2015
2015
i
Rappresentanza della Regione europea Tirolo-Alto Adige-Trentino
45-47 rue de Pascale
B-1040 Bruxelles
Tel.: +32 (0)2 743 27 00 – 01
Fax: +32 (0)2 742 09 80
http://www.alpeuregio.org
Foto della copertina: Cédric Puisney, « L'habit fait le magistrat «, CC BY-NC-ND 2.0
ii
CURIA-News Annuario 2015
Dal settembre 2011, sulla base di precedenti esperienze di monitoraggio della
normativa europea e del relativo processo formativo è nata la newsletter
“Curia News”, un progetto comune della Rappresentanza della
Regione europea Tirolo – Alto Adige – Trentino a Bruxelles.
L’obiettivo condiviso è quello di monitorare la giurisprudenza della Corte di
giustizia e del Tribunale, al fine di accrescere la sensibilità verso il diritto
dell’Unione europea.
Oltre alla newsletter periodica, quest’annuario rappresenta un ulteriore
strumento di informazione della giurisprudenza europea del 2015 e mira a
facilitare la consultazione delle pronunce nei settori di maggiore importanza.
Innsbruck, Bolzano, Trento e Bruxelles nel gennaio 2016
Fritz Staudigl
Klaus Luther
Fabio Scalet
iii
INDICE
LA CORTE DI GIUSTIZIA ..................................................................................... 1
SENTENZE 2015 ................................................................................................. 3
Agricoltura e pesca ................................................................................................ 3
La protezione degli animali durante il trasporto prevista dal diritto dell’Unione non
cessa alle frontiere esterne dell’Unione ................................................................. 3
Aiuti di stato ...................................................................................................... 4
La Corte condanna l'Italia per aver ritardato nel recupero di aiuti incompatibili con il
mercato comune ................................................................................................ 4
La decisione della Commissione che ordina il recupero di un aiuto di Stato concesso
agli operatori della piattaforma televisiva terrestre è legittima ................................. 5
Ambiente, energia e consumatori ....................................................................... 6
La normativa nazionale che non impone misure di prevenzione e di riparazione a carico
dei proprietari non responsabili dell’inquinamento dei loro terreni è compatibile con il
diritto dell’Unione ............................................................................................... 6
Una decisione amministrativa nazionale di non effettuare una valutazione dell’impatto
ambientale di determinati progetti pubblici e privati ai sensi del diritto dell’Unione ha
efficacia vincolante ............................................................................................. 7
Fallisce il tentativo di far annullare il regolamento sull’etichettatura indicante il
consumo d’energia degli aspirapolvere .................................................................. 9
Appalti pubblici ................................................................................................ 10
Un bando di gara che prevede un requisito di ubicazione geografica è contrario al
diritto dell'Unione ............................................................................................. 10
L’aggiudicazione di appalti pubblici può essere subordinata dalla legge al pagamento di
un salario minimo ............................................................................................ 11
Diritti fondamentali .......................................................................................... 12
La Corte chiarisce la nozione di “tariffe minime salariali” dei lavoratori distaccati ...... 12
Disposizioni istituzionali .................................................................................. 14
Le valutazioni di impatto destinate a fornire alla Commissione delucidazioni
nell’elaborazione delle sue proposte di atti legislativi, in linea di principio, non sono
accessibili al pubblico prima della divulgazione delle proposte ................................ 14
Fiscalitá ............................................................................................................ 15
Il cambio di valuta tradizionale contro unità della valuta virtuale «bitcoin» è esente da
IVA ................................................................................................................ 15
iv
Libera circolazione dei lavoratori ..................................................................... 16
La normativa belga che prevede che le conoscenze linguistiche possano essere
dimostrate per mezzo di un unico tipo di certificato non è sono conforme al diritto UE
..................................................................................................................... 16
Libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi .................................... 17
Il diritto dell’Unione non osta all’organizzazione di una nuova procedura di gara volta
all’attribuzione, in materia di giochi d’azzardo, di concessioni di durata inferiore alle
precedenti ....................................................................................................... 17
La Corte di giustizia precisa l’interpretazione di due direttive nel settore degli appalti
pubblici ........................................................................................................... 18
L’Amministrazione aggiudicatrice non può respingere un’offerta che soddisfa i requisiti
del bando di gara basandosi su motivi non previsti in tale bando ............................ 19
La normativa di uno Stato membro non può imporre alle società aventi la qualità di
organismi di attestazione di avere la sede legale nel territorio nazionale ................. 20
Principi del diritto comunitario ......................................................................... 22
L’installazione di contatori elettrici a un’altezza inaccessibile in un quartiere
densamente popolato da Rom è atta a costituire una discriminazione fondata
sull’origine etnica quando gli stessi contatori sono installati in altri quartieri a
un’altezza normale ........................................................................................... 22
Politica sociale ................................................................................................. 24
L’obesità può costituire un “handicap” ai sensi della direttiva sulla parità di trattamento
in materia di occupazione .................................................................................. 24
La Corte precisa le condizioni in presenza delle quali un lavoratore può essere
qualificato come lavoratore frontaliero in disoccupazione parziale ........................... 25
Il computo dei periodi di studio del sistema pensionistico austriaco è compatibile con il
principio di non discriminazione ......................................................................... 26
Il Lussemburgo non protegge sufficientemente i lavoratori saltuari dello spettacolo .. 28
Uno Stato membro non può esigere un nuovo periodo contributivo di sei mesi
preliminare all’ottenimento del diritto a un’indennità di maternità per il solo fatto che
la lavoratrice interessata ha cambiato status lavorativo o lavoro ............................ 29
La Corte chiarisce la nozione di “stabilimento” in materia di licenziamenti collettivi ... 31
Impedendo ai dipendenti pubblici di sesso maschile, la cui moglie non lavori, di
avvalersi del congedo parentale, la normativa ellenica è contraria al diritto dell’Unione
..................................................................................................................... 32
Uno Stato membro può escludere da talune prestazioni sociali, di carattere non
contributivo, cittadini dell’Unione che vi si recano per trovare lavoro ...................... 33
v
Gli spostamenti effettuati dai lavoratori senza luogo di lavoro fisso o abituale tra il loro
domicilio ed il primo o l’ultimo cliente della giornata costituiscono orario di lavoro .... 35
La direttiva sul mantenimento dei diritti dei lavoratori si applica alle imprese pubbliche
che pongano termine al contratto con il quale avevano esternalizzato un determinato
servizio e che decidano di gestire tali attività con proprio personale ........................ 37
La risoluzione di un contratto di lavoro in seguito al rifiuto da parte del lavoratore di
acconsentire a una modifica unilaterale e sostanziale, a suo svantaggio, degli elementi
essenziali di tale contratto costituisce un licenziamento ai sensi della direttiva sui
licenziamenti collettivi ....................................................................................... 38
Ravvicinamento delle legislazioni ..................................................................... 40
Corte dichiara invalida la decisione della Commissione che attesta che gli Stati Uniti
garantiscono un adeguato livello di protezione dei dati personali trasferiti ............... 40
L’aumento delle tariffe di telecomunicazione in base a un indice dei prezzi al consumo
non consente agli abbonati di recedere dal loro contratto ...................................... 42
Sanitá pubblica ................................................................................................ 43
L’esclusione dalla donazione di sangue per gli uomini che abbiano avuto rapporti
sessuali con una persona dello stesso sesso può, alla luce della situazione in uno Stato
membro essere giustificata ................................................................................ 43
Sicurezza sociale .............................................................................................. 45
I redditi patrimoniali dei residenti in Francia che lavorano in un altro Stato membro
non possono essere soggetti ai contributi sociali francesi ....................................... 45
Spazio di libertà, sicurezza e giustizia .............................................................. 46
Una normativa nazionale che impone o l’ammenda o l’allontanamento di cittadini di
paesi terzi in caso di soggiorno irregolare, a seconda delle circostanze, è in contrasto
con il diritto dell’Unione .................................................................................... 46
I cittadini di paesi terzi, che siano soggiornanti di lungo periodo possono essere
obbligati dagli Stati membri a superare un esame di integrazione civica .................. 48
Gli Stati membri possono esigere che i cittadini di paesi terzi superino un esame di
integrazione civica preliminarmente al ricongiungimento familiare .......................... 49
La direttiva «rimpatri» non osta, in linea di principio, alla normativa di uno Stato
membro che commina una pena detentiva ad un cittadino di un paese terzo che entri
irregolarmente nel suo territorio trasgredendo un precedente divieto d’ingresso....... 50
Trasporti .......................................................................................................... 51
Uno Stato membro può vietare al titolare di una patente di guida conseguita in altro
Stato membro di guidare dopo aver commesso un’infrazione stradale di natura tale da
determinare la sua inidoneità alla guida .............................................................. 51
vi
La prova dell’esistenza di un domicilio dichiarato sul territorio dello Stato membro non
può essere il solo strumento utile per dimostrare il requisito di «residenza normale» ai
fini del rilascio o rinnovo di una patente di guida .................................................. 52
Il vettore aereo è tenuto a indennizzare i passeggeri anche in caso di annullamento del
volo per problemi tecnici imprevisti .................................................................... 53
Tutela dei consumatori ..................................................................................... 54
La direttiva concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori si
applica anche ai contratti standard di servizi di assistenza legale............................ 54
Nel contratto di credito al consumo spetta al creditore fornire la prova dell’esecuzione
dei suoi obblighi precontrattuali di informazione e di verifica della solvibilità del
debitore .......................................................................................................... 55
Il consumatore non deve essere indotto in errore dall’etichettatura di un prodotto che
suggerisce la presenza di un ingrediente che in realtà è assente dal prodotto .......... 57
La Corte ha precisato che si presume che i difetti di conformità che si manifestano
entro sei mesi dalla consegna del bene, esistessero al momento della consegna ...... 58
Le operazioni di cambio nell’ambito di taluni tipi di mutui in valuta estera non
costituiscono servizi di investimento ................................................................... 59
1
LA CORTE DI GIUSTIZIA
La Corte di giustizia è il più alto organo giurisdizionale dell’UE. Garantisce che il diritto
dell‘Unione europea venga interpretato ed applicato uniformemente in tutti gli Stati membri e
con le sue sentenze ha promosso l’integrazione europea in molti settori.
Compiti e competenze
Le regole sulla composizione e l’attività della Corte di giustizia sono contenute nel Trattato di
Lisbona. Il procedimento è, invece, disciplinato dai Trattati, dal Protocollo sullo statuto della
Corte di giustizia, dal regolamento di procedura e dal regolamento addizionale di procedura. La
Corte di giustizia giudica le controversie insorte tra i Governi degli Stati membri e l’Unione
europea. Tuttavia, anche privati, imprese ed organizzazioni possono adire la Corte di giustizia,
qualora ritengono che un organo dell’UE abbia leso i loro diritti. La Corte di giustizia decide
prevalentemente:
1) domande di pronuncia pregiudiziale, tramite le quali un giudice nazionale che
dubiti dell’interpretazione o della validità di una norma dell’UE rimette la questione alla
Corte;
2) ricorsi per inadempimento, avviati dalla Commissione europea o da uno Stato
membro, se un altro Stato membro non adempie agli obblighi previsti dal diritto
europeo;
3) ricorsi di annullamento, che possono essere proposti da uno Stato membro, dal
Consiglio, dalla Commissione o, in determinate circostanze, anche dal Parlamento
europeo nei confronti di norme giuridiche dell’UE che si presumono illegittime. Anche i
privati hanno la possibilità di chiedere l’annullamento di un determinato atto giuridico
che li riguardi direttamente e personalmente qualora questo arrechi loro un
pregiudizio. Per i ricorsi di annullamento di persone fisiche individuali é competente, in
primo grado, il Tribunale;
4) ricorsi per carenza, che possono essere proposti per accertare un’inerzia di
un’istituzione, di un organo o di un organismo dell’UE. La competenza a decidere il
ricorso per carenza é ripartita tra la Corte di giustizia ed il Tribunale secondo gli stessi
criteri propri del ricorso di annullamento;
5) impugnazioni, che possono essere proposte contro le sentenze e le ordinanze del
Tribunale.
Composizione
La Corte di giustizia si compone di 28 giudici (uno per ogni Stato membro dell’UE) assistiti da
11 avvocati generali, i quali hanno il compito di presentare pubblicamente, con assoluta
imparzialità e piena indipendenza, conclusioni motivate sulle cause di cui é investita la Corte di
giustizia. I giudici e gli avvocati generali sono designati dai Governi degli Stati membri di
comune accordo per un periodo rinnovabile di sei anni.
Il regime linguistico del procedimento
Al fine di garantire che ogni cittadino dell’UE possa compiere atti giuridici nella propria lingua, il
ricorrente può scegliere liberamente una tra le 24 lingue ufficiali dell’UE quale lingua
processuale della causa. Per quanto attiene alle domande di pronuncia pregiudiziale, la lingua
processuale è quella dello Stato membro del giudice che si rivolge alla Corte. Durante il
dibattimento é prevista – se necessario – la traduzione nelle altre lingue ufficiali dell’UE. I
2
giudici deliberano in una lingua comune che, di regola, é il francese. Anche i fascicoli della
causa vengono inoltre tradotti in francese che resta la lingua ufficiale interna della Corte di
giustizia.
Spese del procedimento
Il procedimento dinanzi alla Corte di giustizia è gratuito. Le spese legali sono invece a carico
delle parti. Se una parte non è in grado di sostenere in tutto o in parte le spese del
procedimento, può chiedere di essere ammesso al beneficio del gratuito patrocinio.
Il Tribunale e il Tribunale della funzione pubblica
Il Tribunale ed il Tribunale della funzione pubblica dell’UE compongono, assieme alla Corte di
giustizia, il sistema giurisdizionale dell’Unione europea. Il Tribunale (precedentemente nominato
“Tribunale di primo grado”) è stato istituito nel 1988 come organo della Corte di giustizia allo
scopo di decongestionarne l’attività ed è costituito da almeno un giudice per Stato membro. Le
cause che non presentino particolari complessità possono essere decise da un giudice
monocratico. Il Tribunale si pronuncia sulle controversie proposte da privati, imprese e
determinate organizzazioni nonché sulle cause in materia di diritto della concorrenza. Per
determinate materie il Parlamento europeo e il Consiglio hanno anche la possibilità di istituire
tribunali specializzati.
Il Tribunale per la funzione pubblica, istituito nel 2005, è invece competente a dirimere le
controversie tra l’UE ed i suoi dipendenti.
3
SENTENZE 2015
Agricoltura e pesca
La protezione degli animali durante il trasporto prevista dal diritto dell’Unione non
cessa alle frontiere esterne dell’Unione
(Sentenza della Corte nella causa C-424/13, Zuchtvieh-Export GmbH/Stadt Kempten)
Nel contesto di una controversia tra la Zuchtvieh-Export GmbH e la Stadt Kempten in merito alla
decisione, adottata da quest’ultima nella sua qualità di autorità competente del luogo
di partenza, di negare lo sdoganamento di una partita di bovini da trasportare su
strada da Kempten (Germania) ad Andijan (Uzbekistan), il Bayerischer
Verwaltungsgerichtshof (Corte amministrativa bavarese) ha presentato una domanda
di pronuncia pregiudiziale che verteva sull’interpretazione del regolamento (CE) n.
1/20051 sulla protezione degli animali durante il trasporto. Tale regolamento si basa,
da un lato, sul principio secondo cui gli animali non devono essere trasportati in
condizioni tali da rischiare di subire lesioni o sofferenze inutili e, d’altro lato, sulla
considerazione che il benessere degli animali implica che i trasporti di lunga durata
siano limitati nella misura del possibile.
Con tale domanda la Corte amministrativa bavarese voleva sapere dalla Corte se gli
obblighi relativi al giornale di viaggio e il potere dell’autorità competente di esigere,
eventualmente, modifiche a tale documento si applichino, nel caso di un trasporto da
uno Stato membro verso uno Stato terzo, anche alla parte del viaggio che si svolge
all’esterno dell’Unione.
La Corte nella sua sentenza del 23 aprile 2015 ha fatto presente che affinché un
trasporto di animali possa essere autorizzato, l’organizzatore del viaggio deve
presentare un giornale di viaggio realistico che consenta di ritenere che le disposizioni
del regolamento 1/2005 saranno rispettate, anche nella parte del viaggio che si svolge
all’esterno dell’Unione. La pianificazione del viaggio risultante dal giornale di viaggio
deve mostrare che il trasporto previsto rispetterà, in particolare, le specifiche tecniche
relative agli intervalli di abbeveraggio e di alimentazione nonché alla durata dei periodi
di viaggio e di riposo. Qualora il giornale di viaggio non risponda a tali requisiti,
l’autorità può esigere una modifica delle modalità di svolgimento del trasporto. Per i
trasporti di animali in partenza dal territorio dell’Unione e diretti verso paesi terzi non
è previsto infatti un regime particolare di autorizzazione che sia distinto da quello
applicabile ai trasporti che si svolgono all’interno dell’Unione.
Ciò premesso, la Corte ha concluso che la protezione degli animali durante il trasporto
prevista dal diritto dell’Unione non cessa alle frontiere esterne dell’Unione e che quindi
gli obblighi relativi agli intervalli di abbeveraggio e di alimentazione, nonché alla durata
dei periodi di viaggio e di riposo vigono anche per la parte del trasporto che si svolge
al di fuori dell’Unione.
Link alla versione integrale della sentenza
1 Regolamento (CE) n. 1/2005 del Consiglio, del 22 dicembre 2004, sulla protezione degli animali durante il trasporto e le operazioni correlate che modifica le direttive 64/432/CEE e 93/119/CE e il regolamento (CE) n. 1255/97
4
Aiuti di stato
La Corte condanna l'Italia per aver ritardato nel recupero di aiuti incompatibili con il
mercato comune
(Sentenza della Corte di giustizia nella causa C-367/14, Commissione / Italia)
Con decisione del 25 novembre 19992 la Commissione ha ritenuto che le riduzioni dagli
oneri sociali concessi ad alcune imprese del territorio insulare di Venezia e Chioggia
costituivano aiuti di Stato incompatibili con il mercato comune. Nel 2009 la
Commissione ha quindi proposto un ricorso per inadempimento contro l’Italia,
addebitando a quest’ultima di non avere adottato, entro i termini prescritti, tutte le
misure necessarie al recupero degli aiuti. Con sentenza del 20113, la Corte ha già
accertato che l’Italia non ha soddisfatto l’obbligo di recupero ad essa incombente in
forza della decisione della Commissione.
La Commissione ha quindi proposto un nuovo ricorso per inadempimento contro l’Italia
avendo constatato che questa non aveva ancora recuperato l’insieme degli aiuti e
aveva persino sospeso il recupero di alcuni di essi. Con sentenza del 17 settembre
2015, la Corte ha ora accertato che l’Italia è nuovamente venuta meno all’obbligo di
recupero ad essa incombente.
La Corte constata che le difficoltà intervenute nel corso della procedura di recupero
degli aiuti non consentono di giustificare la mancata esecuzione della sentenza del
2011. La Corte ritiene che l’Italia non sia riuscita a dimostrare che il complesso delle
misure adottate al fine di recuperare gli aiuti siano state oggetto di un controllo
permanente ed efficace, tanto più che uno Stato membro non può avvalersi del proprio
ritardo nell’esecuzione dei suoi obblighi per giustificare la mancata esecuzione di una
sentenza per inadempimento della Corte. Inoltre il fatto che alcune imprese siano in
difficoltà o in fallimento non incide sull’obbligo di recuperare gli aiuti illegittimamente
versati, dato che l’Italia è tenuta, secondo i casi, a provocare la liquidazione della
società, a fare inserire al passivo dell’impresa il suo credito o ad adottare qualsiasi
altra misura che consenta il rimborso dell’aiuto.
La Corte ha giudicato che l’imposizione di una penalità (12 milioni EUR per semestre di
ritardo nell’esecuzione della sentenza del 2011) costituisca uno strumento finanziario
adeguato al fine di incitare l’Italia ad adottare le misure necessarie per porre fine
all’inadempimento accertato.
Infine, tenuto conto che l’Italia è già stata oggetto di numerose sentenze per
inadempimento a causa del recupero tardivo di aiuti illegittimi ed incompatibili con il
mercato interno, la Corte ha ritenuto che l’effettiva prevenzione della reiterazione
futura di analoghe violazioni del diritto dell’Unione richieda l’adozione di una misura
dissuasiva quale l’imposizione di una somma forfettaria, che la Corte ha stabilito in un
importo pari a 30 milioni EUR. Link alla versione integrale della sentenza
2 Decisione 2000/394/CE della Commissione, del 25 novembre 1999, relativa a misure di aiuto in favore delle imprese
nei territori di Venezia e Chioggia, previste dalle leggi n. 30/1997 e n. 206/1995, recanti sgravi degli oneri sociali (GU
2000, L 150, pag. 50).
3 Sentenza della Corte, del 6 ottobre 2011, Commissione/Italia (causa C-302/09).
5
La decisione della Commissione che ordina il recupero di un aiuto di Stato
concesso agli operatori della piattaforma televisiva terrestre è legittima
(Sentenza del Tribunale nelle cause T-461/13, T-462/13, T-463/13, T-464/13, T-465/13, T-
487/13, T-541/13 Spagna/Commissione)
La Commissione ha promosso la digitalizzazione della radiodiffusione nell’Unione
europea sin dal 2002. La digitalizzazione può essere effettuata tecnicamente mediante
piattaforme terrestri, satellitari, via cavo o mediante accessi alla banda larga su
Internet.
Tra il 2005 e il 2009, le autorità spagnole hanno adottato una serie di misure volte a
consentire il passaggio dalla televisione analogica alla televisione digitale. Le emittenti
nazionali erano tenute a coprire il 96% della popolazione, nel caso del settore privato,
e il 98% della popolazione, nel caso del settore pubblico, nel loro rispettivo territorio.
Poiché sussisteva il pericolo di non raggiungere gli obiettivi prefissati in alcune zone, le
autorità spagnole hanno allora erogato un finanziamento pubblico per sostenere il
processo di digitalizzazione terrestre.
A seguito di una denuncia da parte di una società concorrente, nel giugno 2013 la
Commissione ha adottato una decisione sui citati finanziamenti. Questi ultimi sono
aiuti di Stato illegali e incompatibili con le regole del mercato unico. Nella stessa
decisione, la Commissione ha ordinato il recupero dell’aiuto presso i beneficiari.
Diverse regioni spagnole hanno chiesto al Tribunale dell’Unione europea di annullare la
decisione della Commissione.
Nella sua sentenza del 16 novembre 2015 il Tribunale respinge tutti i ricorsi e
conferma la decisione della Commissione.
Il Tribunale rileva che la Commissione non è incorsa in errore nel ritenere che, in
assenza di una definizione chiara del servizio di sfruttamento di una rete terrestre in
quanto servizio pubblico, le misure dovessero essere qualificate come aiuto di Stato.
Affinché un intervento statale possa essere considerato come una compensazione
diretta a rappresentare la contropartita delle prestazioni effettuate dalle imprese
beneficiarie per assolvere obblighi di servizio pubblico, l’impresa beneficiaria deve
essere effettivamente incaricata dell’adempimento di tali obblighi ed essi devono
essere definiti in modo chiaro. Le autorità spagnole non hanno fornito elementi di
prova al riguardo.
In secondo luogo la Commissione ha, secondo il Tribunale, correttamente ritenuto che
le misure in questione non potessero essere considerate come un aiuto di Stato
compatibile con il mercato interno, in particolare perché non hanno rispettato il
principio di neutralità tecnologica.
Link alla versione integrale della sentenza
6
Ambiente, energia e consumatori
La normativa nazionale che non impone misure di prevenzione e di riparazione a
carico dei proprietari non responsabili dell’inquinamento dei loro terreni è
compatibile con il diritto dell’Unione
(Sentenza nella causa C-534/13, Fipa Group e altri)
Nella causa C-534/13 il Consiglio di Stato italiano nell’ambito una domanda di
pronuncia pregiudiziale ha chiesto, in sostanza, se i principi del diritto dell’Unione in
materia ambientale, segnatamente, il principio «chi inquina paga»4, debbano essere
interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale che, nel caso in cui sia
impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o di ottenere da
quest’ultimo le misure di riparazione, non consente all’autorità competente di imporre
l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale terreno,
non responsabile della contaminazione5.
Dopo aver precisato l’applicabilità ratione temporis della direttiva 2004/35 e la nozione
di “operatore” ai sensi della medesima direttiva, nella sentenza del 4 marzo 2015 la
Corte ha confermato che, affinché il regime di responsabilità ambientale sia efficace, è
necessario che sia accertato dall’autorità competente un nesso causale tra l’azione di
uno o più operatori individuabili e il danno ambientale concreto e quantificabile. La
Corte ricorda che, conformemente all’articolo 8, paragrafo 3, lettera a), della direttiva
2004/35, in combinato disposto con il considerando 20 della stessa, l’operatore non è
tenuto a sostenere i costi delle azioni di riparazione adottate in applicazione di tale
direttiva quando è in grado di dimostrare che i danni in questione sono opera di un
terzo e si sono verificati nonostante l’esistenza di idonee misure di sicurezza, o sono
conseguenza di un ordine o di un’istruzione impartiti da un’autorità pubblica. Allorché
non possa essere dimostrato alcun nesso causale tra il danno ambientale e l’attività
dell’operatore, tale situazione rientra nell’ambito dell’ordinamento giuridico nazionale,
nel rispetto delle norme del Trattato e fatti salvi altri eventuali atti di diritto derivato.
La Corte ha osservato che nella specie è pacifico che la normativa di cui trattasi nel
procedimento principale non consente di imporre misure di riparazione al proprietario
non responsabile della contaminazione, limitandosi al riguardo a prevedere che siffatto
proprietario può essere tenuto al rimborso dei costi relativi agli interventi intrapresi
dall’autorità competente nei limiti del valore del terreno, determinato dopo
l’esecuzione di tali interventi.
Pertanto la Corte ha risposto alla questione pregiudiziale che la direttiva 2004/35
deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale come
quella di cui trattasi nel procedimento principale, la quale, nell’ipotesi in cui sia
impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da
quest’ultimo le misure di riparazione, non consente all’autorità competente di imporre
l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito,
non responsabile della contaminazione. Link alla versione integrale della sentenza
4 Articolo 191, paragrafo 2, TFUE e direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale. 5 Si tratta del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, Norme in materia ambientale (“Codice dell’ambiente”), articoli 244, 245, 253.
7
Una decisione amministrativa nazionale di non effettuare una valutazione
dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati ai sensi del diritto
dell’Unione ha efficacia vincolante
(Sentenza nella causa C-570/13, Karoline Gruber/Unabhängiger Verwaltungssenat für Kärnten
e.a.)
Il Governo del Land Carinzia aveva autorizzato la costruzione di un centro commerciale
senza effettuare una preventiva valutazione d’impatto ambientale (VIA) e riteneva tale
decisione vincolante e definitiva nei confronti di ogni cittadino. Per questa ragione, un
cittadino, ha promosso ricorso dinanzi al Tribunale Amministrativo austriaco. Nella
causa C-570/13 il predetto tribunale, ha chiesto alla Corte di Giustizia se l’articolo 11
della direttiva 2011/92 relativa alla valutazione d’impatto ambientale (VIA)6 debba
essere interpretato nel senso che osti ad una normativa nazionale, in forza della quale
una decisione amministrativa che accerta che non è necessario effettuare una VIA per
un progetto, ha efficacia vincolante nei confronti dei vicini che non disponevano di un
diritto di ricorso contro detta decisione amministrativa.
Nella sua sentenza del 21 aprile 2015 la Corte di Giustizia precisa in primo luogo che
l’articolo 11 della direttiva 2011/92 stabilisce che gli Stati provvedano affinché i
membri del “pubblico interessato” che vantino un interesse sufficiente o facciano
valere la violazione di un diritto possano proporre ricorso contro decisioni, atti e
omissioni soggetti alle disposizioni della direttiva 2011/92 per contestarne la
legittimità sostanziale o procedurale. Mette poi in luce la Corte che la individuazione di
cosa costituisca “interesse sufficiente” e “violazione di un diritto” rientra nella
competenza degli Stati Membri, tuttavia detta valutazione deve essere svolta
compatibilmente con l’obiettivo di fornire al pubblico interessato un ampio accesso alla
giustizia. In tal senso, atteso che è la stessa legge austriaca a definire il concetto di
“vicino” quale persona che può essere messe in pericolo o disturbata dalla costruzione,
dall’esistenza o dal mantenimento in funzione di uno stabilimento, o la cui proprietà o
altri diritti reali possano essere compromessi, tale nozione può, ad avviso della Corte,
far parte del “pubblico interessato”. Per contro, la legislazione austriaca esclude a
priori dai ricorrenti la categoria dei “vicini”, come quella di altri soggetti
potenzialmente idonei a soddisfare i requisiti di cui all’art. 11 della Direttiva, atteso che
limita il diritto di ricorso ai richiedenti l’autorizzazione per il progetto, alle autorità
cooperanti, al mediatore per l’ambiente (Umweltanwalt) e al comune interessato., Tale
esclusione, pressoché generale, limita la portata del predetto articolo 11, paragrafo 1
della Direttiva, e risulta quindi incompatibile con la direttiva medesima.
Conclude dunque la Corte statuendo che l’articolo 11 della direttiva 2011/92/UE deve
essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale in forza della quale
una decisione amministrativa, che accerta che non è necessario effettuare una
valutazione dell’impatto ambientale per un progetto, ha efficacia vincolante nei
confronti dei vicini che non dispongono di un diritto di ricorso avverso detta decisione
amministrativa. E ciò a condizione che tali vicini, facenti parte del «pubblico
interessato» ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 2, di tale direttiva, soddisfino i criteri
previsti dal diritto nazionale per quanto riguarda l’«interesse sufficiente» o la
«violazione di un diritto». Spetta in ogni caso al giudice del rinvio verificare se tale
6 Direttiva 2011/92/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati.
8
condizione sia soddisfatta nel procedimento dinanzi a esso pendente. In caso
affermativo, esso deve negare l’efficacia vincolante, nei confronti di detti vicini, di una
decisione amministrativa di non effettuare tale valutazione.
Link alla versione integrale della sentenza
9
Fallisce il tentativo di far annullare il regolamento sull’etichettatura indicante il
consumo d’energia degli aspirapolvere
(Sentenza nella causa T-544/13 Dyson Ltd/Commissione)
Dal 1° settembre 2014 tutti gli aspirapolvere venduti nell’Unione europea sono
soggetti a un’etichettatura indicante il consumo d’energia le cui modalità sono
precisate dalla Commissione in un regolamento che integra la direttiva
sull’etichettatura indicante il consumo d’energia7. L’etichettatura mira, in particolare, a
informare i consumatori sul livello di efficienza energetica e sull’efficacia pulente
dell’aspirapolvere vuoto. Il regolamento non prevede di sottoporre a verifica gli
aspirapolvere con il contenitore della polvere pieno.
Una società inglese progetta e produce aspirapolvere ciclonici senza sacco. Avendo
ritenuto, sostanzialmente, che la verifica adottata dalla Commissione per misurare il
livello di efficienza energetica degli aspirapolvere sfavoriva i suoi prodotti rispetto agli
aspirapolvere con sacco, essa ha chiesto al Tribunale dell’Unione europea
l’annullamento del regolamento della Commissione.
La società afferma che il regolamento induce i consumatori in errore, in quanto
l’efficacia pulente è testata unicamente quando il contenitore per la raccolta della
polvere è vuoto, e non durante l’uso. Secondo l’opinione della stessa, il regolamento
favorirebbe gli aspirapolvere con sacco a discapito degli aspirapolvere senza sacco e/o
degli aspirapolvere ciclonici, poiché la perdita di aspirazione dovuta all’intasamento dei
sacchi non potrebbe essere individuata da prove effettuate in un contenitore della
polvere vuoto.
Riguardo alla prima questione, il Tribunale ricorda che la Commissione non poteva
adottare verifiche condotte con il contenitore della polvere pieno, poiché esse non sono
affidabili, accurate e riproducibili, come richiesto dal regolamento. A tale riguardo, il
Tribunale constata anche che la richiedente non ha provato la riproducibilità delle
verifiche condotte con aspirapolvere pieni.
Infine il Tribunale risponde che il regolamento non viola il principio della parità di
trattamento. Infatti, sebbene esistano, per stessa ammissione della Commissione,
differenze oggettive tra gli aspirapolvere senza sacco e gli aspirapolvere con sacco, la
Commissione poteva trattare in modo uniforme tali diverse situazioni, poiché sussiste
una giustificazione obiettiva e appropriata. A tale riguardo, il Tribunale rileva che
proprio a causa dell’assenza di verifiche riproducibili condotte con aspirapolvere pieni,
era obiettivo e appropriato trattare allo stesso modo gli aspirapolvere senza sacco e gli
aspirapolvere con sacco.
Link alla versione integrale della sentenza
7 Regolamento delegato (UE) n.665/2013 della Commissione, del 3 maggio 2013, che integra la direttiva 2010/30/UE del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda l’etichettatura indicante il consumo d’energia degli aspirapolvere (GU L192, pag.1).
10
Appalti pubblici
Un bando di gara che prevede un requisito di ubicazione geografica è contrario al
diritto dell'Unione
(sentenza nella causa C-552/13, Grupo Hospitalario Quirón SA/Departamento de Sanidad del
Gobierno Vasco)
Nei Paesi Baschi (Spagna) le autorità competenti hanno istituito un meccanismo di cooperazione
con strutture sanitarie e ospedali privati in base al quale taluni servizi pubblici di cure
mediche di sostegno sono esternalizzati e garantiti da strutture private, su base
contrattuale e in seguito all’aggiudicazione di un appalto pubblico di servizi. I capitolati
contenenti le specifiche tecniche concernenti l'appalto precisano, tra i requisiti minimi,
che i centri sanitari proposti devono trovarsi nel Comune di Bilbao.
Nel corso di un contenzioso relativo alla regolarità del bando di gara, lo Juzgado de lo
Contencioso-Administrativo n. 6 di Bilbao (tribunale amministrativo n. 6 di Bilbao) ha
deciso di sospendere il procedimento principale e di sottoporre alla Corte la questione
pregiudiziale concernente la compatibilità di tale requisito, inserito nei contratti
amministrativi di gestione di servizi pubblici di assistenza sanitaria, con il diritto
dell'Unione.
Nella sentenza del 22 ottobre 2015, la Corte precisa che il requisito secondo cui
siffatta struttura deve imperativamente essere ubicata in un dato comune destinato ad
essere il luogo di fornitura esclusivo dei servizi sanitari di cui trattasi, costituisce, in
considerazione della situazione geografica in discussione nel procedimento principale,
un vincolo di esecuzione territoriale che non è idoneo a consentire di raggiungere
l’obiettivo di garantire la prossimità e l’accessibilità della struttura ospedaliera privata
considerata, nell’interesse dei pazienti, dei loro familiari e del personale medico che
deve spostarsi verso tale struttura, garantendo al contempo un accesso a detti appalti
che sia pari e non discriminatorio per tutti gli offerenti.
Un requisito di ubicazione geografica, come quello formulato nelle clausole
amministrative speciali ha infatti l’effetto di escludere automaticamente gli offerenti
che non possono fornire i servizi di cui trattasi in una struttura situata in un dato
comune, nonostante il fatto che soddisfino eventualmente le altre condizioni stabilite
nei capitolati d’oneri e le specifiche tecniche degli appalti considerati. Il requisito in
parola non garantisce un accesso che sia pari e non discriminatorio per tutti gli
offerenti nella misura in cui esso rende accessibili gli appalti in parola unicamente agli
offerenti che possono fornire i servizi di cui trattasi in una struttura ubicata nel comune
indicato nei corrispondenti bandi di gara.
Di conseguenza la Corte ha statuito che tale requisito è contrario all’articolo 23,
paragrafo 2, della direttiva 2004/188.
Link alla versione integrale della sentenza
8 Direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi
11
L’aggiudicazione di appalti pubblici può essere subordinata dalla legge al
pagamento di un salario minimo
(Sentenza nella causa C-115/14 RegioPost GmbH & Co.KG / Stadt Landau in der Pfalz)
Una cittá tedesca ha escluso un’impresa dalla partecipazione ad una procedura di
appalto pubblico riguardante i servizi postali della città. Tale impresa aveva omesso di
dichiarare, contrariamente alle disposizioni del bando di gara e nonostante una lettera
di sollecito, che si impegnava a versare un salario minimo al personale. Le disposizioni
si riferivano ad una norma del stato federato tedesco.
Il tribunale regionale superiore adito dall’impresa chiedeva alla Cprte di giustizia
europea, se tale normativa fosse compatibile con il diritto europeo e in particolare con
la direttiva 2004/189. In base a questa direttiva, le amministrazioni aggiudicatrici
possono esigere condizioni particolari in merito all'esecuzione dell'appalto purché siano
compatibili con il diritto comunitario e siano precisate nel bando di gara o nel
capitolato d'oneri.
Nella sua sentenza del 17 novembre 2017 la Corte ha dichiarato che la direttiva
2004/18 non osta ad una normativa che impone agli offerenti e ai loro subappaltatori
di impegnarsi, mediante una dichiarazione scritta da allegarsi all’offerta, a versare un
salario minimo prefissato al personale assegnato all’esecuzione delle prestazioni.
Secondo la Corte, l’obbligo di cui trattasi costituisce una condizione particolare
ammessa, in linea di principio, dalla direttiva, giacché riguarda l'esecuzione
dell'appalto, ed è basata su considerazioni di tipo sociale. La Corte rileva, inoltre, che
tale obbligo è, nella fattispecie, nel contempo trasparente e non discriminatorio. Anche
quando il salario minimo potesse essere idoneo a restringere la libera prestazione dei
servizi, in linea di principio, puó essere giustificato dall’obiettivo di proteggere i
lavoratori.
Dunque, come non osta a che sia richiesto un impegno scritto relativo al rispetto di un
salario minimo, la direttiva consente del pari di escludere dalla partecipazione ad una
gara d’appalto pubblico un offerente che rifiuti di assumere un impegno siffatto.
Link alla versione integrale della sentenza
9 Direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi (GU L 134, pag.114, e rettifica GU 2004, L 351, pag. 44), come modificata dal regolamento (UE) n. 1251/2011 della Commissione, del 30 novembre 2011 (GU L 319, pag.4 3).
12
Diritti fondamentali
La Corte chiarisce la nozione di “tariffe minime salariali” dei lavoratori distaccati
(Sentenza nella causa C-396/13, Sähköalojen ammattiliitto ry/ Elektrobudowa Spółka Akcyjna)
Nella causa C-396/13 la Corte di giustizia si è occupata di un’ atto di citazione
presentato da dei di lavoratori polacchi che sono stati distaccati dalla loro impresa per
l’esecuzione di lavori di elettrificazione in Finlandia. Tramite il sindacato finlandese del
settore dell’energia elettrica, i suddetti hanno chiesto il pagamento della retribuzione
minima sulla base di quanto riportato dai contratti collettivi finlandesi di applicazione
generale conclusi per le branche dell’elettrificazione e degli impianti tecnici di edificio.
Infatti, i criteri per il calcolo della retribuzione minima previsti di tali contratti collettivi
erano più favorevoli rispetto a quelli applicati dall’impresa polacca.
Il tribunale finlandese, investito in ultima istanza della questione, nell’ambito di un
procedimento di rinvio pregiudiziale, voleva sapere della Corte, se il sindacato contro il
diritto nazionale polacco si possa richiamare all’art. 47 della Carta dei diritti
fondamentali e se i lavoratori polacchi possano richiamarsi al diritto finlandese. Inoltre,
il tribunale voleva sapere dalla Corte, se la nozione di “tariffe minime salariali” ai sensi
della direttiva 96/71/CE10 relativa al distacco dei lavoratori include gli elementi
retributivi oggetto del procedimento principale.
Con sentenza del 12 febbraio 2015, la Corte ha innanzitutto rilevato che è applicabile il
diritto processuale finlandese pertanto i lavoratori polacchi possono delegare le loro
pretese salariali al sindacato. Di seguito la Corte ha osservato che la direttiva
96/71/CE ha l’obiettivo di stabilire le condizioni di lavoro e di occupazione garantite ai
lavoratori, come la durata minima delle ferie annuali retribuite e le tariffe minime
salariali. Da un lato mira a garantire una leale concorrenza tra le imprese nazionali e
quelle che svolgono una prestazione di servizi transnazionale, e dall’altro, ha lo scopo
di garantire ai lavoratori distaccati l’applicazione di un nucleo di norme imperative di
protezione minima dello Stato ospitante. La direttiva non ha però armonizzato il
contenuto sostanziale di tali norme, ma si è limitata piuttosto a fornire alcuni
informazioni in merito. Per determinare le tariffe minime salariali, la direttiva rinvia
espressamente alla legislazione e alla prassi nazionale dello Stato membro ospitante,
premesso che sussistono norme vincolanti e trasparenti. Tale accertamento spetta al
giudice nazionale. Pertanto le modalità di calcolo delle tariffe e i criteri a esse applicati
devono parimenti essere di competenza dello Stato membro ospitante, laddove questo
non ostacoli la libera prestazione dei servizi tra gli Stati membri. Secondo la Corte
l’indennità specifica per il distacco (indennità giornaliera, destinata a garantire la tutela
sociale dei lavoratori grazie alla compensazione dei disagi dovuti al distacco) e
l’indennità per il tempo di tragitto giornaliero possono essere considerati parti
integranti delle tariffe minime salariali. Non costituiscono invece parte integrante delle
tariffe minime salariali i buoni pasto e i costi relativi all’alloggio. Per quanto riguarda il
diritto di ogni lavoratore a ferie annuali retribuite, la direttiva deve essere interpretata
nel senso che la gratifica minima per ferie, che deve essere accordata al lavoratore
10 Direttiva 96/71/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 1996, relativa al distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi (GU 1997, L 18, pag. 1, rettifiche GU 2007, L 301, pag. 28, e L 310, pag.22)
13
distaccato per la durata minima delle ferie annuali retribuite, corrisponda al salario
minimo cui quest’ultimo ha diritto durante il periodo di riferimento.
Link alla versione integrale della sentenza
14
Disposizioni istituzionali
Le valutazioni di impatto destinate a fornire alla Commissione delucidazioni
nell’elaborazione delle sue proposte di atti legislativi, in linea di principio, non sono
accessibili al pubblico prima della divulgazione delle proposte
(Sentenza del Tribunale nella causa T-424/14 e T-425/14 Client Earth/Commissione)
Un organismo senza scopo di lucro che si occupa di tutela dell’ambiente, aveva chiesto
alla Commissione l’accesso a due valutazioni d’impatto inerenti alla politica ambientale
dell’Unione. Poiché tali valutazioni erano destinate ad essere utilizzate nella
preparazione di iniziative legislative in materia ambientale la Commissione ha rifiutato
di concedere l’accesso, in quanto la loro divulgazione rischiava di arrecare grave danno
ai processi decisionali della Commissione, influenzandone la discrezionalità e
riducendone la capacità di trovare dei compromessi.
L’organizzazione ha proposto ricorso dinanzi al Tribunale dell’Unione europea per
ottenere l’annullamento del diniego opposto dalla Commissione.
Il Tribunale ha riconosciuto che, nell’ambito della preparazione ed elaborazione di
proposte politiche (ed eventualmente di proposte di atti legislativi), la Commissione
può invocare motivi di ordine generale derivanti dall’esigenza di preservare il suo
spazio di riflessione, il suo margine di manovra, la sua indipendenza nonché il clima di
fiducia durante le discussioni e, dall’altro, in relazione al rischio di pressioni esterne
che potrebbero incidere sullo svolgimento delle discussioni e dei negoziati in corso. Ne
consegue che la Commissione può presumere che la divulgazione di tali documenti, in
linea di principio, arrechi grave pregiudizio al suo processo decisionale di elaborazione
di una proposta politica, e ciò fintantoché essa non abbia adottato la relativa decisione.
Con sentenza del 13 novembre 2015 il Tribunale ha respinto il ricorso
dell’organizzazione per la difesa dell’ambiente, confermando che la Commissione ha
legittimamente negato l’accesso ai documenti richiesti.
Link alla versione integrale della sentenza
15
Fiscalitá
Il cambio di valuta tradizionale contro unità della valuta virtuale «bitcoin» è esente
da IVA
(Sentenza nella causa C-264/14 Skatteverket / David Hedqvist)
Un cittadino svedese intende fornire servizi consistenti nel cambio di valute tradizionali
nella valuta virtuale «bitcoin» e viceversa. Il «bitcoin» è una valuta virtuale utilizzata
per pagamenti tra privati via internet nonché in taluni negozi online che l’accettano;
gli utenti possono acquistare e vendere tale valuta in base a tassi di cambio. Prima di
iniziare ad avviare tali operazioni, il cittadino ha richiesto un parere preliminare alla
commissione tributaria svedese per sapere se doveva essere versata l’IVA all’acquisto
e alla vendita di unità di «bitcoin». Secondo tale commissione, il «bitcoin» è un mezzo
di pagamento utilizzato in maniera corrispondente a mezzi legali di pagamento e le
operazioni che verrebbero effettuate dovrebbero essere quindi esenti da IVA. Lo
Skatteverket (amministrazione finanziaria svedese), ha proposto ricorso contro la
decisione della commissione tributaria dinanzi allo Högsta förvaltningsdomstolen
(Corte suprema amministrativa), sostenendo che le operazioni non ricadono nelle
esenzioni previste dalla direttiva IVA11.
La Corte suprema amministrativa chiedeva dunque in via pregiudiziale alla Corte, se
tali operazioni siano assoggettate a IVA e, nell’ipotesi affermativa, se siano esenti da
tale imposta.
Nella sentenza del 22 ottobre 2015, la Corte ha statuito che le operazioni di cambio di
valute tradizionali contro la valuta virtuale «bitcoin» (e viceversa) costituiscono
prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso ai sensi della direttiva, dato che esse
consistono nel cambio di diversi mezzi di pagamento. La Corte ha infatti sottolineato
come, nel procedimento principale, la valuta virtuale «bitcoin» non avesse altre finalità
oltre a quella di un mezzo di pagamento e che essa fosse accettata a tal fine da alcuni
operatori.
La Corte afferma anche che tali operazioni sono esenti dall’IVA in forza della
disposizione riguardante le operazioni relative «a divise, banconote e monete con
valore liberatorio». La Corte sottolinea come l’esclusione delle operazioni in oggetto
dalla sfera di applicazione di tale disposizione priverebbe quest’ultima di parte dei suoi
effetti, alla luce della finalità dell’esenzione, che consiste nell’ovviare alle difficoltà
insorgenti nel contesto dell’imposizione delle operazioni finanziarie quanto alla
determinazione della base imponibile e dell’importo dell’IVA detraibile.
Link alla versione integrale della sentenza
11 Direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (GU L 347, pag. 1).
16
Libera circolazione dei lavoratori
La normativa belga che prevede che le conoscenze linguistiche possano essere
dimostrate per mezzo di un unico tipo di certificato non è sono conforme al diritto
UE
(Sentenza nella causa C-317/14, Commissione europea/Regno del Belgio)
Nella causa C-317/13 la Commissione europea aveva citato in giudizio il Regno del Belgio,
ritenendo una violazione del diritto Dell’Unione, il fatto, che tale Stato membro
esigesse dai candidati ai posti nei servizi locali delle regioni di lingua francese o di
lingua tedesca, la dimostrazione delle proprie conoscenze linguistiche per mezzo di un
unico tipo di certificato , qualora dai diplomi o certificati richiesti non risultasse lo
svolgimento dei loro studi in tali lingue. Un solo ente ufficiale belga poteva rilasciare
tale certificato, mediante un esame organizzato da sul territorio nazionale.
Nella sentenza del 5 febbraio 2015 la Corte ha innanzitutto affermato che le norme del
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) ostano a qualsiasi
provvedimento che, seppure applicabile senza discriminazioni basate sulla
cittadinanza, sia idoneo ad ostacolare o a scoraggiare l’esercizio da parte dei cittadini
dell’Unione, delle libertà fondamentali garantite dal Trattato. Certamente, l’articolo 3,
paragrafo 1, secondo comma, del regolamento n.492/201112 relativa alla libera
circolazione dei lavoratori riconosce agli Stati membri il diritto di stabilire le condizioni
relative alle conoscenze linguistiche richieste in relazione alla natura dell’impiego
offerto e il possesso di un diploma che attesti il superamento di un esame di lingua
può costituire un criterio che consente di valutare le conoscenze linguistiche richieste.
Tuttavia, ciò non può pregiudicare la libera circolazione dei lavoratori e i requisiti
imposti dalle misure destinate ad attuare tale diritto non devono in alcun caso essere
sproporzionati rispetto allo scopo perseguito.
Con riferimento alla sentenza Angonese (C-281/98) la Corte ha censurato che il
requisito della prova delle conoscenze linguistiche mediante la presentazione di un
unico tipo di certificato esclude completamente la possibilità di prendere in
considerazione il grado di conoscenze linguistiche tramite un diploma ottenuto in un
altro Stato membro, alla luce della natura e della durata degli studi di cui attesta il
compimento. Inoltre la Corte ha contestato che mediante l’introduzione di un tale
requisito risultino svantaggiati i cittadini degli altri Stati membri che desiderino
candidarsi a un impiego in un servizio locale in Belgio. Tali cittadini sarebbero infatti
costretti a recarsi nel territorio belga al solo fine di far valutare le proprie conoscenze
nell’ambito di un esame indispensabile per il rilascio del certificato richiesto per il
deposito della candidatura. Gli oneri supplementari che una siffatta restrizione
comporta sono tali da rendere più difficile l’accesso agli impieghi di cui trattasi.
Pertanto, la Corte di giustizia è pervenuta alla conclusione che la normativa belga
contrasta con il diritto dell’Unione.
Link alla versione integrale della sentenza
12 Regolamento (UE) n. 492/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 aprile 2011, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione (GU L 141, pag.1).
17
Libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi
Il diritto dell’Unione non osta all’organizzazione di una nuova procedura di gara
volta all’attribuzione, in materia di giochi d’azzardo, di concessioni di durata
inferiore alle precedenti
(Sentenza della Corte nella causa C- 463/13, Stanley International Betting Ltd, Stanleybet Malta
Ltd/Ministero dell’Economia e delle Finanze)
In Italia, l’organizzazione di giochi d’azzardo, compresa la raccolta di scommesse, è
subordinata all’ottenimento di una concessione amministrativa e di un’autorizzazione
di polizia. La società britannica Stanley International Betting e la sua controllata
maltese Stanleybet Malta operano in Italia mediante «Centri di trasmissione di dati»
(«CTD») e, ritenendo di essere state escluse ingiustamente da precedenti gare per
l’ottenimento della concessione amministrativa, hanno chiesto l’annullamento della
gara del 2012 e l’organizzazione di una nuova gara. Esse hanno criticato la durata
delle nuove concessioni (40 mesi), sensibilmente inferiore a quella delle precedenti
(fra nove e dodici anni), nonché il carattere esclusivo dell’attività di
commercializzazione dei prodotti di gioco e il divieto di cessione delle concessioni.
Il Consiglio di Stato ha chiesto alla Corte di giustizia se il diritto dell’Unione ammetta
una normativa nazionale13 che, in ragione di un riordino del sistema volto
all’allineamento delle scadenze delle varie concessioni, preveda l’indizione di una gara
per il rilascio di concessioni di durata inferiore rispetto a quelle rilasciate in passato.
Secondo la Corte la normativa italiana rispetta i principi di parità di trattamento e di
effettività. La Corte, nella sentenza del 22 gennaio 2015, ricorda infatti che le
restrizioni alle attività dei giochi d’azzardo possono essere giustificate da motivi
imperativi di interesse generale (la tutela dei consumatori od anche la prevenzione
delle frodi e dell’incitamento dei cittadini a spese eccessive legate al gioco), nonché
dall’obiettivo della lotta contro la criminalità. In assenza di un’armonizzazione a livello
dell’Unione, il singolo Stato membro può identificare gli obiettivi perseguiti e valutare
le esigenze che la tutela di siffatti interessi comporta.
La Corte ha dichiarato pertanto che, in tale peculiare contesto, il riordino del sistema
delle concessioni attraverso un allineamento temporale delle loro scadenze può
contribuire ad un coerente perseguimento dei legittimi obiettivi della riduzione delle
occasioni di gioco o della lotta contro la criminalità collegata a detti giochi e non va al
di là di quanto necessario per il raggiungimento di tali obiettivi. Nell’ipotesi in cui, in
futuro, le autorità nazionali intendessero ridurre il numero delle concessioni rilasciate
oppure esercitare un controllo più rigoroso sulle attività nel settore dei giochi
d’azzardo, misure di questo tipo sarebbero agevolate laddove tutte le concessioni
fossero rilasciate per la stessa durata e la loro scadenza avvenisse nello stesso
momento.
Di conseguenza, la Corte ha dichiarato che il diritto dell’Unione non osta a che l’Italia
indichi, ai fini di un allineamento temporale delle scadenze delle varie concessioni, una
nuova gara volta all’attribuzione di concessioni aventi durata inferiore rispetto a quelle
rilasciate in passato. Link alla versione integrale dell’ordinanza
13 Decreto legge del 2 marzo 2012, n. 16, convertito con modificazioni dalla legge del 26 aprile 2012, n. 44
18
La Corte di giustizia precisa l’interpretazione di due direttive nel settore degli appalti pubblici
(Sentenza nella causa C-538/14, eVigilo Ltd/Priešgaisrinės apsaugos ir gelbėjimo departamentas prie Vidaus reikalų ministerijos)
Nella causa C-538/13 la Corte di giustizia si è occupata di una domanda di pronuncia
pregiudiziale che la Corte suprema della Lituania aveva presentato nel contesto di una
controversia relativamente alla valutazione delle offerte nell’ambito dell’aggiudicazione
di un appalto pubblico. Sulle domande che riguardavano l’interpretazione delle
direttive 89/665/CEE14 e 2004/18/CE15 la Corte nella sua sentenza del 12 marzo 2015
ha risposto quanto segue:
In linea di principio, è possibile che l’illegittimità della valutazione delle offerte degli
offerenti sia constatata sulla base della sola circostanza che l’aggiudicatario
dell’appalto ha avuto legami significativi con esperti nominati dall’amministrazione
aggiudicatrice che hanno valutato le offerte. La Corte ha sottolineato che l’offerente
escluso in questo caso non è obbligato a provare la parzialità concreta degli esperti.
Spetta all’amministrazione aggiudicatrice esaminare tutte le circostanze rilevanti che
hanno condotto all’adozione della decisione relativa all’aggiudicazione dell’appalto e ad
adottare le misure adeguate al fine di prevenire, di individuare i conflitti di interesse e
di porvi rimedio. Se un’eventuale parzialità degli esperti abbia avuto o meno un
impatto su una decisione di aggiudicazione dell’appalto e se ed in quale misura le
autorità amministrative e giurisdizionali competenti debbano tenerne conto di tale
circostanza, va determinato dal diritto nazionale.
Dall’ altra parte la Corte si è espressa sul termine di decadenza per la proposizione di
un ricorso relativo alla legittimità della gara previsto dal diritto nazionale. A tal
riguardo la Corte ha contestato che un diritto di ricorso relativo alla legittimità della
gara sia azionabile, dopo la scadenza del termine previsto dal diritto nazionale, da un
offerente ragionevolmente informato e normalmente diligente che è stato in grado di
comprendere le condizioni della gara unicamente nel momento in cui l’amministrazione
aggiudicatrice, dopo aver valutato le offerte, ha fornito informazioni esaustive sulle
motivazioni della sua decisione. Un siffatto diritto di ricorso può essere esercitato fino
al momento della scadenza del termine di ricorso avverso la decisione di
aggiudicazione dell’appalto.
Inoltre la Corte ha anche deciso che un’amministrazione aggiudicatrice può utilizzare
quale criterio di valutazione delle offerte depositate dagli offerenti a un appalto
pubblico il grado di conformità di queste ultime con i requisiti indicati nella
documentazione di gara. L’elenco di diversi criteri collegati all’oggetto dell’appalto
pubblico per la valutazione dell’offerta più vantaggiosa, contenuti nella direttiva
2004/18 non è, infatti, tassativo. Pertanto, l’amministrazione aggiudicatrice ha la
facoltà di stabilire altri criteri di aggiudicazione nella misura in cui questi siano
collegati all’oggetto dell’appalto e rispettino i principi di cui all’articolo 2 della direttiva
2004/18.
Link alla versione integrale della sentenza
14 Direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21 dicembre 1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori (GU L 395, pag. 33). 15 Direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi (GU L 134, pag. 114 e rettifica in GU 2005, L 329, pag.40).
19
L’Amministrazione aggiudicatrice non può respingere un’offerta che soddisfa i
requisiti del bando di gara basandosi su motivi non previsti in tale bando
(Sentenza nella causa C-278/14 – SC Enterprise Focused Solutions/Spitalul Județean de Urgență
Alba Iulia)
La causa C-278/14 ha ad oggetto una domanda pregiudiziale relativa
all’interpretazione dell’articolo 23, paragrafo 8 – relativo alle specifiche dei prodotti -
della direttiva 2004/18/CE16. Detta domanda è stata presentata nell’ambito di una
controversia tra la SC Enterprise Focused Solutions SRL (EFS) e lo Spitalul Judetem. In
particolare, lo Spitalul Judetem aveva indetto una gara d’appalto del valore di euro
58.600 in vista della conclusione di un contratto di fornitura di sistemi e di materiali
informatici. I documenti dell’appalto chiarivano, per quanto concerne l’unità centrale
del sistema informatico, che il processore doveva corrispondere “almeno” a un
processore “Intel Core i5 3,2 GHz o equivalente”. L’offerta presentata dall’EFS
comprendeva un processore del marchio AMD e di tipo Quad Core A8-5600KM, dotato
di sei core, con frequenza standard di 3,6 GHz e frequenza “turbo” di 3m9 GHz. Tale
offerta, nonostante fosse pacificamente superiore rispetto al marchio Intel previsto nel
bando, veniva tuttavia esclusa sul presupposto che essa non era conforme alle
specifiche tecniche dell’appalto, atteso che pur essendo il prodotto proposto ancora sul
mercato, la produzione del medesimo era oramai cessata.
L’EFS ha contestato giudizialmente la propria esclusione. La Corte d’Appello Alba Iulia,
adita in seconda istanza sulla questione ha chiesto dunque alla Corte di Giustizia se
l’articolo 23 paragrafo 8 della direttiva 2004/18 potesse essere interpretato nel senso
che quando l’amministrazione aggiudicatrice definisce le specifiche tecniche di un
prodotto di un determinato marchio, le caratteristiche del prodotto proposto come
equivalente debbano essere riferite solo alle caratteristiche dei prodotti che si trovano
attualmente in produzione o possano anche essere riferite ai prodotti esistenti sul
mercato ma la cui produzione è cessata.
Nella sua pronuncia del 16 aprile 2015, la Corte ha innanzitutto affermato la non
applicabilità al caso di specie della direttiva 2004/18 sul presupposto che il valore
dell’appalto risultava essere inferiore rispetto alla soglia rilevante di applicazione di
tale direttiva e pari a euro 200.000. Tuttavia, atteso l’interesse trasfrontaliero del
predetto appalto, la Corte ritiene comunque applicabili al caso di specie le norme
fondamentali e i principi generali del Trattato, segnatamente i principi di parità di
trattamento e di non discriminazione a motivo della nazionalità, nonché l’obbligo di
trasparenza. In tal senso, la Corte ha reinterpretato la questione pregiudiziale alla luce
di detti principi e riformulato il quesito chiedendosi se una amministrazione
aggiudicatrice, che ha definito una specifica tecnica facendo riferimento a un prodotto
di un marchio determinato, possa, in caso di cessata fabbricazione di quest’ultimo
prodotto, modificare tale specifica facendo riferimento al prodotto analogo del
medesimo marchio che è ormai prodotto, le cui caratteristiche sono differenti. A tale
quesito la Corte ha risposto negativamente, atteso che respingere un’offerta che
soddisfa il bando di gara sulla base di motivi non previsti in tale bando costituisce una
violazione dei principi di parità di trattamento e di non discriminazione, nonché
dell’obbligo di trasparenza, che hanno lo scopo di eliminare il rischio di arbitrio.
Link alla versione integrale della sentenza
16 Direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi.
20
La normativa di uno Stato membro non può imporre alle società aventi la qualità di
organismi di attestazione di avere la sede legale nel territorio nazionale
(Sentenza della Corte nella causa C-593/13 – Presidenza del Consiglio dei Ministri e. a./ Rina
Services SPA e. a.)
La sentenza in oggetto trae origine da un ricorso presentato dalla Società SOA Rina
Organismo di Attestazione SPA e dalle sue controllanti volto a contestare la legittimità
dell’articolo 64 paragrafo 1, del DPR 5 ottobre 2010 n. 207 là dove prevede che la
sede legale delle SOA deve essere ubicata nel territorio della Repubblica italiana.
Accolto il ricorso in primo grado sulla base degli articoli 14 e 16 della direttiva
2006/12317, relativi ai principi della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei
servizi, gli appellanti facevano valere in secondo grado che l’attività svolta dalle SOA
partecipa all’esercizio di poteri pubblici ai sensi dell’articolo 51 TFUE e che di
conseguenza è sottratta all’ambito di applicazione sia della direttiva 2006/123 che
degli articoli 49 TFUE e 56 TFUE. Il Consiglio di Stato sospendeva dunque il
procedimento e sottoponeva alla Corte di Giustizia due questioni pregiudiziali. In primo
luogo chiedeva alla Corte se i principi del Trattato sulla libertà di stabilimento (articolo
49 TFUE) e sulla libera prestazione dei servizi (articolo 56 TFUE), nonché quelli di cui
alla direttiva 2006/123, ostino all’adozione e applicazione di una normativa nazionale
che sancisce che per le Società Organismi di Attestazione (SOA) costituite nella forma
di società per azioni, la sede legale deve essere nel territorio nazionale. In secondo
luogo, chiedeva se la deroga all’applicazione dei testé citati principi contenuta nell’art.
51 TFUE debba essere interpretata nel senso di ricomprendere una attività come
quella di attestazione svolta da organismi di diritto privato i quali, da un lato, devono
essere costituiti nella forma delle società per azioni e operano in un mercato
concorrenziale e, dall’altro, partecipano all’esercizio di pubblici poteri e, per questo,
sono sottoposti ad autorizzazione e a stringenti controlli da parte dell’Autorità di
Vigilanza. Nella sua pronuncia del 16 giugno 2015, la Corte ha affrontato innanzitutto
la seconda questione e affermato la non applicabilità dell’articolo 51 TFUE alle attività
di attestazione esercitate dalle SOA, atteso che dette società esercitano le proprie
attività in condizioni di concorrenza, non dispongono di alcun potere decisionale
connesso all’esercizio di poteri pubblici e atteso altresì che le relative attività non
configurano una partecipazione diretta e specifica all’esercizio di pubblici poteri ai
sensi dell’art. 51 TFUE. Quanto alla prima questione, la Corte ha precisato in primo
luogo che i servizi di attestazione sono espressamente menzionati nel testo della
direttiva 2006/123 nell’elenco esemplificativo delle attività oggetto della direttiva e
che l’articolo 14 della stessa direttiva vieta agli Stati di subordinare l’accesso ad
un’attività di servizi o il suo esercizio al requisito del possesso della sede legale in un
determinato territorio. Ha precisato poi che a nulla vale addurre, come fa la
Repubblica Italiana, che il requisito della sede legale nel territorio nazionale sarebbe
giustificato dalla necessità di garantire l’efficacia del controllo esercitato dalle
Amministrazioni pubbliche sulle attività delle SOA, atteso che il divieto dei requisiti
stabiliti dall’art. 14 della direttiva 2006/123 non ammette giustificazioni. Se tali
giustificazioni fossero ammesse, la disposizione de qua sarebbe privata di ogni effetto
utile, pregiudicando l’armonizzazione mirata da essa operata. La Corte ha dunque
concluso statuendo che l’articolo 14 della direttiva 2006/123 deve essere interpretato
17Direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno
21
nel senso che esso osta ad una normativa di uno Stato membro in forza della quale è
imposto alle SOA di avere la loro sede legale nel territorio nazionale.
Link alla versione integrale della sentenza
22
Principi del diritto comunitario
L’installazione di contatori elettrici a un’altezza inaccessibile in un quartiere
densamente popolato da Rom è atta a costituire una discriminazione fondata
sull’origine etnica quando gli stessi contatori sono installati in altri quartieri a
un’altezza normale
(Sentenza nella causa C-83/14, CHEZ Razpredelenie Bulgaria AD/Komisia za zashtita ot
diskriminatsia)
In base alla direttiva sulla parità di trattamento18 è vietata qualsiasi discriminazione
fondata sulla razza o sull’origine etnica. Ciò si riferisce anche all’accesso ai beni e ai
servizi e alla loro fornitura.
In un quartiere di Dupnitsa (Bulgaria), nel quale risiedono prevalentemente persone di
origine rom, l’impresa di distribuzione di energia elettrica ha installato i contatori
elettrici di tutti gli abbonati del quartiere sui pali di cemento della rete della linea
elettrica aerea a un’altezza di 6 o 7 metri. Negli altri quartieri della città (in cui i Rom
non sono così numerosi) i contatori installati dall’azienda sono collocati a un’altezza di
1,70 metri, nella maggior parte dei casi direttamente presso i consumatori o sulla
facciata o sui muri di recinzione. Un’abitante del quartiere, che non è di origine rom,
ha presentato un reclamo presso la Komisia za zashtita ot dikriminatsia (Commissione
per la difesa contro la discriminazione o «KZD»). La KDZ ha accertato che la
reclamante era stata effettivamente vittima di una discriminazione. L’impresa di
distribuzione dell’energia elettrica ha quindi proposto ricorso contro tale decisione
dinanzi alla Corte amministrativa di Sofia, che ha chiesto alla Corte di giustizia se la
prassi contestata costituisca una discriminazione vietata fondata sull’origine etnica.
L’azienda ha affermato dinanzi alla KZD che i danni e gli allacciamenti illegali sono
principalmente opera di persone di origine rom, suggerendo in questo modo che detta
prassi si fondi su stereotipi o pregiudizi di ordine etnico. Inoltre la prassi ha carattere
coatto e generalizzato. La prassi può essere percepita come atta a suggerire che i
residenti di tale quartiere sono considerati nel loro complesso come potenziali autori di
comportamenti illegali. Essa costituisce un trattamento sfavorevole a danno dei
residenti, a causa sia del suo carattere offensivo e stigmatizzante, sia dell’estrema
difficoltà o persino dell’impossibilità per gli interessati di consultare il proprio contatore
elettrico per controllare il consumo.
Nella sentenza del 16 luglio 2015 la Corte rileva, in primo luogo, che il principio della
parità di trattamento si applica non solo alle persone aventi una determinata origine
etnica, ma anche a quelle che, pur non appartenendo all’etnia, subiscono insieme alle
prime un trattamento meno favorevole o uno svantaggio particolare a causa di una
misura discriminatoria. Spetterà tuttavia al giudice nazionale prendere in
considerazione tutte le circostanze in cui viene messa in atto tale prassi al fine di
determinare se essa sia stata effettivamente posta in essere per una ragione di ordine
etnico e costituisca quindi una discriminazione diretta ai sensi della direttiva. La Corte
inoltre sottolinea alcuni aspetti da tenere in considerazione.
18 Direttiva 2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica
23
Qualora il giudice nazionale non ritenga che la prassi controversa costituisca una
discriminazione diretta fondata sull’origine etnica, la Corte osserva che essa potrebbe
costituire, in linea di principio, una discriminazione indiretta. Supponendo che sia stata
posta in essere esclusivamente al fine di contrastare gli abusi commessi in quel
quartiere, tale prassi si baserebbe su criteri apparentemente neutri incidendo in
misura notevolmente maggiore sulle persone di origine rom. Inoltre il giudice
nazionale dovrà esaminare se esistano altre misure appropriate e meno restrittive per
risolvere i problemi riscontrati. Anche se non esistesse nessun’altra misura tanto
efficace quanto la prassi controversa per conseguire i predetti obiettivi, la Corte
dichiara che essa appare sproporzionata rispetto a tali obiettivi e ai legittimi interessi
dei residenti del quartiere.
Link alla sentenza completa.
24
Politica sociale
L’obesità può costituire un “handicap” ai sensi della direttiva sulla parità di
trattamento in materia di occupazione
(Sentenza nella causa C-354/13, Fag og Arbejde (FOA), handelnd für Karsten Kaltoft/
Kommunernes Landsforening (KL), handelnd für die Billund Kommune)
Nella causa C-354/13 la Corte si è occupata di una domanda pregiudiziale che era
stata presentata nell’ambito di una controversia in merito alla legittimità del
licenziamento di un babysitter del Comune di Billund (Danimarca), il sig. Kaltoft.
Considerato che, secondo l’atto di citazione, il licenziamento era fondato sull’obesità
del sig. Kaltoft, il tribunale di Kolding (Retten i Kolding) voleva sapere dalla Corte di
Giustizia, se il diritto dell’Unione vieti in modo autonomo le discriminazioni fondate
sull’obesità. In via subordinata è stato chiesto, se l’obesità possa costituire un
handicap e se rientri nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/78/CE19 sulla
parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
Nella sentenza del 18 dicembre 2014, la Corte ha innanzitutto affermato, che il diritto
dell’Unione in materia di occupazione e condizioni di lavoro non sancisce alcun
principio generale di non discriminazione in ragione dell’obesità in quanto tale. La
Corte è però pervenuta alla conclusione che lo stato di obesità di un lavoratore in
determinate circostanze può ricadere nella nozione di “handicap” ai sensi della
direttiva 2000/78/CE. Ciò vale nel caso in cui tale stato comporti una limitazione,
risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, tale da
ostacolare, in interazione con barriere di diversa natura la piena ed effettiva
partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza
con gli altri lavoratori e se tale limitazione è di lunga durata. Secondo la Corte, una
tale limitazione sussisterebbe in particolare se l’obesità del lavoratore non gli
consentisse di partecipare alla vita professionale in ragione di una mobilità ridotta o
dell’insorgenza, in tale persona, di patologie che le impediscono di svolgere il suo
lavoro o che determinano una difficoltà nell’esercizio della sua attività professionale.
Spetta al giudice nazionale determinare se l’obesità del sig. Kaltoft rientri nella
definizione di “handicap”.
Link alla versione integrale della sentenza
19 Direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GU L 303, pag. 16).
25
La Corte precisa le condizioni in presenza delle quali un lavoratore può essere
qualificato come lavoratore frontaliero in disoccupazione parziale
(Sentenza della Corte nella causa C-655/13, H.J. Mertens/Raad van bestuur het
Uitvoeringsinstituut werknemersverzekeringen)
L’articolo 71, paragrafo 1, del regolamento (CEE) n. 1408/7120 disciplina
l’individuazione dello Stato membro competente a concedere prestazioni di
disoccupazione, distinguendo tra lavoratore frontaliero in disoccupazione parziale e
lavoratore frontaliero in disoccupazione completa. A tal riguardo, il lavoratore
frontaliero in disoccupazione parziale è tenuto a richiedere le prestazioni di
disoccupazione nello Stato membro in cui si trova il suo posto di lavoro, mentre il
lavoratore frontaliero in disoccupazione completa beneficia delle disposizioni della
legislazione dello Stato membro in cui risiede.
La domanda di pronuncia pregiudiziale in questione è stata sottoposta nell’ambito di
una controversia fra la sig.ra Mertens e l’autorità olandese competente in materia di
gestione delle assicurazioni per i lavoratori subordinati (Uwv), relativamente al rifiuto
da parte di quest’ultima di concedere prestazioni di disoccupazione all’interessata. La
Uwv ha ritenuto che la sig.ra Mertens dovesse essere considerata come lavoratore
frontaliero parzialmente disoccupato e che, pertanto, dovesse presentare una
domanda diretta ad ottenere prestazioni di disoccupazione nello Stato membro in cui
si trova il suo posto di lavoro, ossia in Germania.
Il Centrale Raad van Beroep ha considerato opportuno sottoporre alla Corte una
questione pregiudiziale in cui chiedeva se, ai sensi dell’articolo 71 del regolamento n.
1408/71, un lavoratore frontaliero, il quale subito dopo la cessazione di un rapporto di
lavoro a tempo pieno presso un datore di lavoro in uno Stato membro venga assunto
da un altro datore di lavoro nello stesso Stato membro per un numero di ore inferiore,
possa essere considerato come un lavoratore frontaliero in disoccupazione parziale.
Nella sentenza del 5 febbraio 2015, la Corte ha risposto in maniera affermativa,
rigettando la tesi sostenuta dalle autorità tedesche competenti e dichiarando, invece,
che una situazione di disoccupazione completa implica necessariamente che il
lavoratore interessato abbia totalmente cessato di lavorare. A tal riguardo, la Corte ha
specificato che è priva di pertinenza la circostanza che l’impresa che aveva assunto la
sig.ra Mertens nel quadro di un contratto di lavoro a tempo pieno non sia la stessa che
l’ha assunta, successivamente, nel contesto di un contratto di lavoro a tempo parziale.
Sulla base di tali considerazioni, la Corte ha concluso che l’articolo 71, paragrafo 1,
lettera a), i), del regolamento (CEE) n. 1408/71 del Consiglio, del 14 giugno 1971,
deve essere interpretato nel senso che un lavoratore frontaliero, il quale, subito dopo
la cessazione di un rapporto di lavoro a tempo pieno presso un datore di lavoro in uno
Stato membro, è assunto a tempo parziale da un altro datore di lavoro in tale
medesimo Stato membro, ha la qualità di lavoratore frontaliero in disoccupazione
parziale.
Link alla versione integrale della sentenza
20 Regolamento (CEE) n.1408/71 del Consiglio, del 14 giugno 1971, relativo all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati, ai lavoratori autonomi e ai loro familiari che si spostano all’interno della Comunità
26
Il computo dei periodi di studio del sistema pensionistico austriaco è compatibile
con il principio di non discriminazione
(Sentenza della Corte nella causa C-529/13, Georg Felber/Bundesministerium für Unterricht,
Kunst und Kultur)
Oggetto del procedimento di specie era la possibilità di prendere in considerazione
periodi di studi svolti prima del diciottesimo anno di età per il computo della pensione
di un dipendente pubblico in relazione alla direttiva 2000/78/CE sulla parità di
trattamento ed, in particolare riguardo al divieto di discriminazione in funzione
dell’età. La normativa nazionale sul computo della pensione non contrasta con questa
direttiva, se da un lato é oggettiva, proporzionata e giustificata da un obiettivo
legittimo, e dall’altro lato sia uno strumento congruo e necessario per il
raggiungimento di tale obiettivo.
La sentenza della Corte di giustizia si basa su un procedimento amministrativo del
Landesschulrat für Salzburg (provveditorato agli studi per il Land Salisburgo) relativo
ad un professore, funzionario del servizio dello Stato federale dal 1991, al quale con
decisione adottata nel 1992 erano stati determinati i periodi assimilabili ai fini
pensionistici precedenti all’entrata in servizio nell’amministrazione. A tal fine erano
stati presi in considerazione i periodi di formazione e di attività svolti successivamente
al compimento del diciottesimo anno di età , ma non i tre anni di studi svolti
precedentemente. Il professore di scuola media ha quindi chiesto di tenere in
considerazione questo periodo o almeno di avere la possibilità di riscattarlo. Il
Landesschulrat Salzburg, considerato che l’assunzione era avvenuta prima del 1
maggio 1995 e quindi ricadeva nella previsione di cui all’articolo 88, comma 1 della
legge relativa ai diritti pensionistici, in prima istanza ha respinto la sua domanda. La
Corte amministrativa, che si é occupata in ultima istanza della questione, ha deciso di
sospendere il processo e di sottoporre alla Corte di giustizia una domanda
pregiudiziale. Nella sentenza del 21 gennaio 2015 la Corte risponde preliminarmente in
modo affermativo per quanto riguarda l’applicabilità della direttiva 2000/78/CE sulle
pensioni di dipendenti pubblici austriaci, che ai sensi del diritto austriaco costituiscon
una retribuzione nell’ambito di un rapporto di servizio di diritto pubblico che permane
anche dopo il pensionamento del dipendente. Di conseguenza la Corte ha dichiarato,
che la normativa austriaca costituisce una discriminazione in ragione all’età in quanto
persone che concludono la loro formazione prima del compimento del diciottesimo
anno di età non possono computare tale periodo ai fini pensionistici. Nell’art. 6 comma
1 della direttiva 2000/78/CE sono però previste possibili cause che possono
giustificare tale discriminazione, la cui sussistenza viene confermato dalla Corte. Per
quanto riguarda la legittimità, la Corte osserva che, per la determinazione di obiettivi
e strumenti nei settori delle politiche sociali e occupazionali, gli Stati membri hanno
un’ampia discrezionalità. Inoltre, bisogna tenere in considerazione che la normativa
austriaca è una normativa eccezionale, che punta ad uniformare il momento d’inizio
delle prestazioni dei contributi pensionistici. La normativa è quindi oggettiva,
proporzionata e persegue un obiettivo legittimo. Per quanto riguarda invece la
congruità e la necessità dello strumento utilizzato, la Corte di giustizia fa presente che,
per poter entrare nel servizio pubblico, bisogna avere un’età minima di 18 anni.
L’esclusione di periodi di studio svolti prima del compimento del diciottesimo anno di
età è quindi una misura idonea a consentire a tutte le persone di iniziare a versare
contributi alla stessa età. Tale normativa non è sproporzionata, in quanto anche per i
periodi si studio svolti dopo il compimento del diciottesimo anno di età è previsto un
27
contributo se questi devono essere presi in considerazione per il computi della
pensione. A causa della funzione compensatoria di tali pagamenti e considerata
l’ampio margine discrezionale riconosciuto agli Stati membri nei settori delle politiche
sociali e occupazionali, la Corte è pervenuta alla conclusione che lo strumento sia
appropriato e non supera lo stretto necessario per il conseguimento di tale finalità.
Link alla versione integrale della sentenza
28
Il Lussemburgo non protegge sufficientemente i lavoratori saltuari dello spettacolo
(Sentenza della Corte nella causa C-238/14, Commissione/Lussemburgo)
Nella causa 238/14 la Corte di giustizia ha deciso che il Granducato di Lussemburgo
non protegge sufficientemente i lavoratori dello spettacolo dall’utilizzo abusivo di una
successione di contratti a tempo determinato. L’obbligo della protezione di abusi
dall’utilizzo di contratti a breve durata è previsto nell’accordo quadro sul lavoro a
tempo determinato nell’allegato alla direttiva 1999/70/CE.21
Nella summenzionata direttiva, che rappresenta il fondamento legislativo dell’ obbligo
degli Stati membri di proteggere dall’utilizzo abusivo di contratti a tempo determinato,
viene preso in considerazione il fatto che il beneficio della stabilità dell’impiego è
inteso come un elemento portante della tutela dei lavoratori mentre i contratti di
lavoro a tempo determinato possono essere giustificati soltanto in alcune circostanze.
L’accordo quadro concede però agli Stati membri la discrezionalità, di raggiungere,
questo obiettivo mediante l’implementazione delle misure previste dell’accordo oppure
applicando norme giuridiche già esistenti. Sussiste però la possibilità di prevedere
delle eccezioni per certi settori o categorie dei lavoratori, se questo può essere
giustificato, cioè se sussiste una “ragione obiettiva.”
In linea di principio il Lussemburgo ha rispettato l’accordo quadro, in quanto la durata
di contratti a tempo determinato non può superare per un medesimo dipendente, i 24
mesi, inclusi i rinnovi. Per i lavoratori saltuari dello spettacolo il Granducato ha però
approfittato della possibilità di prevedere un’eccezione per certi settori e previsto che
tali contratto a tempo determinato possano essere rinnovati più di due volte, anche
per una durata totale superiore ai 24 mesi. Il Lussemburgo giustifica questa previsione
sulla base del fatto che i lavoratori saltuari dello spettacolo partecipano a progetti
singoli e circoscritti nel tempo, per cui le esigenze provvisorie dei datori di lavoro in
materia di assunzione costituiscono una “ragione obiettiva “che giustifica il rinnovo dei
contratti a tempo determinato.
Tale impostazione non è stata condivisa dalla Commissione europea che quindi ha
avviato un procedimento d’infrazione ai sensi dell’art. 258 TFUE. Concretamente ha
contestato il mancato chiarimento delle ragioni per cui la normativa lussemburghese
esige che i lavoratori saltuari dello spettacolo esercitino attività di natura temporanea.
La Corte nella sua sentenza del 26 febbraio 2015 ha accolto l’argomentazione della
Commissione, in quanto la nozione di “ragioni obiettive” si riferisce a circostanze
precise e concrete, mentre regole nazionali generali ed astratte non corrispondono a
questo presupposto. Da una tale norma formale si possono trarre alcuni criteri
oggettivi e trasparenti per esaminare se un prolungamento di tali contratti corrisponda
effettivamente ad una vera esigenza e se sia adeguato e necessario per il
raggiungimento dell’obiettivo perseguito. Il Lussemburgo non è stato infatti in grado di
provare la sussistenza di queste circostanze per tutto il settore interessato.
Pertanto, la Corte ha concluso che il Lussemburgo è venuto meno agli obblighi ad esso
incombenti in virtù dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, in quanto ha
mantenuto alcune deroghe alle disposizioni volte a prevenire un utilizzo abusivo di una
successione di contratti di lavoro a tempo determinato. Link alla versione integrale
della sentenza
21 Direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato (GU L 175, pag. 43).
29
Uno Stato membro non può esigere un nuovo periodo contributivo di sei mesi
preliminare all’ottenimento del diritto a un’indennità di maternità per il solo fatto
che la lavoratrice interessata ha cambiato status lavorativo o lavoro
(Sentenza nella causa C-65/14, C. Roselle/Institut national d’assurance maladie –invalidité e.a.)
Nell’ambito di una controversia tra la sig.ra Rosselle, da un lato, e l’Institut national
d’assurance maladie-invalidité (Istituto nazionale di assicurazione malattia-invalidità)
(INAMI) e l’Union nationale des mutualités libres (Unione nazionale delle mutue
autonome) (UNM), dall’altro, avente ad oggetto il rifiuto di versare alla predetta
signora Rosselle un’indennità di maternità atteso che la stessa non avrebbe maturato
il periodo contributivo minimo previsto dal diritto nazionale, il Tribunal du Travail
Nivelles (Tribunale di lavoro Nivelles) ha presentato una domanda di pronuncia
pregiudiziale relativa all’interpretazione delle direttive 92/85/CEE22 e 2006/548/CE23. A
tal riguardo il giudice di rinvio ha rilevato che la normativa belga prevede, nell’ipotesi
di dimissioni o di licenziamento del dipendente pubblico, una dispensa dal periodo
contributivo minimo necessario per percepire talune prestazioni sociali. Per contro, non
è data siffatta dispensa nell’ipotesi di un dipendente pubblico messo in aspettativa per
motivi personali, in particolare per quanto concerne la prestazione relativa al congedo
di maternità. Pertanto il giudice di rinvio ha chiesto alla Corte di giustizia, se il diritto
dell’Unione debba essere interpretato nel senso che esso osta a che uno Stato
membro rifiuti di corrispondere a una lavoratrice un’indennità di maternità in quanto
essa, come dipendente pubblica che ha ottenuto una messa in aspettativa per motivi
personali al fine di esercitare un’attività lavorativa subordinata nel settore privato, non
ha maturato, nell’ambito di quest’ultima attività, il periodo contributivo minimo
previsto dal diritto nazionale per fruire della predetta indennità di maternità, sebbene
abbia lavorato per più di dodici mesi immediatamente prima della data presunta del
suo parto.
La Corte nella sua sentenza del 21 maggio 2015 innanzitutto ha rilevato che – secondo
la sua giurisprudenza costante, il diritto al congedo di maternità riconosciuto alle
lavoratrici gestanti va considerato come un mezzo di protezione del diritto sociale che
riveste un’importanza particolare. Per garantire alle lavoratrici l’esercizio dei diritti di
protezione della sicurezza e della salute, la direttiva 92/58 prevede che nell’ipotesi del
congedo di maternità, devono essere assicurati il mantenimento di una retribuzione
e/o il versamento di un’indennità adeguata alle lavoratrici. La Corte ha anche
constatato che la direttiva 92/58 concerne tutti i settori d’attività, privati o pubblici, e
che la definizione «lavoratore» si riferisce a qualsiasi persona impiegata da un datore
di lavoro, compresi i tirocinanti e gli apprendisti, ad esclusione dei domestici. Inoltre, i
«periodi di lavoro preliminare» di cui all’articolo 11, punto 4, secondo comma, della
direttiva 92/85 non possono essere limitati al solo impiego occupato prima della data
presunta del parto. Tali periodi di lavoro devono essere intesi nel senso che essi
comprendono i diversi impieghi occupati in successione dalla lavoratrice interessata
prima di tale data, ivi inclusi quelli svolti per differenti datori di lavoro e con status
diversi. Pertanto, la Corte ha concluso che uno Stato membro non può esigere un
22 Direttiva 92/85/CEE del Consiglio, del 19 ottobre 1992, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento (decima direttiva particolare ai sensi dell’articolo 16, paragrafo 1 della direttiva 89/391/CEE). 23 Direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego.
30
nuovo periodo contributivo di sei mesi preliminare all’ottenimento del diritto a
un’indennità di maternità per il solo fatto che la lavoratrice interessata ha cambiato
status lavorativo o lavoro. Esigere un periodo contributivo minimo distinto a ogni
cambiamento di status lavorativo o di lavoro equivarrebbe a rimettere in discussione
la tutela minima prevista all’articolo 11, punto 2, della direttiva 92/85 e pertanto la
normativa belga non è compatibile con il diritto dell’Unione.
Link alla versione integrale della sentenza
31
La Corte chiarisce la nozione di “stabilimento” in materia di licenziamenti collettivi
(Sentenza della Corte nella causa C-80/14, Union of Shop, Distributive and Allied Workers
(USDAW) und B. Wilson/WW Realisation 1 Ltd (in Liquidation), Ethel Austin Ltd and Secretary of
state for Business, Innovation and Skills)
Nel contesto di una controversia in merito alla legittimità dei licenziamenti, la Court of
Appeal (England & Wales) (Civil Division) (Regno Unito), ha presentato una domanda
di pronuncia pregiudiziale che verteva sull’interpretazione della direttiva 98/59/CE24.
Tale direttiva prevede l’obbligo del datore di lavoro che intende effettuare un
licenziamento di procedere in tempo utile a consultazioni con i rappresentanti dei
lavoratori al fine di giungere ad un accordo. Per “licenziamenti collettivi” ai sensi della
direttiva si intende, tra l’altro, ogni licenziamento effettuato da un datore di lavoro per
uno o più motivi non inerenti alla persona del lavoratore , se il numero dei
licenziamenti effettuati è almeno pari a venti su un periodo di 90 giorni
indipendentemente dal numero dei lavoratori abitualmente occupati negli stabilimenti
interessati.
Nella causa C-80/14 il giudice di rinvio voleva sapere, se l’espressione “almeno pari a
20” contenuta nella direttiva si riferisca al numero di licenziamenti effettuati
nell’insieme degli stabilimenti del datore di lavoro in cui hanno luogo i licenziamenti
nel corso di un periodo di 90 giorni, o se invece si riferisca unicamente al numero di
licenziamenti effettuati in ciascun singolo stabilimento. Inoltre, il giudice ha chiesto
alla Corte di spiegare il significato della nozione di stabilimento e di chiarire se essa
comprenda l’insieme delle attività commerciali al dettaglio, considerandole come una
sola unità economica e commerciale, oppure l’unità alla quale i lavoratori interessati
sono addetti per lo svolgimento delle loro mansioni, vale a dire ciascun singolo
negozio.
Nella sua sentenza del 30 aprile 2015 la Corte ha dichiarato anzitutto che la nozione di
“stabilimento”, che non è precisata nella direttiva stessa, costituisce una nozione di
diritto dell’Unione, che quindi deve ricevere un’interpretazione uniforme in tutti gli
Stati membri. Qualora un’impresa ricomprenda più entità, è l’entità cui i lavoratori
colpiti da licenziamento sono addetti per lo svolgimento delle loro mansioni a costituire
lo “stabilimento”. Per l’interpretazione dell’espressione “almeno pari a 20“ devono
pertanto essere presi in considerazione i licenziamenti effettuati in ciascuno
stabilimento considerato separatamente. Gli Stati membri hanno però la possibilità di
adottare norme più favorevoli ai lavoratori che vanno oltre la tutela minima prevista
dalla direttiva.
Di conseguenza la Corte è pervenuta alla conclusione che la direttiva 98/59/EC non
osti a una normativa nazionale che preveda un obbligo di informazione e di
consultazione dei lavoratori quando il licenziamento riguarda, nel corso di un periodo
di 90 giorni, almeno 20 lavoratori di un particolare stabilimento di un’impresa e non
invece quando il numero complessivo di licenziamenti in tutti gli stabilimenti o in taluni
stabilimenti di un’impresa nel corso del medesimo periodo raggiunge o supera la soglia
di 20 lavoratori.
Link alla versione integrale della sentenza
24 Direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi.
32
Impedendo ai dipendenti pubblici di sesso maschile, la cui moglie non lavori, di
avvalersi del congedo parentale, la normativa ellenica è contraria al diritto
dell’Unione
(Sentenza nella causa C-222/14, Konstantinos MaÏstrellis /Ministero per la Giustizia, Trasparenza e
i Diritti umani)
Il diritto ellenico prevede che un dipendente pubblico di sesso maschile non abbia
diritto al congedo parentale retribuito se la moglie non lavora. Fa eccezione a questo
principio il caso in cui la stessa, a causa di grave malattia o disabilità, venga
considerata non in grado di accudire prole. Un magistrato greco chiedeva alla fine del
2010 un congedo parentale retribuito di nove mesi per prendersi cura del figlio nato il
24 ottobre 2010. Il Ministro ellenico competente (Ministro della Giustizia, della
Trasparenza e dei Diritti dell’Uomo) respingeva la richiesta con la motivazione che la
moglie del magistrato all’epoca non lavorava.
Il cittadino greco proponeva quindi ricorso al Consiglio di Stato (Symvoulio tis
Epikrateias). Questo domandava alla Corte di giustizia, se negare il beneficio del
congedo parentale ai dipendenti pubblici di sesso maschile la cui moglie non lavori sia
conforme alla direttiva sul congedo parentale25 e alla direttiva sulla parità di
trattamento in materia di occupazione26.
Con la sentenza di data 16 luglio 2015, la Corte ha chiarito nella sentenza della causa
C-222/14 che la normativa greca oggetto della causa è in contrasto con entrambe le
direttive citate.
In primo luogo la Corte ricorda che, ai sensi della direttiva sul congedo parentale,
ciascun genitore è titolare individualmente del diritto al congedo parentale. Si tratta di
una prescrizione minima alla quale non si può derogare in nessun caso, né attraverso
provvedimenti legislativi né attraverso convenzioni collettive. Ne deriva che un
genitore non può, sotto alcuna condizione, essere privato del diritto al congedo
parentale. Anche la situazione professionale del coniuge non può quindi ostare
all’esercizio di tale diritto. Una soluzione del genere è conforme all’obiettivo della
direttiva sul congedo parentale, che è quello di agevolare la conciliazione delle
responsabilità professionali e familiari dei genitori che lavorano. Inoltre essa rafforza la
qualità, riconosciuta dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, di diritto
sociale fondamentale al diritto al congedo parentale.
In secondo luogo la Corte rileva che le madri che hanno lo status di dipendente
pubblico possono beneficiare del congedo parentale, indipendentemente dalla
situazione professionale del coniuge. La mera qualità di genitore quindi, se è
sufficiente a consentire alle donne dipendenti pubblici di avvalersi di tale congedo, non
lo è per gli uomini aventi il medesimo status. Ne deriva che il codice ellenico del
pubblico impiego istituisce, nei confronti dei padri dipendenti pubblici che intendano
avvalersi del congedo parentale, una discriminazione diretta fondata sul sesso
contraria alla direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione.
Link alla versione integrale della sentenza
25 Direttiva 96/34/CE del Consiglio, del 3 giugno 1996, concernente l’accordo quadro sul congedo parentale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES (GU L 145, pag. 4), come modificata dalla direttiva 97/75/CE del Consiglio, del 15 dicembre 1997 (GU 1998, L 10, pag. 24). 26 Direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (GU L 204, pag. 23).
33
Uno Stato membro può escludere da talune prestazioni sociali, di carattere non
contributivo, cittadini dell’Unione che vi si recano per trovare lavoro
(Sentenza della Corte nella causa C-64/14, obcenter Berlin Neukölln / Nazifa, Sonita, Valentina e
Valentino Alimanovic)
Gli stranieri che giungono in Germania per ottenere un aiuto sociale o il cui diritto di soggiorno è
giustificato solo dalla ricerca di un lavoro sono esclusi dalle prestazioni
dell’assicurazione di base tedesca, che mirano segnatamente a garantire il
sostentamento dei beneficiari (p.e.: sussidi di disoccupazione). Nella causa pendente
fra un centro per il lavoro tedesco (competente per il pagamento di tali prestazioni) e
cittadini svedesi, la domandava verteva sul fatto che tale esclusione fosse legittima
anche per quanto riguarda cittadini dell'Unione che si siano recati nel territorio di uno
Stato membro ospitante per cercare lavoro e che vi abbiano già lavorato per un certo
tempo, laddove tali prestazioni sono garantite ai cittadini dello Stato membro
ospitante che si trovino nella stessa situazione.
Nella sua sentenza del 15 settembre 2015, la Corte ha dichiatato che il fatto di
rifiutare ai cittadini dell'Unione, il cui diritto di soggiorno nel territorio di uno Stato
membro ospitante è giustificato unicamente dalla ricerca di un lavoro, il beneficio di
talune «prestazioni speciali in denaro di carattere non contributivo», le quali sono
altresì costitutive di una «prestazione d’assistenza sociale», non è contrario al principio
della parità di trattamento.
La Corte ricorda che, per poter accedere a prestazioni di assistenza sociale come
quelle oggetto della presente causa, un cittadino dell’Unione può richiedere la parità di
trattamento rispetto ai cittadini dello Stato membro ospitante solo se il suo soggiorno
sul territorio dello Stato membro ospitante rispetta i requisiti di cui alla direttiva sulla
cittadinanza dell’Unione27. Nel caso di specie due sono le alternative possibili:
- se un cittadino dell'Unione che ha beneficiato di un diritto di soggiorno in quanto
lavoratore si trova in stato di disoccupazione involontaria dopo aver lavorato per un
periodo inferiore a un anno e si è fatto registrare in qualità di richiedente lavoro
presso l’ufficio di collocamento, egli conserva lo status di lavoratore e il diritto di
soggiorno per almeno sei mesi. Per tutto questo periodo, può avvalersi del principio
della parità di trattamento e del diritto a prestazioni di assistenza sociale;
- se un cittadino dell'Unione non ha ancora lavorato nello Stato membro ospitante o il
periodo di sei mesi è scaduto, questo cittadino, in quanto richiedente lavoro, non può
essere allontanato da tale Stato membro fintantoché possa dimostrare che continua a
cercare lavoroe che ha reali possibilità di essere assunto. In tal caso, lo Stato membro
ospitante può tuttavia rifiutare qualsiasi prestazione di assistenza sociale.
Infine, la Corte ricorda che uno Stato membro, prima di adottare una misura di
allontanamento o di stabilire che una persona costituisce un onere eccessivo per il
sistema di assistenza sociale nell’ambito del suo soggiorno, deve prendere in conto la
situazione individuale della persona interessata. Tuttavia, la Corte sottolinea che, in un
caso come quello di cui trattasi nella fattispecie, un siffatto esame individuale non è
27 Direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE (GUL 158, pag. 77 e rettifiche in GU 2004, L 229, pag. 35, e GU 2005, L 197, pag. 34).
34
necessario, poiché il sistema graduale di mantenimento dello status di lavoratore
previsto nella direttiva sulla cittadinanza dell’Unione (sistema che mira a tutelare il
diritto di soggiorno e l’accesso alle prestazioni sociali) prende esso stesso in
considerazione diversi fattori che caratterizzano la situazione individuale del
richiedente una prestazione sociale.
Link alla versione integrale della sentenza
35
Gli spostamenti effettuati dai lavoratori senza luogo di lavoro fisso o abituale tra il
loro domicilio ed il primo o l’ultimo cliente della giornata costituiscono orario di
lavoro
(Sentenza nella causa C-266/14 Federación de Servicios Privados del sindicato Comisiones obreras
(CC.OO.)/ Tyco Integrated Security SL et Tyco Integrated Fire & Security Corporation Servicios SA)
L’orario di lavoro è definito come qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a
disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni,
conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali. Ogni periodo che non viene
considerato orario di lavoro, vale quale periodo di riposo28.
Un’azienda spagnola, che si occupa di installazione e manutenzione di sistemi di
sicurezza antifurto, nel 2011 ha chiuso i suoi uffici regionali e trasferito tutti i
dipendenti presso la sede centrale. I dipendenti svolgono le loro mansioni presso
abitazioni cosí come presso locali industriali e commerciali siti nella zona territoriale di
loro competenza, sebbene non abbiano un luogo di lavoro fisso. I lavoratori
dispongono ciascuno di un veicolo di servizio per spostarsi quotidianamente dal loro
domicilio verso i diversi luoghi di lavoro e per ritornare al loro domicilio alla fine della
giornata. Per l’espletamento delle loro mansioni, i lavoratori dispongono ciascuno di un
telefono cellulare che consente loro di comunicare a distanza con l’ufficio centrale. Alla
vigilia della loro giornata di lavoro, i lavoratori ricevono una tabella di viaggio che
elenca i vari luoghi nei quali dovranno recarsi nel corso della giornata, nell’ambito
della loro zona territoriale, e gli orari degli appuntamenti con i clienti. L’azienda
considera il tempo di spostamento «domicilio-clienti» (ossia gli spostamenti quotidiani
tra il domicilio dei lavoratori ed i luoghi in cui si trovano il primo e l’ultimo cliente
indicati dall’azienda) non come orario di lavoro, ma come periodo di riposo. Prima
della chiusura degli uffici regionali, l’azienda conteggiava tuttavia l’orario di lavoro
quotidiano dei dipendenti a partire dall’ora di arrivo nell’ufficio (quando i dipendenti
prendevano possesso del veicolo messo a loro disposizione, dell’elenco dei clienti da
cui recarsi e della tabella di viaggio), sino all’ora del loro rientro, la sera, nell’ufficio
(quando i dipendenti vi lasciavano il veicolo).
Il tribunale nazionale adito nella causa principale chiedeva in via pregiudiziale alla
Corte europea, se il tempo che i lavoratori impiegano per spostarsi ad inizio ed a fine
giornata debba essere considerato come orario di lavoro ai sensi della direttiva
2003/88/CE.
La Corte ritiene che i lavoratori che si trovano in tale situazione stiano esercitando le
loro attività o le loro funzioni durante l’intera durata di tali spostamenti. Gli
spostamenti dei lavoratori verso i clienti indicati dal loro datore di lavoro costituiscono
lo strumento necessario per l’esecuzione delle loro prestazioni tecniche nel luogo in cui
si trovano tali clienti. I lavoratori sono inoltre a disposizione del datore di lavoro
durante i tempi di spostamento. Infatti, durante tali spostamenti, i lavoratori sono
sottoposti alle direttive del loro datore di lavoro, che può modificare l’ordine dei clienti
oppure annullare o aggiungere un appuntamento. La Corte considera inoltre che i
lavoratori siano al lavoro durante gli spostamenti. Se un lavoratore che non ha più un
luogo di lavoro fisso esercita le sue funzioni durante lo spostamento che effettua verso
28 Direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro (GU L 299, pag. 9).
36
un cliente od in provenienza da questo, egli deve essere considerato come al lavoro
anche durante tale tragitto. Infatti, poiché gli spostamenti sono intrinseci alla qualità
di un siffatto lavoratore, il luogo di lavoro di quest’ultimo non può essere ridotto ai
luoghi del suo intervento fisico presso i clienti del datore di lavoro.
Link alla versione integrale della sentenza
37
La direttiva sul mantenimento dei diritti dei lavoratori si applica alle imprese
pubbliche che pongano termine al contratto con il quale avevano esternalizzato un
determinato servizio e che decidano di gestire tali attività con proprio personale
(Sentenza nella causa C-509/14, Administrador de Infraestructuras Ferroviarias (ADIF)/Luis Aira
Pascual)
La direttiva 2001/23/CE disciplina il mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di
trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti e si applica ai
trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti ad un
nuovo imprenditore in seguito a cessione contrattuale o a fusione.
Nel Regno di Spagna un’impresa pubblica incaricata di prestare il servizio di
movimentazione delle unità di trasporto intermodale nel terminal di Bilbao (Spagna)
ha esternalizzato la gestione di detto servizio, attribuendolo ad altra società alla quale
ha anche trasferito alcuni dei propri dipendenti. Successivamente ha deciso che non
intendeva prorogare il contratto poiché avrebbe fornito essa stessa, con il proprio
personale, il servizio di cui trattasi e ha altresì comunicato alla società
precedentemente incaricata che rifiutava di essere surrogata nei diritti e negli obblighi
di quest’ultima nei confronti del proprio personale. Quest'ultima ha proceduto di
conseguenza al licenziamento collettivo per motivi economici di vari lavoratori.
Il Tribunal Superior de Justicia de la Comunidad Autónoma del País Vasco ha chiesto
alla Corte di giustizia se rientri nell’ambito di applicazione della direttiva una situazione
in cui un’impresa pubblica, incaricata di esercitare un’attività economica di
movimentazione di unità di trasporto intermodale, affidi, con un contratto di gestione
di servizi pubblici, la gestione di tale attività a un’altra impresa, mettendo a
disposizione di quest’ultima le infrastrutture e le attrezzature necessarie di cui essa è
proprietaria, e in seguito decida di porre termine a tale contratto senza riassumere il
personale di quest’ultima impresa, gestendo in futuro essa stessa detta attività con il
proprio personale.
Nella sentenza del 26 novembre 2015, la Corte rileva che, conformemente all’articolo
1, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2001/23, perché quest’ultima sia applicabile,
il trasferimento deve riguardare un’entità economica che conserva la propria identità,
intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia
essa essenziale o accessoria. Per quanto concerne la mancata riassunzione del
personale, ciò non consente di escludere che l’entità economica in esame nel
procedimento principale abbia mantenuto la propria identità e quindi di escludere
l’esistenza di un trasferimento d’impresa ai sensi della medesima direttiva. Spetta al
giudice del rinvio accertare, tenendo conto del complesso delle circostanze di fatto che
caratterizzano l’operazione di cui trattasi, l’esistenza o meno di un trasferimento
d’impresa nel procedimento principale.
La Corte risponde pertanto alla domanda posta in via pregiudiziale statuendo che, le
situazioni assimilabili a quella del procedimento principale rientrano nel campo di
applicazione della direttiva 2001/23.
Link alla versione integrale della sentenza
38
La risoluzione di un contratto di lavoro in seguito al rifiuto da parte del lavoratore di
acconsentire a una modifica unilaterale e sostanziale, a suo svantaggio, degli
elementi essenziali di tale contratto costituisce un licenziamento ai sensi della
direttiva sui licenziamenti collettivi
(Sentenza nella causa C-422/14 Cristian Pujante Rivera / Gestora Clubs Dir, SL e Fondo de Garantía
Salarial)
La direttiva 98/59/CE 29 stabilisce che, per determinare l’esistenza di un licenziamento
collettivo, ai fini del calcolo del numero dei licenziamenti, sono assimilate a questi le
cessazioni del contratto di lavoro verificatesi per iniziativa del datore di lavoro per una
o più ragioni non inerenti alla persona del lavoratore, purché i licenziamenti siano
almeno cinque.
Nel periodo compreso tra il 16 e il 26 settembre 2013, una società spagnola (che
impiega 126 dipendenti) ha proceduto a 10 licenziamenti individuali per ragioni
oggettive, tra cui quello dell’appellante. Nei 90 giorni precedenti e successivi all’ultimo
di tali licenziamenti per ragioni oggettive, hanno avuto luogo altre 27 risoluzioni
contrattuali, dovute a cause diverse (come, in particolare, la scadenza dei contratti o
la cessazione volontaria da parte dei lavoratori). Tali cessazioni ricomprendono altresì
quella di una lavoratrice che ha acconsentito alla risoluzione consensuale del contratto
dopo essere stata informata della modifica delle proprie condizioni di lavoro e la quale
l’azienda ha in seguito risarcito.
Secondo la legge spagnola, nelle imprese che occupano fra 100 e 300 lavoratori, per
«licenziamento collettivo» s’intende la risoluzione di contratti di lavoro per cause
oggettive, qualora, nell’arco di un periodo di 90 giorni, tale risoluzione riguardi almeno
il 10 % del numero di lavoratori.
L’appellante ritiene che la società avrebbe dovuto applicare la procedura di
licenziamento collettivo.
La corte nazionale adita chiedeva dunque in via pregiudiziale alla Corte di giustizia se
la nozione di “cessazioni del contratto di lavoro verificatesi per iniziativa del datore di
lavoro per una o più ragioni non inerenti alla persona del lavoratore” della direttiva
98/59, comprendesse la cessazione contrattuale concordata tra il datore di lavoro e il
lavoratore che, pur derivando da un’iniziativa del lavoratore, fosse dovuta a una
modifica di condizioni di lavoro per iniziativa del datore di lavoro a causa di una crisi
aziendale e rispetto alla quale, in definitiva, fosse stata riconosciuta un’indennità di
importo equivalente al licenziamento illegittimo.
Nella sentenza dell’11 novembre 2015 La Corte ha stabilito che, al fine di accertare
l’esistenza di un licenziamento collettivo ai sensi della direttiva, la condizione che i
licenziamenti siano almeno cinque non riguarda le cessazioni di contratti di lavoro
assimilate a un licenziamento, bensì esclusivamente i licenziamenti in senso stretto. La
Corte ha altresì stabilito che il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente e
a svantaggio del lavoratore, a una modifica sostanziale degli elementi essenziali del
contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso rientra
nella nozione di «licenziamento» ai sensi della direttiva.
29 Direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi (GUL 225, pag. 16).
39
Di conseguenza, qualsiasi normativa nazionale o interpretazione che conduca a
ritenere che, in una fattispecie come quella oggetto del procedimento principale, la
risoluzione del contratto di lavoro non costituisca un licenziamento ai sensi della
direttiva altererebbe l’ambito di applicazione di quest’ultima, privandola così della sua
piena efficacia.
Link alla versione integrale della sentenza
40
Ravvicinamento delle legislazioni
Corte dichiara invalida la decisione della Commissione che attesta che gli Stati
Uniti garantiscono un adeguato livello di protezione dei dati personali trasferiti
(Sentenza nella causa C-362/14, Maximilian Schrems/Data Protection Commissioner)
La causa verte nel procedimento principale sull’utilizzo dei dati personali degli utenti
Facebook da parte della societá irlandese affiliata della piattaforma social. I dati
vengono in parte o del tutto inviati a server che si trovano negli Stati Uniti. Un utente
Facebook austriaco ha presentato una denuncia presso l’autoritá per la protezione dei
dati personali irlandese. Egli riteva che la normativa e la prassi statunitense non
offrissero una tutela adeguata contro la sorveglianza svolta dalle autorità pubbliche sui
dati trasferiti verso tale paese. L’autoritá irlandese respingeva la denuncia
egnatamente con la motivazione che, in una decisione del 26 luglio 200230, la
Commissione aveva ritenuto che, nel contesto del cosiddetto regime di «approdo
sicuro»31, gli Stati Uniti garantissero un livello adeguato di protezione dei dati
personali trasferiti. La High Court irlandese adita si ricorreva in via pregiudiziale alla
Corte di Giustizia europea, per sapere se questa decisione della Commissione produca
l’effetto di impedire ad un’autorità nazionale di controllo di indagare su una denuncia
con cui si lamenta che un paese terzo non assicura un livello di protezione adeguato e,
se necessario, di sospendere il trasferimento di dati contestato.
A seguito della direttiva sul trattamento dei dati personali32, il trasferimento di tali
dati verso un paese terzo può avere luogo, in linea di principio, solo se il paese terzo
di cui trattasi garantisce per questi dati un adeguato livello di protezione. La Corte ha
stabilito, che nessuna disposizione della direttiva osta a che le autorità nazionali
controllino i trasferimenti di dati personali verso paesi terzi oggetto di una decisione
della Commissione. Conseguentemente l’esistenza di una decisione della Commission
non elimina né limita i poteri delle autoritá nazionali di controllo.
La Corte ha inoltre verificato la validità della decisione della Commissione del 26 luglio
2000. Nella decisione la Commissione ha esaminato il regime dell’”approdo sicuro” per
la protezione dei dati. Questo è applicabiole unicamente alle imprese statunitensi che
vi si sottopongano unilaterlamente, e non alle autoritá dello stesso Paese. Questa base
giuridica rende così possibili ingerenze da parte delle autorità pubbliche nei diritti
fondamentali delle persone, e la Commissione non ha fatto cenno all’eventuale
esistenza di altri strumenti di protezione. Infine la Corte ha dichiarato che la decisione
della Commssione priva le autoritá di controllo nazionali dei loro poteri nel caso in cui
una persona contesti la compatibilità della decisione con la tutela della vita privata e
delle libertà e diritti fondamentali delle persone. La Corte afferma che la Commissione
non aveva la competenza di limitare in tal modo i poteri delle autoritá nazionali di
controllo.
30 Decisione 2000/520/CE della Commissione, del 26 luglio 2000, a norma della direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio sull'adeguatezza della protezione offerta dai principi di approdo sicuro e dalle relative «Domande più frequenti» (FAQ) in materia di riservatezza pubblicate dal Dipartimento del commercio degli Stati Uniti (GU2000, L215, pag.7). 31 Il regime dell’approdo sicuro consta di una serie di principi, relativi alla protezione dei dati personali, che le imprese americane possono volontariamente sottoscrivere. 32 Direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati (GU L281, pag.31).
41
Per questi motivi i giudici hannodichiarato invalida la decisione del 2000 della
Commissione. La sentenza del 6 ottobre 2015 ha come conseguenza, che le autoritá di
controllo nazionali sono obbligate ad esaminare le dununce come quella oggetto del
procedimento principale e ha decidere se la normativa straniera sia compatibile con il
diritto comunitario o meno.
Link alla versione integrale della sentenza
42
L’aumento delle tariffe di telecomunicazione in base a un indice dei prezzi al
consumo non consente agli abbonati di recedere dal loro contratto
(Sentenza della Corte nella causa C-326/14, Verein für Konsumenteninformation / A1 Telekom
Austria AG)
Secondo la direttiva servizio universale33, gli abbonati a servizi di comunicazione
elettronica hanno il diritto di recedere dal loro contratto, senza penali, all’atto della
notifica di modifiche delle condizioni contrattuali.
L’Obertser Gerichtshof (Corte suprema, Austria) è investita di una controversia tra
un’associazione di consumatori e un fornitore di servizi di telecomunicazione. Secondo
la predetta associazione, il fornitore di servizi di telecomunicazione avrebbe impiegato
clausole illecite nei contratti conclusi con i consumatori. Le condizioni generali
predisposte dall’azienda prevedono, infatti, che gli abbonati non possano recedere dal
loro contratto qualora le tariffe siano adeguate in base a un indice annuale oggettivo
dei prezzi al consumo stabilito dall’Istituto austriaco di statistica (Statistik Österreich).
In tale contesto, la Corte suprema intendeva accertare se tale adeguamento tariffario
costituisse una modifica delle condizioni contrattuali ai sensi della direttiva:
circostanza che, in caso di risposta affermativa, avrebbe conferito agli abbonati il
diritto di recedere dal loro contratto.
Con la sentenza del 26 novembre 2015, la Corte di giustizia ha risposto negativamente
a tale domanda.
Essa osserva che la clausola controversa contenuta nelle condizioni generali
predisposte dalla società di telecomunicazioni prevede un adeguamento delle tariffe in
base a un indice annuale oggettivo dei prezzi al consumo stabilito da un istituto
pubblico. Un adeguamento tariffario, come previsto dal contratto, che si basa su un
metodo di indicizzazione chiaro, preciso e accessibile al pubblico e derivante da
decisioni e meccanismi propri della sfera pubblica, non può porre gli utenti finali in una
situazione contrattuale differente rispetto a quella che emerge dal contratto.
Conseguentemente, qualora una modifica delle tariffe venga così effettuata, essa non
può essere qualificata come modifica delle condizioni contrattuali, ai sensi della
direttiva.
Link alla versione integrale della sentenza
33 Direttiva 2002/22/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 7 marzo 2002, relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di comunicazione elettronica (direttiva servizio universale) (GUL 108, pag.51), come modificata dalla direttiva 2009/136/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 novembre 2009 (GUL 337, pag. 11).
43
Sanitá pubblica
L’esclusione dalla donazione di sangue per gli uomini che abbiano avuto rapporti
sessuali con una persona dello stesso sesso può, alla luce della situazione in uno
Stato membro essere giustificata
(Sentenza nella causa C-528/13 Geoffrey Léger / Ministre des Affaires sociales, de la Santé et des
Droits des femmes, Établissement français du sang)
Nell’ambito di una controversia che oppone il sig. Léger al Ministre des Affaires
sociales, de la Santé et des Droits des femmes (Ministro degli Affari sociali, della
Sanità e dei Diritti delle donne) nonché all’Établissement français du sang, il Tribunal
administratif de Strasbourg (Tribunale amministrativo di Strasburgo) ha presentato
una domanda di pronuncia pregiudiziale che verteva sull’interpretazione della direttiva
2004/33/CE34. In particolare il giudice di rinvio voleva sapere se l’esclusione dalla
donazione di sangue per gli uomini che abbiano avuto rapporti sessuali con una
persona dello stesso sesso fosse compatibile con tale direttiva. A norma della direttiva,
le persone il cui comportamento sessuale le esponga ad un alto rischio di contrarre
gravi malattie trasmissibili col sangue sono infatti escluse in modo permanente dalla
donazione di sangue.
Nella sua sentenza del 29 aprile 2015, la Corte ha innanzitutto affermato che il giudice
francese dovrà verificare se, nel caso di un uomo che abbia avuto rapporti sessuali con
una persona dello stesso sesso, esista, in Francia, un alto rischio di contrarre gravi
malattie infettive trasmissibili con il sangue. Ai fini di tale analisi, dovrà essere presa in
considerazione la situazione epidemiologica in Francia, che secondo i dati a sua
disposizione, presenterebbero un carattere specifico.
Anche nell’ipotesi in cui il Tribunal administratif de Strasbourg considerasse che gli
uomini che hanno avuto rapporti sessuali con una persona dello stesso sesso siano
esposti in Francia, ad un alto rischio di contrarre malattie quali l’HIV, si porrebbe la
questione di sapere se la controindicazione permanente alla donazione di sangue sia
conforme ai diritti fondamentali dell’Unione e, in particolare, al principio del divieto di
discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale. A tal riguardo la Corte ha ricordato
che eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà fondamentali dell’Unione
europea possono essere apportate solo laddove siano necessarie e rispondano
effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di
proteggere i diritti e le libertà altrui.
In proposito la Corte ha dichiarato che, sebbene l’esclusione, prevista dalla normativa
francese, contribuisca a ridurre al minimo il rischio di trasmissione ai riceventi di una
malattia infettiva e, pertanto, alla finalità generale di garantire un livello elevato di
protezione della salute umana, il principio di proporzionalità potrebbe non essere
rispettato. Ciò in quanto non si potrebbe escludersi che l’HIV possa essere riscontrato
mediante tecniche efficaci atte ad assicurare un livello elevato di protezione della
salute dei riceventi. Spetta al giudice nazionale di verificare se siffatte tecniche
esistano, fermo restando che i test devono essere praticati secondo le procedure
scientifiche e tecniche più recenti. Nel caso in cui simili tecniche non esistano, bisogna
verificare la sussistenza di metodi meno restrittivi rispetto all’esclusione permanente
34 Direttiva 2004/33/CE della Commissione, del 22 marzo 2004, che applica la direttiva 2002/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa a taluni requisiti tecnici del sangue e degli emocomponenti
44
dalla donazione di sangue per assicurare un livello elevato di protezione della salute
dei riceventi.
Link alla versione integrale della sentenza
45
Sicurezza sociale
I redditi patrimoniali dei residenti in Francia che lavorano in un altro Stato membro
non possono essere soggetti ai contributi sociali francesi
(Sentenza della Corte nella causa C-623/13, Ministre de L’Èconomie et des Finances/Gérard de
Ruyter)
Nella causa C-623/13 la Corte si è occupata di una domanda pregiudiziale che è stata
presentata nell’ambito di una controversia in merito al pagamento di vari contributi
sociali. Il signor de Ruyter, cittadino olandese che lavora nei Paesi Bassi, ma residente
in Francia, si è opposto al prelevamento di contributi sociali dai suoi redditi
patrimoniali (rendite vitalizie stipulate nei Paesi Bassi).
Già nell’anno 2000 la Corte aveva esaminato in due sentenze se dai redditi da lavoro e
sostitutivi percepiti da lavoratori che, ancorché residenti in Francia, lavorano in un
altro Stato membro, potessero essere prelevati contributi sociali francesi. Allora la
Corte aveva constatato che tali prelievi erano destinati specificamente e direttamente
al finanziamento della previdenza sociale in Francia e ne ha dedotto che presentavano
un rapporto diretto e sufficientemente rilevante con le leggi che disciplinano i settori di
previdenza sociale elencati all’articolo 4 del regolamento n.1408/7135. Pertanto la
Corte aveva concluso che, in relazione ai lavoratori interessati, il prelievo di tali
contributi era incompatibile sia con il divieto del cumulo in materia di previdenza
sociale (regolamento n. 1408/71) sia con la libera circolazione dei lavoratori e la
libertà di stabilimento.
Nella sentenza del 26 febbraio 2015, la Corte ha constatato che ciò vale anche per i
prelievi che sono basati sui redditi patrimoniali. Il divieto di cumulo previsto dal
regolamento 1408/71 non è, infatti, subordinato all’esercizio di un’attività
professionale e si applica quindi indipendentemente dall’origine dei redditi percepiti
dalla persona interessata. Pertanto i redditi del signor de Ruyter non possono essere
assoggettati in Francia a prelievi che presentano un rapporto diretto e
sufficientemente rilevante con i settori della previdenza sociale. Altrimenti verrebbe
creata una disparità di trattamento in relazione all’articolo 13 del regolamento n.
1408/71, dato che tutti gli altri residenti in Francia sono tenuti unicamente a
contribuire al regime previdenziale dello stessa.
Link alla versione integrale della sentenza
35 Regolamento (CEE) n. 1408/71 del Consiglio, del 14 giugno 1971, relativo all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati, ai lavoratori autonomi e ai loro familiari che si spostano all’interno della Comunità
46
Spazio di libertà, sicurezza e giustizia
Una normativa nazionale che impone o l’ammenda o l’allontanamento di cittadini di
paesi terzi in caso di soggiorno irregolare, a seconda delle circostanze, è in
contrasto con il diritto dell’Unione
(Sentenza nella causa C-38/14, Subdelegaciòn del Gobierno en Guipuzkoa/Zaizoune)
La direttiva 2008/115/CE36 stabilisce norme e procedure comuni da applicarsi negli
Stati membri per il rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, nel
rispetto dei diritti fondamentali in quanto principi generali del diritto comunitario e del
diritto internazionale, compresi gli obblighi in materia di protezione dei rifugiati e di
diritti dell’uomo. Il sig. Zaizoune, cittadino marocchino, era stato fermato dalle
autorità spagnole perché non aveva potuto presentare i suoi documenti d’identità. Di
conseguenza era stato disposto il suo allontanamento dal territorio spagnolo con
divieto d’ingresso per cinque anni. Il Juzgado de lo Contencioso – Administrativo de
Donostia – San Sebastian (Tribunale amministrativo di San Sebastien) ha tuttavia
annullato tale decisione sostituendo l’allontanamento con un’ammenda.
In tale contesto, appellata la decisione dalle autorità spagnole, il Tribunal Superior de
Justicia de la Comunidad Autonoma del Pais Vasco ha chiesto alla Corte in via
pregiudiziale se, alla luce dei principi di leale cooperazione e dell’effetto utile delle
direttive, la direttiva 2008/115/CE debba essere interpretata nel senso che osta ad
una normativa, come interpretata dalla giurisprudenza spagnola, che consente di
punire la situazione irregolare di uno straniero nel territorio statale esclusivamente
con una sanzione economica, la quale risulta altresì incompatibile con la sanzione
dell’allontanamento.
Nella sentenza del 23 aprile 2015, la Corte ha ricordato che l’obiettivo della direttiva
2008/115 consiste nell’istituzione di un’efficace politica in materia di allontanamento e
rimpatrio e l’articolo 6, paragrafo 1, prevede innanzitutto, in via principale, l’obbligo
per gli Stati membri di adottare una decisione di rimpatrio nei confronti di qualunque
cittadino di paese terzo il cui soggiorno nel loro territorio sia irregolare. Una volta
constatata l’irregolarità del soggiorno, le autorità nazionali competenti devono, fatte
salve le eccezioni previste dalla direttiva, emanare una decisione di rimpatrio. La Corte
ha anche ricordato che, come discende tanto dal dovere di lealtà degli Stati membri
quanto dalle esigenze di efficacia, l’obbligo che la direttiva impone agli Stati membri di
procedere all’allontanamento di detto cittadino deve essere adempiuto con la massima
celerità. Del resto, nessuna disposizione della predetta direttiva, né alcuna
disposizione di un atto rientrante nell’acquis comunitario, consente l’introduzione di un
meccanismo che imponga, in caso di soggiorno irregolare di cittadini di paesi terzi nel
territorio di uno Stato membro, a seconda delle circostanze, o un’ammenda o
l’allontanamento, misure queste applicabili l’una ad esclusione dell’altra.
Considerato che gli Stati membri non possono applicare una propria normativa in
modo tale da compromettere la realizzazione degli obiettivi perseguiti da una direttiva
e da privare così quest’ultima del suo effetto utile, la Corte ha risposto che la direttiva
36 Direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare (GU L 348, pag. 98).
47
2008/115 deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa di uno
Stato membro che impone, in caso di soggiorno irregolare di cittadini di paesi terzi nel
territorio di tale Stato, a seconda delle circostanze, o un’ammenda o l’allontanamento,
misure queste applicabili l’una ad esclusione dell’altra.
Link alla versione integrale della sentenza
48
I cittadini di paesi terzi, che siano soggiornanti di lungo periodo possono essere
obbligati dagli Stati membri a superare un esame di integrazione civica
(Sentenza nella causa C-579/13, P e S/Commissie Sociale Zekerheid Breda, College van
Burgermeester en Wethouders van de gemeente Amtstelveen)
Nell’ambito di una controversia in cui P e S si contrapponevano alla Commissione di previdenza
sociale di Breda e alla Giunta comunale dei borgomastri e degli assessori del Comune
di Amstelveen in merito all’imposizione da parte di questi ultimi di un obbligo di
integrazione civica, il Centrale Raad van Beroep (Corte suprema amministrativa, Paesi
Bassi) ha presentato una domanda di pronuncia pregiudiziale relativa
all’interpretazione della direttiva 2003/109/CE37. Questa direttiva prevede che gli
Stati membri conferiscano lo status di soggiornante di lungo periodo ai cittadini di
paesi terzi che hanno soggiornato nel loro territorio legalmente e ininterrottamente
per cinque anni immediatamente prima della presentazione della loro domanda.
Considerato che il Centrale Raad van Beroep sollevava dubbi sulla conformità
dell’obbligo di integrazione civica con la direttiva, lo stesso ha chiesto la Corte di
giustizia in particolare, se, dopo la concessione dello status di soggiornante di lungo
periodo sia lecito che gli Stati membri pongano condizioni d’integrazione costituite da
un esame di integrazione civica, sanzionato da un sistema di ammende.
Con sentenza del 4 giugno 2015 la Corte ha innanzitutto rilevato che quest’obbligo del
superamento di un esame per dimostrare l’acquisizione di capacità di espressione
orale e scritta nella lingua neerlandese nonché una conoscenza sufficiente della
società olandese, non è una condizione per ottenere né per conservare lo status di
soggiornante di lungo periodo, ma determina unicamente l’irrogazione di
un’ammenda. Inoltre, la Corte ha sottolineato l’importanza attribuita dal legislatore
dell’Unione alle misure di integrazione e constatato che il diritto dell’Unione non
impone né vieta agli Stati membri di esigere dai cittadini di paesi terzi l’adempimento
di obblighi di integrazione dopo l’ottenimento dello status di soggiornante di lungo
periodo. Il fatto che l’obbligo di integrazione civica di cui al procedimento principale
non sia imposto ai cittadini nazionali non viola neanche il principio di parità di
trattamento con i cittadini nazionali, in quanto la situazione dei cittadini di paesi terzi
non è analoga a quella dei cittadini nazionali per quanto concerne l’utilità delle misure
di integrazione quali l’acquisizione di una conoscenza tanto della lingua quanto della
società del paese in questione.
Pertanto, la Corte è pervenuta alla conclusione che la direttiva 2003/109 non osta
all’imposizione dell’obbligo di superare un esame di integrazione civica, a condizione
che le sue modalità di applicazione non siano tali da compromettere la realizzazione
degli obiettivi perseguiti dalla direttiva. Spetta al giudice del rinvio di verificare tale
circostanza.
Link alla versione integrale della sentenza
37 Direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo (GU 2004, L16, pag. 44).
49
Gli Stati membri possono esigere che i cittadini di paesi terzi superino un esame di
integrazione civica preliminarmente al ricongiungimento familiare
(Sentenza nella causa C-153/14, Minister van Buittenlandse Zaken / K e A)
La direttiva 2003/86/CE38 fissa le condizioni dell’esercizio del diritto al
ricongiungimento familiare di cui dispongono i cittadini di paesi terzi che risiedono
legalmente sul territorio degli Stati membri. La legislazione dei Paesi Bassi subordina il
diritto al ricongiungimento familiare al superamento di un esame di base di
integrazione civica. Nella causa principale due persone hanno addotto problemi di
salute e disturbi psichici che impedirebbero loro di sostenere l’esame di integrazione
civica. Nonostante siano previste esenzioni per i richiedenti che non sono in grado, in
modo duraturo, di superare l’esame, a causa di un handicap fisico o psichico, le loro
domande di permesso di soggiorno temporaneo sono state respinte dalle autorità
olandesi. Il Raad van State (Consiglio di Stato), cui sono state sottoposte le
controversie riguardanti tali rifiuti, ha deciso di interpellare la Corte di giustizia in
merito alla compatibilità dell’esame di integrazione civica con la direttiva.
In concreto il tribunale richiedente voleva sapere se fosse compatibile con la direttiva
2003/86/CE, che uno Stato membro richiedesse ai cittadini di paesi terzi il
superamento di un esame di integrazione civica -nel quale vengono valutate
conoscenze di base sia della lingua sia della società dello Stato membro, e che
prevede l’esborso di denaro a titolo diverso per la partecipazione-, prima di
autorizzare l’entrata e la permanenza sul proprio territorio nell’ambito del
ricongiungimento familiare.
Nella sua sentenza del 9 luglio 2015 la Corte ricorda che la direttiva ammette in via
generale che gli Stati membri subordinino il rilascio di un permesso di ingresso sul
proprio territorio al rispetto di determinate misure preliminari di integrazione, soltanto
se queste consentono appunto di facilitare l’integrazione dei familiari del soggiornante.
Conoscenze di base della lingua e della società del paese possono in ogni caso favorire
un’integrazione maggiore. Esistono comunque circostanze individuali particolari, come
l’età, il livello di educazione, la situazione finanziaria o le condizioni di salute che
devono essere prese in considerazione in vista di un esonero dei familiari interessati
dall’obbligo di superare un esame d’integrazione. In caso contrario, in tali circostanze,
un simile obbligo potrebbe costituire un ostacolo, difficilmente sormontabile,
all’effettivo esercizio del diritto al ricongiungimento familiare.
La Corte constata che dalla decisione di rinvio emerge che la legislazione olandese non
consente di esonerare i familiari del soggiornante dall’obbligo di superare l’esame di
integrazione civica in tutti i casi in cui tale obbligo rende impossibile o eccessivamente
difficile il ricongiungimento familiare. Inoltre il costo del pacchetto di preparazione
all’esame (110 euro), dovuto una tantum, e l’importo delle tasse d’iscrizione (350
euro) possono rendere impossibile o eccessivamente difficile il ricongiungimento
familiare.
Link alla sentenza completa
38 Direttiva 2003/86/CE del Consiglio, del 22 settembre 2003, relativa al diritto al ricongiungimento familiare (GU L 251, pag. 12).
50
La direttiva «rimpatri» non osta, in linea di principio, alla normativa di uno Stato
membro che commina una pena detentiva ad un cittadino di un paese terzo che
entri irregolarmente nel suo territorio trasgredendo un precedente divieto
d’ingresso
(Sentenza della Corte nella causa C-290/14, Skerdjan Celaj)
Un cittadino albanese è rientrato piú volte sul territorio italiano, nonostante il divieto
di ingresso emesso nei suoi confronti. Nella causa principale, il pubblico ministero
italiano ne ha chiesto la condanna sulla base di una normativa italiana che prevede
una pena detentiva fino a quattro anni per la violazione del divieto di ingresso. Il
giudice italiano competente domandava quindi in via pregiudiziale alla Corte di
Giustizia europea, se la norma nazionale fosse compatibile con la direttiva sul
rimpatrio di cittadini di paesi terzi (cd. “direttiva rimpatri”)39.
Nella sua sentenza del 1 ottobre 2015 la Corte ha stabilito che la “direttiva rimpatri
non osta ad una normativa nazionale, che qualifichi come reato il nuovo ingresso
illegale. L’obiettivo della direttiva non è quello di armonizzare il diritto di soggiorno
per i cittadini dei paesi terzi nei diversi paesi membri. Il limite è da individuarsi lá
dove una disposizione nazionale comprometta il raggiungimento degli obiettivi
perseguiti dalla direttiva.
Conformemente alla giurisprudenza della Corte è stato ribadito, che gli obiettivi della
direttiva sarebbero pregiudicati qualora venisse anteposto all’esecuzione della
decisione di rimpatrio, o addirittura alla sua stessa adozione, un procedimento penale
idoneo a condurre alla reclusione. In questo caso verrebbe minacciata la tempestivitá
dell’espulsione. Pertanto la “direttiva rimpatri” stabilisce procedure uniformi
unicamente per il primo rimpatrio.
Ció è nel caso di specie irrilevante, dal momento che il cittadino albanese è rientrato
nel territorio italiano, in violazione del divieto di ingresso, dopo la conclusione del
procedimento di espulsione.
La Corte ha sottolineato che, dalla lettura combinata dei considerando della direttiva e
del TFUE, emerge come l'introduzione di una politica sui rimpatri è parte integrante
dello sviluppo di una politica comune dell'immigrazione da parte dell'Unione europea.
Ció è destinato a garantire, tra l'altro, la prevenzione e il rafforzamento delle misure
per combattere l'immigrazione clandestina.
Tuttavia, vi deve essere pieno rispetto dei diritti fondamentali, in particolare quelli
garantiti dalla CEDU quanto, eventualmente, della convenzione di Ginevra.
Link alla versione integrale della sentenza
39 Direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare (GU L348, pag.98).
51
Trasporti
Uno Stato membro può vietare al titolare di una patente di guida conseguita in altro
Stato membro di guidare dopo aver commesso un’infrazione stradale di natura tale
da determinare la sua inidoneità alla guida
(Sentenza della Corte nella causa C-260/13, Sevda Aykul /Land Baden-Württemberg)
La direttiva 2006/126/CE40 individua un modello di patente di guida per tutti gli Stati
membri e stabilisce che le patenti di guida rilasciate dagli Stati membri siano
reciprocamente riconosciute. In seguito ad un controllo di polizia effettuato in
Germania, dal quale era risultato che una cittadina austriaca aveva guidato sotto
l’effetto di sostanze stupefacenti, le autorità tedesche le hanno quindi negato il diritto
di guidare in Germania con la sua patente di guida austriaca. In Austria, peraltro, la
stessa persona ha continuato ad essere considerata idonea a guidare veicoli ed è
pertanto rimasta in possesso della propria patente di guida.
L’interessata, ritenendo che solamente le autorità austriache fossero competenti a
stabilire la sua idoneità a guidare dei veicoli, ha quindi adito il Tribunale
amministrativo di Sigmaringen (Germania) per contestare la decisione amministrativa
tedesca che le aveva negato il diritto di utilizzare la sua patente di guida austriaca in
Germania. Il Tribunale ha chiesto alla Corte di giustizia se l’obbligo di riconoscimento
reciproco delle patenti di guida previsto dalla direttiva 2006/126/CE sia compatibile
con la decisione contestata.
Nella sua pronuncia la Corte ha riconosciuto che, secondo tale direttiva, solo lo Stato
membro di residenza normale del titolare della patente di guida è competente ad
adottare misure restrittive della patente che producono i loro effetti in tutti gli Stati
membri. Per contro, la direttiva autorizza ogni Stato membro ad adottare, in forza
della propria normativa nazionale ed a motivo dell’infrazione commessa nel proprio
territorio, misure circoscritte a tale territorio. La possibilità che uno Stato membro
revochi al titolare di una patente di guida l’autorizzazione a guidare nel proprio
territorio a motivo di un’infrazione commessa in quest’ultimo costituisce certo una
limitazione al principio del reciproco riconoscimento delle patenti di guida. Tuttavia,
tale limitazione è idonea a rafforzare la sicurezza della circolazione stradale e rientra
quindi nell’interesse di tutti i cittadini.
Nella sentenza del 23 aprile 2015 la Corte ha dichiarato che quindi la direttiva
concernente la patente di guida non osta a che uno Stato membro, nel cui territorio il
titolare di una patente di guida rilasciata da un altro Stato membro temporaneamente
soggiorni, rifiuti di riconoscere la validità di tale patente a motivo di un’infrazione che
il titolare ha commesso in detto territorio successivamente al rilascio della patente
stessa e che, conformemente alla legge nazionale del primo Stato membro, è di
natura tale da determinare l’inidoneità alla guida di veicoli a motore. Spetta inoltre
allo stesso Stato verificare se i requisiti previsti dalla sua stessa normativa per
riacquistare il diritto di guidare rispettino il principio di proporzionalità e, in
particolare, non superino i limiti di ciò che è appropriato e necessario per il
raggiungimento dell’obiettivo perseguito dalla direttiva che è quello di rafforzare la
sicurezza della circolazione stradale. Link alla versione integrale della sentenza
40 Direttiva 2006/126/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 dicembre 2006, concernente la patente di guida
52
La prova dell’esistenza di un domicilio dichiarato sul territorio dello Stato membro
non può essere il solo strumento utile per dimostrare il requisito di «residenza
normale» ai fini del rilascio o rinnovo di una patente di guida
(Sentenza della Corte nella causa C-664/13, Nīmanis)
Il requisito di residenza normale costituisce un elemento essenziale del sistema del
riconoscimento reciproco istituito dalla direttiva sulla patente di guida41, la quale
dispone che per residenza normale s’intende il luogo in cui una persona dimora
abitualmente, vale a dire per almeno 185 giorni all’anno, per interessi personali e
professionali o, nel caso di una persona che non abbia interessi professionali, per
interessi personali che rivelino stretti legami tra la persone e il luogo in cui essa abita.
Un cittadino lettone, privo di un domicilio dichiarato in Lettonia, ha chiesto il rinnovo
della sua partente di guida in tale Stato membro, in quanto egli vi ha la propria
residenza normale. L’autorità competente, constatato che il cittadino non aveva un
domicilio dichiarato in Lettonia, ha adottato una decisione di rifiuto atteso che il
cittadino avrebbe dovuto risiedere in Lettonia per almeno 185 giorni e dichiarare il
proprio domicilio conformemente alla procedura prevista dalla normativa lettone. A
seguito di ricorso contro tale decisione, il giudice del rinvio ha chiesto alla Corte di
giustizia se l’articolo 12 della direttiva 2006/126 debba essere interpretato nel senso
che osta alla normativa di uno Stato membro secondo cui l’unico mezzo per
dimostrare la residenza normale di una persona in detto Stato (Lettonia) è costituito
dal domicilio dichiarato di tale persona.
Nella sentenza del 25 giugno 2015 la Corte precisa che il requisito di residenza
contribuisce, in particolare, a combattere il «turismo delle patenti di guida» in assenza
di un’armonizzazione completa delle normative degli Stati membri relative al rilascio
delle patenti di guida e che tale requisito è indispensabile per il controllo del rispetto
del requisito dell’idoneità alla guida.
Secondo la Corte le modalità di prova del rispetto del requisito di residenza normale
non devono andare al di là di quanto necessario per consentire alle autorità
competenti dello Stato membro di garantire che l’interessato rispetta tale requisito
alla luce dei criteri di cui all’articolo 12 della direttiva 2006/126. Una normativa di uno
Stato membro in forza della quale l’unico strumento di cui dispone il richiedente una
patente di guida consiste nel dimostrare l’esistenza di una dichiarazione di domicilio
dell’interessato sul territorio di tale Stato membro presenta un carattere troppo
esclusivo.
La Corte conclude quindi precisando che l’articolo 12 della direttiva 2006/126 deve
essere interpretato nel senso che esso osta alla normativa di uno Stato membro in
forza della quale il solo strumento di cui dispone una persona che chiede il rilascio o il
rinnovo di una patente di guida in tale Stato membro, per dimostrare che soddisfa il
requisito di «residenza normale» sul territorio, consiste nel provare l’esistenza di un
domicilio dichiarato sul territorio dello Stato membro interessato.
Link alla versione integrale della sentenza
41 Direttiva 2006/126/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 dicembre 2006, concernente la patente di guida
53
Il vettore aereo è tenuto a indennizzare i passeggeri anche in caso di annullamento
del volo per problemi tecnici imprevisti
(Sentenza nella causa C-257/14, Corina van der Lans/Koninklijke Luchtvaart Maatschappij NV)
In caso di annullamento di un volo, il vettore aereo è tenuto, ai sensi del diritto dell’Unione42, a
fornire ai passeggeri assistenza e compensazione pecuniaria (da EUR 250 a EUR 600,
in funzione della distanza). Nessuna compensazione è, tuttavia, dovuta se il vettore è
in grado di provare che l’annullamento sia imputabile a circostanze eccezionali, che
non avrebbero potuto essere evitate neppure adottando tutte le misure del caso.
Un signora olandese disponeva di una prenotazione di un biglietto aereo per un volo
operato da una compagnia europea. Il volo in questione è arrivato a destinazione con
un ritardo di 29 ore. Secondo il vettore, il ritardo era dovuto a circostanze eccezionali,
ovvero a una concomitanza di problemi: due pezzi erano difettosi, segnatamente la
pompa del carburante e l’unità idromeccanica.
La corte adita ha deciso di deferire questioni pregiudiziali alla Corte di giustizia,
domandando se un problema tecnico che sia sorto improvvisamente, non sia
imputabile a carenze di manutenzione e neppure sia emerso nel corso di un regolare
controllo rientri nella nozione di «circostanze eccezionali», esonerando dunque il
vettore dal proprio obbligo d’indennizzo.
Con la sentenza C-257/14 del 17 settembre 2015, la Corte ricorda anzitutto come,
secondo la sua giurisprudenza, i problemi tecnici possano rientrare fra le circostanze
eccezionali43. Nondimeno, le circostanze che si accompagnano all’insorgere di tali
problemi possono essere qualificate «eccezionali» unicamente se sono collegate a un
evento che non sia inerente al normale esercizio dell’attività del vettore aereo e
sfugga, per natura o per origine, all’effettivo controllo di quest’ultimo: i problemi
tecnici emersi in occasione della manutenzione degli aeromobili, o a causa di una
carenza di manutenzione, non possono costituire di per sé «circostanze eccezionali».
Pertanto, nell’ambito dell’attività di un vettore aereo, tale evento inaspettato è
inerente al normale esercizio dell’attività e il vettore deve sistematicamente far fronte
a problemi tecnici imprevisti. Di conseguenza, un problema tecnico come quello di cui
trattasi non può rientrare nella nozione di «circostanze eccezionali» e il vettore è
tenuto all’assistenza e alla compensazione pecuniaria secondo quanto previsto dal
citato Regolamento (CE) n. 261/2004.
Link alla versione integrale della sentenza
42Regolamento (CE) n. 261/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11 febbraio 2004, che istituisce regole comuni in materia di compensazione ed assistenza ai passeggeri in caso di negato imbarco, di cancellazione del volo o di ritardo prolungato e che abroga il regolamento (CEE) n. 295/91 (GUL 46, pag. 1). 43V. sentenza della Corte del 22 dicembre 2008, Wallentin-Hermann (causa C-549/07.
54
Tutela dei consumatori
La direttiva concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i
consumatori si applica anche ai contratti standard di servizi di assistenza legale
(Sentenza nella causa C-573/13, Birutė Šiba/Arūnas Devėnas)
Nella causa C-573/13 la Corte si è occupata di una domanda pregiudiziale che era
stata presentata nell’ambito di una controversia tra la sig.ra Šiba e il sig. Devėnas,
nella sua qualità di avvocato, in merito ad una richiesta di pagamento di onorari. La
sig.ra Šiba ha stipulato con il sig. Devėnas, nella sua qualità di avvocato, tre contratti
standard di prestazione di servizi di assistenza legale a titolo oneroso, nei quali le
modalità di pagamento degli onorari e i termini entro i quali siffatto pagamento
doveva essere effettuato non erano specificati. I contratti non individuavano con
precisione neppure i diversi servizi di assistenza legale per i quali detto pagamento era
richiesto, né il prezzo delle prestazioni che vi corrispondevano. Dato che la sig.ra Šiba
non ha pagato gli onorari entro il termine stabilito dal sig. Devėnas, quest’ultimo ha
chiesto l’emissione di un’ingiunzione di pagamento per gli onorari dovuti.
Il Lietuvos Aukščiausiasis Teismas (Corte suprema della Lituania), investito in ultima
istanza della questione, voleva sapere della Corte, in sostanza, se la direttiva
93/13/CEE concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori44
deve essere interpretata nel senso che essa si applica a contratti standard di servizi di
assistenza legale, come quelli di cui al procedimento principale, stipulati da un
avvocato con una persona fisica che non agisce per fini che rientrano nel quadro della
sua attività professionale.
Con sentenza del 15 gennaio 2015, la Corte ha innanzitutto rilevato che la direttiva
93/13/CEE definisce i contratti ai quali essa si applica con riferimento alla qualità dei
contraenti, a seconda che essi agiscano o meno nell’ambito della loro attività
professionale. Per quanto concerne i contratti di assistenza legale, come quelli di cui al
procedimento principale, la Corte ha rilevato che, in materia di prestazioni offerte
dagli avvocati, vi è, in linea di principio, una disparità tra i „clienti-consumatori” e gli
avvocati, dovuta segnatamente dall’asimmetria informativa tra tali parti. Pertanto, un
avvocato che, come nel procedimento principale, nel quadro della sua attività
professionale fornisca a titolo oneroso un servizio di assistenza legale a favore di una
persona fisica che agisce per fini privati è un „professionista” ai sensi della direttiva
93/13/CEE e il contratto relativo alla prestazione di un servizio siffatto è, di
conseguenza, assoggettato al regime di detta direttiva. Tale constatazione non può
essere confutata dalla natura pubblica dell’attività degli avvocati, in quanto la direttiva
93/13/CEE riguarda qualsiasi attività professionale «sia essa pubblica o privata» e,
riguarda «anche le attività professionali di carattere pubblico». Alla luce dell’obiettivo
della tutela dei consumatori perseguito da tale direttiva, infatti, la questione della sua
stessa applicabilità non può essere determinata dalla natura pubblica o privata delle
attività del professionista o dalla missione specifica di quest’ultimo.
Pertanto la Corte è pervenuta alla conclusione, che anche i contratti standard di servizi
di assistenza legale, come quelli di cui al procedimento principale, rientrano
nell’ambito di applicazione della direttiva 93/13/CEE.
Link alla versione integrale della sentenza
44 Direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori
55
Nel contratto di credito al consumo spetta al creditore fornire la prova
dell’esecuzione dei suoi obblighi precontrattuali di informazione e di verifica della
solvibilità del debitore
(Sentenza nella causa C-449/13, Consumer Finance SA/Ingrid Bakkaus e.a.)
Gli obblighi d’informazione della direttiva 2008/48/CE sui crediti ai consumatori45,
devono essere interpretati in modo che non sussiste un’inversione dell’onere della
prova a carico del consumatore. Una tale clausola standard – nella quale il
consumatore dichiara essere stato informato correttamente - è però ammissibile se ha
un mero effetto d’indizio e non vincola il tribunale a tale inversione dell’onere della
prova.
Alla base del caso di specie vi erano due contratti di credito ai consumatori di diritto
francese, da una parte tra i coniugi Bonato e la CA Consumer Finance SA (in breve:
CA CF), e dall’altra parte tra la signora Bakkaus e la CA CF. Le due controparti
contrattuali della CA CF erano consumatori. Sia i coniugi Bonato, sia la signora
Bakkaus non avevano rimborsato più le rate mensili dei loro rispettivi contratti di
credito e di conseguenza la CA CF avevano agito in giudizio dinnanzi al Tribunal
d’instance d’Orléans per il pagamento delle rate mensili in arretrato. Il tribunale di
prima istanza aveva esaminato d’ufficio se alla stipulazione dei contratti la CA CF
aveva adempiuto il suo obbligo d’informazione e se in mancanza di tale informazione
la banca non avesse più diritto al pagamento degli interessi. Un tale obbligo
informativo è previsto dal codice dei consumatori francese nell’ambito di trasposizione
della direttiva 2008/48/CE. Il tribunale di prima istanza ha rilevato che da parte della
CA CF con i due contratti non era stato prodotto ne la scheda d’informazione con le
informazioni precontrattuali né alcun altro documento. Il contratto stipulato con la
signora Bakkaus conteneva però una clausola standard nella quale la debitrice dava
atto di aver ricevuto e di aver preso conoscenza della scheda.
Considerato che la direttiva non contiene regole riguardanti l’onere della prova, il
Tribunal d’instance d’Orléans ha avviato un procedimento di domanda pregiudiziale ai
sensi dell’art.267 TFUE dinnanzi alla Corte di giustizia. Quest’ultima ha deciso che il
principio di effettività del diritto dell’Unione sarebbe compromesso se da una clausola
standard, come quella del contratto con la signora Bakkaus, si potresse dedurre
un’inversione dell’onere della prova. Ai sensi di tale principio l’applicazione del diritto
dell’Unione non può essere reso impossibile. Il consumatore di regola non dispone dei
mezzi, che gli consentono di provare che il creditore non gli ha fornito le informazioni
richieste, mentre si può pretendere dal creditore di provare l’esecuzione dei suoi
obblighi di fornire informazioni e chiarimenti mediante una scheda d’informazione o
qualcosa di simile. Pertanto una tale clausola standard, nella quale il consumatore -
come nel caso di specie – conferma di aver ricevuto la scheda e l’informazione, non é
automaticamente nulla. Nell’ambito della valutazione delle prove tale clausola può,
infatti, costituire un indizio per il tribunale, senza però vincolarlo. I necessari
chiarimenti possono anche essere dati preliminarmente alla valutazione di solvibilità
da parte del creditore. In tal caso, se dalla valutazione di solvibilità dovessero
emergere elementi da prendere in considerazione, il creditore sarebbe tenuto a fornire
ulteriori chiarimenti al consumatore. Tuttavia i requisiti per questi ulteriori chiarimenti
45 Direttiva 2008/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile 2008, relativa ai contratti di credito ai consumatori e che abroga la direttiva 87/102/CEE
56
non sono soggetti ad una forma rigida ed non è necessario un specifico documento.
Inoltre, la Corte si è occupata anche della questione dell’entità e dell’intensità della
valutazione della solvibilità del consumatore da parte del creditore. In linea di principio
il creditore può senza problemi fidarsi delle sole informazioni fornite dal consumatore,
se queste sono sufficienti e corredati da documenti giustificativi. Il creditore non è
comunque obbligato a controllare sistematicamente la correttezza delle informazioni
fornite.
Link alla versione integrale della sentenza
57
Il consumatore non deve essere indotto in errore dall’etichettatura di un prodotto
che suggerisce la presenza di un ingrediente che in realtà è assente dal prodotto
(Sentenza della Corte nella causa C-195/14, Bundesverband der Verbraucherzentralen und
Verbraucherverbände – Verbraucherzentrale Bundesverband e.V. /Teekanne GmbH & Co)
Nell’ambito di una controversia tra il Bundesverband der Verbraucherzentralen und
Verbraucherverbände – Verbraucherzentrale Bundesverband e.V. (BVV) e la Teekanne
GmbH & Co. KG in merito al presunto carattere ingannevole dell’etichettatura di un
prodotto alimentare la Corte di giustizia si è occupata di una domanda di pronuncia
pregiudiziale che verteva sull’interpretazione della direttiva 2000/13/CE46..
Il BVV aveva addebitato alla società Teekanne di avere indotto in errore il
consumatore sulla composizione dell’infuso ai frutti chiamato “Felix avventura
lampone-vaniglia”, mediante elementi che compaiono sulla confezione. Infatti, sulla
base di tali elementi, il consumatore si aspetterebbe che l’infuso contenga componenti
di vaniglia e di lampone, o per lo meno aromi naturali di vaniglia e di lampone e
questo non è il caso.
Nella causa C-195/14 il Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia) voleva quindi
sapere, se il diritto dell’Unione debba essere interpretato nel senso che osta a che
l’etichettatura di un prodotto alimentare e le relative modalità di realizzazione possano
suggerire, tramite l’aspetto, la descrizione o la rappresentazione grafica di un
determinato ingrediente, la presenza di quest’ultimo in tale prodotto, quando invece,
in effetti, tale ingrediente è assente, e tale assenza risulta unicamente dall’elenco
degli ingredienti riportato sulla confezione di detto prodotto.
Nella sua sentenza del 4 giugno 2015 la Corte ha constatato che l’elenco degli
ingredienti, pur essendo esatto ed esaustivo, può essere inadeguato a correggere in
maniera sufficiente l’impressione errata o equivoca che risulta, per il consumatore da
alcuni elementi mendaci, errati ambigui, contraddittori o incomprensibili
dell’etichettatura di tale prodotto. Pertanto, quando l’etichettatura di un prodotto
alimentare suggerisce la presenza di un ingrediente che in realtà è assente (assenza
che emerge unicamente dall’elenco degli ingredienti), detta etichettatura è tale da
indurre in errore l’acquirente sulle caratteristiche del prodotto. Spetta al giudice
nazione di verificare la sussistenza di questa circostanza.
Link alla versione integrale della sentenza
46 Direttiva 2000/13/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 marzo 2000, relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernenti l’etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari, nonché la relativa pubblicità (GU L 109, pag. 29), come modificata dal regolamento (CE) n. 596/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 18 giugno 2009 (GU L 188, pag. 14;
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La Corte ha precisato che si presume che i difetti di conformità che si manifestano
entro sei mesi dalla consegna del bene, esistessero al momento della consegna
(Sentenza nella causa C-497/13 Froukje Faber/Autobedrijf Hazet Ochten BV (autorimessa))
Nell’ambito della controversia tra la Sig.ra Froukje Faber e la Autobedrijf Hazet Ochten BV
(autorimessa) in merito ad una domanda di risarcimento per il danno cagionato dal
difetto di conformità di un’auto usata, completamente distrutta dopo aver preso fuoco,
il Gerechtshof Arnhem-Leeuwarde (Paesi Bassi) ha sottoposto alcune domande
pregiudiziali alla Corte di giustizia europea sull’interpretazione della direttiva
1999/44/EC47. In particolare il giudice del rinvio voleva sapere se e in quale misura il
giudice nazionale sia tenuto, in base al diritto europeo, a valutare la sussistenza della
qualifica di consumatore ai sensi della direttiva 1999/44 in capo all’acquirente. In
secondo luogo le domande pregiudiziali riguardavano l’obbligo del consumatore di
informare tempestivamente il venditore del difetto di conformità di un bene,
acquistato con un contratto che ricade nel campo di applicazione della direttiva
1999/44, e come sia ripartito l’onere della prova all’interno di un successivo processo,
sempre in relazione al difetto di conformità.
Nella sentenza del 4 giugno 2015, la Corte, rispondendo alla questione pregiudiziale
riguardante l’obbligo di valutare d’ufficio la sussistenza della qualifica di consumatore
ai sensi della direttiva 1999/44 in capo alla Sig.ra Faber, ha affermato che tale obbligo
esiste, sebbene la stessa non abbia espressamente rivendicato questa qualità.
Riguardo l’obbligo in capo al consumatore di informare il venditore tempestivamente
del difetto di conformità, la Corte ha ricordato che la direttiva consente agli Stati
membri di prevedere che il consumatore debba denunciare al venditore il difetto in
questione entro il termine di due mesi. Questo onere però, ha precisato la Corte, è
limitato alla denuncia dell’esistenza di un difetto e non si estende alla prova dello
stesso o alla sua causa. L’informazione deve comunque contenere le indicazioni utili al
venditore.
Riguardo infine la ripartizione dell’onere della prova nel processo, la Corte ha
affermato che, qualora il difetto si sia manifestato entro sei mesi dalla consegna del
bene, la direttiva alleggerisce l’onere che grava sul consumatore, prevedendo che si
presuma che il difetto esistesse al momento della consegna. Il consumatore deve
tuttavia produrre la prova di determinati fatti: egli deve far valere e fornire la prova
che il bene venduto non è conforme al corrispondente contratto in quanto, ad
esempio, non presenta le qualità convenute in quest’ultimo o, ancora, è inidoneo
all’uso che ci si attende abitualmente per questo genere di bene. Egli deve inoltre
portare la prova che il difetto si è concretamente palesato entro i sei mesi dalla
consegna.
Una volta dimostrati tali fatti, il consumatore è dispensato dall’obbligo di provare che il
difetto di conformità esisteva alla data della consegna del bene. Grava allora sul
venditore l’obbligo di produrre la prova che il difetto non era presente al momento
della consegna del bene, dimostrando che tale difetto trova la propria origine o la sua
causa in un atto o in un’omissione successiva a tale consegna.
Link alla versione integrale della sentenza
47 Direttiva 1999/44/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 maggio 1999, su taluni aspetti della vendita e delle garanzie dei beni di consumo (G.U. n. L 171 del 07/07/1999 pag. 12 – 16)
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Le operazioni di cambio nell’ambito di taluni tipi di mutui in valuta estera non
costituiscono servizi di investimento
(Sentenza nella causa C-312/14, Banif Plus Bank Zrt. / Márton Lantos e Mártonné Lantos)
Due coniugi ungheresi hanno stipulato un contratto di credito al consumo con una banca
ungherese, finalizzato all’acquisto di un’automobile. Per ottenere un tasso d’interesse
più favorevole rispetto a quello offerto per i mutui in fiorini ungheresi, hanno optato
per un mutuo in valuta estera, esponendosi così al rischio di un apprezzamento di tale
valuta rispetto al fiorino nel corso del periodo di rimborso.
Nell’ambito di un ricorso presentato dalla banca dinanzi ad un tribunale ungherese, la
coppia chiedeva a tale giudice di dichiarare che i contratti di credito in valuta estera
rientrano nel campo di applicazione della direttiva sui mercati degli strumenti
finanziari48, di modo che la banca, in quanto ente creditizio, avrebbe dovuto, in
particolare, valutare che il servizio fornito fosse adeguato o adatto.
Il tribunale ungherese chiedeva dunque alla Corte se la concessione di un mutuo in
valuta estera come quello di cui al procedimento principale possa essere considerato
come prestazione di un servizio di investimento, al quale si applicano le disposizioni in
parola della direttiva. Inoltre, il giudice ungherese chiede se la violazione di dette
disposizioni comporti la nullità del contratto di mutuo.
Nella sua sentenza del 3 dicembre 2015 la Corte constata che operazioni di cambio
realizzate nell’ambito della concessione di un mutuo in valuta estera come quello in
esame costituiscono attività puramente accessorie alla concessione e al rimborso del
prestito. Infatti, dette operazioni fungono unicamente da modalità di esecuzione di
queste due obbligazioni essenziali del contratto di mutuo.
Poiché il mutuatario mira solamente ad ottenere fondi in previsione dell’acquisto di un
bene o di un servizio e non a gestire un rischio di cambio o a speculare sul tasso di
cambio di una valuta estera, e operazioni di cui trattasi non hanno lo scopo di
realizzare servizi di investimento. Peraltro, in virtù della direttiva, tali operazioni non
costituiscono neppure, di per sé, servizi siffatti. Le operazioni di cambio in parola sono
inoltre connesse ad uno strumento (il contratto di mutuo) che non costituisce uno
strumento finanziario ai sensi della direttiva.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte conclude che le operazioni di cambio
nell’ambito di mutui in valuta estera come quello in parola non costituiscono servizi di
investimento, di modo che la concessione di un tale mutuo non è soggetta alle
disposizioni della direttiva relative alla protezione dei consumatori.
Link alla versione integrale della sentenza
48 Direttiva 2004/39/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, relativa ai mercati degli strumenti finanziari, che modifica le direttive 85/611/CEE e 93/6/CEE del Consiglio e la direttiva 2000/12/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e che abroga la direttiva 93/22/CEE del Consiglio (GU L 145, pag.1)