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Ivano Mistretta Phantasmata . Rappresentazione e rimozione dell’alterità nei media Soggetti, modelli, ruoli, personaggi I marziani attaccano la Terra 1 : l’operazione di Welles mette in cam- pol’usuale fobia degli statunitensi versolostraniero–nellospecico: l’Alieno proveniente da un altro mondo, considerato come il Male che attenta all’integrità e al bene della comunità – sfruttando la qualità tatti- ca del mediumradiofonico: la voce di qualcuno sottratta alla sua presen- za. Una voce incorporea, ideale, la cui misura dell’ecacia risiede anche nella capacità di parlare a tutti, alla piazza virtuale degli ascoltatori e, contemporaneamente, a ognuno di essi, inunrapporto privato, con- denziale, quasi confessionale. Così l’alieno, attraverso la radio, è l’Altro che può essere evocato nell’oscurità dell’etere e da una voce che non può essere messa in discussione perché non prevede alcuna forma di dialogo. Èun’entità superiore e ignota e, per questo, potente, di una potenza al di fuori della nostra portata, di un altro mondo. 1 Ci riferiamo a La guerra dei mondi ( War of the Worlds ), il noto radiodramma che Orson Welles mandò in onda negli Stati Uniti, sulle frequenze della CBS, il 30 ot- tobre 1938. Welles, per far credere agli ascoltatori che era in corso uno sbarco di astronavi aliene nemiche, concepì il programma come una serie di notiziari che in- terrompevano un nto palinsesto di brani musicali. 87
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Phantasmata. Rappresentazione e rimozione dell'alterità nei media

Mar 01, 2023

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Ivano Mistretta

Phantasmata.Rappresentazione e rimozione dell’alterità nei media

Soggetti, modelli, ruoli, personaggiI marziani attaccano la Terra1: l’operazione di Welles mette in cam-

po l’usuale fobia degli statunitensi verso lo straniero – nello speci�co: l’Alieno proveniente da un altro mondo, considerato come il Male che attenta all’integrità e al bene della comunità – sfruttando la qualità tatti-ca del medium radiofonico: la voce di qualcuno sottratta alla sua presen-za. Una voce incorporea, ideale, la cui misura dell’e�cacia risiede anche nella capacità di parlare a tutti, alla piazza virtuale degli ascoltatori e, contemporaneamente, a ognuno di essi, in un rapporto privato, con�-denziale, quasi confessionale. Così l’alieno, attraverso la radio, è l’Altro che può essere evocato nell’oscurità dell’etere e da una voce che non può essere messa in discussione perché non prevede alcuna forma di dialogo. È un’entità superiore e ignota e, per questo, potente, di una potenza al di fuori della nostra portata, di un altro mondo.

1 Ci riferiamo a La guerra dei mondi (War of the Worlds), il noto radiodramma che Orson Welles mandò in onda negli Stati Uniti, sulle frequenze della CBS, il 30 ot-tobre 1938. Welles, per far credere agli ascoltatori che era in corso uno sbarco di astronavi aliene nemiche, concepì il programma come una serie di notiziari che in-terrompevano un �nto palinsesto di brani musicali.

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La radio, com’è noto, inventa un pubblico indi�erenziato, colto nella distanza, non più un insieme di individui ma una massa. E insie-me instaura il dominio culturale su di esso, radicalizzando le forme del controllo su quell’immaginario collettivo che ora si avvia a diventare la substantia della cultura di massa.

Al tempo della nascita delle emittenti televisive locali, i programmi più seguiti dal pubblico erano i telegiornali, perché ovviamente infor-mavano sugli eventi della realtà locale, e i programmi di intrattenimento trasmessi in diretta dagli studi televisivi. Relativamente a questa seconda categoria, ricordo che c’era una mia vicina di casa che fece sapere a tutto il palazzo (e anche a quelli limitro�, in verità) che avrebbe partecipato a una di queste trasmissioni. La sera dell’evento tutti i televisori dei vicini erano sintonizzati per vedere la signora M. “in televisione”, alla ricerca del suo volto tra il pubblico seduto in studio. L’indomani, ovviamente, la signora ricevette gli onori di tutti i condòmini che le dicevano che “era venuta bene”, come se stessero discutendo del suo ritratto in foto.A parte la spontaneità popolare e lo stupore del vedersi o del vedere

un volto familiare all’interno dello schermo televisivo, questi sintomi di socialità mediatica mettono bene in evidenza un aspetto fondamentale della mediazione televisiva, di�erente da quella radiofonica: l’Altro assu-me �nalmente visibilità, gli si dà un corpo, non occorre più immaginar-lo dietro le parole. In televisione io vedo qualcuno, lo riconosco attra-verso la sua �sionomia o, se non ne ho ancora conoscenza, associo quel-le determinate sembianze a un determinato individuo con nome e co-gnome. Fin qui nulla di nuovo o di particolare, si dirà. Si tratta di un processo la cui genesi risale quantomeno all’avvento della fotogra�a o, ancor meglio, alla sua circolazione sociale. E, parlando di e�etti sociali, ci pare che il lavoro più determinante compiuto dalla televisione sia quello e�ettuato non direttamente sull’oggetto della rappresentazione ma sulle modalità stesse della rappresentazione, quindi non tanto su ciò che si fa vedere ma sul modo in cui lo si dà a vedere. È un lavoro subdo-

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lo perché incide sulle condizioni della rappresentazione, mutando le re-gole della messa in scena nello stesso momento in cui ne �nge l’annulla-mento. Ad esempio, se pensiamo al modo in cui si sono evoluti ruolo e identità del pubblico “in scena” e cerchiamo di rilevarne la di�erente rappresentazione all’interno di una tipologia ben precisa di programma televisivo – quella in cui il pubblico è presente sul set, come nei quiz-show o nei talk-show – vediamo che le cose sono cambiate non poco nel corso degli anni: dal pubblico fuori campo degli anni Cinquanta – pre-senza anodina, mai inquadrata, evocata quasi unicamente dai saltuari ri-ferimenti che ne faceva il presentatore in studio – si arriva oggi a quello che pervade il set televisivo, collocato come a raccogliersi attorno al pre-sentatore e agli ospiti: un pubblico sempre (almeno potenzialmente) vi-sibile e, quando non partecipe attraverso la propria voce, comunque presente almeno attraverso quell’espressione empatica, spesso pilotata ad hoc, che è l’applauso. Un pubblico che viene frequentemente inquadrato durante la trasmissione, ora in massa, come fondale della scenogra�a, ora mostrando i singoli volti, quasi se ne volesse fare l’identikit, darne una rappresentazione veritiera perché aderente alla realtà di individui realmente esistenti. Uomini e donne “in scena” che assolvono a una fun-zione ben precisa: fare le veci del pubblico a casa, essere gli avatar delle moltitudini che assistono sedute nei tinelli o accomodate sui domestici sofà2 [�g. 1].Ciò che cambia, insieme alla rappresentazione del pubblico, è an-

che la concezione dello spazio deputato allo spettacolo: dalla tipologia del teatro, con la sua contrapposizione frontale tra pubblico e scena e la separazione netta tra il luogo della realtà e quello della rappresentazione, si passa ora all’arena, spazio circolare in cui lo spettacolo è al centro di

2 Non a caso, la partecipazione del pubblico è ormai diventata parte fondamentale di molti format: sia che si tratti dell’intervento del pubblico in studio, sia che si tratti dell’intervento degli spettatori che seguono la trasmissione votando, intervenendo telefonicamente e così via.

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uno sguardo onnivedente, accerchiante. Ma ora, per essere più precisi, gli sguardi si incrociano, dal pubblico verso il centro e dal centro verso il pubblico, perché la messa in scena riguarda tutta l’arena, pubblico com-preso, che è oggetto anch’esso della rappresentazione (sociale) e dà spet-tacolo di sé, osservatore e osservato allo stesso tempo, come in una sorta di Panopticon docile e ambivalente3 [�g. 2a], [�g. 2b].

Rispetto alla signora M., la mia vicina di casa di tanti anni fa, le cose sono certo cambiate: se allora la televisione locale assolveva (anche) alla funzione di rappresentare la società del luogo, ora, nell’epoca della globalizzazione imperante, questo processo di reductio ad unum assimila le identità locali in una sorta di “modello” nazionale, sovradeterminato dalle scelte civilizzatrici dei grandi network televisivi nazionali. Ora il pubblico “in scena” non è più “qualcuno” ma “qualcosa”: è la rappresen-tazione di un pubblico come ruolo di una messa in scena, è una funzio-ne discorsiva.Facciamo un passo avanti e, dal talk-show, passiamo al servizio tele-

giornalistico, per di più della fattispecie più stereotipata: quello di politi-ca interna. Durante la lettura della notizia, oltre che le riprese delle di-chiarazioni di questo o quel politico, vengono mostrate immagini che ben poco hanno a che fare con ciò di cui si parla: la facciata di Palazzo Montecitorio, l’interno della Camera, la bandiera che sventola... Ciò che succede, e di cui spesso non ci accorgiamo, è che vediamo qualcosa che funge unicamente da supporto a un discorso (la notizia) che è co-struito, linguisticamente, sull’oralità. Questo, tuttavia, alla lunga, muta

3 Ci riferiamo alla struttura carceraria teorizzata da Jeremy Bentham nel 1785 e ri-presa da Michel Foucault in un suo celebre studio (M. Foucault, Sorvegliare e puni-re. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1993). Nel Panopticon, edi�cio circolare in cui i detenuti occupano le celle disposte radialmente e al cui centro vi è una co-lonna in cui sta il sorvegliante, i detenuti non sanno di essere visti (o quando ven-gono osservati) e un unico sorvegliante è in grado di controllare tutti i detenuti (in virtù della posizione centrale che occupa e della sua invisibilità ai detenuti).

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la nostra percezione del rapporto tra immagini e realtà, ovvero muta la nostra consapevolezza dei criteri della rappresentazione della realtà. Nel senso che, attraverso procedure del tipo descritto, noi veniamo a contat-to con immagini che, con la realtà cui si riferiscono, sono in un rappor-to metonimico, se non addirittura metaforico. Si pratica la generalizza-zione dei referenti e, per questa via, una sempli�cazione del modo in cui si “ritaglia” concettualmente il mondo. Quindi, lo spettatore non si chiederà se c’è una relazione di stretta pertinenza tra quell’immagine e la notizia che sta ascoltando, ma darà per scontato che esiste una relazione “di genere” (ovvero: che riguarda lo stesso campo semantico) e se ne farà una ragione, legittimando questo processo associativo. Non è un caso che oggi divenga sempre più di�cile distinguere tra fatto e notizia, nel senso che sempre più si assume che i due coincidano. E che ciò che sem-pre più conta non sia distinguere tra vero e falso, ma capire come si for-ma il senso (comune?) della verità.Algirdas J. Greimas, nel suo saggio Il contratto di veridizione, evi-

denzia che «la verità è oggetto di comunicazione e necessita di sanzione �duciaria»4. Questo vuol dire che la verità non riguarda l’adeguazione di un discorso al suo referente, ovvero all’oggetto dell’enunciato, ma lo scambio tra enunciatore ed enunciatario, cioè riguarda un contratto �-duciario tra l’uno e l’altro, in cui entrambi sono i termini di una comu-nicazione la cui e�cacia non appartiene più all’ordine del dire-vero ma a quello del sembrare-vero. La verità, insomma, è un e�etto di senso, è la posta in gioco di una contrattazione che si basa sulla capacità dell’enun-ciatore di corrispondere alle aspettative del suo destinatario, in un gioco in cui la persuasione operata dall’enunciatore e l’interpretazione del de-stinatario sono le polarità di una pratica comunicativa che tuttavia deve poggiare su un “contratto” che leghi entrambi �duciariamente (e non cognitivamente, come potrebbe sembrare). Un contratto �duciario che

4 A.J. Greimas, Il contratto di veridizione, in Id., Del senso 2: narrativa, modalità, pas-sioni, Bompiani, Milano 1984, p. 101. Il saggio citato è dedicato a Paul Ricoeur.

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stipuliamo (spesso inconsciamente) quando ci impegniamo in uno scambio comunicativo, e che regola non tanto il nostro senso del sapere quanto quello del credere.Ciò che la pratica comunicativa (tipicamente, ma non esclusiva-

mente) televisiva legittima – con l’esercizio continuo della generalizza-zione della rappresentazione – è l’indebolimento (per “allargamento”) del principio di pertinenza sul quale fondiamo la nostra concezione del-la validità della conoscenza5. Se la pratica attraverso la quale io conosco qualcosa è il modo in cui riconosco la pertinenza della mia conoscenza della realtà materiale, allora vorrà dire che una pratica conoscitiva come quella della fruizione televisiva validerà la nostra conoscenza del mondo; e, in maniera ancor più incisiva, ponendosi insieme come pratica e

5 L.J. Prieto, Saggi di semiotica, vol. I: sulla conoscenza, Pratiche, Parma 1989, pp. 9-13: «la validità di una si�atta conoscenza [della realtà materiale] dipende non sol-tanto, come viene solitamente ammesso, dalla sua verità, ma anche dalla sua perti-nenza. La pertinenza appare persino come un criterio di validità logicamente ante-riore a quello costituito dalla verità poiché la questione della verità di una cono-scenza si pone soltanto per una conoscenza già considerata come pertinente. Ora, se la verità è un rapporto tra la conoscenza e l’oggetto, la pertinenza è invece un rapporto tra la conoscenza e il soggetto, per de�nizione storico-sociale, che la co-struisce e se ne serve [...]. Il considerare nell’oggetto solo quello che conta per i pro-pri interessi, ossia solo ciò che fa sì che l’oggetto realizzi o meno il concetto perti-nente per tali interessi, costituisce il fondamento stesso della conoscenza [...]. Gli interessi storicamente e socialmente condizionati del soggetto si manifestano attra-verso le pratiche da lui esercitate al �ne di servirli; per questo motivo la pertinenza, legata agli interessi del soggetto, che possiede per lui la maniera in cui egli conosce un oggetto materiale, dipende sempre da una pratica nella quale egli fa svolgere a tale oggetto un certo ruolo. Questo ruolo, tuttavia, non è necessariamente il ruolo di mezzo. Come il mezzo di ogni pratica, il mezzo della pratica comunicativa, e cioè il segnale, è un oggetto materiale, ma lo scopo di questa pratica, costituito dal senso, è un oggetto di pensiero [...]. Il ruolo che si fa svolgere a un oggetto materiale in una pratica può essere dunque sia il ruolo di mezzo, sia quello di scopo, sia in�-ne il ruolo di materia prima che viene trasformata, grazie al mezzo, per produrre lo scopo».

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come mezzo, la televisione ci detterà altresì i modelli di attribuzione del-la pertinenza della conoscenza. Detto in altro modo, la televisione ci mostra il mondo e ci suggerisce in che modo guardarlo. La televisione, parafrasando McLuhan, è una �nestra sul mondo. È quanto si accennava poco più sopra rispetto all’esternalizzazione dei processi di com-prensio-ne della realtà: i media sono allo stesso tempo protesi sensoriali e cornici che modellano la nostra forma mentis6.La pratica quotidiana della televisione – l’e�etto prodotto dal modo

in cui essa ci pratica – non è quindi (non solo, non tanto) la comunica-zione ma l’alfabetizzazione dell’immaginario.

Il grande e�etto sociale della televisione, perfezionato negli anni, non è quello dell’identi�cazione attraverso la testimonianza, come suc-cedeva per la fotogra�a, ma quello della sparizione del soggetto attraver-so la sua sostituzione con il modello. Il soggetto, l’individuo portatore di identità, “appare” ma non fa ombra, rimane phantasma. È il residuo di un essere, una formula, uno stereotipo di qualcosa o qualcuno che sfug-ge per complessità e necessita di una sempli�cazione per poter essere as-similato, cioè reso simile a noi o a ciò che conosciamo.Riferendosi al contesto psico-tecnologico dell’era televisiva, Paul

Virilio sostiene che

non siamo più dei vedenti ma già dei rivedenti; la ripetizione tautolo-gica dello stesso oggetto, in opera anche nel nostro modo di produ-zione (l’industria), è in opera anche nel nostro modo di percezione. Passiamo il nostro tempo e la nostra vita a contemplare quello che abbiamo già contemplato: questa è la nostra chiusura più insidiosa e sulla ridondanza è costruito il nostro habitat. Noi edi�chiamo l’ana-

6 Cfr. D. De Kerkhove, Brainframes: tecnologia, mente, mercato, Baskerville, Bologna 1993.

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logo e il simile, è la nostra architettura, e quelli che percepiscono di-versamente, o altrove, sono i nostri nemici ereditari7.

Ecco che il mondo si riduce a una serie di categorie, l’umanità a una geogra�a di etnie, la natura diventa esotica e le culture straniere il dominio di una curiosità turistica o di una ripulsa maldicente8. Del re-sto, in una società dominata da un regime dell’immaginario in cui tutto viene sottoposto a un principio economico, lo scambio (simbolico) ri-sulta tanto più e�cace quanto la mediazione è e�ciente, ovvero quanto più la realtà si risolve nelle sue immagini, nella sua rappresentazione. La costruzione delle identità, delle relazioni sociali, del sistema di valori di una civiltà, appartiene ormai a una lingua che non è più negoziazione all’interno di un campo di di�erenze ma imposizione di un dettato; la formazione di un pensiero è sottratta alla circolazione delle idee non tanto perché viene imposta dall’alto, ma perché si perdono la competen-za comunicativa, ridotta a mera trasmissione di informazione, e la co-scienza della stessa formazione del sapere in rapporto alle condizioni in cui esso si forma9.

7 P. Virilio, L’orizzonte negativo. Saggio di dromoscopia, Costa e Nolan, Genova 1986, p. 15.

8 T. Villani, Verità e divenire. Attualità e necessità del nomadismo, in G. Deleuze, F. Guattari, Geo�loso�a. Il progetto nomade e la geogra�a dei saperi, «Millepiani», 1, Mimesis, Milano 1993, p. 50: «Il territorio virtuale necessita di sempre nuovi mito-logemi e quanto più esso risulta svincolato dalla materialità, tanto più deve a�dare ai messaggi sempli�cati del neoetnico, del post-moderno, del radicamento e del luogo comune l’esercizio della divulgazione del proprio credo dogmatico. La reli-gione del moderno possiede nel virtuale la propria dogmatica e nella divulgazione catalogante la propria espressione �deistica».

9 G. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, in Id., La società dello spettaco-lo, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2004, p. 208: «La mancanza di logica, ossia la perdita della possibilità di riconoscere immediatamente ciò che è importante e ciò che è secondario o non pertinente; ciò che è incompatibile o che al contrario po-trebbe essere complementare; tutto ciò che una data conseguenza implica e ciò che,

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Se tutto questo era vero nell’era televisiva, l’era dello spettacolare di�uso, poi integrato (Debord), e contribuiva a formare una visione su-per�ciale e stereotipata dei fenomeni, ciò che succede nell’era di Inter-net e del videogame assume aspetti di�erenti.

Allo schermo del computer, quando sono in chat, in un forum o ri-spondo alle e-mail, sono di fronte a qualcuno che è un agente, un’entità incorporea che conosco solo attraverso la sua capacità operativa. Il suo corpo è stato sostituito dalla funzione, ridotto a una competenza comu-nicativa. Siamo nel dominio dell’e�cacia strumentale, in cui la comuni-cazione è un’operazione specializzata e fortemente mediata. Tuttavia non sono semplicemente un ricevente, il termine di un processo unidirezio-nale: interagisco, dialogo, sono in relazione con qualcuno che mi parla e mi ascolta per potermi a sua volta parlare, qualcuno che è qualcun altro e per il quale io stesso sono un altro. Mi confronto con la di�erenza e con la possibilità che la mia identità possa essere messa in discussione o, al limite, invalidata. Se voglio usare quel medium, dovrò adeguarmi alle sue logiche d’uso, dovrò necessariamente aprirmi al confronto e acco-gliere l’altro come un’istanza necessaria della comunicazione. E in una pratica comunicativa che si basa sulla partecipazione, ci si potrà limitare certamente alla funzione di spettatori, sapendo però che ci sarà una pre-senza a margine, un estraneo, al limite.

nello stesso momento, vieta; tale malattia è stata deliberatamente iniettata a dosi massicce nella popolazione dagli anestesisti-rianimatori dello spettacolo. [...] L’indi-viduo, impoverito e segnato nel profondo da questo pensiero spettacolare più che da ogni altro elemento della sua formazione, si mette subito al servizio dell’ordine costituito, mentre la sua intenzione soggettiva poteva anche essere completamente contraria a tale risultato. Egli seguirà essenzialmente il linguaggio dello spettacolo, perché è l’unico ad essergli familiare: quello in cui gli è stato insegnato a parlare. Magari vorrà mostrarsi nemico della sua retorica; ma userà la sua sintassi. È uno dei punti più importanti del successo ottenuto dal dominio spettacolare. La scomparsa così rapida del vocabolario preesistente è solo un momento di questa operazione, e la favorisce».

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Lo scenario che si dispiega intorno a me che agisco in un mondo for-temente mediato è sempre più il frutto di un processo virtuale, l’espressio-ne di un comportamento potenziale e immaginativo. L’essere si dispiega in un mondo che è talmente culturalizzato da sostituirsi alla realtà attra-verso le sue rappresentazioni o, ancora, attraverso la sua simulazione.Siamo in un momento epocale di passaggio dall’immaginario collet-

tivo all’intelligenza collettiva e connettiva10, un processo attuato attraverso l’esperienza e il contributo di ognuno11. Già McLuhan avvertiva che in un mondo in cui l’informazione si propaga istantaneamente, la realtà viene sostituita dalle “tendenze” e dalle “voci”. Quando, un giorno, saremo col-legati alle rappresentazioni tramite interfacce neuronali e non avremo più bisogno di interagire usando limitanti dispositivi chiamati schermi, mou-se, tastiere, gamepad, saremo totalmente immersi nei mondi simulati e in-teragiremo come fossimo nel mondo reale �sico. Avremo esperienza della

10Cfr. Derrick De Kerkhove, Alla ricerca dell’intelligenza connettiva, intervento tenuto in occasione del convegno Professione giornalista: nuovi media, nuova informazione, (consultato il 23 aprile 2011): «Quando prendiamo grandi quantità di oggetti qua-litativamente mediocri e li connettiamo tra di loro succede qualche cosa di molto misterioso: emerge un valore che è superiore alla somma delle parti, c’è un incre-mento della performance che non è solo basato su un’addizione. [...] Nelle comuni-cazioni, l’intervallo tra stimolo e risposta è collassato mentre aumenta la quantità di transazioni. Questo ci porta a entrare in una dimensione accelerata dove al minimo variare di un parametro vi è una risposta del pensiero connettivo. Lo spazio sempre più breve tra azione e reazione crea una sorta di continuità tra piani�cazione e azio-ne, semplicemente perché a piani�care è l’intelligenza di tutti, connettiva appunto [...]. Il nostro hardware, la realtà materiale, si contrae e implode su se stesso, perché le nostre tecnologie di comunicazione riducono esponenzialmente gli intervalli di spazio e tempo fra le operazioni. Al tempo stesso il nostro software, la nostra realtà psicologica e tecnologica si espande di continuo».

11A. Abruzzese, L’intelligenza del mondo. Fondamenti di storia e teoria dell’immagina-rio, Meltemi, Roma 2001, p. 7: «Ora la qualità dei mezzi di comunicazione si salda con la qualità delle biotecnologie (l’intelligenza del mondo) e l’immaginario colletti-vo � sostanza dominante della società industriale � si frantuma nell’esperienza sin-golare della società post-industriale».

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nostra immaginazione, in un processo che sarà sempre più di carattere mentale, seppur mediato da modelli di interazione �sica. Ma la di�erenza sarà sostanziale, perché si tratterà di un mondo pur tuttavia immaginato da qualcun altro, o comunque frutto di una produzione culturale, cioè storicamente determinata da soggetti, e quindi con delle caratteristiche tuttavia de�nite, anche se dalle possibilità inde�nibili. Dove starà l’Altro? Che possibilità di collocazione avrà ciò che rimane per de�nizione “irri-ducibile” a me e alle mie determinazioni? E quale sarà il concetto di alte-rità attraverso il quale formuleremo i nostri giudizi?

La storia che viviamo dipende anche dall’Altro che è sempre all’orizzonte delle nostre possibilità, nostro coadiuvante o antagonista. Immersi in un mondo simulato, l’Altro può ben mantenere questa dua-lità decisiva delle nostre sorti o, per lo meno, del nostro procedere tra gli eventi. Tuttavia la simulazione è sempre (o quantomeno, �no allo stato attuale dello sviluppo tecnologico e della nostra immaginazione) teleo-nomica, prevede una �nalità, è programmata e obbediente a uno sche-ma o a un sistema di regole preesistente, la cui esistenza è anzi necessaria al funzionamento e�cace della simulazione, alla verosimiglianza della si-mulazione stessa: il mondo, il luogo delle nostre azioni e interazioni, deve essere insomma ben sceneggiato. Siamo talmente abituati a fare esperienza della realtà, anche quella delle relazioni interpersonali o socia-li, attraverso la mediazione di qualche strumento di rappresentazione o simulazione, che ormai rischiamo di conoscere l’Altro quasi solo come personaggio. E, come per ogni personaggio, rischiamo di cucirgli addos-so una identità come fosse un vestito, un abito (habitus) come segno del nostro sguardo sclerotizzato.

In eXistenZ12 i giocatori sono in scena come personaggi e, come succede a ogni personaggio, ricalcano dei ruoli. È interessante notare

12eXistenZ di David Cronenberg, Canada/UK, 1999.

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come varie volte durante il �lm, ovvero in diversi momenti del gioco, i giocatori/personaggi si accorgano di comportarsi in maniera strana e im-prevedibile, avvertendo uno scollamento rispetto al modo in cui si sa-rebbero comportati nella vita reale e, sentendosi per certi versi “costretti” entro il ruolo che stanno rivestendo nel gioco, sentono che si tratta di qualcosa che appartiene loro ma che è preordinata. Pur immersi in un gioco totalmente verosimigliante, si accorgono di giocare una “parte”13 all’interno di un’orditura generale, un’esistenza tra le altre pre-viste dal gioco o “emerse” in esso. Oscillano tra il senso di limite che questo ruolo loro impone e l’entusiasmo di trovarsi a fare cose che non avrebbero mai pensato di fare. E, soprattutto, sono consapevoli di essere entro un gioco. Questo permette loro di togliere i freni inibitori, agendo in modo fantasioso o anche lussurioso e addirittura delittuoso.Il �lm, alla �ne, prende tuttavia una direzione per noi spiazzante:

raggiunta la �ne del gioco, nel momento in cui la disputa tra i personag-gi si conclude con la proclamazione del vincitore, ci ritroviamo nello stesso luogo nel quale il �lm era iniziato, in cui però ora gli attori rive-stono “parti” di�erenti. Lo scenario è mutato: scopriamo che Allegra Geller, che per noi era la game designer creatrice del gioco eXistenZ, è una giocatrice (tra gli altri) del gioco Transcendenz14 in cui lei faceva la “parte” della game designer di eXistenZ. Ciò che noi pensavamo fosse la realtà narrata dal �lm era invece uno dei livelli di realtà (�nzione?) del gioco Transcendenz. Quindi eXistenZ era in e�etti solo un pre-testo narrativo all’interno di Transcendenz, una realtà annidata in un’altra realtà, come in un gioco di scatole cinesi.

13Usiamo il termine in una doppia accezione: quella di elemento determinato e par-ziale e quella, ancora più suggestiva, di ciò che un attore deve recitare durante lo spettacolo. Non casualmente, in inglese to play indica sia l’atto del giocare che del recitare.

14Titolo decisamente appropriato alla situazione rappresentata.

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Il �lm termina con Allegra e Ted Pikul, suo coadiuvante, che ucci-dono il creatore di Transcendenz, colpevole di aver creato «the most ef-fective deforming of reality»; poi puntano la pistola verso un altro perso-naggio che, spaventato, chiede loro:«Tell me the truth... Are we still in the game?» [�g. 3].

Stranieri a se stessi«Non esiste razzismo �nché l’altro è Altro, �nché lo Straniero resta

estraneo. Il razzismo comincia a esistere non appena l’altro diventa di-verso, cioè pericolosamente prossimo. È a questo punto che si sveglia la velleità di tenerlo a distanza»15.Nelle civiltà tradizionali, come nella nostra cultura pre-moderna, lo

straniero – manifestazione dell’alterità sociale (colui che viene da fuori) – e la natura – entità irriducibile all’uomo e “altra” da sempre, per “dif-ferenza” – erano depositari di un mistero che era accolto come dato cul-turale ineludibile. Il mistero era culturalizzato e anzi era portatore di cultura (Kulturträger). Tant’è che era grazie a �gure come le chimere, tanto presenti nei miti classici, e ai vari segni che circondavano gli uo-mini da ogni lato, che si accedeva a una conoscenza “altra”, altrimenti inaccessibile. Oggi, nell’“epoca dell’immagine del mondo” (Heidegger), l’irriducibilità dell’invisibile diventa uno scandalo. Non sono più aruspi-ci, sacerdoti e poeti a parlare con il mondo nascosto per mediarne l’alte-rità agli uomini. Ora, ad assumere questo ruolo, è la scienza, il cui do-minio si instaura attraverso la tecnica e riposa sull’evidenza delle sue di-mostrazioni e la potenza dei suoi strumenti. E ciò che le sfugge non può che ri�uire dall’invisibile nell’impossibile. Invece,

15J. Baudrillard, La trasparenza del male. Saggio sui fenomeni estremi, SugarCo, Mila-no 1991, p. 140.

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conoscere quell’incalcolabile, cioè preservarlo nella sua verità, è pos-sibile all’uomo solo in virtù di un’interrogazione creatrice e in forme sorrette dalla forza di una ri�essione pura. Questa trasferisce l’uomo futuro in quel fra in cui egli appartiene all’essere e resta tuttavia stra-niero nell’ente16.

Oggi, sembra, abbiamo perduto questa capacità interrogativa e in-sieme prospettiva, e ci rinsaldiamo nelle certezze di un’evidenza che rite-niamo veritiera. E, al comprendere – l’atto del prendere cognitivamente l’altro nel nostro universo, avvicinandoci a esso – abbiamo sostituito il con�iggere. Da un movimento di avvicinamento che presuppone la vo-lontà di incontro e confronto, con tutto ciò che comporta in termini di cambiamento per entrambi (me e l’altro), siamo passati a un movimento di scontro, in cui l’altro è il passivo delle nostre azioni, annullato come soggetto portatore di una di�erenza e anzi controllato, recluso, coloniz-zato o annientato. Se la soggettività si de�nisce all’interno di un circuito chiuso, che si isola dall’esterno e trae la sua forza proprio dall’isolamen-to, allora tutto ciò che si trova al di là di questo limite, “oltre”, sarà ol-traggio, s�da, eccesso non assimilabile. Da uno scambio di soggettività si passa all’assoggettamento. Ma, in�ne, ciò contro cui ci rivoltiamo, non è che la nostra immagine distorta allo specchio, quella di una socie-tà estranea a se stessa, psicotica17.

16M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Id., Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1984, p. 101.

17M. Perniola, Stranieri a se stessi, «Ágalma», 7-8, Meltemi, Roma 2004, pp. 5-6: «Lo psicotico non può accedere alla conoscenza dell’altro, dello straniero, proprio per-ché non può conoscere se stesso, perché alla sua base sta un rigetto, un’espulsione, una preclusione (o, come dice Lacan, una forclusion) dell’ordine simbolico, cioè della struttura della società [...]. L’io, �ntanto che resta prigioniero dell’immagina-rio, non ha mai davanti a sé un’e�ettiva alterità, ma sempre soltanto la propria im-magine. La costituzione dell’io come rivale di se stesso gli preclude l’accesso a un “vero” con�itto; da un lato l’aggressività e il con�itto gli appartengono struttural-mente, dall’altro, tuttavia, l’altro che gli si para davanti è ancora sempre se stesso. In

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Le istituzioni totali e le eterotopie di cui parla Foucault, istituzioni fondamentali per la contemporaneità, sono l’e�etto di questo processo di rimozione dell’alterità, la garanzia dell’e�cienza di una società regola-ta che deve controllare ciò che eccede (o difetta) la norma.

La questione dell’Altro solleva per forza di cose la questione dell’identità. Chi è l’Altro ci impone di chiederci: chi siamo noi, chi sono io? Rimbaud scriveva a un suo amico che «è sbagliato dire: io pen-so. Si dovrebbe dire: mi si pensa [...]. Io è un altro», a�ermando così la natura transitiva dell’identità del soggetto18. Un soggetto che non è più il centro del mondo, come nel movimento centripeto dell’uomo carte-siano, ma che, al contrario, è fondato dal rapporto con il contesto, è esso stesso rappresentazione sociale e, al di fuori di questa possibilità di determinazione, non è che una metafora morta, una maschera vuota.Foucault sosteneva che, come nell’ascesi, e al contrario del soggetto

cartesiano, occorre estraniarsi da se stessi per ricostruire se stessi attraver-so un paziente e interminabile lavoro di trasformazione: «scolpire se stessi come statue», diceva, tornare a essere soggetti praticando quella cura del sé (che a�onda le sue radici nel pensiero antico) che è tecnica dell’ascolto di se stessi e degli altri, pratica di liberazione da un’identità che è limite alla conoscenza dell’Altro, del mondo.L’Altro è colui che ci apre al senso facendoci deragliare dai binari

del noto e del consueto, che ci sorprende nella nostra posizione dise-gnando una nuova cartogra�a del possibile, oracolo di nuove domande che ci restituisce alla ricchezza del confronto, al futuro come rinnova-mento.L’Altro è la possibilità di divenire.

altre parole, il “tu” con cui si confronta l’io non costituisce mai una “vera” alterità».18«C’est faux de dire: je pense. On devrait dire: on me pense [...]. Je est un autre». È un frammento della lettera (tra altre dette “del veggente”) che Arthur Rimbaud scrisse a Georges Izambard il 13 maggio 1871.

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