Aquino, , ,

, , , Tommaso da Celano, ,

Page 190: Agamben, Giorgio - Altissima Poverta

,

Ubertino da Casale, , , -

Ugo di Digne, , , -, -

Ugo Speroni, Ugolino, Umberto de Romanis,

Valdo, Varrone,

Villey, Michel, , Vogüé, Adalbert de, -,

, , , , , , , -, , , , , , ,

Weber, Max, Werner, Eric, Wittgenstein, Ludwig, ,

,

Zeiger, Ivo,

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