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Gli Alunni della VA Scientifico Brocca Progetto : Nola, culla del Risorgimento
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Progetto : Nola, culla del Risorgimentonolarisorgimento.altervista.org/Nola culla del Risorgimento.pdf · Secondo la tradizione, la città fu fondata dagli Ausoni nell'VIII secolo

Feb 18, 2019

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Gli Alunni della VA Scientifico Brocca

Progetto : Nola, culla del Risorgimento

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1 Nola, culla del Risorgimento – VA Scientifico Brocca

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2 Nola, culla del Risorgimento – VA Scientifico Brocca

Esposito Ignazio Scala Carmine 27

Scala Carmine 31

BREVE STORIA DI NOLA

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3 Nola, culla del Risorgimento – VA Scientifico Brocca

Storia di Nola – dalle origini ai giorni nostri

Secondo la tradizione, la città fu fondata dagli Ausoni nell'VIII secolo a.C., qualche decennio prima della nascita di Roma, anche se la presenza umana nel territorio nolano è certa fin dall'età paleolitica. Importantissima prima e durante l'impero romano, tanto da ottenere la dignità senatoriale (S.P.Q.N.), il primo imperatore romano Ottaviano Augusto morì nei pressi della città il 19 agosto del 14 d.C. A partire dal XIII secolo Nola fu feudo degli Orsini. Nel 1820 i capitani dell'esercito borbonico Morelli e Silvati diedero inizio a Nola ai moti risorgimentali, con l'aiuto dell'abate Luigi Minichini. Il giorno 11 settembre del 1943 avvenne a Nola una delle peggiori stragi compiute dai nazisti nel sud d'Italia, nota come l'eccidio di Nola. A Nola ha sede la diocesi omonima suffraganea dell'arcidiocesi di Napoli, inoltre Nola è stata sede della prima banca istituita in Europa. Città dalla tradizione forense, sede di tribunale, a Nola è attivo il corso di laurea in Scienze giuridiche dell'Università degli studi di Napoli "Parthenope" (ex istituto universitario Navale), afferente alla facoltà di Giurisprudenza. Inoltre dal 1996 è istituita una sede distaccata della facoltà di medicina e chirurgia dell'Università "Federico II" di Napoli per il corso di laurea in Scienze Infermieristiche. Nel 1820 partirono da Nola i primi moti carbonari per l'unità d'Italia. Fu patria, tra gli altri, di : Giordano Bruno, Pomponio Algerio, Giovanni Merliano, Nicolantonio Stigliola, Ambrogio Leone, Carlo Theti, Luigi Minichini. Di origini nolane fu anche il poeta Luigi Tansillo. Attualmente conta 35.000 abitanti circa ed è sede di Tribunale, Procura della Repubblica, Ufficio del Registro, Ufficio delle Imposte Dirette, Ufficio del Lavoro, Università (Facoltà di Giurisprudenza) Seminario Vescovile e dei principali Istituti di Scuola Media Superiore. E' anche sede di Diocesi (una delle più antiche della Campania). Santi Patroni sono Felice e Paolino. In onore di quest'ultimo nel mese di giugno si svolge la celeberrima Festa dei Gigli. Da alcuni anni aspira a diventare Capoluogo di Provincia.

Palazzo Orsini

E' situato in Piazza Giordano Bruno. Costruito, nella seconda metà del XV secolo, per volere del Conte di Nola Orso Orsini, ha subito con il passare del tempo varie modifiche e cambi di destinazione. Nato come residenza dei Conti Orsini, nel 1559, per volere della Contessa Maria Sanseverino, venne donato alla Compagnia di Gesù. A seguito della cacciata dei Gesuiti dal Regno di Napoli, avvenuta nel 1767 il palazzo fu destinato ad uso militare quale quartiere Generale di Cavalleria. Nel 1860 vi fu allocato il Distretto Militare, soppresso qualche

decennio fa. Dal 1994 è sede del Tribunale di Nola, della Procura della Repubblica presso lo stesso, nonché del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Nola. Il Palazzo è in stile rinascimentale. La facciata principale, originariamente in tufo, venne in seguito ricoperta con i marmi dell'antico anfiteatro marmoreo di Nola e presenta una lunga incisione in latino che conferma non solo l'epoca della costruzione, ma anche il nome del committente . Vi sono, poi, tre file di finestre ed un bellissimo portale di ingresso. La pianta è quadrata ed all'interno si possono ammirare un ampio cortile ed un signorile giardino, oltre ad alcuni antichi ritrovamenti. Il Palazzo si può visitare solo previa autorizzazione della Presidenza del Tribunale.

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Duomo La chiesa di Santa Maria Assunta è il duomo di Nola e cattedrale della diocesi omonima. Si trova in Piazza Duomo L’attuale cattedrale di Nola è una costruzione moderna, edificata tra il 1869 e gli inizi del Novecento su progetto dell’architetto Nicola Breglia in stile neorinascimentale: essa fu inaugurata nel maggio 1909 con la traslazione delle reliquie di san Paolino. La nuova costruzione fu necessaria a causa del devastante incendio doloso che la notte del 13 febbraio 1861 distrusse completamente l’antica chiesa gotica: di essa si salvarono solo alcuni manufatti, la cripta e la cappella dell’Immacolata. Questa chiesa risaliva alla fine del XIV secolo, costruita in seguito al trasferimento della sede della diocesi da Cimitile (dove si trovava la cattedrale di San Felice in Pincis) a Nola; e per l’inadeguatezza della cattedrale provvisoria, la chiesa nolana dei Santi Apostoli, a fianco della quale fu edificato il nuovo edificio sacro, in stile gotico a tre navate. La costruzione subì importanti modifiche a causa di un crollo nel 1583; infine venne distrutta nell’incendio appiccato, sembra, per motivi politici nel 1861.

Villaggio preistorico

Il Villaggio Preistorico di Nola, la cosiddetta Pompei della Preistoria, è uno straordinario sito archeologico dell'Età del Bronzo Antico, seppellito dall'eruzione del Vesuvio detta delle Pomici

di Avellino (1860-1680 a.C.). L'eccezionalità, unica al mondo, del ritrovamento di Nola è dovuta al fatto che le capanne, sepolte dall’eruzione vulcanica, si sono conservate attraverso il loro calco nel fango e nella cenere che le ha inglobate, sigillando anche tutte le suppellettili che si trovavano nelle stesse al momento del disastroso evento. Per la prima volta è stato così possibile comprendere la forma che avevano queste costruzioni, l'orditura dei tetti e la carpenteria e quale organizzazione avessero dato gli abitanti agli

spazi delle abitazioni, nello svolgimento delle attività di ogni giorno. E' una straordinaria fotografia di una laboriosa comunità preistorica cancellata dalla forza distruttrice del Vesuvio.

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Manganiello Andrea Menna Felicia Napolitano Domenico

IL TERRITORIO NOLANO

DURANTE IL RISORGIMENTO

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Massoneria in Italia Il panorama della massoneria in Italia è piuttosto frammentato. L'istituzione con il maggiore numero di aderenti è il Grande Oriente d'Italia (cosiddetto "di Palazzo Giustiniani", dalla sua sede storica), che accetta solo uomini. Poi abbiamo la Gran Loggia d'Italia (detta anche di Piazza del Gesù, dalla sua sede storica, o di Palazzo Vitelleschi dalla sua sede attuale), che è un'obbedienza mista, in quanto accetta donne e uomini. Segue la solo maschile Gran Loggia Regolare d'Italia, riconosciuta dalla Gran Loggia d'Inghilterra. La Federazione italiana dell'Ordine Massonico Misto "Le Droit Humain" è la costola italiana del "Droit Humain", la più antica delle Obbedienze miste, nata in Francia. Da menzionare tra le obbedienze miste anche il Supremo Consiglio d'Italia e San Marino, e tra quelle solo femminili la Gran Loggia Massonica

Femminile d'Italia. Vi sono poi decine e decine di altre obbedienze numericamente minori, spesso derivanti da scissioni delle maggiori. Tra i personaggi italiani degni di nota che ebbero ruoli importanti nella massoneria, tra gli altri, Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Zanardelli, Ernesto Nathan, Ettore Ferrari e Paolo Ungari. Massoneria a Napoli Un sicuro insediamento della massoneria a Napoli, a parte un precedente non del tutto certo del 1728 (relativo ad una loggia denominata Perfetta Unione), può esser fatto risalire al 1749, ad iniziativa di un mercante di seta francese, tale Louis Larnage, fondatore di una loggia alla quale

aderirono diversi ufficiali e numerosi nobili. Dalla loggia originaria si distaccò un gruppo, guidato dallo stesso Larnage, che costituì un’altra loggia di più modesta fisionomia sociale. Nel luglio del 1750, per iniziativa dello Zelaia, Raimondo di Sangro principe di San Severo fu eletto gran maestro della embrionale libera muratoria napoletana e dette rapidamente mano ad una notevole espansione della confraternita. La pubblicazione, avvenuta il 28 maggio 1751, della Bolla Providas Romanorum Pontificum emanata da Papa Benedetto XIV per ribadire la condanna pontificia del 1738, indusse Carlo VII di Borbone (poi Carlo III, come re di Spagna) alla promulgazione di un editto (10 luglio 1751) che proibiva la Libera Muratoria nel regno di Napoli. Avendo avuto sentore della tempesta che stava per abbattersi sulla neonata massoneria napoletana, fin dal 26 dicembre 1750 il principe di San Severo aveva minutamente informato il re sulla esatta realtà dell’organizzazione da lui presieduta e, con altrettanta tempestività, il 1° agosto 1751 inviò al Papa un’abilissima lettera di ritrattazione. Le proteste di lealismo politico-religioso del San Severo valsero a limitare le sanzioni contro i liberi muratori napoletani, che si ridussero per la stragrande maggioranza di essi a una solenne ammonizione giudiziaria. Nel 1763, divenuto re di Spagna fin dal 1759 Carlo VII e regnante sotto la tutela del toscano ministro Bernardo Tanucci l’ancora minore suo figliolo Ferdinando IV, il gran maestro aggiunto della G. L. Nazionale d’Olanda Franc Van der Goes concesse una patente provvisoria di fondazione per una loggia sotto la denominazione di Les Zelés. La patente definitiva venne rilasciata dalla G. L. Nazionale di Olanda il 10 agosto 1763 e ad essa il 10 marzo 1764 fece seguito un’altra patente, che promuoveva la loggia Les Zelés al rango di Gran Loggia Provinciale per il regno di Napoli. Tra il 1766 ed il 1767 un gruppo di fratelli, guidato dall’abate Kiliano Caracciolo, creò una loggia

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dissidente sotto la denominazione di La Bien Choisie, ottenendo il 26 aprile 1769 una patente di fondazione dalla G. L. d’Inghilterra (Moderns), la quale in pari tempo (7 marzo 1769) aveva altresì rilasciato un’altra patente per una loggia, la Perfect Union n. 368, la quale fu investita del rango di Gran Loggia Provinciale, con a capo il duca di San Demetrio e della Rocca, sostituito nel 1773 da Francesco d’Aquino principe di Caramanico. Il re Ferdinando IV il 12 settembre 1775 firmava un nuovo editto contro la massoneria, a conferma di quello del 1751. Il 1° gennaio 1776 il ministro Bernardo Tanucci ordinò una perquisizione e nelle mani della polizia rimasero alcuni borghesi, tra i quali il professore di matematica Felice Piccinini ed il grecista Pasquale Baffi, membri della G. L. Provinciale “inglese”. I lavori massonici furono ufficialmente sospesi e il gran maestro principe di Caramanico fu costretto a una pubblica abiura. Ma il processo agli arrestati, grazie alle pressioni esercitate sulla Regina Maria Carolina dallo stesso principe di Caramanico e da Diego Naselli, si concluse con la loro liberazione e con l’inaspettato pensionamento del ministro Tanucci. Nel giugno 1776 i membri della G. L. Nazionale elessero Diego Naselli gran maestro. Nel 1777 quest’ultimo aderì al Rito della Stretta Osservanza Templare, coinvolgendovi per intero la G. L. Nazionale. Nel 1779, a seguito degli sviluppi verificatisi in seno al Regime della Stretta Osservanza mediante il Convento di Lione e la riforma elaborata dal Willermoz con la trasformazione del Regime medesimo in quello Scozzese Rettificato, il Naselli e la sua Gran Loggia Nazionale aderirono alla riforma. Dal 1783, a causa della forzata rinunzia da parte del conte di Bernezzo, il Naselli assunse anche la carica di gran maestro provinciale. Nel frattempo continuava pur sempre a sopravvivere la Gran Loggia Provinciale “inglese” diretta dal duca di San Demetrio, tra i cui aderenti si devono ricordare, oltre al già citato Pasquale Baffi, il giurista Mario Pagano, l’ammiraglio Francesco Caracciolo, il medico Domenico Cirillo, l’ufficiale Giuseppe Albanese. Nel 1784, nel piedilista dell’aristocratica loggia La Vittoria, alle dipendenze del Rito Scozzese Rettificato, troviamo anche il poeta Aurelio Bertòla de Giorgi ed il conte Vittorio Alfieri, iniziato probabilmente tra il 1774 ed il 1775. Alle soglie della rivoluzione francese, tuttavia, la G. L. Nazionale era in piena regressione numerica. Il 3 novembre 1789 Ferdinando IV rinnovò la proibizione delle attività massoniche ed il gran maestro Naselli dette ordine alle logge di sospendere i propri lavori. Massoneria a Nola Si hanno poche notizie riguardo la massoneria e la carboneria a Nola, ma sicuramente sappiamo che l' Arciconfraternita del Carmine ha svolto un ruolo importantissimo. L’Arciconfraternita del Carmine era, a Nola, un punto di riferimento e di aggregazione molto importante tanto che –ad esempio- era previsto che si celebrassero messe quotidianamente fino a mezz’ora dopo mezzogiorno per consentire anche a chi transitava con le neonata strada ferrata Napoli-Nola-Codola (1849) di poter partecipare ai Santi Uffici, molto frequentati proprio nella Chiesa dell’Arciconfraternita. Essendo, dunque, l’Arciconfraternita un importante luogo di incontro e discussione, non è peregrino ipotizzare la sicura partecipazione di alcuni dei confratelli del Carmine ai moti Carbonari di cui sopra, ed altrettanto è ipotizzabile poter pensare ed immaginare che proprio nei luoghi di ritrovo dei locali della Confraternita, in Nola nei giorni antecedenti lo scoppio della scintilla dei moti del 1820, si sia discusso e parlato proprio di ciò che di lì a poco si sarebbe verificato, ancor di più perché il ‘capo’ fu un sacerdote, Luigi Minichini, che

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sicuramente era conosciuto dai frequentatori ed aderenti al Pio Sodalizio. In questi anni l’Arciconfraternita del Carmine di Nola, la più antica tra i sodalizi confraternali tutt’ora esistenti a Nola, era notoriamente attiva sul territorio cittadino. Essa fu fondata nel 1710 ed ottenne il decreto di riconoscimento dall’Autorità ecclesiastica il 1 novembre del 1710. Nel 1777 il Re Ferdinando IV di Borbone concesse il proprio regio Assenso alle Regole della Confraternita; nel 1852 fu aggregata con Bolla Pontificia alla Confraternita del Carmine di Roma e nel 1853 Re Ferdinando II di Borbone concesse il titolo di Arciconfraternita. E’, inoltre, da osservare che la prima scintilla dei Moti carbonari, divampò proprio in Nola nella notte tra il 1 e 2 luglio 1820 (giorno della ricorrenza di San Teobaldo, protettore dei Carbonari). L'Abate Minichini, insieme al tenente Michele Morelli di 30 anni, originario di Monteleone Galasso (nei pressi di Foggia) ed al tenente Giuseppe Silvati di Napoli, entrambi appartenenti al Real Borbone Cavalleria di stanza a Nola, si misero a Capo del movimento insurrezionale, con altri 20 congiurati, ed al grido di: Dio - Re - Costituzione, sventolando la Bandiera Carbonara, rosso, azzurro, e nera, il tricolore apparve in un secondo momento, iniziarono la loro marcia. Lo storico Michele Manfredi così descrive i primi passi dell'inserruzione: "…Luigi Minichini, gli occhiali e l'abito talare, armato di schioppo, montante un cavallo bianco, andava gridando "Viva paesani,

allegri!". Da Casamarciano, attraverso un sentiero campestre sboccarono nella strada della Schiava, dove s'incontrarono con circa 12 uomini di Visciano; a Sperone la truppa s'ingrossò soltanto del distaccamento che era in Avella, guidati dal sergente Altomare…". Ma la rivolta non ebbe effetti previsti dagli organizzatori , la popolazione in special modo, rimase quasi indifferente, rispondendo in modo fiacco all'appello rivoltogli. Il 7 luglio il Re Ferdinando IV concedeva la Costituzione (esemplificata su quella del

Regno di Spagna) al Regno delle Due Sicilie ed il Movimento Rivoluzionario falliva e mentre il Minichini lasciava Napoli nel marzo del 1821, diretto a Barcellona, Morelli e Silvati, dopo drammatiche peripezie, venivano uccisi in oscure circostanze. I 21 carbonari che partirono da Nola, nella notte tra il 1 e 2 luglio 1820 erano: Luigi Minichini da Nola, sacerdote; Domenico Gentile da Nola; Antonio Montano da Napoli, caffettiere; Camillo Sepe da Nola, farmacista; Giovanni Rossi da Nola, studente; Giuseppe Papa da Santa Maria a Vico, scrivano; Arcangelo De Simone, caporale degli Armigeri; Carlo Molinaro, armigero; Giuseppe Sallustro da San Giovanni a Teduccio, commerciante; Giovanni Siciliano, armiere; Raffaele Raiola, bettoliere; Mario Caruso, industriale; Cristoforo Balsamo, sarto; ed ancora: Luigi Del Vecchio ed Aniello Giugliano, da Pozzo Ceravolo; Michele Giugliano, da Piazzolla di Nola, benestante; i Massari: Vincenzo Girolamo, Michele Chiappetta e Gaetano Giannone, tutti da Piazzolla di Nola, oltre a Francesco Pesce, negoziante di Nola ed Andrea Rosati, proprietario, da Saviano. Questi almeno quelli certificati dalle fonti.

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Luigi Minichini Entrò nel seminario diocesano di Nola nel 1798 e poi nell'Ordine dei Frati Minori Conventuali. Nel 1818 fu costretto ad abbandonare il convento di San Giovanni in Galdo perché accusato di aver avvelenato il frate laico Carmine Carrella da Saviano. Entrato nella Carboneria, assieme ai sottotenenti Morelli e Silvati fu uno degli capi della rivolta del 2 luglio 1820 a Nola. Entrò tuttavia presto in disaccordo con i militari in quanto, nelle prime fasi della rivolta, riteneva più opportuno cercare l'appoggio dei contadini anziché quello dell'esercito e della borghesia. Nonostante l'insuccesso delle sue iniziative, nell'ottobre 1820 fu inviato in missione in Sicilia dove tuttavia ebbe nuovi dissensi con le autorità locali. Successivamente tentò anche di stringere accordi con i carbonari del regno di Sardegna e della Lombardia, ma sempre senza successo. Dopo la revoca della costituzione da parte di Ferdinando I delle Due Sicilie e l'entrata degli austriaci a Napoli (1821), Minichini andò in esilio dapprima in Spagna e poi in Inghilterra, dove divenne protestante. Scrisse anche un resoconto dei moti costituzionali che vendette manoscritta al governo delle Due Sicilie. Nel 1825 si stabilì negli Stati Uniti d'America.

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10 Nola, culla del Risorgimento – VA Scientifico Brocca

De Riggi Maria Trentin Annalisa

Ugolino Francesco

I MOTI

CARBONARI A

NOLA

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La Carboneria La carboneria era un’organizzazione segreta formatasi nei primi anni del 19simo secolo e operante nell’arco di tempo che vide la nascita dei moti risorgimentali italiani, particolarmente quelli che passarono alla storia come i moti carbonari del 1820/21. Gli iscritti alla Carboneria avevano come obiettivo principale la conquista di una costituzione, a cui si affiancavano altri interessi secondari e strettamente connessi alla loro singola provenienza: nell'Italia settentrionale , ossia il Lombardo-Veneto, ad esempio, si lottava anche per la conquista dell'indipendenza dalla dominazione austriaca; nello Stato Pontificio si chiedeva, invece, un governo laico, dopo tanti anni di malgoverno ecclesiastico; i carbonari della Sicilia, infine, esigevano che l'isola diventasse uno Stato separato da quello di Napoli, contrariamente agli stessi napoletani che desideravano conservare l’unità territoriale del regno. I membri della Carboneria erano soprattutto ufficiali, aristocratici, intellettuali, membri della borghesia illuminata e liberale ed erano divisi in due settori o logge: quella civile, impegnata nella protesta pacifica e alla propaganda, e quella militare, destinata alle azioni di guerriglia. La struttura era regolata rigidamente dall'alto e il comportamento doveva essere ispirato alle regole della massima segretezza. Sia per ragioni di anonimato sia per il gusto del travestimento e del vocabolario cifrato, si fece ricorso a nomi ed espressioni tipici di uno dei più antichi e miseri mestieri del popolo: appunto quello dei carbonari . Un mestiere come quello dei carbonari si prestava d'altronde abbastanza bene: chi lo praticava doveva spostarsi continuamente dovunque ci fosse legname da trasformare in carbone. Inoltre si trattava di un'attività piuttosto diffusa, soprattutto nel meridione d'Italia. Ecco dunque i cospiratori politici camuffarsi da carbonari. La loro organizzazione era diretta dal centro, da una "grande

vendita" di cui facevano parte pochi membri. Gli ordini venivano

trasmessi da questa a varie "baracche" o "vendite locali",

composte di venti affiliati, detti anche "cugini". I "cugini",

all'atto della loro entrata nella Carboneria, erano detti

"apprendisti" e conoscevano solo in parte la struttura e gli scopi

dell'organizzazione. Dopo un periodo di prova, entravano a far

parte del grado superiore, diventando "maestri" (anche questi

termini derivavano dall'organizzazione corporativa del lavoro di

origine medievale). Nella Carboneria vigeva il gradualismo, per

cui il programma dell'associazione veniva rivelato solo gradualmente all'adepto, via via che i

superiori lo ritenevano degno di essere iniziato ai segreti. Questa gradualità non era dovuta

solamente alla necessità di mantenere la segretezza ma aveva principalmente una funzione di

iniziazione pedagogica. Solitamente la Carboneria era divisa in tre gradi: apprendista, maestro

e gran maestro. Nel primo grado si professavano genericamente alcuni princìpi umanitari,

impostati sulla morale e sulla religione tradizionale. Nel secondo si parlava di costituzione,

d'indipendenza e di libertà. Nel terzo si proclamava l'aspirazione a creare una repubblica ed un

regime di eguaglianza sociale, che comportasse la ripartizione delle terre e la promulgazione

della legge agraria.

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La Carboneria aveva due grandi difetti: la mancanza di un'organizzazione centrale, capace

appunto di collegare fra loro le diverse iniziative regionali secondo criteri unitari e organici e il

carattere misterioso dell'associazione i cui membri ignoravano talora persino i programmi e

l'identità dei loro capi e dovevano spesso sottoporsi a riti strani ed incomprensibili. Inoltre,

l'origine degli associati faceva della Carboneria un'associazione troppo chiusa e ristretta per

poter formulare vasti programmi a carattere nazionale. Inoltre, dopo aver raccolto il favore di

molti elementi della borghesia cittadina come artigiani e mercanti, che non avevano perdonato

al sovrano borbonico la sua politica favorevole ai grandi proprietari terrieri, la Carboneria iniziò

ad assecondare le volontà guerrigliere dei suoi capi, tralasciando altri gravi problemi politico-

sociali che avrebbero creato all'interno di essa stessa un'ideologia e dei percorsi politici tortuosi

e spesso contraddittori: ad esempio i carbonari si dichiaravano favorevoli all'indipendenza

italiana, ma non accennavano minimamente all'eventuale governo che avrebbe dovuto guidare

l'Italia libera. Tale ambiguità, cioè quella di non poter affermare con certezza la collocazione

politica della Carboneria, che unì elementi di "destra" con altri di "sinistra" e di "centro",

terminerà solo quando, a seguito di una lunga sequela di disfatte militari, dovute tra l’altro

all'assenza delle classi popolari, alcuni carbonari ripensarono il problema della libertà con una

prospettiva più ampia mirante ad una azione comune e alla formazione di una nazione unita.

I Moti del 1820-1821 Il congresso di Vienna e la Restaurazione si erano impegnati a ristabilire in Europa gli equilibri e le autorità presenti prima della rivoluzione francese del 1789 e del dominio napoleonico; le classi dirigenti si diedero dunque da fare affinché i venticinque anni di rivoluzione venissero dimenticati e non si dovesse più temere un loro ripetersi. Sui troni di Francia e Spagna tornarono i sovrani assoluti (rispettivamente Luigi XVIII e Ferdinando VII), ed in Italia, mentre l’Austria riaffermava la propria autorità sul lombardo-veneto, i regni di Sardegna e Napoli

dovettero misurarsi con le tendenze reazionarie dei loro monarchi. Apparentemente quindi l’ordine era ristabilito, ma negli animi degli intellettuali e del popolo i nuovi modi di pensare e gli ideali ispirati dalla Rivoluzione Francese non sembravano volersi sopire. Cominciarono a svilupparsi fra i liberali le società segrete, fenomeno già diffuso durante il ‘700 ma che nell’Europa "restaurata" divenne di cruciale importanza, assorbendo l’intera ondata intellettuale e rivoluzionaria del tempo. Il 1° gennaio 1820 alcuni reparti dell’esercito

spagnolo in procinto di salpare da Cadice alla volta delle Americhe per stroncare i governi indipendentisti che si stavano creando, disertarono, opponendosi al regime repressivo del sovrano Ferdinando VII. Il tentativo parve riuscire: il re fu costretto a ripristinare la Costituzione e a convocare il Parlamento, composto da un camera elettiva concessa ai ribelli. Dopo quei primi successi, però, la rivolta fu soffocata nel sangue. Con la battaglia del Trocadero, alla quale partecipò anche il principe Carlo Alberto di Savoia, erede al trono di Sardegna, i soldati francesi misero fine definitivamente ai disordini.

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13 Nola, culla del Risorgimento – VA Scientifico Brocca

Sulla spinta degli avvenimenti spagnoli, anche in Italia si

moltiplicarono i primi tentativi insurrezionali: nel luglio 1820 anche

a Napoli e in Sicilia andarono organizzandosi gruppi di ribelli;

nel marzo 1821 scoppiò la rivoluzione in Piemonte, che costituì un

caso particolare, in quanto per la prima volta i ribelli non insorsero

con l’obiettivo di porre fine al dominio sabaudo ma, al contrario,

puntavano sull’appoggio del monarca al fine di allontanare lo

straniero dal suolo patrio e raggiungere, così, la tanto agognata

unità nazionale. Nonostante la loro fragilità, i moti di Spagna ed

Italia destarono la preoccupazione nei conservatori seguaci del

congresso di Vienna: si decise dunque di passare alla

controffensiva, ed il 23 marzo 1821 gli austriaci calarono sul Regno

delle due Sicilie e vi ristabilirono il legittimo re Ferdinando I, che

per ripicca mise in atto rigidissime forme di repressione. In Piemonte furono eseguite alcune

condanne a morte, e in molti furono costretti a fuggire. Nel Lombardo-Veneto, infine, la

scoperta di alcune società segrete portò a processi e condanne contro molti degli oppositori al

dominio austriaco.

Michele Morelli

Nel quadro storico politico della Rivoluzione Napoletana del 1820-22, tra i giovani martiri emerge la nobile figura di Michele Morelli, nativo di Monteleone di Calabria (oggi Vibo Valentia). Di agiata famiglia borghese, si avviò alla carriera militare, nella quale avanzò piuttosto lentamente fino a sottotenente nel reggimento cavalleria a Nola. La sua illustre famiglia gli aveva inculcato alti ideali di giustizia, di libertà, di amicizia e fratellanza, sentimenti inalberati come vessillo, valori irrinunciabili per i quali non esitò a sacrificare la giovane vita. Sentì come gli altri il fascino delle tendenze innovatrici e si iscrisse alla Carboneria che aveva costituito nell'esercito "vendite" numerose e attive. Fu Morelli, insieme ad altri suoi valorosi compagni, a dare inizio a quel cammino verso la libertà, che portò all’Unità d’Italia. Il Salvatorelli, studioso del pensiero politico Italiano, afferma che i moti

del 1820 e del 1821 costituirono in Italia la prima vera iniziativa rivoluzionaria del Risorgimento, poiché per gli insorti il sacro ideale e meta da raggiungere era l’Unità d’Italia. Il nome di Morelli, scritto nel libro dei primi martiri risorgimentali, diviene, ad imperituro ricordo, il simbolo di grandi ed eterni ideali d’indipendenza e di amor di Patria. L’epigrafe del notaio, dott. Francesco Cutellè, uno dei componenti promotori del Comitato Vibonese << Pro Michele Morelli >>, incisa sul bronzeo monumento, sintetizza egregiamente la vita e il sacrificio del giovane ufficiale: << A Michele Morelli, Monteleonese, primo eroe risorgimentale, forte nella vita, epico nella morte, nella storia eterno, Comitato di liberi cittadini, superbi di lui e memori, il nome ne perpetua nel bronzo >>.

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14 Nola, culla del Risorgimento – VA Scientifico Brocca

Giuseppe Silvati

Giuseppe Silvati (Napoli, 1791 – Napoli, 12 settembre 1822) è stato un militare italiano, militare dell'esercito delle Due Sicilie, carbonaro, promosse con Michele Morelli, la rivolta militare che indusse Ferdinando I delle Due Sicilie a concedere la costituzione nel 1820. Sottufficiale durante il regno di Gioacchino Murat, prese parte alla campagna di Spagna (1810-1812) e a quelle d'Italia (1814-1815). Con la Restaurazione fu sottotenente nell'esercito borbonico; affiliatosi alla Carboneria iniziò con Michele Morelli, il moto insurrezionale che nella notte tra il 1° e il 2 luglio 1820, propagatosi da Nola ed Avellino in tutto il Regno delle Due Sicilie, portò all'instaurazione del regime costituzionale. Nominato comandante della 2 compagnia dello «Squadrone sacro», fu inviato in Sicilia per combattere contro i separatisti; tornato a Napoli, cercò nel marzo 1821 di sollevare le popolazioni dell'Irpinia per la difesa del paese minacciato dall'invasione austriaca. Riparato nello Stato Pontificio e consegnato alle autorità borboniche, fu condannato a morte e giustiziato il 12 settembre 1822.

Guglielmo Pepe

Guglielmo Pepe (Squillace, 13 febbraio 1783 – Torino, 8 agosto 1855) è stato un patriota e

generale italiano nell'esercito del Regno delle Due Sicilie. Entrato nell'esercito, in giovane età

nella Scuola Militare Nunziatella, nel 1799 accorse a Napoli a difesa della Repubblica

Partenopea. Subendo la sconfitta contro le

truppe borboniche del cardinal Ruffo, venne

catturato ed esiliato in Francia dove entrò

nell'esercito di Napoleone distinguendosi in

molte battaglie, sia al servizio di Giuseppe

Bonaparte, re di Napoli, che di Gioacchino

Murat. Prese parte alla rivoluzione

napoletana del 1820, e fu sconfitto ad

Antrodoco (allora appartenente alla

provincia di L'Aquila oggi provincia di Rieti)

dagli austriaci del generale Johann Maria

Philipp Frimont in quella che è ricordata

come la prima battaglia del Risorgimento (7

marzo 1821). Poi comandò il corpo spedito

da Ferdinando II contro gli austriaci nel 1848, impegnandosi nella difesa di Venezia affidatagli da

Daniele Manin nel 1848 e 1849. Nuovamente sconfitto ed esiliato emigrò a Parigi quindi rientrò

in Italia passando i suoi ultimi giorni a Torino. Fu una delle più nobili figure del Risorgimento

italiano, celebre anche perché non solo si impegnò nei movimenti repubblicani, ma anche

scrisse numerosi libri per raccontare gli eventi ed esortare ad una "lotta partigiana" per l'Italia.

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15 Nola, culla del Risorgimento – VA Scientifico Brocca

I Moti Carbonari a Nola

I moti carbonari di Nola nacquero dalla cospirazione napoletana, la quale non si pose mai l’intento di rovesciare il re, ma solo di chiedere la costituzione su modello di quella spagnola. Essa prese subito vigore e coinvolse anche degli ufficiali superiori, come il generale Guglielmo Pepe, che comandava la II Divisione nelle province di Avellino e di Foggia. Nel maggio del 1815 la Carboneria salutò infatti con gioia il ritorno di Ferdinando IV di Borbone sul trono di Napoli, sperando nella costituzione da lui promessa tramite accordi segreti, stipulati durante il suo soggiorno in Sicilia, a causa dell’occupazione della città partenopea da parte delle truppe

francesi. La loro, però, fu una vana speranza in quanto, tornato sul trono, non mantenne fede alla suddetta promessa, rifiutandosi di concedere alcuna costituzione; al contrario, egli si affrettò a revocare quella precedentemente concessa ai Siciliani, fondando un governo assolutista dei più reazionari della penisola. Questo atteggiamento anticostituzionale fu accentuato dalla nomina, nel gennaio del 1816, del Principe di Canosa a ministro della Polizia. La Carboneria fu sconvolta da questa presa di posizione del Sovrano e la sua stessa esistenza fu minacciata da un grave dissenso al suo interno. All'atteggiamento rigoroso assunto dal Canosa, il quale organizzò, in opposizione ai Carbonari, la setta dei Calderari, i rivoltosi reagirono. Il Regno precipitò in aperta guerra civile per cui Ferdinando IV fu costretto a licenziare il Canosa il 16 giugno. I Carbonari ebbero via libera quando, nell'agosto del 1817, l'esercito austriaco, di presidio nel regno, abbandonò Napoli. Privi di ulteriori ostacoli al loro progetto, essi poterono organizzarsi per tentare di costringere il Re a concedere la costituzione.

Tra i più attivi in questo periodo nell'organizzare la setta dei Carbonari a Nola e nell'Agro, troviamo un Nolano, l'abate Luigi Minichini. Con la comparsa del Minichini a Nola tra il 1818 e 19 si ripresero le attività dei Carbonari locali; egli entrò subito in corrispondenza col tenente Michele Morelli, capo della sezione della carboneria di Nola, il quale decise di coinvolgere il proprio reggimento nella cospirazione, e col sottotenente Giuseppe Silvati. La notte tra il il 1 e il 2 luglio 1820, la notte di San Teobaldo, patrono dei carbonari, Morelli e Silvati diedero il via alla cospirazione disertando con circa 130 uomini e 20 ufficiali. Essi incontrarono Minichini, che si presentò davanti al vecchio quartiere (ex Reggia Orsini) con una ventina di Carbonari nolani. Egli entrò immediatamente in contrasto con Morelli: il primo voleva procedere con un largo giro per le campagne allo scopo di aggiungere alle proprie fila quei contadini e quei popolani che credeva attendessero di unirsi alla cospirazione; il secondo voleva puntare direttamente su Avellino dove lo attendeva il generale Pepe. Minichini lasciò lo squadrone allo scopo di seguire il proprio intento, ma dovette far ritorno poco dopo senza risultati. Quindi i 127 uomini del Reggimento ed i settari nolani iniziarono la marcia verso Monteforte Irpino con a capo Luigi Minichini. Ebbe così inizio la grande avventura. I nostri condottieri subirono però una cocente delusione: infatti, man mano attraversarono i vari paesi che si stendevano tra Nola ed Avellino, non si imbatterono in alcun segno di rivolta e, tra coloro che avevano promesso di unirsi ai ribelli, pochi tennero fede alla promessa. Morelli era

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disanimato, in molti prevaleva sfiducia e perplessità. Solo l'ardente abate, su un cavallo bianco, armato di schioppo non dava segno di avvilimento. Un contemporaneo così scrisse: “Vacillò allora per un momento la costanza di quei bravi. Minichini solo è imperturbabile e la fermezza di un prete fece opportunamente quella volta arrossire il valore militare”. A Monteforte fu ufficializzata la causa della rivoluzione, che scatenò i primi entusiasmi; i ribelli ricevettero incoraggiamenti ed aiuti. Due ufficiali dei militi, Francesco Campanile e Gaetano Ligniti, con la loro compagnia si misero a loro disposizione. Da Avellino, il capitano Bartolomeo Paolella portò l'annunzio che tutti i liberali della città, i militari, i Carbonari e non, erano in armi. Così scrive il De Attellis: “Il Minichini dava l'esempio dello spartanismo. Non si esitò più; ogni timore fu sgombrato e tutti gli animi si determinarono alla conquista della Libertà nazionale, a traverso di qualunque ostacolo. In un baleno una coccarda a tre colori ornò tutti i cappelli.” Intanto il governo diede incarico al generale Carrascosa di reprimere il movimento rivoluzionario; ma delle diverse truppe al suo comando, molte disertarono. In tanta dissoluzione al Re non rimase che accogliere i voti del popolo e, con l'Editto del 6 Luglio, promise di concedere, entro otto giorni, la costituzione. Intanto, la Rivoluzione trionfò: i rivoltosi e le truppe, con a capo Morelli, concentratesi a Capodichino, di lì per Foria, il Museo e Toledo, giunsero davanti alla Reggia. Seguivano il tenente Morelli, il generale Guglielmo Pepe, il generale Antonio Napoletani (nolano) ed il Colonnello De Concili, nonché l'abate Minichini a cavallo e circa 7000 Carbonari. I rivoltosi chiesero al Vicario, il Principe Francesco, di essere ricevuti dal re, che era a letto indisposto. Nell'appartamento privato del sovrano fu ammesso il generale Pepe, al quale il Re promise l'osservanza della costituzione. L'inizio del periodo costituzionale avvenne di fatto il 7 luglio del 1820, sebbene durò solo otto mesi e mezzo, a causa non solo del sovrano, ma anche di coloro che, perennemente insoddisfatti, continuavano a porre ulteriori richieste. Le elezioni avvennero regolarmente ed il Colletta riporta che i “collegi elettorali furono affollati come in paesi di antica libertà.” Il 1° ottobre del 1820 ebbe luogo la seduta inaugurale del Parlamento. Ma fu una vittoria effimera. Infatti, quando il re fu convocato a Lubiana dalla Santa Alleanza, questi, prima di partire, promise di difendere la costituzione, giurando ancora una volta sul Vangelo. Invece lo spergiuro gettò la maschera appena fuori del Regno ed invocò l'aiuto dell'Austria contro i rivoluzionari. Un esercito austriaco, perciò, attraversò la penisola. Esso fu contrastato da Guglielmo Pepe, a capo di un esercito forte di 40.000 coscritti, che fu subito sbaragliato il 7 marzo 1821 ad Antrodoco in Abruzzo. Sulle rive del Garigliano un secondo esercito al comando del Carrascosa si rarefece per le diserzioni. Così, fu facile per gli austriaci invadere Napoli il 24 marzo e chiudere immediatamente il neonato parlamento. Dopo un paio di mesi, il re Ferdinando IV revocò la costituzione e affidò al ministro di polizia, il principe di Canosa, il compito di catturare tutti coloro che erano sospettati di cospirazione. Furono perseguitati senza pietà gli autori del movimento rivoluzionario e primi fra tutti i due ufficiali Morelli e Silvati. Quest’ultimi furono costretti alla fuga e il 10 aprile si imbarcarono verso l’Albania, ma una tempesta dirottò la loro imbarcazione sino a Ragusa. Di li raggiunsero la Bosnia. Poi, i due si divisero, e Morelli tornò in Italia, sempre da fuggiasco. Mentre si trovava tra

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le montagne d’Abruzzo venne assalito da dei banditi che lo assalirono e lo derubarono. Arrivato al primo paese, in cerca di aiuto, incontrò i gendarmi ai quali dovette arrendersi. Fu portato in catene dapprima a Foggia e successivamente a Napoli dove, l’11 agosto, fu rinchiuso nel Forte dell’Ovo. Durante la prigionia rincontrò Silvati, catturato giorni prima. Il processo iniziò nel maggio 1822, presso la Gran Corte Speciale di Napoli nella Vicaria di Castel Capuano. Morelli e Silvati furono accusati di “misfatto di cospirazione”, reato molto grave in quei tempi. L’inevitabile condanna a morte mediante impiccagione fu eseguita in Piazza Porta Capuana a Napoli il 12 settembre 1822. Il corpo di Morelli, che aveva rifiutato i conforti religiosi, fu gettato in una fossa di calce viva. L'abate Minichini si sottrasse alla cattura con la fuga prima in Spagna, poi in Inghilterra e quindi negli Stati Uniti d'America dove morì nel 1861. Dal sacrificio dei cospiratori del 1820 trassero forza le successive azioni del 1831-33.

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18 Nola, culla del Risorgimento – VA Scientifico Brocca

Tufano Felice Volpe Raffaele

IL PROCESSO A

MORELLI E SILVATI

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19 Nola, culla del Risorgimento – VA Scientifico Brocca

L’archivio di Caserta L'Archivio di Caserta fu istituito a seguito del decreto del 22 ottobre 1812, quale Archivio provinciale di Terra di Lavoro. Nel 1863, la provincia subì una prima modificazione territoriale : l'alta valle del Volturno, cioè il territorio intorno a Venafro, passò a far parte della provincia di Campobasso. La Terra di Lavoro fu poi soppressa nel 1927 ed il suo territorio venne diviso fra le province di Napoli, Roma, Frosinone, Campobasso e Benevento. Nel 1945, con la ricostituzione della provincia Casertana, l’archivio ritornò di Stato. D'altra parte in conseguenza delle numerose modifiche della circoscrizione territoriale gran parte della documentazione riguarda comuni e territori che attualmente non fanno parte della provincia. Il fondo comprende inoltre fascicoli civili, graduazioni, espropriazioni, vendite immobiliari, gratuito patrocinio, perizie, atti della sezione specializzata agraria. Storia e Processo di Morelli e Silvati Il 21 maggio 1821 il Re Ferdinando I nominò una giunta provvisoria di diciotto membri e con loro deliberò il nuovo ordinamento da dare allo Stato : Napoli e la Sicilia avrebbero avuto un'amministrazione separata con funzionari propri, con giustizia penale e civile, con imposte e bilancio distinti; il re avrebbe trattato le cose del regno in un Consiglio di Stato di dodici membri. Le leggi, i decreti, le ordinanze sarebbero state esaminate da una consulta di trenta consiglieri almeno per Napoli e da una di diciotto per la Sicilia; ogni provincia avrebbe avuto un consiglio di benestanti nominati dal re con l'incarico di distribuire equamente le quote d'imposta diretta fra i vari comuni. Il 30 maggio Ferdinando I, ricorrendo il suo onomastico, decretò un'amnistia per tutti coloro che si erano iscritti a società segrete dall'8 luglio 1820 al 24 marzo 1821, purché non avessero cospirato. Questa amnistia poco dopo fu resa quasi nulla con un successivo ordine di "destituire e mettere sotto processo tutti gli ufficiali che in quel 5 luglio 1820 si erano recati a Monteforte". Qualche mese dopo furono sciolti 14 reggimenti e 4 battaglioni staccati di fanteria e 5 reggimenti di cavalleria; un certo numero d'ufficiali mandati a casa ebbero la misera pensione di sei ducati al mese. Segui l'abolizione della coscrizione e si stabilì di assoldare tre reggimenti stranieri. Si pattuì inoltre con l'Austria che rimanessero a guardia del regno trentamila Austriaci cui il governo borbonico s'impegnava di dare gli alloggi e le vettovaglie. Infine furono dispensati ai militari austriaci titoli, dignità e pensioni. Era cominciato, intanto, quello che passò alla storia con il nome di “Processo di Monteforte”. Molti degli imputati erano distinti ufficiali, e i principali imputati erano i tenenti Morelli e Silvati, comandanti dello "squadrone sacro" di Nola. Questi, dopo l'ingresso degli Austriaci in Napoli, avevano iniziato la guerriglia alla testa di una banda di cinquecento armati, quindi, sciolta la loro truppa, si erano imbarcati su piccola nave per la Grecia. Sbattuti da una tempesta sulle coste dalmate erano stati arrestati dalle autorità del luogo e poiché si erano spacciati per romagnoli erano stati mandati ad Ancona; ma riconosciuti poi per Napoletani erano stati restituiti al governo borbonico. "Cammin facendo, il Morelli ebbe modo di fuggire, ma - come scrive il Colletta - il Morelli, fu arrestato e in catene spedito a Napoli". Il processo (che sembra anticipare quello più famoso di Norimberga un secolo dopo) fu dibattuto davanti alla "Gran Corte Speciale di Napoli". Si voleva ad ogni costo la condanna degli imputati e si trovarono giudici disposti a darla. Dal governo fu cassata una prima sentenza favorevole ai rei; il cavalier Di Giorgio, ministro della giustizia, che voleva fare rispettare le leggi, fu esonerato e l'onesto

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procuratore generale Calenda sostituito con un altro magistrato; il presidente Potenza, non avendo la forza di sfidar l'ira dei potenti e non volendo giudicare a torto, si finse ammalato. Il processo durò tre mesi e iniziò con una coraggiosa domanda del virtuoso giudice De Simone, il quale, essendo stati condotti dal carcere al tribunale quattro imputati infermi ed essendo stato negato il differimento del giudizio, chiese ad alta voce : "Domando al signor presidente e al procuratore del Re se qui siamo giudici o carnefici. Il re, se fosse presente, biasimerebbe l'inumanità nostra". Ammirato fu il nobile contegno del colonnello Celentani, il quale, difendendo gli ufficiali del reggimento Regina, da lui comandato a Monteforte, affermò che erano innocenti perché avevano, "in ossequio alla disciplina militare, obbedito al suo comando" ed affermò energicamente che lui solo doveva esser considerato colpevole se tale poteva chiamarsi chi aveva invocato quella costituzione che fu però accettata, promulgata e giurata dal re. Se si voleva affermare che il re l'aveva concessa perché sottoposto a pressioni, allora anche i soldati lo erano. E se era innocente il re lo erano pure i soldati o altri subalterni che avevano eseguito gli ordini dei loro superiori. A nulla valsero le arringhe dei quattordici avvocati difensori; il Fiscale chiese la pena di morte per il Morelli, il Silvati ed altri 28 ufficiali; tre giudici si pronunziarono per la condanna capitale, tre per l'assoluzione. Il voto del presidente appoggiò quello dei primi e così fu pronunciata sentenza di morte per trenta imputati. Tredici furono condannati all'ergastolo. Citiamo i nomi dei condannati a morte:

Michele Morelli e Giuseppe Silvati, tenenti nel reggimento Borbone-Cavalleria;

Gregorio Pristipino, capitano dei Fucilieri Reali;

Antonio Nappo, capitano, e Francesco Campanile tenente dei Militi di Monteforte;

Giovanni Pinedo, maggiore;

Ermenegildo Piccioli, capitano;

Ferdinando La Vega, Gaetano Villani, Atlante Canudo, Giuseppe Alleva e Luigi Gironda ufficiali del reggimento Principe Cavalleria;

Ottavio Tupputi, tenente colonnello;

Nicola Staiti, maggiore;

Ferdinando Pennasilico, capitano;

Carlo Ferrara, Emanuele Marciano, Filippo Esperti, Giuseppe Macdonald, Vincenzo Genarelli e Raffaele Esperti, ufficiali del reggimento Dragoni Ferdinando;

Gennaro Celentani, colonnello;

Michele Albano, capitano;

Ciriaco Romano, Pasquale Pesce, Tommaso Francione e Niccola Ruggero, ufficiali del reggimento Regina;

Antonio Gaston, maggiore;

Ignazio Rappoli e Federico Dolce, ufficiali del reggimento Real Napoli. Alla pena capitale furono condannati pure i preti Luigi Minichini e Giuseppe Capuccio, contumaci. Il Morelli e il Silvati furono impiccati il 10 settembre del 1822 ed affrontarono con grande dignità la morte, specie il Morelli che, mentre era condotto alla forca, ricordando i martiri della Repubblica Partenopea, rinfacciava a Ferdinando i vecchi ed i nuovi spergiuri. Gli altri 28 ufficiali avrebbero seguito la sorte del Morelli e del Silvati se non avesse interceduto per loro il conte di Frimont, generalissimo dell'esercito austriaco, il quale chiese in nome dell'imperatore la commutazione della pena e ottenne che quegli ufficiali fossero condannati ai ferri per un numero di anni che andava dai diciassette ai trenta.

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Carbone Giuseppina Notaro Maria Giuseppa Notaro Maria Pia

CONFRATERNITA

DEL CARMINE

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Durante gli anni dei moti carbonari l’Arciconfraternita del Carmine di Nola, la più antica tra i sodalizi confraternali tutt’ora esistenti a Nola, era notoriamente attiva sul territorio cittadino. Essa fu fondata nel 1710 ed ottenne il decreto di riconoscimento dall’Autorità ecclesiastica il 1 novembre del 1710. Nel 1777 il Re Ferdinando IV di Borbone concesse il proprio regio Assenso alle Regole della Confraternita; nel 1852 fu aggregata con Bolla Pontificia alla Confraternita del Carmine di Roma e nel 1853 Re Ferdinando II di Borbone concesse il titolo di Arciconfraternita. E’, inoltre, da osservare che la prima scintilla dei Moti carbonari, divampò proprio in Nola nella notte tra il 1 e 2 luglio 1820 (giorno della ricorrenza di San Teobaldo, protettore dei Carbonari). L'Abate Minichini, insieme al tenente Michele Morelli di 30 anni, originario di Monteleone Galasso (nei pressi di Foggia) ed al tenente Giuseppe Silvati di Napoli, entrambi appartenenti al Real Borbone Cavalleria di stanza a Nola, si misero a Capo del movimento insurrezionale, con altri 20 congiurati, ed al grido di: Dio - Re - Costituzione, sventolando la Bandiera Carbonara, rosso, azzurro, e nera, il tricolore apparve in un secondo momento, iniziarono la loro marcia. Lo storico Michele Manfredi così descrive i primi passi dell'inserruzione: "…Luigi Minichini, gli

occhiali e l'abito talare, armato di schioppo, montante un cavallo bianco, andava gridando "Viva paesani, allegri!". Da Casamarciano, attraverso un sentiero campestre sboccarono nella strada della Schiava, dove s'incontrarono con circa 12 uomini di Visciano; a Sperone la truppa s'ingrossò soltanto del distaccamento che era in Avella, guidati dal sergente Altomare…". Ma la rivolta non ebbe effetti previsti dagli organizzatori , la popolazione in special modo, rimase quasi indifferente, rispondendo in modo fiacco all'appello rivoltogli. Il 7 luglio il Re Ferdinando IV concedeva la Costituzione (esemplificata su quella del Regno di Spagna) al Regno delle Due Sicilie ed il Movimento Rivoluzionario falliva e mentre il Minichini lasciava Napoli nel marzo del 1821, diretto a Barcellona, Morelli e

Silvati, dopo drammatiche peripezie, venivano uccisi in oscure circostanze. I 21 carbonari che partirono da Nola, nella notte tra il 1 e 2 luglio 1820 erano: Luigi Minichini da Nola, sacerdote; Domenico Gentile da Nola; Antonio Montano da Napoli, caffettiere; Camillo Sepe da Nola, farmacista; Giovanni Rossi da Nola, studente; Giuseppe Papa da Santa Maria a Vico, scrivano; Arcangelo De Simone, caporale degli Armigeri; Carlo Molinaro, armigero; Giuseppe Sallustro da San Giovanni a Teduccio, commerciante; Giovanni Siciliano, armiere; Raffaele Raiola, bettoliere; Mario Caruso, industriale; Cristoforo Balsamo, sarto; ed ancora: Luigi Del Vecchio ed Aniello Giugliano, da Pozzo Ceravolo; Michele Giugliano, da Piazzolla di Nola, benestante; i Massari: Vincenzo Girolamo, Michele Chiappetta e Gaetano Giannone, tutti da Piazzolla di Nola, oltre a Francesco Pesce, negoziante di Nola ed Andrea Rosati, proprietario, da Saviano. Questi almeno quelli certificati dalle fonti. L’Arciconfraternita del Carmine era, a Nola, un punto di riferimento e di aggregazione molto importante tanto che –ad esempio- era previsto che si celebrassero messe quotidianamente fino a mezz’ora dopo mezzogiorno per consentire anche a chi transitava con le neonata strada ferrata Napoli-Nola-Codola (1849) di poter partecipare ai Santi Uffici, molto frequentati proprio nella Chiesa dell’Arciconfraternita. Essendo, dunque, l’Arciconfraternita un importante luogo di incontro e discussione, non è peregrino ipotizzare la sicura partecipazione di alcuni dei confratelli del Carmine ai moti Carbonari di cui sopra, ed altrettanto è ipotizzabile poter pensare ed immaginare che proprio nei luoghi di ritrovo dei locali della Confraternita, in Nola nei giorni antecedenti lo scoppio della scintilla dei moti del 1820, si sia discusso e parlato proprio di ciò che di lì a poco si sarebbe verificato, ancor di più perché il ‘capo’ fu un sacerdote, Luigi Minichini, che sicuramente era conosciuto dai frequentatori ed aderenti al Pio Sodalizio.

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IL BRIGANTAGGIO

A NOLA

Arentino Rosa Romano Enrica Simonelli Maria Sodano Valentina

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Il Plebiscito e la rivolta nelle campagne Brusciano è un paesino all’ombra del Monte Somma nelle vicinanze di Nola e Pomigliano D’Arco, a pochi km da Napoli. Il 21 Ottobre del 1860, giorno in cui si tenne il Plebiscito unitario, Brusciano contava 2.856 abitanti di cui 494 erano ammessi al voto. Accadde, però, che quasi i due terzi dei votanti di Brusciano non si presentarono alle urne. L’alfiere della Guardia Nazionale, Giovanni Francesco Tramontano venne sospeso dall’ufficio e destituito dal grado perché faceva propaganda contro il Plebiscito; si sottrassero al voto anche alcuni amministratori pubblici ed impiegati comunali: i decurioni, Sebastiano di Maiolo e Domenico Antonio Terracciano; gli amministratori di Beneficenza, Francesco Maiolo ed Antonio Lanza; il regolatore del pubblico orologio, Rocco Vaia. E così come a Brusciano, in tutto il Distretto di Nola fu impressionante l’affermarsi al Plebiscito dell’astensionismo: ad Avella si astennero poco meno della metà degli aventi diritto al voto; a Carbonara e a Marzano addirittura più dei due terzi. Per giustificare l’elevato tasso di astensionismo a Quadrelle, a Moschiano, a Sperone, a Lauro, a Mugnano, a Saviano furono indicati nei verbali i motivi più vari, dalla imprescindibile necessità di non abbandonare il lavoro nei campi alla febbre sopraggiunta proprio quel dì a migliaia di abitanti. Si astennero soprattutto contadini e rappresentanti del clero, ma anche artigiani e negozianti. L’aspetto significativo del fenomeno, però, è rappresentato dall’astensione degli amministratori pubblici, successivamente tutti esonerati dalle loro cariche. Si astennero a Carbonara i decurioni Felice Iannicello, Carisio Sorrentino, Felice Sorrentino fu Giuseppe e Felice Sorrentino fu Francesco; a Quadrelle si astenne il supplente giudiziario Gennaro Pagano; ad Avella il cancelliere sostituto del comune, Paolo Pescione; a Baiano il Rettore della Chiesa comunale don Pietro Incoronato, il sacerdote don Giovanni Antonio Buccieri e il sagrestano della chiesa e custode del cimitero Bernardino Litto; a Mariglianella il decurione Giovanni Bruscino. L’astensionismo fu uno dei modi più evidenti in cui venne espresso il grande dissenso popolare nei confronti del processo unitario. Della farsa del Plebiscito, denunciata persino nel Gattopardo, scrive Cesare Cantù: “Qui il plebiscito giungea al ridicolo poiché oltre a chiamare tutti a votare sopra un soggetto dove la più parte erano incompetenti, senza tampoco accertare l’identità delle persone e fin votando i soldati, si depositarno in urne distinte i SI e i NO, lo che rese manifesto il voto; e fischi e colpi e coltellate a chi lo desse contrario. Un villano gridò “Viva Francesco II” e fu ucciso all’istante”. Dunque la democraticità dell’evento si infrangeva contro la realtà: una scheda per il sì ed una per il no con due urne su ciascuna delle quali campeggiavano stampate le scritte Sì e NO. Scrive il De Sivo: “Al mattino del 21 cominciarono i camorristi con suoni e bandiere a scorrere la città; poi primo il dittatore pose il voto; poi il prodittatore col municipio in forma pubblica; poi garibaldini d’ogni nazione e lingua: Sirtori, Bixio, Turr, Eber, Eberart, Rustow, Peard, Teleky, Megiorody, Dunn, Csudafy e quanti altri di barbari nomi eran lì”. Alla fine votò appena l’1,92% della popolazione. Nel distretto di Nola, le votazioni si svolsero, secondo i verbali, nella calma assoluta, solo a Cumignano fu registrato il caso di un omicidio politico, dopo la diffusione dei risultati dell’esito elettorale: si tratta dell’omicidio di Basilio Napolitano di Felice con un colpo di fucile sparato dal cugino Pasquale Napolitano. A cosa era dovuto questo malcontento così diffuso? Con l’arrivo di

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Garibaldi a Napoli si rendeva sempre più chiaro che il Generale, ora Dittatore, di liberatore aveva assai poco: in sequenza furono aboliti i dazi doganali, con i quali il governo borbonico proteggeva le industrie e l’artigianato nel Regno, erano state introdotte le tasse, giacché sotto i Borbone il popolo ne era in larga parte esente, unificato il debito pubblico “nazionale” e trasferite al Nord le riserve auree del Banco di Napoli e degli altri massimi istituti di credito, era, poi, aumentato il prezzo di sale e tabacchi ed era stata ristabilita l’onerosa tassa sul macinato, erano state vendute le rendite pubbliche ed epurati gli enti pubblici degli impiegati ritenuti filoborbonici. In più, in barba alle promesse di distribuzione della terra, erano stati messi all’asta i terreni utilizzati dai contadini quali “usi civici”, ed acquistati dagli antichi Baroni spossessati dai Borbone. Si aggiunga che il popolo mal tollerava la chiusura e la soppressione di larga parte dei Conventi assieme alla vendita all’asta dei beni requisiti alla Chiesa. A Novembre, inoltre, dopo il Plebiscito, 30.000 soldati garibaldini furono congedati e così divennero un pesante fardello per l’economia meridionale. Anche chi aveva in un primo momento accolto Garibaldi con entusiasmo, fu costretto, travolto dalle amare delusioni, a ricredersi; nelle industrie imperversarono i fallimenti, nelle campagne i raccolti furono magri, magrissimi, il carovita cresceva di giorno in giorno e la leva obbligatoria toglieva utili braccia alle umili famiglie contadine. Nelle sole provincie napoletane si calcola che su 70.000 chiamati alle armi, se ne presentarono solo 20.000; il resto finì tra i monti a guerreggiare. Fu così che già nel Giugno del 1860, in tutto il Distretto, da Avella a Palma ed Acerra, si susseguirono assemblee e contestazioni contadine al grido di “Viv’o Rre”. Questa eccitazione, “reazionaria” si disse, costrinse in Agosto le autorità di Nola a sospendere la festa della SS. Assunzione di Maria

Vergine e non fu un errore perché il giorno dopo, a Camposano, fu soffocato un tentativo di reazione con grida inneggianti al Re, cosa che si ripeté anche il 26 Agosto durante i festeggiamenti in onore del Patrono San Gavino. Ad Acerra furono diversi gli arresti per sommossa e, in seguito al tentativo del sacerdote Domenico Goglia di far nascere una insurrezione reazionaria, furono arrestati Angelantonio di Buono, Vincenzo Soriano, Domenico Aiardo e Francesco Casiello. Così, in

un continuo crescendo, ad un mese dal Plebiscito, a Lausdomini, San Paolo, Faibano, Cicciano, Sirico e Saviano si susseguirono contestazioni, rivolte e arresti. Proprio per sedare i tumulti il 5 Luglio 1860 era stata istituita la nuova Guardia Nazionale che, per un breve tempo, convisse problematicamente con la Guardia Urbana; il nuovo organismo avrebbe dovuto impedire il sovvertimento dell’ordine pubblico e la rapina della proprietà privata da parte di quanti non avevano visto realizzate le promesse di ripartizione delle terre fatte da Garibaldi, e che, anzi, si erano visti defraudati dei prodotti del loro lavoro e ridotti in miseria. Nelle campagne nolane i contadini dimostrarono subito il loro dissenso con manifestazioni veementi, minacce e schiamazzi tali che la Guardia Nazionale, comandata dal maggiore Giuseppe Cocozza, marchese di Montanaro, intervenne fermamente per sedare i tumulti in corso, soprattutto quelli presso il Ponte di Ciccione. In alcune località i contadini fuggirono, in altre smisero di manifestare, a Boscofangone, invece, nel territorio detto “Masseria Ruopoli”, i manifestanti, che avevano issato la bianca bandiera borbonica, aggredirono le Guardie che, solo col soccorso dei rinforzi, poterono procedere all’arresto di trentuno contadini. Al termine dell’operazione risultarono affidati a procedimento penale.

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18 Dicembre 1861 – Ricordiamo i Briganti caduti Un giorno d’inverno come gli altri. L’abbondante nevicata caduta nei giorni precedenti aveva imbiancato le cime dei monti di del Partenio e di Avella fino al monte Maio e Fellino. Pianori, gole, valloni e mulattiere erano divenute inaccessibili o percorribili con estrema lentezza e pericolosità. Era, questa, l’occasione aspettata dal Generale Franzini della colonna mobile di Nola per sferrare l’attacco decisivo per sorprendere e distruggere la banda di Cipriano La Gala. Cipriano La Gala aveva accampato l’armata partigiana, su un altipiano denominato “Chiano Maiuro”, (Piano Maggiore), sull’Appennino Campano tra la valle Caudina e l’Agro Nolano, ritenendolo “luogo sicuro rispetto ad altri”. La notevole quantità di boschi mulattiere valloni e anfratti naturali avrebbero permesso una precipitosa fuga dei “briganti” verso l’impenetrabile Appennino e il massiccio del Taburno. Ma quel giorno non andò così . Il 3° battaglione dei bersaglieri comandati dal Maggiore Robaudi, mosse da Nola all’alba per occupare l’altura dal lato Ovest, mentre una compagnia di guardie Nazionali Mobili avrebbe impedito la fuga a sud verso Baiano e Mugnano del Cardinale. Il 18° battaglione del maggiore Melegari mossero da Arpaia, da Cervinara, da Rotondi e da Paolisi per raggiungere le cime dal versante Caudino a Nord. Due compagnie di Guardie Nazionali Mobili avrebbero chiusi altri due passi decisivi: Vallone di Forchia e Cervinara. L’abbondante nevicata chiudeva l’ultima via di fuga verso i monti di Avella e il Partendo ad Est. La neve fu nemica per la fuga ma divenne alleata nel rallentare l’attacco dei Bersaglieri. Solo alle ore 11 del giorno 18, tali forze conversero su piano maggiore, ma la banda se ne era frettolosamente allontanata. “Sparsi qua e la si vedevano sacchi di pasta, recipienti e bottiglie di vino, ceste di carne, utensili di cucina, e fra giacigli e coperte qualche oggetto di vestiario. Ad ogni baracca e capanna si vedevano affisse dentro e fuori immagini di Madonne e di Santi”. La Banda, composta da circa 400 uomini, riuscì a sottrarsi all’accerchiamento e prese la via di San Martino dove non era stato ancora chiuso il passo dalla Seconda compagnia dei Bersaglieri. Ma la via di fuga era segnata, la presenza di militari e la neve la rendevano unica e senza alternativa. Continuarono ad allontanarsi lasciando per strada ogni carico, forse anche le armi, per uscire da quella trappola infernale. Nonostante tutti gli sforzi non potettero sottrarsi allo scontro che avvenne in località ”Cornito”, dove inaspettatamente saliva detta seconda compagnia proveniente da San Martino. Lo scontro fu breve e violentissimo. Sul posto sopraggiunsero le compagnie passate per Piano Maggiore e presero la banda tra due fuochi. Sul piano Cornito morirono in combattimento 31 patrioti. Col loro sacrificio arrestarono le forze Piemontesi permettendo al grosso dell’armata di riorganizzarsi. Il grosso si diresse con Cipriano verso il vallone di Cervinara. Trovarono il paese deserto. Sullo stradale per Montesarchio si imbatterono in un reparto di fanteria comandato dal tenente Negri dal quale vennero assaliti. Riuscirono comunque a sottrarsi allo scontro e riparare in parte nel massiccio del Taburno, in parte nel partenio. La banda risultava più che decimata. Tra morti e catturati aveva perduto 163 uomini. La stampa e le relazioni degli ufficiali riportarono l’episodio come una disfatta del brigantaggio nolano. Sappiamo bene invece che le bande furono più che efficacemente attive soprattutto negli anni successivi quando arrivarono le considerazioni del Ferrari e le relazioni del Massari sul brigantaggio, nonché le riflessioni del D’Azeglio e la famigerata legge Pica pubblicata il 15 agosto 1863.

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27 Nola, culla del Risorgimento – VA Scientifico Brocca

Crisci Saverio Nappi Salvatore

Scala Antonio

CANZONI

POPOLARI DEL

RISORGIMENTO

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28 Nola, culla del Risorgimento – VA Scientifico Brocca

La musica italiana durante l'Ottocento conobbe una fioritura straordinaria e un altrettanto eccezionale successo in tutta Europa. Come già nel Settecento, furono italiani molti musicisti di grande talento, ma anche cantanti, impresari, direttori dei teatri delle maggiori capitali europee; e ancor oggi l'italiano costituisce una parte importante del linguaggio musicale. Il genere che ebbe maggior seguito in quel periodo fu senza dubbio l'opera lirica, in particolare quella di argomento drammatico o "melodramma". La rappresentazione di un'opera era allora un evento di eccezionale importanza: anche per il suo stesso modo di essere che mette insieme lo spettacolo scenico, la musica e un intreccio narrativo spesso commovente, essa costituiva un'occasione particolarissima capace di suscitare vero entusiasmo in un'epoca in cui le possibilità di intrattenimento non erano molte. Musicisti molto celebri furono, in Italia, Gioacchino Rossini, Vincenzo Bellini; e soprattutto Giuseppe Verdi. Quest'ultimo divenne l'autore più noto del Risorgimento, per la passione libertaria che seppe dare ad alcuni motivi (specialmente affidati al coro), subito accolti e diffusi in tutta la penisola. Già Mazzini, in un saggio del 1836, aveva auspicato il sorgere di una nuova musica, non più salottiera e aristocratica, ma popolare, che sapesse esprimere con un linguaggio fresco e immediato i più nobili sentimenti della nazione e dell'amor patrio; e individuava appunto nel coro lo strumento più efficace per attingere a una fusione ideale degli animi di migliaia di persone e spronarle a un agire comune. Il "magico" potere della musica, capace di commuovere e di incitare all'azione le masse popolari, era ben noto anche ai regimi conservatori, che per questo la temevano. Ogni nuova rappresentazione veniva guardata con sospetto dalla censura austriaca o da quella dei vari Stati italiani, tanto che vennero presi provvedimenti restrittivi per motivi di ordine pubblico. Ad esempio, la platea del Teatro alla Scala di Milano fu divisa in due parti (ognuna dotata di un proprio ingresso): nelle prime file prendeva posto la milizia austriaca, mentre ai normali spettatori era riservato il fondo della sala. Ma ugualmente non mancarono gli attriti e gli incidenti. Così quando a Milano, nel 1859, venne cantato il coro "Guerra, guerra!" della Norma di Bellini, scoppiò il finimondo: il pubblico italiano si levò in piedi applaudendo freneticamente, mentre gli ufficiali austriaci iniziavano a urlare contro il pubblico. Da allora, e per tutte le successive rappresentazioni, il comando austriaco proibì che il coro venisse eseguito. Uguali entusiasmi suscitavano altre arie di Bellini, come quella dei Puritani, "Suoni la tromba e intrepido io pugnerò da forte". Ma i cori più celebri di tutta la storia della musica italiana restano certamente quelli di Verdi, del quale ricordiamo: "Viva Italia! Un sacro patto" e "O Signor che dal tetto natio" da I Lombardi alla prima crociata; e soprattutto il "Va' pensiero" dal Nabucco. Il Piemonte di Cavour ottenne l'appoggio di gran parte dei patrioti italiani. Approfittò allora della favorevole situazione europea e dell'alleanza con la Francia per vincere la seconda guerra d'indipendenza. Melodramma

Nel nostro Paese, l’Ottocento fu il secolo del melodramma, con Rossini, Bellini, Donizetti ma soprattutto Verdi. Il primo si ispirava ancora alle musiche settecentesche, mentre Bellini e

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Donizetti avevano un’ispirazione più romantica. Fu Verdi ad intraprendere una via più autonoma che lo portò a raggiungere le più alte vette del melodramma italiano: fu in grado infatti di dare maggior equilibrio alle varie parti, che risultarono così più coerenti alla realtà. In Francia il gusto del pubblico si evolse gradualmente: nei primi anni ebbero successo i musicisti italiani, ma poi, intorno al 1830, si diffuse la Grand-Opéra, un tipo di melodramma che aveva soggetti storici: si narrava di sentimenti, passioni con balletti e con molti cambi di scena. Un altro tipo di melodramma, anch’esso molto amato dal pubblico, fu l’Opéra-comique, leggero, adatto al divertimento, molto disimpegnato. Verso metà secolo si affermò il Dramma lirico, i cui soggetti erano spesso tratti da capolavori della letteratura antica, con alcune modifiche nel linguaggio per renderlo accessibile anche al pubblico dei ceti medi. Lo stile musicale era meno complesso, più melodico; le vicende erano

per lo più sentimentali ed a lieto fine. L’Italia, nonostante il poco successo, ebbe nelle mani un vero tesoro della musica: Giuseppe Verdi. L’inno nazionale tra storia e leggenda

Michele Novaro (1822-1885), genovese, ebbe breve carriera di cantante, ma fu notevole didatta e discreto compositore di melodrammi. In gioventù cantò in due opere di Donizetti: nella Linda di Chamounix (1842) e nella Maria di Rohan (1843); in seguito condusse una

apprezzabile carriera di secondo tenore al regio di Torino. Ai giorni nostri è famoso per aver composto la musica dell’inno patriottico Canto degli italiani (1847), con i versi di Goffredo Mameli, meglio conosciuto come Fratelli d’Italia. Dal 1946 al 2006 è stato l’inno nazionale “provvisorio” della Repubblica italiana (spesso fu proposto di sostituirlo con il Va pensiero verdiano): ora, per decreto, è stato riconosciuto definitivamente come nostro inno. Narra la leggenda che una sera di settembre del 1847, durante una riunione tra patrioti e appassionati di musica a Torino, il pittore genovese Ulisse Borzino portò a Novaro la bozza del Canto degli Italiani che gli mandava Mameli. Novaro improvvisò subito una marcia; durante la notte perfezionò l’unica sua opera che lo renderà famoso ai posteri. In quello stesso periodo Mameli fu il destinatario d’un breve carteggio con Mazzini, il quale chiedeva al poeta, in una lettera del 6 giugno 1848 (allegando una nota di Verdi), un inno patriottico che poi il maestro avrebbe musicato.

Fratelli d'Italia,

l'Italia s'è desta;

dell'elmo di Scipio

s'è cinta la testa.

Dov'è la Vittoria?

Le porga la chioma;

ché schiava di Roma

Iddio la creò.

(Introduzione dell’Inno)

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Bellini e il Risorgimento

Anche la musica di Bellini fece la sua parte nel risveglio del furore

patriottico nazionale. La stretta dei due bassi Suoni la tromba ,che

conclude il secondo atto de I puritani (1835), suscitò, a Parigi,

l’entusiasmo generale, a livello di parossismo. Non risponde a verità

l’esclusione di questo brano dalla partitura dell’opera destinata a

Napoli per problemi di censura: semplicemente non era stato ancora

composto! Bellini, come è risaputo, lavorò su due versioni de I

puritani: una per Napoli e una per Parigi, tra dicembre 1834 e gennaio

1835. La partitura per Napoli fu conclusa ai primi di gennaio. Suoni la

tromba fu composta da Bellini, pare su consiglio di Rossini, quando

ormai la partitura per Napoli giaceva in attesa di arrivare a destinazione. Ma a Napoli, per causa

di forza maggiore, fu rappresentata la versione “parigina” nel 1837.

Suoni la tromba e intrepido io pugnerò da forte: bello è affrontar la morte gridando libertà. Amor

di patria impavido mieta i sanguigni allori, poi terga i bei sudori e i pianti la pietà. All’armi! Sia

voce di terror Patria, vittoria e onor!

(Estratto secondo atto de “I Puritani”)

Verdi e il suo apparente impegno politico

In quello stesso periodo Verdi, da Parigi, prendeva i primi contatti con il librettista Salvatore Cammarano, da sempre sostenitore di aspirazioni patriottiche, a Napoli, per un’opera che rispecchiasse l’ «epoca più gloriosa della storia italiana, quella della Lega Lombarda». Dopo vari tentativi con la censura napoletana, i due convennero per un lavoro che sarebbe passato alla

storia come La battaglia di Legnano. Questa opera, dal contenuto sovversivo, fu rappresentata durante la Repubblica romana, la sera del 27 gennaio 1849, qualche giorno avanti la proclamazione dell’effimera repubblica. Verdi, che curò personalmente l’allestimento della prima, ebbe un successo travolgente, tanto che il compositore fu investito di una onorificenza repubblicana. Questo fatto, però, nocque alla fama dell’opera che, in altre riprese fatte durante l’Ottocento, fu sottoposta al cambiamento del titolo, dell’ambientazione e dei personaggi. Ma Verdi era uomo di musica e non d’armi; stando a Parigi si era illuso di poter comporre e portare avanti opere sovversive. La sua opera continuava, dal Nabucco (1836) alla Battaglia di

Legnano, a raccogliere consensi e a coinvolgere i patrioti che trovavano nella sua cifra melodica e nella sua robusta orchestrazione ispirazione e monito per le loro lotte.

Va pensiero sull’ali dorat,

va, ti posa sui clivi, sui colli,

ove olezzano tiepide e molli,

l’aure dolci del suolo natal. (Estratto da “Va Pensiero”)

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La bella Gigogin

Suonata per la prima volta il 31 dicembre del 1858, al teatro Carcano di Milano, alla vigilia della seconda guerra di indipendenza del 1859 che segnerà la riunificazione dell'Italia. La tradizione orale tramanda che la canzone venne suonata per la prima volta la sera di San Silvestro, il 31 dicembre del 1858, al teatro Carcano di Milano alla vigilia della II guerra di indipendenza. Quando la Banda Civica, diretta dal maestro Gustavo Rossari, cominciò a suonare la bella Gigogin, il pubblico reagì con entusiasmo al punto che la banda dovette ripeterla per 8 volte.

Per non, per non, per non mangiar polenta

Bisogna, bisogna, bisogna aver pazienza

Lassala, lassala, lassala maridà. (Prima strofa)

Italia bella donna

In questo canto, che Mauro Balma, basandosi su un'analoga ipotesi di Leydi, ritiene possa risalire al periodo risorgimentale, i riferimenti alla situazione di quei decenni sono molteplici, ma confusi. La personificazione dell'Italia in "bella donna" serve per mostrarla in catene, vittima della Francia, mentre il re è morto. I pochi indizi individuabili nel testo, quali la descrizione della situazione della Savoia in catene ad opera della Francia e la circostanza della morte del re, potrebbero però far risalire, almeno in parte, il canto al periodo della morte di Vittorio Amedeo III di Savoia, sconfitto dalle truppe di Napoleone e morto nel 1796.

La bandiera dai tre colori

Certamente uno dei più noti tra i canti del Risorgimento, questo brano inneggia alla bandiera, all'unità nazionale e alla libertà. Le parole sono di Dall'Ongaro, la musica di Cordigliani. L'anno di composizione indicato nelle fonti è il 1848.

E la bandiera dei tre colori

e' sempre stata la piu' bella

Noi vogliamo sempre quella

noi vogliam la liberta'

Noi vogliamo sempre quella

noi vogliam la liberta'

La liberta' La liberta'

E tutti uniti in un sol patto

stretti intorno alla bandiera

griderem mattino e sera

viva viva il Tricolor

griderem mattino e sera

viva viva il Tricolor

Il Tricolor Il Tricolor

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Fugge Iachino Questo canto, che l'esecutore ritiene dedicato alla cattura di Pio VII nel 1809, probabilmente risale in realtà al suo ritorno a Roma e, se la congettura è corretta, non al ritorno del 1814 ma a quello successivo, all'indomani del fallimento dell'esperienza dei 100 giorni. In questo caso lo "Iachino" protagonista del testo potrebbe essere Gioacchino Murat.

Passa Passa Garibaldi

La figura di Garibaldi, nell'ampia eco in cui è accolta nel mondo popolare, si affaccia anche in questo gioco di bambini, in cui è evocato il rumore dei suoni della battaglia.

Passa, passa Garibaldi

con tutti i suoi soldati.

Lasciamoli passare

che vanno a lavorare,

ma l'ultimo che resta

gli taglierem la testa.

(Prima strofa)

Volontario abbandonato Il canto del volontario abbandonato "dalla Patria e dall'amor" e il suo dichiararsi Cacciatore

delle Alpi fa supporre che il brano sia databile all'indomani della seconda o della terza guerra d'indipendenza.

Quando alzeremo la nostra bandiera

L'informatore data questo canto ai tempi della Repubblica Romana; in realtà il frammento eseguito è parte della Ronda della guardia civica ai fratelli udinesi, poesia di Teobaldo Ciconi - altrove indicata semplicemente come Passa la

ronda o conosciuta, in versioni con mutamento di alcune parole e la musica, come O giovani ardenti - datata 16 aprile 1848. La bandiera gialla e nera è quella della casa d'Asburgo.

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35 Nola, culla del Risorgimento – VA Scientifico Brocca

Nel Frontespizio

Foto di Piazza Morelli e Silvati © Saverio Crisci, Salvatore Nappi, Antonio Scala Frontespizio

Saverio Crisci, Salvatore Nappi, Enrica Romano Impaginazione

Saverio Crisci, Salvatore Nappi Consulenza Didattica

Prof.ssa Carmela Scala Revisione dei testi

Prof.ssa Carmela Scala, Saverio Crisci, Salvatore Nappi, Antonio Scala Redazione

Gli alunni della VA Scientifico Brocca 2010/2011 Ricerca Iconografica

Saverio Crisci, Enrica Romano, Francesco Ugolino ©2011 by VA Scientifico Brocca 2010/2011, Nola Tutti i diritti riservati.

www.nolarisorgimento.altervista.org email : [email protected]

Uno speciale ringraziamento alla nostra amata preside Dott.ssa Amelia La Rocca, che ci ha concesso l’opportunità di realizzare questo progetto, insieme a tutti i docenti del consiglio di classe della VA Scientifico Brocca. Maietta Lucio Bonagura Amalia Buonaura Biagio Onnembo Abele Zarrelli Lucia Sirignano Antonietta Ambrosino Gabriella Del Vecchio Angelo Lauro Marianna Scala Carmela Iovino Elena