Pena di morte e grazia sovrana nel Regno Lombardo-Veneto (1816-1848) Francesca Brunet Matrikelnummer: 0719182 DISSERTATION eingereicht im Rahmen des Internationalen Graduiertenkollegs „Politische Kommunikation von der Antike bis ins 20. Jahrhundert“ Doktoratsstudium der Philosophie Dissertationsgebiet: Geschichte an der Leopold-Franzens-Universität Innsbruck Institut für Geschichtswissenschaften und Europäische Ethnologie und an der Università degli Studi di Trento Dipartimento di Lettere e Filosofia Erste Betreuerin: o. Univ.-Prof. Dr. Brigitte Mazohl Zweiter Betreuer: Prof. Marco Bellabarba Innsbruck, Oktober 2013
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Pena di morte e grazia sovrana nel Regno Lombardo-Veneto
(1816-1848)
Francesca Brunet
Matrikelnummer: 0719182
DISSERTATION
eingereicht im Rahmen des
Internationalen Graduiertenkollegs
„Politische Kommunikation von der Antike bis ins 20. Jahrhundert“
Doktoratsstudium der Philosophie
Dissertationsgebiet: Geschichte
an der Leopold-Franzens-Universität Innsbruck
Institut für Geschichtswissenschaften und Europäische Ethnologie
und an der Università degli Studi di Trento
Dipartimento di Lettere e Filosofia
Erste Betreuerin: o. Univ.-Prof. Dr. Brigitte Mazohl
Zweiter Betreuer: Prof. Marco Bellabarba
Innsbruck, Oktober 2013
I
INDICE
Abbreviazioni p. 1
INTRODUZIONE p. 3
PRIMA PARTE: NORMA p. 17
Capitolo 1.
Condanne capitali e concessioni di grazia: un profilo normativo,
processuale, istituzionale
p. 19
1. La sistemazione normativa della pena capitale e della grazia nel codice
penale del 1803
p. 20
2. Il Senato Lombardo-Veneto del Supremo Tribunale di Giustizia. Note
istituzionali
p. 26
3. Iter procedurale di una sentenza capitale p. 42
4. Pubblicazione della condanna ed esecuzione della pena: un caso vicentino p. 55
SECONDA PARTE: TEORIA p. 65
Capitolo 2.
La comunicazione giuridica della grazia e della pena di morte
p. 67
1. Introduzione p. 68
2. Produzione, traduzione e circolazione di opere giuridiche nel Regno
Lombardo-Veneto
p. 69
3. Le giustificazioni della pena di morte p. 82
4. La sistemazione concettuale della grazia p. 90
5. Illecite promesse di mitigazione p. 96
TERZA PARTE: PRASSI p. 103
Capitolo 3.
Condanne capitali e grazie nei processi per delitti comuni
p. 105
1. Introduzione. Il contesto territoriale e criminale p. 106
2. Subire la pena «ad altrui esempio»: la funzione pubblica delle esecuzioni
capitali
p. 116
3. Un «problema da sciogliere». La grazia come strumento riequilibratore
della gerarchia giudiziaria: sui delitti di uccisione ed omicidio
p. 120
II
4. La grazia come sistematico correttivo del codice: sulla falsificazione delle
carte di pubblico credito
p. 123
5. I falsificatori di Milano p. 124
6. Suppliche e mitigazioni: la comunicazione mediata tra supplicante e
sovrano
p. 127
7. La causa attenuante degli «stimoli più patetici: onore, amore, gelosia,
interesse»
p. 132
8. Le donne nel processo: il genere degli imputati e delle vittime nelle
considerazioni del Senato
p. 134
9. Il ruolo della grazia nel rapporto tra disordini mentali e imputabilità p. 141
10. «Un anima nera come la fuligine»: per un ritratto del criminale irriducibile p. 145
11. Conclusioni p. 153
Capitolo 4.
Condanne capitali e grazie nei processi per alto tradimento
p. 155
1. Premessa. Un'opinione «trop propagée en Italie»: su un articolo del
«Constitutionnel» e le preoccupazioni di Vienna e di Milano
p. 156
2. Il delitto politico nel Lombardo-Veneto del Vormärz: osservazioni
legislative, giuridiche e giudiziarie
p. 158
2. 1. Per una definizione di alto tradimento p. 158
2. 2. Il movimento settario clandestino nel Lombardo-Veneto:
consistenza quantitativa delle sentenze capitali e delle grazie
p. 161
2. 3. Profilo giudiziario e centralità della grazia p. 171
2. 4. Gli organi inquirenti e giudicanti p. 176
2. 5. Omogeneità del trattamento giudiziario delle sette p. 180
2. 6. Una prospettiva comparativa p. 183
3. L'ombra lunga dell'«epoca infausta della Francese Rivoluzione»: il rigore
dei primi processi, opinione pubblica e grazia
p. 186
4. Giovani e inesperti p. 197
5. La comunicazione pubblica delle sentenze e il ruolo delle gazzette p. 202
6. Le sentenze contro gli aderenti alla Giovine Italia e la prima amnistia
generale
p. 216
7. La «sovrumana virtù» che «pone in obblio il passato»: l'amnistia del 1838 p. 220
8. Conclusioni. L'arte politica di «saper combinare rigore e clemenza» p. 226
Capitolo 5.
Il giudizio statario
p. 229
1. Introduzione, ovvero: problemi di coerenza, fratture e continuità p. 230
2. Normativa, applicazioni, competenze e termini p. 233
3. I protocolli di consiglio del Senato Lombardo-Veneto: una premessa sulle
fonti
p. 240
4. Il giudizio statario in Lombardia p. 244
5. Un errore giudiziario a Botticino p. 254
6. Ulteriori interventi di dissenso p. 262
7. Conclusioni p. 268
ALCUNE RIFLESSIONI A MARGINE p. 271
III
Fonti e bibliografia p. 275
1. Archivi, fondi e serie archivistiche p. 275
2. Raccolte legislative p. 276
3. Altre fonti normative e codicistiche p. 278
4. Schematismen, almanacchi e manuali p. 279
5. Periodici e quotidiani coevi p. 279
6. Testi giuridici e statistici, saggi e commentari al codice penale p. 281
7. Memorie, cronache e pamphlet coevi, carteggi editi, letteratura d’occasione p. 285
8. Bibliografia p. 286
1
ABBREVIAZIONI
Avvertenza: per le abbreviazioni di archivi, fondi e serie archivistiche, delle fonti normative a
stampa e degli Schematismen si rimanda alla sezione Fonti e bibliografia.
art./artt.: articolo/articoli
b./bb.: busta/buste
Bd.: Band
Cp: Codice penale
ed.: edizione
fasc./fascc.: fascicolo/fascicoli
Fasz.: Faszikel
K: Karton
Ms.: manoscritto
Pz./Pzz.: pezza/pezze
s. d.: senza data
s. t.: senza titolo
s. v.: sub vocis
sr.: Sovrana risoluzione
Trad. it.: traduzione italiana
vol./voll.: volume/volumi
alberto
Typewritten Text
2
3
INTRODUZIONE
1.
Riferendosi ai processi contro la Carboneria bresciana dei primi anni Venti del XIX secolo –
ma l’osservazione può senz’altro estendersi a qualsiasi attività giudiziaria di uno Stato – lo
storico del diritto Aldo Andrea Cassi rileva come tali procedimenti penali e le sentenze ad essi
conseguenti costituissero «lo strumento di applicazione della norma nel tessuto connettivo
dell'ordinamento giuridico […]; essi rappresentano il trait d'union, o viceversa lo iato, che
unisce, o separa, la norma codificata e la sua applicazione nella effettualità della vita
giuridica»1.
Entro la cornice tematica e teorica del dottorato internazionale «Comunicazione politica
dall'antichità al XX secolo», la mia attenzione, nell’ambito di un più ampio interesse per lo
studio delle province italiane dell’impero austriaco nel corso del Vormärz2, si è rivolta verso
un punto di osservazione peculiare e per certi versi privilegiato di questo trait d'union – o,
appunto, iato – tra norma e prassi, teoria giuridica e applicazione del diritto, ma anche tra
Stato e società: vale a dire, quella “strana creatura” dalla natura sfuggente, a metà strada tra
diritto e politica, che è il potere di grazia.
Alcune considerazioni preliminari hanno fin dal principio orientato e stimolato la ricerca.
Innanzitutto, lo jus aggratiandi andava collocato all’interno di una sorta di “campo di
tensione”: la potestà di clemenza, in linea teorica, poteva essere arbitrariamente esercitata
dall’imperatore, in nome della sua posizione istituzionale che lo riconosceva titolare di tutte le
1 A. A. Cassi, Negare l'evidenza e aver salva la vita. Codice penale e tribunali speciali nei processi contro la
Carboneria bresciana, in L’ABGB e la codificazione asburgica in Italia e in Europa. Atti del convegno
internazionale, Pavia 11-12 ottobre 2002, a cura di P. Caroni, E. Dezza, Padova, Cedam, 2006, pp. 317-337: 321. 2 Uso questa categoria, mutuata dalla storiografia di lingua tedesca, includendo l’intero periodo 1815-1848,
nonostante la specificazione di Hans Heiss e Thomas Götz secondo i quali, più esattamente, per Vormärz –
metafora temporale evocante il sotterraneo emergere di un risveglio nazionale e borghese – dovrebbe intendersi
il “lungo decennio” che precede il 1848 (dal 1830), mentre il periodo antecedente (1815-1829), segnato dal
tentativo dei governi europei di instaurare nel continente un ordine stabile nella politica interna ed estera,
andrebbe compreso entro concetto di Restauration (H. Heiss, T. Götz, Am Rand der Revolution, Tirol 1848/49,
Wien-Bozen, Folio Verlag, 1998, pp. 13-14). La periodizzazione della categoria di Restaurazione è così definita
già da Walter Maturi, Restaurazione, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti, vol. XXIX, Roma,
Istituto della Enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani, 1936, pp. 126-127. Per una panoramica
storiografica sul tema si rimanda a R. Pozzi, Restaurazione, in Storia d’Europa vol. II, a cura di B. Bongiovanni,
G. C. Jocteau, N. Tranfaglia, Firenze, La Nuova Italia, 1980, pp. 897-912.
4
funzioni pubbliche dello Stato, quindi conseguentemente abilitato ad intervenire con atti
generali o particolari nell'esercizio di esse3; un retaggio, questo, della giustizia di antico
regime che si inseriva nel solco di una tradizionale concezione del perdono e, in generale,
della risoluzione dei conflitti, fortemente caratterizzata da implicazioni religiose4. Allo stesso
tempo, tale prerogativa sovrana era tuttavia normata dal codice penale e, come ha rivelato la
prassi desumibile dalle fonti giudiziarie, implicitamente ben delimitata. Questo dualismo
riflette la natura stessa dell’impero, contemporaneamente monarchia assoluta (quantomeno
sul piano teorico, essendo l’assolutismo austriaco effettivamente segnato da una certa
problematicità5) e Stato di diritto poiché dotato di un organico sistema codicistico
6.
Secondariamente, l’esercizio della grazia andava posto in relazione “biunivoca” con la
specificità sociale, politica, istituzionale e giuridica del contesto in cui esso trovava
applicazione. Le politiche e le strategie di repressione, punizione e clemenza rispecchiano
infatti le modalità attraverso le quali il potere comunica con la società7, ma informano anche
su come la società comunichi con il potere: una premessa teorica e metodologica che rimanda
all'approccio di Mario Sbriccoli, secondo il quale il diritto penale, riflettendo determinati
“segni” del contesto sociale e politico in cui viene esercitato, è allo stesso tempo da esso
condizionato8.
Quello che intendevo verificare era insomma la natura del diritto di grazia in un periodo di
transizione, per certi versi a cavaliere tra antico e nuovo regime; individuando le tracce
tradizionali o, al contrario, la configurazione moderna che caratterizzavano l’istituto della
grazia nella sua collocazione giuridica e nel suo uso politico.
La mia attenzione era quindi dapprima orientata verso ciò che può essere riassunto nelle
seguenti questioni: in che modo e con quali eventuali frizioni la grazia si inseriva all’interno
di una procedura penale di tipo inquisitorio, e come si coniugava tale arbitrario
3 G. Zagrebelsky, Grazia. Diritto costituzionale, in Enciclopedia del diritto, vol. XIX, Milano, Giuffrè, 1970, pp.
757-771: 757. 4 Su questo tema si veda O. Niccoli, Perdonare. Idee, pratiche, rituali in Italia tra Cinque e Seicento, Roma-
Bari, Laterza, 2007 e A. Prosperi, Giustizia bendata. Percorsi storici di un’immagine, Torino, Einaudi, 2008,
soprattutto pp. 81-131. 5 B. Mazohl-Wallnig, Ordinamento centrale e amministrazioni locali: burocrazia austriaca nella tensione tra
interessi statali e interessi locali. La provincia di Verona 1848-1859, in I problemi dell’amministrazione
austriaca nel Lombardo-Veneto. Atti del convegno di Conegliano organizzato in collaborazione con
l'Associazione Italia-Austria, 20-23 settembre 1979, Conegliano, Comune di Conegliano, 1981, pp. 27-37: 28. 6 Cfr. C. Ghisalberti, Giustizia e ordinamento giuridico, in I problemi dell’amministrazione austriaca, pp. 139-
152, e Id., Unità nazionale e unificazione giuridica in Italia, Roma-Bari, Laterza, 1979, pp. 212-215. 7 Si veda a questo proposito l’analisi di M. R. Damaška, The faces of justice and state authority. A comparative
approach to the legal process, New Haven, Yale University, 1986 [Trad. it.: I volti della giustizia e del potere.
Analisi comparatistica del processo, Bologna, Il Mulino, 1991]. 8 M. Sbriccoli, Storia del diritto e storia della società. Questioni di metodo e problemi di ricerca, in Storia
sociale e dimensione giuridica. Strumenti di indagine e ipotesi di lavoro, a cura di P. Grossi, Milano, Giuffrè,
1986, pp. 127-148: 142.
5
provvedimento con la rigidità del codice penale in materia di comminazione delle pene; quali
erano i suoi significati e i suoi scopi politici, giuridici e sociali; in che misura la gerarchia
giudiziaria veniva attenuata dall’intervento del sovrano e in che misura ne era invece
mediatrice; quale ruolo giocavano le contingenze politiche e sociali delle province lombarde e
venete all’interno del processo di concessione della grazia; come veniva giustificato, sul piano
dell’elaborazione dottrinale, il suo esercizio e come si intersecava tale prospettiva teorica con
la prassi; con quale linguaggio e attraverso quali mezzi venivano, infine, comunicate le
sentenze e i provvedimenti di clemenza, il momento più marcatamente pubblico,
«trasparente» del procedimento penale, in contrasto con l’«opacità» della segretezza
istruttoria9.
Nella necessità di circoscrivere il campo di indagine all’interno di una mole corposa di
materiale, la ricerca si è specialmente rivolta ad un peculiare tipo di grazia, ossia quella atta a
commutare le pene di morte in pene detentive.
Le ragioni di questa scelta sono molteplici. Innanzitutto, i processi penali conclusisi con una
condanna capitale richiedevano – lo si vedrà nel dettaglio nel primo capitolo – il vaglio ed il
giudizio di tutte e tre le istanze attraverso le quali si strutturava l'amministrazione giudiziaria
austriaca, percorrendone quindi l’intera piramide gerarchica: conseguentemente, questi casi
mettono più che mai in luce l’iter processuale stesso ed i rapporti di forza intercorrenti tra i
diversi gradi della magistratura del Regno Lombardo-Veneto.
In secondo luogo, le grazie concesse ai condannati a morte seguivano una procedura
particolare, che vale la pena di anticipare: erano i tribunali stessi che si facevano carico, per
legge, dell’eventuale proposta di commutazione graziosa delle pene capitali (diversamente da
quanto avveniva per altre forme di grazia che pur sono state prese in considerazione, come le
amnistie, concesse su iniziativa del sovrano, o le riduzioni delle pene detentive, richieste per
mezzo di suppliche dal condannato o da chi per lui). Le sentenze capitali venivano infatti
inviate ex officio e prima della loro pubblicazione, unitamente al parere della terza istanza
giudiziaria, all’imperatore, il quale aveva appunto il diritto di confermarle o commutarle in
una pena detentiva. Dal processo di richiesta di grazia era quindi totalmente escluso il
condannato, che rimaneva all’oscuro del proprio destino sino alla pubblicazione, a quel punto
inderogabile, della sentenza. Questo automatismo permetteva quindi ai tribunali e,
9 L'efficace metafora visiva dell’opacità del procedimento penale – in contrasto con la trasparenza
dell’esecuzione della sentenza e della sua lettura – è proposta da G. Baronti, La morte in piazza. Opacità della
giustizia, ambiguità del boia e trasparenza del patibolo in età moderna, Lecce, Argo, 2000.
6
specialmente, alla terza istanza, di utilizzare la proposta di grazia come strumento correttivo
per mitigare una sentenza capitale nel momento stesso in cui la si irrogava; di regolare, in altri
termini, l’esercizio della pena di morte. Ed è proprio su questa funzione “regolatrice” dei
provvedimenti di clemenza che si è concentrato il mio interesse.
Le pene capitali, infine, coinvolgevano immediatamente l'aspetto pubblico del diritto penale,
poiché solo esse venivano pubblicamente eseguite; ciò di cui dovevano necessariamente
tenere conto anche i tribunali, allorché condannavano a morte proponendo, o sconsigliando, la
grazia. La documentazione relativa ai processi capitali (relazioni, verbali, notificazioni,
articoli) ha quindi permesso di mettere a fuoco un aspetto della ricerca che mi stava
particolarmente a cuore, vale a dire il rapporto – non sempre risolto in una sintesi coerente –
tra la segretezza da “antico regime” del diritto penale e la “moderna” necessità della sua
comunicazione.
Da questo argomento specifico, la ricerca si è inevitabilmente estesa ad una serie di ulteriori
aspetti contestuali. Quello che era l’oggetto di studio è diventato pure chiave di lettura,
strumento di analisi e interpretazione; terreno sul quale, in qualche modo, mettere alla prova
alcuni nodi fondamentali del diritto e della politica austriaca nel Lombardo-Veneto. Il
discorso giuridico e normativo su una materia delicata quale la pena di morte, la sua effettiva
prassi e la possibilità di correggerla attraverso i provvedimenti di clemenza, ad esempio,
hanno aperto il discorso alla più ampia questione del rapporto tra giudice e norma codificata;
un rapporto di apparente sudditanza del primo rispetto alla seconda, le cui sfumature vengono
evidenziate molto chiaramente dai processi che si concludono con una sentenza capitale.
L’analisi della pena di morte nel suo utilizzo ordinario e straordinario ha coinvolto
necessariamente il problema della gestione della criminalità e dei mezzi punitivi e repressivi
più adeguati per arginarla, nonché le modalità con cui la classe giudiziaria interpretava e
comunicava, nei sui rapporti all’imperatore, le instabilità sociali e politiche delle province
lombarde e venete. Allo stesso tempo, lo studio degli organi giudiziari coinvolti nel processo
di concessione di grazia ha reso opportuno da una parte analizzare la composizione linguistica
e territoriale dei tribunali stessi; dall’altra ricostruire i rapporti verticali ed orizzontali tra i
tribunali locali e i dicasteri centrali viennesi. L’indagine sulla sistemazione giuridica e
concettuale della grazia e della pena di morte – ossia il modo in cui questi temi venivano
trattati e giustificati nei commentari al codice e nelle opere giuridiche – ha suggerito di
studiare, più ampiamente, l’ambito della circolazione delle riviste e dei trattati giuridici, della
loro produzione o traduzione dal tedesco, nel Regno Lombardo-Veneto. O ancora, le
7
motivazioni che stanno alla base delle commutazioni delle sentenze capitali non possono
essere comprese senza affrontare il problematico e controverso rapporto tra le autorità
politiche e giudiziarie ed il pubblico. Se un aspetto importante della clemenza sovrana è lo
sbilanciamento della relazione in essa generata – che, secondo Karl Härter, si articola tra due
soggetti diseguali nel quale «il più forte accorda la grazia a chi gli si assoggetta»10
–
l’impressione suscitata, già di primo acchito, dall’analisi delle fonti è stata che il processo
messo in atto dalla grazia, quantomeno nel contesto da me preso in considerazione, fosse ben
più ampio e complesso, e travalicasse il rapporto verticale sovrano-suddito, dando origine ad
una sorta di comunicazione circolare coinvolgente anche, in modo maggiore o minore e più o
meno diretto, la gerarchia giudiziaria, la contestuale cultura giuridica, e quel soggetto
emergente ma ancor “disorganico” che sembra implicitamente orientare molte delle scelte
politiche dell’amministrazione austriaca nel Lombardo-Veneto: l’opinione pubblica.
2.
Onde chiarire i vari aspetti sopra accennati, la ricerca si è articolata su tre piani, ossia quello
della norma e delle istituzioni giudiziarie, quello dell’elaborazione giuridica e quello della
prassi processuale. Il risultato di questa triplice attenzione si è estrinsecato in un’elaborazione
“tripartita” nelle sezioni norma, teoria e prassi. La tripartizione si è posta come funzionale ad
una chiarezza espositiva, mentre il rischio di un’eccessiva schematicità è stato, ci si augura,
scongiurato mantenendo un occhio sempre attento alle intersecazioni o, al contrario, alle
fratture tra i vari piani; per usare una metafora “faustiana” di Giovanni Chiodi, tra «prologo in
cielo» – cioè l'ambito della norma e della teoria giuridica – e «discesa sulla terra»11
, ossia
l'applicazione pratica del codice.
Tali intrecci sono stati messi in risalto anche grazie a figure ricorrenti nelle quali mi sono
imbattuta sovente, man mano che la ricerca andava a dispiegarsi: tra queste spiccano i giudici
trentini Antonio Salvotti – il celebre inquisitore dei processi contro i carbonari dei primi anni
Venti, poi a lungo consigliere del Senato Lombardo-Veneto del Supremo Tribunale di
Giustizia, tribunale di terza istanza del Regno –, ed Antonio Mazzetti, vero e proprio
protagonista dell’amministrazione giudiziaria nelle province italiane dell’impero fino alla sua
morte nel 1841: dapprima consigliere del Senato, dal momento stesso della sua istituzione –
10
K. Härter, Grazia ed equità nella dialettica tra sovranità, diritto e giustizia dal tardo medioevo all'età
moderna, in Grazia e giustizia. Figure della clemenza fra tardo medioevo ed età contemporanea, a cura di K.
Härter, C. Nubola, Bologna, Il Mulino, 2011, pp. 43-70: 46-47. 11
G. Chiodi, Il fascino discreto del libero convincimento. Per un identikit del giudice penale lombardo-veneto, in
Amministrazione della giustizia penale e controllo sociale nel Regno Lombardo-Veneto, a cura di Id., C. Povolo,
Verona, Cierre, 2007, pp. 7-59: 7, 19.
8
entro il quale svolse, per altro, il ruolo di relatore per i processi politici e di ispettore, negli
anni 1822-1823, delle preture e delle prime istanze lombarde – poi presidente del Tribunale
civile di Milano, quindi del Tribunale d’appello lombardo.
Sono nomi che ritornano frequentemente nelle pagine che seguono. Da una parte vediamo
Mazzetti discutere le responsabilità dei rei di alto tradimento ed avanzare contestuali
considerazioni sul quadro storico-politico italiano ed europeo; dall’altra intuiamo il centrale
ruolo giuridico giocato da questi nei primi anni di istituzione e quindi di “rodaggio” del
Senato, allorché, nelle relazioni sui processi per delitti comuni, contribuisce a chiarire e
definire questioni fondamentali all’interno della procedura processuale (il valore delle prove e
della confessione, i limiti della legittima difesa, l’uso della grazia). Sono poi Mazzetti e
Salvotti, assieme al conterraneo giudice Paride Zajotti, gli autori degli articoli, pubblicati
nelle gazzette del Regno, che notificano al pubblico lombardo-veneto gli esiti dei grandi
processi politici. Appartennero ancora ai due giudici trentini le biblioteche-campione che ho
analizzato per dedurre la circolazione delle opere giuridiche nel Lombardo-Veneto, come di
Mazzetti è il consistente carteggio – del quale questo lavoro si è ampiamente servito –
attraverso cui egli ricavava dai suoi corrispondenti (specialmente, anch’essi, magistrati
trentini) informazioni sulla conduzione dei processi per alto tradimento, ma anche
sull’acrimonia dei magistrati lombardi nei confronti dei colleghi tirolesi, sulle nomine e le
promozioni. E se Salvotti è noto quale inquisitore dei carbonari, le sue tracce nelle vesti di
consigliere del Senato (relazioni, correlazioni, interventi nelle discussioni) sono decine,
centinaia. Egli, ad esempio, è l’autore della lunga e dettagliata relazione presentata in Senato
quasi quindici anni dopo la conclusione dei processi politici di cui era stato inquirente, sullo
stato della giustizia e della criminalità nel Lombardo-Veneto, della quale si riportano ampi
stralci nel terzo e nel quinto capitolo di questo lavoro; sue e di Mazzetti, infine, come di altri
consiglieri del Senato, sono le considerazioni sulle cause attenuanti o aggravanti nella
valutazione dei delitti comuni puniti con la morte, citate in vari punti delle pagine seguenti, da
cui si deducono le interpretazioni delle autorità giudiziarie relative al contesto sociale ed ai
rapporti famigliari dei condannati, soprattutto provenienti delle campagne venete e lombarde.
I diversi piani su cui Mazzetti e Salvotti operarono – sia qui detto di passaggio – potrebbero, a
mio avviso, illuminare le figure dei due giudici anche al di fuori dell’attività strettamente
legata ai processi per alto tradimento, in base alla quale la storiografia sul Risorgimento le ha
generalmente valutate (talvolta deducendone “verdetti” accusatori o al contrario riabilitanti).
Il giudizio potrebbe essere corretto, o comunque integrato e bilanciato con lo studio delle
numerosissime fonti su quell’attività giudiziaria non politica che rappresenta, del resto, la
9
parte di gran lunga più consistente e per certi versi più significativa (sul piano dell’incidenza
sociale, della gestione della criminalità, del consolidamento di una prassi giudiziaria) del loro
lavoro. L’opinione di Mazzetti sui pericoli dell’educazione, riportata nel quarto capitolo, o le
proposte di Salvotti per porre un freno all’altissima frequenza di fenomeni criminali in
Lombardia, contenute nella sopra menzionata relazione, denunciano probabilmente nel modo
più luminoso la prospettiva e l’orizzonte politico dei loro autori; che era, del resto, quello di
un’intera classe dirigente.
Più in generale, nel testo tornano sovente i nomi dei consiglieri aulici che componevano il
Senato Lombardo-Veneto (i presidenti von Plenciz, von Eschenburg e Degli Orefici; i
consiglieri Maffei, Salvioli, Benoni, ecc.). Lo studio delle fonti giudiziarie, attraverso le quali
è stata ricostruita la prassi del meccanismo di concessione dei provvedimenti graziosi, ha
imposto una rivalutazione della centralità che in questo processo decisionale era stata
assegnata, in un primo momento, alla figura del sovrano; filo conduttore di tutta la ricerca,
origine dei rivoli narrativi e fonte privilegiata, è infatti il Senato, suprema magistratura del
Regno Lombardo-Veneto. È quest’ultimo il principale soggetto politico e giudiziario al quale
ho rivolto l'attenzione: un soggetto, si avrà modo di notare nei vari capitoli, dotato di più
interlocutori, parlante diversi linguaggi, al centro di una rete comunicativa, all'incrocio di più
sfere pubbliche, al vertice di un apparato giudiziario certo subordinato a Vienna, ma dotato di
una certa indipendenza.
L’arco temporale che circoscrive la ricerca (1816-1848) riflette, in parte, anche l’evoluzione
stessa del Senato Lombardo-Veneto. Il limite cronologico inferiore corrisponde all’anno in cui
non solo venne attivato nelle province lombarde il codice penale (in gennaio; in quelle venete
esso era in vigore già dal luglio 1815), ma pure istituito, a Verona, il Senato italiano (agosto);
a poco più di un anno, quindi, dacché la Sovrana Patente 7 aprile 1815 aveva sancito la
fondazione ufficiale, attraverso un «atto di nuova creazione giuridica»12
, del Regno
Lombardo-Veneto, un organismo politico piuttosto problematico sul piano della legittimità13
.
Il 1848 è, naturalmente, un anno di cesura anche dal punto di vista giuridico-istituzionale; da
12
B. Mazohl-Wallnig, Il Regno Lombardo-Veneto “provincia” dell’Impero austriaco, in Il rapporto centro-
periferia negli stati preunitari e nell’Italia unificata. Atti del LIX congresso di storia del Risorgimento italiano,
L’Aquila-Teramo, 28-31 ottobre 1998, Roma, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 2000, pp. 95-111:
98. 13
Come osserva ancora B. Mazohl-Wallnig, Österreichischer Verwaltungsstaat und administrative Eliten im
Königreich Lombardo-Venetien 1815-1859, Mainz, von Zabern, 1993, pp. 311-313 e L’Austria e Venezia, in
Venezia e l’Austria, a cura di G. Benzoni, G. Cozzi, Venezia, Marsilio, 1999, pp. 3-20: 13, la stessa locuzione
“Regno Lombardo-Veneto” non sarebbe altro, in ogni sua componente, che un’elaborazione politica, una
«konstitutive Erfindung»: il termine Regno era infatti volto ad assicurare una legittimità di antica tradizione già
utilizzata da Napoleone con la creazione del Regno Italico; Lombardo-Veneto può essere interpretato quale
espediente linguistico mirato ad assimilare e parificare formalmente le due province.
10
quel momento il Regno Lombardo-Veneto, come l’intera monarchia asburgica, subì una
profonda trasformazione rispetto all'ordinamento improntato trent’anni prima, nella direzione
di un progressivo accentramento e, conseguentemente, della perdita di quei margini di
parziale autonomia dai dicasteri centrali di cui aveva goduto l’amministrazione politica ma
soprattutto giudiziaria delle province lombarde e venete nel corso del Vormärz14
; ed uno degli
effetti di tale trasformazione fu, significativamente, proprio la soppressione del Senato
italiano (1851). Nei primi anni Cinquanta vennero pure riformati i codici penali, non più uniti
in un codice “universale” comprendente tanto le norme sostanziali che quelle di procedura,
com’era il testo franceschino del 1803, ma scissi in un codice sostanziale (1852), e in un
regolamento procedurale (1853, attivato nel Lombardo-Veneto nel 1855).
3.
Il principale corpus documentario utilizzato per la ricostruzione della “politica della grazia” e
delle condanne capitali nel Regno consiste, appunto, nel fondo del Senato Lombardo-Veneto,
conservato presso l’Archivio di Stato di Milano. Esso raccoglie, anzitutto, gli “Atti del
Senato” del periodo veronese, oltre a qualche documento precedente (1815-1851)15
, strutturati
in diverse serie.
La serie “Affari criminali” (1819-1851), non completa ma ad ogni modo molto ricca, contiene
i fascicoli del Senato relativi ai processi per reati comuni di sua competenza, tra i quali,
appunto, quelli conclusisi con una condanna capitale comminata in seconda istanza, a
conferma o revisione della condanna di prima istanza16
.
La serie “Affari politici” (1821-1851) – così denominata da Alfredo Grandi, l’archivista che
ha ordinato il fondo – comprende gli atti prodotti dal Senato sui processi per alto tradimento17
.
Questi ultimi furono archivisticamente separati dai processi per delitti comuni già in origine:
la discriminante oggettiva in base alla quale il materiale giudiziario è stato così suddiviso
consiste, verosimilmente, sia nella tipologia del reato, sia nella natura degli organi giudiziari
14
N. Raponi, Politica e amministrazione in Lombardia agli esordi dell’Unità. Il programma dei moderati,
Milano, Giuffrè, 1967, p. 25. 15
Per ricostruire le vicende archivistiche del fondo del Senato Lombardo-Veneto (utili per capire più
dettagliatamente la sua struttura e i motivi delle sue lacune) si vedano specialmente A. Grandi, Processi politici
del Senato Lombardo-Veneto (1815-1851), Roma, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 1976, e U.
Cova, La Oberste Justizstelle. Organizzazione e vicende di un ufficio giudiziario centrale austriaco e del suo
archivio, «Rassegna degli archivi di Stato», XLII (1982), 1, pp. 96-110. 16
Il fascicolo si compone solitamente della sentenza, la relazione e la correlazione del processo, talvolta
integrate da atti prodotti dopo la chiusura di esso (si tratta, soprattutto, di suppliche del condannato per ulteriori
riduzioni di pena, sovrane risoluzioni e relazioni del Senato ad esse conseguenti). 17
Il materiale ivi conservato è della stessa natura di quello sopra descritto per gli affari criminali, anche se spesso
vi si trovano pure le relazioni e le correlazioni del Tribunale d’appello, nonché le copie dei protocolli di consiglio
sia del Senato Lombardo-Veneto che dell'appello.
11
competenti, come verrà specificato nel quarto capitolo. L’originaria distinzione archivistica è
un particolare “tecnico” di non secondaria importanza, che deve far riflettere chi si accosti a
queste fonti: le cause di tale separatezza segnalano una categorizzazione che è non solo
giuridica, ma anche concettuale.
Un’ulteriore importante serie è costituita dai “Protocolli di consiglio” – ovvero i verbali,
pressoché completi (le lacune sono molto circoscritte), delle sessioni del Senato, raccolti in
centinaia di volumi dapprima semestrali, poi quadrimestrali, trimestrali e infine bimestrali.
Cronologicamente la serie inizia con le sessioni di fine agosto 1815 (quando il Senato italiano
era ancora a Vienna, dove rimase fino al giugno del 1816, per poi essere trasferito a Verona) e
termina con quelle dell’estate del 185118
. Le lacune della serie “Affari criminali” sono quindi
colmabili grazie ai protocolli di consiglio; la ricerca all’interno di essi è stata supportata dal
voluminoso indice compilato da Alfredo Grandi19
, nel quale l’archivista ha segnalato
attraverso regesti, trascrizioni o anche semplici indicazioni di documenti ciò che, a suo
avviso, può essere annoverato di interesse politico. Tale criterio, così enunciato, già in sé
dichiara i limiti dello strumento, il quale rappresenta, tuttavia, l’unica bussola che permette al
ricercatore di orientarsi all’interno di un’enorme quantità di materiale su cui è stato possibile
condurre uno spoglio solo parziale; un'analisi integrale e minuziosa di migliaia di verbali
raccolti in circa duecento volumi sarebbe stata un’operazione sproporzionata alle mie sole
forze.
Una seconda sezione dell’archivio del Senato comprende gli “Atti presidenziali” (1817-1851),
ossia la corrispondenza dei presidenti della suprema magistratura lombardo-veneta (carteggi
con altri dicasteri, con i Governi di Milano e Venezia o con i presidenti dei tribunali sottoposti
all'autorità del Senato; sovrane risoluzioni riservate, che non sempre venivano discusse in
sessione e quindi riportate nei protocolli di consiglio, ecc.)20
.
18
Dai protocolli si deduce che, in ogni sessione, il Senato si occupava di più casi; talvolta, pur raramente, lo
stesso caso veniva trattato in più di una sessione. Il consigliere relatore, cui era affidata la causa, aveva il
compito di esporla agli altri senatori i quali, dopo aver eventualmente partecipato alla discussione, votavano
infine un conchiuso (una conclusione, una deliberazione). Visivamente, le carte dei protocolli sono divise
verticalmente a metà: nella colonna sinistra sono esposte le premesse di un caso (gli estratti della sentenza di un
processo criminale da discutere, di una relazione del Tribunale d'appello da commentare, di un rescritto sovrano
o di una nota della Cancelleria aulica, dell'Oberste Justizstelle o di qualche altro dicastero alla quale il Senato era
chiamato a rispondere, ecc.); la colonna destra riporta le osservazioni del relatore, la discussione e il conchiuso.
L’esatta struttura del protocollo, che doveva registrare «tutto quello che viene riferito in consiglio a voce o in
iscritto», è descritta nella Istruzione generale sul modo di procedere presso i Giudizi Criminali della Galizia,
tradotta ed imposta nel 1818 anche ai tribunali di prima istanza del Regno Lombardo-Veneto (CLV 1818, parte I,
pp. 367-438; sui protocolli di consiglio si veda il capitolo VI, pp. 395-398). 19
Grandi, Processi politici. 20
Va specificato che le tre serie della sezione “Atti del Senato” e la sezione “Atti presidenziali”, pur dotate di
intitolazione autonoma, hanno numerazione continua. Conseguentemente, nelle citazioni – come si avrà già
avuto modo di notare – non viene mai specificata la serie, ma solo il fondo e il numero di busta.
12
La ricerca si è quindi estesa ad ulteriori nuclei archivistici. Da una parte è stato seguito, a
ritroso, il percorso gerarchico di alcuni fascicoli processuali. Se purtroppo le fonti dei due
Tribunali d’appello del Regno Lombardo-Veneto (milanese e veneziano) non possono essere
prese in considerazione – le prime scomparse dall’Archivio di Stato di Milano durante il
bombardamento della città nel 194321
, le seconde depositate presso la succursale dell’isola
della Giudecca dell’Archivio di Stato di Venezia, inaccessibile ormai da molti anni –, in
alcuni casi sono invece recuperabili i fascicoli istruiti dai tribunali provinciali di prima
istanza22
. Dall’altra, si sono rintracciati i temi qui trattati nelle carte prodotte dagli
interlocutori, diretti o indiretti, del Senato, come la presidenza del Governo lombardo (presso
l’Archivio di Stato di Milano) o i dicasteri aulici viennesi: la Staatskanzlei, l’Oberste
Justizstelle23
, la Hofkanzlei (presso l’Österreichisches Staatsarchiv di Vienna) sui quali si
riferirà nelle prossime pagine.
Tra il Senato Lombardo-Veneto e l’imperatore vi era, teoricamente, una comunicazione
diretta. In base alla costituzione che ne regolava la composizione e il disbrigo delle attività24
,
il Senato era infatti tenuto a presentare immediatamente all’imperatore le sue relazioni (§XV),
così come, mensilmente, i protocolli di consiglio (§XVI)25
. La «prerogativa di rassegnare i
suoi rapporti direttamente a Sua Maestà», oltre che di corrispondere immediatamente con i
dicasteri centrali, i tribunali d’appello, i Gubernien ed i comandi militari, era assicurata anche
dalla sr. 25 aprile 1816 con la quale veniva sancita l’istituzione del Senato Lombardo-Veneto
a Verona.
Per quanto Francesco I si occupasse personalmente in modo sorprendentemente massiccio
dell’ordinaria attività amministrativa dei sui territori, e la sua firma manupropria sia vergata
21
«Notizie degli archivi di Stato», IV-VII, 1944-1947, numero unico: I danni di guerra subiti dagli archivi
italiani, p. 17. Si confrontino questi dati anche con le notizie sullo stato dell'archivio del Senato Lombardo-
Veneto a cavallo tra le due guerre mondiali, poco dopo la sua restituzione dall’Austria: G. Vittani, Archivi resi
dall'Austria all'Archivio di Stato di Milano riguardanti la storia del Risorgimento, in Atti dell'XI Congresso
tenutosi in Milano il 17-18-19 settembre 1923, L'Aquila, Vecchioni, 1924, pp. 100-139: 104-105. 22
Alcuni archivi di Stato lombardi e veneti conservano in modo più o meno parziale la documentazione dei
tribunali provinciali operanti in periodo austriaco. Tra questi, sono stati proficuamente consultati quelli di
Vicenza, Verona e Rovigo. 23
Sul fondo della Oberste Justizstelle cfr. Fonti giudiziarie e militari austriache per la storia della Venezia
Giulia, a cura di U. Cova, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, 1989. 24
La costituzione fu comunicata al Senato Lombardo-Veneto con nota del presidente dell'Oberste Justizstelle 17
luglio 1816 unitamente all'ordine di tradurla in italiano e stamparla (Sessione 12 agosto 1816, ASMi, SLV, b. 78,
cc. 1062-1063). Una copia a stampa della stessa si trova in OeStA, AVA, OJ, LVS, K. 24, nonché edita da
Grandi, Processi politici, pp. XVII-XXVII. Una versione manoscritta del testo, tradotto in italiano da Antonio
Mazzetti, si trova appunto tra i documenti di quest'ultimo conservati presso la Biblioteca Comunale di Trento
(BCT, BCT1-1480). 25
I protocolli di consiglio, «per evitare ogni smarrimento», dovevano essere diretti al primo presidente
dell'Oberste Justizstelle; il quale comunque, stando a quanto si può dedurre dagli atti esaminati e dalla stessa
costituzione, pare non ricoprisse un ruolo consultivo, ma solo di mediazione materiale.
13
in un numero incredibilmente ampio di risoluzioni, non solo relative ai processi politici26
,
senza dubbio doveva esistere un’istanza intermedia tra il sovrano e la documentazione
quotidianamente speditagli dai vari dicasteri della monarchia. Il Gabinetto intimo
dell’imperatore, verisimilmente, fungeva da ufficioso filtro della corrispondenza in entrata. Se
vi fosse però qualche consigliere preposto specificamente agli affari giudiziari lombardo-
veneti e quanto concretamente il Gabinetto intimo intervenisse nelle decisioni imperiali, non
sono riuscita ad appurare: di ciò le fonti non conservano traccia alcuna, proprio per il carattere
sfuggente, si potrebbe dire non “istituzionalizzato” degli organi consultivi nel Vormärz.
Due ulteriori fondi viennesi consultati sono i Vertrauliche Akten – prevalentemente costituiti
dal materiale delle commissioni auliche istituite da Francesco I in tutto l’impero per gli affari
di alto tradimento, originariamente facente parte del suo Handarchiv (l’archivio “a portata di
mano”)27
– ed i Kaiser Franz Akten, ossia un insieme di atti di varia natura (relazioni,
carteggi, note personali, memorandum, ecc.) raccolti personalmente dall’imperatore: un
corpus documentario che secondo lo storico Walter Ziegler dimostrerebbe come Francesco
«gehörte zu den damals nicht so seltenen Persönlichkeiten […] die sich schon zu Lebzeiten
gewissermaßen selbst „archivierten“»28
.
26
La tendenza di Francesco I ad intervenire su moltissimi aspetti, anche i più secondari, del governo dei territori
della monarchia, è una caratteristica che la storiografia ha in generale rilevato in tutti gli ambiti
dell’amministrazione (cfr. ad esempio C. A. Macartney, The Habsburg Empire, 1790-1918, London, Weidenfeld
and Nicolson, 1968 [trad. it.: L’Impero degli Asburgo 1790-1918, Milano, Garzanti, 1976, p. 195]), e che si
verifica pure in quello giudiziario. D’altra parte già nel 1802 il fratello dell’imperatore arciduca Carlo, in una sua
accorata relazione sulla necessità di riorganizzare in modo più razionale l’amministrazione dello Stato, metteva
in luce la dispersione di tempo ed energie causata da una tale conduzione degli affari. L’occuparsi personalmente
di «migliaia di inezie» comportava, secondo l’arciduca, la perdita di una più proficua visione d’insieme, ciò che
avrebbe provocato una serie di gravi conseguenze politiche, prima fra tutte la disaffezione dei sudditi: «Eurer
Mt. verlieren bei allen väterlichen gesinnungen, bei aller rastlosen anstrengung, die liebe ihrer unterthanen, wenn
tausende von allerhöchstdenselben abhilfe und entscheidung jahrelang vergebens erwarten. […] Nur dadurch,
dass in allen theilen verwaltung jene lichte ordnung der dinge, jene verkettung der geschäfte eintritt, welche eine
beständige übersicht gewährt und eine eben so prompte als richtige geschäftführung verbürgt, welche euer Mt.
von all den tausend kleinigkeiten befreit und musse zum überblik des ganzen, zur behandlung der grösten
umfassendsten gegenstände gewährt, nur dadurch kann all diesen traurigen folgen vorgebeugt werden». Il testo
della relazione 2 agosto 1802, tratta dall’OeStA, HHStA, KA, KFA, è trascritto in F. Walter, Die österreichische
Zentralverwaltung. II Abteilung: von der Vereinigung der österreichischen und böhmischen Hofkanzlei bis zur
Einrichtung der Ministerialverfassung (1749-1848), 5. Bd.: Die Zeit Franzʼ II. (I.) und Ferdinans I. (1792-
1848). Aktenstücke, Wien, Adolf Holzhausens Nachfolger, 1956, pp. 135-139. Il brano sopra riportato è alla p.
138. L’arciduca Carlo era allora uno dei più intimi consiglieri dell’imperatore assieme agli altri fratelli Giovanni
e Ranieri; i primi due caddero in disgrazia, il terzo divenne Viceré del Lombardo-Veneto. C. A. Macartney, The
Austrian Monarchy, 1792-1847, in The new Cambridge modern history. Vol. 9: War and peace in an age of
upheaval (1793-1830), ed. by C. W. Crawley, Cambridge, Cambridge University Press, 1965 [trad. it.: L’impero
austriaco (1792-1847), in Storia del Mondo Moderno. Vol. 9: Le guerre napoleoniche e la restaurazione (1793-
1830), Milano, Garzanti, 1969, pp. 465-485: 470-471]. 27
F. von Reinöhl, Kabinettsarchiv, in Gesamtinventar des Wiener Haus-, Hof- und Staatsarchiv, hg. von L.
Bittner, Bd. 2, Wien, Verlag Adolf Holzhausens Nachfolger, 1937, pp. 113-272: 142-145. 28
W. Ziegler, Franz II./I. (1792-1835). Kaiser, Dynastiechef, Landesvater, in „Johann und seine Brüder“ .
Neun Brüder und vier Schwestern – Habsburger zwischen Aufklärung und Romantik, Konservativismus,
Liberalismus und Revolution. Beiträge der internationalen Tagung vom 4./5. Juni 2009 in Graz, hg. von A.
14
Una fonte ampiamente utilizzata è poi l’estesissimo archivio personale del giudice Antonio
Mazzetti, conservato presso la Biblioteca Comunale di Trento, del quale mi sono servita
soprattutto per la sopra citata corrispondenza del Mazzetti con gli altri giudici trentini in
relazione ad argomenti quali le nomine dei senatori, le tensioni con i magistrati lombardi e
veneti, i processi politici, il loro impatto sull’opinione pubblica. Nuclei più piccoli di carteggi,
sempre di giudici trentini operanti nel Lombardo-Veneto, sono ora conservati anche presso
altri istituti; nel corso della ricerca ho ad esempio consultato, tra le altre, le lettere di Antonio
Salvotti al giudice Zaccaria Sartori presso la Fondazione Museo Storico del Trentino, o quelle
del senatore Giuseppe Benoni ad Edoardo Marsili presso l’Accademia Roveretana degli
Agiati. Da esse si deducono aspetti, se si vuole, più minuti ma comunque significativi
dell’attività e delle difficoltà professionali dei magistrati, come quelle legate al rapporto con
la lingua tedesca, argomento sul quale mi sono soffermata onde chiarire le competenze
linguistiche e l’estrazione regionale dei senatori.
4.
La struttura tripartita della tesi si articola a sua volta nei seguenti nuclei. La parte normativa
(primo capitolo) è dedicata alle istituzioni giudiziarie e politiche attraverso cui si dipanava,
secondo il codice criminale del 1803, il processo penale in generale e, nello specifico, i
procedimenti che si concludevano con una sentenza capitale, dall’istruzione del processo
all’irrogazione della pena e alla sua eventuale esecuzione pubblica. La norma, si vuole
sottolineare, non è quindi da intendersi avulsa dall'applicazione pratica del codice: i
meccanismi delle istanze e delle revisioni, il concreto margine decisionale del Senato
Lombardo-Veneto, le competenze dei dicasteri viennesi rispetto all'amministrazione
giudiziaria del Regno e il ruolo dei tribunali inferiori lombardi e veneti all'interno della
procedura penale, sono misurabili solo attraverso l'analisi delle centinaia di processi trattati
dal Senato nel periodo qui preso in esame. Oltre a ciò, il capitolo inquadra l’importante
questione della reintroduzione della pena di morte dopo l’abolizione giuseppina e le norme
regolanti il diritto di grazia.
La seconda parte (secondo capitolo) è volta a definire la sistemazione concettuale della grazia
e della pena capitale, nonché la “comunicazione giuridica” di tale sistemazione, all'interno del
circuito di produzione e diffusione di opere giurisprudenziali nel Regno Lombardo-Veneto,
anche in rapporto all'ambito tedesco; allo scopo primario di misurare il livello di
Ableitinger, M. Raffler, Graz, Selbstverlag der Historischen Landeskommission für Steiermark, 2012, pp. 59-78:
72.
15
intersecazione tra il piano dell’elaborazione teorica e il piano della prassi giudiziaria.
La terza parte dedicata alla prassi, ovvero ai casi concreti di irrogazione delle pene di morte e
di commutazione delle stesse in via di grazia, è a sua volta tripartita nei capitoli terzo, quarto e
quinto. I primi due sono stati elaborati, principalmente, sulla base delle sopra citate serie
archivistiche “Affari criminali” ed “Affari politici”, che hanno permesso di analizzare la
frequenza delle sentenze capitali inflitte rispettivamente per delitti comuni e nei processi per
alto tradimento, nonché gli orientamenti giuridici e, in senso esteso, politici, secondo i quali
esse venivano confermate oppure graziate. I “Protocolli di consiglio”, utilizzati nel corso di
tutta la ricerca, hanno soprattutto consentito di ricostruire, attraverso le discussioni senatorie,
l’attività di un importante istituto in vigore in Lombardia accanto ai tribunali ordinari – del
quale non esistono tuttavia testimonianze documentali dirette –, ossia il giudizio statario: una
procedura processuale “d’eccezione”, rapida e sommaria, il cui utilizzo era consentito dal
codice penale in casi di emergenza sociale.
L'articolazione di questa sezione – ossia la decisione di trattare in tre capitoli indipendenti la
questione delle pena di morte e della grazia nei delitti comuni, nei casi di alto tradimento e nel
processo statario – è il frutto di alcune riflessioni. È innanzitutto apparso chiaro come le
strategie dell’esercizio della grazia nei processi comuni e in quelli per i delitti contro lo Stato
– di cui abbiamo già riferito la significativa separazione archivistica – rispondessero a diverse
esigenze politiche e sociali. Anche la questione delle misure d'eccezione, pur strettamente
legata all'ordinaria amministrazione della giustizia e al più ampio problema del controllo della
criminalità, ha meritato una trattazione approfondita in un capitolo autonomo.
La separatezza espositiva dei tre argomenti è stata una scelta necessaria pure alla luce di un
altro importante fattore, ossia la loro reciproca indipendenza cronologica. Nella storia
giudiziaria dei processi per alto tradimento si ravvisano dei momenti-chiave precisi, tra i quali
ho dedicato particolare attenzione alla prima metà degli anni Venti – perché è allora che si
determinò e si strutturò l'impianto giudiziario e la prassi penale che si sarebbero conservati di
fatto immutati per tutto il Vormärz – e agli atti di pacificazione emanati nei primi anni del
regno di Ferdinando I. L’esposizione del giudizio statario segue minuziosamente una
discussione che dal primo biennio di attivazione e di intenso utilizzo (1816-1817), si sviluppò
nel corso di tutto il Vormärz con punte più acute non coincidenti e non intersecabili con i
momenti nodali della gestione giudiziaria del delitto politico. Ancor diversa è la narrazione
dei processi comuni, nei quali gli orientamenti della giurisprudenza del Senato presentano una
tale costanza negli anni da non giustificare, senza incorrere in forzature, un'esposizione
cronologica, motivo per cui si è scelto di elaborare una trattazione tematica che coinvolgesse,
16
sincronicamente, tutti i processi esaminati.
L’elaborazione del capitolo dedicato ai delitti politici si è rivelata essere forse la più
problematica: si tratta infatti di un argomento – al contrario degli altri – su cui esiste un’ampia
produzione storiografica, buona parte della quale si concentra proprio sul momento
processuale e soprattutto punitivo delle esperienze eversive, interpretato come uno degli
aspetti fondanti del Risorgimento italiano. Se le difficoltà di uno studio “solitario”, non
confortato da altre ricerche, sono evidenti, ancor più impegnativo può essere confrontarsi con
argomenti studiati, con fonti frequentate; inserirsi quindi in un solco storiografico (buona
parte del quale ideologicamente orientato) già esistente; scegliere, anche alla luce di esso, un
proprio taglio, una propria linea interpretativa. Il mio punto di osservazione non è stato tanto
il profilo più esplicitamente politico e sociale dei movimenti oggetto di inquisizione e
processi (al quale comunque si farà riferimento); quello che qui interessa è la gestione
giudiziaria di un delitto configurato, appunto, quale alto tradimento, inteso nei suoi rapporti
con la complessiva amministrazione della giustizia nel Regno Lombardo-Veneto. Per certi
versi, i processi politici esasperano – e rendono quindi più visibili allo storico che, oggi, si
accinga a studiarne le dinamiche – quegli aspetti di portata più generale che mi premeva
indagare: i rapporti tra le istanze giudiziarie e l’ampiezza del loro intervento, l’attenzione
verso la comunicazione pubblica di una materia estremamente segreta quale il diritto penale,
le contraddizioni tra la segretezza e la ricerca del consenso; le frizioni e le anomalie, in altre
parole, di un sistema politico e giudiziario in transizione.
Questo lavoro è stato sostenuto dai consigli e dagli incoraggiamenti dei miei due tutor, la
Prof.ssa Brigitte Mazohl e il Prof. Marco Bellabarba, che desidero ringraziare di cuore per la
disponibilità con cui mi hanno seguita, passo dopo passo. Sono molto riconoscente al Prof.
Claudio Povolo, con il quale, anni fa, discussi il progetto di ricerca. Presso la Leopold-
Franzens-Universität ho avuto la fortuna di lavorare in un ambiente accogliente e famigliare,
dove sono stata aiutata in molti modi, tutti preziosi per la realizzazione di questa tesi: ai
colleghi di Innsbruck va la mia gratitudine per il proficuo scambio di pareri, suggerimenti ed
osservazioni, e per il tempo che mi hanno dedicato supportando i miei faticosi progressi con il
tedesco. Ringrazio anche i borsisti ed i professori del dottorato internazionale
«Comunicazione politica dall'antichità al XX secolo», che hanno saputo ascoltare,
commentare, incoraggiare il progredire della ricerca con spunti di riflessione sempre nuovi.
Negli istituti presso cui ho lavorato in questi anni (anzitutto l’Archivio di Stato di Milano e la
Biblioteca Comunale di Trento, diventata ormai una specie di “seconda casa”) sono stata
accolta con gentilezza e competenza.
Un grazie speciale a Mirko, il mio primo, paziente lettore.
17
PRIMA PARTE
NORMA
alberto
Typewritten Text
18
19
PRIMO CAPITOLO
CONDANNE CAPITALI E CONCESSIONI DI GRAZIA:
UN PROFILO NORMATIVO, PROCESSUALE, ISTITUZIONALE
1. La sistemazione normativa della pena capitale e della grazia nel codice penale del
1803
2. Il Senato Lombardo-Veneto del Supremo Tribunale di Giustizia. Note istituzionali
3. Iter procedurale di una sentenza capitale
4. Pubblicazione della condanna ed esecuzione della pena: un caso vicentino
20
1. La sistemazione normativa della pena capitale e della grazia nel codice penale del
1803
Grande assente nell'Allgemeines Gesetz über Verbrechen und derselben Bestrafung
giuseppino (1787) il quale, recependo la lezione abolizionista dell'illuminismo giuridico in
senso più intimidatorio che umanitario1, la prevedeva unicamente per i procedimenti statari
2,
la pena di morte fu dapprima reintrodotta nelle province austriache con patente 2 gennaio
17953 per il solo delitto di alto tradimento – in seguito alla scoperta, l'anno precedente, di due
congiure giacobine4– quindi definitivamente accolta dal codice penale del 1803
5 (§9), oltre
che per lo stesso delitto (§53), anche per alcuni reati comuni: l'omicidio (§119), l'incendio
doloso (§148), la falsificazione di carte di pubblico credito (§94)6. Una reintroduzione che,
1 L'istanza informatrice secondo la quale la pena di morte venne sostituita nell'Allgemeines Gesetz über
Verbrechen con altre durissime pene pubbliche, prima fra tutte il lavoro forzato (al quale, per altro, solo parte dei
condannati sopravviveva) va appunto ricondotta ad una precisa politica penale chiaramente tesa verso una
«mitleidlose Abschreckung». Cfr. H. Conrad, Zu den geistigen Grundlagen der Strafrechtsreform Josephs II.
(1780-1788), in Festschrift für Hellmuth von Weber, hg. von H. Conrad, A. Kaufmann, H. Kaufmann, H. Welzel,
Bonn, Ludwig Röhrscheid Verlag, 1963, pp. 56-73: 62-65. 2 Così infatti recita il §20, I parte dell'Allgemeines Gesetz über Verbrechen: «Die Todesstrafe soll ausser den
Verbrechen, bei welchen nach dem Gesetze mit Standrecht verfahren werden muß, nicht statt finden. In den
standrechtlichen Fällen aber ist der Strang zur alleinigen Todesstraffe [sic] bestimmet. Der zum Strang
verurtheilte Verbrecher wird gehangen, erdrosselt, und ihm die ordentliche Begrabung versaget. Des Verbrechers
Körper, nachdem er dem Volke zum Beispiele 12 Stunden hangen geblieben, ist ohne Gepränge, oder
Begleitung, wo es seyn kann, neben dem Richtplatze einzuscharren». L'edizione del codice consultata è quella
bilingue stampata a Rovereto nel 1787 da Francescantonio Marchesani. 3 Patent vom 2ten Januar 1795, §2, in Seiner Majestät des Kaisers Franz Gesetze und Verfassungen im Justiz-
Sache für die Deutschen Staaten der Oesterreichischen Monarchie in den ersten vier Jahren Seiner Regierung,
Wien, Kaiserlich-königliche Hof- und Staatsdruckerey, 1817. 4 Sul punto di veda S. Tschigg, La formazione del codice penale austriaco del 1803, in Codice penale universale
austriaco (1803). Ristampa anastatica, a cura di S. Vinciguerra, Padova, Cedam, 1997, pp. LI-LXVII: LVI-LVII
e LXIII-LXIV; E. Wangermann, From Joseph II to the jacobin trials, London, Oxford University Press, 1959,
pp. 169-170 e G. Ammerer, Das Ende für Schwert und Galgen? Legislativer Prozess und öffentlicher Diskurs zur
Reduzierung der Todesstrafe im Ordentlichen Verfahren unter Joseph II. (1781-1787), Wien, Studien Verlag
(Mitteilungen des Österreichischen Staatsarchivs: Sonderband 11), 2010, pp. 409-414. 5 Un quadro sintetico della previsione della pena di morte nei codici teresiano, giuseppino e franceschino (detto
anche Franziskana) è fornito da A. Hye-Glunek, Das österreichische Strafgesetz über Verbrechen, Vergehen und
Uebertretungen; die dazu gehörigen Verordnungen über die Competenz der Strafgerichte und die Preßordnung
vom 27. Mai 1852, Wien, Manz, 1852 [Trad. it. di Paride Zajotti, Il codice penale austriaco sui crimini, sui
delitti e sulle contravvenzioni, le relative ordinanze sulla competenza de’ giudizi penali ed il regolamento sulla
stampa del 27 maggio 1852, Venezia, Cecchini, 1852, pp. 61-63]. Si specifica subito, inoltre, che l’edizione del
codice alla quale si farà riferimento è quella in traduzione italiana pubblicata a Milano nel 1815: cfr. Codice
penale universale austriaco. I paragrafi che d'ora in poi verranno citati appartengono tutti alla prima parte del
codice, quella relativa ai delitti (la seconda parte del testo è invece dedicata alle gravi trasgressioni politiche); si
ometterà pertanto di specificare puntualmente questo dato. 6 Sulla reintroduzione della pena di morte nel codice franceschino esiste un fascicolo, purtroppo molto
danneggiato dal fuoco, in OeStA, AVA, OJ, HKo, K. 86: “Beratungen ueber Todesstrafe 1800”, contenente pure
un'osservazione di Franz von Zeiller (giurista che si avrà modo di menzionare più volte nel secondo capitolo)
sulla proposta di un codice penale, datata 1794. Probabilmente si tratta di documenti prodotti dalla commissione
per gli affari giudiziari, presieduta dal 1797 da von Cavriani, incaricata di elaborare il nuovo codice. Un quadro
generale sui lavori della commissione in merito alla pena di morte e sull'orientamento storiografico che interpreta
unanimemente tale reintroduzione alla luce non tanto delle inclinazioni dei membri della commissione, quanto
21
sebbene non “prepotente” come invece è stato osservato7, non poteva certo passare sotto
silenzio, tanto da richiedere un'esplicita giustificazione nella patente di promulgazione del
codice, firmata dall'imperatore Francesco II:
Bey Bestimmung der Strafarten legten Uns überwiegende Gründe die Nothwendigkeit auf, die
Todesstrafen auf einige Gattungen der Verbrechen auch außer dem Standrechte wieder herzustellen.
Sie sind aber auf diejenigen Verbrechen eingeschränket worden, welche nur mit voller Ueberlegung
ausgeführet werden können, und bey ihrem höchst gefährlichen Einflusse auf die öffentliche und
Privat-Sicherheit der öffentlichen Verwaltung diese Strenge abnöthigen8.
Il mese successivo un proclama sovrano, «dettato quasi con angosciosa premura» e
«pubblicato dappertutto colla cura più scrupolosa»9, tornava sulla questione allo scopo di
rendere edotti i sudditi della monarchia sulle ragioni che avevano sollecitato il ripristino della
pena di capitale, assicurando
non essersi, anche sotto l'influenza di gravissimi avvenimenti, aumentato il numero dei delitti; non
aver quindi questo cangiamento alcuna relazione all'indole generale della nazione alla cui bontà,
docilità e tranquillità si rende volentieri al cospetto dell'Europa la meritata giustizia. I malfattori contro
i quali si cerca di tutelare più validamente colla minaccia della morte la comune sicurezza, sono
un'eccezione che sventuratamente pur troppo si trova presso tutti i popoli, e il loro animo indurito nella
malvagità indubbiamente si riconosce dall'atrocità delle azioni che son capaci di commettere, e
costringe a tanto rigore la civile autorità10
.
piuttosto delle contingenze storico-politiche (ossia la reazione imperiale alla rivoluzione francese) è tratteggiato
da Cassi, Negare l'evidenza e aver salva la vita, pp. 318-320. 7 Di prepotente ritorno alla ribalta della pena di morte nel codice franceschino parla A. Cadoppi, Il “modello”
rivale del Code Pénal. Le “forme piuttosto didattiche” del codice penale universale austriaco del 1803, in
Codice penale universale austriaco, pp. XCV-CXLI: XCVII. 8 Patent vom 3. September 1803, pubblicata con il codice penale. Cfr. Gesetzbuch über Verbrechen und schwere
Polizey-Uebertretungen, Wien, kais. kön. Hof- und Staats- Herarial-Drukerey, 1815 (seconda ristampa). 9 Hye, Il codice penale austriaco sui crimini, pp. 61-62.
10 Hofkanzley-Decret vom 29ten October 1803, in Seiner Majestät des Kaisers Franz Gesetze und Verfassungen
im Justiz-Sache für die Deutschen Staaten der Oesterreichischen Monarchie von dem Jahre 1798 bis 1803,
Wien, Kaiserlich-königliche Hof- und Staatsdruckerey, 1816, pp. 499-501. La traduzione italiana qui riportata è
reperibile in F. de Zeiller [von Zeiller], Scopo e principi della Legislazione Criminale. Cenni sull'istoria del
Diritto Criminale in Austria. Esposizione ragionata dei cangiamenti introdotti dal nuovo Codice dei delitti,
«Giurisprudenza pratica secondo la legislazione austriaca», XXI (1833), pp. 67-167: 99. Si vedano a questo
proposito le considerazioni di A. Messedaglia, Esposizione critica delle statistiche criminali dell’Impero
Austriaco con particolare riguardo al Lombardo-Veneto secondo i resoconti ufficiali del quadriennio 1856-1859
e col confronto coi dai posteriori, «Atti dell’I. R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», XI (1865-1866),
24, serie III, pp. 151-211; 331-409; 483-510; 599-652; 993-1051; 1237-1258: 487-488 – pubblicato anche in
volume: Le statistiche criminali dell’Impero Austriaco nel quadriennio 1856-1859 con particolare riguardo al
22
Poco dopo l'attivazione della Franziskana in tutto il Regno Lombardo-Veneto (1 gennaio
1816)11
, i delitti punibili con la pena capitale vennero pubblicamente notificati, su
sollecitazione dello stesso imperatore12
, allo scopo di «istruire» su di essi «la inferior classe
del popolo»13
. D’altra parte il napoleonico Codice dei delitti e delle pene pel Regno d'Italia
(1811) precedentemente in vigore nei territori del neocostituito Regno, si discostava
significativamente, anche su questo punto, dal codice austriaco: nello strumento di esecuzione
(la ghigliottina secondo il Codice dei delitti, art. 12; la forca secondo la Franziskana, §10);
nella sopravvivenza di esacerbazioni applicabili alla condanna capitale14
, che invece erano
state eliminate dal codice austriaco (§43); nel più ampio ventaglio di crimini15
per i quali il
testo normativo francese comminava la pena di morte.
Pur nei fatti sempre più raramente eseguita – una tendenza rilevata, in generale, in tutto
l'impero16
– anche la semplice previsione teorica della sanzione capitale e il suo ripristino per
alcuni delitti comuni nel panorama legislativo austriaco si collocano, di per sé, entro una
precisa concezione del diritto penale e dei suoi obiettivi sociali e politici; un ripristino che
tuttavia deve aver avuto un impatto minore nei territori veneti e lombardi, ove la pena di
lombardo-Veneto e con confronto dei dati posteriori fino al 1864 inclusivamente, Venezia, Antonelli, 1866-1867. 11
Mentre in Veneto il codice penale entrò in vigore dal primo luglio 1815 (sr. 4 aprile, CLV 1815, Parte I, p.
139), più travagliata fu la sua attivazione in Lombardia. La sr. 31 maggio 1815, pubblicata il successivo 29
luglio, stabiliva che essa avrebbe dovuto aver luogo il primo settembre 1815 (AG 1815, Parte I, pp. 143-144); la
data venne dapprima posticipata al primo novembre con sr. 13 agosto (notificazione della reggenza di governo
21 agosto 1815, AG 1815, Parte I, p. 155) per poi subire una proroga indeterminata, causa «diverse imprevedute
circostanze» che avevano ostacolato la circolazione del codice penale – e del regolamento giudiziario civile,
anch'esso destinato ad essere attivato da novembre – tanto che «non si è avuto nemmeno dai giudici il tempo
sufficiente di conoscerli ed istruirsene» (notificazione 26 ottobre 1815, AG 1815, Parte II, p.709). Nel frattempo,
tuttavia, la sr. 22 ottobre 1815 aveva già stabilito il termine definitivo al primo gennaio 1816 (avviso della
reggenza di governo 30 ottobre 1815, AG 1815, Parte II, p. 711). 12
Sr. 2 aprile 1816, in Sessione 8 aprile 1816, ASMi, SLV, b. 77, cc. 613-615. 13
Notificazione 30 giugno 1816, CLV 1816, Parte I, pp. 535-540 e notificazione 16 agosto 1816, AG 1816, vol.
II, Parte I, pp. 402-409. 14
L'art. 13 stabiliva infatti che il condannato per parricidio dovesse essere «condotto al luogo della esecuzione,
in camicia, a piedi nudi, e col capo coperto d'un velo nero. Egli sarà esposto sul palco mentre un usciere farà al
popolo la lettura della sentenza di condanna; gli verrà in seguito tagliata la mano destra, e sarà immediatamente
decapitato». La stessa esacerbazione veniva applicata anche contro i rei di lesa maestà (art. 86). Cfr. Codice dei
delitti e delle pene pel Regno d'Italia (1811). Ristampa anastatica, a cura di S. Vinciguerra, Padova, Cedam,
2002. 15
La pena capitale, secondo il Codice dei delitti e delle pene pel Regno d'Italia, era prevista per i crimini
contemplati agli articoli 75, 76, 77, 79, 80, 81, 82, 83 (crimini contro la sicurezza esterna dello stato), 86, 87, 91,
92, 93, 94, 95, 96, 97 (crimini contro la sicurezza interna dello stato), 132, 139 (crimini contro la pace pubblica),
302, 303, 304 (crimini contro le persone), 381, 434, 435, 437 (crimini contro la proprietà), per un totale di 39
tipologie di reato, stando al calcolo di P. Lascoumes, P. Poncela, P. Lenoël, Au nom de l'ordre. Une histoire
politique du code pénal, Paris, Hachette, 1989, pp. 180-181. 16
Così H. Rüping, Grundriß der Strafrechtsgeschichte, München, C. H. Beck'sche Verlagsbuchhandlung, 1991,
pp. 71-72.
23
morte non era mai stata abolita17
.
Nuova sistemazione normativa, rispetto ai procedenti codici austriaci, venne predisposta
anche in materia di grazia.
Se la procedura penale disciplinata dall'Allgemeine Kriminal-Gerichtsordnung (1788)
concedeva amplissimi spazi di autonomia ai giudici, autorizzati a graziare in molteplici
circostanze, e vi dedicava un intero capitolo (XV)18
, e se nella Norma interinale del processo
17
Nella Lombardia austriaca durante il regno di Giuseppe II né l'Allgemeines Gesetz über Verbrechen und
derselben Bestrafung, né la procedura normata dall'Allgemeine Kriminal-Gerichtsordnung (1788) furono attivati.
Mentre la procedura penale veniva regolata, in via temporanea, da un'apposita Norma interinale del processo
criminale per la Lombardia Austriaca (1786), l'imperatore nominò nel 1787 una «giunta giudiziario-politica»
incaricata di lavorare all'adattamento del codice penale in vista della sua introduzione in Lombardia, ove il diritto
sostanziale era disciplinato da una caotica pluralità di fonti normative sedimentate nei secoli – il Corpus iuris
civilis giustinianeo, gli Statuta medievali, le Novae Constitutiones di Carlo V, cui si sovrapponevano i più
contingenti ordini e dispacci dei sovrani austriaci – entro la quale si imponeva l'autorità dell'antico Senato
milanese, soppresso nel 1786 (cfr. G. Liva, Aspetti della criminalità e della giustizia nello Stato di Milano nel
Settecento, «Annuario dell'Archivio di Stato di Milano», 2011, pp. 55-85: 69-70; A. Cavanna, Giudici e leggi a
Milano nell'età di Beccaria, in Cesare Beccaria tra Milano e l'Europa, Milano-Roma-Bari, Cariplo-Laterza,
1990, pp. 168-195, soprattutto pp. 170-174; Id., La codificazione del diritto nella Lombardia austriaca, in
Economia, istituzioni, cultura in Lombardia nell'età di Maria Teresa. Vol. III: Istituzioni e società, a cura di A.
De Maddalena, E. Rotelli, G. Barbarisi, Bologna, Il Mulino, 1982, pp. 611-657; ancora Id., La giustizia penale
nella Milano del Settecento. Un'occasione di riflessione sulla preistoria dei diritti dell'uomo, in Studi in memoria
di Mario E. Viora, Roma, Fondazione Sergio Mochi Onory per la storia del diritto italiano, 1990, pp. 171-198;
questi ultimi tre saggi sono ora reperibili anche in Id., Scritti (1968-2002), Napoli, Jovene, 2007, vol. I: pp. 463-
512, 627-656; vol. II: pp. 657-688). La giunta, riorganizzata da Leopoldo II, non arrivò tuttavia mai oltre la
stesura di un progetto (il quale, per inciso, manteneva la pena di morte, pur limitatamente a pochi delitti),
accantonato definitivamente da Francesco II. Per quanto concerne, in particolare, la prassi della pena capitale
nella Lombardia di fine Settecento, tanto arbitrariamente e frequentemente essa veniva esercitata da parte del
Senato (come dimostrano i dati quantitativi riportati in G. P. Massetto, Osservazioni sull'attività giudiziaria del
Senato milanese nell'età del Beccaria, in Economia, istituzioni, cultura, pp. 721-741: 732) che nell'agosto del
1785 Giuseppe II ne sancì un disciplinamento ed una riduzione drastica, imponendo ai giudici di far riferimento
ad un'apposita scala di pene da sostituirsi a quella capitale, in attesa dell'attivazione del codice penale; essa
avrebbe potuto essere inflitta solo per i delitti «dalla opinione universale reputati li più atroci e li più pericolosi
alla Stato» previa approvazione dell' «Oracolo Sovrano» per la conferma o la commutazione della stessa. Cfr.
Ibidem, p. 739, che riporta il testo della sovrana risoluzione 30 agosto 1785, e A. Cavanna, La codificazione
penale in Italia. Le origini lombarde, Milano, Giuffrè, 1975, pp. 181-196; quest'ultimo saggio si occupa in
generale dei lavori di redazione del progetto codicistico, argomento trattato diffusamente anche da G. Provin,
Una riforma per la Lombardia dei lumi. Tradizione e novità nella “Norma interinale del processo criminale”,
Milano, Giuffrè, 1990, pp. 93-119. Sulle resistenze del Senato nei confronti dell'abolizione della pena capitale e
della tortura si veda S. Di Noto, Documenti del dibattito su tortura e pena capitale nella Lombardia austriaca,
Milano, Giuffrè, 1977 (estratto da: «Studi parmensi», XIX (1977), pp. 269-406). 18
Secondo il §202 della Kriminal-Gerichtsordnung, ogni giudice di prima istanza era autorizzato ad accordare
autonomamente la grazia sulle pene irrogate senza la supervisione e il controllo delle istanze superiori. Negli
altri casi egli doveva trasmettere la supplica del condannato con il proprio parere al tribunale d'appello, il quale
poteva accordare la grazia in tutti i casi tranne in quelli in cui la pena avesse comportato la carcerazione a vita o
la condanna fosse stata pronunciata per i delitti di lesa maestà, tradimento dello Stato o falsificazione. In queste
circostanze il tribunale d'appello era tenuto, a sua volta, a trasmettere la supplica e il proprio parere al supremo
tribunale di giustizia. La grazia, specificava tuttavia il §203, non poteva essere arbitrariamente accordata, bensì
basata su «hinlängliche Gründe» (Allgemeine Kriminal-Gerichtsordnung, Wien, von Trattner, 1788). Questi
motivi – che, notava il giurista Sebastian Jenull, «der besseren Strafrechts- Theorie fremd sind» – si potevano
presentare qualora il condannato avesse rivelato informazioni tali da permettere lo scoprimento di altri complici;
24
criminale per la Lombardia Austriaca (1786) si rileva una vera e propria sovrapposizione
procedurale e, si potrebbe dire, semantica, tra ricorso e domanda di grazia19
, la Franziskana
ne sanciva, in un solo stringato paragrafo, l’esclusiva attribuzione al sovrano (§444).
Tale importantissimo scarto denota anzitutto lo spirito informatore del codice penale del 1803,
ovvero la volontà di arginare qualsiasi arbitrio da parte della magistratura20
; secondariamente
conferma la natura politica e non giuridica della grazia, che perciò non poteva, in linea
teorica, competere ai magistrati ma al solo imperatore. Secondo Franz von Zeiller, il fatto che
la Franziskana passasse «quasi sotto silenzio la grazia, e non ne fac[esse], come il
Regolamento Giuseppino, l’oggetto di un Capitolo» – avrebbe delineato chiaramente il profilo
dei provvedimenti di clemenza; poiché il codice penale era riservato alle autorità giudiziarie,
in esso non avrebbe potuto trovare posto la dettagliata disamina di un diritto «fondato sopra
ragioni politiche, il giudicare delle quali spetta all’Autorità politica»21
. Come veniva appunto
osservato in uno dei primi commentari del codice penale,
die Gründe, welche die Gesetzgebung bewogen haben mochten, die Begnadigung [concessa dalle
istanze giudiziarie] abzustellen, können seyn, weil durch das Gnadesuchen die Gesetze in ihren
nel caso in cui egli o la sua famiglia vantassero benemerenze verso lo stato; o infine se la condotta tenuta durante
la carcerazione avesse lasciato sperare in un recupero durevole. S. Jenull, Das Österreichische Criminal-Recht
nach seinen Gründen und seinem Geiste, Bd. 4, Grätz (Graz), Franz Ferstl, 1815, p. 268 [Trad. It: Commentario
sul codice e sulla processura criminale della monarchia austriaca ossia: Il diritto criminale austriaco esposto
secondo i suoi principj ed il suo spirito, Milano, Destefanis, 1816]. 19
Cfr. l'articolo XXIV della Norma interinale, dedicato al ricorso in cause criminali. La coincidenza concettuale
tra ricorso e domanda di grazia trapela già dal paragrafo d'esordio (259): «Quantunque ne’ Giudizj criminali
regolarmente non debba aver luogo l’appellazione, pure sarà permesso ai condannati di ricorrere a S. M., ossia al
Supremo Tribunale di Giustizia, quando possano mostrarsi aggravati dalla sentenza, o che per essere assolti dalla
pena implorar vogliano la Sovrana Grazia». Il condannato che intendeva «ricorrere per la grazia» aveva il diritto
di essere assistito da un avvocato, «od altra persona capace, ed al bisogno, anche un individuo dello stesso
criminale Consesso». L'avvocato poteva comunicare con il condannato, pur alla presenza di un impiegato del
tribunale, ed aveva il diritto di esaminare, in copia, gli atti del processo (§267). Un primo filtro veniva quindi
esercitato dall'appello, al quale il tribunale trasmetteva il ricorso con il suo parere e gli atti processuali; dopo
averli esaminati, esso doveva giudicare se «la proferita sentenza meriti d’essere riformata, o confermata per via
di Giustizia, e se i motivi addotti dal reo, e ciò ancora, che dal Giudice vi sarà aggiunto, degni siano
dell’implorata grazia» (§270). Se a maggioranza di voti l'appello riteneva il condannato non meritevole della
grazia, il ricorso rigettato veniva notificato al tribunale inferiore, che rendeva esecutiva la sentenza (§271); in
caso contrario, l'appello a sua volta trasmetteva gli atti, il ricorso e una relazione sui motivi a favorevoli alla
concessione della grazia al supremo tribunale di giustizia (§372). Norma interinale del processo criminale per la
Lombardia austriaca, Milano, Motta, 1786. 20
Questo, secondo Sergio Vinciguerra, è in effetti il principale scopo del codice penale: la limitazione –
conseguente alla codificazione della legge – del potere di punire, alla quale il sovrano avrebbe accettato di
sottostare, era nei fatti solo apparentemente autodiretta; essa, infatti, si rivolgeva piuttosto ai giudici, il cui
arbitrio era molto esteso in antico regime. Cfr. S. Vinciguerra, Idee liberali per irrobustire l’assolutismo politico:
il Codice Penale austriaco del 1803, in Codice penale universale austriaco, pp. IX-XXXVIII: XVI. 21
F. de Zeiller [von Zeiller], Commenti sulla Procedura Criminale Austriaca e finali osservazioni sulle riforme
introdotte nel nuovo Codice penale Austriaco, «Giurisprudenza pratica secondo la legislazione austriaca», XXII
(1833), pp. 1-94: 79.
25
Beweggründen geschwächt, weil dadurch die meisten Urtheile in ihrer Vollziehung aufgehalten, und
weil endlich die richterliche Willkühr durch die Gnadenertheilung zu viel Raum gewinnet22
.
Più simile, in questo senso, appare l'orientamento della disciplina vigente in periodo
napoleonico, secondo la quale il diritto di grazia spettava al re, come sancivano gli statuti
costituzionali del Regno d'Italia23
; e non è superfluo sottolineare che proprio da essi, e non dal
codice di procedura penale – coerentemente con il profilo non giudiziario bensì politico della
grazia – quest'ultima veniva appunto normata.
Con il suo esile e conciso disciplinamento in materia di grazia, la Franziskana disegna quindi
la figura di un imperatore dotato del potere teoricamente illimitato di intervenire anche in
ambito processuale. Per contro, come si vedrà più avanti, il codice lascia intravedere un ceto
giudiziario incastonato entro una rigida struttura gerarchica, vincolato – addirittura
“incatenato”, come sostenne Adriano Cavanna24
– ad un sistema probatorio rigorosamente
legale e costretto ad agire nei limiti di un'inflessibile procedura inquisitoria come ingranaggio
e non protagonista di essa; ed è in questo senso significativo che il testo normativo si riferisca
al giudice utilizzando una nomenclatura «quasi sotto tono e volutamente impersonale»25
.
Si tratterà pertanto di verificare, in primo luogo, quanto il quadro ora tratteggiato trovi, nella
concreta prassi giudiziaria, conferma o piuttosto un ridimensionamento; di stabilire, in altre
parole, in che misura l'intera organizzazione giudiziaria venisse “scavalcata” dall’intervento
della grazia sovrana, o in che misura ne fosse piuttosto essa stessa mediatrice e ispiratrice.
È forse utile e non prematuro anticipare a questo proposito alcune riflessioni. Gli interventi
graziosi dell'imperatore erano, concretamente, delimitati. Se nelle fonti normative e, come
vedremo, giurisprudenziali, il discorso teorico sulla clemenza si dipana esclusivamente
attorno al perno problematico della legittimità dell'arbitrio sovrano, la prassi rivela che il
22
A. M. Gimson, Lexikon der neuen österreichischen Strafgesetze oder alphabetisches Handbuch für Richter
und Privatpersonen, Wien, Doll, 1804, p. 50. 23
Il titolo VII del terzo statuto costituzionale (6 giugno 1805), dedicato appunto al «diritto di far grazia»,
stabiliva che esso veniva esercitato dal re «dopo avere inteso il parere di un consiglio privato composto del gran
giudice, di un grande ufficiale civile della corona, di un grande ufficiale militare». Il testo è pubblicato in Le
costituzioni italiane, a cura di A. Aquarone, M. D'Addio, G. Negri, Milano, Edizioni di Comunità, 1958, p. 336. 24
A. Cavanna, Ragioni del diritto e ragioni del potere nel codice penale austriaco del 1803, in Cunabula Iuris.
Studi storico giuridici per Gerardo Broggini, Milano, Giuffrè, 2002, pp. 101-144: 118, ora anche in Id., Scritti,
vol. II, pp. 1137-1184; analoghe considerazioni in Id., Storia del diritto moderno in Europa, vol. II, Milano,
Giuffrè, 2005, pp. 325-326. 25
L'osservazione è di P. Pittaro, Giustizia criminale e ragion di Stato, in Codice penale universale austriaco, pp.
CXLIII-CLIV: CXLVIII; l'espressione con la quale il testo della Franziskana indica, in generale, il tribunale di
prima istanza, ma anche, nello specifico, il giudice inquirente, è «giudizio criminale» (mentre nell'originale
versione tedesca si parla di Criminal-Gericht).
26
momento effettivamente decisionale in merito alla concessione delle grazie stava nei pareri
avanzati a questo proposito dai tribunali del Regno e in particolare dal Senato Lombardo-
Veneto; le cui valutazioni – derivanti dall’interpretazione delle specifiche contingenze sociali,
politiche e istituzionali lombarde e venete, riportate al Senato dalle istanze giudiziarie
inferiori – costituiranno il nucleo dei successivi capitoli.
Si vogliono qui intanto inquadrare le coordinate istituzionali e normative del processo penale
austriaco: da una parte evidenziando la peculiarità del Senato Lombardo-Veneto, supremo
tribunale per le province italiane, onde ravvisarne le potenzialità di autonomia giurisdizionale
e amministrativa, nel quadro della più generale organizzazione giudiziaria del Regno;
dall'altra tratteggiando l'iter procedurale attraverso il quale la condanna capitale veniva
pronunciata, riformata o confermata, inflitta o graziata, e infine comunicata.
2. Il Senato Lombardo-Veneto del Supremo Tribunale di Giustizia. Note istituzionali
La procedura processuale austriaca si dipanava attraverso un'articolazione di istanze
giudiziarie che prevedeva fino a tre gradi di giudizio. A livello provinciale troviamo i tribunali
di prima istanza, presenti in ogni città capoluogo di provincia (in Lombardia: Milano, Brescia,
Era il Senato, inoltre, che, attraverso un parere motivato trasmesso all'imperatore, si occupava
del delicato compito dell'assunzione di impiegati sia entro i suoi stessi uffici che presso le
istanze inferiori. Particolare procedura era adottata invece per le nomine di maggior rilevanza
– le quali evidentemente richiedevano una più diretta approvazione da parte viennese –
ovvero i consiglieri aulici presso il Senato e i presidenti e vicepresidenti dei tribunali di prima
e seconda istanza. In questo caso, infatti, le proposte avanzate dal Senato veronese venivano
sottoposte all' «arbitrio e beneplacito»84
dell'imperatore, con la mediazione e l'opinione
dell'Oberste Justizstelle85
.
80
Sessione 26 febbraio 1825, ASMi, SLV, b. 108, c. 372. 81
Il tribunale d'appello verificava l'esattezza delle tabelle trimestrali attraverso ispezioni periodiche (almeno una
all'anno) alle prime istanze. Nel corso di tali visite – condotte da un consigliere d'appello nei tribunali sedenti
presso la città dello stesso appello e dal delegato provinciale nelle altre città – venivano inoltre ispezionate le
carceri, interrogati i detenuti sulla prontezza degli interrogatori e sul trattamento subito e controllata la
correttezza della documentazione prodotta dal tribunale (§556 Cp.) 82
Alcune relazioni esemplificative, redatte dal tribunale criminale di Vicenza per l'appello veneto nei primi anni
'40 sono pubblicate in C. Povolo, Rapporti dell'imperial regio tribunale di Vicenza all'imperial regio tribunale
d'appello in Venezia (anni 1842-1844), Vicenza 1997. 83
Ulteriori dettagli sulla compilazione delle tabelle e sulla vigilanza esercitata dai tribunali d'appello sui tribunali
criminali sono elencati nel capitolo X delle Istruzioni per l'interna procedura delli Tribunali Criminali, diramate
nel Regno Lombardo-Veneto con circolare 6 aprile 1818 (CLV 1818, Parte I, pp. 367-438: 411-415). 84
Così si esprime lo stesso Francesco I nella sr. 3 ottobre 1817 con la quale egli nominava i presidenti dei
tribunali lombardi, oltre ad altre cariche minori. Una minuta della traduzione in italiano della sovrana risoluzione
si trova tra la documentazione del consigliere aulico Antonio Mazzetti (il quale ne è verosimilmente l'autore) in
BCT, BCT47-2, fasc. 1817. 85
Come si evince da alcuni casi concreti di nomina presidenziale – rinvenibili nella documentazione relativa ai
tribunali (Gerichte) in OeStA, AVA, OJ, LVS – il Senato avanzava, motivando le ragioni della scelta, una terna di
nomi all'Oberste Justizstelle, la quale a sua volta proponeva un'altra terna, di solito parzialmente diversa dalla
prima; sulla base di tali indicazioni, l'imperatore prendeva la decisione definitiva. Un esempio: nel 1844, in
seguito alla giubilazione del presidente del Tribunale di Como Pietro Facconi, con nota 7 agosto 1844 indirizzata
direttamente al presidente dell'Oberste Justizstelle conte von Taaffe, il Senato veronese propose tre candidati:
Antonio Manfroni ed Antonio Della Porta, entrambi consigliere d'appello a Milano, e Giovanni Battista Anselmi,
consigliere d'appello a Venezia. Questa terna venne quindi modificata dal supremo tribunale viennese con la
40
La duplice funzione – giudiziaria ed amministrativa – del Senato, contemporaneamente
suprema istanza giurisdizionale e organo di governo della magistratura inferiore, emerge per
altro, intrecciata, in molte delle relazioni che, come si vedrà più diffusamente tra breve, il
Supremo tribunale veronese compilava sui processi penali istruiti e giudicati dalle prime e
dalle seconde istanze. Accanto alle valutazioni sul merito specifico del processo e della
sentenza in esame – quelle valutazioni giuridiche, criminologiche, politiche e sociali che
hanno costituito le fonti principali per la stesura delle pagine che seguono – i consiglieri aulici
erano infatti tenuti ad osservare l'operato formale e procedurale dei tribunali, delle preture e
degli appelli, registrandone e rimproverandone ogni eventuale irregolarità, mancanza,
leggerezza; talvolta, invero molto più raramente, lodandone lo zelo e la precisione.
È per altro interessante osservare come le inadempienze rilevate in qualche caso avessero,
secondo la stessa interpretazione del Senato, una più o meno diretta ricaduta sul processo di
proposta e concessione di grazia. In una relazione dell'ottobre 1832 su un caso di omicidio, il
consigliere Antonio Salvotti lamentava l'operato del Tribunale di prima istanza di Milano che
aveva omesso di procurarsi, presso la direzione generale di polizia, le opportune e consuete
informazioni sulla condotta e la “fama” dell'inquisito; una ricerca secondo il relatore
necessaria
siccome quella che poteva fornire, sulle precedenti abitudini e sul carattere morale dello inquisito, quei
lumi che potevano servire e di guida al calcolo morale del motivo, che poteva averlo determinato al
grave misfatto di cui era imputato, e in ogni caso di base per determinare la latitudine della pena
temporaria che gli si fosse inflitta o della Grazia Sovrana, che si avesse creduto necessario d’invocare
a suo favore86
.
In generale, gli errori e le esitazioni dei tribunali criminali, o le lungaggini nelle quali le
inquisizioni potevano incappare, erano sempre annoverate tra i motivi proposti a favore della
commutazione di pena87
.
sostituzione di Ferdinand Stöckl, consigliere d'appello a Innsbruck, a Della Porta, e sottoposta all'attenzione
dell'imperatore con relazione 4 settembre 1844; il quale, con sr. 19 ottobre 1844, designò Anselmi. OeStA, AVA,
OJ, LVS, K. 3, fasc. Como. Si veda infine la sr. 26 agosto 1819 portata dalla circolare 24 maggio 1820 (in copia
manoscritta in BCT47-7) che ordina al Senato veronese e all’Oberste Justizstelle di scambiarsi informazioni
sugli individui sottoposti alla loro giurisdizione, allorché vi fossero posti vacanti. 86
Relazione 3 ottobre 1832, ASMi, SLV, b. 55, fasc. VI. 125-2. 87
Un esempio in ASMi, SLV, b. 55: il correlatore Trombetti giustifica la domanda di grazia adducendo al fatto
che «senza giustificato motivo, e quindi senza colpa dell’imputato» l'inquisizione si era protratta per più di un
anno.
41
Più sostanzialmente, le scelte procedurali e giuridiche dubbie messe in atto dai tribunali
inferiori – e ciò si rileva soprattutto nelle relazioni compilate nel corso dei primi anni di
attività del Senato, quando il codice penale da poco introdotto doveva, evidentemente, essere
ancora del tutto “rodato”, la prassi processuale consolidata e, forse, il ruolo stesso del Senato
quale interprete ultimo della giurisprudenza affermato – venivano ampiamente discusse, allo
scopo di fornire delle precise linee interpretative della legge, coerenti e uniformi, che talvolta
si riflettono anche sulle materie di nostro specifico interesse, vale a dire la pena di morte e le
concessioni di grazia. E se nelle relazioni del Supremo tribunale veronese e nelle sue decisioni
effettivamente mancano – come criticamente notava il giurista trentino Francesco Menestrina
in merito al diritto civile – quei riferimenti che ne avrebbero garantito una maggiore solidità
teorica (ad esempio, qualsiasi allusione alla letteratura giuridica o alla legislazione straniera),
tuttavia non conveniamo con il Menestrina, o quantomeno non riteniamo estensibile la sua
analisi anche al campo penale, nel momento in cui egli afferma che il lavoro del Senato si
sarebbe risolto in un apporto tutto sommato arido sul piano giurisprudenziale, minimamente
influente, capace di mettere in luce i difetti della legge, ma non di mitigarli88
.
Le decisioni del Senato e, a monte, le discussioni sui processi criminali sembrano avere, nella
maggior parte dei casi, tutt'altro spessore teorico. Una correlazione del 1819, ad esempio,
offriva l'occasione al consigliere aulico Antonio Mazzetti di disquisire approfonditamente e
chiarire, in un testo che assume i toni, le forme e la struttura di un trattato giuridico, alcune
delle più importanti questioni di diritto penale: la legittima difesa, la confessione, le
condizioni necessarie per irrogare la pena capitale, l'uso della grazia (il riferimento è implicito
ma chiaro) per controbilanciare ogni possibile dubbio intorno alla colpevolezza
dell'imputato89
.
La specifica attività del Senato quale uniformatore della giurisprudenza era per altro prevista
dalla sua stessa legge costitutiva; ad esso erano infatti esplicitamente affidate l'introduzione, la
modificazione e l'interpretazione delle leggi. Pur essendogli precluso, come al Supremo
tribunale di giustizia viennese, un effettivo potere legislativo, il Senato rappresentava un
importante anello di congiunzione e comunicazione all'interno del sistema di produzione ed
88
F. Menestrina, Nel centenario del codice civile generale austriaco, «Rivista di diritto civile», 6 (1911), pp.
808-849: 825-826; pubblicato anche in estratto per la Società Editrice Libraria, Milano 1911. 89
Correlazione 9 novembre 1819, ASMi, SLV, b. 44.
42
applicazione normativa90
.
In caso di dubbio, onde garantire l'uniformità delle leggi, il tribunale veronese avrebbe dovuto
entrare in corrispondenza con i senati viennesi. In generale, i due tribunali erano tenuti a
comunicarsi reciprocamente le sovrane risoluzioni relative a questioni sia genericamente
legali e giudiziarie, sia specificamente lombardo-venete. Qualora vi fosse stata discrepanza di
opinione tra i senati, questi, medianti l'Oberste Justizstelle, avrebbero dovuto richiedere a tal
proposito una risoluzione sovrana, dopo aver preventivamente ottenuto il parere della
Commissione aulica di legislazione in affari giudiziari91
.
La risoluzione dell'imperatore doveva inoltre essere ricercata dal Senato in tutti i casi
straordinari – vale a dire travalicanti la regolare procedura penale e le specifiche competenze
degli organi giudiziari – in particolare relativi alle concessioni delle grazie. Un margine di
autonomia, in materia di grazia, era tuttavia concessa al Senato Lombardo-Veneto, così come
ai senati viennesi; ad essi veniva infatti cautamente demandata la facoltà di «compartire di
propria autorità con circospezione e prudenza, mitigazione o condonazione delle pene di
carcere pronunciate a tempo, o di carcere a vita» (§XV). Da questa era esclusa la competenza
di commutare le pene capitali, appunto riservata all'imperatore.
3. Iter procedurale di una sentenza capitale
L'iter processuale che ora si seguirà fino al suo momento finale – l'esecuzione o
commutazione della sentenza capitale – si dipana, come accennato, nel quadro di una
procedura marcatamente inquisitoria e rigorosamente gerarchica92
o, per usare l'efficace
formulazione concettuale di Mirjan R. Damaška, di «attuazione di scelte politiche»93
. Tale
procedura, entro la quale vanno quindi calate la disciplina e la prassi di richiesta e
90
Così Grandi, Processi politici, p. XV. 91
Nata nel 1808 dalla biforcazione della Beratungskommission (Commissione di consulenza) – istituita nel 1797
dall'associazione della Gesetzgebungskommission (Commissione di legislazione) con la Revisionskommission
(Commissione di revisione) e incaricata dell'elaborazione del codice civile – l'Hofkommission in
Justizgesetzsachen (Commissione aulica di legislazione in affari giudiziari) si occupava esclusivamente di
questioni giudiziarie. Divisa nel 1828 in più sottocommissioni, venne abolita nel 1848. Cfr. R. Stritzko, Das
Archiv der obersten Justizstelle, p. 68. 92
Sulla procedura penale austriaca e il sistema a tre istanze nel Lombardo-Veneto si veda N. Raponi, Il Regno
Lombardo-Veneto, in Amministrazione della giustizia e poteri di polizia dagli Stati preunitari alla caduta della
Destra. Atti del LII congresso di Storia del Risorgimento italiano (Pescara 7–10 novembre 1984), Roma, Istituto
per la Storia del Risorgimento italiano, 1986, pp. 91-164, nonché le più recenti sintesi di C. Danusso, La giustizia
civile nel Lombardo-Veneto: analisi e proposte dell’avvocato Luigi Fantoni di Rovetta, in Figure del foro
lombardo tra XVI e XIX secolo, a cura di C. Danusso, C. Storti Storchi, Milano, Giuffrè, 2006, pp. 1-74: 8 e
segg., e di E. Biasiolo, L'amministrazione della giustizia penale nel Regno Lombardo-Veneto. Il controllo
gerarchico: garanzia e limite della giustizia asburgica, «Il diritto della Regione», 3 (2010), pp. 129-189. 93
Damaška, I volti della giustizia e del potere.
43
concessione di grazia, era infatti caratterizzata da tutti quei tratti propriamente costitutivi del
sistema inquisitorio94
: l'iniziativa ex officio, il carattere segreto e scritto del processo, la
centralità del fascicolo95
, la triplicità del ruolo del giudice – una vera e propria “creatura” «a
tre teste»96
– ad un tempo inquirente, giudicante e difensore, data la non previsione della
difesa tecnica97
(§337 Cp.); l'assenza di un dibattimento preliminare alla sentenza, la
detenzione preventiva, lo stretto vincolo del processo al sistema di prove legali negative, ossia
quelle «in assenza delle quali la legge prescrive al giudice di considerare non provata l’ipotesi
accusatoria anche se tale “non prova” contrasta con il suo libero convincimento»98
.
Un sistema molto diverso, quindi, da quello di tipo francese normato dal codice di procedura
penale precedentemente in vigore nel Regno d'Italia99
, cosiddetto “misto” in quanto costituito
da due fasi susseguenti: una istruttoria, scritta e segreta, ed una dibattimentale, pubblica ed
orale. I due modelli processuali, austriaco e francese, non solo sottendevano opposte
epistemologie nella costruzione delle verità giudiziaria e nell'attestazione della colpevolezza
94
Si vedano le riassuntive ed efficaci pagine di E. Dezza, L'impossibile conciliazione. Processo penale,
assolutismo e garantismo nel codice asburgico del 1803, in Codice penale universale austriaco, pp. CLV-
CLXXXIII: CLXIV-CLXVII; anche in Id., Saggi di storia del processo penale nell'età della codificazione,
Padova, Cedam, 2001, pp. 141-169. 95
Sul fascicolo processuale, la sua composizione e le norme che la regolavano si rimanda a L. Rossetto, Un
protagonista nascosto: il ruolo del fascicolo nella giustizia criminale asburgica in territorio veneto, in
Amministrazione della giustizia penale e controllo sociale nel Regno Lombardo-Veneto, a cura di G. Chiodi, C.
Povolo, Verona, Cierre, 2007, pp. 61-91. 96
L'espressione è di A. Cavanna, Storia del diritto moderno in Europa. Le fonti e il pensiero giuridico, Vol. 2,
Milano, Giuffrè, 2005, p. 327. 97
Sull'esclusione della difesa nel processo penale austriaco si vedano ancora i lavori di Ettore Dezza; in
particolare Il nemico della verità. Divieto di difesa tecnica e giudice factotum nella codificazione penale
asburgica, in Riti, tecniche, interessi. Il processo penale tra Otto e Novecento. Atti del convegno, Foggia, 5 -6
maggio 2006, a cura di M. N. Miletti, Milano, Giuffrè, 2006, pp. 13-77, soprattutto pp. 32-47 e Id., Il divieto
della difesa tecnica nell'Allgemeine Kriminalgerichtsordnung (1788), «Acta Histriae», XV (2007), 1, pp. 303-
320 (con riferimento anche alla Franziskana). 98
Così L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma-Bari, Laterza, 1989, p. 127. Il regime
di prova legale negativa era certamente una garanzia giuridica per l’imputato, contro i possibili arbitrii del giudice. Una garanzia che, ancora con Dezza, riequilibria sensibilmente il giudizio storiografico negativo
espresso nei confronti della procedura processuale normata dal codice del 1803. Dezza, L'impossibile
conciliazione, pp. CLXXVIII-CLXXXIII. Sulla teoria della prova legale negativa si veda Chiodi, Il fascino
discreto del libero convincimento. Per una definizione esauriente della nozione giuridica di libero convincimento
cfr. I. Rosoni, Quae singula non prosunt collecta iuvant. La teoria della prova indiziaria nell’età medievale e
moderna, Milano, Giuffrè, 1995. 99
Per una disamina delle caratteristiche del codice di procedura penale in vigore nel Regno Italico (il cosiddetto
“codice Romagnosi”), si veda E. Dezza, Il Codice di procedura penale del Regno Italico (1807). Storia di un
decennio di elaborazione giuridica, Padova, Cedam, 1983, soprattutto pp. 313 e segg.; una sintesi delle
differenze tra sistema italico e austriaco si trova in L. Tedoldi, Le retour du système inquisitorial. Les
“distorsions” du système pénal ordinaire autrichien du Royaume de la Lombardie-Vénétie, in Normes juridiques
et pratiques judiciaires: du Moyen Âge à l’époque contemporaine, sous la dir. de B. Garnot, Dijon, Edition
Univesitaires de Dijon, 2007, pp. 357-365.
44
dell'imputato100
, ma coinvolgevano figure professionali diverse, come diversi erano i rapporti
di forza intercorrenti tra gli attori del procedimento; punti, questi, rilevati dalle osservazioni –
pur orientate da un giudizio naturalmente sbilanciato a favore dell'architettura processuale
austriaca – del consigliere Giuseppe Sardagna, ad un anno dall'introduzione nelle province
lombarde e venete della Franziskana:
L'attuale sistema criminale è del tutto diverso da quello dei tempi ultimi passati di questo Regno. Il
sistema della difesa portava già altresì diverse forme di procedere; il giudice istruttore non era padrone
del processo, ma soltanto una tal quale macchina incaricata di eseguire ciò, che egli fu comandato dal
Regio Procuratore o che dietro ricerca del difensore gli fu imposto di eseguire. Rimettendo poi la
cessata legislazione gli estremi di prova e della colpabilità all'intimo convincimento del giudice non
esistevano per conseguenza neppure le conseguenti precise forme con cui investigare sulla
verificazione di queste prove101
.
Il processo veniva istruito da uno dei consiglieri del tribunale di prima istanza territorialmente
competente, di volta in volta incaricato dal presidente dello stesso102
, che procedeva, come
giudice relatore, con la cosiddetta inquisizione preliminare (§§226-257 Cp.), atta ad accertare
il fatto criminale e raccogliere le informazioni più urgenti. Nel caso in cui questa fase avesse
portato all'emersione di sufficienti «indizi legali» a carico dell'imputato, il consesso di prima
istanza dichiarava aperta la «speciale inquisizione» – detta anche «processo ordinario
d'inquisizione» – volta ad ottenere la piena prova legale necessaria per la pronuncia della
sentenza, che si poteva ricavare attraverso il «concorso delle circostanze», ossia una prova
indiziaria (la cui modalità di conseguimento era normata dal §412 Cp., poi riformato
parzialmente dalla sovrana patente 6 luglio 1833), la deposizione di almeno due testimoni o
infine la confessione dell'imputato.
Quest'ultima tipologia di prova legale sembra essere, stando alla documentazione consultata –
relativa quindi a delitti puniti con la pena di morte – di gran lunga privilegiata rispetto alle
altre; in questo senso l'interrogatorio dell'imputato, ovvero il «costituto del reo» (§§348-373
100
Cfr. G. Alessi, Le contraddizioni del processo misto, in La costruzione della verità giudiziaria, a cura di M.
Marmo, L. Musella, Napoli, ClioPress, 2003, pp. 17 e segg. 101
Sessione 21 gennaio 1817, ASMi, SLV, b. 79, c. 180. 102
Come stabilito dal §23 delle Istruzioni per l'interna procedura delli Tribunali Criminali, diramate nel Regno
Lombardo-Veneto con circolare 6 aprile 1818 (CLV 1818, Parte I, pp. 367-438: 279-280).
45
Cp.) era a tutti gli effetti «il perno attorno al quale ruota[va] tutto il procedimento»103
. La
confessione poteva essere stimolata anche del confronto con i correi o i testimoni104
, al quale,
tuttavia, questi ultimi avevano il diritto di sottrarsi; si trattava, in pratica, di ripetere la
testimonianza d’accusa contro il reo in sua presenza. Tale sistema, utilizzato relativamente di
rado, non solo risultava essere molto delicato – come dimostrano le cautele suggerite dallo
stesso codice penale105
– ma pure particolarmente infamante per chi vi veniva sottoposto, ciò
che emerge da una dichiarazione di due inquisiti per omicidio e rapina: questi, condannati a
morte dal Tribunale di Milano nel 1838, si rifiutarono di essere messi a confronto con un terzo
imputato «perché colui, che passa al confronto» spiegano gli imputati, «vien tacciato, e
nominato nelle carceri coll’abominevole nome di boia, accettando la morte piuttosto che
soffrire simile nome»106
.
D'altra parte il codice penale escludeva la possibilità di pronunciare la condanna a morte
qualora la colpevolezza fosse stata provata solo attraverso prove indiziarie (§430)107
con le
quali, sottolineava il giurista Franz von Zeiller, «vuolsi tanta maggior cautela quanto più
grave ed irreparabile è il danno che ne sovrasta al condannato»108
.
Lo «spirito» del §430 – ebbe a chiarire a tal proposito il consigliere Mazzetti in una già citata
correlazione su un caso di omicidio –
sembra favorire la causa del reo, onde pongasi mente, che il detto paragrafo in caso di prova scatente
dal concorso delle circostanze, esclude la pena capitale non già perché meno legale sia tale prova, o
103
Dezza, L'impossibile conciliazione, p. CLXX. 104
Si veda la voce Confronto curata da E. Castellani nel Lessico giurisdizionale e processuale in appendice a C.
Povolo, Il movente. Il giudice Bernardo Marchesini e il processo per l’omicidio di Giovanni Rama (1831-1833),
Verona, Cierre, 2011. 105
Alla «cautela da premettersi al confronto» erano dedicati due paragrafi: «allorché si tratta del confronto d’un
complice, è d’uopo prima d’introdurlo assicurarsi mediante un’espressa interrogazione, ch’egli voglia, e possa
sostenere in faccia all’imputato la sua deposizione» (§391). Se il complice accettava il confronto, bisognava
comunque «di nuovo avvertire l’imputato, che desista dalla sua negativa, e che non voglia esporsi ad essere
confrontato con testimoni, che son pronti a sostenergli in faccia la verità» (§392). 106
Relazione 4 aprile 1838, ASMi, SLV, b. 61, fasc. VI. 23-2. È per altro significativo che l’epiteto offensivo
rivolto contro chi si sottoponeva al confronto fosse proprio “boia”, ossia una delle figure centrali del
procedimento giudiziario. Sull’esecutore di giustizia e la percezione sociale della sua funzione si rimanda al
prossimo paragrafo. 107
«La sentenza allora soltanto si può estendere fino alla pena di morte, quando il delitto, che la prova punisce
con tal pena, è legalmente provato contro il reo colla sua confessione, o con giurate testimonianze, ed inoltre
l'esistenza del fatto con tutte le importanti sue circostanze è in modo legale pienamente verificata. Se in tal guisa
non può più esser verificata l'esistenza del fatto, o se l'imputato è legalmente convinto solo col mezzo dei correi,
o pel concorso delle circostanze, la sua condanna non può estendesi ad oltre vent'anni di carcere». 108
F. de Zeiller [von Zeiller], Considerazioni preliminari sulla certezza del fatto, «Giurisprudenza teorico-pratica
secondo la legislazione austriaca», XXIV (1840), parte II, pp. 3-12: 10.
46
minor certezza morale contenga, ma sì bene perché si possono concepire maggiori possibilità di
snervarla, e che piena di filantropici principi la legge non permette che l’uomo perda il più prezioso
de’ beni, la vita, per quella specie di prova, in cui la semplice possibilità d’un errore, più facilmente
comprendesi109
.
Pur senza scomodare i «filantropici principi» evocati dal Mazzetti, è indubbio che la
disposizione in oggetto frequentemente garantisse l'imputato, limitando in modo significativo
la pronuncia di sentenze capitali110
.
La prova testimoniale era inoltre estremamente difficile da ottenere, e solo in pochissimi casi
la pena di morte poteva essere inflitta in virtù di essa. Questa fu, ad esempio, la sorte di un
giovane imputato bresciano, «soggetto temuto da chi lo conobbe e che perfino a taluno il solo
vederlo fece paura», reo tenacemente «negativo» – ossia non confesso – di due omicidi e
diverse rapine. Proferita dal Tribunale di Brescia la condanna capitale nell'agosto del 1837 –
proprio in virtù, appunto, di due testimonianze concordi – il Senato sconsigliò all'imperatore
di concedere una mitigazione di pena «a favore di un delinquente che spinto da insaziabile
sete di vendetta ripetute volte ebbe ad immergere il suo ferro micidiale nel sangue de’ suoi
prossimi privando di vita due infelici vittime del suo terribile odio, rendendosi così lo
spavento dell’umana società»111
. L'esecuzione della sentenza sarebbe stata, pertanto, appieno
giustificata dalla gravità del delitto e dall'irrecuperabilità sociale e morale del condannato; ma
non solo: «Lo estremo supplizio» – aggiungeva infatti il correlatore Antonio Salvotti –
«servirà quindi nel caso presente di utile esempio e verrà eziandio a persuadere il pubblico
che non basta negare arditamente, per sottrarsi al patibolo»112
. Il messaggio deterrente affidato
alla condanna capitale avrebbe quindi avuto anche lo scopo, ad un tempo “educativo” ed
intimidatorio, di dimostrare chiaramente l’infallibilità del sistema giudiziario.
Se la confessione continuava pertanto ad essere, nel processo penale austriaco, la regina
109
Correlazione 9 novembre 1819, ASMi, SLV, b. 44. 110
Così nota anche L. Garlati, Il volto umano della giustizia. Omicidio e uccisione nella giurisprudenza del
Tribunale di Brescia (1831-1851), Milano, Giuffrè, 2008, pp. 123-127. 111
Relazione 4 dicembre 1837, ASMi, SLV, b. 60, fasc. VI. 109-2. 112
Correlazione 4 dicembre 1837, Ibidem. L'estratto a stampa della sentenza (conservato tra la documentazione
del consigliere aulico Antonio Mazzetti in BCT, BCT47-9/3), pubblicamente diffuso, sottolinea, appunto, il
particolare della tipologia delle prove per mezzo delle quali l'imputato era stato condannato, così concludendo:
«Il dito di Dio e la spada della legge che tosto o tardi toccano e sperdono gli empi anche più scaltriti, posero fine
alle atrocità [del condannato], e colto agli arresti e convinto per prova testimoniale del [primo] Omicidio e per
concorso di circostanze dell'altro Omicidio […] e di varie rapine, ne rende oggi alla sua volta lo sconto per la
definitiva sentenza».
47
probationum di secolare memoria113
, configurandosi, nella maggior parte dei casi, condizione
necessaria per l'irrogazione della pena di morte, allo stesso tempo ne veniva riconosciuta la
valenza di causa attenuante, costituendo essa uno degli elementi normalmente annoverati tra
quelli a favore della proposta di mitigazione, anche per l’effetto positivo che la grazia di un
reo dichiaratosi colpevole avrebbe avuto sul pubblico, incoraggiando le infrequenti
confessioni114
. Era infatti opinione diffusa che i criminali italiani fossero particolarmente abili
ad eludere gli interrogatori, sottraendosi quindi troppo spesso alle condanne capitali115
: ciò
emerge con chiarezza in un lungo rapporto del 1833 sullo spirito pubblico in Lombardia,
redatto per Metternich dal conte Peregrin von Menz, agente diplomatico presso il Governo di
Milano, secondo cui il carattere degli italiani, incline alla finezza e quindi all'intrigo, avrebbe
permesso alla maggioranza dei colpevoli di «échappent à la vindicte de la Loi en
Lombardie»116
.
Più che di un paradosso, si tratta di uno scollamento poco risolvibile tra la norma e la concreta
prassi giudiziaria, ove della confessione – se immediata, completa, «spontanea e frutto di
reale e vero interno pentimento»117
– si percepiva il “naturale” valore mitigante: se ne
vedranno, nei prossimi capitoli, alcuni esempi concreti. Tale scollamento fu rilevato, ancora
una volta, dal consigliere Mazzetti; il quale, durante la discussione sulla possibilità di
suggerire la commutazione della pena di morte irrogata ad un omicida veronese, ebbe a
sottolineare, in un voto di minoranza contrario, come appunto «se si valuta la confessione per
far grazia, nessuno viene più condannato a morte, giacché per la morte è necessaria la
113
Si veda P. Marchetti, Testis contra se. L'imputato come fonte di prova nel processo penale dell'età moderna,
Milano, Giuffrè, 1994 e Chiodi, Il fascino discreto del libero convincimento, pp. 23-24. 114
Relazione 15 luglio 1842, ASMi, SLV, b. 66, fasc. VI.74.2. 115
Di tale opinione rende conto anche Hieronymus von Scari, nel suo Osservazioni contro due accuse,
apparentemente, contraddittorie, che pur sogliono del continuo farsi contro la teoria e la pratica della
legislazione penale austriaca, «Giornale di giurisprudenza austriaca», VI (1844), pp. 266-322: 267-268. La
versione originale dell’articolo fu pubblicata nella «Zeitschrift für österreichische Rechtsgelehrsamkeit und
politische Gesetzkunde», 1843, 1, pp. 133-168 e 197-325 con il titolo: Einige Bemerkungen über zwei einander
widersprechend scheinende und doch nicht selten vorkommende Klagen über unsere Strafgesetzgebung und
Strafgerichtspflege. 116
Continuava Menz : «Le Code criminel autrichien, basé sur le caractère Allemand, est sous le rapport de son
application dans les provinces italiennes d'une efficacité très équivoque, car d'après la disposition, qui exige
l'aveu du Criminel pour sa condamnation capitale, il est impossible de fournir la preuve du crime contre des
prévenus, qui savent éluder par leur astuce toutes les questions embarrassantes, que le juge instructeur peut leur
adresser. D'après l'avis des hommes de loi les plus éclairés, ledit Code aurait besoin de quelques modifications à
l'égard des Tribunaux Criminels de cette partie de la Monarchie». Sur l'Esprit public en Lombardie et sur les
moyens de l'améliorer (Milano, 25 agosto 1833), OeStA, HHStA, SK, Pr, LV, K. 17, fasc. “Korrspondenz mit
Rit. Von Menz diplom. Agenten beim Goubernium zu Mailand”, c. 616. Il rapporto è pure edito, con diverse
imprecisioni, in F. A. Gualterio, Gli ultimi rivolgimenti italiani. Memorie storiche, Napoli, Angelo Mirelli, 1861
(terza ed.), pp. 225-261. 117
Correlazione 24 luglio 1829, ASMi, SLV, b.53, 1829, fasc. VI. 84-2.
48
confessione»118
.
Chiusa l'inquisizione, il consesso di prima istanza pronunciava la sentenza, votata
collegialmente a maggioranza, sulle risultanze presentate dal giudice relatore nel suo
“referato”119
.
Un numero relativamente ampio di sentenze, in virtù della gravità del delitto120
, dell’entità
della pena121
, o della qualità della prova (ossia, nel caso in cui questa fosse stata raggiunta
attraverso il concorso delle circostanze senza il sicuro puntello della confessione
dell'imputato)122
, doveva essere sottoposto al giudizio dell'appello, «da die Richterstühle»,
osservava Sebastian Jenull, «mit Menschen besetzet sind, und bey der vorsichtigsten Wahl
sich darunter auch solche befinden können, die aus Fehlern des Verstandes oder Herzens ihre
Gewalt mißbrauchen»123
; specularmente al tribunale provinciale, un giudice relatore si faceva
carico di studiare il processo e di esporne un riassunto con il proprio parere agli altri
consiglieri, i quali a loro volta votavano un conchiuso (ossia una deliberazione) per la
conferma o la modifica della sentenza di primo grado. È opportuno tuttavia sottolineare che il
parere dell'appello, come anche quello di terza istanza, si basava sugli atti assunti (e
interpretati) dal giudice relatore di prima istanza, che solo si occupava della fase inquisitoria
del processo penale; egli, impostando la causa, assumendo le prove e dandone una prima
determinante lettura, andava così a ricoprire un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’intero
processo124
.
I casi più gravi, o l'eccessiva difformità delle sentenze inferiori, imponevano la revisione della
terza istanza (§§442-444). Nello specifico, automaticamente sottoposti al vaglio del Supremo
118
Sessione 23 gennaio 1823, ASMi, SLV, b. 93, cc. 147-152: si tratta del protocollo di consiglio relativo al
processo in ASMi, SLV, b. 45, fasc. VI. 11-2. 119
Il referato, ossia la relazione che il giudice relatore esponeva al consesso giudicante, veniva redatto in base
alle disposizioni delle Istruzioni per l'interna procedura delli Tribunali Criminali, diramate nel Regno
Lombardo-Veneto con circolare 6 aprile 1818 (CLV 1818, Parte I, pp. 367-438: 388-389). 120
Precisamente, le sentenze che, a prescindere dall’entità della pena, dovevano essere sottoposti al giudizio
dell’appello, erano quelle relative ai delitti di alto tradimento, sollevazione, ribellione, pubblica violenza, abuso
della podestà d’ufficio, falsificazione di carte di pubblico credito, perturbazione della religione, omicidio,
uccisione, duello, appiccato incendio, rapina, aiuto prestato ai delinquenti (§433) e i più gravi tipi di truffa
(§434). 121
Nella competenza dell’appello rientravano infatti anche le sentenze portanti pene superiori ai cinque anni di
carcere, o inasprite dall’esposizione alla berlina, dal bando, dai colpi di bastone o verghe, a prescindere quindi
dalla fattispecie del reato (§435, b, c, d). 122
§435, a. 123
Jenull, Das Österreichische Criminal-Recht, Bd. 4, p. 245. 124
Questo è anche il giudizio di C. Povolo, La selva incantata. Delitti, prove, indizi nel Veneto dell’Ottocento,
Verona, Cierre, 2006, pp. 25-27, e di M. D'Addio, Politica e magistratura (1848-1876), Milano, Giuffrè, 1966,
pp. 107-108.
49
tribunale di giustizia erano da una parte i processi intentati contro i rei di alcune tipologie di
delitto considerate politicamente delicate, a prescindere dalla pena comminata: l'alto
tradimento, l'abuso della podestà d’ufficio, la falsificazione delle carte di pubblico credito
(§442 Cp.). Lo stesso avveniva quando le istanze inferiori irrogavano una condanna capitale o
di carcere a vita, o se la pena detentiva sanzionata dell’appello eccedeva di oltre cinque anni
quella stabilita del tribunale criminale, o qualora, a fronte della sospensione del processo in
prima istanza, l'appello avesse pronunciato una condanna; quando infine l’appello reputava
meritevole il condannato di una mitigazione che travalicava le proprie competenze (§443
Cp.).
Nei casi in cui l’esito del procedimento era l’inflizione della pena capitale, il §444 Cp.
prevedeva che la terza istanza giudiziaria, prima della pubblicazione della sentenza,
rassegnasse ex officio, senza necessario ricorso del condannato, gli atti del processo
all’imperatore, «che solo ha il diritto di far grazia». In questo senso il sovrano legislatore –
osservava il consigliere dell'appello veneziano Antonio Albertini – oltre a comminare la pena
capitale per un numero ridotto di delitti e concepire un sistema probatorio che ne limitasse
l'esercizio, avrebbe ulteriormente garantito l'imputato proprio grazie all'automatismo del
controllo gerarchico: egli,
né ancora tranquillo sulla mancanza minacciata alla società nella perdita irreparabile d'uno dei suoi
membri, sottopone le condanne che infliggono l'ultimo supplizio allo scrutinio delle superiori e
supreme Corti di giustizia, ed allorché tutte queste non hanno trovato motivo di esentarne lo scellerato
riconosciuto, proibisce che l'ultimo supplizio venga eseguito senza sua cognizione, e senza ch'egli
abbia espressamente rinunziato alla più eminente attribuzione del potere supremo, quella di ridonare al
colpevole, mediante la grazia, una vita di cui il diritto pubblico e le commesse malvagità lo aveano
giustamente privato125
.
La documentazione inviata a Vienna doveva essere accompagnata dalla relazione compilata
dal consigliere relatore al quale, in terza istanza, si affiancava anche un correlatore (che
redigeva quindi una correlazione); essi avevano il compito di riepilogare agli altri consiglieri
aulici la vicenda criminale, l’inquisizione e le sentenze delle istanze inferiori, nonché di
esporre il loro parere motivato sull’eventuale proposta di grazia, votato poi dall’intero
125
A. Albertini, Del diritto penale vigente nelle provincie lombardo-venete, Venezia, Milesi-Antonelli, 1824, pp.
11-12.
50
consesso126
.
L'analisi di questi documenti, oltre che dei fascicoli processuali di prima istanza, ha rivelato
una prassi diffusa ma non normata dal codice penale: sovente già il tribunale criminale e
ancor più spesso il tribunale d’appello esponevano, accanto alla sentenza capitale, il loro
parere in merito all’opportunità della grazia. Questi pareri, per così dire, non richiesti,
potevano essere accolti o rifiutati, ma di essi il Senato doveva comunque esplicitamente tener
conto, riportandoli nelle relazioni; talvolta con la scrupolosa indicazione del numero di votanti
che, in prima e in seconda istanza, si erano pronunciati a favore della commutazione della
pena di morte.
Le relazioni e le correlazioni sono normalmente organizzate in due parti. Ad una narrazione
cronologicamente strutturata del fatto criminoso, delle indagini e dei giudizi di primo e
secondo grado – più diffusa nelle relazioni e più stringata nelle correlazioni, onde evitare
eccessive ridondanze – segue il parere del relatore e del correlatore, contenente
l'identificazione del reato, la pena proposta, il vaglio e la discussione degli eventuali motivi di
grazia. Anche quando la maggioranza dei senatori propendeva per la conferma della
condanna, le relazioni contengono comunque gli eventuali motivi di mitigazione, pur
all'interno di una valutazione compressiva sfavorevole all’imputato. Tale meccanismo viene
esplicitato, ad esempio, dal consigliere Vincenzo Schrott in una relazione su un omicida
condannato a morte e infine effettivamente giustiziato:
se questo fedelissimo Senato in caso sì grave, dove di vita di un uomo si tratta, si permise di
raccogliere, e rappresentare tutti i riflessi, che sembrano favorire l’inquisito, e che quindi pure
sembrare potrebbero essere qualificati a commuovere il cuore paterno di Vostra Maestà, onde
condonargli la pena capitale, non può dall’altro canto dispensarsi dallo spiegare il proprio parere,
essere più apparente che vera la forza di quei riflessi, ed essere li medesimi più che bilanciati da
contrarie, ed aggravanti circostanze127
.
126
Vale la pena di specificare un dettaglio che sottolinea ancor più l'importanza delle relazioni e delle
correlazioni senatorie. Gli atti che si sarebbero dovuti inoltrare all'imperatore nel caso di condanne capitali, ai
quali il §444 del codice appunto allude, non sono, evidentemente, quelli processuali – ossia il fascicolo
inquisizionale – e d'altronde ciò sarebbe poco verosimile. Come si evince dalla relazione su un processo per
omicidio giudicato dal Tribunale di Como nel 1837, la quale eccezionalmente specifica questo dato normalmente
taciuto, all'imperatore venivano inviati, con la relazione, gli estratti dei protocolli di consiglio del Senato, il voto
del correlatore, nonché le sentenze e gli estratti dei protocolli di consiglio di prima e seconda istanza. Relazione
12 ottobre 1837, ASMi, SLV, b. 60, fasc. VI. 96-2. 127
Relazione 15 luglio 1836, ASMi, SLV, b. 59, fasc. VI. 80-2.
51
Questi documenti si collocano in una precisa posizione all'interno del canale di
comunicazione che dalla società lombardo-veneta – attraverso la mediazione dei tribunali
inferiori, primi interpreti di essa – arrivava all'imperatore. Abbiamo già accennato al fatto che,
sebbene l’attività di un'eventuale istanza intermedia tra dicasteri aulici e sovrano non abbia
lasciato testimonianze nella documentazione archivistica, essa doveva necessariamente
ricoprire un ruolo fondamentale. Il Gabinetto intimo dell’imperatore riceveva mensilmente i
protocolli di consiglio del Senato Lombardo-Veneto e dei Senati viennesi, il che consentiva a
Francesco I di controllare nel modo più diretto l’amministrazione della giustizia128
. Si
ricordano inoltre, come importanti organi consultivi, lo Staatsrat (Consiglio di Stato, fondato
da Maria Teresa nel 1760) e la Staatskonferenz (Conferenza di Stato, istituita da Francesco I
nel 1814); soprattutto quest’ultima, durante il regno di Ferdinando I, assunse un determinante
ruolo decisionale, data la parziale infermità mentale dell’imperatore129
.
Non va inoltre dimenticato il doppio livello discorsivo o, più precisamente, la duplice
destinazione delle relazioni e delle correlazioni, con la quale i relatori ed i correlatori si
dovevano misurare; esse erano dirette da una parte ai consiglieri del Senato i quali, oralmente,
andavano informati, messi nella condizione di esprimere il proprio voto, eventualmente
convinti; dall'altra all'imperatore, che sull'operato del Senato Lombardo-Veneto esercitava,
appunto attraverso la documentazione che lo stesso tribunale gli trasmetteva, il supremo
controllo giuridico e formale130
.
La marcata prolissità di questi testi, per contro, non di rado sfociava in una cura per i dettagli
128
Grandi, Processi politici, pp. 316-317; sul punto cfr. anche Walter, Die österreichische Zentralverwaltung, II
Abteilung, 1. Bd., 2. Halbbd., Teil 2, soprattutto pp. 49-50, e Id., Österreichische Verfassungs- und
Verwaltungsgeschichte, pp. 126 e segg. 129
E. C. Hellbling, Österreichische Verfassung- und Verwaltungsgeschichte, Wien, Springer Verlag, 1956, pp.
328-330; G. Pansini, Le fonti degli archivi viennesi per la storia amministrativa dei territori italiani dipendenti
dall’Austria dal secolo XVI al secolo XX, «Annali della Fondazione italiana per la storia amministrativa», II
(1965), 2, pp. 553-597: 471-572; W. Brauneder, F. Lachmayer, Österreichische Verfassungsgeschichte, Wien,
Manzsche Verlags- und Universitätsbuchhandlung, 1983, p. 92; Meriggi, Il Regno Lombardo-Veneto, p. 97.
Diffuse informazioni su Staatsrat e Staatskonferenz in Walter, Die österreichische Zentralverwaltung, II
Abteilung,1. Bd., 2. Halbbd., Teil 2, pp. 51-202, come anche nel più risalente C. von Hock, H. I. Bidermann, Der
österreichische Staatsrath (1760-1848), Wien, Wilhelm Braumüller, 1879 (specialmente, per il periodo di nostro
interesse, pp. 664-692). Sulla fondazione dello Staatsrat, più sinteticamente, si veda anche K. Vocelka,
Österreichische Geschichte 1699-1815. Glanz und Untergang der höfischen Welt. Repräsentation, Reform und
Reaktion im habsburgischen Vielvölkerstaat, Wien, Ueberreuter, 2001, p. 360. 130
La considerazione è anche di Giovanni Pellizzari, che ad un doppio livello di decodifica si riferisce parlando
dei referati di prima istanza: quello del consesso giudicante al quale il relatore leggeva il proprio referato, e
quello del controllo logico-formale esercitato dall'appello. Cfr. G. Pellizzari, Clandestini in Parnaso. Narrativa e
retorica giudiziaria in un tribunale del Lombardo-Veneto, in Amministrazione della giustizia penale, pp. 291-
377: 299.
52
e per le “eccedenze” narrative131
a prima vista processualmente inutili (pur storicamente
spesso interessanti, non solo sul piano delle modalità comunicative o, se si vuole, del gusto
retorico-narrativo dei consiglieri; soprattutto, esse consentono di intravedere, filtrato, quel
contesto sociale entro il quale si iscrive l'esercizio della grazia e la sua opportunità politica);
una caratteristica che ebbe a notare lo stesso Francesco I il quale, nell'aprile 1817, trovò
necessario redarguire su questo punto i tribunali per mezzo di una sovrana risoluzione firmata
di suo pugno. Essi, «messa da parte ogni ripetizione ed ostentazione rettorica», avrebbero
dovuto «aversi in mira di approfondare la materia colla maggior possibile brevità per non
empire di boria inutilmente i protocolli e rendere più sollecita e sicura la deliberazione»132
.
Sulla base delle relazioni e delle correlazioni l'imperatore, sorta di quarta istanza
giudiziaria133
, stabiliva se commutare o meno la pena di morte inflitta. Il fatto che, come ha
dimostrato l'analisi delle fonti giudiziarie, nella quasi totalità dei casi la sovrana risoluzione
andasse nella direzione del voto espresso dal Senato, prova la centralità, all'interno del
processo di concessione della grazia, del Supremo tribunale veronese, della sua
interpretazione non solo giuridica, ma anche sociale e politica dei fatti criminali in ambito
lombardo-veneto, nonché del suo ruolo in un certo senso mediatore tra istanze inferiori e
imperatore.
Se i giudici, «servi della legge» – come significativamente osservava il consigliere aulico
Filippo Maffei134
– erano necessariamente tenuti ad irrogare la pena capitale in tutti i casi per
cui essa veniva comminata dal codice, allo stesso tempo disponevano di un indiretto ma
importante spazio di autonomia nell'effettiva inflizione della stessa, che si esercitava, appunto,
attraverso la proposta di grazia135
.
Le osservazioni di Monica Stronati sulle competenze dei giudici in materia di grazia nel
131
Cfr. ancora Ibidem, pp. 321-322. 132
Sessione 4 maggio 1817, ASMi, SLV, b. 79, c. 1210. Il rimprovero dell'imperatore venne poi formalizzato
attraverso un decreto del Senato Lombardo-Veneto diramato alle prime istanze del Regno, con il quale si
richiedeva maggiore snellezza e sinteticità da parte dei giudici relatori nella stesura di referati e correferati (cfr.
circolare dell'appello lombardo 23 maggio 1817, AG 1817, vol. I, Parte II, pp. 200-201; circolare dell'appello
veneto 29 maggio 1817, CLV 1817, Parte I, pp. 293-294). 133
Così Raponi, Il Regno Lombardo-Veneto, p. 109. Secondo Zagrebelsky, Grazia, p. 767, la concessione della
grazia si configura, in generale, come un quarto grado del processo penale, pur condotto da autorità non
giurisdizionali. 134
Relazione 25 settembre 1821, ASMi, SLV, b. 45, VI. 145-2. 135
A questo proposito è interessante riprendere il sopra citato rapporto di polizia del 1826 sulla corrispondenza
dei senatori lombardo-veneti; in esso viene riassunta proprio una lettera del consigliere Maffei che, informando
illecitamente un suo corrispondente sull’esito favorevole di una causa che lo riguardava discussa in Senato, gli
assicurava che l’imperatore avrebbe confermato il voto di terza istanza «giacché sarebbe novissimo, che il
Sovrano infirmasse il giudizio del Senato, massime quando fu fatto a voti unanimi». OeStA, HHStA, KA, VA,
K. 50, fasc. “fol. 1-99”, c. 49.
53
Regno delle due Sicilie sono quindi applicabili anche ai nostri consiglieri del Senato: «espulsi
dall'esercizio della grazia, almeno formalmente, nella pratica mantenevano un ruolo
fondamentale». Similmente a quanto stabilito dal codice franceschino, infatti, anche
l'ordinamento per il Regno delle due Sicilie, introdotto dal 1809, segnò un cambiamento
importante rispetto alla disciplina precedentemente adottata, togliendo ai giudici la facoltà di
graziare e attribuendola al solo sovrano. Tuttavia, la possibilità di intervento dei magistrati,
uscita dalla porta, rientrava, come si suol dire, dalla finestra; erano essi che, secondo il codice
di procedura penale del 1819, avevano il compito di raccomandare segretamente ed ex officio
i condannati alla grazia sovrana136
.
L'iter sopra esposto rimase invariabilmente in vigore fino ai primi mesi del 1848, quando
l'ondata insurrezionale e le istanze di riforma del codice penale, che sul piano del diritto
sostanziale si declinavano anche nel senso di una possibile abolizione della pena di morte,
imposero una correzione temporanea delle sentenze capitali inflitte dai tribunali, attraverso un
uso sistematico e generalizzato della grazia sovrana – non più mediato, pertanto, dal Senato
Lombardo-Veneto.
Proprio a cavaliere tra le cesure politiche che imposero una modifica nell'uso della grazia e
nella prassi procedurale della sua concessione, si colloca un processo che illustra bene il
quadro istituzionale e giudiziario di riferimento, e che riportiamo brevemente per chiarire
anche l'estremo limite cronologico entro cui si iscrive il nostro lavoro.
Nel dicembre del 1847 il tribunale di Cremona irrogò a voti unanimi una condanna capitale
contro un omicida. La sentenza venne approvata dall'appello lombardo il successivo gennaio;
con l'eccezione di un unico consigliere – che sembra accogliere, solitario, le contemporanee
proposte abolizioniste per le quali «già in vari Stati d'Europa s'innalzano molti voti»137
– la
maggioranza dei votanti escluse qualsiasi raccomandazione dell'inquisito alla grazia sovrana;
e così pure il Senato Lombardo-Veneto.
La sr. 21 marzo 1848138
, con la quale l'imperatore confermava la condanna, pervenne tuttavia
al Senato il primo aprile, quando Cremona era già in subbuglio «per i rivolgimenti politici al
dominio del suo legittimo sovrano». Gli atti del processo vennero pertanto archiviati in attesa
136
M. Stronati, Legislazione, scienza giuridica e pratica del ‘perdono’ tra Otto e Novecento: continuità e
mutamenti, in Grazia e giustizia, pp. 101-124: 113-115. 137
Correlazione 16 febbraio 1848, ASMi, SLV, b. 74, fasc. 1848, VI. 37-5. 138
Apposta alla relazione 16 febbraio 1848, ASMi, SLV, b. 74, 1848, fasc. VI. 37-5.
54
di nuove disposizioni, che da lì a poco furono trasmesse attraverso una comunicazione del
neonato Ministero della giustizia, pubblicata nella «Wiener Zeitung» del 2 giugno 1848 –
quindi resa volutamente nota alla popolazione – volta a chiarire il principio che avrebbe
dovuto orientare i tribunali in via temporanea, vale a dire la sospensione delle esecuzioni
capitali «bis die constitutionelle gesetzgebende Gewalt über Beibehaltung oder Abstellung der
Todesstrafe entschieden haben wird»139
. Le condanne a morte sarebbero state corrette
attraverso l'uso sistematico della grazia in attesa di formali riforme (che pur non ebbero luogo:
il successivo codice penale del 1852 conservava infatti la pena capitale).
Dopo la rioccupazione della città di Cremona da parte delle truppe imperiali, il Senato stabilì
di commutare la pena di morte rimasta in sospeso in venti anni di carcere duro; non solo per il
principio sopra esposto, ma anche alla luce di una valutazione più apertamente politica: «tutta
la convenienza richiede che non fosse eseguito l'atto di ultimo supplizio su il detto malfattore,
per quanto atroce fu il delitto da lui commesso, perché non sarebbe conforme ai principi di
clemenza e di mitezza del governo austriaco il dar principio alla rioccupazione delle insorte
provincie con un tale atto di estremo rigore»140
. Un'affermazione che – sia detto di sfuggita –,
contenuta in una relazione portante la data del 5 agosto 1848, non può che sorprendere:
proprio il giorno successivo sarebbe stato attivato, nel Regno Lombardo-Veneto, lo stato
d'assedio.
L'apparente incoerenza – probabilmente derivata da una sorta di incomunicabilità tra autorità
giudiziarie ed autorità militari – dell’amministrazione della giustizia lombardo-veneta in quel
torno di tempo e il suo mostrarsi, retrospettivamente, in un certo senso avulsa dal più generale
contesto politico e scollata dal contemporaneo utilizzo di procedure processuali eccezionali
(per le quali si rimanda più diffusamente agli ultimi due capitoli di questo lavoro), sono ancor
più evidenti nei processi conclusi nei mesi successivi. Adottando la prassi sopra descritta, ad
esempio, nel dicembre del 1848 il Senato Lombardo-Veneto rassegnava al Ministero della
giustizia, quale nuovo filtro mediatore, gli atti e la sentenza capitale di un processo milanese,
unitamente alla proposta di una pena temporanea nella quale commutare la condanna a morte.
La sovrana risoluzione che, in base al rapporto del ministro, condonava la pena capitale, data
29 marzo 1849141
; del 10 marzo precedente è il proclama del Feldmaresciallo Radetzky, sul
139
«Oesterreichisch- kaiserlich- privilegirte Wiener Zeitung», 2 giugno 1848, N. 143. 140
Rapporto al ministro della giustizia 5 agosto 1848. La pena proposta dal Senato venne confermata
dall'imperatore con sr. 30 agosto 1848 e comunicata al Senato Lombardo-Veneto dal ministro della giustizia con
rapporto 14 settembre 1848. Entrambi in ASMi, SLV, b. 74, 1848, fasc. VI. 37-5. 141
Sentenza 13 aprile 1849, ASMi, SLV, b. 74, fasc. VI. 107-2.
55
quale si tornerà più avanti, notificante la lunga serie di delitti che, in virtù dello stato
d’assedio, sarebbero rientrati nella sfera di competenza delle leggi marziali e quindi puniti con
la morte.
4. Pubblicazione della condanna ed esecuzione della pena: un caso vicentino
Torniamo alla procedura prequarantottesca: l'imperatore poteva quindi avallare la sentenza
capitale, ordinando al Senato di «esercitare il suo Uffizio contro l'Inquisito» – così era
normalmente formulata la sovrana risoluzione di conferma delle sentenze capitali – oppure
graziare la condanna.
La pena commutata – o la condanna a morte non graziata – venivano comunicate, assieme al
ritorno degli atti, all'appello di riferimento, il quale trasmetteva il fascicolo con la sentenza al
tribunale di prima istanza che aveva istruito il processo; in questo modo il procedimento
ripercorreva, in senso discendente, l'intera piramide giudiziaria142
.
Nei casi di conferma della pena capitale, il tribunale criminale si occupava delle incombenze
preparatorie all'esecuzione della sentenza; la fasi, i tempi e i modi di essa verranno ora chiariti
seguendo le tracce di un processo vicentino, del quale è stato possibile risalire all'intero iter
giudiziario.
Nell'ottobre del 1832 un ricco e malato anziano di Montecchio Maggiore, in provincia di
Vicenza, venne ucciso da un uomo che lavorava presso di lui, a favore del quale la vittima
aveva dato disposizioni testamentarie nominandolo erede universale. La minaccia di mutare il
testamento, in seguito a screzi intercorsi tra i due, era stato il movente dell'omicidio. Il
Tribunale di Vicenza e l'appello veneto, con sentenze 22 febbraio e 18 aprile 1833,
condannarono quindi l'inquisito alla pena di morte per il delitto di omicidio e rapina;
sconsigliando all'imperatore, come poi fece il Senato, di concedere la grazia «non trovando
circostanza» – così il correlatore Maffei – «la quale voglia indebolire l’orrore che ispira un
delitto così qualificato, eseguito con nera perfidia e con inaudita ingratitudine»143
.
La sr. 6 agosto confermò quindi la condanna, che venne successivamente comunicata al
Tribunale d'appello veneto e quindi trasmessa al Tribunale di Vicenza. Quest'ultimo, qualche
giorno prima dell'esecuzione, mobilitò le persone e le istituzioni proposte ad essa144
: il
142
Il ritorno degli atti al tribunale di prima istanza si deduce dai documenti d'archivio. I fascicoli processuali del
fondo del Tribunale criminale di Vicenza, ad esempio, contengono appunto tutti gli atti inquisitori e la sentenza
trasmessa dal Tribunale d'appello veneto. 143
Correlazione 26 giugno 1833, ASMi, SLV, b. 56, fasc. VI. 82-2. 144
Pzz. da CXL a CXLV e da CXLVII a CXLVIII, 2 settembre 1833, ASVi, TCA, b. 98, fasc. 4219, Vol. 2.
56
commissario superiore di polizia, la Delegazione provinciale e il comando militare di Vicenza,
affinché predisponessero rispettivamente le guardie militari di polizia, di pubblica sicurezza e
la truppa145
, «all'effetto di prevenire qualunque disordine, o tumulto popolare»146
e
scongiurare quindi temutissimi inconvenienti; i commissari deputati alla redazione di un
rapporto sull'esecuzione147
; l'economo carcerario, incaricato di provvedere a quanto
necessario per il trattamento del boia e dei sacerdoti chiamati ad assistere il condannato; la
congregazione municipale di Vicenza, che avrebbe dovuto ordinare ai becchini di seppellire il
cadavere del giustiziato, facendo scavare la fossa vicino al patibolo; il curato carcerario, il
medico e il chirurgo delle carceri, ai quali si chiedeva di recarsi il giorno stesso presso il
tribunale, dove dopo qualche ora sarebbe stata pubblicata all'imputato la sentenza capitale,
«onde prestarsi, occorrendo, a quei soccorsi che potessero essere necessari nel momento di
tale pubblicazione»148
.
La notificazione di una sentenza portante pena capitale era normata dal §450 Cp.: essa veniva
letta dapprima all'inquisito presso la sede del tribunale, quindi pubblicamente149
; a questo fine
il condannato era condotto, in catene, su un palco eretto nella piazza antistante il tribunale,
145
Le spese di alloggio e tutte le altre occorrenti per l'assistenza militare nelle esecuzioni delle sentenze capitali
di individui dello stato civile erano sostenute dall'Erario militare, come stabilito dal Consiglio aulico di guerra,
dalla Camera aulica generale e dalla Cancelleria aulica riunita (alla quale erano state trasferite le mansioni di
ordinamento delle nuove province dapprima affidate, come abbiamo detto sopra, alla Commissione aulica di
organizzazione centrale: Grandi, Processi politici, p. VIII). Cfr. Dispaccio della Cancelleria aulica 27 marzo
1840 n. 7580/453 al Governo lombardo, ASMi, AdG, GP (pm), b. 42, fasc. 2. 146
Istruzioni per l'interna procedura delli Tribunali Criminali, diramate nel Regno Lombardo-Veneto con
circolare 6 aprile 1818, §132 (CLV 1818, Parte I, pp. 367-438: 428). 147
Secondo il decreto del Senato Lombardo-Veneto 25 luglio 1827 ad ogni esecuzione doveva infatti assistere
una Commissione del tribunale inquirente formata da due impiegati; essa era incaricata di verificare che tutto
procedesse secondo sentenza e di stenderne quindi un rapporto, allegato successivamente agli atti del processo
(CLV 1827, Parte II, sez. II, pp. 195-196; tale disposizione venne diramata, in Lombardia, con circolare
manoscritta 1 agosto 1827, segnalata in Estratto Milano 1827). Il decreto era stato elaborato dal Senato, sentito il
parere della Commissione aulica di legislazione in affari giudiziari, in seguito ad alcuni ritardi che avevano
viziato l'esecuzione di due condannati nella città di Padova nel 1825 (ASMI, SLV, b. 50, fasc. VI. 202-2). Gli
appelli avevano pertanto chiesto ai tribunali di prima istanza di relazionare sulle modalità fino ad allora praticate
durante le esecuzioni capitali, e ne erano emerse frequenti irregolarità. Cfr. estratto di protocollo della sessione 6
febbraio 1827, OeStA, AVA, OJ, LVS, K. 22, fasc. 20. 148
La ricerca nel lacunosissimo fondo archivistico del Tribunale di Rovigo ha permesso di rintracciare almeno
un caso di condanna capitale effettivamente eseguita nel capoluogo polesano contro un uomo accusato di
omicidio a scopo di rapina, commesso nel luglio 1843. Anche in qual caso, una volta avuta notizia della sr. di
conferma della condanna, il Tribunale di Rovigo si occupò di informare e allertare la Delegazione provinciale,
l’economo carcerario, la curia vescovile per la designazione di un sacerdote, il medico e il chirurgo delle carceri,
oltre a nominare la commissione che avrebbe dovuto assistere all’esecuzione. Sessione 7 giugno 1844, ASRo,
TCC, PCC, 1844; si veda anche il relativo carteggio presidenziale in ASRo, TCC, PT, b. 18. Il fascicolo di terza
istanza si trova in ASMi, SLV, b. 68, fasc. VI. 142-2. 149
La lettura pubblica della sentenza era in generale imposta per le sentenze portanti una pena maggiore di 5
anni di carcere, come normato dal §451; il quale venne tuttavia abrogato con notificazione 3 aprile 1845 (RAG
1845, Vol. I, Parte I, p. 20). Sul punto si veda la relativa documentazione del Governo lombardo in ASMi, AdG,
GP (pm), b. 40, fasc. 4e.
57
ove il cancelliere dava lettura di un estratto degli atti del processo, annunciando che la
sentenza sarebbe stata eseguita dopo tre giorni150
.
Il Tribunale di Vicenza predispose infine la stampa di un «conveniente numero di esemplari151
dell'estratto pubblicato or ora al condannato […] per diramarlo nel dì dell'esecuzione», come
stabilito dallo stesso §450; cento stampe vennero inviate alla delegazione provinciale affinché
fossero trasmesse ai commissari distrettuali da essa dipendenti152
.
L'estratto del processo – ossia un riepilogo più o meno esteso della vicenda criminale,
dell'inquisizione e delle sentenze – rappresentava la modalità attraverso la quale le autorità
giudiziarie pubblicamente comunicavano e, in ultima analisi, giustificavano la sentenza. Esso
veniva diffuso tra i presenti sottoforma di breve fascicolo153
o di foglio volante154
, stampato su
manifesti155
ed inserito nelle gazzette ufficiali del Regno: importante strumento di
comunicazione, queste ultime, per una trattazione più diffusa delle quali si rimanda al quarto
capitolo, proprio per il ruolo particolare che esse assunsero, come veicoli di trasmissione di
notizie al pubblico lombardo-veneto, nell’ambito della giustizia penale politica.
È a tal proposito significativo osservare che l’estratto veniva redatto dal giudice relatore di
prima istanza156
; a conclusione della fase segreta, inquisitoria, “opaca”157
del processo penale,
150
Nel corso di questi tre giorni il condannato poteva essere visitato dai congiunti e dalle persone che egli avesse
voluto vedere, salvo il caso in cui il tribunale di prima istanza lo avesse ritenuto inopportuno o pericoloso; cfr. la
circolare manoscritta del Tribunale d'appello di Milano alle prime istanze lombarde 5 ottobre 1837, portante la sr.
26 agosto 1837 (un esemplare in BCT, BCT47-10, fasc. 1837). 151
Questo numero si doveva aggirare attorno alle 800 copie: tante sono infatti quelle dell'estratto preparate per
un'esecuzione milanese (che tuttavia mai ebbe luogo) di cui si parlerà tra breve. 152
Pz. CLI, 5 settembre 1833, ASVi, TCA, b. 98, fasc. 4219, Vol. 2. 153
Di tali fascicoli, evidentemente destinati alla circolazione tra il pubblico accorso ad assistere all'esecuzione, si
è rinvenuto un solo esemplare, relativo ad un caso di omicidio giudicato in prima istanza dal Tribunale di Treviso
nel 1822, conservato in ASMi, SLV, b. 46, fasc. VI. 63-2. 154
Un paio di esempi in BCT, BCT47-5, 1833 (estratto relativo al processo in ASMi, SLV, b. 65) e nel sopra
menzionato BCT, BCT47-9/3, 1838. Inoltre il fascicolo del processo per omicidio in ASMi, SLV, b. 58 (1835),
contiene una «Relazione del delitto e della condanna» a stampa. 155
Anche i manifesti delle sentenze sono di difficile reperibilità; l'archiviazione di una copia di essi tra gli atti del
processo non era evidentemente una prassi frequente. I pochissimi esempi si trovano in ASMi, SLV, b. 56, fasc.
VI. 162-3, 1834, e nel qui citato ASVi, TCA, b. 98, fasc. 4219, Vol. 2. 156
Che l'autore di tale estratto fosse il giudice relatore si ricava da alcuni sporadici atti occasionalmente
conservati nei fascicoli di prima istanza. Si veda, ad esempio, il processo istruito dal Tribunale di Vicenza in
ASVi, TCA, b. 90, fasc. 1065/155, 1832, che contiene la minuta dell'estratto sottoscritta, appunto, dal relatore (il
corrispondente fascicolo di terza istanza si trova in ASMi, SLV, b. 56, fasc. VI. 49-2). Un estratto manoscritto
firmato dal giudice inquirente e destinato alla stampa, è contenuto anche nel fascicolo di un processo veronese
(ASVr, CCC, b. 61, fasc. 104, p. LI, 1823), la cui documentazione di terza istanza è in ASMi, SLV, b. 48, fasc.
VI. 48-2. Il confronto tra queste minute e la versione a stampa degli estratti rivela tuttavia svariate modifiche e
correzioni, l'autore delle quali non è possibile identificare con chiarezza; forse – ma è solo un'ipotesi suggerita
per analogia con il processo di redazione, correzione e pubblicazione degli estratti sui procedimenti giudiziari
per delitto di alto tradimento, come vedremo nel quarto capitolo – il correttore era un consigliere di seconda o
58
lo stesso inquirente si assumeva quindi l'onere della restituzione pubblica del proprio lavoro.
I commissari incaricati riportavano al tribunale criminale lo svolgimento dell'esecuzione,
rilevandone anche i più minuti incidenti; il momento era infatti molto delicato – come per
altro dimostra, lo vedremo subito, il caso vicentino preso ad esempio – e poteva
pericolosamente scivolare nel disordine, sovvertendo il suo stesso senso di messa in scena
pubblica della giustizia158
.
Una volta scortato il condannato dalle guardie e dai sacerdoti presso il Campo Marzio, fuori
dalle mura della città di Vicenza (come stabilito da diverse risoluzioni ed ordinanze159
) nel
consueto luogo dell'esecuzione,
siccome vi fu un momentaneo ritardo, che certo non giunse ai cinque minuti, così di subito si levò da
lontano un mormorio, che crescendo sensibilmente e sensibilmente avvicinandosi al circolo, tutto
interamente guardato dalla Truppa di Guarnigione, colla semplice evoluzione ordinata da chi
comandava la Truppa, lo si vide tosto cessato.
La responsabilità dell'inconveniente, secondo i commissari, non era da ascriversi tanto
terza istanza. 157
Riprendo qui la metafora di Baronti, La morte in piazza. 158
Tale problematicità avrebbe messo in discussione l'opportunità stessa della pubblicità assoluta delle
esecuzioni capitali, che sarebbe stata tuttavia confermata anche dal successivo codice penale del 1852. Nel suo
commentario a quest'ultimo codice, il consigliere del Ministero della giustizia Anton Hye sollevò infatti la
questione schierandosi a favore della limitazione della pubblicità delle esecuzioni, alla luce dell'esperienza dei
decenni precedenti: «Chiunque si sia proposto l'interessante assunto (e io l'ho fatto quasi regolarmente in
occasione delle esecuzioni pubbliche avvenute in Vienna da venticinque anni in poi, e n'ebbi sempre la medesima
esperienza) di osservare le masse curiose del popolo, anzi le migliaia di persone, che si accalcano al triste atto
dell'estremo supplizio e si sforzano di vedere assai da vicino, o financo più volte, l'infelice durante la sua
traduzione al luogo fatale […]; chiunque sia entrato in discorso con siffatta gente avida di vedere quello
spettacolo, e n'abbia indagata la disposizione dell'animo – dovrà ben tosto convincersi che questo sentimento,
almeno dalla parte maggiore di quella gente spettatrice, è tutt'altro che edificazione morale, e che per tal modo
forse si controopera a quello scopo, cui tende la legislazione colle pubbliche esecuzioni delle sentenze capitali»:
Hye, Il codice penale austriaco sui crimini, p. 480. Per contro, osservava sullo stesso punto, nel suo
commentario, Nicolò Foramiti, «le occulte morti o le tormentose fanno fremere la natura e non giovano
coll'esempio» (N. Foramiti, Manuale del nuovo codice penale austriaco sui crimini, sui delitti e sulle
contravvenzioni e del regolamento sulla stampa del 27 maggio 1852, Parte I, Venezia, Cecchini, 1852, p. 37). 159
Cfr. la sr. 17 giugno 1817, comunicata al Senato Lombardo-Veneto con estratto di protocollo dei Senati
viennesi nella sessione 14 ottobre 1817 (ASMi, SLV, b. 80, cc. 2797-2803) e relativa ai cambiamenti ed aggiunte
al codice penale proposti dalle due commissioni, sopra menzionate, istituite a Milano e Venezia per studiare le
modalità di integrazione del Lombardo-Veneto al sistema legislativo austriaco; tale disposizione fu diramata alle
prime istanze lombarde con circolare manoscritta 31 ottobre 1817, segnalata in Estratto Milano 1817 (che pure
indica, probabilmente errando, una diversa data della sovrana risoluzione) e alle prime istanze venete il 14
ottobre (Estratto Venezia 1817) Inoltre lo stesso punto fu ribadito dall'ordinanza 27 luglio 1818 della Cancelleria
aulica riunita, diramata con circolare 26 agosto 1818, CLV 1818, Parte II, p. 130.
59
all'imperizia del carnefice, «bensì al caso di aver sentita umidità quei due lacci che, come di
costume, vi si appendono durante la notte, e la notte fu sempre piovosa e pioveva ancora
all'atto dell'esecuzione». Pur assicurando che la «pubblica tranquillità» non era stata
«menomamente in modo sensibile e degno di rimarco turbata» la relazione accenna di
sfuggita, prendendone contemporaneamente le distanze, a delle voci secondo le quali il boia
sarebbe stato «da alcuni pochi dei più tristi delle plebe inseguito con lancio di pietre fino
dentro alla città»160
.
L'analogia tra quest'ultima immagine e quella tratteggiata da una grida milanese del XVI
secolo, la quale condannava – registrandone al tempo stesso la frequenza – i disordini
provocati da chi si fosse reso autore di «atti inhonesti, inconvenienti et vituperosi» rivolgendo
«parolle scandalose» al boia «mentre va e sta in questa città con tirarli anco dietro sassi»161
,
restituisce suggestivamente la dimensione secolare – verrebbe da dire atemporale –
dell'ambiguità che circondava la figura dell'“esecutore di giustizia”162
, nonché i suoi delicati
rapporti con il pubblico da una parte e con le autorità politiche e giudiziarie dall'altra.
Questi aspetti emergono chiaramente da una relazione del Senato su una mancata condanna
capitale a Milano, la quale, pur confermata, era stata sospesa per una serie di incidenti che ne
avevano impedito l'effettiva esecuzione secondo i termini stabiliti. Appena arrivato in città,
l'ultrasettantenne esecutore di giustizia si era ammalato; la rapidità in questi casi richiesta dal
codice penale e l'incalzare delle ore escludevano la possibilità di ripiegare sul boia dimorante
a Mantova163
. La cauta ipotesi vagliata dal Tribunale di prima istanza fu quindi quella di
affidare l'esecuzione al giovane aiutante; ma le difficoltà nel trovare per quest'ultimo un
assistente, senza il quale egli non avrebbe potuto adempiere al suo compito, poiché nessuno
160
Pz. CL, 5 settembre 1833, ASVi, TCA, b. 98, fasc. 4219, Vol. 2. 161
Riportata in G. Liva, Aspetti dell'applicazione della pena di morte a Milano in epoca spagnola, «Archivio
storico lombardo», CXV (1989), pp. 149-205: 172. 162
Sul punto si rimanda ancora a Baronti, La morte in piazza, soprattutto pp. 110-142. 163
Gli esecutori di giustizia, per tutto il Regno Lombardo-Veneto, erano tre: così venne stabilito in seguito ad un
prolungato scambio di pareri tra il Senato, la Commissione aulica di organizzazione centrale, la Cancelleria
aulica riunita, gli appelli e i governi lombardi e veneti, tra il 1817 e il 1820. L'appello lombardo – che da una
parte appoggiava la proposta dell'appello e del governo veneti, ossia quella di limitare il numero dei carnefici a
due – suggeriva altresì di impiegare, in via temporanea, otto persone; nonostante «la poca frequenza delle
sentenze capitali pronunciate in via ordinaria», in Lombardia era infatti in vigore il giudizio statario (sul quale si
rimanda al quinto capitolo): cfr. Sessione 7 ottobre 1817, ASMi, SLV, b. 80, cc. 2713-2714. Il Senato propose
infine, in linea con l'opinione della Cancelleria aulica, di fissare tre sedi, in ognuna delle quali sarebbero stati
operanti un esecutore e un aiutante: Mantova (per le province di Mantova, Cremona, Verona e Rovigo), Milano
(per le altre province lombarde) e Venezia (per le altre province venete). Nella relazione sul caso qui citato si
specifica tuttavia che il boia lombardo Lazzaro Majocchi, come anche il suo assistente, erano allora dimoranti a
Bergamo e non a Milano, dove appunto doveva aver luogo l'esecuzione: Sessione 19 gennaio 1820, ASMi, SLV,
b. 89, cc. 169-171.
60
era disposto a «prestarsi a quella aborrita e negli occhi del pubblico infamante cooperazione»,
avevano subito reso tale prospettiva poco concretizzabile. La direzione generale di polizia
esprimeva inoltre alcune significative perplessità: «gravi dubbi potrebbero insorgere che la
esecuzione possa riuscire o lenta o imperfetta, e così recare nel pubblico astante una sinistra
impressione da occasionare inconvenienti di cui non sono nuovi gli esempii e dei quali è
impossibile calcolare i confini»; tanto più che rapporti confidenziali avevano riferito come
«siansi già sentite nel pubblico espressioni di commiserazione a favore del paziente perché si
è qui sparsa la voce che egli andrebbe al patibolo unicamente per essersi reso confesso»164
–
espressione, quest'ultima, che, per inciso, ribadisce in altri termini l'ambivalenza della
confessione, ad un tempo prova decisiva e causa attenuante, evocata dalle parole del
consigliere Mazzetti sopra menzionate.
Su iniziativa del Tribunale criminale di Milano e con il consenso del Tribunale d'appello, il
Senato Lombardo-Veneto avanzò la proposta, successivamente approvata dall’imperatore, di
graziare la condanna a morte e commutarla al carcere duro a vita proprio in virtù degli
intercorsi impedimenti, la notizia dei quali, inevitabilmente, si era nel frattempo
pubblicamente diffusa;
e la pubblica compassione che suole sempre suscitarsi dall'uomo, per quanto colpevole ei sia, quando
penetrato dei suoi misfatti e pentito sta per espiare sul patibolo il commesso misfatto, questa
compassione è ora aumentata a favore [del condannato] per la singolare vicenda, che gli fè soffrire le
angosce di morte, per poi ritornarlo alla speranza della vita165
.
Segnali della marginalità sociale dei boia sono rintracciabili anche nelle discussioni senatorie
relative al loro trattamento economico, definito dapprima nel 1820: secondo i consiglieri,
analogamente alle altre province dell'impero, sarebbe stato «necessario di accordare a simili
Individui quanto basta pel loro mantenimento giacché gli usi introdotti e l'opinione pubblica
non permettono loro verun altra occupazione». La remunerazione annua per gli esecutori
venne quindi fissata a 400 fiorini, a 200 per gli aiutanti166
. Nel 1840 lo stipendio di questi
ultimi venne aumentato di ulteriori 50 fiorini poiché, osservava il consigliere relatore
164
Relazione 29 aprile 1846, ASMi, SLV, b. 70, fasc. VI. 113-5. 165
Ibidem. 166
Si tratta della stessa sessione nella quale vennero stabilite le sedi degli esecutori di giustizia: Sessione 19
gennaio 1820, ASMi, SLV, b. 89, cc. 169-171. Cfr. anche la Sessione 24 giugno 1817, ASMi, SLV, b. 79, cc.
1691-1692.
61
incaricato di presentare la questione in Senato, era «noto generalmente che nei paesi d'Italia
coloro che esercitano le incombenze di carnefice si considerano come macchiati di una specie
di infamia», ciò che impediva loro di ricercare ulteriori fonti di guadagno. Per provare tale
considerazione, il relatore ricordava quanto riferito dalla Direzione di Polizia di Venezia, ossia
che l'esecutore lì operante, «ridotto quasi alla disperazione pel ribrezzo che inspirava la sua
presenza nei luoghi pubblici, implorò ed ottenne una traslocazione»167
.
É interessante rilevare come, talvolta, le relazioni dei delegati non si limitassero a registrare
quegli episodi di ordine pubblico che più immediatamente potevano competere alle autorità
politiche e giudiziarie; bensì, forse in certa misura ereditando alcune suggestioni di quella
tradizione letteraria (resoconti di confortatori, cronache, memorie, poesie, racconti – la
cosiddetta “letteratura del patibolo”) ampiamente diffusa in antico regime168
, si soffermino su
particolari esplicitamente legati agli aspetti più spettacolari e, se si vuole, emotivi
dell'esecuzione, anch'essi partecipi di una precisa valenza comunicativa. In questa direzione
vanno a mio avviso interpretati i riferimenti alle ultime parole del condannato, al suo
contegno pacifico, alla sua accettazione della propria sorte; si potrebbe dire, alla sua
“riconciliazione” con la società. Così i commissari riportano l'esecuzione di un triplice
omicida, condannato a morte dal Tribunale vicentino nel 1836; l'uomo «assistito da Religiosi,
religiosamente morì sul patibolo per mano del carnefice […] accusandosi in faccia al popolo
per meritevole di ben cento morti, ed implorandone il perdono, e le preci degli astanti»169
.
Nel caso in cui i giustiziandi fossero più d'uno, l'ordine dell'esecuzione veniva stabilito dai
dicasteri inferiori, come normato dalla sr. 4 marzo 1826170
. Tra i fascicoli esaminati,
successivi alla pubblicazione di tale risoluzione, si sono rinvenuti solo due processi conclusisi
167
Grandi, Processi politici, p. 547. 168
H.-J. Lüsebrink, La letteratura del patibolo. Continuità e trasformazioni tra ‘600 e ‘800, «Quaderni storici»,
XVII (1982), 49, pp. 285-301 e Baronti, La morte in piazza, pp. 101-109. S vedano alcuni esempi di questo tipo
di testi in A. Lischetti, Vita e morte di Carlo Sala (1738-1775), ladro sacrilego e miscredente, in C. Capra, C.
Donati, Milano nella storia dell'età moderna, Milano, Franco Angeli, 1997, pp. 89-138; A. Prosperi, Il
condannato a morte: santo o criminale?, in Il delitto narrato al popolo. Immagini di giustizia e stereotipi di
criminalità in età moderna, a cura di R. De Romanis, R. Loretelli, Palermo, Sellerio, 1999, pp. 219-227, e F.
Bianco, Storie raccontate, storie disegnate. Cerimonie di giustizia capitale e cronaca nera nelle stampe popolari
e nelle memorie cittadine tra ‘500 e ‘800, Udine, E. & C., 2011. 169
Relazione 17 novembre 1836, ASVi, TCA, b. 224, fasc. 632. 170
Sr. portata dalla circolare manoscritta 12 aprile 1826. Un esemplare della circolare, segnalata anche in
Estratto Milano 1826, è stato reperito in OeStA, AVA, OJ, LVS, K. 22, fasc. 20. L'obbligo di determinare, nella
sentenza, anche l'ordine dell'esecuzione, venne compreso nel successivo regolamento di procedura penale del
1853, §293.
62
con una duplice condanna capitale. Una di esse, irrogata dal Tribunale di Mantova nel 1833,
impose all'appello di Milano di stabilire una «gradazione di malvagità» tra i condannati:
quello «più iniquo», concluse l’appello, avrebbe dovuto «attendersi la sorte più dura e sarà
quella dell’ultimo al supplizio, il quale nel compagno del delitto vedrà il terribile aspetto»171
.
Anche dell’eventuale grazia si dava lettura pubblica, immediatamente dopo la notificazione
della sentenza capitale. Il compito di stabilire la durata della detenzione in cui commutare la
pena di morte era affidato al Senato; essa veniva solitamente già suggerita nella relazione e
nella correlazione per mezzo delle quali i consiglieri aulici illustravano il processo
all'imperatore.
In quasi tutti i casi la commutazione consisteva in una pena di vent’anni di carcere duro172
;
infrequentemente la mitigazione portava detenzioni più brevi, e altrettanto infrequentemente
venivano sanzionate le cosiddette esacerbazioni, che pure erano previste dal codice penale: il
lavoro pubblico, l'esposizione alla berlina, i colpi di bastone e verghe, il digiuno, il bando
dopo espiata la pena (§17 Cp.).
I graziati lombardi e veneti, a quanto risulta dalla documentazione consultata, non conobbero
che i primi due inasprimenti: il pubblico lavoro – riservato ai soli condannati di sesso
maschile e al quale comunque, in generale, i tribunali ricorrevano raramente173
– e la berlina,
che consisteva nell'esposizione del reo, per un'ora al giorno, reiteratamente per tre giorni, al
«pubblico spettacolo»; legato con pesanti catene ai piedi e alle mani, egli portava appeso al
collo un cartello sul quale vi erano scritti il delitto e la condanna (§19 Cp). Anche quest'ultima
esacerbazione infamante veniva tuttavia inflitta relativamente di rado174
, ad onta della
riconosciuta utilità politica e sociale «di rendere pubblica la pena de' malevoli»175
e
nonostante l'opposta tendenza dei tribunali di prima istanza, che invece ne facevano un uso
più ampio176
.
171
Relazione 10 giugno 1834, in ASMi, SLV, b. 57, fasc. VI. 57-2. 172
Il detenuto al carcere duro, anche detto di secondo grado, era assicurato con ferri ai piedi, mangiava
quotidianamente cibo caldo, esclusa la carne, dormiva su nude tavole, gli era precluso qualsiasi colloquio al di
fuori del personale di custodia (§13 Cp.) ed era tenuto a lavorare secondo quanto previsto dal regolamento della
casa di pena in cui era rinchiuso (§16 Cp.). 173
La circolare 25 novembre 1837 dell'appello di Milano ai tribunali criminali lombardi, metteva infatti in luce
lo scarso numero, riscontrato dal Senato Lombardo-Veneto, dei condannati all'inasprimento del pubblico lavoro
da parte delle prime istanze (un esemplare della circolare si trova in BCT47-10, fasc. 1837). 174
Su 73 casi esaminati di commutazione di pena capitale, l'esacerbazione del pubblico lavoro venne inflitta 15
volte, quella della berlina 10 volte. 175
Sessione 20 maggio 1817, ASMi, SLV, b. 79, cc. 1334-1336. 176
Loredana Garlati rileva ad esempio la sistematicità con la quale il tribunale di Brescia infliggeva
63
Come suggeriscono le relative discussioni senatorie, il più mite orientamento del tribunale di
terza istanza va probabilmente ricondotto ad un duplice ordine di motivi. Da una parte,
sembra che i consiglieri aulici individuassero nella ratio estremamente umiliante e lesiva
dell'onore della pena della berlina, in primo luogo, gravissime e irreparabili conseguenze
sociali, e in questo senso fossero relativamente restii a sanzionarla, soprattutto contro quegli
imputati i quali, a loro avviso, lasciando adito ad una speranza di recupero, sarebbero stati
dall'esacerbazione «irreparabilmente guastati, non potendo essi più contare sulla estimazione
degli uomini»177
.
Dall'altra, l'esposizione del delinquente graziato e il messaggio che tale inasprimento di pena
avrebbe dovuto veicolare poteva, secondo i consiglieri, essere frainteso, e rivelarsi pertanto
problematico e controproducente. In questo senso, la berlina venne ad esempio risparmiata ad
un omicida veneziano poiché, essendosi egli macchiato di un delitto «che a norma delle leggi
avrebbe dovuto punirsi colla morte, farebbe cattiva impressione al pubblico, se vedesse il reo
condannato ad una pena più mite di quella dal Codice minacciata per un delitto sì atroce,
come è quello dell'omicidio»178
. Non l'infamia della berlina, bensì l'eccessiva magnanimità
della clemenza sovrana179
sarebbe stata, in questo caso, pubblicamente dannosa: una
l'esacerbazione della berlina contro i rei di omicidio che, a norma di legge, non potevano tuttavia essere puniti
con la pena capitale (perché troppo giovani o non confessi), tanto da fungere, secondo la studiosa, da «polo
catalizzatore», portatore di una «funzione taumaturgica contro l'assuefazione al delitto e alla insensibilità morale
alla violenza». Cfr. Garlati, Il volto umano della giustizia, p. 239. 177
Sessione 29 dicembre 1817, ASMi, SLV, b. 80, cc. 3291-3292. Sulla percezione della berlina come pena
estremamente infamante – non solo per chi la subiva – si segnala una corrispondenza intercorsa tra la direzione
generale di polizia, il Governo lombardo, il presidente del tribunale e la Delegazione provinciale di Milano tra
luglio e novembre 1816, conservata in ASMi, AdG, GP (pm), b. 26, fasc. 11, su dei disordini avvenuti a Cremona
e a Milano dovuti all'ostinato rifiuto dei secondini e degli aiutanti delle carceri di accompagnare i condannati sul
palco per la lettura della sentenza a norma del §451 e di esporli alla berlina, «a motivo che tale esecuzione viene
considerata infamante, per essersi fin qui praticata dal carnefice». Nonostante le minacce di licenziamento contro
chi non si fosse ridotto all'ubbidienza, i secondini presentarono una petizione per essere esonerati da tale
incombenza, respinta tuttavia dal governo. 178
Sessione 6 giugno 1828, ASMi, SLV, b. 125, c. 1138. 179
Il caso in questione è infatti uno dei pochi che vide un disaccordo tra il voto del Senato e la sovrana
risoluzione. La commutazione della pena capitale venne concessa nonostante il parere negativo espresso nella
relazione, secondo cui l'imputato, descritto quale «uomo di perduta vita e di famigerata fama, che non volle mai
sapere di Chiesa, di Religione, di Dio», colpevole dell'omicidio del presunto amante della propria moglie, non
sarebbe stato meritevole di alcuna mitigazione: «L’alta sapienza della Sacra Maestà Vostra» – concludeva la
relazione – «si degnerà di risolvere, se questo sia il caso d’una graziosa commutazione di pena, perocché il
fedelissimo Senato non osa d’invocare il Nume della Sovrana Clemenza a favore di un Reo, che fu censurabile
per la passata condotta, che da irragionevole e infondata causa si è determinato al delitto, che si dimostrò più del
bisogno crudele nella esecuzione» (Relazione 9 aprile 1828, ASMi, SLV, b. 53). Probabilmente la risoluzione
sovrana andava qui intenzionalmente ad avvalorare il parere di minoranza avanzato dal correlatore; il quale, del
delitto passionale, ravvisava il classico motivo mitigante, ossia la «violenta commozione d’animo, procedente da
una della più forti umane passioni, che senza un vero motivo, per mere supposizioni ed apparenze sconvolge tal
volta le menti più ragionevoli». Cfr. Correlazione 9 aprile 1828, Ibidem. Sull’interpretazione tendenzialmente
indulgente dei delitti passionali si rimanda al terzo capitolo.
64
constatazione che lascia intravedere, in controluce, tutta l'ambiguità della grazia e delle sue
interpretazioni.
65
SECONDA PARTE
TEORIA
alberto
Typewritten Text
66
67
SECONDO CAPITOLO
LA COMUNICAZIONE GIURIDICA DELLA GRAZIA
E DELLA PENA DI MORTE
1. Introduzione
2. Produzione, traduzione e circolazione di opere giuridiche nel Regno Lombardo-Veneto
3. Le giustificazioni della pena di morte
4. La sistemazione concettuale della grazia
5. Illecite promesse di mitigazione
68
1. Introduzione
Oggetto di questa sezione è la sistemazione concettuale della pena di morte e della grazia
sovrana, ossia le definizioni, giustificazioni, interpretazioni e delimitazioni teoriche di esse
entro il campo della speculazione giuridica.
Si sono quindi presi in considerazione, innanzitutto, i commenti pratico-teorici al codice
penale, le riviste e le enciclopedie giuridiche, i trattati su argomenti specifici; sia quelli
pubblicati nel Regno Lombardo-Veneto (opere originali ma anche traduzioni di testi tedeschi),
sia i principali lavori prodotti nei Länder ereditari dell'impero, non tradotti, ma comunque
circolanti nelle province italiane.
La parziale diffusione di questi ultimi, di non scontata fruibilità, è infatti suggerita dal fatto
che il tedesco fosse una lingua conosciuta, almeno “passivamente”, come abbiamo visto, dai
giudici originari del Tirolo meridionale, tanto presenti nei tribunali lombardi e veneti;
l'osservazione di due “biblioteche-campione”, tuttora integralmente conservate, appartenute a
due noti e già menzionati consiglieri trentini che operarono nel Regno e che sedettero
entrambi presso il Senato Lombardo-Veneto – Antonio Salvotti e Antonio Mazzetti – sembra
confermare tale ipotesi1.
Anche qui, come si è visto per la parte normativa, la teoria giuridica non va intesa come
avulsa dall'applicazione pratica del codice penale, ma al contrario messa in relazione con le
concrete irrogazioni di pene capitali e concessioni di grazia.
Inquadrare, anzitutto, la possibile circolazione delle opere giuridiche e identificare il profilo
biografico e professionale degli autori, permette di misurare più precisamente i punti di
contatto o di divergenza tra l’elaborazione dottrinale e la prassi giudiziaria. Commenti e
trattati erano infatti in parte prodotti da quella stessa classe di magistrati che istruiva e
1 La biblioteca del consigliere aulico, poi presidente del Tribunale civile milanese e dell'appello lombardo
Antonio Mazzetti, è conservata, come il più ampio fondo manoscritto del consigliere, presso la Biblioteca
comunale di Trento. Di essa esiste un indice compilato dallo stesso Mazzetti (BCT1-5642, 2 volumi) diviso per
materie; la sezione «Legislazione austriaca civile, criminale, politica, finanziaria e opere relative» si trova alle
cc. 141-181, vol. I. La biblioteca della famiglia Salvotti, conservata presso la Biblioteca civica di Rovereto, è
corredata da tre indici, nessuno dei quali datato. L'altezza cronologica del primo (BCR, Ms. 60.8), tuttavia, è,
verosimilmente, il 1813-1814 (i volumi più tardi, tra quelli elencati, datano infatti 1813). Il secondo è stato
probabilmente compilato nel momento in cui i volumi furono depositati, per volontà degli eredi di Antonio
Salvotti, presso la Biblioteca civica (1924), o poco dopo; un documento accluso ad esso, infatti, datato 1934, con
cui gli eredi rinnovavano per altri tre anni il deposito, menziona appunto l'indice, che quindi era stato già redatto.
Il terzo indice, topografico (ovvero organizzato secondo l'ordine di disposizione dei libri sugli scaffali), è invece
più recente. Risalire ai testi appartenuti ad Antonio Salvotti è quindi meno immediato e certo; il primo indice è
naturalmente troppo risalente, il secondo e il terzo troppo tardi e non è detto che i volumi ivi elencati, anche
qualora fossero contemporanei a Salvotti, siano stati necessariamente da quest'ultimo posseduti e non piuttosto
acquistati successivamente. Sulla biblioteca Salvotti cfr. A. Gonzo, W. Manica, Gli incunaboli della Biblioteca
civica e dell'Accademia degli Agiati di Rovereto, Trento, Provincia Autonoma di Trento – servizio beni librari e
archivistici, 1996, pp. 178-179.
69
giudicava i procedimenti penali e decideva in merito alle pene da irrogare; parallelamente, le
eventuali proposte di mitigazione delle condanne capitali da sottoporre all'imperatore,
avanzate in sede processuale, poggiavano tanto su puntuali e contingenti considerazioni di
opportunità sociale e politica, quanto su più generali riflessioni di ordine dottrinale.
Anche nel campo della cultura giuridica la delimitazione temporale scelta viene pienamente
giustificata: non solo per l'ovvia constatazione che, dai primi anni Cinquanta, mutano i
riferimenti normativi e di conseguenza anche la loro interpretazione (ciò nonostante sono stati
comunque presi in esame alcuni commenti al codice penale del 1852 e al regolamento di
procedura del 1853, poiché essi si rivolgono spesso, in senso comparativo, al codice appena
riformato). Il momento di rottura in senso politico e istituzionale della metà del secolo si
riflette pure nell'ambito del sapere giuridico e delle forme di comunicazione di esso;
primariamente, quindi, nei periodici specialistici. Con l'eccezione, come vedremo, del
veneziano «Giornale di giurisprudenza pratica», il cui arco cronologico di pubblicazione si
colloca a cavaliere di tale cesura, i periodici iniziati nel Vormärz cessano normalmente prima
del 1848, ed altri ne vengono fondati dopo: in consonanza, in questo senso, con le riviste
giuridiche di lingua tedesca pubblicate in Cisleitania, come osservato da Wilhelm Brauneder2.
2. Produzione, traduzione e circolazione di opere giuridiche nel Regno Lombardo-
Veneto
Prima di affrontare il merito della questione, l’ampiezza e la portata della “comunicazione
giuridica” per mezzo della quale le riflessioni sul sistema punitivo – e nello specifico sulla
pena capitale – e le interpretazioni della grazia venivano veicolate devono essere ricondotte
entro la cornice della produzione dottrinale (qui naturalmente si terrà in considerazione, in
particolare, quella relativa al diritto penale) e della sua diffusione nelle province lombarde e
venete; la cui cultura giuridica, come sostengono in modo convincente diversi studi
sull'argomento, appare più vivace e feconda di quanto la storiografia l’abbia in passato
generalmente giudicata3.
2 W. Brauneder, Juristische Fachzeitschriften in Österreich/Cisleithanien als Zeichen rechtlicher Zäsuren in der
zweiten Hälfte des 19. Jahrhunderts, in Juristische Zeitschriften in Europa, hg. von M. Stolleis, T. Simon,
Frankfurt am Main, Klostermann, 2006, pp. 287-308: 287-289. 3 Cfr. M. T. Napoli, La cultura giuridica europea in Italia. Repertorio delle opere tradotte nel secolo XIX,
Napoli, Jovene, 1987, vol. 1: Tendenze e centri dell'attività scientifica, pp. 3 e segg; P. Rondini, La dottrina
penalistica nel Regno Lombardo-Veneto, in Codice penale universale austriaco, pp. LXXVII-XCIV e Id., La
scienza criminale nel Regno Lombardo-Veneto e nel Granducato di Toscana (1815-1848): tra cultura giuridica e
pratica legale, in Giovanni Carmignani (1768-1847): maestro di scienze criminali e pratico del foro, sulle soglie
del diritto penale contemporaneo, a cura di M. Montorzi, Pisa, ETS, 2003, pp. 405-438; E. D'Amico, Agostino
70
Dal punto di vista quantitativo, negli anni immediatamente successivi l’entrata in vigore del
codice penale austriaco nel Regno Lombardo-Veneto, la pubblicazione della relativa
letteratura (soprattutto di carattere esegetico) sarebbe stata, per ragioni di utilità pratica,
particolarmente intensa, per poi scemare sensibilmente dalla seconda metà degli anni Venti4.
Accanto alle opere originali redatte da giurisperiti lombardi e veneti5, le numerose traduzioni
Reale e la civilistica lombarda nell'età della restaurazione, in Studi di storia del diritto, II, Giuffrè, Milano,
1999, pp. 773-818; L. Garlati Giugni, Nella disuguaglianza la giustizia. Pietro Mantegazza e il codice penale
austriaco (1816), Milano, Giuffrè, 2002, soprattutto pp. 15-24 e 198-200. I sopra citati autori si riferiscono
specialmente al giudizio negativo sulle discipline giuridiche ottocentesche espresso negli interventi contenuti
nella Sezione di scienze giuridiche, in Un secolo di progresso scientifico italiano (1839-1939), Roma, Società
italiana per il progresso delle scienze, 1939, vol. VI, pp. 295-435. Si specifica tuttavia che da tale giudizio
negativo si discosta Arturo Santoro, autore del capitolo dedicato al Diritto penale (pp. 415-526). 4 Ciò viene lamentato in una segnalazione della seconda ristampa del Manuale ragionato del Codice Penale di
Antonio Castelli (quarto volume) e del suo Supplemento ad opera di Luigi Manini, negli «Annali universali di
statistica, economia pubblica, storia, viaggi e commercio», LXI (1839), 190, pp. 5-6, dove si afferma che «lo
studio della legislazione penale e del diritto criminale viene ora poco curato con vero danno». La segnalazione è
siglata D. S.; probabilmente si tratta del pavese Defendente Sacchi, collaboratore, oltre che degli Annali, anche
di altri giornali tra cui la «Gazzetta di Milano», e sorvegliato dalla polizia. Ciò si deduce da un rapporto datato 8
dicembre 1833 della Direzione di polizia di Venezia alla presidenza del Governo veneto su alcuni giornalisti. Di
Sacchi viene detto che «in linea politica […] lasciossi trascinare dalle sue idee liberali, facendone anche pubblica
professione ne’ suoi scritti», tanto da subire una perquisizione domiciliare su ordine della Commissione speciale
di Milano (ossia l’organo inquirente e giudicante preposto nei primi anni Venti all’istruzione dei processi per alto
tradimento, come si vedrà nel quarto capitolo), che pure lo interrogò. «Il pubblico lo riguarda per un giovane di
molto ingegno, ma non di sane idee, e di nessuna prudenza. Egli coltiva delle relazioni assai sospette, e perciò è
tenuto sotto la politica sorveglianza». Il rapporto è trascritto in V. Malamani, La censura austriaca delle stampe
nelle provincie venete (1815-1848). I giornali e i periodici. I Gabinetti di lettura. La «Gazzetta privilegiata» di
Venezia, «Rivista storica del Risorgimento italiano», II (1897), pp. 692-726: 719-720. 5 Nei primi anni di attivazione del codice penale, le opere di carattere spiccatamente pratico pubblicate nel
Regno Lombardo-Veneto sono numerose. Tra le principali del primo quinquennio, si ricordano i volumi di
Giuseppe Boerio, Esemplare di un processo criminale formato secondo le norme del codice di procedura
vegliante nel Regno Lombardo-Veneto; dello stesso giudice veneziano, Pratica del processo criminale e un
altrettanto agile Repertorio, ossia estratto del codice criminale che comprende le parti prima e seconda del
codice criminale attualmente vigente… (opere, tutte e tre, pubblicate nel 1815 a Venezia dall'editore Zerletti);
dell'avvocato Giuseppe Carozzi, Manuale criminale ragionato che presenta tutte le materie riguardanti i delitti,
la procedura legale contro i medesimi, e le gravi trasgressioni di polizia esposte in ordine alfabetico e secondo il
codice criminale vigente nel Regno Lombardo Veneto, Milano, Sonzogno, 1816; del consigliere giudiziario
Fortunato Pozzi, Analisi del Codice penale austriaco, Venezia, Alvisopoli, 1817; del consigliere presso il
Tribunale mantovano Giuseppe Resti Ferrari, De’ giudizi criminali pel Regno Lombardo-Veneto istituiti dal
Agostino Reale, poi professore della facoltà politico-legale di Pavia, Esposizione della competenza delle
magistrature giudiziarie del Regno Lombardo-Veneto, Pavia, Capelli, 1820, oltre alla rivista «Giurisprudenza
pratica secondo la legislazione austriaca attivata anche nel Regno Lombardo-Veneto», che iniziò la sua
pubblicazione nel 1817. Numerosi sono anche gli interventi, editi in questi primi anni, di più esplicito confronto
tra il sistema penale francese e quello austriaco appena introdotto, come l'opera dell'avvocato milanese Pietro
Mantegazza, Alcune osservazioni sul codice austriaco dei delitti e delle pene pel Regno Lombardo-Veneto,
Milano, Baret, 1816, o i ben più critici interventi di un altro famoso avvocato milanese, Giuseppe Marocco,
Difese criminali ad uso della gioventù iniziata nello studio della giurisprudenza pratica criminale, 6 voll.,
Milano, Ferrario, 1818-1819 e, sulla dibattutissima questione della difesa tecnica – e in polemica, come esplicita
il titolo del libello, con la Pratica di Giuseppe Boerio, fautore del sistema austriaco – Della necessità di un
difensore nelle cause criminali qualunque sia la processura penale. Dissertazione […] per servire di
confutazione alla contraria opinione del Signor Boerio giudice in Venezia autore della pratica del processo
criminale, Milano, Silvestri, 1816.
71
di commenti, manuali pratici, trattati ed articoli su aspetti specifici del diritto criminale6 (oltre
ovviamente a quelle dei testi normativi per i quali era responsabile l’Oberste Justizstelle7),
funsero, come è stato notato8, da principale mezzo di comunicazione e importazione della
tradizione giuridica austriaca in Italia.
Diversamente dai trentini, con la lingua tedesca i magistrati e gli studenti lombardi e veneti
avevano infatti, in linea di massima, poca dimestichezza; quanto messo in luce nel primo
capitolo sui consiglieri di madrelingua italiana sedenti presso il Senato Lombardo-Veneto può
a maggior ragione estendersi ai giudici dei tribunali inferiori. Consapevole ne era l'avvocato
veneziano Leone Fortis – compilatore del «Giornale di giurisprudenza austriaca» che tra
breve si vedrà più nel dettaglio – il quale, nella nota introduttiva al primo numero della sua
rivista, osservava, in merito al periodico viennese che egli si apprestava a tradurre, come
«nelle provincie italiane [fosse] fortemente sentito il bisogno di quest'opera, ma la differenza
della lingua toglie[sse] alla maggior parte dei legali il modo di profittarne»9.
6 Per la ricognizione dei testi giuridici tradotti nel Lombardo-Veneto nel corso della prima metà del XIX secolo,
uno strumento utile è il repertorio curato da Napoli, La cultura giuridica europea, vol. 2: Repertorio. Si veda
anche Ibidem, vol. I, pp. 143-144. Tra le principali opere in lingua tedesca pubblicate in traduzione italiana nel
Regno negli anni immediatamente successivi l'entrata in vigore del codice penale, si annoverano il commentario
di Sebastian Jenull, Das Österreichische Criminal-Recht nach seinen Gründen und seinem Geiste, in quattro
volumi, edito da Franz Ferstl a Graz tra il 1808 e il 1815, e in italiano con i tipi di Giuseppe Destefanis, a
Milano, nel 1816 (Jenull, Commentario sul codice). La traduzione è forse opera dell'avvocato Giuseppe Carozzi,
come si deduce dalla nota introduttiva rivolta Al benigno lettore del commentario dello stesso Carozzi: «Questo
mio Manuale […] non è al certo un'opera di grande talento, né di grave studio; ma sono intimamente convinto
ch'esso riuscirà di sommo vantaggio per la pratica nelle leggi criminali e politiche. Questo fu l'unico scopo per
cui io l'ho compilato, e per conseguirlo a dovere non ommisi veruna cura, essendomi eziandio prevaluto in
diversi luoghi delle utilissime cognizioni da me apprese nell'esporre il volgarizzamento del Diritto Criminale
Austriaco del chiarissimo professore Jenull»: Carozzi, Manuale criminale ragionato. Non è chiaro se Carozzi
qui si riferisca alla traduzione o ad un compendio, che tuttavia non è stato identificato. Il Manuale di Jenull trovò
diffusione anche nella versione più agile e ridotta di F. Foramiti, Istituzioni di diritto criminale, ossia
Commentario sul codice penale austriaco di Jenull compendiato e ridotto in elementi, Venezia, Andreola, 1822.
Altra importante traduzione, apportata in questo torno di tempo, è quella dello Handbuch des österreichischen
Gesetzes über Verbrechen vom 3. September 1803 (Prag, Scholl, 1815) del segretario di consiglio presso il
magistrato di Praga Johann Borschitzky, curata da Giovanni Cicogna, professore di diritto civile presso lo studio
legale di Padova, poi direttore dello stesso con il titolo Manuale del Codice austriaco de' delitti 3 settembre
1803. Prima versione italiana con un indice generale ragionato, Padova, Stamperia del Seminario, 1817. 7 Cfr. W. Forsthofer, La terminologia burocratica italiana nel Regno Lombardo-Veneto (1814-1866), in
L’italiano allo specchio. Aspetti dell’italianismo recente, a cura di L. Coveri, Torino, Rosenberg & Sellier, 1991,
pp. 163-169: 167-168. 8 In generale, sulle traduzioni come «veicolo per la diffusione delle idee e delle dottrine», cfr. F. Ranieri, Le
traduzioni e le annotazioni di opere giuridiche straniere nel sec. XIX come mezzo di penetrazione e di influenza
delle dottrine, in La formazione storica del diritto moderno in Europa. Atti del terzo congresso internazionale
della Società Italiana di Storia del Diritto, Firenze, Olschki, 1977, vol. 3, pp. 1487-1504. Analoghe osservazioni,
declinate, nello specifico, al caso Lombardo-Veneto, sono esposte da Rondini, La dottrina penalistica,
specialmente pp. LXXXI-LXXXII. Sul punto si veda anche Napoli, La cultura giuridica europea, vol. 1, pp. 107
e segg.. Simili riflessioni, relative al ruolo e all'importanza delle traduzioni nell'ambito del diritto civile, sono
sviluppate in G. Alpa, La biblioteca dell'avvocato civilista nell'Ottocento, «Materiali per una storia della cultura
giuridica», XXXI (2001), 2, pp. 233-261: 246 e segg.; considerazioni riprese in Id., La cultura delle regole.
Storia del diritto civile italiano, Roma-Bari, Laterza, 2009 [II ed.], pp. 126 e segg..
9 L. Fortis, s.t., «Giornale di giurisprudenza austriaca», I (1839), pp. V-VIII: VII.
72
L'influenza delle opere tedesche si misura dalla frequenza con cui esse venivano
esplicitamente o implicitamente citate dagli autori di lingua italiana. Al commentario del
codice penale di Sebastian Jenull (pubblicato a Milano, ricordiamo, nel 1816 e fruibile anche
nella riduzione dell'avvocato friulano Francesco Foramiti), si trovano ad esempio moltissimi
riferimenti – citazioni dichiarate ma anche giudizi di fatto “ricalcati” su di esso – come
frequenti sono i rimandi, nelle materie di nostro specifico interesse, ai numerosi contributi,
tradotti e diffusi nel Lombardo-Veneto, del consigliere dell'Oberste Justizstelle e membro
della Commissione aulica di legislazione Franz von Zeiller10
. I programmi dell’Università di
Padova negli anni ’40 segnalano inoltre un ampio utilizzo di testi giuridici e statistici di autori
di lingua tedesca (fra i più utilizzati, per altro, lo stesso von Zeiller), tradotti in italiano11
.
Anche nella facoltà giuridica di Pavia inizialmente i manuali dovevano essere gli stessi di
quelli impiegati a Vienna; tuttavia poco a poco i professori, con apposita approvazione
governativa, iniziarono ad adottare anche testi propri e di giuristi non austriaci12
.
Sovente il lavoro di traduzione non si limitava alla letterale trasposizione in italiano dei testi
stranieri, ma integrava questi ultimi con note e riferimenti normativi, comparativi e
giurisprudenziali legati alle contingenze e alle esperienze giuridiche delle province lombarde
e venete13
; questo vale, ancor più, per gli articoli pubblicati su riviste, spesso introdotti e
annotati dai curatori delle stesse.
Come sopra si accennava, traduttori e compilatori di opere giuridiche – non solo nel
Lombardo-Veneto ma anche nel resto della Monarchia14
– erano generalmente avvocati e
giudici15
, in misura minore professori universitari, e i lettori di esse primariamente
professionisti e studenti, bisognosi di approfondire la propria conoscenza del nuovo apparato
normativo e giudiziario. Da qui la natura eminentemente pratica (che caratterizza, in generale,
10
Per un profilo biografico di Zeiller cfr. G. Oberkofler, Franz Anton Felix von Zeiller, in Juristen in Österreich
1200-1980, hg. von W. Brauneder, Wien, Orac, 1987, pp. 97-102. 11
R. Finazzi Sartor, La fraterna amicizia di studio, di solidarietà e di intenti politici fra Aristide Gabelli ed
Emilio Teza, in Educazione, scuola e formazione docente. Studi in onore di Enzo Petrini, Udine, Del Bianco,
1994, pp. 91-111: 96-97. 12
E. D’Amico, La facoltà giuridica pavese dalla riforma francese all’Unità, «Annali di storia delle università
italiane», 7 (2003), pp. 111-126: 120-121. Sui libri di testo della facoltà politico-legale dell’Università Pavia si
veda A. Andreoni, P. Demuru, La facoltà politico legale dell’Università di Pavia nella Restaurazione (1815-
1848). Docenti e studenti, Bologna, Cisalpino, 1999, pp. 46-52. 13
Rondini, La dottrina penalistica, pp. LXXXII-LXXXIII e Id., La scienza criminale, p. 423. 14
Cfr. B. Dölemeyer, Zur Frühgeschichte des juristischen Zeitschriftenwesens in Österreich, in Juristische
Zeitschriften in Europa, pp. 269-285: 272. 15
Lo stesso nota Guido Alpa riferendosi alle traduzioni dei commentari del codice civile francese, predisposte
non da accademici bensì da avvocati, ovvero da coloro che, per professione, avevano a che fare con
l'applicazione pratica del diritto. Alpa, La biblioteca dell'avvocato, p. 247 e Id. La cultura delle regole, p. 126.
73
anche molta parte dello studio del diritto italiano in quel periodo16
), tuttavia non escludente
un’elaborazione più speculativa, della cultura giuridica lombarda e veneta17
. Questa
impostazione non è però esente da motivazioni politiche. Secondo Irene Ciprandi, che ha
studiato il caso dell’Università di Pavia, la tendenza della facoltà legale a fornire una
preparazione prevalentemente tecnica e professionale era incoraggiata da precise prescrizioni
governative, volte a restringere le basi teoriche degli studenti e conseguentemente a limitare
loro la possibilità di affrontare criticamente la materia. La questione verrà ripresa nel quarto
capitolo; basti qui dire che questa cautela era probabilmente dovuta alla pericolosità latente
delle materie giuridiche, come potenziali portatrici di principi liberali18
.
Tale vocazione pragmatica caratterizzava in primo luogo le riviste giuridiche, strumenti di
aggiornamento della pratica giudiziaria soprattutto civile, ma le cui pagine – specialmente dai
tardi anni Trenta e Quaranta – talvolta ospitavano, oltre a commenti di sentenze o a precise
questioni di procedura, anche dissertazioni teoriche di argomento penale. Esse permettevano
ai lettori di informarsi sulle norme, la loro applicazione – pubblicando per la prima volta, in
questo torno di tempo, e nonostante le limitazioni della censura che impediva vere e proprie
edizioni di raccolte di sentenze, concreti casi giudiziari – e la giurisprudenza prodotta a
riguardo, fungendo pertanto, come ravvisa Barbara Dölemeyer, da «Medien und Foren der
neu entstehenden Öffentlichkeit im Rechtswesen»19
. In generale, la rivista specializzata
rappresenta un importante strumento comunicativo. A differenza dei giornali non scientifici,
«die Zeitschrift besitzt – oder bildet – einen wissenschaftlich disziplinär definierbaren
Adressaten- und Leserkreis, der nicht nur rezipiert, sondern mit Herausgeber und Mitarbeitern
der Zeitschrift eine mehr oder weniger offene oder geschlossene Diskursgemeinschaft
darstellt»20
; una forma di trasmissione e scambio della conoscenza che appare tanto più
16
Si veda, ad esempio, il caso napoletano studiato da A. Mazzacane, Università e scuole private di diritto a
Napoli nella prima metà dell'Ottocento, in Università in Europa. Le istituzioni universitarie dal Medio Evo ai
nostri giorni; strutture, organizzazione, funzionamento. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Milazzo 28
settembre-2 ottobre 1993, Soveria Mannelli, Rubettino, 1995, pp. 549-575. 17
Proprio il carattere maggiormente pratico e lineare della giurisprudenza esegetica rispetto a quella puramente
teorica, adempì, secondo Carlo Ghisalberti, ad un’importante funzione sociale, diffondendo una certa conoscenza
del diritto anche tra chi ne era abitualmente escluso. Ghisalberti, Unità nazionale e unificazione giuridica, p.
267. 18
I. Ciprandi, L'Università di Pavia nell'età della Restaurazione, in I. Ciprandi, D. Giglio, G. Solaro, Problemi
scolastici ed educativi nella Lombardia del primo ottocento. Vol. II: L'istruzione superiore, Milano, Sugarco,
1978, pp. 193-316: 279-282. 19
Dölemeyer, Zur Frühgeschichte des juristischen Zeitschriftenwesens, soprattutto p. 269. Si veda anche Ead.,
Österreich, in Gedruckte Quellen der Rechtsprechung in Europa (1800-1945) hg. von F. Ranieri, Zweiter
Halbband, Frankfurt am Main, Klostermann, 1992, pp. 717-763: 747-748. 20
H. Mohnhaupt, Rechtsvergleichung in Mittermaiers „Kritische Zeitschrift für Rechtswissenschaft und
74
significativa se applicata alle materie criminali, proprio per la natura segnatamente segreta del
diritto penale austriaco, che si riflette nella cautela delle autorità giudiziarie nel lasciar
trapelare all’esterno informazioni sull’attività dei tribunali. Nel 1842, ad esempio, il Senato
Lombardo-Veneto diede parere negativo ad una domanda dell'avvocato bresciano Giuseppe
Saleri, trasmessa per mezzo del Governo lombardo, affinché l'appello di Milano gli
comunicasse «le nozioni occorrenti per la compilazione di un'opera sulla storia del diritto
punitivo e sul sistema penitenziario». La richiesta, secondo il Senato, sarebbe stata
inesaudibile «a fronte delle vigenti prescrizioni, che non permettono la comunicazione ai
privati delle risultanze di atti interni d'ufficio». Tuttavia, il Tribunale d’appello veniva
autorizzato a trasmettere al Governo le informazioni «per quell'uso che nella propria saviezza
riputasse di poterne fare»21
. Il consigliere Salvotti, in una lettera privata a Saleri, ribadiva il
punto:
per ciò che riguarda le discussioni pendenti tra gli aulici dicasteri sui mezzi più adatti onde diminuire i
delitti che infestano il regno Lombardo Veneto e assicurare un po’ più la pubblica sicurezza, non mi
sarebbe possibile di metterla alla conoscenza più intima dei nostri lavori, senza violare i miei doveri
d’ufficio. Le ho del resto dato una prova della mia somma fiducia nel sollevare un lembo del velo che
ricopre le nostre discussioni22
.
Anche le riviste giuridiche del Regno fungevano quindi, fin dove possibile, da
“comunicatrici” del sapere giuridico, nonostante la loro “carenza” teorica denunciata, nel
1842, dall'editore dei milanesi «Annali universali di statistica», il veneziano Francesco
Lampato23
: il quale, annotando una memoria di Karl Mittermaier sulla giurisprudenza italiana
ospitata a puntate negli Annali (si noti, per inciso, anche questo caso di “traduzione attiva”),
Gesetzgebung des Auslandes“ (1829-1856), in Juristische Zeitschriften. Die neuen Medien des 18. – 20.
Jahrhunderts, hg. von M. Stolleis, Frankfurt am Main, Klostermann, 1999, pp. 277-301: 279. 21
Grandi, Processi politici, pp. 561-562. 22
Lettera di Salvotti a Saleri, 10 marzo 1842, trascritta in La questione penitenziaria nel Risorgimento: il
carteggio inedito di Giuseppe Saleri, a cura di A. Capelli, «Storia in Lombardia», VI (1987), 1, pp. 99-164: 156-
157. 23
Su Francesco Lampato e gli Annali cfr. K. R. Greenfield, Economics and Liberalism in the Risorgiment. A
Study of Nazionalism in Lombardy 1815-1848, Baltimore 1934 [trad. it.: Economia e liberalismo nel
Risorgimento. Il movimento nazionale in Lombardia dal 1814 al 1848, Bari, Laterza, 1964 (II ed.), pp 240-257],
S. La Salvia, Giornalismo lombardo: gli «Annali universali di statistica» (1824-1844), Roma, Elia, 1977; A.
Galante Garrone, I giornali della Restaurazione, 1815-1847, in La stampa del Risorgimento, a cura di V.
Castronovo, N. Tranfaglia, Roma-Bari, Laterza, 1978, pp. 3-246: 136-139; Id., Giornalismo e Risorgimento in
Lombardia, in Il giornalismo risorgimentale in Lombardia. Atti del convegno. Civico Museo del Risorgimento
22-23 maggio 1978, Milano, Comune di Milano, 1980, pp. 25-40: 36-38; A. Orecchia, Annali universali di
statistica, in Bibliografia dei periodici economici lombardi, 1815-1914, Tomo I, a cura di F. Della Peruta, E.
Cantarella, Milano, Franco Angeli, 2005, pp. 83-91.
75
commentava, in merito al paragrafo sulle riviste giuridiche (qui ignorate, quelle lombarde e
venete, da Mittermaier, che menzionava solo i periodici piemontesi, napoletani, toscani e
romani):
Anche nel regno Lombardo-Veneto si pubblicano due giornali di giurisprudenza pratica, uno a Milano
e l'altro a Venezia. Sarebbe da desiderarsi che i professori di diritto delle due università di Pavia e di
Padova pubblicassero, come quelli di Siena e di Pisa, un giornale di scienze giuridiche. Essi
potrebbero in tal modo giovare ai progressi di questi studi, che vengono ora dai pratici negletti a tal
punto che ci porranno presto nella affliggente situazione di non avere più giureconsulti che eguaglino
in sapere quelli che concorsero alle grandi riforme legali degli ultimi anni del passato secolo24
.
La rivista milanese alla quale Lampato allude era la «Giurisprudenza pratica secondo la
legislazione austriaca» (1817-1833; 1836-1845) compilata e, dal 1824, finanziata25
dall’avvocato veneto residente a Milano Giovanni Francesco Zini, coinvolto in diverse
imprese editoriali – tra le quali, per altro, gli stessi «Annali universali di statistica», ove
ricopriva importanti, anche se ufficiose, funzioni redazionali26
. Per un primo periodo il
giornale si componeva di due sezioni: una pratica di sentenze e decreti, l'altra informativa
riportante risoluzioni, patenti, circolari e notificazioni, ma anche notizie sulle novità
legislative apportate negli altri Stati della penisola e una rubrica bibliografica. Essa venne poi
ampliata per ospitare, dal 1830, una sezione teorica, dedicata appunto alle «Dissertazioni e
commenti sulla giurisprudenza austriaca»: e infatti, con la ripresa della pubblicazione nel
24
Nota di F. Lampato in K. J. A. Mittermaier, Intorno ai progressi della letteratura giuridica, ed allo studio del
diritto in Italia, «Annali universali di statistica, economia pubblica, storia, viaggi e commercio», LXXII (1842),
214, pp. 20-29: 29. 25
I primi numeri vennero pubblicati a spese dell'editore, l'avvocato Pietro Parravicini, che dal 1824 non poté più
assumersene l'onere (come si desume dal «Foglio d'annunzi della Gazzetta di Milano», 10 gennaio 1824, N. 5).
La rivista fu quindi, per un certo periodo, finanziata da Zini. Dal 1829 al 1833 la «Giurisprudenza pratica» uscì
con gli Editori degli «Annali Universali» (una società di cui Zini era maggiore azionista e tra i prodotti della
quale vi erano, appunto, gli «Annali universali di statistica») per poi tornare ad essere finanziata in proprio con la
ripresa della pubblicazione nel 1836. Sulle vicende editoriali della «Giurisprudenza pratica» cfr. M. Berengo,
Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione, Torino, Einaudi, 1980, pp. 106 e 233-234, e La Salvia,
Giornalismo lombardo, pp. 63-64. In appendice a quest'ultimo volume (pp. 469-473) vi è la trascrizione del
contratto stipulato nel 1828 tra Zini e l'editore degli «Annali universali di statistica» Francesco Lampato, nel
quale è specificato che la tiratura del periodico ammontava a 750 copie (La Salvia ritiene tuttavia che la
diffusione reale dovesse essere meno consistente, come dimostrerebbe la difficoltà del giornale nel mantenere un
equilibrio favorevole tra costi e ricavi: Ibidem, p. 72), e che gli abbonati che Zini doveva garantire erano 214
(evidentemente, come osserva La Salvia, questo era il numero degli abbonati fino a quel momento: Ibidem, p.
63). Sulle attività editoriali di Zini e il suo ruolo entro la Società degli Annali cfr. Ibidem, pp. 70, 79-80, 82, 290;
Berengo, Intellettuali e librai, pp. 230-236; I. Piazzoni, I periodici letterario-teatrali a Milano, in Il giornalismo
lombardo nel decennio di preparazione all'Unità, a cura di N. Del Corno, A. Porati, Milano, Franco Angeli,
2005, pp. 96-144: 102 e segg., 114 e segg. 26
Berengo, Intellettuali e librai p. 230.
76
1836, dopo qualche anno di sospensione, il periodico muta significativamente il nome in
«Giurisprudenza teorico-pratica»27
.
L’indirizzo primariamente pragmatico di Zini emerge chiaramente dalla supplica inoltrata nel
1816 alle autorità giudiziarie e giunta all'attenzione del Senato Lombardo-Veneto, con la
quale egli chiedeva il permesso di pubblicare una rivista giuridica: «L'avvocato Giovanni
Francesco Zini» – spiegava ai consiglieri aulici il relatore Giuseppe Sardagna –
esponendo d'aver fatto a proprie spese rendere in idioma italiano li commenti più creditati del Cons.
aul. Zeiller, del Professore Jenull, del Sonleitner, Eger (sic) etc. che servendo soltanto alla teoria della
legislazione austriaca lasciano a desiderarne un opera pratica della loro applicazione, ricerca di essere
abilitato e fornito di mezzi opportuni a far stampare un foglio di giurisprudenza pratica austriaca, il
quale comprendesse tutte le decisioni di massima emanate, e che si comunicheranno da questo Sup.
Tribunale, non meno che tutte le cause più celebri, che fossero state agitate sotto l'impero de' nuovi
Codici.
Pur meritando «distinto encomio» per lo zelo dimostrato nell'opera di diffusione della
giurisprudenza austriaca, il Senato vietava tuttavia allo Zini di realizzare un'edizione ufficiale
di leggi e decreti, «salvo nel resto al supplicante di provvedersi in forma privata e secondo i
dettami delle leggi di censura attualmente in vigore»28
: vale a dire, l'articolo 57 del piano
generale di censura, in base al quale «le Scritture legali, i decreti di Governo, o del capo della
provincia [dovevano essere] approvati dalle rispettive autorità, dalle quali dipende l'affare»29
.
27
Il titolo completo della rivista, al momento della sua fondazione, è «Giurisprudenza pratica secondo la
legislazione austriaca attivata nel Regno Lombardo-Veneto ossia collezione di decisioni, sentenze e decreti in
materia civile, commerciale, criminale e di diritto pubblico aggiuntevi le Sovrane Patenti, Risoluzioni auliche,
Encicliche, Editti e Decreti relativi all'amministrazione giudiziaria, non che le Notizie sulle legislazioni in corso
negli Stati circonvicini; e così pure le Notizie sulle opere di giurisprudenza che verranno d'ora in avanti
pubblicate». Dal numero XII (1830) al titolo vengono aggiunte «alcune discussioni e commenti sulla legislazione
predetta tratti specialmente dalle più accreditate opere originali tedesche e resi nell'italiano idioma». Dal vol.
XXIII del 1836, infine, il titolo principale cambia appunto in «Giurisprudenza teorico-pratica». 28
Sessione 26 novembre 1816, ASMi, SLV, b. 78, c. 2160. 29
Il Piano generale di Censura venne approvato, per le province venete, con sr. 8 marzo 1815 (CLV 1815, parte
II, pp. 234-291) e pubblicato assieme alla notificazione 1 giugno 1815 (CLV 1815, parte I, pp. 241-252) con la
quale si annunciava l'attivazione di un dipartimento di censura; sull’instaurazione e l’operato del dipartimento
censura in Veneto si vedano soprattutto V. Malamani, La censura austriaca delle stampe nelle provincie venete
(1815-1848). L’organamento, «Rivista storica del Risorgimento italiano», I (1895), pp. 489-521; S. Cella,
Censura e regime della stampa nel Veneto fra il 1813 e il 1866, in I problemi dell’amministrazione austriaca, pp.
237-250; A. Caracciolo Aricò, Censura ed editoria (1800-1866), in Storia della cultura veneta. 6: Dall’età
napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza, Neri Pozza, 1986, pp. 81-98: 81-85; G. Berti, Censura e
circolazione delle idee nel Veneto della Restaurazione, Venezia, Deputazione di storia patria per le Venezie,
1989, pp. 1 e segg.. Un parallelo ufficio di censura per le province lombarde venne istituito solo l'anno
successivo, secondo quanto prescritto dalla sr. 23 marzo 1816 portata con notificazione 22 aprile (AG 1816, vol.
I, parte I, pp. 353-357) e rimase in vigore per tutto il Vormärz; cfr. M. Berengo, L'organizzazione della cultura
77
In altre parole, i testi legali e giuridici competevano alle autorità giudiziarie. Tale procedura di
controllo, sicuramente dispendiosa, doveva stare stretta ai consiglieri dei tribunali lombardo-
veneti, come si deduce dalle relative discussioni senatorie registrate nei protocolli di
consiglio30
.
La parte teorica della «Giurisprudenza pratica» non va tuttavia sottovalutata: le traduzioni dei
lunghi articoli tratti dal viennese «Jährlicher Beytrag zur Gesetzkunde und
Rechtswissenschaft in den Oesterreichischen Erbstaaten» di Franz von Zeiller – curatore dello
stesso periodico31
– e dell'allievo di quest'ultimo, il professore di diritto Franz von Egger32
,
pur pubblicate molti anni dopo la versione originale, ne sono esempi importanti.
Esclusivamente e programmaticamente di traduzioni si componeva l'altra rivista menzionata
dal Lampato, il veneziano «Giornale di giurisprudenza austriaca»33
(1839-1846), curato
dall'avvocato Leone Fortis, traduttore anch'egli di letteratura giuridica tedesca34
. Il Giornale
era, di fatto, la versione in italiano di alcune parti della «Zeitschrift für österreichische
nell'età della restaurazione, in Storia della società italiana. Vol. XV: Il movimento nazionale e il 1848, Milano,
Teti, 1986, pp. 45-88: 68-69. 30
Cfr. ad esempio la Sessione 29 gennaio 1817, ASMi, SLV, b. 79, cc. 255-256. 31
Gli articoli di Franz von Zeiller contenuti nel «Jährlicher Beytrag zur Gesetzkunde und Rechtswissenschaft in
den Oesterreichischen Erbstaaten» (1806-1811), intitolati Nothwendigkeit eines bürgerlichen, einheimischen
Privat-Rechts. Eigenschaften eines bürgerlichen Gesetzbuches; Zweck und Principien der Criminal-
Gesetzgebung. Grundzüge zur Geschichte des Oesterreichischen Criminal-Rechts. Darstellung der, durch das
neue Criminal-Gesetzbuch bewirkten, Veränderungen sammt ihren Gründen, Bd. 1 (1806), pp. 1-71, 71-185, e
Grundsätze über die Haupteigenschaften einer Criminal-Gerichtsordnung. Beschluß der Darstellung der, durch
das neue Oesterreichische Criminal-Gesetzbuch bewirkten, Veränderungen sammt ihren Gründen, Bd. 2 (1807),
pp. 1-98, vennero pubblicati nella «Giurisprudenza pratica secondo la legislazione austriaca» con i titoli
Necessità di un diritto civile patrio. Cenni fondamentali sull'istoria del Diritto Civile in Austria. Requisiti di un
Codice Civile; Scopo e principi della Legislazione Criminale, XXI (1833), pp. 67-167; Commenti sulla
Procedura Criminale Austriaca. 32
L'articolo di Egger fu pubblicato in due puntate nella «Giurisprudenza pratica secondo la legislazione
austriaca» con il titolo Dissertazioni e commenti sulla giurisprudenza e scienza politico-legale austriaca.
Osservazioni critiche del cons. aulico e professor di diritto a Virzburgo G. A. Kleischrod sul Codice Penale
Austriaco, e risposte del prof. di diritto criminale presso l’Università di Vienna Francesco Egger, XXV (1841),
parte II, pp. 3-19 e XXVI (1842), parte II, pp. 3-29. La versione originale apparve nello «Jährlicher Beytrag zur
Gesetzkunde und Rechtswissenschaft in den Oesterreichischen Erbstaaten» 1 (1806), pp. 214-232 e 2 (1807), pp.
99-130 – senza titolo ed indicazione dell'autore. Su Egger si veda G. Oberkofler, Franz von Egger, in Juristen in
Österreich, pp. 113-116. 33
L'unica eccezione è rappresentata da alcuni articoli di Francesco Martarelli nel vol. VII (1846), compilati
appositamente per la rivista; si tratta in parte di contributi relativi al diritto commerciale, regolato «nelle
provincie tedesche […] con leggi in molti punti diverse da quelle del nostro Regno»: Nota del Compilatore,
«Giornale di giurisprudenza austriaca», VII (1846), p. 21. Come per la rivista dello Zini, anche il Giornale del
Fortis era diviso in due parti: la prima, più corposa, consisteva in traduzioni di contributi, casi pratici, commenti
alla legislazione austriaca e straniera; seguiva un bollettino di leggi e segnalazioni delle più recenti pubblicazioni
giuridiche. 34
Sul punto si veda E. Brol, Antonio Salvotti promuove a Venezia la prima traduzione italiana del “Sistema del
Diritto Romano Attuale” del Savigny, in Atti del I° Convegno Storico Trentino. Relazioni fra il Trentino e le
Provincie Veneto-Lombarde nel secolo decimonono, Rovereto, Manfrini, 1955, pp. 5-62: 12-13.
78
Rechtsgelehrsamkeit und politische Gesetzkunde» (1825-1849)35
– alla quale talvolta
attingeva pure la rivista dello Zini – fondata dall'avvocato Vincenz August Wagner36
,
assessore della Commissione aulica di legislazione in affari giudiziari ed egli stesso in
contatto stretto con moltissimi giuristi stranieri37
. Dopo la prematura morte di quest'ultimo
(1833), la rivista fu continuata da Thomas Dolliner, membro della medesima Commissione e
professore di diritto all'Università di Vienna, da Joseph Kudler, consigliere effettivo di
Governo e professore nella stessa Università, e da Moritz Fränzl, professore presso
l'Accademia Teresiana di Vienna. Scorrendo gli indici della Zeitschrift si evince, per altro,
come anch'essa talvolta ospitasse nelle sue pagine articoli di giuristi lombardi e veneti e ne
recensisse puntualmente i lavori. Interessante è rilevare che la censura veneziana aveva
permesso la pubblicazione del «Giornale di giurisprudenza austriaca» solo a patto che la
traduzione degli articoli fosse pedissequa e priva di commenti da parte de traduttore: tale
prescrizione, ribadita nel 184138
, evidentemente non impedì al curatore, come vedremo tra
breve, di introdurre alcuni articoli con brevi note.
Dal terzo numero la rivista iniziò ad includere anche qualche articolo tratto dal viennese «Der
Jurist: eine Zeitschrift vorzüglich für die Praxis des gesamten österreichischen Rechts» (1839-
1849) dell'avvocato Ignaz Wildner.
Come per la rivista di Zini, importantissima è la funzione che il Giornale del Fortis svolse nel
campo della diffusione degli studi di diritto criminale39
, sovente elaborati da giuristi che
operavano come consiglieri nei tribunali delle altre province dell'impero o che ricoprivano un
ruolo di primo piano entro gli organi centrali preposti all'elaborazione legislativa.
Il diritto civile era certo l'argomento preponderante del periodico; tuttavia si registra una
significativa presenza non solo di illustrazioni pratiche di casi criminali, ma anche di
importanti interventi relativi alla teoria del diritto penale. L'altezza cronologica di
pubblicazione del Giornale è per altro caratterizzata da una relativa – se paragonata ai decenni
precedenti – apertura dell'approccio giuridico, che coinvolgeva pure le delicatissime materie
criminali. Un «affiorare sempre più impetuoso di una visione moderna e liberale della
35
Dal 1846 il titolo muta in: «Österreichische Zeitschrift für Rechts- und Staatswissenschaft». 36
La rivista di Wagner, fondata nel 1825 e cessata nel 1849, era la continuazione dei «Materialen für
Gesetzkunde und Rechtspflege, in den Oesterreichischen Erbstaaten» (1815-1824), compilati dal consigliere
dell'Oberste Justizstelle ed assessore della Commissione aulica di legislazione in affari giudiziari Carl Joseph
Pratovebera. Sulle due riviste cfr. Dölemeyer, Zur Frühgeschichte des juristischen Zeitschriftenwesens. 37
Ibidem, p. 276. 38
Berti, Censura e circolazione delle idee, p. 402. 39
Berti deduce da fonti censorie che la tiratura della rivista fu costantemente di 1000 copie (Ibidem).
79
realtà»40
che, identificato da Alessandro Galante Garrone quale cifra della produzione
giornalistica lombarda e della sua evoluzione negli anni Trenta e Quaranta – e in riferimento
specifico, tra l'altro, alla «Giurisprudenza teorico-pratica» dello Zini – si può a ragione
estendere al Veneto.
Anche grazie a questo clima culturale, la rivista del Fortis poté divulgare, nelle province
italiane, articoli in cui venivano discussi e messi sotto esame, con un dichiarato spirito critico,
alcuni principi fondanti del sistema giudiziario e del diritto penale austriaco: ad esempio, la
sovrapposizione tra giudice inquirente e giudice relatore, valutata dal consigliere d'appello
della Moravia e della Slesia Joseph Kitka – in un contributo pubblicato già nel primo numero
del Giornale41
– inopportuna e sconveniente; la stessa procedura penale inquisitoria, alla quale
il professore dell'università di Innsbruck Hieronymus von Scari riconduceva la troppo
frequente impunità dei delitti e allo stesso tempo, in un'ottica garantista, l'abuso di punizioni e
minacce (ossia torture, sintetizza von Scari senza mezzi termini) subite dagli imputati nel
corso delle lunghe inquisizioni, poiché «anche la miglior volontà del legislatore più sapiente
fallirebbe nel tentativo di rendere sopportabile l'aspra pena delle carceri d'inquisizione, o dei
costituti in una procedura secreta d'inquisizione, in cui lo scopo principale è di ottenere la
confessione»42
; ancora, il Giornale pubblicò un articolo sulla necessità di introdurre alcune
radicali riforme nel processo penale, discusse dall'attuario presso il Tribunale criminale di
Vienna Eduard Krenn43
.
I temi trattati denotano, indubbiamente, una maggior libertà di analisi, sottolineata da Fortis in
una nota apposta all’ultimo degli articoli sopra menzionati: «La franchezza, ond’è qui preso in
esame il bisogno di riformare l'attuale sistema di procedura criminale, onora ad un tempo e
40
Galante Garrone, I giornali della Restaurazione, p. 200. 41
G. Kitka, Se sia opportuno che l'inquirente sostenga l'ufficio di relatore del processo ultimato, e approntato
per la prolazione della sentenza. Discorso inteso a stabilire una più retta applicazione del §425 della Parte
prima del Codice Penale, «Giornale di giurisprudenza austriaca», I (1839), pp. 34-48; il traduttore non viene
indicato. L'articolo originale di Kitka, dal titolo Beytrag zur richtigeren Anwendung des §425 des Str. G. B. I.
Theils, in Beziehung auf die Beantwortung der Frage: ob es zweckmäßig sey, den Inquirenten zugleich auch als
Referenten über die geschlossene, zur Urtheilsschöpfung übergebene, Untersuchung zu bestimmen, è tratto dalla
«Zeitschrift für österreichische Rechtsgelehrsamkeit und politische Gesetzkunde», 1833, 1, pp. 17-35. 42
De Scari, Osservazioni contro due accuse, p. 281. Secondo von Scari, se la confessione era il risultato al quale
l'intera inquisizione doveva ambire, ne conseguiva un giudizio molto severo, da parte dei magistrati, nei
confronti degli imputati non confessi: gli inquisiti bugiardi, al legittimo e naturale scopo di salvarsi la vita o
evitare molti anni di carcere, erano paradossalmente considerati dai giudici «uomini caparbi e ostinati»,
«perturbatori dello Stato», «schernitori dell'autorità giudiziaria». Ibidem, pp. 299-300. 43
E. Krenn, Della necessità d'introdurre riforme nella procedura criminale, Memoria del signor Eduardo Krenn
(tradotta da Antonio Michielini, alunno di concetto del Magistrato Camerale di Venezia), «Giornale di
giurisprudenza austriaca», VII (1846), pp. 213-303; originariamente pubblicata nella «Zeitschrift für
österreichische Rechtsgelehrsamkeit und politische Gesetzkunde», 1846, 1, pp. 16-65 e 93-117 con il titolo
Ueber Reformen im Criminalverfahren. Si noti che l’indicazione della collocazione originaria dell’articolo
fornita dal «Giornale di giurisprudenza austriaca» è errata.
80
l'Autore ch'entrò in siffatta discussione, e il Giornale che l'accolse, e il Governo che la
permise». Con un occhio attento alla peculiarità lombardo-veneta, alla storia delle sue
istituzioni giudiziarie e alla sua cultura giuridica, il compilatore affermava che «le dottrine»
esposte nell'articolo sarebbero state gradite ai lettori lombardi e veneti, perché, pur non
essendo esse nuove, «massime per l'Italia, dove primi furono a bandirle un Filangeri, un
Beccaria, un Verri, un Pagani; e dove le corrispondenti istituzioni […] erano vive e già ne'
costumi radicate, al cadere del Regno Italico; nuovo è però il conforto che ci viene dal vedere
gli scrittori austriaci seriamente trattare della pratica possibilità di adottarle». L’articolo di
Krenn avanzava infatti proposte sostanziali: l’integrazione della struttura inquisitoria del
processo criminale austriaco, definito dall’autore quale «edificio minacciante ruina», con
elementi accusatori; l'introduzione, per quanto cauta, di alcune forme di pubblicità e oralità
nella procedura penale; la riforma in senso più flessibile del sistema probatorio; la totale
riorganizzazione delle carceri (argomento che, dagli anni Trenta, sarebbe stato molto
disquisito anche in ambiti disciplinari non strettamente giuridici44
); una maggiore restrizione
della libertà dei tribunali nella concessione delle riduzioni di pena, da affiancarsi alla
correzione, in senso mitigante, delle disposizioni troppo severe del codice penale. La pubblica
discussione di questi principi era resa possibile, secondo Fortis, dalla lungimirante
permissione del governo austriaco di attuare un «libero esame di quelle riforme, che nel
volger del tempo si andarono introducendo fra le più incivilite nazioni, e già stanno per essere
introdotte in presso che tutti gli stati tedeschi». E così il compilatore intravedeva una nuova
tendenza della giurisprudenza austriaca, collocando l'articolo di Krenn e i precedenti
interventi di Kitka e di Scari sopra menzionati, in una medesima linea di continuità45
.
Significativamente, proprio le pagine del «Giornale di giurisprudenza austriaca» ospitarono,
nel 1846, la traduzione di un'ampia recensione all'importantissima opera di Karl Mittermaier –
44
Molti sono ad esempio gli articoli degli «Annali universali di statistica» dedicati alla questione carceraria. Con
un approccio ad un tempo statistico, criminologico e “sociologico”, essi danno soprattutto notizia di opere
straniere sull'argomento, riassumendole e commentandole. Si veda ad esempio G. Scacchi, Lezioni statistiche
intorno alle prigioni, al loro miglioramento, ed alla forma morale dei detenuti, e de' prigionieri liberati di N. H.
Julius dottore in medicina. Berlino 1828 (recensione), «Annali universali di statistica, economia pubblica, storia,
viaggi e commercio», XX (1829), 58 pp. 36-61 e A. P. (non firmato), Del sistema penitenziario in rapporto alle
discussioni elevate in Francia onde applicarlo come riforma dell'attuale sistema delle prigioni, pubblicato a
puntate nei volumi LV (1838), 163, pp. 17-36; LVI (1838), 168, pp. 271-285; LVIII (1838), 174, pp. 261-281.
Dal vol. LX (1839), e da allora quasi in ogni fascicolo, la rivista avrebbe ospitato la rubrica «Notizie recenti
sopra il sistema penitenziario», talvolta con informazioni relative alle carceri del Regno Lombardo-Veneto.
Sull’attivo dibattito relativo alla riforma carceraria apertosi in Lombardia nel corso del Vormärz (con una
particolare attenzione agli interventi e gli articoli del già citato Giuseppe Saleri), cfr. La questione penitenziaria
nel Risorgimento. 45
Nota del Compilatore a Krenn, Della necessità d'introdurre riforme, pp. 213-214.
81
la quale, spiegava ancora Fortis, aveva «levato sì grande romore […] in tutta Europa»46
– sul
sistema accusatorio: Die Mündlichkeit, das Anklageprinzip, die Oeffentlichkeit und das
Geschwornengericht in ihrer Durchführung in den verschiedenen Gesetzgebungen dargestellt
del 1845, pubblicato in traduzione italiana solo nel 1848.
La tendenza a trattare criticamente questioni penali e istituti giudiziari dalla notevole
rilevanza politica (l'oralità e la pubblicità dei processi, la giuria popolare, l'intimo
convincimento del giudice, la difesa tecnica), con un'ottica sostanzialmente riformista, si
afferma definitivamente nei più tardi «L'eco dei tribunali» (1850-), veneziano, diretto
dall'avvocato Paride Zajotti junior – egli stesso traduttore di importanti opere giuridiche,
come quella, più avanti esaminata, di Anton Hye-Gluneck47
– e «Giornale per le scienze
politico-legali teorico-pratico» (1850-1852) con il suo supplemento «Gazzetta dei Tribunali»,
milanese, compilato per cura di Luigi Po e Felice Bellone, teso, come viene dichiarato nel
Piano del giornale del primo numero, verso una indagine teorico-filosofica di più ampio
respiro48
. Di natura molto più pragmatica – pur non esclusivamente tale, come abbiamo visto
nel primo capitolo – il veneziano «Giornale di giurisprudenza pratica» (1846-1862) curato da
Luciano Beretta, ascoltante presso il Tribunale di Venezia, e Giovanni G. Putelli49
. Stando ai
46
I. Wildner, Mittermaier, Die Mündlichkeit... (recensione, con introduzione del compilatore), «Giornale di
giurisprudenza austriaca», VII (1846), pp. 304-316; pubblicato in versione originale in «Der Jurist: eine
Zeitschrift vorzüglich für die Praxis des gesamten österreichischen Rechts», I (1845), pp. 512-516. 47
Sull'attività di traduttore di Paride Zajotti junior, incoraggiata dal consigliere aulico Antonio Salvotti, amico e
collega del padre, si veda Brol, Antonio Salvotti promuove a Venezia. Nell'articolo sono riportate le lettere di
Salvotti a Zajotti concernenti, in particolare, la traduzione del Sistema del diritto romano attuale del Savigny, che
era stato maestro di Salvotti a Landshut. Tra di esse vi è inoltre notizia degli accordi presi tra Hye, Salvotti e
Zajotti per la traduzione di quest'ultimo dei commenti al codice penale ed alla procedura dello Hye. Cfr.
soprattutto le lettere 1 luglio e 16 luglio 1852, pp. 47-48. 48
[L. Po, F. Bellone], Piano del giornale, «Giornale per le scienze politico-legali teorico-pratico», tomo 1
(1850), pp. V-XII. 49
Qualche informazione sulle riviste qui citate sono reperibili in F. Ranieri, B. Dölemeyer, Italien, in Gedruckte
Quellen, pp. 489-553: 509-511. Per l'individuazione delle riviste giuridiche venete utile è anche S. Cella, Profilo
storico del giornalismo nelle Venezie, Padova, Liviana, 1974, che contiene un indice abbastanza completo dei
periodici pubblicati in Veneto, divisi per provincia. Delle ultime tre riviste qui citate – «L'eco dei tribunali», il
«Giornale per le scienze politico-legali teorico-pratico» e il «Giornale di giurisprudenza pratica» – parla
diffusamente anche Karl Mittermaier, in un suo lungo articolo tradotto e pubblicato in dieci puntate tra il 1851 e
il 1852 con il titolo Sullo stato attuale della giurisprudenza d'Italia, con esame dei libri e giornali di
giurisprudenza più importanti pubblicati in Italia da tre anni, proprio sulle pagine dell'«L'eco dei tribunali», e
precisamente nelle annate I (1850-1851), 73, pp. 577-579 e 74, pp. 585-586; II (1851-1852), 108, pp. 97-99 (da
questo numero il titolo diventa: Sullo stato attuale delle scienze legali in Italia, con esame delle opere e dei
giornali legali più importanti pubblicati in Italia da tre anni); 109, pp. 105-107; 148, pp. 421-423; 149, pp. 429-
432; 174, pp. 629-633 e 175, pp. 637-642 (in queste due ultime puntate il sottotitolo è: Specialmente riguardo
alla legislazione e giurisprudenza penale); III (1852-1853), 222, pp. 179-181 e 223, pp. 185-188 (in queste due
ultime puntate viene aggiunto il sottotitolo: Specialmente riguardo al diritto e processo civile e al diritto
cambiario). L'articolo, in versione originale, era uscito, in cinque puntate, nella «Kritische Zeitschrift für
Rechtswissenschaft und Gesetzgebung des Auslandes», diretta dallo stesso Mittermaier, con il titolo Ueber den
gegenwärtigen Stand der Rechtswissenschaft in Italien: mit Prüfung der bedeutendsten seit drei Jahren in Italien
erschienenen rechtswissenschaftlichen Werke und Zeitschriften, pubblicato nel Bd. 23 (1851), pp. 298-310 e 471-
82
protocolli di consiglio del Senato, già sul finire del 1844 il presidente della Polizeihofstelle
aveva chiesto alla suprema magistratura lombardo-veneta se da parte di quest'ultima nulla
ostasse alla pubblicazione del «Giornale di giurisprudenza pratica». Il Senato diede il suo
consenso, sotto le condizioni tuttavia di non pubblicare i nomi delle parti dei processi, nonché
di «astenersi da qualunque osservazione sia in lode che in biasimo delle emanate sentenze e
dei motivi a cui si appoggiano»50
.
I periodici giuridici costituiscono quindi una fonte importantissima che permette di misurare
nel modo più puntuale il tipo, il livello e anche gli spazi di libertà dell’elaborazione
giurisprudenziale nel Regno Lombardo-Veneto. Proprio la diffusione di essi, accanto alla
produzione di opere monografiche, compilate o tradotte dai giuristi lombardi e veneti,
denuncia la presenza nel Regno di un attivo e dinamico clima di scambio ed elaborazione
giuridica. È in questo contesto culturale e comunicativo che va collocato il discorso teorico
sulla pena di morte e sulla grazia sovrana.
3. Le giustificazioni della pena di morte
Con la reintroduzione della pena di morte – giustificata dal già menzionato decreto 29 ottobre
1803 come una urgenza politica, indipendente dall'«allgemeinen Charakter der Nation»51
, e
depurata da qualsiasi esacerbazione, sulla linea degli assunti dell'illuminismo giuridico52
– i
giurisperiti austriaci e lombardo-veneti del Vormärz si trovarono necessariamente a misurarsi,
soprattutto a codice appena introdotto, pur non mettendola mai radicalmente in discussione.
Nonostante la consonanza di opinioni sulla legittimità teorica della pena capitale, vale la pena
di osservare nel dettaglio le argomentazioni che la sostenevano onde individuarne il generale
orientamento e misurarne le eventuali tracce nella concreta prassi giudiziaria; argomentazioni,
si rileva subito, attinte da una comune sfera non solo concettuale ma anche lessicale, il che
denuncia un certo grado di circolazione ed assimilazione di questo discorso giuridico (nonché,
486, e nel Bd. 24 (1852), pp. 141-156, 284-312 (con l'aggiunta del sottotitolo Insbesondere in Bezug auf die
Strafgesetzgebung und Strafrechtswissenschaft) e pp. 459-474 (con l'aggiunta del sottotitolo Insbesondere in
Bezug auf bürgerliches Recht, bürgerlichen Prozess und Handelsrecht). Nelle prime due puntate (o nella prima,
se si consulta la versione originale) il giurista si sofferma dettagliatamente sulle tre riviste, esprimendo su di esse
un giudizio complessivamente positivo, evidenziandone le tendenze giuridiche e, per certi versi, politiche, e
passando in rassegna tutti gli articoli pubblicati fino a quella data. Anche la puntata dell'anno II (1851-1852), n.
175, pp. 641-642 torna sugli articoli dedicati specificamente alle materie penali pubblicati ne «L'eco dei
tribunali» e nel «Giornale per le scienze politico-legali teorico-pratico». L'articolo di Mittermaier viene
menzionato anche da M. Sbriccoli, La penalistica civile. Teorie e ideologie del diritto penale nell'Italia unita, in
Stato e cultura giuridica in Italia dall'Unità alla repubblica, a cura di A. Schiavone, Roma-Bari, Laterza, 1990,
pp. 147-232: 147-148. 50
Grandi, Processi politici, p. 576. 51
Hofkanzley-Decret vom 29ten October 1803. 52
Vinciguerra, Idee liberali, p. XXX-XXXI.
83
probabilmente, una scarsa originalità della produzione individuale).
Anzitutto, emerge sovente nei testi giuridici presi inconsiderazione una più o meno esplicita
contrapposizione a Beccaria, il confronto con il quale era, si potrebbe dire, d'obbligo.
Osservava ad esempio Giuseppe Resti Ferrari, in riferimento a Dei delitti e delle pene, che
contro la legittimità della pena di morte
indarno speciosi argomenti si oppongono e quello singolarmente che l'uomo non è padrone di
uccidersi e che dovea esserlo, se ha potuto dare questo diritto alla società. Siffatto principio, se pur
procedesse, non quella sola di morte, ma le altre pene renderebbe egualmente illegittime ed ingiuste,
perché sono sempre mali diretti contra il ben essere e la conservazione dell'individuo, contra cioè la
prima e immutabile legge della natura53
.
La stessa riflessione venne sviluppata da Gian Domenico Romagnosi54
; l'autore del codice di
procedura penale del Regno Italico – nonché redattore, dal 1827, degli «Annali universali di
statistica»55
– traeva spunto da una lettera diramata dalla «Society for the diffusion of
information of the subject capital punishments», propugnante l'abolizione della pena di morte
in Inghilterra – comminata, riconosce Romagnosi, per una «spaventevole» quantità di delitti –
per illustrare le sue opinioni antiabolizioniste. La proposta della Società viene sbrigativamente
liquidata come «esaltazione moderna di filantropia» che, parte per «dabbenaggine
romanzesca», parte per «rivolta al senso comune», sarebbe degenerata in «puritanismo
legale», ossia nella messa in discussione del diritto di punire tout court. Ammesso che la
società non possa vantare diritti sulla vita degli uomini, argomenta Romagnosi, essa non
dovrebbe disporre neanche della loro libertà; qualsiasi pena sarebbe quindi illegittima. Il
ragionamento qui esposto – ossia l'estensione della presunta illegittimità della pena capitale
all'intero ventaglio punitivo, dimostrando per assurdo l’irragionevolezza della posizione
abolizionista – torna sovente nei trattati successivi; «se la giustizia, e con essa lo scopo sociale
non lo impongono» – affermava Nicolò Foramiti, commentando il §12 del codice penale del
1852, analogo al §9 della Franziskana – «è tanto ingiusta la pena di un giorno di carcere
53
Resti Ferrari, De’ giudizi criminali, tomo I, p. 70. 54
G. D. Romagnosi, Society for the diffusion of information of the subject capital punishments – Società per la
propagazione delle notizie sulle pene capitali, «Annali universali di statistica, economia pubblica, storia, viaggi e
commercio», XXIII (1830), 67, pp. 123-139; l’articolo venne riproposto con il titolo Sulla pena capitale nella
«Giurisprudenza pratica secondo la legislazione austriaca attivata anche nel Regno Lombardo-Veneto», XIII
(1830), pp. III-XX. 55
Sulla collaborazione di Romangosi alla rivista cfr. R. Ghiringhelli, Gian Domenico Romagnosi e gli «Annali
universali di statistica» (1827-1835), «Il Risorgimento», XXXII (1980), 3, pp. 221-280.
84
quanto quella di morte»56
.
I testi esaminati riconducono poi la necessità della pena di morte a ragioni di proporzionalità.
Proprio il bilanciamento del rapporto tra delitto e sanzione – spiegava Franz von Zeiller, in un
articolo tradotto e pubblicato nella «Giurisprudenza pratica» e tratto dal suo «Jährlicher
Beytrag» – richiedeva il ricorso alla pena capitale come opzione punitiva. Se per alcuni delitti
venivano comminate detenzioni molto lunghe e severe, talvolta amplificate da inasprimenti, i
delitti ancor più gravi, di conseguenza, avrebbero dovuto essere proporzionalmente puniti con
ulteriori esacerbazioni: ma
concesso che una dura e diuturna pena riesca per molti peggior della morte, dovrà il legislatore
spingersi ancor più oltre ed esacerbare il supplizio del carcere? Vi sono patimenti che per necessità
devono a poco a poco produr la morte, e ad un tempo stesso si devono sottrare allo sguardo dei
cittadini per non esasperarne gli animi o imbarbarirli. Siffatte pene non sono in realtà che un modo
assai aspro di morte, che è il male appunto che volevasi risparmiare, e siccome i cittadini non ne
ricevono una impressione adeguatamente energica, il tutto traligna in una inutile crudeltà57
.
La pena capitale sarebbe quindi stata, secondo il consigliere aulico, paradossalmente più
pietosa, ma anche pubblicamente efficace, di una pena detentiva eccessivamente inasprita:
una considerazione che, pur in parte ribaltando la consueta argomentazione sul valore
deterrente della pena di morte proprio in quanto spaventosa, va a toccare un altro importante
punto sul quale facevano leva le voci a sostegno dell'opportunità di essa, ossia, appunto, la sua
efficacia pubblica.
A tale efficacia Sebastian Jenull – allora professore di scienze politiche (politische
Wissenschaften) e di diritto privato e criminale austriaco a Graz – subordinava la scelta del
legislatore austriaco di non prevedere esacerbazioni alle esecuzioni capitali: esse «movendo a
compassione gli astanti gli inaspriscono contro la legge, certo essendo che il pubblico non si
diparte mai da questo punto di vista, vero o non vero, essere inumana qualunque inflizione di
male ulteriore a chi soffrir deve la morte»58
.
Il principio di proporzionalità testé evocato veniva per altro declinato da Jenull, oltre che sul
piano strettamente normativo, anche su quello, per così dire, geografico, interno alla stessa
56
N. Foramiti, Manuale del nuovo codice penale austriaco sui crimini, sui delitti e sulle contravvenzioni e del
regolamento sulla stampa del 27 maggio 1852, Parte I, Venezia, Cecchini, 1852, p. 35. 57
De Zeiller, Scopo e principi della Legislazione Criminale, p. 98. Sulle osservazioni di von Zeiller cfr. Garlati,
Il volto umano della giustizia, p. 105. 58
Jenull, Commentario sul codice, vol. I, p. 271.
85
compagine imperiale. Pubblicando il primo volume del suo commentario al codice nel 1808,
il giurista sosteneva infatti l'opportunità di
avere riflesso alle altre leggi penali ancor sussistenti nella nostra monarchia, per non urtare troppo
fortemente con una aperta diversità nel rigore quella classe numerosa di cittadini, la quale non è punto
istrutta de' motivi, e de' rapporti; imperciocché secondo le leggi penali, militari ed ungheresi [si legga:
secondo le leggi penali militari e le leggi penali ungheresi («Nach den militärischen und hungarischen
Strafgesetzen»59
), nda.], sono comminate le pene di morte anche per delitti meno gravi, senza che
potesse essere facile al governo di fare un pronto cambiamento nelle stesse60
.
Ancora a ragioni di proporzionalità, e con uno sguardo retrospettivo attento al codice appena
sostituito e all'esperienza della sua applicazione, riconduceva la necessità della pena capitale
il consigliere del Ministero della giustizia Anton Hye61
nel suo commento al §12 del codice
del 1852; solo essa, affermava il consigliere, si sarebbe rivelata adeguata a proteggere la
società e i singoli individui «contro gli attacchi più pericolosi e contro i delinquenti più
snaturati». Un giudizio di questo tenore va naturalmente interpretato alla luce delle esperienze
rivoluzionarie del 1848-1849 e, in particolare, dell'opinione negativa di Hye, esplicitamente
argomentata, sulla contestuale temporanea sospensione – cui si accennava nel primo capitolo
– delle esecuzioni capitali nei processi ordinari in attesa di riforme del codice penale. La
definizione quasi “bellicosa” che il giurista dà della pena di morte quale «estremo mezzo di
difesa» dello Stato, se da una parte denuncia il clima politico neoassolutistico dei primi anni
Cinquanta, dall'altra segnala tuttavia un diffuso orientamento interpretativo: la morte del reo,
come avrebbero dimostrato «la psicologia e l'esperienza […] allorché sia certo che sarà
immancabilmente seguita, è, quanto a minaccia, la pena che incute maggior terrore
all'intelletto, alla fantasia e all'apprensione degli uomini, e quindi quella che relativamente
vale di più a trattenere dai misfatti»62
.
La natura intimidatoria dei supplizi capitali, sottolineata con forza da Hye, è un perno attorno
al quale anche i giuristi del Vormärz costruiscono parte delle loro argomentazioni. «Vi sono
alcuni delitti» notava ancora Sebastian Jenull «la premeditazione de' quali è così orribile ed
anche il pericolo che ne deriva così grave, che è duopo presupporre nei delinquenti una sì
59
Jenull, Das Österreichische Criminal-Recht, Parte I, p. 168. 60
Jenull, Commentario sul codice, vol. I, p. 174. 61
Notizie biografiche su Hye si ricavano da G. Oberkofler, Anton Joseph Freiherr Hye von Glunek, in Juristen in
Österreich, pp. 152-155. 62
Hye, Il codice penale austriaco sui crimini, pp. 61-72.
86
grande ed ostinata malvagità, che il solo timore del massimo de' mali sensibili, la morte, sia
bastante a reprimerla»63
.
Le ragioni di equità proporzionale, utilità pubblica e valenza dissuasiva, secondo tale
approccio giuridico, potevano essere garantite solo da un'attuazione molto sporadica delle
esecuzioni capitali. È proprio questa l'effettiva declinazione pratica, verificabile alla prova dei
concreti casi giudiziari, del discorso teorico intorno alla pena di morte elaborato nel corso dei
primi decenni dell'Ottocento dai giurisperiti lombardi, veneti e austriaci. Una pena che, sulla
scorta delle asserzioni più moderate dell'illuminismo giuridico64
– pur legittima, utile ed
opportuna – è sempre definita quale rimedio estremo da utilizzare in casi estremi, un
«tristissimo diritto», benché «sovra ogni altro necessario»65
; la cui reintroduzione nelle
province dell'impero austriaco, limitatamente ad alcuni «atrocissimi delitti»66
, viene attribuita
a gravi necessità politiche e sociali; una pena così tratteggiata doveva insomma essere rara,
eccezionale, nonché sottoposta a rigidi sistemi di garanzia e controllo preventivi e retroattivi,
tra i quali, appunto, la grazia sovrana.
La cautela con cui le sanzioni capitali avrebbero dovuto essere applicate viene auspicata, nei
testi giuridici, su un triplice livello: quello normativo, ossia relativo alla quantità di delitti per
i quali il codice comminava la pena di morte; quello della procedura, che in questo senso
prevedeva, come già si è avuto modo di osservare, alcune garanzie interne al sistema
probatorio atte ad impedire, in molti casi, la pronuncia di sentenze capitali; quello, infine,
della pratica giudiziaria, vale a dire il numero di condanne concretamente inflitte dai tribunali,
nonché di quelle effettivamente approvate dall'imperatore e quindi eseguite. «Abbisogna che
questa pena sia rara quanto più sia possibile» affermava, in considerazione all'effetto pubblico
ed esemplare dell'esecuzione, il consigliere del Tribunale di prima istanza di Mantova
Giuseppe Resti Ferrari, in un passo delle sue Istruzioni che ha come esplicito puntello
giuridico le riflessioni di Sebastian Jenull, e come riferimento implicito, probabilmente, la
concreta prassi giudiziaria e il contesto sociale e criminale entro cui egli si trovava, come
giudice, ad operare67
: «se lo spettacolo della morte del malfattore, che di rado si presenti,
63
Jenull, Commentario sul codice, vol. I, pp. 173-174. 64
Cfr. Garlati, Il volto umano della giustizia, pp. 180-181. 65
A. P., Brano storico sulle pene capitali, «Giornale di giurisprudenza austriaca», I (1839), pp. 291-317: 291;
pubblicato originariamente in «Zeitschrift für österreichische Rechtsgelehrsamkeit und politische Gesetzkunde»,
1839, 1, pp. 161-187, con il titolo: Fragment zur Geschichte der Todesstrafen. 66
C. Zorse, Esame dei principj generali della legge criminale vigente nel Regno Lombardo-Veneto di Q. Cesare
Zorse per la sua promozione alla laurea in ambe le leggi nell’I. R. Università di Padova, Padova, Minerva,
1841, p. 53. 67
Stando agli Schematismen, Resti Ferrari, dopo aver detenuto la presidenza del Tribunale di prima istanza di
87
atterrisce il cittadino e produce il salutare suo effetto, la sua frequenza medesima ne scema nel
popolo la impressione, ed avvezzandolo allo spargimento dell'uman sangue ne può gli animi
inferocire»68
.
L'opportunità, suggerita da Resti Ferrari, di mantenere relativamente infrequenti le esecuzioni
capitali – di volta in volta commutabili attraverso lo strumento della grazia – trova effettiva
conferma nella giurisprudenza del Senato Lombardo-Veneto, come si vedrà dettagliatamente
più avanti. Tale tendenza generale viene significativamente dichiarata nella relazione
senatoria sul caso di un omicida milanese redatta dal consigliere Antonio Salvotti, che delle
considerazioni del consigliere mantovano riprende non solo il concetto portante, ma anche
un'identica espressione: «Lo estremo Supplicio onde produr possa un salutare effetto, deve,
nella stessa sua rarità, essere riservato a quegli attroci misfatti, nei quali l’umana natura
presentasi siccome profondamente depravata e corrotta»69
. Sembra che l'avvertimento di Resti
Ferrari e di Salvotti sia sempre tenuto presente dai consiglieri del Senato nelle loro
discussioni: ogni decisione doveva infatti esplicitamente misurarsi con l'impressione che
l'esecuzione avrebbe esercitato sul pubblico; in altre parole, con l'opportunità politica – con il
«salutare effetto», appunto – di essa.
La questione della relativa sporadicità con cui la pena di morte veniva comminata dal codice
franceschino lasciava adito ad un discorso comparativo con altre legislazioni. Oltre al codice
giuseppino, il privilegiato termine di paragone codicistico, soprattutto dai giuristi del Regno
Lombardo-Veneto che ne avevano fatto esperienza diretta, non poteva che essere il
napoleonico Codice dei delitti e delle pene pel Regno d'Italia il quale, ricordiamo, comminava
la pena capitale per un numero più elevato di fattispecie giuridiche; e così, se sovente il codice
austriaco usciva sconfitto dal confronto70
, su questo specifico punto poteva vantare maggior
moderazione, come veniva soprattutto sottolineato nel torno di tempo di passaggio da un
codice all'altro.
L'avvocato milanese Pietro Mantegazza, ad esempio, nelle sue pur a tratti critiche
Osservazioni sul codice austriaco appena introdotto, rilevava come «la pena di morte che
insanguina quasi ogni pagina del Codice Francese renduto già comune all'Italia qual modello
Castiglione delle Stiviere, dal 1819 fu consigliere del Tribunale di prima istanza di Mantova, dal 1825
consigliere d'appello a Milano e dal 1835 al 1838 presidente del Tribunale di prima istanza di Mantova (AIRM e
HHSK 1817-1838). 68
Resti Ferrari, De’ giudizi criminali, tomo I, p. 71. 69
Relazione 3 ottobre 1832, ASMi, SLV, b. 55, fasc. VI. 125-2. 70
Rondini, La scienza criminale, p. 422.
88
di sapienza legislativa, è ora dal Codice Austriaco riservata a pochissimi tra i più gravi delitti;
il che è certamente uno, anzi il più prezioso vantaggio della nuova legislazione»71
. Allo stesso
proposito Resti Ferrari invitava il lettore a scorrere la legge in vigore in periodo italico, ove
avrebbe trovato «assai più copioso il numero dei delitti, onde la pena capitale è minacciata;
vedrassi alcuna volta dal taglio della mano destra preceduta72
; e la stessa vita dell'imputato
commessa al solo intimo convincimento»73
.
È interessante osservare come il confronto con il codice napoleonico non si limitasse alla sfera
della severità normativa, ma andasse a coinvolgere pure quella, più minuta, dello strumento
utilizzato per giustiziare i condannati. Si tratta, certo, di un aspetto apparentemente secondario
del discorso punitivo, che tuttavia ha la sua importanza; da una parte perché esso si inserisce
entro la cornice di un dibattito, per così dire, multidisciplinare – giuridico, ma anche medico
e, in senso più esteso, politico – molto vivace in quei decenni, relativo appunto alle modalità
di esecuzione, alla loro efficienza, ai significati simbolici e alle percezioni popolari ad esse
associati, ai loro effetti in termini di sofferenza subita dai condannati74
; dall'altra perché in
questo ambito di discussione trovano più facilmente spazio pure giudizi più polemici; e infine
perché gli stessi giurisperiti che affrontano la questione si dimostrano consapevoli di quanta
parte avesse il modo esecutivo nel concorrere all'efficacia della messa in scena pubblica della
giustizia criminale.
Nel passo sopra riportato Mantegazza, subito dopo aver elogiato il nuovo sistema penale per
la più cauta previsione della pena capitale, ribaltava il giudizio per quanto concerneva,
appunto, lo strumento di esecuzione scelto dal legislatore austriaco, vale a dire il capestro,
giudicato dall'avvocato troppo crudele, incerto, pericoloso e soprattutto controproducente:
«mentre questo genere di morte è abbastanza atroce per eccitare negli spettatori un sentimento
vivissimo di commiserazione verso il paziente, esso è ben lungi dall'esser tale da servire di
spavento ai malvagi»75
.
Per contro, osservava Sebastian Jenull, l'impiccagione sarebbe stata preferibile alla
ghigliottina – utilizzata, come noto, in Francia, a partire dalle esperienze rivoluzionarie –
perché, a parità di celerità e sofferenza, ad essa l'opinione pubblica tendeva ad associare «un
71
Mantegazza, Alcune osservazioni, pp. 11-12. 72
Su questo punto si veda la nota 14 del primo capitolo. 73
Resti Ferrari, De’ giudizi criminali, tomo I, p. 75. 74
Sul dibattito giuridico e medico, e sull'immaginario popolare associato alla forca e alla ghigliottina cfr.
Baronti, La morte in piazza soprattutto pp. 245-261. 75
Mantegazza, Alcune osservazioni p. 11. Sul giudizio di Mantegazza in merito alla forca si veda anche Garlati
Giugni, Nella disuguaglianza la giustizia, pp. 78-86.
89
certo che di abietto, per cui il malfattore rimane più disonorato, che per qualunque altra specie
di supplizio capitale»76
. Proprio tale percezione di «ignominia»77
avrebbe reso la forca,
secondo Franz von Zeiller ed altri giuristi78
, più idonea allo scopo di cui la condanna capitale
era investita, ossia quello di fungere da esempio deterrente e minaccia preventiva.
Alla questione, e in riferimento ad entrambi i codici penali del 1803 e del 1852, Anton Hye
dedicava una diffusa analisi; fermo restando che l'esecuzione avrebbe dovuto essere sicura,
rapida, meccanica e possibilmente indolore, negli stati austriaci la ghigliottina sarebbe stata
inopportuna, anzitutto, per le immagini da essa evocate:
il pregiudizio profondamente radicato in tutte le classi del popolo ed in questo riguardo certo assai
rispettabile […] per associazione d'idee non potrà abbandonare la triste reminiscenza di quegli atroci
misfatti storici, che furono eseguiti con questa macchina, e che altrettanto criminosi, quanto frutti del
delirio, vollero assumersi l'ipocrita apparenza di un'esecuzione della giustizia79
.
A favore della forca Hye annoverava, come Zeiller e Jenull, anche una trasversale percezione
di infamia, tanto «profondamente radicata in tutti i ceti della società» che, asseriva il
consigliere, «i delinquenti condannati alla morte scorgono un atto di grazia nel non essere
giustiziati colla forca, e spesso supplicano istantemente (per quanto possa sembrare ironico)
d'essere graziati con polvere e piombo»80
.
Nonostante tali “ironiche” suppliche siano in realtà tutt'altro che frequenti, almeno nel Regno
Lombardo-Veneto – tra i procedimenti giudiziari esaminati si è rintracciato un solo caso in cui
il condannato, un omicida cremonese processato nel 1843, chiese appunto di poter essere
giustiziato, in via di grazia che tuttavia non venne concessa, per mezzo di fucilazione o
decapitazione81
– nelle carte processuali i riferimenti alla natura disonorevole della morte per
impiccagione, le cui conseguenze infamanti andavano a ricadere anche sulla famiglia del
76
Jenull, Commentario sul codice, vol. I, p. 176. 77
De Zeiller, Scopo e principi della Legislazione Criminale, p. 102. 78
Della stessa argomentazione si avvale, ad esempio, il consigliere giudiziario Klein in un'opinione riportata nel
commentario del consigliere dell'appello stiriano Joseph Carl von Wagersbach, Handbuch für Kriminalrichter,
Bezirksobrigkeiten und jene die sich zum Kriminalrichteramte vorbereiten, Grätz [Graz], Kienreich, 1812, vol. 1,
p. 54: «Dagegen aber bin ich auch der Meinung, daß, wenn einmahl eine einzige Todesstrafe Statt finden soll, die
Strafe des Stranges sich besser dazu eignet, als irgend eine andere. Denn eben das Schimpfliche, welches mit
dieser Todesart verbunden ist, macht es, daß ich sie der Enthauptung, sie geschehe nun durch Menschen oder
Maschinen, vorziehe». Questo concetto è ripreso anche dal pretore di Casalmaggiore (poi di Varese) Stefano
Arcellazzi, Osservazioni teoriche al codice penale universale austriaco parte prima sezione prima dei delitti e
delle pene, Casalmaggiore, Bizzarri, 1822, p. 70 (AIRM 1822-1823). 79
Hye, Il codice penale austriaco sui crimini p. 477. 80
Ibidem, p. 478. 81
Relazione 26 ottobre 1843, ASMi, SLV, b. 68, fasc. VI. 113-2.
90
condannato, ricorrono sovente82
.
4. La sistemazione concettuale della grazia
D'altro canto la prassi dimostrava, come avrebbe potuto affermare retrospettivamente Hye,
che nei fatti in numero di esecuzioni, vigente la Franziskana, era molto inferiore a quello
delle sentenze capitali pronunciate dai tribunali; proprio in virtù delle correzioni di queste
ultime per mezzo della grazia sovrana83
. Ciò vale, come si illustrerà nei prossimi capitoli,
anche per il Regno Lombardo-Veneto.
Il discorso teorico sulla grazia, elaborato dai giuristi austriaci, lombardi e veneti va collocato
quindi, da una parte, all'interno dei suoi rapporti di reciproca influenza con la prassi
giudiziaria di frequente ricorso alle commutazioni delle condanne a morte, suggerite dai
tribunali entro i quali operavano molti degli stessi autori, traduttori o comunque fruitori dei
contributi teorici sull'argomento; dall'altra nel contesto scientifico di scambio e
comunicazione del sapere giuridico, anche in prospettiva diacronica: tenendo presente,
pertanto, il dibattito dottrinale e filosofico su scala europea che, dalla seconda metà del XVIII
secolo, portò ad una quasi unanime ridefinizione del concetto di grazia84
e che avrebbe
segnato in modo determinante la giurisprudenza dei decenni successivi.
Il primo riferimento – soprattutto per i giuristi italiani – è, naturalmente, Cesare Beccaria:
A misura che le pene divengono più dolci la clemenza ed il perdono diventano meno necessari. Felice
82
Si veda, ad esempio, la supplica dei parenti di uno dei condannati in ASMI, SLV, b. 50, fasc. VI. 202-2, e le
considerazioni del correlatore sul processo in ASMi, SLV, b. 53, 1828, fasc. VI. 1-4: «La famiglia del colpevole
verrà certo stanti li comuni pregiudizi a risentire nella pubblica opinione per la pena capitale di un prossimo
parente molto più, che appare di condizione civile, e che esista una sorella». 83
Hye, Il codice penale austriaco sui crimini, pp. 69-72. 84
Una sintesi dei pareri sulla grazia dei giuristi del XVIII secolo è offerta da G. Zagrebelsky, Amnistia, indulto e
grazia. profili costituzionali, Milano, Giuffrè, 1974, pp. 58-62; T. L. Rizzo, Il potere del Capo dello Stato dalla
Monarchia alla Repubblica, «Rivista della guardia di finanza», II (1998), pp. 581-647: 585-590; M. Pisani,
Dossier sul potere di grazia, Padova, Cedam, 2004, pp. 1-6, ove si trova un'efficace antologia di brani sulla
questione della grazia di Montesquieu, Filangieri, Hegel, Beccaria, Bentham, Romagnosi; E. Tavilla,
«L’attributo il più prezioso della sovranità». Il potere di graziare nell’ordinamento penale ticinese di primo
Ottocento, «Archivio storico ticinese», XLIV (2007), n. 142, pp. 319-340: 321-327; S. Kesper-Biermann,
Giustizia, politica e clemenza. La grazia nella Germania del XIX secolo, in Grazia e giustizia. Figure della
clemenza fra tardo medioevo ed età contemporanea, a cura di K. Härter, C. Nubola, Bologna, Il Mulino, 2011,
pp. 323-357: 326-328. Spesso le considerazioni dei giuristi lombardo-veneti si muovono proprio a partire dagli
autori dei secolo precedente: «Beccaria tenderebbe a provare» – argomenta ad esempio Luigi Oldrati nel suo
commentario al nuovo codice penale austriaco del 1852, in esplicito confronto con quello del 1803 – «che da una
perfetta legislazione dovrebbe escludersi il diritto di grazia. Filangieri parimenti lo rimprovera come
incompatibile alla dolcezza e moderazione della legge, ma osserveremo col gran Montesquieu, che esso è una
molla presente nei Governi moderati, e che la facoltà del principe nel perdonare può avere dei mirabili effetti se
esercitato con sapienza e virtù». L. Oldrati, Codice penale austriaco attualmente in vigore con osservazioni
teorico-pratiche e confronto con l’antecedente abrogato, Milano, Manini, 1852, p. 208.
91
la nazione nella quale sarebbero funesti! La clemenza dunque, quella virtù che è stata talvolta per un
sovrano il supplemento di tutt'i doveri del trono, dovrebbe essere esclusa in una perfetta legislazione
dove le pene fossero dolci ed il metodo di giudicare regolare e spedito […]. Questa verità sembrerà
dura a chi vive nel disordine del sistema criminale dove il perdono e le grazie sono necessarie in
proporzione dell'assurdità delle leggi e dell'atrocità delle condanne […] ma si consideri che la
clemenza è la virtù del legislatore e non dell'esecutor delle leggi; che deve risplendere nel codice, non
già nei giudizi particolari85
.
Il noto e sovente citato passo relativo alle grazie de Dei delitti e delle pene (§XLVI)
riecheggia di continuo nei testi giuridici lombardi e veneti dei primi decenni dell'Ottocento;
talvolta riportato pedissequamente86
, talaltra, come vedremo, “smussato” e depotenziato delle
sue implicazioni più radicali.
Evidenziando la tensione tra potestà di clemenza e legalità87
, i giuristi di fine Settecento
ravvisavano in generale, nello jus aggratiandi – «unter allen Rechen des Souveräns das
schlüpfrigste», per menzionare la celebre definizione kantiana88
–, un «attentato contro la
legge»89
, sintomo di debolezza politica e potenziale incoraggiamento al crimine, nonché
l'inevitabile conseguenza di un modo di amministrare la giustizia criminale inappropriato,
incoerente, crudele e sproporzionato, proprio perciò continuamente soggetto all'irrazionale
possibilità di essere corretto attraverso la «baguette magique» della grazia90
. Tale «tacita
disapprovazione»91
delle norme penali andava auspicabilmente, se non eliminata, quantomeno
arginata entro precisi limiti, depurata del suo carattere arbitrario, utilizzata con estrema
cautela, quale «straordinaria eccezione»; sottratta al giudice, che avrebbe dovuto essere
«suddito alla legge»92
, ed affidata «ad una autorità superiore a quella dei magistrati»93
.
85
Il testo de Dei delitti e delle pene al quale si fa riferimento è quello pubblicato a Livorno nel 1766, su cui si
basa l'edizione curata da F. Venturi, Torino, Einaudi, 1965 (qui pp. 102-104). Nella prima versione de Dei delitti
e delle pene (1764) il paragrafo sulle grazie era infatti assente. 86
Ad esempio il testo è riportato, senza però esplicito riferimento a Beccaria, in F. Foramiti, Enciclopedia legale
ovvero lessico ragionato di gius naturale, civile, canonico, mercantile-cambiario-marittimo, feudale, penale,
pubblico-interno, e delle genti, Venezia, Antonelli, 1842, tomo II, p. 1286. 87
B. Pastore, Potere di grazia, legalità, giustizia, in La grazia contesa. Titolarità ed esercizio del potere di
clemenza individuale. Atti del Seminario, Ferrara, 24 febbraio 2006, a cura di R. Bin, G. Brunelli, A. Pugiotto, P.
Veronesi, Torino, Giappichelli, 2006, pp. 230-234: 232. 88
I. Kant, Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre, Königsberg, Nicolovius, 1797, Teil 2, §49, E, p. 206. 89
G. Filangieri, La scienza della legislazione, Napoli 1783, Tomo IV, Libro III, Parte II, Capo LVII:
Dell’impunità. 90
J. Bentham, Traité de législation civile et pénale, Paris, Bossange, Masson et Besson, 1802, tomo II, p. 434. 91
Beccaria, Dei delitti e delle pene, p. 103. 92
T. Nani, Sul diritto di grazia, «Memorie dell’I. R. Istituto del Regno Lombardo-Veneto» (1812-1813), I
(1819), pp. 35-58. Il saggio è una versione più approfondita e aggiornata di un altro contributo di Nani sulla
grazia, De criminum indulgentia et praescriptione diatriba, Como 1789. Su questo punto cfr. Tavilla,
92
Il principio illuminista che, presupponendo la possibilità e la necessità di redigere «codici di
diritto penale esaustivi, semplici, congruenti e costituiti in modo coerente, in un certo senso
permanentemente validi e giusti»94
, auspicava la configurazione di un sistema giudiziario ove
le concessioni di grazia si sarebbero rivelate superflue o comunque estremamente sporadiche,
venne parzialmente ridimensionato nel corso del XIX secolo – pur nella condivisione in linea
di principio delle precedenti riflessioni, specialmente per quanto riguarda la natura
extragiudiziaria della grazia – soprattutto alla luce delle esperienze della codificazione. I
codici penali formulati tra XXVIII e XIX secolo, accogliendo molte delle istanze
dell'illuminismo giuridico, avevano in parte corretto quei difetti più macroscopici
dell'amministrazione della giustizia che richiedevano frequentissimi ricorsi a correzioni
graziose e contro i quali si pronunciavano i giuristi illuministi. Inoltre, l'unico caso di
abolizione dell'istituto – ciò che venne sancito dalle carte costituzionali della Francia
rivoluzionaria – era stato ben presto riassorbito95
e, come nota Sylvia Kesper-Biermann per il
caso tedesco, nell'Ottocento il diritto di grazia non era più messo neanche teoricamente in
discussione96
; piuttosto, gli sforzi dei giuristi austriaci e lombardo-veneti si orientarono da una
parte a definire concettualmente la natura della grazia e la sua collocazione entro le diverse
sfere di competenza e di potere, dall'altra a delimitarne pragmaticamente il raggio d'azione.
Significativamente, proprio a partire dagli assunti beccariani, nel suo manuale pubblicato in
prima edizione alla fine degli anni Venti l'avvocato milanese Antonio Castelli ammorbidiva
l'intransigenza de Dei delitti e delle pene giustificando la previsione della grazia nel codice
penale austriaco e raccomandandone, tuttavia, un uso limitato:
Quantunque uno de’ più grandi freni dei delitti sia l’infallibilità delle pene, imperocché la certezza di
un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione, che non il timore di un altro più
terribile, unito colla speranza dell’impunità; quantunque in una legislazione, dove le pene sono dolci,
ed il metodo di giudicare regolare e spedito, la clemenza ed il perdono diventino meno necessarj, pure
si è con ragione che nel nostro Codice penale non venne escluso il diritto di fare grazia. La clemenza
«L’attributo il più prezioso della sovranità», pp. 326-327. Il valtellinese Tommaso Nani fu docente presso
l’Università di Pavia, ove si formarono molti giuristi lombardi e veneti. 93
G. D. Romagnosi, Genesi del diritto penale, Milano, Branca, 1840 [prima ed. 1791], §1151, p. 131. Anche
Gian Domenico Romagnosi, per un periodo, fu docente a Pavia; cfr. D'Amico, Agostino Reale, pp. 781-786. 94
Kesper-Biermann, Giustizia, politica e clemenza, p. 328. 95
Sull'abolizione della grazia dalle carte costituzionali francesi del 1795 e 1799, nonché sulla sua reintroduzione
nel corso dei primi decenni dell'Ottocento si veda Tavilla, «L’attributo il più prezioso della sovranità», p. 328 e
Id., Grazia e promessa di impunità nell’ordinamento penale degli Stati Uniti delle Isole Ionie, in Codice penale
degli Stati Uniti delle Isole Ionie (1841): ristampa anastatica, a cura di S. Vinciguerra, Padova, Cedam, 2008,
pp. CXVII- CXXXI: CXVII-CXX. 96
Kesper-Biermann, Giustizia, politica e clemenza, p. 329.
93
ch’è la più bella prerogativa del trono, il più desiderabile attributo della Sovranità; la clemenza ch’è la
virtù de’ principi saggi ed illuminati ha dunque trovato nel Codice penale Austriaco un posto elevato
cui però serve di sostegno la sana moderazione onde funesti non abbiano a riuscire gli effetti del
perdono97
.
Nel commento di Castelli si riconoscono quei due campi discorsivi sulla potestà di clemenza
che Karl Härter identifica come i perni tra cui oscillava – ed oscilla – un più trasversale
dibattito politico, giuridico e filosofico: da una parte, viene messa in luce la natura virtuosa
della grazia, prerogativa del sovrano (o, in generale, del capo dello Stato), investito
dell'autorità di porre in atto una giustizia superiore; dall'altra, al contrario, se ne denuncia la
potenziale arbitrarietà scardinante il sistema giudiziario98
. Verso entrambi questi opposti poli
– segnati, secondo Härter, da una irriducibile contraddizione – si orientano i commenti
giuridici della prima metà del XIX secolo. Ciò che ne risulta è un’interpretazione quasi
univoca ma intrinsecamente ambigua: la grazia veniva sì valutata alla stregua di atto arbitrario
da arginare – raccomandava appunto Castelli – per mezzo di una «sana moderazione», ma allo
stesso tempo se ne ravvisava la necessità onde garantire equità qualora la norma si fosse
rivelata inadeguata; per ripristinare, quindi, l'equilibrio tra giustizia formale e giustizia
materiale99
.
Questa doppia lettura si riflette pure nel lessico utilizzato dai testi giuridici. Da un lato, in essi
ritornano formule retoriche che, sottolineandone il carattere risalente e la derivazione
teologico-religiosa, definiscono il potere di clemenza come uno «fra gli attributi più preziosi
che la sovranità circondano»100
(un'espressione riecheggiante il noto giudizio
montesquieviano101
) che «ogni principe nemico del sangue umano suole riservarsi»102
per
«ridonare la vita»103
ai condannati; «Quale più commovente spettacolo» – così Resti Ferrari –
«quale soddisfazione più soave di ascoltare le suppliche dello sciagurato, della sposa desolata,
di un figlio affettuoso; e tergendone le lacrime di accogliere le benedizioni della
riconoscenza?»104
.
97
G. Castelli, Manuale ragionato del Codice penale e delle gravi trasgressioni di polizia, Milano, Omobono
Manini, 1829, vol. I, p. 202. 98
K. Härter, Grazia ed equità, p. 46. 99
Kesper-Biermann, Giustizia, politica e clemenza, pp. 330-331. 100
Resti Ferrari, De’ giudizi criminali, tomo I, p. 65. 101
C. L. de Secondat de Montesquieu, Lo spirito delle leggi [De l’esprit des lois, 1748], Libro VI, capitolo V, a
cura di R. Derathé, Milano, Rizzoli, 1989. 102
Castelli, Manuale ragionato, vol. II, p. 237. 103
Albertini, Del diritto penale vigente, p. 12. 104
Resti Ferrari, De’ giudizi criminali, tomo I, p. 65.
94
Considerazioni di questo tenore sono tuttavia sempre controbilanciate da valutazioni che
delineano la natura straordinaria, intrinsecamente pericolosa e soprattutto rigorosamente
politica – «figlia delle circostanze politiche»105
– della grazia, tratteggiata quale necessaria ma
potenzialmente dannosa misura eccezionale atta a temperare le sproporzioni di un sistema
penale inevitabilmente imperfetto e occasionalmente disequilibrato. Ancora Resti Ferrari
rilevava, nel medesimo commento sopra citato, questo fondamentale carattere correttivo:
la legge parlando alla massa dei cittadini non può discendere a casi speciali e straordinari, e possono
emergere particolari cause […] nel combinato concorso delle quali la pena o sproporzionata divenga, o
anche torni a nocumento della società medesima. Allora lo stesso pubblico bene vuole la momentanea
o speciale deroga della legge, ed al privato ed al pubblico bene il Sovrano soccorre rattemperando
colla sua clemenza l’eccessivo e pernicioso rigore di quella106
.
Del resto, il rischio di generare arbitrarietà per mezzo del potere grazioso – quelle ingiustizie
che potevano avere luogo qualora «der Fürst wegen seiner persönlichen Zuneigung zu dem
Verbrecher, oder aus Weichlichkeit verzeiht»107
– sarebbe stato scongiurato proprio dagli
stessi principi orientatori ai quali venivano ricondotte le circostanze che suggerivano la messa
in atto di provvedimenti di clemenza: vale a dire, da una parte cause estrinseche – il «pubblico
bene», la «gemeinschaftliche Sicherheit»108
– che talvolta richiedevano l'elargizione di
mitigazioni o anche di ampie amnistie; dall'altra cause intrinseche, ossia le specificità
occasionali che rendevano un determinato reo meritevole di commutazione di pena. «Ogni
divergenza da questi principii regolatori» – sottolineava Fortunato Pozzi – «deve
necessariamente porre l'Autorità Reale nell'alternativa, o di prender sopra di sé tutta l'odiosità
di un rifiuto comandato dall'interesse sociale, o di accordare una Grazia, cui l'interesse sociale
si opponga»109
.
Nello specifico contesto del sistema penale austriaco – il quale, come è già stato rilevato,
costringeva il giudice, in linea teorica, entro un rigido sistema probatorio – la grazia poteva a
105
Arcellazzi, Osservazioni teoriche, p. 619. 106
Resti Ferrari, De’ giudizi criminali, tomo I, p. 65. Il passo è ripreso anche nel progetto di codice procedurale
elaborato dall'avvocato pavese, già regio procuratore generale in periodo italico, Giacomo Maria Anfossi, Studio
e prime idee per servire alla compilazione di un nuovo codice di procedura criminale, Milano, Molina, 1838, pp.
529-530. 107
Annotazione del consigliere Klein riportata in Wagersbach, Handbuch für Kriminalrichter, vol. 3 (1813), p.
28. 108
Jenull, Das Österreichische Criminal-Recht, Bd. 2, p. 415 109
Pozzi, Analisi del Codice penale, p. 367.
95
maggior ragione essere utilizzata per adeguare la norma alle concrete contingenze della prassi
giudiziaria110
. «Il Giudizio criminale pronunzi la sentenza di morte […] secondo il prescritto
della legge» – osservava Giuseppe Boerio – «ancorché concorrano circostanze mitiganti»111
:
sarebbe poi stato compito del Supremo tribunale di giustizia valorizzare tali circostanze,
proponendo all'imperatore una eventuale commutazione di pena proprio alla luce di esse ed
immettendo così parzialmente, all’interno del processo decisionale attraverso il quale veniva
stabilita la condanna, quell' “intimo convincimento” formalmente escluso.
Il giudice veneziano mette in rilievo un punto importante: nel concreto, le concessioni di
grazia suggerite dal Senato Lombardo-Veneto si muovevano soprattutto a partire da quegli
elementi di cui i consiglieri riconoscevano il valore attenuante e che tuttavia, secondo il
codice penale, non potevano essere presi in considerazione in sede processuale e quindi
assorbiti nella sentenza. «Quello che ai tribunali è interdetto» – ovvero la possibilità di
valutare tali fattori nella formulazione della condanna – «la Sacra Maestà Vostra lo ha
riservato a se stessa nei peculiari casi in cui la pena capitale sarebbe troppo severa»: ciò
premetteva il consigliere aulico Filippo Maffei proponendo all'imperatore, nel gennaio del
1821, di graziare un agricoltore vicentino, colpevole di aver ucciso un proprio cugino. Gli
estremi del delitto e la sua «intrinseca dolosità» qualificavano l'azione come omicidio;
pertanto la pena irrogata in prima e seconda istanza non poteva che essere, necessariamente,
la morte. Ciononostante le premesse del fatto criminoso (anni di maltrattamenti, minacce e
provocazioni subite dal condannato) nonché il profilo biografico e caratteriale della vittima e
dell'imputato (pigro, violento e scialacquatore l'uno; lavoratore, onesto e savio l'altro)
richiedevano l'intervento grazioso del sovrano proprio per ripristinare il criterio di equità che
l'esecuzione della sentenza, stabilita secondo i dettami del codice penale, avrebbe vanificato:
«sembra pertanto, che l’umanità perori per la grazia di quest’inquisito, più infelice che reo,
più di compassione degno che di gastigo», concludeva il consigliere relatore112
.
Il caso sopra citato mette in luce una certa ambiguità tra l'insistito carattere politico della
110
Lo stesso rileva Petra Overath per la Baviera del Vormärz, ove, come nell'impero austriaco, il codice penale
concedeva ai giudici pochi margini di discrezione nella pronuncia della sentenza capitale. Conseguentemente
«blieb immer die Möglichkeit eines Mißverhältnisses zwischen Schuld und Strafe bestehen, das gegebenenfalls
durch die königliche Gnade auszugleichen war». La funzione della grazia come istituto giuridico il cui scopo era
quello di ribilanciare l'equilibrio tra giustizia legale ed equità personale, mutò significativamente, secondo
Overath, in coincidenza con le riforme giudiziarie di metà secolo, conseguentemente alle quali la grazia diventò
un vero e proprio strumento di controllo e regolazione del numero delle esecuzioni capitali, molto più
frequentemente pronunciate dalle corti d'assise. P. Overath, Tot und Gnade. Die Todesstrafe in Bayern im 19.
Jahrhundert, Köln-Weimar-Wien, Böhlau, 2001, pp. 156-158. 111
Boerio, Pratica del processo criminale, p. 174. 112
Relazione 31 gennaio 1821, ASMi, SLV, b. 45, fasc. VI, 15-2. La sentenza capitale venne infine commutata,
straordinariamente, in 10 anni di carcere.
96
grazia e le giustificazioni che, di volta in volta, ne determinavano il concreto esercizio nella
prassi giudiziaria: le motivazioni annoverate dal Senato per appoggiare una commutazione di
pena si pongono infatti sovente nella zona liminare tra ambito giuridico ed ambito
extragiuridico. L'analisi di Franz von Zeiller è volta a sciogliere questa ambiguità: anche
qualora il sovrano avesse mitigato una sentenza sottopostagli dai tribunali «per motivi
veramente legali, e non nello stesso tempo politici» – osservava il consigliere, sulla linea di
un'analoga considerazione di Sebastian Jenull113
– «ella è sempre una mitigazione legale,
quantunque, non sapendo se vi abbiano influito motivi politici, ella possa riguardarsi come un
atto di grazia». Di converso i tribunali, inoltrando all'imperatore una condanna capitale,
«debbano altresì addurre i motivi politici risultanti dagli atti che possano militare perché
venga accordata la grazia: pure que’ Giudicj, che sono chiamati soltanto a giudicare, ed a
riferire tutte le circostanze aggravanti e quelle mitiganti, non possono mai pe’ motivi politici
particolari usare clemenza o compartir grazia»114
.
5. Illecite promesse di mitigazione
In nome del principio sopra esposto, ossia la configurazione della grazia come strumento
extragiuridico, il Senato Lombardo-Veneto e lo stesso imperatore scoraggiavano
risolutamente una pratica talvolta utilizzata dai tribunali inferiori o dagli agenti di polizia:
quella di avanzare esplicitamente, o implicitamente lasciare intuire agli imputati la promessa
di mitigazione di pena, in cambio della confessione.
Tale abuso era, secondo l'analisi critica tesa ad evidenziare le inadeguatezze del sistema
giudiziario austriaco di Hieronymus von Scari sopra menzionata, una sorta, per così dire, di
“fisiologica” o quantomeno prevedibile stortura, conseguenza della natura stessa del processo
penale inquisitorio, che escludeva l'intimo convincimento imponendo al giudice, per poter
pronunciare una sentenza condannatoria, il raggiungimento delle prove legali tra le quali,
principalmente, la confessione: «Con quanta facilità un inetto inquisitore» – metteva in
guardia il giurista – «non si abbandona a rinfacciare gl'indizii, a mettere alle strette l'inquisito,
a schiarimenti prolissi, a domande suggestive, seppur non anche a minaccie od a promesse
dirette od indirette»115
.
Per questo motivo, ogni sospetto di illecita promessa di grazia da parte degli organi giudiziari
113
Jenull, Commentario sul codice, vol. IV, p. 284. Questa constatazione è ripresa anche da A. Reale, Teorica del
diritto giurisdizionale ed esposizione della competenza delle magistratura giudiziarie del Regno Lombardo-
Veneto, Pavia, Bizzoni, 1824, p. 130. 114
De Zeiller, Commenti sulla Procedura Criminale Austriaca, pp. 79-81. 115
Von Scari, Osservazioni contro due accuse, p. 279.
97
o polizieschi veniva dal Senato attentamente scandagliato nelle sue relazioni, con una cura
che lascia intuire tutta la gravità percepita di tali irregolarità, proprio in quanto scardinanti il
rigido inquadramento gerarchico e la separazione di competenze tra le varie autorità
all'interno della procedura, come alcuni casi permettono di esaminare da vicino.
Nel maggio del 1820 il Tribunale di Udine condannò, mediante prova testimoniale, Valentino
Florean, imputato non confesso, al carcere duro a vita con l'inasprimento dell'esposizione alla
berlina, per una grave rapina commessa a Fiumicello nel marzo del 1817. La sentenza venne
confermata, nel luglio successivo, dall'appello veneziano. Solo una volta notificatagli la
condanna, Florean si risolse a confessare la rapina, accusando i complici ed indicando i
colpevoli di altri «enormi delitti, lusingandosi in tal guisa di procacciarsi alcun riguardo alla
Sovrana Clemenza»116
. Tradotto all’ergastolo di Padova, ove avrebbe dovuto scontare la pena,
nell'agosto del 1824 il condannato denunciò alla direzione dello stesso che il presidente del
Tribunale di Udine, Luigi Gellusig, e il consigliere Giacinto Borgo gli avevano assicurato una
mitigazione di pena in cambio delle sue dichiarazioni. Il processo verbale redatto dalla
direzione della casa di forza venne quindi trasmesso al Tribunale di Udine il quale dichiarò
che né il consigliere Borgo né il presidente si erano davvero resi responsabili di aver illuso
l'imputato con false promesse, «essendosi limitati a significargli che poteva rendersi degno dei
superiori riguardi ove avesse giovato alla giustizia colle rivelazioni che sembrava disposto a
voler fare»117
. Tuttavia, le dichiarazioni dell'imputato erano stata molte e utili, tali da poter
sottoporre a processo una ventina di persone e di condannarne, tra queste, quattro: i tre correi
nella rapina, ai quali fu inflitta la pena del carcere duro a vita, ed una donna che era stata più
volte complice del Florean in precedenti furti.
Il Tribunale di Udine propose quindi la mitigazione della pena di Florean a 18 anni di carcere
duro, confermata dall’appello e dal Senato, il quale redasse un'apposita relazione sul caso per
l'imperatore. A favore del condannato, pur gravato da un numero considerevole di precedenti
penali – cosa che di per sé lo avrebbe quasi automaticamente escluso dal beneficio della
clemenza sovrana – militavano non solo le informazioni da lui fornite, ma anche l'ambiguità
del comportamento tenuto, il merito alla questione della grazia, dal Tribunale di prima istanza:
perché, come osservava il consigliere aulico relatore Ludovico Salvioli, «in certa tal qual
maniera il Tribunale d'Udine, se non lo assicurò positivamente di qualche graziosa
indulgenza, gli fece almeno travedere gli effetti della Sovrana Clemenza ove si fosse prestato
116
Relazione 12 marzo 1825, ASMi, SLV, b. 44. 117
Ibidem.
98
a palesare i delinquenti che gli erano noti, e con tale lusinga avendoli denunciati, pare che non
sia dicevole render vana la sua aspettazione»118
.
La sr. 18 aprile 1825, confermando la commutazione di pena proposta, contemporaneamente
ordinava al Senato di avvertire «i Tribunali a lui subordinati di doversi astenere da precise
promesse di aggraziamenti, che sono unicamente a Me riservati»119
: intimazione che venne
prontamente trasmessa, per mezzo di circolari appellatorie, a tutti i tribunali provinciali sia
veneti che lombardi120
. Il fatto che un singolo caso desse adito ad una disposizione tanto
generale, lascia intuire come tali irregolarità fossero relativamente frequenti o comunque
molto temute121
.
I sospetti relativi agli abusi in tal senso perpetrati dagli organi preposti all'inquisizione del
delitto – preture, tribunali, polizia – dovevano quindi essere perfettamente sciolti, per poter
confermare una condanna; e gli sforzi della magistratura erano diretti, nel corso
dell'inquisizione e del giudizio, anche ad appurare eventuali illeciti che potevano, da una
parte, inficiare la sincerità delle dichiarazioni dell'imputato e, dall'altra, mettere in discussione
il fondamentale principio dell'esclusiva attribuzione della facoltà di graziare al solo sovrano,
lasciando quindi alle autorità inferiori pericolosi e difficilmente controllabili spazi di arbitrio.
La relazione e la correlazione, redatte nel 1829, su un processo per duplice omicidio ed
appiccato incendio, commesso a Campago in provincia di Belluno, si diffondono ampiamente
sulla questione. L'imputato Antonio Bortot, «educato al pari degli altri villici solo per la
coltura della campagna, ignorante in tutto il resto, però istrutto nella dottrina di religione»122
,
era accusato di aver ucciso, per vendetta, una coppia di coniugi – ritenuti dall'imputato
responsabili delle sue disgrazie economiche, apprestandosi a prendere a mezzadria un campo
118
Ibidem. 119
Ibidem. 120
Cfr. la circolare a stampa 4 maggio 1825 dell’Appello di Venezia alle prime istanze venete – contenuta anche
nel fascicolo del caso ora citato – e la circolare manoscritta 5 maggio 1825 dell'appello milanese alle prime
istanze lombarde – segnalata in Estratto Milano 1825. 121
Ciò si riscontra, soprattutto, ove oggetto delle generali disposizioni intimatrici erano illecite invadenze dei
tribunali nel terreno dell'autorità sovrana: oltre alle grazie, le promesse di impunità. Nel delicato periodo di
passaggio e assestamento del sistema giudiziario e penale austriaco nelle province italiane, ad esempio, si erano
verificati dei casi di abusi, come si deduce dalla circolare 17 maggio 1816 (AG 1816, vol. I, parte II, p. 77,
segnalata anche in Estratto Milano 1816) portante la sovrana risoluzione del 29 aprile precedente, emanata in
seguito alla conferma da parte dell'imperatore dell'impunità concessa ad un delinquente che aveva reso noti gli
autori di una rapina a mano armata a danni del parroco di Rescaldina, in provincia di Milano, avvenuta
nell'ottobre 1814. Il modo in cui tale impunità era stata promessa dalle autorità giudiziarie inferiori, era stato
evidentemente viziato da irregolarità, perché la risoluzione specificava che «per l'avvenire nissun tribunale possa
farsi lecito di accordare o di promettere l'impunità». L'intimazione venne estesa alle autorità politiche dal
sovrano rescritto di gabinetto 19 marzo 1817, diramato con circolare governativa 18 aprile 1817 (CLV 1817,
parte I, pp. 253-254). Tali disposizioni sono segnalate anche in L. Soardi, Il regolamento generale di procedura
penale del 29 luglio 1853, Venezia, Naratovich, 1855, pp. 210-211. 122
Relazione 24 luglio 1829, ASMi, SLV, b.53, 1829, fasc. VI. 84-2.
99
dal quale il Bortot era appena stato cacciato – nonché di aver dato fuoco alla loro casa proprio
allo scopo di celare il delitto.
Nei confronti dell'imputato, l'ispettore e gli agenti del satellizio – ossia il corpo di polizia
campestre veneta123
che si era occupata delle prime indagini – avevano agito in modo
discutibile, al limite della legalità: un limite decisamente superato, secondo il Tribunale di
prima istanza di Belluno. A destare sospetti e polemiche in sede processuale fu, anzitutto,
un’ambigua conversazione tenuta dal capo, dal sottocapo e da alcuni agenti del satellizio; i
quali, proprio nella stanza attigua a quella ove l'imputato era rinchiuso in stato di arresto, si
misero ad elogiare – c'è da credere ad alta voce, per essere ben uditi – la bontà dell'ispettore e
la sua «inclinazione a favorire i detenuti»124
. Un escamotage, secondo i tribunali che poi
sentenziarono sul caso, chiaramente volto ad indurre il detenuto a confessare; il quale infatti,
facendosi chiamare l'ispettore, si gettò «nelle di lui braccia raccomandandosi caldamente,
promettendogli di ricompensarlo con una capra, o altra cosa», ammettendo quindi di aver
perpetrato i delitti imputatigli «impossessato dal demonio e fuori di sé» e in uno stato di
«somma disperazione»125
.
L'ispettore, esaminato dal Tribunale di Belluno proprio per appurare se vi fossero stati, in
questo senso, abusivi incoraggiamenti e promesse di grazia, ammise di aver assicurato
all'imputato protezione e raccomandazione «acciocché sia favorito in tutto ciò che la giustizia
permette, facendogli riflettere che la confessione della verità in confronto d'un pertinace
negativo e convinto sempre viene riguardata come un motivo di mitigare il destino,
123
Mentre in Lombardia le forze di polizia erano rappresentate dalla Gendarmeria, rimasta in vigore dall'epoca
napoleonica, in Veneto, nonostante le molte lamentele, vennero ripristinate le guardie del Satellizio istituite
durante la prima dominazione austriaca, le quali erano organizzate in compagnie piuttosto indisciplinate, come
rileva Grandi, Processi politici, p. 213. Il Satellizio venne regolamentato provvisoriamente nel dicembre del
1813 (Regolamento provvisorio per le guardie del Satellizio, 14 dicembre 1813, CLV 1813-1814, parte I, pp. 27-
41) e definitivamente stabilito nel 1819 (notificazione 26 settembre 1819 portante la sr. 19 agosto, CLV 1819,
parte II, pp. 409-411). Sull'argomento si vedano soprattutto C. Rossi, La riorganizzazione del Satellizio nelle
province venete (1814-1819), in Forme e pratiche di polizia nel territorio dell'Ottocento preunitario, a cura di S.
Mori, L. Tedoldi, Rubettino, Soveria Mannelli, 2011, pp. 203-226, ma anche Laven, Venice and Venetia, pp. 195-
197 e L. Capellazzo, Lo spirito pubblico nel Polesine nella seconda dominazione austriaca, in La nascita della
nazione. La Carboneria. Intrecci veneti, nazionali, internazionali. Atti del XXVI Convegno di Studi Storici,
Rovigo, Crespino, Fratta Polesine, 8-9-10 novembre 2002, a cura di G. Berti e F. Della Peruta, Rovigo,
Minelliana, 2003, pp. 345-354: 351-352. A questo proposito, è interessante rilevare come, tra gli omicidi
giudicati e conclusisi con una condanna a morte nel periodo considerato, ben tre siano stati consumati tra
dipendenti del Satellizio (ASMi, SLV, b. 44; Ibidem, b. 48, fasc. VI. 66-2, e Ibidem, b. 48, fasc. VI. 123-2), così
come un caso di rapina (Sessione 6 agosto 1817, ASMi, SLV, b. 80, cc. 2131-2136). Anche Christian Rossi, nel
saggio sopra citato, rileva gli atteggiamenti talvolta violenti, pericolosi ed illegali dei satelliti (molti dei quali
dediti a risse, alcolismo, gioco d'azzardo, corruzione, collusione con delinquenti). 124
Relazione 24 luglio 1829, ASMi, SLV, b.53, 1829, fasc. VI. 84-2. 125
Ibidem.
100
raccomandandogli di essere da parte sua sincero»126
.
Di nuovo, il già rilevato doppio volto della confessione, ad un tempo prova regina – e perciò
spesso ricercata ad ogni costo, come dimostra il caso qui illustrato – e causa mitigante, trapela
anche dalle incaute parole dell'ispettore; il quale, ancor più incautamente, nel corso della sua
conversazione col Bortot si spinse a dichiarare che «se [l'imputato] si fosse indotto a
commettere il delitto per impulso di odio e di vendetta questo sarebbe sempre trattato con
minor rigore di quegli, che come assassino e ladro commettesse simili eccidi»127
. Il colpevole
di un delitto cosiddetto “passionale” avrebbe quindi avuto maggiori possibilità di beneficiare
della grazia sovrana piuttosto che il reo di un delitto commesso a scopo di lucro: dichiarazione
decisamente delicata e inopportuna, secondo i senatori, che andava a “svelare” all'imputato
uno dei discrimini sui quali, come si vedrà approfonditamente nel prossimo capitolo, il Senato
Lombardo-Veneto basava la propria decisione di suggerire o meno la grazia.
Il Tribunale di prima istanza giudicò la confessione non legale ai sensi del §401128
perché
illecitamente ottenuta dietro promesse di grazia, condannando l'imputato, nonostante la
gravità del delitto, a venti anni di carcere duro, e non alle pena di morte.
Di diverso parere fu il Senato, secondo il quale all'inquisito non era stata in fondo promessa
alcuna riduzione di pena; i discorsi dell'ispettore del satellizio, secondo il relatore Francesco
Machan, «sebbene inconvenienti, non possono però ritenersi atti e diretti ad estorquere la
confessione»129
. Più duro il giudizio del correlatore Pace Bonacina: «Sarebbe stato opportuno
che in modo esplicito si fosse diffidato [il Bortot] che quanto dissero li satelliti era una
sciocca milanteria da cui nulla potesse egli attendersi», anche alla luce – aggiunge il
correlatore non senza una nota di disprezzo – dell'importanza che probabilmente l'imputato
erroneamente attribuiva all'ispettore all'interno del procedimento giudiziario, «ciocché sempre
influisce nell’animo dei villici idioti»130
. Ciononostante, relatore e correlatore convennero
che, qualora l'ispettore avesse indotto il Bortot a risolversi a confessare, l'illusione della
mitigazione sarebbe stata annullata dagli avvertimenti del Tribunale di Belluno, ossia che «il
destino» dell'imputato dipendeva unicamente «dal Supremo Giudice» e che non gli si poteva
126
Ibidem. 127
Ibidem. 128
«Una confessione, che contro il prescritto della legge siasi ottenuta dietro promesse, minacce, atti di violenza,
o qualunque altro mezzo illecito, non può considerarsi come una prova legale. Ma se poscia l'arrestato ripete
questa stessa confessione in uno stato, in cui il suo spirito fosse libero da una siffatta illecita influenza, e posto in
sicurezza di non averla più a temere, tal confessione ha forza d'una prova legale, qualora contenga circostanze
tali intorno al fatto, che s'accordino colle notizie raccolte sulla qualità del delitto, ma che non potessero essere a
lui note, se non ne foss'egli stato effettivamente l'autore». 129
Relazione 24 luglio 1829, ASMi, SLV, b.53, 1829, fasc. VI. 84-2. 130
Correlazione 24 luglio 1829, Ibidem.
101
pertanto «dare o togliere la speranza, solo inculcandosi in esso la più perfetta sincerità, se vuol
essere ritenuto pentito». Lo stesso tribunale aveva inoltre reso il Bortot esplicitamente edotto
del meccanismo previsto nei casi di condanna capitale, vale a dire che «dalla vigente
legislazione è comminata la pena di morte per l'omicidio consumato e che in questi casi dal
Supremo Tribunale di Giustizia la Sentenza portante una tale pena deve sottoporsi al Sovrano
coi motivi che al caso credesse militare a favore del reo, spettando soltanto allo stesso
Sovrano il diritto di fare la grazia»131
. L'imputato aveva confermato, anche al consesso
inquirente, la confessione, che pertanto doveva essere ritenuta valida.
I senatori stabilirono quindi di non proporre la mitigazione della pena capitale, che infatti
venne confermata dalla sr. 26 agosto 1829; perché, pur riconoscendo alcune circostanze
mitiganti – la confessione, il movente costituito da reali disagi economici – troppi e
premeditati erano i delitti per i quali l'imputato era stato condannato.
Casi del genere sono in effetti, dal punto di vista documentario, piuttosto rari, quantomeno nei
procedimenti conclusisi con condanna capitale; ma un'irregolarità come quella del processo
Bortot, giunta a conoscenza del Tribunale di Belluno e quindi dell'appello veneziano e del
Senato Lombardo-Veneto quasi per caso, porta a supporre che, forse, le induzioni non lecite
alla confessione fossero più frequenti di quanto le carte processuali del Senato non lascino
trapelare.
Anche in questo caso, tale dinamica è resa più visibile e, per certi versi, esasperata,
nell’ambito dei processi politici. La sr. 27 ottobre 1824 denunciava, ad esempio, che i membri
della Commissione incaricata di inquisire gli imputati di alto tradimento si erano comportanti
in modo inappropriato nel corso del processo contro l’inquisito Enrico Antonio Mortara, «il
quale col rendergli ostensibile il Codice penale e col rimettere al §56 giammai applicabile al
caso fu indotto contro diritto a confessare». Il §56 Cp. prevedeva che chi si fosse «aggregato
a segrete combriccole tendenti all’alto tradimento […] ma poscia mosso dal pentimento ne
scopre alla magistratura i membri, gli statuti, le mire, gli attentati, mentre sono ancora occulti,
e se ne può impedire il danno, è assicurato della piena sua impunità, e del segreto della fatta
denuncia». I consiglieri venivano pertanto esortati a rimanere «entro i limiti tracciati dalla
Legge e di astenersi da simili arbitri, i quali oltre a essere contrari ai loro doveri, mettono in
discredito nel Regno Lombardo-Veneto l'amministrazione della punitiva giustizia»132
. Al di là
del merito specifico della questione, al quale non è facile risalire – onde appurare,
131
Relazione 24 luglio 1829, Ibidem. 132
ASMi, SLV, b. 23, fasc. 246. La sr. è trascritta anche in Grandi, Processi politici, pp. 698-699.
102
esattamente, se e in che misura la Commissione si fosse effettivamente spinta oltre le proprie
competenze – ciò che interessa è il contenuto del rimprovero dell’imperatore, che si muove,
per così dire, su un triplice livello, e va toccare tre nodi fondamentali del processo penale
austriaco: quello giuridico e gerarchico-istituzionale (i consiglieri venivano accusati di aver
travalicato la loro sfera di competenza); quello giudiziario (avrebbero poi reso noto
all’inquisito, contro il principio di segretezza, alcuni paragrafi del codice indicandogli
implicitamente gli strumenti di difesa a sua disposizione); quello, infine, pubblico (agendo in
modo poco ortodosso, la Commissione si sarebbe esposta a possibili critiche). Su tali
questioni si tornerà nei capitoli dedicati alla prassi, con il conforto di esempi concreti.
103
TERZA PARTE
PRASSI
alberto
Typewritten Text
104
105
TERZO CAPITOLO
CONDANNE CAPITALI E CONCESSIONI DI GRAZIA
NEI PROCESSI PER DELITTI COMUNI
1. Introduzione. Il contesto territoriale e criminale
2. Subire la pena «ad altrui esempio»: la funzione pubblica delle esecuzioni capitali
3. Un «problema da sciogliere». La grazia come strumento riequilibratore della
gerarchia giudiziaria: sui delitti di uccisione ed omicidio
4. La grazia come sistematico correttivo del codice: sulla falsificazione delle carte di
pubblico credito
5. I falsificatori di Milano
6. Suppliche e mitigazioni: la comunicazione mediata tra supplicante e sovrano
7. La causa attenuante degli «stimoli più patetici: onore, amore, gelosia, interesse»
8. Le donne nel processo: il genere degli imputati e delle vittime nelle considerazioni
del Senato
9. Il ruolo della grazia nel rapporto tra disordini mentali e imputabilità
10. «Un anima nera come la fuligine»: per un ritratto del criminale irriducibile
11. Conclusioni
106
1. Introduzione. Il contesto territoriale e criminale
«I graziosi riguardi della Sovrana clemenza [devono essere] serbati a favore di quello
sventurato, che per fatalità di circostanze, e di combinazioni, per cause ragionevolmente
sensabili, è quasi contro propria voglia tratto, o provocato al delitto, e dopo di averlo
commesso, ne mostra sincero, ed efficace ravvedimento»; così nel 1834 il consigliere aulico
Zaccaria Sartori concludeva la relazione sulla condanna capitale inflitta ad un omicida
vicentino1.
Nonostante questa esplicita “dichiarazione di intenti”, che sembrerebbe restringere
sensibilmente il campo d'azione dei provvedimenti di grazia, l’esercizio correttivo della
clemenza sovrana, come anticipato, va oltre la sporadicità qui teoricamente enunciata, oltre
l'eccezionalità auspicata nelle opere giuridiche. Il 60% dei circa 130 condannati a morte per
delitti comuni nel Regno Lombardo-Veneto, dal 1816 ai primi mesi del 1848, beneficiò infatti
della commutazione graziosa della pena: una cifra, del resto, tutto sommato in linea con i dati,
desumibili da tavole e sintesi statistiche2, relativi all'insieme delle altre province dell'impero,
1 Relazione 10 giugno 1834, ASMi, SLV, b. 57, fasc. VI. 58-2.
2 Informazioni quantitative relative alle sentenze capitali pronunciate in ogni singola provincia dell'impero (senza
distinzione però tra le condanne confermate e quelle graziate) sono appunto ricavabili dalle statistiche criminali.
Anzitutto, le ufficiali Tafeln zur Statistik der Oesterreichischen Monarchie, compilate annualmente a partire dal
1828 per cura della Direction der administrativen Statistik im K. K. Ministerium für Handel, Gewerbe und
öffentliche Bauten (Wien, Staatsdruckerei, 1828-1871) dal 1841 diretta da Karl Czoernig (cfr. M. Tonetti, Carl
Czoernig: la vita e le opere, in Karl Czoernig fra Italia e Austria, Gorizia, Istituto di storia sociale e religiosa,
1992, pp. 1-16: 8); inoltre J. Springer, Statistik des österreichischen Kaiserstaates, Wien, Friedrich Beck, 1840
[trad. it.: Statistica dell’impero d’Austria, Pavia, Bizzoni, 1845]. Esse rappresentano un utile strumento
orientativo da usare tuttavia con cautela, soprattutto in senso comparativo: osservava Karl Mittermaier che il
numero altissimo di crimini commessi nel Lombardo-Veneto riportato nelle tavole statistiche sarebbe stato in
parte riconducibile al fatto che queste ultime «vengono in Italia sovra un altro piano composte che negli altri
paesi. Tutte le denunzie di delitti vi vengono registrate e secondo il titolo che viene nella denunzia espresso. Non
aprendosi inquisizione in moltissimi casi, perché non si ha veruna traccia dell'autore, entrano in tal modo nelle
tavole molti casi, pe' quali non si ha malleveria di sorte, che sia stato realmente commesso il delitto. Di tal
maniera sembra assai grande il numero de' delitti in Italia, mentre negli altri paesi solamente que' delitti son
registrati, ne' quali si procedette effettivamente contro determinata persona». K. J. A. Mittermaier, Italienische
Zustände, Heildelberg, Mohr, 1844, p. 98 [trad. it. a cura di P. Mugna, Delle condizioni d’Italia, Lipsia-Milano-
Vienna, Hirschfeld, Tendler e Schäfer, 1845, p. 86]. Sulla problematicità delle fonti statistiche criminali si
vedano inoltre le osservazioni di E. Saurer, Dieci anni di studi austriaci di storia della criminalità e del diritto
penale, «Quaderni storici», XVII (1982), 49, pp. 217-225: 222-223. I coevi compilatori delle statistiche (come
Johann Springer o lo stesso Mittermaier) commentavano inoltre sovente i dati raccolti, esponendo la loro
interpretazione di osservatori esterni rispetto alla diffusione e al tipo di criminalità nel Lombardo-Veneto e, di
conseguenza, alle caratteristiche sociali e “morali” del Regno: «I dati della statistica criminale» – dichiarava
infatti Karl Mittermaier – «tornano importanti a conoscere lo stato morale di un popolo» (Mittermaier, Delle
condizioni d’Italia, p. 76). Più dettagliati confronti con alcuni Länder possono essere condotti grazie a studi
specifici, come quello, risalente ma a tutt'oggi il più completo, del giurista Francesco Menestrina sul Tirolo
meridionale, la provincia per altro più affine al Regno Lombardo-Veneto: F. Menestrina, La delinquenza nel
Trentino, «Tridentum», I (1898), 2, pp. 129-147; 3, pp. 161-184; 4, pp. 366-382; II (1899), 2-3, pp. 110-130; 4-
5, pp. 167-196 (articolo stampato, con lo stesso titolo, anche in opuscolo: Trento, Zippel, 1899). I dati qui
riportati sono desunti soprattutto dalle puntate pubblicate in «Tridentum», I (1898), 4, pp. 372-382 e II (1899), 2-
3, pp. 110-124. Per quanto riguarda strettamente le condanne a morte, Menestrina segnala che, dal 1813 (quando
nei territori trentini vennero instaurati, dapprima provvisoriamente, gli organi amministrativi austriaci) al 1848,
le condanne a morte pronunciate dal Tribunale di Trento furono sette, tutte per omicidio, delle quali solo una
Al di là dell'aspetto quantitativo – pur di per sé significativo e rappresentativo di una tendenza
non solo giuridica ma anche, in senso più esteso, politica, relativa all'uso pubblico della pena
capitale e della grazia sovrana – le decine di relazioni e correlazioni contenute nella serie
“Affari criminali” del fondo del Senato Lombardo-Veneto costituiscono una fonte ricchissima
che permette di ricostruire sia gli orientamenti giurisprudenziali del più importante tribunale
lombardo-veneto, in merito ai delitti per i quali il codice penale comminava la pena di morte;
sia il rapporto gerarchico sussistente tra le istituzioni giudiziarie del Regno, anche in relazione
ai dicasteri centrali viennesi (un punto, quest'ultimo, che si è già avuto modo di evidenziare);
sia, infine, il contesto sociale – urbano o rurale – in cui si iscrivono i crimini giudicati, che
emerge, filtrato, dalle fonti processuali, e che richiedeva, secondo il giudizio dei senatori, la
mitigazione o al contrario la conferma del rigore punitivo teoricamente previsto dalla legge.
Si cercherà pertanto di mettere in luce, con il conforto di alcuni esempi concreti, questi
aspetti: oltre ai motivi generali ed “oggettivi” che normalmente concorrevano ad appoggiare
sicuramente eseguita, nel 1823. Che quest'ultima fosse la prima esecuzione «dopo che siamo sotto il Governo
austriaco» è riportato nella cronaca del patrizio trentino Gerolamo Graziadei, il quale era stato podestà di Trento
in periodo italico. Il giustiziato era un giovane «condannato alla forca per un omicidio proditorio nella maniera la
più orribile». Commentando questo avvenimento, il notabile lamentava la sporadicità delle esecuzioni pubbliche,
osservando che «se di tratto in tratto si dasse qualche esempio non ci sarebbero continui ferimenti, ed omicidi,
ma secondo le vigenti leggi, se i pretesi rei non confessano, o pure non siano convinti colle deposizioni giurate
de' testimoni, che abbiano propriamente veduto il fatto, non possono essere condannati se non più ai ferri per
tanti anni secondo la qualità del delitto, e poi terminato il loro tempo ritornano a continuare di nuovo le loro
briconate, la dove, se si vedesse qualche volta un esempio di morte, si arresterebbe almeno per qualche tempo il
corso a tante iniquità»: un'ulteriore voce levata contro gli effetti garantisti del codice penale sostanziati nelle
cautele legali previste per la comminazione della pena di morte. Cfr. BCT, BCT1-73, “Memorie storiche ossia
Cronaca della città e del Vescovato di Trento dal 1776 al 1824 del co. Gerolamo Graziadei podestà di Trento”,
pp. 1098-1099. Un'altra cronaca, quella del segretario comunale Girolamo Andreis, ci informa invece sulla prima
esecuzione capitale a Rovereto dopo la Restaurazione, avvenuta nel 1835. Vittima della «logubre operazione» fu
un giovane accusato di aver ucciso una ragazza che aveva messo incinta e che non voleva sposare. Nel giorno
dell'esecuzione era «concorsa una moltitudine di gente da tutti i paesi circostanti, la quale fu giudicata di 8 a 10
mila anime. Quest'è la terza condanna di morte che a ricordo d'uomo fu veduta in Roveredo»: la prima nel 1774,
la seconda del 1809. G. Andreis, Memorie scritte in ordine cronologico da Girolamo Andreis da Roveredo per gli
anni 1815-1846, conservate in BCT, BCT1-2634/1 e 2635 (e trascritta in I giorni tramandati, a cura di A.
Carlini, C. Lunelli, Trento, U. C. T., 1988, pp. 166-167). 3 Come riporta Anton Hye, le condanne capitali ordinarie proferite dalla data di attivazione del codice
franceschino (1 gennaio 1804) ai primi mesi del 1848 – quando la pena di morte venne temporaneamente abolita
di fatto – furono in totale 1304, delle quali 854 graziate. Anche la proporzione tra condanne confermate e
condanne commutate per via di grazia per ogni singolo delitto nel Lombardo-Veneto è grossomodo coerente con
quella delle altre province. Solo due delle sentenze capitali pronunciate per alto tradimento, nel resto della
Monarchia, furono eseguite, ed entrambe in Galizia nel 1846; tre condannati su 174 per falsificazione di carte di
pubblico credito vennero effettivamente giustiziati; circa la metà (490) delle 911 condanne a morte per omicidio
fu graziata; 18 condannati su 84 per incendio doloso e 4 su 14 per rapina con uccisione videro la conferma della
propria condanna. Hye, Il codice penale austriaco sui crimini, pp. 70-71. Gli stessi dati sono riportati, con il
dettaglio di alcuni anni, anche in K. J. A. Mittermaier, Die Todesstrafe nach den Ergebnissen der
wissenschaftlichen Forschungen, der Fortschritte der Gesetzgebung und der Erfahrungen, Heidelberg, Mohr,
1862 [trad. it. di C. F. G.: La pena di morte considerata nella scienza, nell'esperienza e nelle legislazioni, a cura
di F. Carrara, Lucca, Cheli, 1864]. Proprio questa parte del volume fu anticipatamente tradotta e pubblicata nel
«Giornale per l'Abolizione della pena di morte», diretto da Pietro Ellero, I (1861), pp. 277-292.
108
la domanda di grazia – la confessione, l'assenza di precedenti penali, la giovane età del
condannato – si possono individuare talune tendenze e, per così dire, ricorrenze nel discorso
giuridico e nei pareri del Senato veronese. Si tratta di pareri – è una questione già rilevata, ma
vale la pena di ribadirla – confermati quasi sempre dall'imperatore, il quale solo in poche
occasioni se ne discosta (e sempre nel senso favorevole all'imputato), in base a motivazioni
che, tuttavia, si possono solo intuire4, perché mai esplicitate nel testo delle risoluzioni
trasmesse al Senato5.
L'aspetto intrinsecamente pubblico delle esecuzioni capitali porta a chiedersi se, e in che
modo, l’andamento della criminalità (ossia il suo acuirsi o diradarsi nel corso del tempo) e le
conseguenti misure repressive messe in atto dalle autorità politiche e poliziesche nelle
province lombarde e venete nei decenni qui presi in considerazione, esercitassero una qualche
ingerenza sulla giurisprudenza del Senato relativa alle commutazioni o alle conferme delle
pene capitali nei processi ordinari.
L'analisi quantitativa delle fonti ha messo in luce come, a questo livello punitivo, tale
ingerenza si verifichi solo indirettamente. Non vi è, vale a dire, una corrispondenza diretta ed
univoca tra aumento o decremento della criminalità (non solo sul piano statistico, ma anche su
quello del percepito allarme sociale da parte degli organi giudiziari, puntualmente
ricostruibile lungo tutto il Vormärz soprattutto grazie alle discussioni dei consiglieri del
Senato registrate nei protocolli di consiglio) e numero di condanne confermate o graziate.
Non si rileva, quindi, nell'ambito dei processi ordinari per delitti comuni – al contrario di
4 Nella maggior parte dei casi in cui la grazia veniva concessa contro l'opinione della maggioranza dei senatori,
essa era stata tuttavia proposta dal consigliere relatore, dal correlatore, oppure dai tribunali di grado inferiore. In
un solo caso, tra quelli trattati dal Senato Lombardo-Veneto, la grazia viene esplicitamente motivata
dall'imperatore. Si tratta di un processo intentato nel 1825 dal Tribunale di Venezia contro una donna accusata di
aver ucciso un detenuto introducendo nelle carceri delle vivande avvelenate. Malgrado il parere sfavorevole del
Senato, la sovrana risoluzione impose allo stesso di commutare la pena capitale riconducendo la responsabilità
del delitto (e pertanto parzialmente deresponsabilizzando l'imputata) anche all'inadempienza dei carcerieri e del
Tribunale criminale i quali, nonostante quanto precisamente disposto dal §312 Cp. che vietava di accordare ai
carcerati altri cibi all'infuori di quelli preparati entro la casa di arresto, avevano commesso una leggerezza dagli
effetti tanto gravi (Relazione 13 gennaio 1826, ASMi, SLV, b. 50, fasc. VI. 162-7). Di passaggio, si rileva che già
un paio di anni prima il divieto era stato ribadito alle prime istanze lombarde con notificazione appellatoria 2
aprile 1823 portante il decreto aulico del Senato del 4 marzo precedente, elaborato in seguito alle osservazioni
del commissario aulico visitatore Antonio Mazzetti; evidentemente il mancato rispetto di questa regola era
generalizzato e persistente (Alle II. RR. Prime Istanze delle Provincie Lombarde, Alle Camere di disciplina
notarile e agli Uffici delle Ipoteche, 2 aprile 1823, §33; una copia in BCT, BCT47-3). 5 La questione della mancata argomentazione della risoluzione sovrana, soprattutto qualora non coincidente con
la proposta del Senato, rimanda al concetto di giustificazione, proprio del ragionamento giuridico di chi si
rivolge verso l'alto, ossia dell'istanza sottoposta al controllo di un'autorità superiore; al contrario l'istanza
suprema – in questo caso l'imperatore o chi per esso – non è tenuta a motivare le proprie decisioni. Sulla
giustificazione delle decisioni giudiziarie si veda M. Taruffo, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei
fatti, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 237-245.
109
quanto, forse, ci si potrebbe aspettare – un ricorso strumentalmente intensificato alle
esecuzioni capitali nei periodi di acutizzazione della criminalità (come, ad esempio, gli anni
immediatamente successivi alla costituzione del Regno Lombardo-Veneto, segnati pure da
una gravissima carestia, o l'arco cronologico a cavaliere tra gli anni Venti e i primi anni
Trenta, che richiesero la messa in atto di misure di polizia più rigorose6).
Il peso che la percezione dell'allarme sociale e le conseguenti strategie finalizzate a reprimere
e scoraggiare i delitti esercitavano sulle riflessioni dei senatori è, anzitutto, di ordine interno
all'amministrazione giudiziaria: un gioco di equilibri – non sempre ben riuscito, come verrà
osservato dettagliatamente più avanti – tra procedure ordinarie e procedure giudiziarie
“d'eccezione”. Dal gennaio del 1816 – quindi, di fatto, a partire dall'introduzione stessa del
codice penale – e per tutto il corso del Vormärz, in Lombardia fu in vigore, accanto ai
tribunali ordinari, il processo cosiddetto statario, vale a dire un tipo di procedimento
abbreviato, che prevedeva come unica opzione punitiva la condanna capitale dell’accusato
senza possibilità di appello o grazia. Si trattava di un tentato rimedio – per l'uso che se ne fece
in Lombardia, vedremo, intrinsecamente votato all'insuccesso – messo in atto per sedare la
frequenza dei delitti socialmente allarmanti, rispondente ad oscillazioni, proposte e
perplessità, per l'analisi delle quali si rimanda all’ultimo capitolo. Quello che qui preme
anticipare, intanto, è che sul parere dei consiglieri del Senato in merito alla pena e
all’eventuale raccomandazione dei condannati alla clemenza sovrana, influiva non tanto,
direttamente, la necessità di attuare una politica repressiva di rigore, ma piuttosto un senso di
proporzionalità delle misure punitive che, in alcuni casi, induceva il Supremo tribunale
veronese a sconsigliare la concessione della grazia dal momento in cui, in Lombardia, era
contemporaneamente in vigore una misura straordinaria che imponeva l’irrogazione
potenzialmente molto più disinvolta di condanne capitali.
Se le procedure d'emergenza e le azioni di polizia esprimono più direttamente le scelte
politiche dello Stato, orientate di volta in volta, a seconda dei periodi, in senso più o meno
intimidatorio, repressivo o conciliante, le sanzioni capitali inflitte dai tribunali ordinari e la
«logic of pardoning»7 seguita dal Senato e accolta dall'imperatore rispondono a finalità
«polifunzionali» – per far nostra l'efficace espressione di Monica Stronati8 – tutto sommato
omogenee nel corso dei decenni considerati. La necessità di garantire un equilibrio interno
6 Sessione 18 febbraio 1826, ASMi, SLV, b. 114, c. 439 e Sessione 17 gennaio 1838, ASMi, SLV, b. 180, c. 263.
7 Così T. Kotkas, Pardoning in Nineteenth-Century Finland, «Rechtsgeschichte», X (2007), pp. 152-168.
8 Stronati, Legislazione, scienza giuridica, p. 122.
110
alla gerarchia giudiziaria e di mantenere un criterio di equità tra delitto e punizione; la più o
meno acuta pericolosità percepita di determinati crimini o “tipi criminali”; la considerazione
di un sistema etico e sociale che si traduceva in motivi aggravanti o mitiganti; la reazione
dell'opinione pubblica, in rapporto al delitto e alla sua punizione: sono tutti criteri che di
seguito cercheremo di mettere più precisamente in luce, seguendo, nei ragionamenti dei
senatori, qualche significativa linea interpretativa. E non deve stupire se ciò verrà fatto, alla
luce di quanto testé affermato, in senso cronologicamente trasversale.
L'emersione, nei referati del Senato, delle specifiche contingenze criminali entro le quali si
iscrivono i delitti giudicati dai tribunali lombardi e veneti, va misurata anche in relazione ad
un'altra coordinata, ossia quella territoriale. In che modo, quindi, il contesto geografico viene
preso in considerazione, come possibile motivo aggravante o mitigante, nelle discussioni dei
consiglieri aulici?
Va innanzitutto osservato che riflessioni di tale tenore fanno riferimento ad un piano
territoriale tutto interno al Regno Lombardo-Veneto. Manca infatti, nelle considerazioni dei
senatori, uno sguardo di più ampio respiro, rivolto all'intera compagine imperiale. Anche
questo è, in fondo, il riflesso di un certo grado di autonomia, realizzata sul piano
dell'amministrazione giudiziaria, delle province lombarde e venete, i cui processi venivano
appunto giudicati in terza istanza da un tribunale che aveva esclusiva competenza su di esse: e
sarebbe a questo proposito interessante verificare se, nei protocolli di consiglio dell'Oberste
Justizstelle, si trovino invece considerazioni comparative tra i vari Länder su cui il Supremo
tribunale viennese aveva competenza.
Né le relazioni sui processi capitali fanno direttamente riferimento alle differenze, riguardanti
pure il numero di delitti consumati, tra province lombarde e province venete; differenze che,
anche in questo caso, si riflettono con maggiore intensità sull'attivazione di misure
straordinarie, giudiziarie o di polizia, interessanti molto più massicciamente la Lombardia che
il Veneto9.
9 Anche solo prendendo in considerazione i semplici dati quantitativi delle sentenze capitali, si può osservare
come essi non rispecchino la maggiore problematicità delle province lombarde rispetto a quelle venete; il quadro
che se ne potrebbe dedurre è anzi addirittura opposto. Ammesso un certo grado di approssimazione, tra il 1816 e
il 1848 le condanne capitali eseguite nelle province venete furono 25, quelle graziate 21; in Lombardia vennero
eseguite 37 condanne e graziate 55. Come già precisato, l'approssimazione è dovuta da una parte
all'incompletezza della serie “Affari criminali”, dall'altra alle mie possibili sviste nello spoglio dei Protocolli di
consiglio, utilizzati per rintracciare i processi capitali nel periodo 1816-1819, non coperto dai fascicoli conservati
negli “Affari criminali” il cui limite cronologico inferiore è la fine del 1819. In ogni caso, le statistiche criminali
lasciano supporre che la cifra, almeno nel suo ordine di grandezza, sia verosimile. Le Tafeln zur Statistik
riportano i dati del Regno Lombardo-Veneto solo dal 1829, e sicuramente solo per i delitti comuni: pur non
essendo specificato, ciò si deduce dal fatto che, se nelle tabelle fossero compresi anche i condannati per alto
111
Piuttosto, i senatori alludono alle particolarità delle singole delegazioni provinciali e alle loro
caratteristiche criminali: in questo senso il contesto territoriale veniva talvolta immesso nelle
discussioni sulla proposta di grazia come causa aggravante o, al contrario, mitigante.
Così l'alto tasso di criminalità della provincia di Brescia – chiaramente restituito dalle ricerche
di Loredana Garlati10
–, in un processo per fratricidio istruito e giudicato tra il 1816 e il 1817
venne annoverato tra i motivi principali che portarono il Senato a sconsigliare risolutamente
la grazia contro l'accusato, la cui condanna capitale fu infatti confermata ed eseguita. «La
necessità di un esemplare castigo» sarebbe stato, secondo il relatore Francesco Dalla Porta,
«tanto più indispensabile nella provincia Bresciana […] nella quale è per forza il dirlo con
pari verità che franchezza, sia per l'indole e carattere degli abitanti, sia per una mal diretta
educazione e per antica sfrenata abitudine, sono pur troppo frequenti i delitti; che portano
l'impunità della ferocia e del barbaro sangue freddo»11
.
Pochi anni dopo l'affermazione del consigliere Dalla Porta, la delegazione bresciana
trasmetteva all'appello milanese – che a sua volta le relazionava al Senato Lombardo-Veneto,
secondo la consueta via di comunicazione gerarchica ascendente – alcune considerazioni
sull'incremento del numero dei delitti commessi nella provincia nel corso del 1819. Secondo
la delegazione «l'aumento avvenuto principalmente nelle uccisioni e ferimenti potrebbe
prevenirsi col reprimere l'ubbriachezza e sorvegliare con maggiore vigilanza i frequentatori
delle bettole, e i delatori delle armi»; inoltre, si aggiungeva più polemicamente, avrebbe
«contribui[to] moltissimo al decremento de' delitti che il Tribunale di Brescia fosse più
sollecito nel perfezionare le inquisizioni, e che non rimettesse così facilmente al giudizio
tradimento, il numero delle sentenze capitali sarebbe, in alcuni specifici anni, molto più alto. Le Tafeln zur
Statistik possono essere integrate, per il decennio precedente, con la Statistik des österreichischen Kaiserstaates
di Johann Springer. I dati criminali riservati ai quali Springer poté accedere in quanto docente di statistica a
Vienna negli anni Trenta e Quaranta (cfr. sul punto S. Patriarca, Numbers and nationhood. Writing statistics in
nineteenth-century Italy, Cambridge, Cambridge University Press, 1996, pp. 118-119) vengono qui aggregati in
un'unica tabella riassuntiva; il che permette di avere informazioni non sui singoli anni, bensì sull'intero arco
cronologico 1822-1831. Relativamente al periodo 1824-1836 molto utile è anche una tabella compresa in una
lunga relazione del 1838 del consigliere aulico Antonio Salvotti – che più avanti si avrà modo di approfondire
dettagliatamente – discussa nella sessione 17 gennaio 1838, ASMi, SLV, b. 180, c. 270 e riportata anche in
Grandi, Processi politici, p. 510. Incrociando le tre fonti si evince che dal 1822 al 1848 in Veneto vennero
pronunciate 32 condanne capitali, mentre il dato relativo alla Lombardia è discutibile. Per l'anno 1834 vengono
infatti segnalate 28 condanne capitali ordinarie: una cifra troppo alta e assolutamente sproporzionata rispetto agli
altri anni, e che lascia supporre un errore. Inoltre, secondo la documentazione conservata negli “Affari
criminali”, i processi conclusisi con condanna capitale in Lombardia nel 1834 sarebbero solo cinque; più di venti
fascicoli dovrebbero essere quindi andati perduti. Considerando però validi i dati delle Tafeln, sempre integrati
con quelli del Salvotti e dello Springer, le condanne capitali ordinarie per delitti comuni inflitte in Lombardia,
dal 1822 al 1848, sarebbero 74. Infine, non corrispondente né ai dati desunti dalla documentazione archivistica,
né a quelli delle Tafeln, è la cifra riportata in Mittermaier, Delle condizioni d'Italia, p. 81, secondo il quale dal
1829 al 1841 nel Regno si pronunciarono 65 condanne a morte. 10
Garlati, Il volto umano della giustizia. 11
Sessione 22 aprile 1817, in ASMi, SLV, b. 79, c. 1048.
112
politico alquanti ferimenti, escludendo gli estremi criminali»12
: una critica che rimanda
all'impreparazione più volte constatata dai tribunali superiori in riferimento a quelli inferiori,
e che colpì più volte proprio il Tribunale bresciano soprattutto nei primi anni di applicazione
del codice penale austriaco. Analoghe lamentele erano state esternate all’imperatore e riferite
dal vicepresidente della Polizeihofstelle viennese al Senato veronese nel marzo del 1817; esse
vertevano appunto sulla lentezza e l'impreparazione dei giudici, dovute alla scarsa conoscenza
della legislazione austriaca13
.
La frequenza di episodi criminali commessi nel Bresciano venne ribadita in una relazione
senatoria di poco successiva, relativa alla condanna capitale inflitta ad un giovane omicida. La
relazione riporta un'istanza della Congregazione provinciale di Brescia, la quale, «prendendo
argomento da ciò, che si sono resi frequenti in quella provincia dei fatti attroci, instò [...] che
il castigo [dell'imputato] fosse pronto ed esemplare»14
: una sollecitazione che, pur non accolta
– il Senato avrebbe infatti suggerito la commutazione della pena, confermata dall'imperatore –
lascia intuire da una parte le tensioni dovute al disordine pubblico percepito dagli organi
costituzionali locali, dall'altra una inconsueta ingerenza di questi ultimi in campo giudiziario.
Specularmente, la sporadicità di delitti violenti in altre province poteva fungere da decisiva
causa mitigante in base alla quale proporre la concessione della grazia: ciò avvenne ad
esempio in un processo del 1817 intentato contro alcuni rapinatori valtellinesi e giudicato in
prima istanza dal Tribunale di Sondrio (per altro l'unica delegazione lombarda, come
vedremo, nella quale non venne attivato il giudizio statario), che si risolse con la riduzione
della pena al di sotto degli anni di carcere previsti per i rei di rapina, proprio in virtù della
rarità di episodi criminali e pertanto, in un certo senso, della superfluità di esempi deterrenti15
.
Non sempre, tuttavia, il Senato avvalorava argomentazioni di questo tenore e ne riconosceva
gli effetti mitiganti. Nel 1841 il Tribunale di Belluno perorò la grazia per un omicida di Arsiè
proprio alla luce del fatto che la provincia bellunese non avrebbe avuto «bisogno di grandi
esempi di castighi, per essere ivi quasi sconosciuti i gravi delitti, per essere buone e tranquille
quelle popolazioni»; in questo contesto sociale, l'esecuzione di una pena di morte sarebbe
12
Sessione 26 giugno 1820, ASMi, SLV, b. 90, cc. 1654-1655. 13
Sessione 5 marzo 1817, ASMi, SLV, b. 79, cc. 577-578. Nello specifico, la lentezza della corte bresciana
veniva attribuita allo scarso zelo dei due presidenti, «alla poca armonia de' primo presidente coi giudici» e alla
disorganizzazione nella distribuzione degli affari. «Dicesi, che non vi sia disciplina interna in quella corte, che i
giudici non conoscano bene le leggi austriache e ne facciano un'erronea applicazione, e che non vegliano
all'esercizio dei propri doveri a motivo della precarietà del provvisorio loro impiego. Finalmente dicesi che tanto
le leggi criminali, che le leggi civili austriache richiedino qualche modificazione in vista delle particolari
circostanze del Regno». 14
Relazione 28 ottobre 1823, ASMi, SLV, b. 48, fasc. VI. 129-2. 15
Sessione 12 marzo 1817, ASMi, SLV, b. 79, cc. 655-657.
113
stata, secondo il Tribunale, controproducente, perché avrebbe messo «un terrore in una
Provincia quasi innocente»16
. Questa interpretazione non convinse il Senato, che infatti
confermò la condanna. Non solo, spiegava il relatore Giuseppe Laurin, dal Bellunese
«pervennero processi criminali per atrocissimi delitti, altri dei quali furono puniti colla pena
capitale» (e il riferimento è evidentemente ad Antonio Bortot – la cui vicenda è stata ricordata
nel secondo capitolo – giustiziato più di dieci anni prima; l'unico caso, per quanto ci risulti, di
sentenza capitale effettivamente eseguita in provincia di Belluno); anche ammettendo quanto
sostenuto dal Tribunale di prima istanza, «le gravi pene e quelle medesime dell'ultimo
supplizio oltre al servire alla espiazione del reato, servono anche di esempio. Ed un tale
esempio per un delitto gravissimo quale si è quello di omicidio [...] non può mancare di
effetto anche nella Provincia di Belluno, onde possibilmente prevenire in futuro simili
reati»17
.
La questione della differente percezione della criminalità in rapporto al territorio, che poteva
orientare in certa misura le scelte punitive dei senatori, si sostanzia anche su un piano più
minuto, ossia nella tradizionale e retorica dicotomia tra città e campagna: una dicotomia che –
questo l'aspetto più rilevante perché segnato da una contraddizione apparentemente
irriducibile – sembra declinarsi talvolta in un senso, talvolta in quello opposto.
Nelle relazioni senatorie vi sono, anzitutto, frequenti riferimenti alla città come ricettacolo di
vizi e, di conseguenza, ambiente più “naturalmente” votato alla proliferazione del crimine
rispetto al contesto non urbano. Le analisi sociali ed economiche dei consiglieri del Senato
Lombardo-Veneto annoverano sovente il sovraffollamento delle città, incapaci di offrire
lavoro alla popolazione accresciuta dalle ondate migratorie riversatesi dalle campagne, quale
fondamentale causa criminogena e origine di disordini sociali; una condizione che avrebbe
indotto i numerosi disoccupati a «procurasi il pane con mille invenzioni di spettacoli i quali se
da una parte loro non somministrano se non un malsicuro sostentamento non servono
dall'altra parte se non per distrarre il popolo anche laborioso, e maggiormente rendere il
medesimo immorale con aletarlo all'ozio altresì amato da questa Nazione», specialmente nei
periodi economicamente più critici18
. Dello stesso avviso sarebbe stato, molti anni dopo, un
16
Relazione 21 dicembre 1841, in ASMi, SLV, b. 64, fasc. VI. 100-3. 17
Ibidem. 18
Le parole citate sono tratte dal verbale della sessione senatoria 21 gennaio 1817 (ASMi, SLV, b. 79, c. 176),
quindi in un periodo di piena carestia. Proprio per evitare che i poveri si riversassero dalle campagne alle città in
cerca di lavoro o di carità, il Governo di Venezia, nel giugno del 1815, aveva disposto che essi venissero
trattenuti e sorvegliati nelle loro province di appartenenza. Sul punto di veda G. Monteleone, La carestia del
1816-1817 nelle province venete, «Archivio veneto», C (1969), V serie, vol. 86-87, pp. 23-86: 36. Certo il brano
114
altro osservatore d’eccezione, il feldmaresciallo Radetzky: il quale, al principio del 1848, alla
vigilia dei moti insurrezionali e in un clima di preoccupazione per la diffusione di correnti
liberali e nazionali, annotava nel suo memoriale come «assoluta» fosse la differenza tra la
popolazione cittadina e quella delle campagne:
le prime si compongono di una plebe in gran parte oziosa, antipatica, orgogliosa, arrogante e disposta
ad ogni cattiva azione. Le popolazioni delle campagne sono per lo più bonarie e miti e di buona
moralità, perché conducono una vita patriarcale in case isolate. Questi abitanti delle campagne anzi
veri lavoratori dei campi, che costituiscono la maggioranza, il vero nucleo della popolazione, sono
affatto devoti al governo anche nel Regno Lombardo-Veneto, perché si vedono trattati con equità da
esso19
.
È interessante tuttavia notare come tale interpretazione di fatto coesistesse con una
diametralmente opposta, riconducibile a quel senso di disprezzo misto a diffidenza con cui le
autorità politiche guardavano alle classi contadine – un atteggiamento che emerge molto
chiaramente dall'analisi condotta da Adolfo Bernardello su alcuni rapporti inviati al Governo
di Venezia e redatti nei tardi anni Trenta dai commissari distrettuali, dalle delegazioni
provinciali e dagli esponenti dei ceti economici dominanti veneti, nel contesto di un'inchiesta
promossa dalla Camera aulica viennese sulla diffusione della mezzadria. Pur tenendo conto
dei moventi polemici e degli interessi economici che sicuramente esasperavano il giudizio dei
possidenti, il ritratto del contadino veneto che esce da questi rapporti è quello di un individuo
vizioso e corrotto, soggetto ad una «demoralizzazione [...] quasi generalizzata»20
, a differenza
degli abitanti delle città «ove la popolazione è più raccolta, più facile a ricevere l'impulso che
si vuole darle, ed ove realmente esiste assai più moralità che nelle campagne»21
.
citato non dà neanche pallidamente la misura della drammatica situazione dei moltissimi abitanti delle campagne
che, ridotti in miseria, tentavano di sfuggire alla morte per fame emigrando nelle città. Sul punto si veda, per la
Lombardia, anche J. A. Davis, Conflict and Control. Law and Order in Nineteenth-Century Italy, Atlantic
Highlands, New Jersey, Humanities Press International, 1988 [trad. it: Legge e ordine. Autorità e conflitti
nell'Italia dell'800, Milano, Franco Angeli, 1989, pp. 87-88]. 19
Il brano è tratto dalla traduzione di A. Lucchini, Memoriale del maresciallo Radetzky sulle condizioni d’Italia
al principio del 1848, «Nuova rivista storica», XIV (1930), 6, pp. 63-74: 65, citata anche da Della Peruta, Milano
nel Risorgimento, pp. 108-109. 20
Così si esprime il commerciante veneziano Pietro Maria Dubois, in una relazione riportata in A. Bernardello,
Burocrazia, borghesia e contadini nel veneto austriaco, «Studi Storici», XVII (1976), 4, pp. 127-152: 131; ora
anche in Id., Veneti sotto l'Austria. Ceti popolari e tensioni sociali (1840-1860), Verona, Cierre, 1997, pp. 9-42.
Per Dubois il passo tra la mancanza di educazione morale e una vita criminale è molto breve: «I figli ricevono
dai padri i più funesti insegnamenti ed esempj. Ne ho veduti molti e molti la cui unica educazione consisteva
nell'ammaestrarli alla rapina, maltrattandoli allorché non arrivavano col consueto prescritto bottino». Analoghe
considerazioni sui contadini da parte dei possidenti mantovani sono state rilevate da M. Bertolotti, Le
complicazioni della vita. Storie del Risorgimento, Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 145-146. 21
Il brano è sempre tratto dalla relazione del Dubois: Bernardello, Burocrazia, borghesia e contadini, p. 140.
115
Quello che si vuole qui mettere in luce è come tale duplice approccio, certo più sfumato, si
ritrovi talvolta anche nelle analisi dei consiglieri aulici. Accanto alle considerazioni sulla
depravazione delle città, e senza apparente contraddizione, ecco che la contrapposizione
sociale, culturale e anche criminale tra contesto urbano e contesto non urbano viene invertita
di segno: «Come dunque può attendersi da un rozzo villico di tale tempra, e di sì sfrontata
corruzione» – si chiedeva retoricamente il relatore Giuseppe Zuchiati su un caso di fratricidio
commesso nel bresciano nell'ottobre del 1838 – «che gli sia sacra la vita altrui, e ch’egli
rispetti i vincoli di sangue e della natura costituente il nerbo principale delle relazioni sociali
[?]»22
.
Se il villico, agli occhi dei consiglieri aulici, sarebbe stato capace di tali enormità, non
altrettanto avrebbe dovuto esserlo il cittadino. In un processo discusso in terza istanza nel
giugno del 1816 contro un uomo colpevole di aver ucciso la propria moglie, il relatore Carlo
Conci, in opposizione al parere dell'appello lombardo e della maggioranza dei senatori, non
appoggiò la domanda di grazia (che tuttavia venne accordata23
) proprio per l'ambiente in cui
era nato e cresciuto l'imputato, ossia la città di Milano. L'estrazione urbana e sociale e la
conseguente educazione avrebbero dovuto preservare l'accusato, secondo il consigliere, dal
commettere un delitto che, proprio perché perpetrato in una «città popolosa e colta», sarebbe
stato, per così dire, meno scusabile. Non le tendenze intrinsecamente criminali della grande
città, ma al contrario il suo essere socialmente e culturalmente progredita fungeva, in questo
caso, da motivo aggravante24
. «Questo stesso riflesso» – concludeva il relatore – «dimostra la
necessità presente di un pubblico provvedimento, di congiungere cioè a riparo d'eccessi di tal
Anche Bernardello si chiede se la posizione di Dubois, più favorevole verso la popolazione urbana rispetto a
quella rurale, sia un atteggiamento generalizzato delle classi proprietarie. In relazione a ciò non è un particolare
secondario il fatto che l'estensore della relazione vivesse in città e che i rapporti da lui intrattenuti con le persone
che lavoravano nelle sue proprietà terriere fossero filtrati attraverso quanto riportato periodicamente dai suoi
agenti; che egli fosse, insomma, «un cittadino la cui mentalità rifletteva la dicotomia esistente, sia al livello dei
rapporti di produzione come a livello di cultura e modo di vivere, tra città e campagna nel Veneto e non solo
nella prima metà dell'Ottocento». Ibidem, p. 141. Sul luogo comune dell'immoralità delle plebi rurali, in gran
parte derivato da fenomeni criminali ampiamente diffusi, come il banditismo e il furto campestre, cfr. anche
Meriggi, Il Regno Lombardo-Veneto, pp. 201-205. 22
Relazione 1 maggio 1839, ASMi, SLV, b. 62, fasc. VI. 117-2. 23
Sovrana risoluzione 8 luglio 1816 riportata nei verbali della Sessione 13 agosto 1816, ASMi, SLV, b. 78, cc.
1145-1146. 24
Mi permetto di rinviare, a questo proposito, a F. Brunet, «Lo sfondo del lugubre quadro»: Il giudice istruttore
come traduttore di linguaggi e decodificatore di culture nei processi penali veneziani, 1871-1876, «Acta
Histriae», XVII (2009), 3, pp. 435-452, in particolare p. 447. Pur nel diverso contesto del Veneto di qualche
decennio dopo – ossia nel primo quinquennio di attivazione del sistema giudiziario italiano – è interessante
rilevare come la stessa dinamica, vale a dire la diversa percezione della violenza e quindi della sua tollerabilità a
seconda del luogo – città o campagna – in cui essa veniva perpetrata, rivesta un ruolo molto significativo. Non
solo l'atteggiamento di giudici e procuratori, ma pure le modalità secondo le quali i delitti e i conseguenti
procedimenti giudiziari venivano restituiti dalla stampa quotidiana e specialistica, nonché seguiti dal pubblico in
corte d'assise, risentono in modo evidente e talvolta esplicito di tale percezione di straordinarietà cittadina ed
ordinarietà provinciale nella consumazione della violenza.
116
natura, motivi atti a reprimere in altri lo sfogo di sì forti passioni, coll'esempio di pubblico
severo legale castigo, fine unico e primario della punitiva giustizia»25
. Ciò su cui fa leva il
consigliere Conci è, ancora una volta, quella che potrebbe essere definita come la duplice
opportunità sociale della pena di morte, che si declina su due piani paralleli – per altro non
necessariamente sovrapponibili: l'eliminazione di un pericolo pubblico da una parte, e la
messa in scena di un monito dall'altra.
2. Subire la pena «ad altrui esempio»26
: la funzione pubblica delle esecuzioni capitali
Il primo motivo che orientava le discussioni dei senatori e le loro valutazioni sulla possibilità
di suggerire la concessione di una grazia era la consapevolezza dell'importanza politica e
simbolica dell'esecuzione, «la performance finale, pubblicamente palese e quindi più rilevante
di tutta l'istituzione»27
.
Da questa prospettiva, si può osservare come essa fosse attraversata da un vero e proprio
rapporto politico tra due attori: da una parte lo Stato che allestiva, per il pubblico che vi
assisteva, la soppressione di un delinquente; dall'altra, appunto, il pubblico, che poteva non
essere spettatore passivo, ma diventare anch'esso soggetto politico, attivo e reagente; talvolta
manifestando, in modo più o meno organico o disordinato, un certo grado di opposizione,
come dimostra il caso vicentino illustrato nel primo capitolo. È anche questa consapevolezza
– oltre all'imprescindibile eredità degli assunti filosofici dell'illuminismo giuridico – che
guidava le elaborazioni dottrinali relative alla pena di morte; e ciò aveva, naturalmente, un
puntuale riflesso anche nella prassi giudiziaria e nelle concrete valutazioni volte a stabilire, di
caso in caso, l'opportunità pubblica di eseguire o commutare una sentenza capitale.
La centralità del rapporto tra la giustizia penale e, in particolare, le sue estrinsecazioni più
visibili e “spettacolari” da una parte, e il pubblico dall’altra, si riflette anche nel linguaggio e
negli strumenti retorici dei manifesti e degli articoli che notificavano la sentenza dei
condannati a morte; essi, nel comunicare il fatto criminoso e le caratteristiche del reo, sono
volti, in ultima istanza, a giustificare un atto di giustizia di non scontata efficacia. In questa
direzione, è interessante verificare su quali aspetti gli estratti a stampa delle sentenze insistano
maggiormente: la violenza, i vizi, l'irreligiosità del condannato; o piuttosto la pietà per la
vittima; o ancora la brutalità, la disumanità del delitto commesso o la superficialità del
movente. «Con la sentenza capitale che viene oggidì eseguita» concludeva il manifesto della
25 Sessione 5 giugno 1816, ASMi, SLV, b. 77, cc. 888-894. 26
Correlazione 20 maggio 1823, ASMi, SLV, b. 48, fasc. VI. 62-2. 27
Baronti, La morte in piazza, p. 102.
117
condanna a morte inflitta ad un uomo colpevole di aver ucciso i propri figlioletti, «la Giustizia
va a recidere dal consorzio sociale un aborto che ha aggravata di tanto la umiliazione della
umana natura, e del quale si potesse così seppellire anco la memoria»28
.
Il «tremendo castigo»29
capitale assumeva quindi, prima di tutto, lo scopo deterrente e
ammonitore di una minaccia dissuasiva, ma anche una funzione equitativa atta a rappresentare
il ristabilimento dell'ordine e della giustizia sociale e la ricomposizione del disequilibrio
arrecato dal delitto commesso; una ricomposizione “richiesta” dalla stessa opinione pubblica
– intesa qui, è bene sottolinearlo, nel suo senso meno strutturato e illuminista, si potrebbe dire
più “spontaneo”, come reazione del pubblico ai delitti, alla loro punizione e in generale
all'amministrazione della giustizia. Le espressioni utilizzate a questo proposito nelle relazioni
dei tribunali e il significato che ad esse può essere attribuito, consentono, a mio avviso, di
allargare le deduzioni di Simona Mori sui rapporti di polizia anche al campo della produzione
testuale giudiziaria: locuzioni come «pubblica opinione», ma anche «pubblica voce»,
«giudizio pubblico», «pubblica indignazione», «fama pubblica», «impressione del pubblico»,
«pubblica stima», «pubblica vociferazione», «pubblica pietà», ed altre analoghe, sono tutte
sinonimi che stanno a significare, precisamente, un «giudizio diffuso, condiviso, elaborato
empiricamente da una specifica comunità e perciò utile a riflettere a un potere pubblico
sostanzialmente monocratico un'immagine al tempo stesso di parte, dunque eloquente circa
l'impatto sui sudditi dell'attività amministrativa, e obiettiva perché prodotto di una
decantazione collettiva dei giudizi»30
.
Le violente reazioni popolari alla notizia di un delitto assumevano quindi, agli occhi dei
consiglieri del Senato, un fondamentale valore aggravante: «tanta, e tanto universale, era la
persuasione della costui reità, tanto il fremito ispirato dall’attrocità del delitto» – commenta la
relazione su un uomo processato dal Tribunale di Treviso nel 1822 per omicidio e rapina –
«che gli abitanti in massa si unirono alla squadra di sicurezza per procurarne l’arresto […].
Arrestato che ei fu, venne immediatamente consegnato, così lordo di sangue, alla Pretura,
condottovi tra gli improperi, e gl’insulti dei popolani, che la squadra a stento poté frenare,
onde non lo pestassero di pugni e di calci, e non lo tempestassero di pietre»31
. La relazione e il
manifesto a stampa sul caso, sopra menzionato, del padre uccisore dei propri figli,
informavano l'imperatore e la popolazione che tale era il «grido d’indignazione che si sollevò
28
Sentenza a stampa, 24 maggio 1834, ASMi, SLV, b. 56, fasc. VI. 162-3. Del processo, giudicato in prima
istanza dal Tribunale di Brescia, scrive anche Garlati, Il volto umano della giustizia, pp. 244-247. 29
Relazione 19 novembre 1823, ASMi, SLV, b. 48, fasc. VI. 144-2. 30
Mori, La polizia fra opinione e amministrazione, p. 583. 31
Relazione 3 novembre 1832, ASMi, SLV, b. 55.
118
per tutto il paese e per la provincia di Brescia allorquando si seppe la spietata azione di un
padre che aveva in tal modo infierito contro un parvolo innocente», che mentre l'imputato
veniva condotto alle carceri di Brescia «una folla di persone attorniando il suo carro lo
accompagnava per lungo tratto di strada, prorompendo in parole di esecrazione, e
augurandogli lo estremo supplizio»32
.
I delitti pubblicamente percepiti come «crudeli e clamorosi» avrebbero giocoforza richiesto,
secondo i senatori, un «esempio severo di punitiva giustizia»33
; non solo per intimidire34
,
quindi, ma anche per assecondare un giudizio pubblico.
Proprio tenendo conto dell'istanza primariamente pubblica delle condanne capitali, il
consigliere Filippo Maffei, in una posizione di minoranza esposta in una correlazione del
1823, propose la grazia a favore di uomo colpevole di omicidio e membro di una banda che
aveva commesso decine di rapine in Val Brembana e Valsassina. Per la maggioranza dei
consiglieri aulici la giovane età del reo, la più mite condanna per uccisione proferita dal
Tribunale di Bergamo e il fatto che il delitto risalisse all'anno precedente (e pertanto «minore
[sarebbe stato] il bisogno di un tardo esempio»), non costituivano sufficienti cause attenuanti
perché il condannato «di tante rapine gravato» avrebbe dimostrato «di quanto la malvagità
superi gli anni, né [avrebbe dato] motivi di potersi credere un pentimento, che meno
pericoloso il renda alla società»35
. La grazia proposta dal correlatore era motivata sia
dall'opportunità di non considerare «del tutto sterile» il giudizio della prima istanza; sia,
appunto, dalla constatazione che «il tempo trascorso dall’epoca del commesso delitto ne
infievolì la memoria, cosicché la morte del reo non servirebbe più ad ispirare quel salutar
terrore, a cui mira la legge per l’esempio pubblico»36
.
32
Relazione 14 marzo 1834, ASMi, SLV, b. 56, fasc. VI. 162-3. 33
Sessione 28 maggio 1818 ASMi, SLV, b. 82, c. 1457. Le espressioni si riferiscono ad un duplice omicidio
giudicato dalla Corte di Bergamo, imputato ad un uomo definito dai senatori quale «sanguinario, spavento e
infamia del suo contado». La bontà della conferma dell'esecuzione, avvenuta a Bergamo nell'agosto successivo,
viene significativamente ribadita anche dalla «Gazzetta di Milano», 10 agosto 1818, n. 220, che sottolinea la
premeditazione e la spietatezza del delitto. 34
Talvolta le relazioni senatorie propongono la conferma della sentenza capitale facendo esplicitamente ed
esclusivamente leva sul suo valore intimidatorio. È questo il caso di una condanna che il Senato avallò – un poco
forzando la non pienissima prova testimoniale, come ci sembra lecito dedurre dalle carte processuali – contro un
detenuto della casa di forza di Mantova, ove «si trova[va] raccolta la genia più scellerata del Regno Lombardo-
Veneto», accusato di aver ferito a morte una guardia nel corso di una rivolta. Come esponeva nella sua relazione
il consigliere Ludovico Salvioli, il profilo altamente pericoloso del delitto commesso avrebbe richiesto ad ogni
costo «un grande esempio di rigore […] onde tenere in freno una turba riottosa di malviventi, che mordono le
catene cui le avvinse il delitto, e non anelano che alla strage a chi per dovere è costretto a invigilare su le loro
trame colpevoli. La sola vista del palco di morte può distogliere dall’idea di nuovi delitti ed atterrire condannati a
pene perpetue o di lunga durata» (Relazione 27 novembre 1824, ASMi, SLV, b. 49, fasc. VI. 191-2). 35
Relazione 8 aprile 1823, ASMi, SLV, b. 48, fasc. VI. 46-2. 36
Correlazione 8 aprile 1823, Ibidem. Secondo il parere di maggioranza, la sentenza capitale venne confermata e
119
L'efficacia dell'esecuzione sembra quindi far capo a riflessioni che non sempre si
sovrappongono a quelle relative alla percepita gravità di un delitto. La discussione senatoria
del maggio 1822 sulla sentenza capitale pronunciata contro un uomo colpevole di aver ucciso
il proprio figlio, giudicato in prima istanza dal Tribunale di Treviso, se da una parte è infarcita
di considerazioni dichiaratamente volte a sottolineare l'enormità del delitto, dall'altra lascia
trapelare come i giudici si fossero comunque posti il dubbio se la conferma di tale condanna,
pur proferita per un crimine tanto grave, sarebbe stata pubblicamente opportuna: «L’estremo
supplizio d’un Padre uccisore del proprio figlio» – specifica infatti il relatore Gognetti
riassumendo la posizione di minoranza dei voti dei tribunali di prima e seconda istanza –
«non può servire da esempio in quanto che la storia degli uomini rare volte presenti simile
avvenimento. La paterna dignità […] scapiterebbe nella pubblica opinione: e tale ribrezzo ne
nascerebbe, che forse produrebbe un effetto contrario a quello, che la legge si propone nella
solenne esecuzione della pena di morte»37
. Quest'ultima – pur infine confermata – avrebbe
rischiato, secondo alcuni consiglieri, di provocare una frattura proprio in quell'ordine sociale e
famigliare che essa, al contrario, aveva il compito di ripristinare.
Se, come osservava il senatore Johann Nepomuk Schwarzkönig, in alcuni casi «pare che non
si possa invocare la Sovrana Clemenza senza timore di scemare nel pubblico quell’orrore che
sì atroce misfatto doveva produrre»38
, i consiglieri si dimostrano sempre attenti anche ad
individuare il confine travalicato il quale la funzione esemplare della pena di morte sarebbe
venuta meno, per lasciar posto ad un «sentimento di commiserazione»39
.
In relazione a quanto ora esposto, un aspetto da chiarire, al quale si è già brevemente
accennato nel primo capitolo, è la questione del perdono della parte lesa. Abbiamo visto come
esso non giocasse alcun ruolo a livello normativo e procedurale in materia di grazia; e, d'altra
parte, la vittima del reato era esclusa da qualsiasi fase o attività processuale in generale40
. A
differenza di altre legislazioni coeve, come quella sabauda, la procedura austriaca non
l’imputato giustiziato il 3 luglio 1823, come si evince dall’estratto dell’inquisizione pubblicato, assieme alla
sentenza, nella «Gazzetta di Milano», 5 luglio 1823, n. 186. 37
Relazione 21 maggio 1822 ASMi, SLV, b. 46, fasc. VI. 63-2. 38
Relazione 20 marzo 1829, ASMi, SLV, b. 53, 1929, fasc. VI. 31-2. 39
Relazione 16 ottobre 1844, ASMi, SLV, b. b. 69, fasc. VI. 76-3. 40
Sul ruolo della vittima nel processo penale di tipo inquisitorio (con particolare riferimento al codice penale
austriaco del 1803) e nel processo di modello accusatorio, si vedano le pagine di E. Dezza, Modello inquisitorio,
modello accusatorio e ruolo della vittima nel processo penale: alcune riflessioni preliminari in prospettiva
storica, «Acta Histriae», XII (2004), 1, pp. 1-10, soprattutto pp. 5-6. L'assenza della vittima nel processo penale
austriaco si inserisce in un quadro in cui, secondo Dezza, «la lucida razionalizzazione dei principi inquisitori e
statualisti attribuisce ad un giudice onnivoro non solo i compiti di accusare, difendere e giudicare, ma anche di
tutelare gli interessi civili della vittima senza consentire a quest'ultima alcuna particolare iniziativa».
120
richiedeva una pacificazione “privata” preliminare alla concessione della grazia; non vi era
quindi alcun obbligo giuridico che vincolasse, in questo senso, il diritto di clemenza.
La lettura della documentazione senatoria permette di concludere che il peso della vittima e
del suo eventuale perdono era nullo anche sul piano della prassi giudiziaria; nessuna delle
relazioni inviate all'imperatore dal Senato Lombardo-Veneto fa il minimo accenno a questo
aspetto41
. Nelle considerazioni dei consiglieri aulici, nel loro vaglio di cause aggravanti e
mitiganti, non vi è spazio per il perdono privato.
La suggestiva interpretazione di Monica Stronati sui codici sabaudo e italiano del 1859 e
1865 – secondo la quale il perdono, non più della «parte privata direttamente interessata»
come previsto dalla precedente legislazione, non sarebbe tuttavia scomparso ma anzi
reintrodotto, in senso più allargato, nella nuova procedura penale sottoforma di «perdono
della comunità, ovvero l'opinione pubblica»42
– si può almeno in parte estendere alla norma e
alla prassi giudiziaria austriache: pur all'interno di un modello procedurale inquisitorio e
segreto, l'opinione pubblica, nell'accezione sopra dichiarata, è un parametro con il quale i
senatori, più o meno direttamente, dovevano sempre misurarsi.
3. Un «problema da sciogliere»43
. La grazia come strumento riequilibratore della
gerarchia giudiziaria: sui delitti di uccisione ed omicidio
Scopo ulteriore dei provvedimenti di clemenza, deducibile dalle relazioni senatorie, si
consuma, principalmente, su un piano interno all'amministrazione giudiziaria: le
commutazioni delle pene capitali venivano spesso proposte con lo scopo specifico di
appianare le divergenze tra gli orientamenti giuridici talvolta sussistenti tra prima e seconda
istanza, e le conseguenti tensioni che ne potevano derivare.
Come già ricordato, il ruolo del Senato era anche quello di dare una certa uniformità alla
giurisprudenza dei tribunali del Regno Lombardo-Veneto e risolvere nel modo più coerente
questioni inerenti all'interpretazione di determinati fenomeni criminali. In questo contesto,
fondamentale nodo giuridico carico di conseguenze sulle irrogazioni delle condanne capitali e
le loro eventuali commutazioni, lungamente dibattuto nelle relazioni e nei protocolli di
consiglio soprattutto nei primi anni di applicazione della Franziskana (ma si tratta di una
discussione che attraverserà i decenni), è la non univoca identificazione delle fattispecie di
41
Lo stesso nota, per il caso tedesco, Kesper-Biermann, Giustizia, politica e clemenza, p. 353. 42
Stronati, Legislazione, scienza giuridica, pp. 106-107. 43
Relazione 21 luglio 1832, ASMi, SLV, b. 55. Il problema da sciogliere cui allude in questa relazione il
consigliere aulico Bernardo Ceccopieri consisteva nello stabilire il capo di imputazione al quale il delitto
commesso poteva essere ricondotto, omicidio o uccisione.
121
uccisione e di omicidio; delitto, quest'ultimo, che si distingueva dal primo per il dolo (la
cosiddetta «prava intenzione»), ossia l'intenzionalità di provocare la morte della vittima.
Un problema di diritto sostanziale, ma certo non squisitamente ed aridamente tale. Da una
parte, il riconoscimento dell'una o dell'altra tipologia di delitto implicava importanti ed
irreversibili conseguenze sul piano punitivo: per i rei di uccisione il codice penale comminava
una pena dai 5 ai 10 anni di carcere (§125 Cp.) mentre l’omicidio era, appunto, punito con la
morte. Dall'altra, la questione dibattuta rappresentava una delle arene privilegiate all'interno
delle quali si confrontavano i diversi orientamenti interpretativi delle prime istanze e delle
istanze superiori. Tali interpretazioni – e quindi la propensione, da parte dei tribunali, verso
l'una o l'altra definizione del delitto – sovente riflettono una più generale lettura delle
dinamiche comunitarie e delle tensioni sociali entro cui il crimine era stato consumato. Con
esse, e con un contesto segnato da una violenza e da una povertà estremamente diffuse44
, i
tribunali provinciali si misuravano più da vicino, senza le mediazioni ed i filtri attraverso i
quali il processo arrivava al secondo e poi la terzo grado di giudizio.
E non è certo casuale la tendenza, da parte delle prime istanze, a propendere per la fattispecie
meno grave, derubricando il delitto da omicidio ad uccisione, anche nei procedimenti in cui si
ha l'impressione che tale orientamento scricchioli sotto il peso delle risultanze processuali45
: e
forse altrettanto poco casuali sono i frequentissimi interventi dei tribunali d'appello, volti a
riformare le condanne relativamente miti per uccisione irrogate in prima istanza in sanzioni
44
Il periodo preso in considerazione in questo studio è delimitato da due gravi carestie, quella del 1815-1817 e
quella del 1846-1847. In generale, sulla condizione di povertà, soprattutto delle classi contadine, e sulle sue
conseguenze sociali, si veda M. Berengo, L’agricoltura veneta dalla caduta della repubblica all’unità, Milano,
Banca Commerciale Italiana, 1963, in particolare pp. 89-92; Monteleone, La carestia del 1816-1817 e Id., La
questione del pauperismo degli «Annali Universali di Statistica» (1824-1848), in Il Lombardo-Veneto (1815-
1866) sotto il profilo politico, culturale, economico-sociale. Atti del convegno storico, a cura di R. Giusti,
Mantova, Accademia Virgiliana di Mantova, 1977, pp. 233-269; F. Della Peruta, Per la storia della società
lombarda nell'età della Restaurazione, «Studi Storici», XVI (1975), 2, pp. 305-339; Id., Aspetti della società
italiana nell’Italia della Restaurazione, «Studi Storici», XVII (1976), 2, pp. 27-68 e Id., Aspetti sociali dell'età
della Restaurazione, in La Restaurazione in Italia. Strutture e ideologie. Atti del XLVII congresso di storia del
Risorgimento italiano, Cosenza 15-19 settembre 1974, Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento italiano,
1976, pp. 421-469; A. Zannini, Vecchi poveri e nuovi borghesi, in Venezia e l’Austria a cura di G. Benzoni, G.
Cozzi, Venezia, Marsilio, 1999, pp. 169-194. 45
La lettura delle relazioni consente di intuire, in questo senso, una certa forzatura, soprattutto qualora si tratti di
omicidi commessi in conseguenza a provocazioni, o nel corso di liti degenerate. Sovente le prime istanze
tendevano ad interpretare simili casi quali uccisioni, escludendo quindi la «prava intenzione»; anche quando,
appunto, tale interpretazione sembra poco credibile. Un esempio significativo è il già menzionato processo
contro Bartolomeo Marcolini, detto il Matto, colpevole di aver ucciso il proprio fratello durante una lite.
L'imputato, che si era accanito contro la sua vittima con un falcetto colpendolo ripetutamente alla testa, al volto e
al ventre «in maniera, che gli fece sortire le budella», ed aveva tentato di ferire anche la cognata accorsa per
aiutare la vittima, venne condannato dal Tribunale di prima istanza di Brescia per titolo di uccisione (contro, per
altro, il voto del relatore, che sosteneva l'ipotesi di omicidio); una sentenza che sarebbe stata riformata
dall'appello lombardo in una condanna a morte per omicidio, confermata dal Senato e infine graziata, forse anche
per dei dubbi relativi alla salute mentale dell'imputato. Relazione 1 maggio 1839, ASMi, SLV, b. 62, fasc. VI.
117-2. Del caso, sulla base della documentazione del Tribunale di Brescia, scrive Garlati, Il volto umano della
giustizia, pp. 371-376.
122
capitali per omicidio.
Tale divaricazione ermeneutica tra prima e seconda istanza è rilevata anche dalle ricerche di
Loredana Garlati46
sul Tribunale criminale bresciano. Secondo la studiosa uno dei margini di
libertà che i giudici di prima istanza si potevano in questi casi ritagliare nella pronuncia della
sentenza, era costituito proprio dalla possibilità di stabilire a quale tra le due figure giuridiche,
omicidio o uccisione, potesse essere ricondotto un delitto, e di mettere in atto, quindi, un
«abile escamotage derubricatorio»47
; ma è evidente che questa discrezionalità era strettamente
delimitata, oltre che dalla rigidità del codice penale, anche e soprattutto, come osserva
Claudio Povolo, dalla «sottile logica gerarchica»48
sottesa all'intera struttura giudiziaria, in
base alla quale la sentenza doveva appunto fare i conti con la revisione d'appello.
Ciò che in questa sede ci preme osservare, ai fini del nostro discorso, è il modus operandi
messo quasi sempre in atto dal Senato in tali occasioni, il quale con una mano confermava il
parere dell’appello in merito alla definizione della fattispecie giuridica, salvo poi, con l'altra,
proporre la grazia. In questo modo il giudizio della prima istanza veniva in una certa misura
indirettamente avvalorato, e la condanna capitale mitigata. «La disparità dei pareri
manifestatasi nel primo e secondo giudizio circa la qualità del delitto» – esplicitava il
consigliere Quirino Chiesa49
in una relazione su un processo per omicidio, che il Tribunale di
Bergamo aveva invece giudicato quale uccisione – «pare consigliare che non si lasci perire di
morte infame colui, che un Tribunale ha giudicato meritevole della pena temporaria»50
.
In questi casi ambigui, non univocamente risolti, «al confine tra omicidio e uccisione»51
, la
proposta di commutazione graziosa della condanna capitale aveva quindi, primariamente, lo
scopo garantista di appianare gli eventuali dubbi sull'interpretazione giuridica del delitto –
dubbi in un certo senso intrinsecamente plausibili, propri, si potrebbe dire, del “mestiere di
giudice”, come notava il presidente del Senato von Eschenburg; secondo il quale il magistrato
non avrebbe certo potuto «internarsi quasi con occhio divino nei più remoti movimenti del
46
Garlati, Il volto umano della giustizia. 47
L. Garlati, Quando il diritto si fa giustizia: il ruolo del magistrato penale nel Regno Lombardo-Veneto, «Acta
Histriae», XVII (2009), 3, pp. 491-504: 494. Sulla tendenza delle prime istanze, in generale, ad «adeguare il
codice alla società nei cui confronti doveva essere applicato» anche per mezzo della derubricazione del delitto –
che portava ad una parziale «depenalizzazione di certi comportamenti sociali» – si veda Chiodi, Il fascino
discreto del libero convincimento, pp. 48-58. 48
Povolo, La selva incantata, p. 74. 49
Si osserva che Chiesa era consigliere dell'appello lombardo, ma in questo processo, forse per una supplenza
affidatagli, funge da relatore in Senato. 50
Relazione 3 maggio 1834, ASMi, SLV, b. 57, fasc. VI. 38-2. Lo stesso concetto, espresso praticamente con le
stesse parole, si trova anche in un caso di omicidio dell'anno precedente, giudicato dal Tribunale di prima istanza
di Pavia quale uccisione e relazionato in Senato dal consigliere Salvotti (Relazione 27 agosto 1833, ASMi, SLV,
b. 56, fasc. VI. 116-2). 51
Relazione 11 luglio 1832, ASMi, SLV, b. 55, fasc. VI. 83-2.
123
cuore umano»52
. Ma ulteriore implicito effetto della grazia era, appunto, anche quello di
sciogliere le frizioni e riequilibrare gli sbilanciamenti intercorrenti tra le istanze inferiori della
gerarchia giudiziaria, che si riflettevano pure nelle diverse letture dei fatti criminali e,
conseguentemente, nella difformità delle pene inflitte.
4. La grazia come sistematico correttivo del codice: sulla falsificazione delle carte di
pubblico credito
Un altro importante aspetto della «polifunzionalità» della grazia è anch'esso rispondente a
ragioni che si potrebbero definire strettamente giuridiche, come si evince dal tipo e dalla
frequenza delle commutazioni delle condanne a morte irrogate per un particolare delitto, ossia
la falsificazione di carte di pubblico credito: una fattispecie, ricordiamo, per la quale il codice
penale del 1803 comminava la pena di morte (§94)53
, nonostante le perplessità manifestate
anche in sede di discussione giuridica.
Le pagine della «Giurisprudenza pratica», ad esempio, ospitarono indirettamente l'opinione
critica del giurista e consigliere aulico Gallus Aloys Kleinschrod sulla pena prevista contro il
falsificatore, giudicata troppo severa per un delitto non tanto grave da far sì che «l’ordine
pubblico esig[esse] il sagrifizio della vita del reo». La condanna a morte pronunciata dalla
magistratura inferiore, ribatteva tuttavia Franz von Egger, era non solo sottoposta ad altri due
gradi di giudizio, ma «finalmente al sovrano, coi motivi militanti per una mitigazione»:
proprio l'automatismo dell'appello prima, e della possibilità di ottenere la grazia poi, avrebbe
rappresentato, secondo Egger, una garanzia sufficiente contro una soverchia severità54
.
Il «rimprovero di eccessiva durezza» avanzato da Kleinschrod e, dall'altra parte,
l'osservazione di Egger sul garantismo della grazia, si sostanziano direttamente, nella prassi,
in un orientamento punitivo di fatto univoco: tutte le condanne capitali inflitte per
falsificazione nel Regno Lombardo-Veneto (ma la constatazione, come abbiamo visto, si può
quasi estendere a tutta la monarchia) vennero commutate in via di grazia in pene detentive
52
Sessione 11 novembre 1825, ASMi, SLV, b. 113, c. 2761; la discussione riguarda il processo per omicidio in
ASMi, SLV, b. 50, fasc. VI. 322-2. 53
La severità della pena prevista per la falsificazione sarebbe, secondo Mario Cattaneo – il quale si riferisce al
codice penale francese del 1810 e alle sue analoghe disposizioni – un chiaro retaggio dell'impostazione
concettuale di ancien régime, che riconduceva tale delitto alla lesa maestà, essendo il conio delle monete
prerogativa esclusiva della sovranità. M. Cattaneo, L'autoritarismo penale napoleonico, in Codice dei delitti e
delle pene pel Regno d'Italia (1811). Ristampa anastatica, a cura di S. Vinciguerra, Padova, Cedam, 2002, pp.
XXIII-XXXII: XXVIII-XXIX. Un'interpretazione di ordine più politico-economico viene proposta da Tschigg,
La formazione del codice penale, p. LXIII. Con la banconote (Bankozettel), massicciamente emesse dal governo
austriaco per assorbire l'inflazione, venivano pagati gli impiegati e riscosse le imposte: da ciò si dedurrebbe
l'importanza economica di esse e la conseguente severità della pena prevista per la loro falsificazione. 54
Von Egger, Dissertazioni e commenti sulla giurisprudenza, XXV (1841), parte II, pp. 4-5.
124
relativamente miti.
La tendenza a trattare questo tipo di reato con sistematica indulgenza va ricondotta – come
osserva Sylvia Kesper Biermann per la Germania coeva55
– allo scopo immediato di «colmare
le lacune» della legislazione ed «attenuare pene considerate eccessivamente dure»56
. Ma non
solo: osservando il fenomeno più a lungo termine, si può interpretare l'uso generalizzato della
grazia sulle sentenze capitali pronunciate contro i falsificatori come un'abolizione di fatto
della pena di morte per questo specifico reato; una sorta di fase “sperimentale” precedente
l'abolizione di diritto. Quest'azione correttiva dei riferimenti normativi di durata relativamente
lunga, preparatoria ad un'effettiva modificazione legislativa, è una funzione di cui,
storicamente, la grazia è stata spesso investita57
. Non a caso, nel rinnovato codice penale
austriaco del 1852 la pena di morte per falsificazione sarebbe stata sostituita con pene
detentive di varia durata58
.
5. I falsificatori di Milano
Proponiamo di seguire, almeno in alcuni suoi momenti salienti, un processo interessante sotto
diversi punti di vista. Esso, oltre ad illustrare la prassi ora descritta relativa alla gestione
punitiva del delitto di falsificazione e al ruolo della grazia in questo contesto, riassume in sé
molti degli elementi centrali dei procedimenti giudiziari esaminati, alcuni dei quali abbiamo
già avuto modo di osservare più diffusamente nei precedenti capitoli: il sistema di controllo
formale e gerarchico esercitato dal Senato sulle istanze inferiori; la duplicità del valore –
incriminante e mitigante – della confessione; la valutazione della legittimità delle più o meno
esplicite assicurazioni o promesse di grazia, avanzate dalle autorità giudiziarie inferiori o di
55
Kesper-Biermann, Giustizia, politica e clemenza, p. 350. Anche R. J. Evans, Rituals of retribution. Capital
punishment in Germany: 1600-1987, New York, Oxford university press, 1996, p. 232, conferma il dato
quantitativo: in Prussia, tra il 1818 e il 1847, nessun falsificatore venne effettivamente giustiziato. 56
A proposito di questa particolare funzione della grazia, Petra Overath riporta le parole del ministro bavarese
Ludwig von der Pfordten che nel 1849 spiegava al re, a proposito di un progetto di legge sul regolamento del
diritto di grazia: «Unmöglich kann die Todesstrafe in allen Fällen vollzogen werden, für welche sie jetzt noch
gesetzlich besteht; es muß also die Begnadigung gleichsam die Funktion der Gesetzgebung übernehmen».
Overath, Tot und Gnade, p. 174. 57
Su questo punto si veda ancora Stronati, Legislazione, scienza giuridica, pp. 122-123. 58
Nel peggiore dei casi, al reo di contraffazione di carte di pubblico credito il codice penale del 1852 comminava
la pena del carcere duro a vita (§108), o dai dieci ai venti anni di carcere qualora la contraffazione non fosse stata
eseguita «con istromenti che facilitano la moltiplicazione di tali carte». Codice penale austriaco 27 maggio 1852
posto in vigore col giorno 1. settembre stesso anno, prima edizione ufficiale, Milano, Imperiale Regia Stamperia,
1852. Sul finire degli anni ’30, tuttavia, si assistette ad un relativo inasprimento del trattamento punitivo riservato
ai falsificatori. La sr. 20 maggio 1829 firmata dal futuro imperatore Ferdinando, al quale Francesco I aveva
demandato «l'evasione di alcuni affari», ordinava infatti che tutti i condannati per falsificazione di carte di
pubblico credito e detenuti nelle carceri provinciali, anche nel Regno Lombardo-Veneto, avrebbero dovuto
essere trasferiti, al pari dei condannati per alto tradimento, presso gli stabilimenti di pena dello Spielberg o di
Gradisca (Gorizia): ASMi, SLV, b. 130, c. 1592 e Grandi, Processi politici, pp. 311-313.
125
polizia nel corso dell'inquisizione; la questione delle mitigazioni delle pene detentive, che
verrà più precisamente trattata nel successivo paragrafo.
Il Tribunale criminale di Milano istruì, tra il 1822 e il 1823, un lungo processo che coinvolse
diversi imputati, accusati di aver falsificato e messo in circolazione delle cedole, la
contraffazione delle quali era stata riconosciuta dal direttore generale della polizia di Milano
Carlo Giusto Torresani in persona; il quale, «conoscitore dell'idioma tedesco»59
, si era accorto
di alcuni grossolani errori ortografici nelle cedole stesse.
Il Senato non solo confermò le due sentenze capitali pronunciate dalle istanze inferiori, ma
estese la stessa pena ad un altro inquisito – anch'egli confesso – salvo poi proporne la
commutazione, confermata dall'imperatore: a 15 anni di carcere per i primi due imputati, e a
sei per il terzo.
La pena reale inflitta a quest'ultimo, definito dal relatore Mazzetti quale «galantuomo» anche
se «troppo amante delle bettole e delle donne»60
, mostra chiaramente come la tensione tra
sanzione comminata e percezione di equità sia in questo caso altissima: una tensione che
viene sciolta – e al tempo stesso esplicitamente dichiarata – attraverso l'intervento grazioso
del sovrano suggerito dal Senato.
Come già si osservava, la commutazione delle sentenze capitali si risolveva di rado
nell'inflizione di pene detentive di durata inferiore ai 20 anni di carcere. Ciò succede tuttavia
sovente nei processi per falsificazione, anche perché essi, coinvolgendo di solito più imputati,
richiedevano ai senatori di utilizzare una scala punitiva adeguatamente ampia61
. È evidente,
infatti, come la grazia fosse utilizzata, in questo contesto, anche per garantire l'equilibrio tra le
sentenze pronunciate; il diverso grado di responsabilità dei vari imputati nella consumazione
del delitto veniva appunto ripristinato attraverso la grazia, la quale consentiva di applicare
pene più sfumate.
I consiglieri aulici si trovarono a sciogliere un ulteriore nodo problematico: un altro dei molti
imputati, che pur secondo i giudici aveva avuto un ruolo centrale nell'organizzazione del
59
Relazione 4 febbraio 1824, ASMi, SLV, b. 47, fasc. VI. 178-7. 60
Ibidem. 61
Si veda anche un processo più tardo, istruito e concluso nei primi anni Quaranta, contro un gruppo di imputati
per falsificazione – tra i quali uno solo era suddito austriaco – le cui sentenze capitali vennero commutate in pene
detentive dai 10 ai 20 anni di carcere da scontarsi nella fortezza dello Spielberg (uno dei condannati avrebbe poi
ottenuto in via di grazia il trasferimento in un luogo di detenzione più meridionale). Cfr. Relazione 10 agosto
1847, ASMi, SLV, b. 65, fasc. VI. 66-78. Documentazione di prima, seconda e terza istanza relativa a questo
processo si trova anche in OeStA, AVA, OJ, LVS, k. 32. Ulteriori informazioni sono contenute pure in una nota
del Senato Lombardo-Veneto alla Cancelleria Intima di Corte e di Stato, datata 28 dicembre 1843, OeStA,
HHStA, SK, Pr, LV, K. 55 (alt Fasz. 75), con la quale veniva trasmessa una supplica delle vittime della
falsificazione (due commercianti ungheresi), diretta all'ambasciatore austriaco nello Stato Pontificio, affinché
egli intercedesse presso il Governo di Milano sollecitando il rapido disbrigo della causa.
126
reato, aveva infatti eluso la pena di morte per essersi rifiutato di confessare, ed era stato
quindi condannato a 20 anni di carcere duro – il massimo della pena irrogabile, ricordiamo,
qualora la colpevolezza di un inquisito per un delitto capitale fosse stata provata solo
attraverso le prove indiziarie. Le imposizioni della legge – in conseguenza delle quali, in
questi casi, la punizione del reo confesso, pentito e “collaborativo” sarebbe stata, di diritto,
più severa rispetto a quella inflitta al reticente – vennero quindi aggirate dal Senato per mezzo
della proposta della grazia, qui declinata in una commutazione delle sentenze di morte in pene
detentive intenzionalmente e dichiaratamente inferiori a quella inflitta al condannato non
confesso. Attraverso la grazia, come esplicitava infatti il consigliere Mazzetti nella sua
relazione, si intendeva quindi risolvere tale contraddizione e ristabilire un’equa gradazione di
pena62
.
Questo punto venne ribadito e confermato anche dalla relazione sulla supplica che, l'anno
successivo alla sentenza, il fratello del condannato reticente inoltrò all'imperatore,
argomentando la sua richiesta proprio alla luce delle grazie concesse ai correi condannati alla
pena di morte. La supplica venne mediata e respinta dal Senato per i motivi già esposti nella
sentenza, ovvero la necessità di mantenere una corretta proporzionalità delle sanzioni
inflitte63
: probabilmente era ancora troppo presto per ottenere una mitigazione su una pena
detentiva tanto lunga. Solo molti anni più tardi infatti, nel 1839, una supplica avanzata dalla
moglie dell'imputato, adducente alla malattia del marito e all'indigenza della propria famiglia
(un topos ricorrente nelle suppliche per grazia64
), avrebbe avuto maggiore fortuna: raccolte,
attraverso il Tribunale d'appello lombardo, le dovute informazioni sulla condotta e lo stato di
salute del detenuto, ed appurato il fatto che qualche anno prima la Commissione di grazia65
aveva segnalato quest'ultimo tra i condannati degni di mitigazione, il Senato appoggiò infine
la domanda di grazia, accordata dal sovrano66
.
Torniamo al processo: il parere dei senatori a favore della commutazione delle pene capitali
trovò giustificazione anche alla luce del comportamento del direttore generale della polizia di
Milano al quale gli imputati avevano «implor[ato] tutti i possibili riguardi» dopo essere stati
62
Relazione 4 febbraio 1824, ASMi, SLV, b. 47, fasc. VI. 178-7. È questo un aspetto riscontrabile anche in altri
casi. Analogo, ad esempio, è il ragionamento giuridico che regolò la mitigazione a favore di un gruppo di
rapinatori, proposta in modo da far sì che i rei confessi non dovessero subire una pena più dura rispetto al
complice reticente. Sessione 31 ottobre 1817, ASMi, SLV, b. 80, cc. 2854-2858. 63
Relazione 30 settembre 1825, ASMi, SLV, b. 47, fasc. VI. 178-7. 64
Lo stesso rileva A. Griesebner, «In via gratiae et ex plenitudine potestatis». Grazia e prassi giudiziaria
nell'Arciducato dell'Austria Inferiore (XVIII secolo), in Suppliche e “gravamina”. Politica, amministrazione,
giustizia in Europa (Secoli XIV-XVIII), a cura di C. Nubola, A. Wurgler, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 307-342:
331. 65
Sulla Commissione di grazia si rimanda al paragrafo successivo. 66
Relazione 14 febbraio 1840, ASMi, SLV, b. 47, fasc. VI. 178-7.
127
sollecitati a confessare e a dichiarare i complici. E se Torresani, riconosce Mazzetti, si sarebbe
effettivamente «astenuto dal promettere cosa, che non potesse lor mantenere […] sta in fatto,
che non ha negato agli stessi, che gli avrebbe raccomandati, onde potessero conseguire que’
riguardi, che la ingenuità ed importanza delle loro manifestazioni e l’infelice situazione delle
loro famiglie potessero meritare, e però in questi sensi interessò il Tribunale ad averne ogni
possibile riflesso»67
. L'assenza di biasimo nell'osservazione sull'atteggiamento, se non illecito,
quantomeno poco ortodosso di Torresani – abbiamo visto quanto il Senato si dimostrasse
normalmente molto sensibile a questo punto – dipende, si ha ragione di credere, dalla
posizione gerarchica della persona oggetto dell'osservazione stessa, su cui la suprema autorità
giudiziaria non aveva ingerenza alcuna e contro la quale non poteva probabilmente
permettersi di esprimere critiche in una relazione destinata all'imperatore; in netto contrasto
con la precisa e diffusa disamina delle irregolarità commesse dai Tribunale criminale di
Milano nel corso dell'inquisizione, con la quale si apre il voto del relatore68
.
6. Suppliche e mitigazioni: la comunicazione mediata tra supplicante e sovrano
Le carte del processo istruito contro i falsificatori hanno fornito l'occasione per accennare, di
passaggio, ad un'ulteriore forma di clemenza, che vale la pena di approfondire nella misura in
cui essa si intreccia con il nostro argomento specifico.
La pena del carcere, anche qualora già commutata da una sentenza capitale, poteva infatti
essere ulteriormente graziata. Esercitando un diritto di cui ogni suddito godeva, i condannati
alla detenzione, personalmente o attraverso i loro parenti o amici, avevano infatti la possibilità
di fare appello alla mitigazione o al condono della pena inoltrando una supplica
all’imperatore69
. Si tratta di un mezzo di comunicazione politica riconducibile alla prassi e ai
67
Relazione 4 febbraio 1824, Ibidem. 68
Tra le molte irregolarità rilevate, il Senato lamentava soprattutto il «sorprendente uso invalso nel Tribunale
criminale di Milano, che ogni qualvolta si costituisce un imputato, se gli dà lettura d'ogni precedente suo
costituto giudiziale per modo, che i detenuti del presente processo dichiararono spesso di averli sentiti
abbastanza; questo metodo è massimamente irregolare, pericoloso […] come quello, che mette lo scaltro reo in
istato di evitare le contraddizioni, e di meglio sostenere le dette menzogne, ed avendosi in qualche altro
Tribunale veduto simile abuso, fu per tale abuso incaricato l’Appello stesso a toglierlo con apposita circolare ai
Tribunali criminali, ed a vegliare, onde il medesimo non si riproduca». Ibidem. 69
Oltre ai ricorsi per grazia direttamente avanzati dai condannati, il codice penale riservava alle autorità
giudiziarie un piccolo e ben delimitato margine di autonomia nell'ambito delle mitigazioni di sentenze già
pubblicate, ossia già in esecuzione (a questo proposito si specifica, di passaggio e per completezza, che prima
della pubblicazione della sentenza i tribunali avevano la facoltà, in determinate circostanze, di accordare pene
più miti rispetto a quanto prescritto dalla legge, con una possibilità di azione proporzionata al loro grado; si
vedano a questo proposito i §§48, 49, 441, 443 d. Cp.). Secondo il §470 Cp., il tribunale d'appello poteva
accordare una «proporzionata remissione» per pene inferiori ai cinque anni di carcere, e solo nel caso in cui
durante il tempo della detenzione fossero «nuovamente emerse tali circostanze non prima prese in
considerazione nella formazione della sentenza, che, se fossero state allora note, avrebbero dato luogo a misurare
la pena più mitemente». Più che di grazia vera e propria, qui si parla, piuttosto, di una mitigazione legalmente
128
dispositivi retorici di antico regime, per i quali il rapporto governato-governante si declinava
nella forma più diretta supplica-grazia70
.
E se da una parte, entro tale procedura giudiziaria e comunicativa, l'imperatore si poneva
effettivamente quale «supremo dispensatore di giustizia»71
, dall'altra la mediazione
dell'apparato giudiziario (massiccia e decisiva, come abbiamo visto, nei casi di commutazione
delle sentenze capitali) veniva qui tuttavia solo apparentemente attenuata. Come si evince
dalla documentazione archivistica, pure queste forme di grazia, per certi versi più dirette –
primariamente perché, al contrario dell'automatismo ex officio con cui veniva vagliata la
possibilità di mitigare le pene di morte, esse prevedevano l'iniziativa e la partecipazione attiva
da parte del condannato o di chi gli era vicino attraverso la formulazione della supplica –,
attraversavano l'intera gerarchia giudiziaria. Una volta giunte all'attenzione del Gabinetto
imperiale, le suppliche valutate degne di considerazione72
venivano infatti inoltrate al
motivata; molto simile, concettualmente, ad una riassunzione del processo, come osserva Sebastian Jenull
(Jenull, Commentario sul codice, vol. IV, p. 370). Nel caso di pena più lunga, la competenza dell'eventuale
mitigazione era demandata al Supremo Tribunale di giustizia. Tale procedura sembra essere stata modificata
dalla sr. 24 dicembre 1821, che ridefiniva gli stretti confini entri i quali la gerarchia giudiziaria poteva
teoricamente intervenire sulle richieste di mitigazione. Essa, ribadendo il testo del §470, aggiungeva tuttavia che
«allorquando i Giudizi Criminali in singoli, particolari casi credessero, che un qualche condannato meriti, che gli
sia fatta grazia per delle circostanze nuove, emerse solo durante il tempo della pena: essi dovranno rassegnare le
loro proposizioni all'esame, ed alla decisione del Supremo Tribunale di Giustizia: al quale ne' particolari casi, che
fossero degni di riguardo, permetto d'implorare grazia presso di Me, cui solo compete il diritto di grazia»
(Sessione 23 gennaio 1822, ASMi, SLV, b. 97, cc. 175-176). La risoluzione è trascritta anche in Grandi, Processi
politici, p. 222; essa venne diramata alle prime istanze lombarde con circolare appellatoria manoscritta 29
gennaio 1822, come segnalato in Estratto Milano 1822 e in Castelli, Manuale ragionato, vol. 2. 70
Sulla supplica intesa come fondamentale strumento di comunicazione politica tra governati e governanti nella
società europea di antico regime, si vedano i volumi pubblicati nel corso del progetto “Petizioni, gravamina e
suppliche nella prima età moderna in Europa (secoli XIV-XVIII)” del Centro per gli studi storici italo-germanici
di Trento, e in particolare i saggi introduttivi, redatti dai curatori: C. Nubola, A. Würgler, Introduzione, in
Suppliche e “gravamina”, pp. 7-17; A. Würgler, C. Nubola, Politische Kommunikation und die Kultur des
Bittens, in Forme della comunicazione politica in Europa nei secoli XV-XVIII. Suppliche, gravamina, lettere
/Formen der politischen Kommunikation in Europa vom 15. bis 18. Jahrhundert. Bitten, Beschwerden, Briefe, a
cura di A. Würgler, C. Nubola, Bologna-Berlin, Il Mulino-Duncker & Humblot, 2004, pp. 7-12; C. Nubola,
Operare la resistenza. Introduzione, in Operare la resistenza. Suppliche, gravamina e rivolte in Europa (secoli
XV-XIX)/Praktiken des Widerstandes. Suppliken, Gravamina und Revolten in Europa (15.-19. Jahrhundert), a
cura di A. Würgler, C. Nubola, Bologna-Berlin, Il Mulino-Duncker & Humblot, 2006, pp. 7-16. 71
Così Meriggi, riferendosi in generale alle contraddizioni del sistema amministrativo austriaco del Vormärz, da
un lato autosufficiente, centralizzato, burocratizzato e spersonalizzato, dall'altro viziato da cogenti eredità
“medievali”; in primis, il diritto di petizione che ogni suddito poteva esercitare di fronte all'imperatore. M.
Meriggi, Potere e istituzioni nel Lombardo-Veneto pre-quarantottesco, in La dinamica statale austriaca nel
XVIII e XIX secolo, a cura di P. Schiera, Bologna, Il Mulino, 1981, pp. 207-245. 72
L'imperatore o il suo Gabinetto fregiavano le suppliche meritevoli con «Sovrana Segnatura», mentre le altre
venivano restituite ai supplicanti sempre con la mediazione del dicastero competente. Il Senato Lombardo-
Veneto discuteva le suppliche fregiate settimanalmente; tali sessioni venivano registrate in protocolli separati,
inviati a Vienna dopo ogni seduta – al contrario degli altri protocolli, che l'imperatore, come già ricordato,
riceveva mensilmente (Grandi, Processi politici, p. 190). Il punto fu ribadito anche dalle istruzioni per
«accelerare l'andamento degli affari e diminuire le Scritturazioni» (discusse nella sessione 17 marzo 1818,
ASMi, SLV, b. 81, cc. 563-565), secondo le quali «le pertrattazioni sopra Suppliche fregiate di Sovrana segnatura
non saranno già come gli ordinari oggetti di refferato da registrarsi nei consueti Protocolli di Consiglio i quali
vengono umiliati a S. M. soltanto mensualmente, ma dovranno sempre essere rassegnati a Sua Maestà in separati
quaderni protocollari subito dopo cadauna sessione, e frattanto sarà da sospendersi il Conchiuso sino al ritorno
129
dicastero aulico competente73
– ossia, nei casi qui esaminati, il Senato Lombardo-Veneto; il
quale, sentiti i pareri delle istanze inferiori, sottoponeva come di consueto il caso
all'imperatore con le proprie valutazioni.
Un ulteriore filtro tra supplicante e sovrano venne introdotto nel 1832, con l’istituzione nel
Regno Lombardo-Veneto delle Commissioni di Grazia, stabilita dal Senato veronese di
concerto con la Cancelleria aulica riunita in conformità con le altre province dell’impero74
.
Tali Commissioni erano composte dal delegato provinciale, da un consigliere d’appello a
Milano e a Venezia (nelle altre città da un consigliere del tribunale criminale scelto dal
Tribunale d’appello), dal direttore della casa di pena e dal medico della stessa, e il loro scopo
era duplice: esse avevano, da un lato, il compito di verificare per mezzo di sopralluoghi annui
lo stato delle carceri, e «particolarmente di conoscere, se i condannati vengono trattati giusta
le prescrizioni della legge»; dall'altro, la facoltà di rilasciare ai detenuti meritevoli – ossia
coloro «a favore dei quali si verificano tutti gli estremi prescritti, per aver essi dati lodevoli
saggi durante il tempo del loro castigo, di una indole pacifica, di un buon animo verso i
compagni, di diligenza nel lavoro, di docilità e ubbidienza verso i Superiori e di una
edificazione nei Divini Uffici per modo da aversi potuto raccogliere sicuro contrassegno di
sincero ravvedimento»75
– certificati di buona condotta, in base ai quali essi potevano
avanzare delle suppliche per richiedere la mitigazione della pena.
Queste ultime venivano quindi protocollate da un delegato giudiziario che le inviava –
unitamente al suo parere, dopo aver eventualmente raccolto ulteriori informazioni sul conto
dei supplicanti – al Tribunale d’appello a Milano o a Venezia (nelle altre città era prevista la
mediazione del presidente del tribunale criminale). Qualora l’appello avesse ravvisato motivi
sufficienti per una remissione della pena, la documentazione veniva rassegnata al Senato, che
avrebbe deliberato in merito.
Tale procedura, rigidamente gerarchica, era evidentemente volta a scremare le suppliche –
solitamente più volte presentate dai detenuti nel corso degli anni – attraverso il lungo iter alle
quali esse erano sottoposte.
Per chiarire il meccanismo “ciclico” della domanda di mitigazione, il ruolo delle
delli quaderni protocollari». 73
Jenull, Commentario sul codice, vol. IV, pp. 371-372 e anche Grandi, Processi politici, p. 190. 74
Circolare dell'appello di Venezia 10 ottobre 1832, CLV 1832, II semestre, pp. 133-135. 75
Istruzioni del Senato Lombardo-Veneto alle Commissioni di grazia: sessione 13 aprile 1842 trascritta
parzialmente in Grandi, Processi politici, p. 223. Grandi aggiunge, per altro, che tale procedura era raramente
seguita, perché i parenti del condannato normalmente inoltravano le suppliche direttamente al Gabinetto
imperiale.
130
Commissioni, ma anche, in seconda battuta, il peso che la grazia concessa ad un condannato a
morte poteva esercitare sulle sue successive suppliche volte a richiedere l'attenuazione della
pena detentiva, si prenderà in esame un caso particolare, che vale la pena di riportare anche
per il suo eccezionale percorso normativo ed istituzionale; dipanandosi a cavaliere tra due
secoli, esso attraversa ordinamenti e pratiche giudiziarie di antico regime, quindi filofrancesi e
infine austriache.
Nell'aprile del 1834 il consigliere Joseph Pammer sottopose all'attenzione degli altri senatori
una supplica presentata l'anno precedente, nel corso della visita annuale della Commissione di
grazia, da Laura Fregoni, una detenuta della casa di correzione di Milano76
.
La Fregoni era stata incarcerata nel 1798, con l'imputazione di correità nell'omicidio del
proprio marito, commesso due anni prima su iniziativa dell'amante della stessa, un prete. I due
complici vennero dapprima condannati a morte mediante il supplizio della ruota dalla Pretura
feudale di Soncino, con sentenza 2 maggio 1796. Pur compresa, con il territorio cremonese,
nel Ducato di Milano, Soncino godeva infatti dello status di «terra separata»77
, e su di essa
l'autorità giurisdizionale era appunto esercitata dalla Pretura feudale78
.
Tra la pronuncia della sentenza e la revisione della stessa in seconda istanza vi è un
mutamento di regime, con l'integrazione, nel giugno 1797, del territorio dell'ex Ducato di
Milano (già provvisoriamente ricostituito, dall'anno precedente, in Repubblica transpadana)
alla Repubblica cisalpina. Il 30 Pratile IV (18 giugno 1798), il Tribunale d'appello di Milano79
condannò la Fregoni all'impiccagione ed il suo complice ad essere arruotato e scannato80
.
Morto quest’ultimo poco dopo il proferimento della sentenza appellatoria, la Commissione
criminale che fungeva da tribunale supremo81
commutò la sentenza della Fregoni in una
76
Relazione 16 aprile 1834, ASMi, SLV, b. 50, fasc. VI. 232-4. 77
C. Magni, Il tramonto del feudo lombardo, Milano, Giuffrè, 1937, pp. 483-486, riporta l'elenco, datato 1786,
delle «Comunità dello Stato di Milano, che pagano Soldo al Pretore Feudale»; sotto la provincia cremonese è
annoverata Soncino, con la specificazione di terra separata. Vedi anche Progetto Civita, Le istituzioni storiche
del territorio lombardo, XXIV-XIX secolo. Cremona, Milano, Regione Lombardia, 2000, p. 287. 78
Le antiche Preture feudali furono soppresse solo con l'occupazione francese della Lombardia. Esse erano state
infatti mantenute in vigore, nonostante la più generale e drastica riforma dell'ordinamento giudiziario, dall'editto
giuseppino 11 febbraio 1786, e confermate anche successivamente, con il dispaccio 1 agosto 1796, pur con
alcune significative limitazioni ed oneri che avevano indotto molti feudatari a rinunciare alla giurisdizione del
loro distretto delegandola ai pretori regi (Magni, Il tramonto del feudo lombardo, pp. 328-332). Sul punto si veda
anche Provin, Una riforma per la Lombardia dei lumi, pp. 69-70. 79
Il Tribunale d’appello era stato confermato dal nuovo governo con legge provvisoria 27 termidoro (14 Agosto
1797), citata in Indice delle leggi, degli editti, avvisi ed ordini ec. pubblicati nello Stato di Milano dai diversi
governi intermedii dal 1765 al 1821, a cura di L. Peroni, Milano, Rivolta, 1823, p. 185. 80
Non è chiaro in base a quali riferimenti normativi il Tribunale d’appello poté infliggere la pena dello
scannamento. Secondo una legge di pochi giorni precedente la sentenza (e precisamente del 19 Pratile, ossia l’8
giugno 1798) la nuova amministrazione giudiziaria avrebbe dovuto «continuare le processure criminali pendenti
colla forma già intrapresa, proscritte le torture, ed altre violenze per estorquere la confessione dei delitti».
Ibidem, pp. 186-187. 81
Si tratta sicuramente della Commissione di revisione istituita al posto del Supremo tribunale di giustizia (legge
131
detenzione a vita.
La condannata avanzò la prima supplica nel 1816, a Regno Lombardo-Veneto costituito; essa
venne tuttavia respinta dalla Corte di giustizia (non ancora riorganizzata in Tribunale di prima
istanza) di Cremona, dall'appello lombardo, e dallo stesso Senato. Quest'ultimo, in particolare,
osservava l'inopportunità della grazia, da un lato perché la donna ne aveva già beneficiato
vedendosi commutata una pena capitale che anche il codice austriaco avrebbe comminato per
lo stesso delitto; dall'altro per ragioni di ordine pubblico, poiché «la remissione della pena
avrebbe potuto riuscire di cattivo esempio nel piccolo paese di Soncino»82
.
Una seconda supplica, presentata all'appello lombardo nel 1820 con la mediazione del
Governo di Milano, venne respinta per le stesse ragioni. Una terza domanda di mitigazione,
appunto oggetto della relazione del consigliere Pammer, incontrò infine maggiore fortuna,
nonostante l'opposizione del Tribunale di prima istanza di Cremona. Le informazioni della
Commissione di grazia, raccolte presso il cappellano e il personale della casa di forza,
attestanti la buona condotta della donna ormai sessuagenaria, il suo pentimento, la sua natura
«docile, religiosa e pienamente pentita del delitto commesso», convinsero sia l'appello che il
Senato. Secondo la relazione senatoria trasmessa all'imperatore, la Fregoni sarebbe stata
finalmente «meritevolissima» della grazia sovrana, «fatto anche riflesso, che stando al mite
sistema della legislazione penale di Vostra Maestà in regola non si surroga alla pena di morte
se non la pena temporaria del carcere al più di 20 anni, la quale durata la Fregoni avrebbe
quasi doppiamente espiato»83
.
Le suppliche prodotte dalla condannata e le grazie a lei concesse o negate mettono in luce i
vari attori che, di volta in volta, si posero come mediatori nel rapporto di comunicazione tra
supplicante e sovrano, agevolandolo o, al contrario, bloccandolo. La prima domanda di
mitigazione viene respinta da tutti e tre i gradi di giudizio; la seconda coinvolge direttamente
organi sia giudiziari che politici – il Tribunale d'appello e il Governo di Milano; la terza,
infine, attraversa non solo le tre istanze giudiziarie, ma vede la partecipazione della
Commissione di grazia, la quale gioca un ruolo decisivo per l'esito finale della stessa.
5 dicembre 1796), in un primo tempo dotata esclusivamente di competenze civili (legge 14 agosto 1797), poi
anche criminali (dichiarazione del ministro della giustizia 31 agosto 1797). La legge 20 novembre 1797 stabiliva
la soppressione della Commissione di revisione nel momento in cui sarebbe entrata in vigore la Corte di
cassazione, che venne effettivamente eretta il 22 giugno 1798. La sentenza relativa alla Fregoni è del 7 luglio
1798; probabilmente la Commissione e la Corte di cassazione coesistettero per un breve periodo. Le leggi sopra
citate sono riportate in Ibidem, pp. 185-187. 82
Relazione 16 aprile 1834, ASMi, SLV, b. 50, fasc. VI. 232-4. 83
Ibidem. La supplica venne accolta dall'imperatore; il Senato scelse tuttavia di non scarcerare definitivamente la
Fregoni, in vista del fatto che, essendo ella anziana, sola, priva di appoggi famigliari e mezzi di sussistenza, il
suo rilascio avrebbe significato abbandonarla a se stessa. Venne stabilito quindi di consentire alla detenuta
l'uscita dal carcere per andare a messa o all'ospedale, con l'accompagnamento di una guardiana.
132
7. La causa attenuante degli «stimoli più patetici: onore, amore, gelosia, interesse»84
Quanto incautamente rivelato dall'ispettore del satellizio di Campago ad Antonio Bortot, come
abbiamo visto nel capitolo precedente, si traduce in una prassi, se non generalizzata, certo
piuttosto frequente: i delitti “passionali” – intendendo per “passione” qualsiasi impulso
emotivo, economicamente disinteressato che potesse spingere all'azione delittuosa – erano
tutto sommato, entro certi limiti, giudicati con più indulgenza rispetto a quelli commessi a
scopo di lucro.
La lettura delle relazioni consente di osservare alcuni dei fattori che, in questa direzione, il
consesso di terza istanza giudicava come fortemente giustificatori e che sembrano inserirsi
senza frizioni entro un sistema di implicite norme comportamentali trasversalmente
riconosciuto e condiviso.
Fondamentale funzione mitigante assumeva, prima di tutto, la causa honoris. Il fatto che
un'azione delittuosa fosse configurabile come reazione a gelosia, offese, ingiurie o umiliazioni
– specialmente se pubbliche – perpetrate o indirettamente provocate dalla vittima, e fosse
quindi volta a ristabilire un onore ferito, veniva sovente, da parte dei senatori, riguardato
come causa attenuante; e ciò a maggior ragione nel Lombardo-Veneto, per il quale il “dato
etnico” cui spesso si riferiscono esplicitamente gli autori delle statistiche criminali – ossia
l'inclinazione tutta italiana al delitto passionale – pesava come consolidato luogo comune.
«Una proprietà del carattere italiano», osservava Karl Mittermaier, «nella grande sensibilità si
manifesta e nella facile irritabilità all'offese dell'onore. […] Qualunque parola ingiuriosa o
motto che la moralità denigri dell'italiano, grandemente l'offende. […] L'offesa porta spesso a
private vendette e a risse, e spessissimo se ne fa dell'offeso richiamo in giudizio»85
. Ed anche
Johann Springer notava come l'italiano fosse «in hohem Grade lebhaft und reizbar und oft
leidenschaftlicher Verfechter seiner Ansichten und Interessen», distinguendo però che «etwas
ruhiger und friedliebender ist der Venetianer als der Lombarde»86
. Un luogo comune, è qui
importante sottolineare, in larga parte condiviso anche dai magistrati: che spesso tendevano a
giustificare alcuni delitti originati da una reazione eccessivamente violenta a un qualsiasi tipo
84
Relazione 24 febbraio 1824, ASMi, b. 49, fasc. VI. 22-2. 85
Mittermaier, Delle condizioni d’Italia, pp. 88-89. 86
Springer, Statistik des österreichischen Kaiserstaates, Bd. 1, p. 191. Considerazioni analoghe si trovano anche
nel già menzionato lavoro di Francesco Menestrina, che in questo senso accomunava i tipi di reati perpetrati nel
Tirolo italiano con quelli lombardo-veneti (Menestrina, La delinquenza nel Trentino, «Tridentum», II, 1899, fasc.
IV-V, p. 190). Sull'approccio etnografico sempre più diffuso tra i magistrati dell'Ottocento e derivato proprio
dalle statistiche criminali, si veda M. Bellabarba, Storie di polizia e di famiglie nel Trentino della Restaurazione,
in Famiglia e religione in Europa in età moderna. Studi in onore di Silvana Seidel Menchi, a cura di G. Ciappelli,
S. Luzzi, M. Rospocher, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2011, pp. 277-289: 283.
133
di affronto, proprio per la loro frequenza «fatale»87
.
La dinamica del giudizio del delitto d'onore è evidente in un processo in questo senso
paradigmatico, istruito dal Tribunale criminale di Padova nel 1823 contro un uomo colpevole
di aver ucciso l'aggiunto presso il Commissariato di Monselice, il quale intratteneva una
relazione con la moglie dell'accusato. La stessa struttura del referato è tutta volta a
sottolineare l'infamia e la vergogna sociale che quest'ultimo aveva dovuto subire, soprattutto
per il fatto che la relazione extraconiugale era di dominio pubblico: ed è proprio la
dimensione pubblica dell'offesa che funge qui da determinante causa attenuante. Le ragioni
addotte a favore della grazia vengono discusse molto diffusamente: l'elenco delle mitiganti,
secondo il relatore Mazzetti «lungo e imponente», avrebbe dimostrato «quanto [l'imputato] –
forse più sventurato che delinquente – degno [fosse] per ogni riguardo della pietà,
commiserazione e grazia della Maestà Vostra». Infatti, chiarisce subito Mazzetti,
Ella è in ver cosa dura per un povero pacifico artigiano il vedersi offeso nell’onore e nella domestica
tranquillità disturbato da un pubblico impiegato, che essendo rivestito dell’Autorità e della forza, che
la legge gli affida per la sicurezza de’ Cittadini, abusa dello stesso ascendente, che il lustro della carica
gli dona, per opprimere un infelice, per macchiare il di lui talamo, e farsene beffe, unendo ai danni gli
insulti88
;
soprattutto, «il fatto era notorio, e [l'imputato] esposto allo scherzo del volgo maligno, e
diventato la favola del paese»89
.
Il netto squilibrio sociale tra vittima e imputato – l'uno pubblico funzionario, semplice
artigiano l'altro – in questo caso gioca dichiaratamente a favore del secondo. «Per grande
adunque che sia l’orrore, che desta e che destar dee un omicidio», conclude la relazione, «non
87
Tale frequenza «fatale» viene ad esempio rilevata dal consigliere Giuseppe Castellani, in una correlazione del
1838 su un processo capitale istruito contro un bergamasco condannato per aver ucciso ad archibugiate un uomo
che, come pegno per una scommessa perduta, gli aveva tolto la giacchetta. Secondo i senatori, il delitto era stato
commesso sotto l'impulso di «una violenta commozione d’animo connaturale all’uomo»: un concetto che
riprende, letteralmente, il §39, lettera d), della Franziskana, ove viene annoverato tra le generiche attenuanti di
un delitto. Il fatto che una causa a delinquere tanto futile, come nel caso qui citato, costituisse motivo mitigante
alla luce del quale la sentenza sarebbe stata commutata a 15 anni di carcere duro dimostra, ancora una volta, la
generale accettazione di un alto livello di violenza, che poteva esplodere per il minimo pretesto. Cfr. relazione e
correlazione 2 marzo 1838, ASMi, SLV, b. 61, fasc. VI. 14-2. Gli esempi in questa direzione sarebbero
moltissimi: si cita solo un altro caso in cui il Senato suggerì la concessione della grazia e accordò una pena di 12
anni di carcere duro ad un uomo condannato a morte in prima istanza dal Tribunale di Mantova per aver ucciso
un compaesano che lo aveva deriso chiamandolo imbriagon: questa provocazione avrebbe costituito, secondo i
consiglieri aulici, una sufficiente causa attenuante (Relazione 16 novembre 1824, ASMi, SLV, b. 49, fasc. VI.
187-2). 88
Relazione 24 febbraio 1824, ASMi, b. 49, fasc. VI. 22-2. 89
Ibidem.
134
poté il Senato non riconoscere nella specialità delle circostanze, e nel complesso di tutte le
cose, che presentasi come molto degno di pietà l’infelice artigiano, che contro le prepotenze
di un incauto e baldanzoso impiegato cercava in ogni modo di difendere il più sacro de’ suoi
diritti»90
.
Il correlatore Maffei si spinge oltre: non solo l'azione delittuosa sarebbe stata giustificata ma,
in un certo senso, socialmente inevitabile.
Se questo infortunio gli è comune con molti altri mariti, si univa però a renderlo singolare, e maggiore
in lui la circostanza, che il suo vituperio fu rinfacciato in pubblico. [….] Sicché egli non poteva più
chiudere gli occhi, e simulare di non saperlo: ed il ricorso, che avesse fatto ai Magistrati, o al Giudice,
per generale opinione invalsa nella società, lungi dal riparare al suo disonore, lo avrebbe accresciuto.
Per lo che questo solo poteva dargli una fortissima spinta a prendersi soddisfazione da sé91
.
Ciò che viene qui riflessa, per quanto filtrata attraverso la gerarchia giudiziaria, è, per così
dire, una forma arcaica di risoluzione dei conflitti. Il codice etico e sociale nel quale si
inscrive il delitto, attraverso la proposta di grazia, non solo viene dal Senato compreso, ma
Si tratta di un paradigma – quello dell'indole malvagia che si manifesta fin dall'infanzia e che,
quasi fatalmente, viene esasperata col passare degli anni – descrittivo e, prima ancora,
interpretativo, rinvenibile in molte delle relazioni esaminate.
«Sortì dalla natura un temperamento iracondo e vendicativo» – con queste parole esordisce il
consigliere aulico Salvioli, nelle vesti di correlatore, nel descrivere un parricida veronese
condannato e giustiziato nel 1823 –
che in mezzo alle armi e agli accampamenti militari, ove trovossi per ben 16 anni, prese forse novello
vigore e energia. Congedato dal servigio non vi è genere di vizi in cui non si immergesse: frequentò le
osterie, i bagordi, e i luoghi di prostituzione. Le ammonizioni, e i reiterati precetti della Polizia non
valsero ad emendarlo. […]. In somma la sua vita non presenta che una serie di strapazzi, di offese, e di
violenze brutali al proprio genitore143
.
Un criminale di “natura”, quello qui sprezzantemente tratteggiato (non a caso, precisava il
relatore Mazzetti, tutti i membri della famiglia entro la quale egli era nato e cresciuto erano
«inquieti e cattivi»144
e vincolati a precetto politico; i maschi rissosi, le donne dedite alla
prostituzione), le cui esperienze non avrebbero fatto altro che confermare e amplificare una
già innata inclinazione ferina. «Egli non è il primo uomo» – concludeva infatti Mazzetti
opponendosi alle perplessità espresse dai voti di minoranza delle istanze inferiori che avevano
optato per la meno grave ipotesi di uccisione – «che, e per le passioni, e per educazione
142
Relazione 4 maggio 1833, ASMi, SLV, b. 56. 143
Correlazione 8 aprile 1823, ASMi, SLV, b. 48, fasc. VI. 48-2. 144
Relazione 8 aprile 1823, Ibidem.
148
negletta, e per massime onninamente corrotte s’abbassi sotto alle fiere»145
. Sia la relazione
che la correlazione insistono infatti sulla frattura delle leggi naturali provocata dal parricidio.
Il condannato viene presentato non solo come criminale, ma soprattutto come essere
malvagio, bestiale; contro natura, appunto. La sua esecuzione avrebbe dovuto pertanto
fungere da «esempio e freno a que' giovani che sono dominati da violente passioni»
concludeva nell'estratto del processo, destinato alla pubblicazione, il giudice inquirente del
Tribunale di prima istanza di Verona: «valga a far conoscere loro come queste sono capaci di
strascinare ad eccessi, e sino a soffocare le voci della natura»146
.
Mi sembra opportuno insistere su di un particolare importante del passo sopra riportato, che
torna sovente in questa sorta di biografie criminali; vale a dire il modo in cui si accenna
all'esercito come ricettacolo di vizi e potenziatore dei caratteri più brutali e, in ultima analisi,
delle inclinazioni devianti e intrinsecamente delinquenti degli imputati, innanzitutto (ma non
solo, come vedremo subito) per la consuetudine con la violenza che «il veder la morte sul
campo»147
avrebbe inevitabilmente innescato.
Tali considerazioni tradiscono sia una certa frizione tra istituzioni giudiziarie da un lato e
militari dall'altro, sia una coesistenza “schizofrenica” di due atteggiamenti diametralmente
opposti delle prime nei confronti delle seconde: se nelle relazioni senatorie i riferimenti agli
effetti deleteri della vita militare sono moltissimi, contemporaneamente uno dei rimedi
avanzati dalle stesse autorità politiche e giudiziarie per arginare la criminalità diffusa era
proprio l'arruolamento coatto, disciplinato nel 1825148
. La bontà del provvedimento venne
riconosciuta anche a posteriori, in una lucida relazione del 1838 – per la dettagliata analisi
della quale si rimanda al quinto capitolo – in cui il consigliere aulico Antonio Salvotti
analizzava lo stato dell'ordine pubblico nel Regno Lombardo-Veneto, valutando criticamente i
145
Ibidem. 146
ASVr, CCC, b. 61, fasc. 104, p. LI, 1823. Dell'estratto manoscritto ad opera del giudice inquirente e delle
differenze con la versione a stampa si è riferito nella nota 156 del primo capitolo. È interessante rilevare, di
passaggio, come nelle relazioni dei senatori anche l'aspetto fisico dell'individuo socialmente pericoloso
concorresse talvolta a tratteggiarne la fisionomia delittuosa, confermandone le cattive qualità morali. Così un
omicida condannato dal Tribunale di Mantova nel 1844 per aver ucciso, causa una «malnata passione di amore»,
una giovane, viene descritto per antitesi rispetto alla sua vittima: tanto «distinta per illibatezza di costumi, per
dolcezza d'indole, per esemplare modestia, cara a tutto il villaggio quale Angelo di bontà» la ragazza assassinata,
quanto «torbido, collerico, ardito, effeminato, dedito al giuoco ed al vino, irreligioso, bestemmiatore, proclive ad
atti di vendetta e ferocia», nonché «deforme, zoppo, miserabile» l'omicida ( Relazione 27 agosto 1844, ASMi, b.
69, fasc. VI. 65-2). 147
Relazione 8 aprile 1823, ASMi, SLV, b. 48, fasc. VI. 48-2. 148
Ciò è deducibile dai protocolli di consiglio del Senato, al quale la Cancelleria aulica riunita aveva inviato un
progetto di regolamento dell'arruolamento forzato quale mezzo «tendente a reprimere lo spirito di
vagabondaggio», affinché la suprema magistratura lombardo-veneta discutesse il testo e ne comunicasse a sua
volta modifiche e commenti: Sessione 6 luglio 1825, ASMi, SLV, b. 111, cc. 1478-1482.
149
punti di forza ma soprattutto i fallimenti degli strumenti prevalentemente repressivi messi in
atto nel corso degli anni dalle autorità amministrative, giudiziarie e poliziesche allo scopo di
salvaguardarlo. Qui, per il momento, interessa solo dire che dell'arruolamento forzato149
veniva rilevato il valore di «mezzo provvidissimo di polizia», nonostante alcune pecche nella
sua gestione, per far fronte alle quali il senatore Salvotti suggeriva alcuni provvedimenti:
Si comprende benissimo con quanta ripugnanza l'Autorità militare vorrà accogliere persone che non
presentano la maggiore tranquillità sulle loro tendenze; ma […] qualora per una eccessiva scrupolosità
si fa venir meno quella misura di polizia che la più adatta mostravasi a prevenire i delitti, e a
migliorare lo stesso individuo non ancora interamente perverso sotto la militare disciplina, pare si
possano invocare da Sua Maestà quegli ordini più rigorosi, coi quali si tolgono i rimarcati disordini150
.
Sottoposto a tale strumento coercitivo – e in questo caso tragicamente fallimentare – fu, ad
esempio, uno dei condannati a morte per omicidio dai tribunali veneti, l'esecuzione del quale
ebbe luogo proprio nello stesso anno in cui Salvotti redigeva la sua relazione. L'imputato,
tratteggiato dalla deputazione comunale di Codroipo e da alcuni possidenti locali quale
«ozioso, vagabondo, bestemmiatore, irreligioso, e dedito alle bettole e ai furti di campagna
[…], inviso a tutti, di carattere assai violento, irrequieto, disturbatore della pubblica e privata
tranquillità», per «la sua vita scioperata e da vagabondo, per inquieto suo carattere e per
viziosi costumi» era stato «perlustrato e consegnato forzatamente al servizio militare», ove
rimase otto anni: un periodo di tempo che si era tuttavia rivelato, secondo la deputazione
comunale, non sufficiente «per un ravvedimento e cambiamento di condotta»151
. Vittima
dell'omicidio – qui torniamo alla questione, cui sopra si accennava, dei pericoli in cui
potevano incorrere gli informatori – fu proprio il prete che lo aveva segnalato quale
arruolabile.
Gli esempi riportati mostrano come un approccio efficace all'interpretazione delle relazioni
possa essere l'analisi semantica della terminologia utilizzata per indicare le tendenze
immorali, viziose e quindi delinquenti dei condannati. Tale terminologia è anzitutto
riconducibile alla sfera dell’oziosità152
, in netta contrapposizione con l’onestà lavorativa
149
Si segnala che Salvotti indica erroneamente come data della seduta in cui il Senato Lombardo-Veneto aveva
discusso il progetto della Cancelleria aulica riunita il 6 giugno 1825, invece del 6 luglio. Sessione 17 gennaio
1838, ASMi, SLV, b. 180, c. 260. 150
Ibidem, cc. 279-280. 151
Relazione 3 ottobre 1838, ASMi, SLV, b. 61, fasc. VI. 103-2. 152
Sul punto si veda S. C. Hughes, The theory and practice of ozio in italian policing: Bologna and beyond,
150
borghese; una caratteristica che Johann Springer ravvisava come tipicamente italiana – una
sorta di dato naturale e “climatico”153
– dal momento in cui «der Hang zum dolce far niente,
der sich zum Theile aus dem warmen, leicht ermüdenden Klima erklären läßt, artet bei dem
gemeinen Manne leicht zum anhaltenden Müßiggange aus»154
.
Altro campo semantico di riferimento è quello del libertinaggio, anch'esso posto in contrasto
con la rettitudine coniugale e la morale sessuale borghese155
; non a caso, nell'estratto stampato
diffuso tra la popolazione e annunciante l'esecuzione di Spirito Calderini, l'omicida monzasco
di cui abbiamo sopra trascritto la breve biografia criminale, l'imputato viene concisamente
apostrofato come «giovane ozioso, dedito al libertinaggio»156
.
Il modo in cui i condannati, le loro azioni e il movente che li spinse a delinquere venivano
pubblicamente descritti attraverso gli articoli, i manifesti e gli estratti a stampa – oltre che nei
protocolli di consiglio e nelle relazioni, le quali avevano una circolazione naturalmente molto
più limitata – segnala una sensibilità che si può postulare relativamente diffusa. È infatti lecito
supporre che l'autore di essi – verosimilmente il giudice inquirente, come abbiamo ipotizzato
nel primo capitolo – avesse ben presente la delicatezza di questo tipo di comunicazione e
facesse quindi deliberatamente leva su quelle caratteristiche del condannato immediatamente
individuabili come antisociali. Enfatizzando gli stessi punti – oziosità e libertinaggio –
venivano ad esempio delineate, nella «Gazzetta di Milano», le abitudini di un uomo
giustiziato nel 1823 nel capoluogo lombardo per l'omicidio della propria moglie: «inclinato
alla più licenziosa dissolutezza, non appena ebbe contratte le solenni promesse del maritaggio,
che tosto ne trasgredì i morali doveri; né la voce possente della religione bastava a richiamarli
nel corrotto di lui cuore. Preso indi da somma avversione verso la moglie, passava ozioso le
ore del lavoro con femmine di mala vita, dissipando tra le sozzure del vizio ogni domestico
avere». Proprio per questo atteggiamento «incorreggibile», precisa l'articolo, l'imputato
avrebbe avuto «facile passo dal vizio al delitto»157
.
«Criminal Justice History. An international annual» VI (1985), pp. 89-103. 153
D’altra parte, l’ozio come vizio predominante del carattere italiano e, in generale, delle popolazioni
meridionali, è un tropo le cui testimonianze risalgono almeno alla fine dell'età medievale, come argomenta S.
Patriarca, Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 3-37. 154 Springer, Statistik des österreichischen Kaiserstaates, Bd. 1, p. 191. Tale opinione, diffusa nei commenti degli
osservatori, pare essere ben radicata: si veda ad esempio il rapporto di Kaunitz a Giuseppe II, commentato in
Capra, Il Settecento, p. 527, nel quale «l'avversione al travaglio e l'amore dell'ozio» del basso popolo del
milanese venivano annoverati tra le cause della frequenza dei delitti. 155
Pure su questo punto si confrontino, in senso comparativo, le osservazioni di Overath, Tot und Gnade, pp.
163-164. Ancora Silvana Patriarca sottolinea come tanto nei testi di commentatori stranieri, quanto nella critica
dei patrioti risorgimentali, all'ozio tipicamente italiano venisse spesso associata «una combinazione di amore per
la lussuria e di disinvoltura sessuale che si traduceva in effeminatezza». Patriarca, Italianità, p. 16. 156
Un esemplare dell'estratto, datato 19 agosto 1833, è reperibile in BCT, BCT47-5. 157
«Gazzetta di Milano», 28 luglio 1823, n. 209.
151
Chi viveva «nell’ozio e nella dissipazione, dando scandalo pubblico per la scostumatezza»158
era quindi agli occhi dei consiglieri – questo quanto emerge dalle relazioni e dagli articoli –
un criminale potenziale; «il passatempo sui caffè, al gioco e nei lupanari, la lettura di ogni
sorta di libri» che rendono «guastata» la mente159
rappresentavano occupazioni tipiche di un
individuo socialmente pericoloso: quale il cremonese Pietro Cauzzi, condannato nel 1828 per
aver ucciso una ragazza che aveva respinto la sua proposta di matrimonio. Nonostante i
contorni tipici del delitto passionale – riguardato generalmente con più mitezza, come sopra si
osservava – sono proprio le caratteristiche oziose e libertine dell'imputato a determinare la
severità del Senato, oltre al «concorde fremito di ribrezzo e di indignazione» che secondo i
consiglieri aveva attraversato la città di Cremona: tanto da far concludere il relatore Salvotti
che «una grazia parrebbe in tali circostanze piuttosto dannosa che utile al pubblico
esempio»160
.
Soffermiamoci, innanzitutto, su un particolare sollevato da Salvotti: la pericolosità sociale
della lettura, punto ripreso anche in altre relazioni161
. D’altra parte, i romanzi – considerati
quali potenziali veicoli di idee eversive – venivano strettamente controllati dalla censura
austriaca, come insisteva il Piano generale di Censura:
Libercoli destinati per la massa del pubblico o per la gioventù, e quelli di trattenimento sono da
trattarsi con tutto il rigore della censura. In questi casi conviene sopprimere non solo tutto ciò ch’è
contrario alla religione, alla moralità, al rispetto ed attaccamento verso la Casa regnante, ed alla forma
attuale di Governo, ma anche tutto ciò che non influisce vantaggiosamente sul cuore e sullo spirito, e
che non tende che a solleticare i sensi; fa d’uopo quindi opporsi con fermezza alla propagazione della
nocevole lettura de’ romanzi. Qui non si parla di que’ pochi fra loro che rischiarano la ragione e
formano il cuore, ma di quell’ammasso terribile di Romanzi, che non versano che sopra amori o che
empiono la fantasia di chimere162
.
In secondo luogo, anche nella relazione dedicata a questo processo la funzione alla quale
l'esercito avrebbe dovuto teoricamente adempiere, come disciplinatore dei caratteri disordinati
ed oziosi, viene capovolta: proprio la vita militare e l'esperienza di cadetto a Vienna avrebbero
158
Relazione 13 gennaio 1832, ASMi, SLV, b. 54, fasc. VI. 170-2. 159
Relazione 11 gennaio 1828, ASMi, SLV, b. 53, 1828, fasc. VI. 1-4. 160
Ibidem. Significativamente, anche l'articolo della gazzetta milanese che dà notizia della sentenza capitale e
dell'esecuzione si diffonde, in un testo inconsuetamente lungo, sulla particolare efferatezza dell'omicidio e sulle
opposte qualità morali della vittima e dell'imputato. «Gazzetta di Milano», 10 marzo 1828, n. 70. 161
Così, ad esempio, il relatore Ceccopieri apostrofava un imputato per omicidio e rapina, dedito ad attività quali
«l’ozio, la lettura di romanzi, ed il passatempo al Caffè, piuttosto che il lavoro». Relazione 26 giugno 1833,
ASMi, SLV, b. 56, fasc. VI. 82-2. 162
CLV 1815, parte II, p. 239. Sullo stesso punto cfr. Berti, Censura e circolazione delle idee, pp. 11-12.
152
permesso a Cauzzi di conoscere, nella grande capitale dell'impero, quei divertimenti licenziosi
«ai quali pareva inclinato»163
.
La dicotomia tra vita civile lavorativa e vita militare oziosa è ancor più esplicita nella
biografia, tratta da un rapporto della Direzione generale di polizia di Milano e riportata nella
relazione senatoria, di un condannato per omicidio – anche questa volta di una donna –
giustiziato nel 1834: «Il reo confesso [...] trasse ignoti natali ed è figlio di questo civico
ospitale. Cresciuto in gioventù, si accenna, che versando nell’ozio e nei vizi inseparabili, amò
meglio darsi volontario alla milizia, a luogo di proseguire nella professione di tessitorie in
tela», un'onesta occupazione appresa in uno stabilimento di pubblica beneficenza, «ove mercè
le pie paterne leggi e sollecitudini di Vostra Maestà la istruzione nelle massime di morale e di
religione non manca»164
.
Si tratta di un'interpretazione molto simile a quella proposta nelle sopra citate relazioni al
Governo dei proprietari terrieri veneti studiate da Bernardello: una di esse, ad esempio,
sottolinea il ruolo deleterio dell'esercito in senso non solo antieconomico – dal momento in
cui sottraeva alle campagne, per molti anni165
, la più valida forza-lavoro – ma anche, più
politicamente, eversivo: il contadino che lasciava la propria casa per la leva «partito dalla
soglia domestica ottimo lavoratore, vi ritorna inerte; uscito ubbidiente vi rientra inquieto»166
.
Il ribaltamento del ruolo dell'esercito – da disciplinatore a fomentatore di disordini – diventa
ancora più esasperato nel commento, di qualche decennio successivo, del giudice trentino
Giuseppe Chimelli, inquisitore nella commissione militare itinerante d'Este attiva tra Veneto e
Mantovano nei primi anni Cinquanta, ed autore di un volumetto apologetico e
dichiaratamente antiabolizionista pubblicato nel 1887; un momento in cui il Regno d'Italia era
attraversato da un acceso dibattito politico e giuridico sull'opportunità della conservazione
della pena capitale, che sarebbe stata poco dopo effettivamente abrogata con la pubblicazione
del codice Zanardelli. Quello che ci interessa osservare è che, ripercorrendo le vicende
giudiziarie che lo avevano visto tra i principali protagonisti, Chimelli dà un'interpretazione
163
Relazione 11 gennaio 1828, ASMi, SLV, b. 53, 1828, fasc. VI. 1-4. 164
Relazione 16 aprile 1834, ASMi, SLV, b. 57, fasc. VI. 31-2. 165
A differenza che nelle altre province dell'impero – dove prima dell'uniformazione del 1845 la ferma durava
quattordici anni – i sudditi veneti, lombardi e tirolesi reclutati servivano nell'esercito per otto anni. Su questo
punto si veda A. Sked, The Survival of the Habsburg Empire. Radetzky, the Imperial Army and the Class War,
London and New York, Longman, 1979 [trad. it.: Radetzky e le armate imperiali. L'impero d'Austria e l'esercito
asburgico nella rivoluzione del 1848, Bologna, il Mulino, 1983, p. 77 e segg.] e Laven, Venice and Venetia, p.
130. 166
Bernardello, Burocrazia, borghesia e contadini, pp. 132-133. Come osserva Bernardello, «ciò che
preoccupava di più i proprietari [estensori della relazione] era il ritorno di un “nuovo uomo”, portatore di
esperienza più vaste che accrescevano, fino a renderla intollerabile, la sua insofferenza per la vita stagnante della
campagna e del luogo natio, scandita solo dal lento avvicendarsi delle stagioni e dalla brutalità di una fatica
avvilente, un uomo che aveva conosciuto un tenore di vita più elevato, aveva visto città e paesi molto diversi».
153
per certi versi stereotipata, poco analitica delle cause criminogene nelle province venete dai
tardi anni Quaranta. Una di queste sarebbe stata proprio la condizione del servizio militare
austriaco; non tanto per i suoi effetti sull'abitudine alla violenza, quanto per la lunghezza della
ferma durante la quale «il soldato oltre gli esercizi militari non aveva altra occupazione, si
disavezzava dalla fatica, ritornato a casa non si adattava più al lavoro, da cui erasi alienato per
il lungo ozio, e volendo ben vivere si dava alle rapine»167
.
11. Conclusioni
Le “logiche del perdono” che muovevano gli orientamenti e le proposte dei senatori
rispondevano a diverse funzioni della grazia: ne abbiamo tracciato le principali diramazioni.
Esse permettono di dedurre come, attraverso la moderazione della pena, la stretta legalità che
avrebbe imposto l’irrogazione di condanne capitali nonostante la percepita sproporzione del
consesso giudicante venisse sensibilmente attenuata. Di conseguenza, la commutazione delle
condanne capitali immetteva parzialmente, nel processo penale, un certo grado di quel “libero
convincimento” formalmente escluso dalla procedura austriaca.
Per mezzo della proposta di grazia i giudici si ritagliavano un margine di discrezionalità che
permetteva loro di risolvere, da un lato, le inadeguatezze del codice penale: sia nel caso di
norme percepite come non applicabili in generale (è il caso della sistematica commutazione
delle pene di morte inflitte ai rei di falsificazione), sia rispetto a quelle circostanze specifiche
in cui lo squilibrio che avrebbe arrecato la condanna capitale era tale da suggerire una
mitigazione di pena. Circostanze alle quali, abbiamo visto, concorrevano diversi fattori (le
caratteristiche “morali” e biografiche, le abitudini, i precedenti, il genere degli imputati e
delle vittime; il movente, l’eventuale pentimento, la recuperabilità sociale del condannato).
Dall’altro lato, le proposte di commutazione delle pene capitali andavano a sciogliere, in
senso mitigante, i casi giuridicamente ambigui: si pensi ai dubbi in merito alla definizione del
reato all’interno delle fattispecie di omicidio e uccisione, o al grado responsabilità del
condannato in presenza di sospetti disordini mentali.
In questo modo la grazia adempiva, nel campo della prassi giudiziaria, allo scopo delineato
dalla coeva riflessione giuridica – che pur ne suggeriva un utilizzo più sporadico –, ossia
quello di fungere da strumento riequilibratore delle inevitabili sproporzioni del sistema
penale, da garante del criterio di equità e proporzionalità. Soprattutto, è nel rapporto tra
sistema giudiziario e pubblico che si sostanzia il senso stesso dei provvedimenti di grazia: un
167
[G. Chimelli], Storia del grande processo di Este contro ladroni a ripulsa d'ingiusto appunto al principale
giudice istruttore dello stesso, Este, Stratico, 1887.
154
rapporto che si fa ancor più delicato ed allo stesso tempo esplicito nell’ambito del diritto
penale politico, come vedremo nel prossimo capitolo.
155
QUARTO CAPITOLO
CONDANNE CAPITALI E CONCESSIONI DI GRAZIA
NEI PROCESSI PER DELITTI POLITICI
1. Premessa. Un'opinione «trop propagée en Italie»: su un articolo del «Constitutionnel»
e le preoccupazioni di Vienna e di Milano
2. Il delitto politico nel Lombardo-Veneto del Vormärz: osservazioni legislative,
giuridiche e giudiziarie
2. 1. Per una definizione di alto tradimento
2. 2. Il movimento settario clandestino nel Lombardo-Veneto: consistenza
quantitativa delle sentenze capitali e delle grazie
2. 3. Profilo giudiziario e centralità della grazia
2. 4. Gli organi inquirenti e giudicanti
2. 5. Omogeneità del trattamento giudiziario delle sette
2. 6. Una prospettiva comparativa
3. L'ombra lunga dell'«epoca infausta della Francese Rivoluzione»: il rigore dei primi
processi, opinione pubblica e grazia
4. Giovani e inesperti
5. La comunicazione pubblica delle sentenze e il ruolo delle gazzette
6. Le sentenze contro gli aderenti alla Giovine Italia e la prima amnistia generale
7. La «sovrumana virtù» che «pone in obblio il passato»: l'amnistia del 1838
8. Conclusioni. L'arte politica di «saper combinare rigore e clemenza»
156
1. Premessa. Un'opinione «trop propagée en Italie»: su un articolo del «Constitutionnel»
e le preoccupazioni di Vienna e di Milano
Il 16 febbraio 1824, pochi giorni dopo la notificazione delle sentenze capitali per alto
tradimento e delle rispettive grazie pronunciate contro decine di settari lombardi, la «Gazzetta
di Milano» pubblicò, su ordine della Staatskanzlei1, la traduzione di un lungo articolo
comparso sul viennese «Oesterreichischer Beobachter»2 il quale, in polemica con il giornale
francese «Le constitutionnel», denunciava la diffusione tra la popolazione della «strana e
nuova massima che i delitti politici, perché in se stessi più scusabili dei civili, debbano anche
essere trattati con maggiore indulgenza»3.
Quello che vogliamo qui sottolineare è il fatto che l'articolo sollevi, pur con un tono
esplicitamente polemico, la fondamentale questione della gravità percepita delle varie
tipologie criminose – punto già messo in rilievo, per quanto riguarda i delitti comuni, nel
capitolo precedente – anche in relazione all'esercizio della clemenza sovrana nella sua delicata
funzione di strumento correttivo e ribilanciatore di una mancata corrispondenza tra sentire
pubblico da una parte, e teorico rigore della legge dall'altra:
Nell'impressione che fanno i delitti civili sul sentimento umano ci ha di certe gradazioni, che non
sempre s’accordano con quelle che dalla legislazione furono ammesse e da essa hanno avuto la loro
sanzione. Omicidi, venefici, incendi e simili misfatti sono tanto odiosi per sé stessi che il sentimento
generale viene naturalmente ad accordarsi colla legge, che li punisce colle pene più gravi. E pel
contrario si danno delitti che dalla legge vengono trattati con eguale ed anche con maggior rigore,
mentre svegliano negli animi gentili compassione, dubbi sulla proporzione della pena, disposizione a
discolpe o ad indulgenza.
Tra questi delitti, secondo l’autore dell’articolo, vi era anche la falsificazione di carte di
pubblico credito, fattispecie sulla quale ci siamo già soffermati. «Qualunque però siasi il
punto di vista dal quale si vogliano considerare i delitti politici, e specialmente i premeditati
tentativi di violente rivoluzioni, si durerà sempre gran fatica a trovare in quella specie di delitti
un fondamento, neppure apparente, su cui piantare una differenza fra la giustizia e la bene
1 La Staatskanzlei era il dicastero centrale che si occupava della direzione della politica estera, dal 1809 al 1848
presieduta dal principe Metternich. Cfr. Walter, Die österreichische Zentralverwaltung, II Abteilung,1. Bd., 2.
Halbbd., Teil 2, soprattutto pp. 213-214. 2 Über einen Artikel im Consitutionnel vom 10 Dezember v. J, «Oesterreichischer Beobachter», 4 febbraio 1824,
n. 36. L’«Oesterreichischer Beobachter» era, di fatto, l’organo di informazione dello Staatskanler Metternich. 3 «Gazzetta di Milano», 16 febbraio 1824, n. 47.
157
intesa umanità»4.
Quella criticata nell'articolo sarebbe stata, ammetteva il governatore della Lombardia
Strassoldo rivolgendosi allo Staatskanzler Metternich, un'opinione «trop propagée en Italie»5;
un'opinione, per altro, che si può verosimilmente supporre alimentata dall'esito dei processi
per alto tradimento da poco conclusi.
La concezione politica e l'intento strategico che stanno dietro la pubblicazione dell'articolo
denunciano una certa preoccupazione, da parte delle autorità sia centrali che periferiche, nel
misurare il riscontro pubblico delle scelte repressive e punitive, per molti versi clementi (e tali
sarebbero proseguite fino al 1848), in merito al delitto di alto tradimento6.
Se, in generale, la giustizia criminale austriaca ci sembra profondamente segnata dalla
frizione, non sempre risolta, tra “antica” natura segreta e “moderna” necessità di
comunicazione, ciò appare tanto più evidentemente qualora si tratti di processi politici.
Abbiamo infatti più volte sottolineato il carattere segreto, scritto e inquisitorio del
procedimento penale: e in questo senso, come osserva Sergio Vinciguerra, il diritto criminale
austriaco può essere ascritto alla sfera degli arcana imperii7. Contemporaneamente, però, il
governo non poteva sottrarsi al confronto con una sfera pubblica della quale temeva il
dissenso; d'altra parte, la stessa magistratura era ben consapevole di avere gli occhi della
popolazione – o almeno, di certa parte di essa – puntati contro: «Il colto pubblico di Milano»
– scriveva il giudice Giacomo Marinelli sul finire del 1821, durante i primi processi contro la
Carboneria, al consigliere aulico Antonio Mazzetti – «è in questi giorni occupatissimo nel dar
giudizi, e nel far commenti sulle operazioni della Commissione speciale»8.
La prospettiva adottata, nell'analisi delle condanne a morte per alto tradimento e dei
conseguenti provvedimenti di clemenza, vuole essere attenta a questa contraddizione – o per
meglio dire tensione – tra la segretezza del sistema penale e la notificazione pubblica delle
sentenze e delle grazie; in altre parole, per riprendere la già menzionata metafora di Giancarlo
Baronti, tra natura “opaca” del processo e momento “trasparente” di esso.
4 Ibidem.
5 Strassoldo a Metternich, 16 febbraio 1824, OeStA, HHStA, SK, Pr, LV, K. 6.
6 Richard Blaas rileva come, secondo Metternich, la «noiosa» distinzione tra delitti politici e delitti criminali non
sarebbe stata altro che un'“invenzione” strumentalmente diffusa dai rivoluzionari tra l'opinione pubblica per
“depenalizzare” i loro delitti. R. Blaas, Le sette politiche. Metternich e il concetto di delitto politico, in Il
Lombardo-Veneto (1815-1866) sotto il profilo politico, culturale, economico-sociale. Atti del convegno storico, a
cura di R. Giusti, Mantova, Accademia Virgiliana di Mantova, 1977, pp. 19-34: 27. 7 Vinciguerra, Idee liberali, p. XXI.
8 Marinelli a Mazzetti, 15 dicembre 1821, BCT, BCT1-1376/II, c. 433 verso. Così anche Salvotti, in una lettera a
Mazzetti del novembre successivo: «La Commissione viene da per tutti riguardata come la bocca di Cerbero che
vorrebbe ingoiare tutti». Salvotti a Mazzetti, 29 novembre 1822, BCT, BCT-1446/II, c. 42. Brani di entrambe le
lettere sono trascritti in Pedrotti, I processi del '21, pp. 145-146 e 158-160.
158
2. Il delitto politico nel Lombardo-Veneto del Vormärz: osservazioni legislative,
giuridiche e giudiziarie e primi dati quantitativi
2.1. Per una definizione di alto tradimento
Ma a cosa si riferisce la «Gazzetta di Milano» parlando di «delitti politici»? “Delitto politico”
è una locuzione assente dalle fonti processuali esaminate. All'interno del linguaggio giuridico
utilizzato nelle province italiane dell'impero – almeno nella prima metà dell'Ottocento –
“politico” è sempre la traduzione di Polizey, inteso come prefisso di sostantivi composti9. Si
specifica quindi che all'espressione “delitto politico” si dà qui un significato “moderno”,
specificamente ristretto alle azioni delittuose rientranti nella fattispecie giuridica e concettuale
di alto tradimento, per la quale il codice penale austriaco comminava la pena capitale. Una
fattispecie, vale la pena di sottolineare, molto contingente, che si carica di diversi significati a
seconda non solo dei movimenti politici attivi nel particolare periodo che si prende in
considerazione, ma soprattutto della loro interpretazione; vale a dire, della loro pericolosità
percepita da parte dello Stato e dei suoi organi amministrativi, polizieschi e giudiziari. In altre
parole: quali azioni eversive vennero lette e temute, negli anni Venti, Trenta e nei primi anni
Quaranta, come tanto pericolose per lo Stato da rientrare nella sfera interpretativa dello
Hochverrat?
Di fatto, nel Lombardo-Veneto del Vormärz l'alto tradimento corrispose quasi esclusivamente
all'associazionismo clandestino, ossia l'affiliazione alle sette che, in tutta Europa, andarono
organizzandosi come forma di dissenso politico.
È stato inoltre rilevato come il codice penale austriaco si caratterizzasse, nella parte
riguardante i delitti cosiddetti “pubblici”10
– primo fra tutti, appunto, l'alto tradimento – per un
approccio che si potrebbe definire descrittivo, quasi didascalico, relativamente alle varie
ipotesi delittuose: ciò mancando una precisa individuazione «di una categoria di carattere
generale, in cui sia possibile ricondurre su un piano astratto tutte le azioni finalizzate
all'eversione dell'ordine costituito». Questo aspetto viene riscontrato, in particolare, nelle
norme che trattano l'affiliazione alle società segrete, che per la legislazione austriaca non
costituiva, come per altri codici coevi, una delle tante modalità di consumazione del reato, ma
9 Ad esempio nell'espressione Polizey-Uebertretungen, tradotta, indifferentemente, con “gravi trasgressioni di
polizia” o “trasgressioni politiche”. 10
Ossia quei delitti che «offendono la comune sicurezza immediatamente nei vincoli dello Stato, nelle
disposizioni pubbliche, o nel pubblico credito», isolati, nel codice penale, dai delitti che «feriscono la sicurezza
de’ privati nella persona, nella roba, nella libertà, od in altri diritti» (§50 Cp.). Tra i delitti pubblici, l'alto
tradimento era l'unico punito con la morte, «ancorché sia rimasto senz'alcun effetto, e tra i limiti d'un mero
attentato» (§53 Cp.).
159
un reato in sé11
.
Tale impostazione venne ulteriormente confermata, in senso più severo, da una sovrana
risoluzione notificata nell'agosto del 182012
, che equiparava esplicitamente la semplice
partecipazione alla Carboneria all'alto tradimento (secondo il codice penale, infatti, essa
poteva essere interpretata anche quale grave trasgressione politica); un'analoga risoluzione
venne pubblicata tredici anni più tardi contro gli aderenti alla Giovine Italia13
.
La stretta connessione, diremmo la quasi totale sovrapposizione, tra alto tradimento e
appartenenza a società segrete, si risconta anche nell'interpretazione dei giudici dei tribunali
lombardo-veneti; come testimonia, ad esempio, un rapporto del consigliere Francesco
Unterrichter, membro della Commissione speciale di II istanza veneziana preposta ai processi
contro i carbonari, che nel giugno del 1821 informava il presidente del Senato Lombardo-
Veneto sui «dispiaceri insorti» con la Direzione generale di polizia di Milano, la quale,
secondo il giudice, non solo non aveva collaborato con il tribunale inquirente, ma anzi si era
data «la briga a difficoltarne le operazioni». La polizia aveva infatti omesso di consegnare
alcuni inquisiti per alto tradimento, da essa ritenuti non coinvolti nella Carboneria, alla
Commissione speciale. Si tratta di una delicata questione di competenze, sicuramente non
scevra di rivalità tra magistratura e polizia14
, che la documentazione giudiziaria, specialmente
quella relativa ai processi politici, lascia trapelare in svariate occasioni; si avrà modo di
tornare sull'argomento. Quello che preme qui sottolineare è l'osservazione di Unterrichter,
secondo il quale, contro il parere della polizia, sarebbe stato
ai dì nostri assai difficile il credere, che esistano nel Regno Lombardo Veneto rei di alto tradimento
indipendentemente dalla Setta carbonica, le di cui ramificazioni sono multiformi, e le di cui fila, non
11
P. Rondini, Il reato politico nel Codice dei delitti e delle pene pel Regno d'Italia (1811) e nel Codice penale
universale austriaco (1815): la repressione dei crimini contro la sicurezza dello Stato, in Codice dei delitti e delle
pene, pp. CXXXIX-CLIII: CLI. 12
Notificazione che sottopone i Carbonari, e loro correi dalla data della pubblicazione alle pene stabilite dal
Capo VII. della prima Sezione della prima Parte del Codice penale del 3 settembre 1803, 25 agosto 1820, CLV
1820, Parte II, pp. 49-51 e Proibizione di appartenere alla società dei così detti carbonari. Pene ai
contravventori. Notificazione 29 agosto 1820, AG 1820, Vol. II, Parte I, pp. 69-71. 13
Sovrana Risoluzione che prescrive con quali misure verranno puniti tanto gl'individui che appartenessero alla
Setta denominata la Giovane Italia, quanto quelli che conoscendone i membri trascurassero di denunciarli, 5
agosto 1833, CLV 1833, II Semestre, pp. 72-75 e Proibizione di appartenere alla società della Giovane Italia.
Pena ai contravventori. Notificazione 5 agosto 1833, AG 1833, Vol. II, Parte I, pp. 46-49. Un esemplare del
manifesto della notificazione del Governo veneto si trova in ASMi, SLV, b. 32, fasc. 126. Sono degni di nota, di
passaggio, i mezzi di diffusione di tale notificazione: come si deduce dalla relazione sul processo contro il
sacerdote comasco Carlo Cattaneo, condannato a morte per appartenenza alla Giovine Italia, proprio lui, in
quanto sacerdote, aveva dovuto spiegare «al popolo raccolto» nella chiesa parrocchiale ove egli officiava, le
disposizioni imperiali ora menzionate. Relazione 28 ottobre 1834, ASMi, SLV, b. 36, fasc. 238. 14
Sui conflitti tra autorità giudiziaria e polizia si veda Meriggi, Il Regno Lombardo-Veneto, p. 311; Raponi, Il
Regno Lombardo-Veneto, pp. 118-119 e, per ultimo, V. Belloni, Professione forense e controllo politico nel
Lombardo-Veneto, «Archivio storico lombardo», CXXXVI (2010), pp. 97-143.
160
ancora scoperte in tutta la loro estensione, si stanno indagando; e che sarebbe stato assai meglio, se [la
Direzione generale di polizia] invece di sottigliare incompetentemente sulla competenza della
Commissione inquirente, e di attraversare per tal modo le operazioni della medesima, assecondasse in
obbedienza alla legge le ricerche, che da quella zelante Commissione le vengono fatte15
.
Per converso, è interessante riflettere, almeno di passaggio, non solo sull'inclusione, ma anche
sull'esclusione: vale a dire, sui delitti di carattere “politico” non compresi nella fattispecie di
alto tradimento. L'archivio del Senato Lombardo-Veneto contiene diversi fascicoli
processuali, nei quali i capi di imputazione riguardano azioni che, pur assumendo ai nostri
occhi una connotazione politica, sono collocate entro categorie giuridiche molto meno gravi,
sul piano delle conseguenze penali, rispetto all'alto tradimento, quali i vari tipi di
“perturbazione”16
o la tanto ampia quanto vaga fattispecie di “pubblica violenza”17
: a
quest'ultima, per citare solo i casi più eclatanti, venne ricondotta una sollevazione contadina
del paese di Darfo18
, allora compreso nella giurisdizione del Tribunale di Bergamo; o, ancora,
un assedio popolare del ghetto Mantova19
. Ci si chiede quindi se la semplice appartenenza ad
una società segreta venisse effettivamente interpretata come più allarmante, dal punto di vista
della difesa dell’ordine politico e sociale, rispetto ad episodi di questo tipo. Probabilmente è
così. Tuttavia è opportuno interrogarsi su un'altra ipotesi, ovvero se tale derubricazione non
celi piuttosto la consapevole intenzione di non attribuire la patente “politica” ad alcuni
fenomeni, depotenziandoli quindi della loro carica eversiva, allo scopo precipuo di evitare di
creare ed alimentare un'opinione pubblica intorno ad essi20
.
15
Rapporto 23 giugno 1821, ASMi, SLV, b. 2, fasc. 55. 16
Il codice penale configurava come delitto di perturbazione dell’interna tranquillità dello Stato (detta anche
perturbazione della pubblica tranquillità) le azioni commesse da «chi si studia maliziosamente con discorsi, con
iscritti, o con pittoresche rappresentazioni d’inspirare a’ suoi concittadini sentimenti tali, da cui possa nascere
avversione alla forma di Governo, all’amministrazione dello Stato, od al sistema del paese» (§57); tale
fattispecie comprendeva anche le «ingiurie contro la persona del Principe, dalle quali possa nascere un’indubitata
avversione contro di lui, quando son proferite in una compagnia, o in pubblico; come pure gli scritti di simil
sorta, o le oltraggianti rappresentazioni, quando se n’è fatta comunicazione a qualcuno» (§58). I colpevoli di
perturbazione erano puniti con il carcere duro dall’uno ai cinque anni (§59). Altra fattispecie era la perturbazione
della religione (§107), per la quale il codice penale comminava la pena del carcere dai sei mesi ai dieci anni
«secondo il maggior grado di malizia, od il maggior pericolo» (§108-109). 17
Cfr. §§70-82 Cp.. Sull'ampiezza e la mancata chiarezza della definizione di pubblica violenza e sull’ambiguità
della sua applicazione pratica cfr. M. Bellabarba, La quiete nelle campagne. Il crimine di «pubblica violenza»
nel Tirolo e nel Lombardo-Veneto dell'Ottocento, «Quaderni storici», XLVII (2012), 1, pp. 249-286. 18
ASMi, SLV, b. 42, fasc. 143 (1834). 19
ASMi, SLV, b. 43, fasc. 84 (1842). Sulla vicenda si veda inoltre A. Novellini, “Perseguitar li ebrei a morte”: i
tumulti contro il ghetto di Mantova nella prima metà dell'Ottocento, «Storia in Lombardia», XXII (2002), 1, pp.
75-95: 86 e segg. 20
Questa ipotesi mi è stata suggerita dalla lettura di R. Balzani, I carbonari romagnoli: élite politica o
organizzazione di notabili?, in La nascita della nazione. La Carboneria. Intrecci veneti, nazionali,
internazionali. Atti del XXVI Convegno di Studi Storici, Rovigo, Crespino, Fratta Polesine, 8-9-10 novembre
2002, a cura di G. Berti, F. Della Peruta, Rovigo, Minelliana, 2003, pp. 221-234: 222; a proposito del cosiddetto
161
2. 2. Il movimento settario clandestino nel Lombardo-Veneto: consistenza quantitativa delle
sentenze capitali e delle grazie
È opportuno anticipare, per sommi capi, la storia dei processi politici nel Lombardo-Veneto
del Vormärz, onde fornire alcune coordinate entro cui collocare i principali fenomeni eversivi
che lì si manifestarono, ed individuare le concatenazioni tra di essi sussistenti sul piano della
repressione penale. L'elenco delle inquisizioni e delle sentenze – una “narrazione” che è stata
ricostruita attraverso l'analisi della documentazione contenuta nella serie “Affari politici” e
che si può quindi presumere completa, salvo sviste o lacune21
– è inoltre utile per dare la cifra
delle dimensioni dell'impatto giudiziario e repressivo scatenato dai movimenti politici
ascrivibili alla fattispecie di alto tradimento.
La storia giudiziaria degli Hochverräter lombardo-veneti può essere divisa in alcune fasi
principali. Senza qui considerare i processi celebrati nel periodo di transizione tra governo
italico e austriaco – ossia i procedimenti contro gli ex ufficiali dell'esercito napoleonico
coinvolti nella congiura bresciano-milanese del 1814, che pure si erano conclusi con
condanne capitali tutte graziate22
– dalla metà degli anni Dieci si diffuse anche nelle province
processo Rivarola – sul quale più avanti si tornerà brevemente – l'autore sostiene che fu proprio il carattere di
“politicità” attribuito a delitti che politici non erano ad avere, come imprevista conseguenza, la formazione di
un'opinione pubblica. 21
Mi sono naturalmente avvalsa anche della vastissima letteratura esistente; puntello di questa parte del lavoro
sono stati soprattutto gli studi di Marco Meriggi, Alfredo Grandi, Franco Della Peruta, Aldo Adrea Cassi,
Arianna Arisi Rota, ma ho proficuamente consultato anche i più risalenti C. Spellanzon, Storia del Risorgimento
e dell'Unità d'Italia, vol. I, Milano, Rizzoli, 1933, pp. 786-788 e 836- 840, e vol. II, 1934, pp. 7- 69 e 696-698; i
tre volumi di Alessandro Luzio (Antonio Salvotti e i processi del Ventuno, Roma, Società editrice Dante
Alighieri, 1901; Il processo Pellico-Maroncelli secondo gli atti officiali segreti, Milano, Cogliati, 1903 e Nuovi
documenti sul processo Confalonieri, Roma-Milano, Società editrice Dante Alighieri, 1908), pur con tutte le
cautele suggerite da Antonio Gramsci nel Quaderno 19 sul Risorgimento italiano (A. Gramsci, Quaderni del
carcere, vol. III, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, pp. 2071-2073), da Walter Maturi,
Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia, Torino, Einaudi, 1962, pp. 432-446 e da
Angelo Ara, L’immagine dell’Austria nella recente storiografia italiana, in Mitteleuropa. Storiografie e scritture,
a cura di M. E. D’Agostini, M. Freschi, G. Kothanek, Napoli, Tullio Pironti Editore, 1987, pp. 267-274: 268; A.
Sandonà, Contributo alla storia dei processi del Ventuno e dello Spielberg, Milano-Torino-Roma, Fratelli Bocca,
1911. L'opera del Sandonà, in particolare, è ancora molto utile, anche perché riporta svariati documenti
provenienti dagli archivi della Hofkanzlei e della Polizeihofstelle che lo storico poté visionare prima
dell'incendio del Palazzo di giustizia di Vienna del 1927, nel corso del quale venne perduta moltissima
documentazione lì conservata. I rapporti diretti ai dicasteri aulici viennesi che verranno più avanti menzionati
sono stati tratti appunto da quest'opera. Un riferimento generale imprescindibile, infine, è la bibliografia indicata
da R. Giusti, Il Regno Lombardo-Veneto, in Bibliografia dell'età del Risorgimento, Firenze, Olschki, 1971, vol. I,
pp. 651-742, specialmente pp. 655-659 (l’introduzione del quale è edita, con qualche aggiunta, con il titolo
Introduzione alla studio del Risorgimento nel Lombardo-Veneto. 1815-1866, in R. Giusti, Problemi e figure del
Risorgimento Lombardo-Veneto, Venezia, Deputazione di storia patria per le Venezie, 1973, pp. 1-45), con
l'aggiornamento di L. Romaniello, Il Regno Lombardo-Veneto, in Bibliografia dell'età del Risorgimento 1970-
2001, vol. II, Firenze, Olschki, 2003, pp. 811-869, soprattutto pp. 829-830. Si segnaleranno puntualmente in nota
i rimandi a questi o ad altri specifici studi. 22
La congiura, che aveva lo scopo di occupare la fortezza di Peschiera da dove i congiurati avrebbero ricavato
armi per una marcia su Milano, venne dapprima giudicata da una Commissione speciale mista, ossia composta
da giudici civili e da giudici militari. In un secondo momento il processo fu diviso in due parti, una delle quali
gestita da una Commissione straordinaria civile per giudicare i civili, sulla base del Code penal francese e del
162
lombarde e venete la Carboneria, dapprima importata dalla Francia nell'Italia meridionale23
,
che si configurò come un movimento a connotazione prevalentemente liberal-moderata,
mirante all'instaurazione di monarchie costituzionali, di composizione nobiliare e borghese24
.
Nel Regno Lombardo-Veneto i settari nobili prevalsero numericamente sui borghesi; il profilo
sociale degli imputati per alto tradimento appare quindi diametralmente opposto a quello dei
condannati a morte per reati comuni. Il fenomeno carbonico diede origine ad una serie di
grandi processi, per lo più tra loro concatenati, coinvolgenti decine di imputati,
prevalentemente concentrati nell'arco temporale 1818-1825; essi si estesero, come vedremo,
anche a quanti avevano partecipato ai moti rivoluzionari piemontesi del 1821.
Il primo processo, istruito tra il 1818 e il 1819 contro i carbonari di Fratta Polesine per un
totale di 48 imputati (tra i principali, il pretore di Crespino Felice Foresti, il cancelliere della
pretura di Fratta Antonio Villa e il pretore di Lovere, il milanese Antonio Solera), si chiuse nel
1821 con diverse condanne tra le quali 13 capitali, tutte commutate in pene detentive dai 6 ai
20 anni di carcere duro da scontarsi presso la fortezza morava dello Spielberg, luogo di
detenzione che sarebbe toccato a molti tra gli Hochverräter.
Politicamente più connotati furono gli inquisiti del secondo processo contro la Carboneria
(che prese le mosse dall'arresto del saluzzese Silvio Pellico e del forlivese Pietro Maroncelli,
appartenenti al gruppo del periodico dissidente milanese «Il Conciliatore»25
e che vide
coinvolto – ma in breve prosciolto – anche Gian Domenico Romagnosi); esso si risolse con
tre sentenze capitali su cinque condannati, pubblicate nel febbraio del 182226
, tutte e tre
Codice di procedura penale del Regno italico: il Codice penale austriaco, ricordiamo, sarebbe entrato in vigore
solo dal 1 gennaio 1816. I militari furono rimessi, invece, ad una Commissione marziale. Pur essendo il giudizio
sommario teoricamente inappellabile secondo il decreto 21 marzo 1808 (Bollettino delle leggi del Regno d'Italia.
Dal 1 gennaio al 31 maggio 1808. Milano, Reale Stamperia, 1808, pp. 222-229) – il quale regolava appunto le
Commissioni speciali – le condanne a morte, sia di civili che di militari, furono tutte commutate dall'imperatore
in pene più miti. C. Latini, Processare il nemico. Carboneria, dissenso politico e penale speciale nell'Ottocento,
«Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», XXXVIII (2009), 1, pp. 558-564. 23
Una sintesi sulle origini non ancora chiarite della Carboneria è offerta da S. Visciola, Carboneria: un
problema storiografico aperto, in Spielberg. Documentazione sui detenuti politici italiani. Inventario 1822-1859,
a cura di L. Contegiacomo, Rovigo, Minelliana, 2010, pp. 373-384. 24
F. Della Peruta, Il mondo latomistico della Restaurazione, in La nascita della nazione, pp. 9-34: 11-13, e Id., Il
mondo cospiratorio della Restaurazione, «Il Risorgimento», LV (2003), 3, pp. 335-365: 339-341. Anche Meriggi
nota che le manifestazioni di eversione politica precedenti le rivoluzioni del 1848 facevano fondamentalmente
perno, dal punto di vista della fisionomia sociale, sia sui nobili che sui professionisti, «due categorie sociali ad
alto tasso di pericolosità politica per il potere costituito»: Meriggi, Il Regno Lombardo-Veneto, p. 321. Per una
panoramica sulla Carboneria in Italia si veda anche G. Monsagrati, Brevi note sui Carbonari e sullo Spielberg, in
L’alba dell’Europa liberale. La trama internazionale delle cospirazioni risorgimentali, a cura di F. Leoncini,
Rovigo, Minelliana, 2012, pp. 11-20. 25
Sull'impresa editoriale del «Conciliatore», il gruppo di letterati che lo animarono e il suo ruolo culturale e
politico si veda Greenfiled, Economia e liberalismo, pp. 228-235 e Galante Garrone, I giornali della
Restaurazione, pp. 37-52. 26
Sentenza 13 febbraio 1822, ASMi, SLV, b. 22, fasc. 11, pubblicata il 21 febbraio (un esemplare del manifesto
si trova in Ibidem, fasc. 21). La risoluzione è trascritta anche in Sandonà, Contributo alla storia dei processi, pp.
163
graziate con pene dai 5 ai 20 anni di carcere duro.
Le risultanze dell’inquisizione istruita contro Pellico e correi permise alla magistratura e alla
polizia di tirare le fila sugli altri membri del mondo settario lombardo, facente capo alla
Federazione Italiana – un'associazione distinta, pur essendone intimamente collegata, dalla
Carboneria, alla quale tuttavia la storiografia si riferisce abitualmente con quest'ultima
denominazione27
– derivante dalla società buonarrotiana dei Sublimi Maestri Perfetti, dagli
scopi rivoluzionari e dai principi sociali e politici ben più radicali rispetto alla setta
carbonara28
. Ciò portò all'istruzione di un terzo processo contro il gruppo gravitante attorno a
Federico Confalonieri e Luigi Porro Lambertenghi i quali, coinvolti da Pellico e Maroncelli, a
loro volta avevano aggregato alla società segreta altri membri del ceto nobiliare a loro vicini a
Milano e nelle altre città lombarde – soprattutto Mantova e Brescia – nonché contro il
francese Alexandre Philippe Andryane, affiliato ai Sublimi Maestri Perfetti ed emissario di
Filippo Buonarroti in Lombardia29
. La sentenza venne pubblicata il 21 gennaio 1824: su 25
condanne, quelle capitali furono 16, tra le quali nove contro contumaci e sette contro imputati
detenuti, queste ultime graziate con pene del carcere duro di varia durata (dai tre anni di
detenzione al carcere a vita, irrogato quest’ultimo ai due principali imputati, per altro contro
la già ricordata consuetudine delle grazie, le quali solitamente commutavano le pene capitali
in pene detentive a termine) da scontarsi presso lo Spielberg.
Le confessioni e le dichiarazioni ottenute dagli inquirenti nel corso del processo coinvolsero,
a catena, sia i carbonari romagnoli – quindi sudditi pontifici30
–, sia decine di cospiratori
bresciani31
(tra i quali il conte Ludovico Ducco ed Antonio Dossi), inquisiti e giudicati tra il
1822 e il 1824: le 15 sentenze capitali pronunciate furono tutte commutate in via di grazia in
pene detentive da uno a 15 anni di carcere duro32
.
407-408. 27
Cassi, Negare l'evidenza, p. 321. 28
S. J. Woolf, Il Risorgimento italiano. II: Dalla Restaurazione all'Unità, Torino, Einaudi, 1981, pp. 354-355. 29
Su Andryane cfr. V. Scotti Douglas, “La queue” della cospirazione del 1821. Alexandre Andryane,
progioniero di Stato, in La nascita della nazione, pp. 413-424. Si veda anche la relazione 27 agosto 1823 sul suo
processo, ASMi, SLV, b. 22, fasc. 125. Essa è trascritta, sulla base della minuta conservata presso gli archivi
viennesi (ora andata probabilmente perduta), in Sandonà, Contributo alla storia dei processi, pp. 173-221. 30
Cfr. relazione 25 settembre 1823, ASMi, SLV, b. 27. Due degli imputati, Orselli e Casali, rifugiati in Toscana,
vennero consegnati al governo austriaco e sottoposti a processo in cambio della garanzia che su di loro non si
pronunciasse la sentenza capitale. Nonostante la proposta del Senato di commutare in via di grazia la pena del
carcere duro a vita rispettivamente in tre e due anni di carcere duro, l'imperatore decise di limitare la pena al
bando dagli stati austriaci (Risoluzione 22 dicembre 1823, ASMi, SLV, b. 23, fasc. 168, citata anche in Grandi,
Processi politici, p. 80). 31
Sui processi contro i cospiratori bresciani si veda soprattutto Cassi, Negare l'evidenza. 32
Relativamente agli imputati bresciani si sono individuate due sentenze: la prima del 1823 (il fascicolo con gli
estratti di protocollo di seconda e terza istanza, la relazione e il correferato 16 dicembre si trova in ASMi, SLV, b.
28), alla quale si riferisce il sovrano viglietto di grazia 26 aprile 1824 ( ASMi, SLV, b. 23, fasc. 196, estratto di
protocollo di consiglio 4 maggio 1824) e il sovrano motuproprio 29 aprile 1824 che mitigava ulteriormente due
164
Per gli imputati in questi ultimi processi l'obiettivo politico era decisamente più delineato
rispetto a quello dei carbonari polesani, pur, anch'esso, ben lungi non solo dalla messa in atto,
ma anche da una concreta pianificazione: ossia, la creazione di un regno che riunisse le
regioni dell'Italia settentrionale (Piemonte, Lombardia, Veneto, Ducati padani) sotto il
governo sabaudo33
. Un piano politico che, come osserva Marco Meriggi, era senza dubbio
antiaustrico senza necessariamente essere nazionale. L'istanza primaria dei cospiratori
lombardi – per lo più appartenenti alla giovane nobiltà liberale – e il loro desiderio di
annessione al Regno di Sardegna, va letto, secondo Meriggi, come la volontà di «rilancio
dell'egemonia nobiliare soffocata dalla politica centralizzatrice del governo austriaco»34
.
Nello stesso periodo si aprì un filone processuale parallelo, contro coloro i quali –
specialmente universitari – si erano introdotti in Piemonte nel 1821 per prendere parte alla
rivolta lì scoppiata35
. Un primo processo coinvolse dodici studenti dell'Università di Pavia, e
si concluse con sette condanne a morte graziate e commutate in pene carcerarie di durata
compresa tra i due e i tre anni (sr. 17 settembre 182336
). Contemporaneamente il Senato
confermava la sentenza capitale contro un ex cadetto, Antonio Appiani d'Aragona, anch'egli
accusato di aver partecipato alla rivoluzione piemontese, proponendone tuttavia la
commutazione a due anni di carcere37
. L'anno successivo un secondo gruppo di studenti
pavesi subì un processo per alto tradimento; cinque di loro vennero condannati alla pena di
pene (Ibidem, fasc. 199). Entrambi i documenti sono trascritti in Sandonà, Contributo alla storia dei processi,
pp. 438-440; il primo anche in Grandi, Processi politici, pp. 696-697. Una seconda sentenza coinvolgente altri
quattro imputati bresciani, oltre ad alcuni studenti di Pavia e altri cospiratori, fu pronunciata nel 1824 (ASMi,
SLV, b. 29; sentenza 3 novembre 1824, ASMi, SLV, b. 23, fasc. 246). Tra i bresciani figura pure Silvio Moretti,
già principale animatore della congiura bresciano-milanese del 1814 sopra menzionata, nonché l'unico
condannato, tra i quattro, a 15 anni di carcere (contro gli altri tre imputati si sospese invece il processo). 33
Meriggi, Il Regno Lombardo-Veneto, p. 312. 34
Ibidem, p. 316. 35
Si fa qui un rapido cenno al problema dell'estensione del concetto di delitto politico, rispetto ai colpevoli di
partecipazione a moti rivoluzionari in stati esteri (ciò che avvenne appunto in Piemonte nel 1821, come nel
Ducato di Modena e nello Stato Pontificio dieci anni dopo). Con sr. 16 febbraio 1833 l'imperatore interrogava il
Senato a questo proposito: si poteva considerare un suddito austriaco colpevole di alto tradimento solo per
concorso a rivolta contro un governo estero? La maggior parte dei senatori diede un'interpretazione estensiva del
§52, mentre i voti minori ritennero che un suddito dovesse essere inquisito per alto tradimento qualora la rivolta
commessa all'estero rappresentasse un pericolo anche per lo Stato austriaco – parere, quest'ultimo, che venne
condiviso dalla Commissione aulica di legislazione giudiziaria e dai Senati di Vienna, e approvato con sr. 20
giugno 1834. Un estratto di protocollo del Senato 8 maggio 1833, con la sr. conseguente, si trova in OeStA,
AVA, OJ, LVS, K. 23, fasc. 63. Una minuta dell'estratto di protocollo è anche in ASMi, SLV, b. 32, fasc. 102. La
minuta della relazione all'imperatore 16 maggio 1834, che riferisce il parere dell'Oberste Justizstelle, è in ASMi,
SLV, b. 35, fasc. 174. Infine, l'estratto di protocollo 3 ottobre 1834, che riporta la sr. 20 giugno, si trova in
Ibidem, fasc. 211. 36
ASMi, SLV, b. 22, fasc. 134. 37
Relazione 22 luglio 1823 portante la sr. 23 settembre 1823, Ibidem, fasc. 139.
165
morte e graziati a tre mesi di carcere38
. Un altro «giovane inesperto», il bresciano Lorenzo
Morosi, fu giudicato colpevole di essersi arruolato nelle armate piemontesi; la sua sentenza
capitale venne commutata con sr. 3 giugno 1824 in sei mesi di carcere semplice39
. Nella prima
metà del 1825, infine, si conclusero altri processi contro studenti dell'Università di Pavia
coinvolti nei moti piemontesi, con cinque condanne a morte graziate in pene detentive
inferiori all'anno di carcere40
.
Proprio nello stesso torno di tempo, la «riservatissima» sr. 10 maggio 1823 stemperava il
rigore usato nell'individuazione dei rei di alto tradimento: i sospettati non ancora arrestati e
verso i quali non fosse iniziata la speciale inquisizione, se considerabili non quali «autori,
capi, seduttori o propagatori» bensì come «sedotti», avrebbero dovuto sì essere interrogati per
ricavarne eventuali informazioni, ma non sottoposti a processo41
.
Dalla seconda metà degli anni Venti le carte del Senato riflettono una normalizzazione – salvo
alcuni strascichi riguardanti processi contro latitanti42
, rientrati in patria dopo anni di assenza,
probabilmente alla luce delle molte grazie concesse agli altri condannati per la partecipazione
ai moti piemontesi – che corrisponde allo smembramento dei nuclei carbonari lombardi e
38
Documentazione sul processo si trova in ASMi, SLV, b. 29 (sentenza della Commissione speciale di II istanza,
26 maggio 1824 ed estratti dei protocolli di consiglio; correferato del consigliere Benoni, 13 luglio 1824; estratto
dei protocolli di consiglio del Senato, 13-14 luglio 1824; relazione del Senato all'imperatore, 14 luglio 1824) e in
Ibidem, b. 23, fasc. 246 (sentenza 3 novembre 1824). 39
ASMi, SLV, b. 23, fasc. 213. 40
Nei primi mesi del 1825 si concluse, con tre sentenze capitali e due desistenze, un processo che coinvolse, tra
gli altri, due studenti dell'Università di Pavia. Le condanne furono graziate con sr. 22 febbraio e commutate in
pene inferiori all'anno di carcere (ASMi, SLV, b. 23, fasc. 266. La relazione del Senato 11 settembre 1824, con le
proposte di mitigazione, si trova in Ibidem, b. 29). Negli stessi giorni l'imperatore confermò la commutazione,
anch'essa a pochi mesi di detenzione, della sentenza capitale pronunciata contro Giuseppe Drisaldi di Pavia
(originario dello Stato Sardo), colpevole di essersi arruolato nel 1821 «nelle truppe de' Rivoltosi», diventando
ufficiale del Battaglione dei cacciatori di Alessandria (Ibidem, b. 23, fasc. 267: sr. 24 febbraio 1825). Nel maggio
del 1825 un altro «di que' studenti di Pavia, che recossi in Piemonte all'epoca de' rivoluzionari movimenti»,
Baldassare Baguzzi, vide la sua condanna capitale commutata in tre mesi di carcere, dopo essersi
volontariamente consegnato alle autorità «mosso da fiducia nella Sovrana Clemenza, che erasi già manifestata
per altri Studenti» (Sr. 24 maggio 1825, Ibidem, b. 23, fasc. 285). 41
Una copia manoscritta del decreto senatorio 17 maggio 1823 diretto al vicepresidente dell’appello Degli
Orefici e portante la sr. 10 maggio è stata reperita in BCT, BCT47-3; una trascrizione sulla base delle fonti
dell’archivio milanese è pubblicata in Grandi, Processi politici, pp. 690-691. Secondo l'argomentazione di Luzio,
Antonio Salvotti, pp. 157-158, fu lo stesso inquirente Salvotti a proporre all'imperatore il provvedimento in
oggetto. 42
L'esito dei pochi processi celebrati nei primi anni Trenta contro gli ex fuggitivi risulta inevitabilmente
determinato dalla politica della clemenza adottata nel corso del decennio precedente nei confronti dei
partecipanti ai moti piemontesi: così la sentenza capitale proferita nel 1830 contro Giovanni Valnegri di Lodi,
imputato di aver tentato di partecipare alle rivolte in Piemonte nel 1821, venne commutata in un anno di carcere
(referato 31 luglio, sr. 9 settembre e sentenza 17 settembre 1830, ASMi, SLV, b. 24, fasc. 405; Grandi, Processi
politici, pp. 321-322, riporta uno stralcio dei protocolli di consiglio). Lo stesso avvenne al giovane fuggitivo
conte Pirro de Capitani, rientrato volontariamente a Milano, che nel 1830 fu condannato a morte e graziato a sei
mesi di arresto (ASMi, SLV, b. 24, fasc. 309 e 405). Infine, analoga sorte toccò a Maurizio Quadrio, originario di
Chiuro, in Valtellina, «uno di quegli traviati giovani» studenti dell'università di Pavia che avevano partecipato ai
moti piemontesi del '21: fuggito in Russia, si costituì dopo molti anni per poter tornare in patria ove, nel 1834,
venne condannato alla pena capitale, per poi essere graziato a sei mesi di carcere (Relazione 30 giugno 1834 e sr.
7 settembre 1834, ASMi, SLV, b. 35, fasc. 208).
166
veneti provocato dai procedimenti penali subiti, con un «conseguente ristagno del fervore
cospirativo»43
.
Dall'estrazione geografica dei cospiratori di questa prima fase si deduce che – a parte il
gruppo di Fratta Polesine, comunque politicamente piuttosto acerbo – tutti gli altri processi
coinvolsero prevalentemente, se non esclusivamente, lombardi o persone provenienti da altri
stati, ma non veneti44
. Anche sul piano dei delitti politici, come su quello della criminalità
comune (e vedremo che ciò vale pure per il processo statario), le province lombarde si
dimostrano quindi più problematiche rispetto a quelle al di là del Mincio.
Un secondo nucleo di processi, minore ma altrettanto connotato, si colloca nei primissimi
anni Trenta. Pur non essendo le province del Regno direttamente toccate dalle insurrezioni
che, dopo la rivoluzione parigina del 1830, interessarono invece l'Italia centrale, alcuni sudditi
lombardi e veneti sconfinarono nei Ducati padani e nello Stato Pontificio per partecipare ai
moti rivoluzionari scoppiati in quegli stati e repressi anche con l'intervento dell'esercito
austriaco; contro tali individui venne istruita una serie di procedimenti per alto tradimento,
che si concluse nel periodo successivo con otto sentenze capitali, tutte graziate a pochi anni o
pochi mesi di carcere45
.
43
Della Peruta, Il mondo latomistico, p. 17. 44
Laven, Venice and Venetia, pp. 203-204. Sullo scarso coinvolgimento del Veneto cfr. anche G. Berti, Governo
austriaco e Carboneria nel Veneto. Il caso Polesine, in La nascita della nazione, pp. 259-274: 266-273. Di
opinione diversa L. Contegiacomo, Il microcosmo della Carboneria nel Polesine. Legami famigliari, sociali e
culturali, in La nascita della nazione, pp. 355-378. 45
Il profilo di quanti furono condannati nel corso di questi processi, di estrazione sia lombarda che veneta, lascia
intravedere dei percorsi biografici, qui delineati con brevissimi tratti, che varrebbe però la pena di approfondire,
anche per il loro occasionale intrecciarsi. Nel 1832 furono condannati a morte il mantovano Alessandro Rezzaghi
ed Antonio Longoni, nativo di Verona, per aver preso parte alla rivolta modenese, e la loro pena commutata per il
primo in sei mesi di carcere (relazione 30 marzo e sr. 26 luglio 1832, ASMi, SLV, b. 30, fasc. 47), per il secondo
in tre anni di carcere duro da scontarsi presso la fortezza dello Spielberg (relazione 3 ottobre 1832 e sr. 19
febbraio 1833, ASMi, SLV, b. 31, fasc. 89). Sempre lo stesso anno venne pronunciata una sentenza capitale
contro il cremonese Giovanni Battista Pimpoli, colpevole di essersi arruolato, nel 1831, nell'esercito dei ribelli
della Romagna, quindi graziato con la dimissione dal carcere (relazione 30 marzo 1832 e sr. 12 settembre 1832,
ASMi, SLV, b. 31, fasc. 57). Condannati alla pena capitale e graziati con qualche mese di carcere furono pure
Giuseppe Monici, nativo della provincia di Rovigo, colpevole di aver militato nella Guardia Nazionale
rivoluzionaria di Ferrara (relazione 17 aprile 1832, portante la sr. 21 settembre 1832, ASMi, SLV, b. 31, fasc. 59)
e Giuseppe Davide Pavia, giovane ebreo di Milano, coinvolto anch'egli nelle rivoluzioni delle città emiliane
dello Stato Pontificio (estratto di protocollo di consiglio e relazione 23 novembre 1832 con sr. 16 febbraio 1833,
ASMi, SLV, b. 32, n. 91; una minuta della relazione pure in Ibidem, b. 31, fasc. 65). Più complessa risulta la
vicenda di Luigi Antonio Maria Fontana, condannato a morte sul finire del 1832 quale attivo partecipante alla
rivoluzione della Romagna, per il più solido trascorso eversivo: nel 1821, a 19 anni, studente del collegio
Ghislieri di Pavia, si introdusse in Piemonte per prendere parte ai moti che lì si scatenarono; fuggito in Spagna,
si unì a «bande ribelli assieme ad altri rifugiati» sotto il comando del colonnello bresciano Paolo Olini
(condannato a morte quindi graziato, come Silvio Moretti, per aver partecipato alla congiura bresciano-milanese
del 1814, poi coinvolto nei moti piemontesi del '21), del quale divenne «fido compagno». Riparato poi in
Francia, si stabilì a Marsiglia dove assunse il ruolo di «strumento di comunicazione pei rivoltosi rifuggiati a
Parigi»; da qui, appunto, rientrò nella penisola per partecipare alle sollevazioni romagnole. Nonostante siffatto
167
Proprio nel 1831 si assiste, contestualmente, ad un sensibile mutamento del panorama
normativo e poliziesco lombardo-veneto. Da una parte, la sr. 30 dicembre 1831 sanciva una
maggiore mitezza giuridica, come già aveva fatto la sr. 10 maggio 1823, restringendo il
campo degli inquisibili per alto tradimento. L’iniziativa processuale poteva aver luogo solo in
presenza di pieni indizi legali, e limitatamente ad alcune categorie di persone: gli autori
principali ed attivi dell'azione incriminata; chi, già in passato, era stato sottoposto ad
inquisizione per alto tradimento e non riconosciuto innocente; i pubblici funzionari. Gli altri
sospettati avrebbero dovuto essere interrogati a titolo informativo, ma non arrestati o inquisiti.
Infine l'imperatore specificava, con una certa attenzione per l'opinione pubblica e
probabilmente alla luce dell'esperienza degli anni Venti, che «le autorità giudiziarie devono
non solamente esattamente uniformarsi alle leggi sussistenti, ma ben anche aver cura speciale
di evitare perfettamente qualunque apparenza di arbitrio, di malizia, o di rigore non necessario
– in breve – dovranno condursi in modo, che né gli inquisiti, né il pubblico abbiano motivo di
giuste querele»46
.
Dall'altra parte, come si evince dalla relazione su uno dei processi celebrati in questo periodo,
venne intensificato il controllo poliziesco, ossia raddoppiata «la vigilanza della Politica
autorità, locché più vigorosamente si fece a riguardo di quelle Provincie che sono limitrofe ai
Paesi della Rivolta»47
.
Nello stesso periodo il Tribunale di Milano celebrò un ultimo processo coinvolgente settari
“curriculum” rivoluzionario, pare non fosse più il tempo di infliggere condanne severe: e infatti il Fontana venne
graziato a un anno di carcere duro (Relazione 27 dicembre 1832 con sr. 16 febbraio 1833, ASMi, SLV, b. 31,
fasc. 93). Profilo analogo di «traviato giovane» è quello del veneziano Giovanni Zerman: a Parigi, dove si era
trasferito, aveva preso una «parte attivissima» alla rivoluzione del 1830, per poi spostarsi in Romagna l'anno
successivo, partendo da Marsiglia assieme ad altri rivoltosi tra i quali Fontana (che per altro deruba venendo
perciò momentaneamente arrestato); una volta a Bologna conosce anche Giuseppe Pavia, che incita e incoraggia.
Dopo una serie di traversie rocambolesche, venne arrestato a Venezia, e condannato a morte per alto tradimento
ma graziato a 5 anni di carcere duro (correlazione 27 dicembre 1832, ASMi, SLV, b. 32, n. 105). Un ulteriore
processo, che coinvolse diversi imputati tra i quali il conte Giuseppe Arrivabene – fratello di Giovanni,
condannato a morte in contumacia quasi dieci anni prima per alto tradimento nel processo contro Confalonieri e
correi – e il marchese Edoardo Valenti di Mantova, si concluse nel 1835 con la condanna a morte di quest'ultimo,
commutata in tre anni di Spielberg. Arrivabene fu invece dapprima condannato a 20 anni di carcere; tuttavia, per
ordine dell'imperatore, il processo contro di lui venne sospeso. La relazione 7 aprile 1835 si trova in ASMi, SLV,
b. 33, fasc. 153; correlazione, estratti di protocolli di consiglio e sentenza 14 luglio 1835 riportante la sr. 9
giugno sono in Ibidem, b. 37, fasc. 292. 46
ASMi, SLV, b. 11, fasc. 2 (sovrano motuproprio originale); la citazione è tratta dalla relazione del Senato 6
gennaio 1822. Un trascrizione completa di quest'ultima si trova in Grandi, Processo politici, pp. 700-702. È poi
interessante osservare la segretezza della norma qui citata: essa specificava infatti che i presidenti del Tribunale
criminale, del Tribunale d'appello e del Senato avrebbero reso edotti della disposizione solo «quelli tra gli
individui a loro soggetti, i quali devono necessariamente averne notizia». La sr. sarebbe stata applicata anche
contro i membri della Giovine Italia, nonostante il parere sfavorevole del Senato che ne avrebbe dato
un'interpretazione più ristretta (ossia riferita solo ai processi in quel momento pendenti). Cfr. relazione 30 agosto
1833 e sr. 31 gennaio 1834, ASMi, SLV, b. 35, fasc. 155. 47
Relazione 7 aprile 1835, ASMi, SLV, b. 33, fasc. 153.
168
carbonari: istruito dal giudice Paride Zajotti – colui che poi avrebbe svolto il delicatissimo
ruolo di relatore nelle inquisizioni contro gli aderenti alla Giovine Italia – si risolse nel 1834
con due sentenze a carico dei comaschi Giovanni Albinola e Felice Argenti. Il primo,
condannato a morte, venne graziato a otto anni di carcere duro, su proposta del Senato il quale
annoverava, tra i motivi di grazia, non solo la giovane età e la scarsa pericolosità dell'Albinola
quale cospiratore, ma anche le promesse di «ogni sorte di mitigazione, qualora palesasse la
verità», avanzate dal direttore generale di polizia di Milano48
(un punto, quello del rapporto
tra grazia ed illecite assicurazioni di impunità o riduzione di pena, che abbiamo già
diffusamente affrontato nel secondo capitolo).
Il terzo e ultimo “atto” della storia del delitto politico lombardo-veneto prequarantottesco
riguarda, infine, la repressione della Giovine Italia, scoperta nel Regno, ove si era diffusa in
Lombardia e nella provincia di Verona49
, nel 183250
: un fenomeno politico molto distante
dalla Carboneria, dotato di un programma unitario e chiaro – democratico, repubblicano,
nazionale e, soprattutto, pubblico e definito – organizzato non più come setta ma come partito,
pur clandestino51
, e coinvolgente seguaci da ampi strati della popolazione.
I relativi procedimenti giudiziari, istruiti da Zajotti, si chiusero tra la fine del 1834 e l'inizio
del 1835, allorché vennero pronunciate le sentenze definitive e concesse le conseguenti
grazie, ricostruibili attraverso le fonti senatorie. Esse danno anzitutto la cifra dell’entità delle
conseguenze punitive di tale fenomeno eversivo, ma forniscono anche un quadro preciso, per
quanto sintetico, dell’estrazione regionale e del profilo professionale dei condannati. La
fisonomia sociale (e generazionale) del corposo gruppo di aderenti alla Giovine Italia,
dettagliatamente studiata sulla base della documentazione dei tribunali di prima e di seconda
istanza da Arianna Arisi Rota, si riflette in modo omogeneo anche nella piccola percentuale di
imputati effettivamente condannati alla pena capitale. In particolare, la studiosa rileva il
coinvolgimento perlopiù inedito rispetto al decennio precedente di alcune specifiche
48
Il fascicolo con l'estratto dei protocolli di consiglio 28, 29 e 30 gennaio 1834, il referato e il correferato 30
gennaio e la minuta della relazione all'imperatore è in ASMi, SLV, b. 34, fasc. 154. La sentenza si trova in
Ibidem, b. 35, fasc. 173. Il 29 gennaio venne discusso il caso di Felice Argenti, condannato alla pena di 20 anni
di carcere duro. Anche in questo caso, l'ambasciatore austriaco aveva ufficialmente garantito al governo toscano
– presso i cui territori evidentemente l'Argenti si era rifugiato – che contro l'imputato non sarebbe stata
pronunciata una condanna capitale. 49
Sulla diffusione della Giovine Italia in Lombardia (e qualche accenno alla provincia di Verona) si veda F.
Della Peruta, Mazzini e i rivoluzionari italiani. Il “partito d'azione” 1830-1845, Milano, Feltrinelli, 1974, pp.
107-122. 50
Come si legge nelle minute di due lettere del presidente del Senato von Eschenburg – destinante una al
presidente dell'appello di Milano, l’altra all'imperatore – datate 3 agosto 1832 (ASMi, SLV, b. 11). 51
F. Della Peruta, Milano nel Risorgimento. Dall’età napoleonica alle Cinque giornate, Milano, Comune di
Milano, 1998, p. 76, e Id., Il mondo latomistico, pp. 19-20.
169
categorie: militari, ecclesiastici, membri della classe media quali giovani professionisti
(avvocati, medici, ingegneri) e negozianti, oltre che impiegati governativi e studenti52
; invero
già rappresentati, questi due ultimi gruppi, dai condannati dei primi anni Venti, seppur in
misura minore.
Nel dicembre del 1834 si concluse il processo intentato contro il sacerdote comasco Carlo
Cattaneo, condannato a morte e graziato a tre anni di Spielberg53
. Nel febbraio del 1835
beneficiò della commutazione della pena capitale in due anni di carcere duro lo studente
Giovanni Zambelli di Vailate, sulla base delle consuete cause attenuanti: la giovinezza e
l'inesperienza, la trascurata educazione, lo scarso ingegno54
, ossia quell’insieme di
caratteristiche che Arisi Rota definisce «l'equazione da tempo collaudata» del cospiratore in
fondo poco pericoloso55
. Pochi giorni dopo venne emessa la sovrana risoluzione che graziava
il giovane possidente milanese Carlo Bussi, commutandone la pena di morte in due anni di
carcere duro56
. Il mese successivo da Vienna arrivarono le risoluzioni sulle condanne capitali
del praticante in farmacia Carlo Foresti di Tavernola e dello studente Gabriele Rosa di Iseo,
entrambi graziati; il primo a due anni di carcere duro, il secondo, ritenuto più pericoloso, a
tre57
. Sempre nel marzo vennero graziati lo studente di veterinaria di origini bresciane
Giovanni Battista Piardi, il negoziante di Gallarate Filippo Guenzati, il maestro del collegio
milanese di San Luca Alessandro Moscheni, l’ex militare Andrea Cavalleri e il giovane
commesso milanese Filippo Labar, con pene comprese tra l’anno e i cinque anni di carcere
duro58
. Poco dopo anche la sentenza capitale del medico bergamasco Carlo Lamberti fu
commutata in quattro anni di carcere semplice59
. La sr. 17 luglio 1835 graziava le condanne a
morte di Giacinto Miglio, ragioniere di Pizzighettone, e di Angelo Polaroli, ingegnere di
Codogno, rispettivamente a quattro e due anni di carcere duro60
, ravvisando il Senato,
soprattutto nel Polaroli, «un carattere debole, ed un ristrettissimo ingegno»; caratteristiche
che, secondo il presidente, «non avrebbero sicuramente lasciato sussistere il timore, che
questo individuo potesse mai figurare nel caso di un movimento, che quale istromento
subordinato di persone più elevate per posizione sociale, e per estensione di lumi»61
. Nello
52
Arisi Rota, Il processo alla Giovine Italia, soprattutto pp. 57-109. L’autrice parla infatti di salto qualitativo e
quantitativo della Giovine Italia rispetto alle esperienze settarie del decennio precedente (p. 9). 53
Relazione 28 ottobre 1834, ASMi, SLV, b. 36, fasc. 238. 54
Relazione 17 dicembre 1834 e sr. 20 febbraio 1835, ASMi, SLV, b. 36, fasc. 250. 55
Arisi Rota, Il processo alla Giovine Italia, p. 140. 56
Sr. 27 febbraio 1835, menzionata nella sentenza 7 marzo 1835, ASMi, SLV, b. 36, fasc. 253. 57
Relazione 10 settembre 1834 e sr. 30 marzo 1835, ASMi, SLV, b. 36, fasc. 258. 58
Sr. 27 marzo 1835, ASMi, SLV, b. 37, fasc. 265 e sr. 27 marzo 1835, Ibidem, fasc. 266. 59
Sr. 12 giugno 1835, riportata nel decreto 19 giugno 1835, ASMi, SLV, b. 37, fasc. 285. 60
La sr. è menzionata nel decreto 25 luglio 1835, ASMi, SLV, b. 37, fasc. 293. 61
Estratto dei protocolli di consiglio 11 aprile 1835, ASMi, SLV, b. 37, fasc. 293.
170
stesso torno di tempo venne condannato a morte il dottore in legge bresciano Giacomo Poli e
graziato a cinque anni di carcere duro62
. A fine agosto 1835 furono emanate le sovrane
risoluzioni sopra gli imputati più responsabili: l’imprenditore Luigi Tinelli, l’alunno presso il
Tribunale di Cremona Carlo Cesare Benzoni, l’ex militare Rinaldo Bressanini, l’aggiunto al
Commissariato distrettuale di Cremona Pietro Strada, il medico di Codogno e assistente alla
cattedra di storia naturale all'Università di Pavia Giovanni Dansi e l'avvocato nativo di Iseo e
addetto alla pretura di Sarnico Alessandro Luigi Bargnani, graziati con pene dai sei ai venti
anni di carcere duro63
.
Quello contro la Giovine Italia è l'ultimo rilevante nucleo di procedimenti giudiziari per alto
tradimento conclusisi con delle sentenze capitali prima del biennio rivoluzionario. Le poche
eccezioni sono circoscritte agli anni immediatamente successivi: nel 1836 ebbe termine il
processo contro il genovese Giambattista Serra, colpevole di aver aderito e appoggiato i
progetti di alcune sette (tra le quali gli Amici del popolo, la Carboneria riformata, la Giovine
Italia, i Veri Italiani), di aver tentato di estendere la rivoluzione modenese anche alla
Lunigiana ed al genovese, nonché di altre attive azioni sovversive. Serra venne condannato a
morte ma, con sr. 4 marzo 1837, dimesso e consegnato alla Direzione Generale della Polizia
di Milano64
. L'anno successivo si definì il procedimento contro Luigi Vassalli, imputato di
aver partecipato al tentativo mazziniano di invasione della Savoia nel 1834, la cui sentenza
capitale fu commutata in una detenzione di tre anni da scontare nella casa di correzione di
Milano65
. Sempre nel ‘38 venne irrogata una pena capitale contro il piemontese Carlo Rapelli,
aderente della Giovine Italia, il quale, nonostante la proposta del Senato di commutazione di
pena a 10 anni di carcere duro66
, fu infine amnistiato67
.
62
Sentenza 10 agosto 1835, ASMi, SLV, b. 37, fasc. 295. 63
Decreto 22 settembre 1835, ASMi, SLV, b. 38, fasc. 308. 64
Il fascicolo contenente la relazione e l'estratto di protocollo di consiglio del Senato 22 dicembre 1836, nonché
la sentenza e l'estratto del protocollo di consiglio dell'appello di Milano 27 agosto 1836 si trova in ASMi, SLV, b.
39, fasc. 405. 65
Il fascicolo relativo, con gli estratti dei protocolli sia del Senato che dell'appello, si trovano in ASMi, SLV, b.
40, fasc. 462. La sr. 13 agosto 1838 di grazia è pure riportata nei protocolli della sessione 24 agosto 1838,
Ibidem, b. 183, cc. 2941-2942. 66
Sessione 25 luglio 1838, ASMi, SLV, b. 183, cc. 2598-2604. Interessante l'osservazione del relatore:
nonostante Rapelli si fosse dimostrato, durante l'inquisizione, «soggetto assai perverso e minimamente pentito»,
tuttavia «l'esempio di tante grazie da Sua Maestà clementissimamente sparse sopra tanti individui egualmente
colpevoli» rendeva il Rapelli meritevole della commutazione della pena di morte (c. 2604). 67
Si veda il fascicolo ASMi, SLV, b. 40, n. 472. La sentenza 3 ottobre 1838 rimette Rapelli al sovrano
motuproprio del 6 settembre.
171
2. 3. Profilo giudiziario e centralità della grazia
L'approccio che si vuole adottare nell'osservare i procedimenti penali politici sopra tratteggiati
è quello suggerito dallo storico del diritto Aldo Andrea Cassi, il quale evidenzia la dimensione
«eminentemente, indefettibilmente giuridica della repressione» dei disordini politici, poiché
«il diritto, non meno della politica, dell'arte militare e diplomatica, dell'attività poliziesca e
spionistica, fu un protagonista del nostro Risorgimento»68
.
La questione del delitto politico sotto il profilo della disciplina giudiziaria e penale austriaca –
che interessò molto da vicino centinaia di sudditi lombardo-veneti nel corso del Vormärz – è
stata dettagliatamente affrontata da Ettore Dezza69
. L'autore mette in evidenza il punto dal
quale vorrei muovere le mie riflessioni, ossia l'assoluta diversità della forma, e
conseguentemente degli esiti, dei processi politici condotti prima e dopo il 1848.
Le strategie messe in atto per sedare e giudicare la delinquenza politica – è questa una
considerazione di valore generale – si declinano primariamente in campo giuridico e
legislativo, vale a dire nei riferimenti normativi e negli strumenti giudiziari che lo Stato
sceglie in questo senso di adottare.
Se nel Vormärz i processi per alto tradimento erano stati condotti, come vedremo più
dettagliatamente, secondo la procedura ordinaria normata dal codice del 1803 – con tutte le
conseguenze garantiste che ciò comportava –, con le rivoluzioni del 1848 la necessità di
fronteggiare un pericolo più immediato non solo per l'ordine pubblico ma per la stessa solidità
dello Stato70
portò alla proclamazione dello stato d'assedio71
, che si prolungò fino al maggio
185472
. Tale scelta, senz'altro interpretabile come la «conseguenza di una guerra “interna” ma
anche esterna»73
, consentì l’attivazione di strumenti giuridici eminentemente straordinari che
permisero di infliggere pene molto più severe rispetto a quelle irrogate nei decenni precedenti.
In questi anni, nel contesto di una «messa in atto di una strategia militare – più ancora che
politica – nella definizione dei rapporti tra stato e società»74
, tanto la celebrazione dei processi
politici, dopo le esperienze giudiziarie dei procedimenti per alto tradimento degli anni Venti e
68
Cassi, Negare l'evidenza, p. 322. 69
E. Dezza, La legislazione penale asburgica e i processi politici nel Regno Lombardo Veneto, «Bollettino
storico mantovano», II (2003), pp. 195-213. 70
Ibidem. 71
Proclama del Feldmaresciallo Radetzky 6 agosto 1848 con il quale viene attivato lo stato d'assedio nella città
di Milano, RAG 1848, Parte I, pp. 67-68. 72
Cfr. Ordinanza dei Ministeri dell'Interno e della Giustizia, del Comando superiore dell'Armata e del Dicastero
Supremo di Polizia del 21 aprile 1854 relativa alla soppressione dello stato d'assedio nel Regno Lombardo-
Veneto, portante la s. r. 20 aprile 1854, BLV 1854, Parte I, p. 157. 73
Latini, Processare il nemico, p. 556. 74
M. Meriggi, La riorganizzazione del potere asburgico nel Lombardo-Veneto dopo il 1848-49: da Radetzky a
Massimiliano, in Verso Belfiore: società, politica, cultura del decennio di preparazione nel Lombardo-Veneto.
Atti del convegno di studi, Mantova-Brescia 25, 26, 27 novembre 1993, Brescia, Geroldi, 1995, pp. 29-41: 29.
172
Trenta, quanto la repressione dei fenomeni di banditismo, vennero perlopiù demandate a
tribunali e commissioni militari, le quali giudicavano applicando le leggi marziali e la
procedura stataria75
.
I delitti e le trasgressioni che sarebbero rientrati nella competenza delle leggi militari,
giudicabili da un consiglio di guerra o da un consesso statario e quindi puniti con la morte,
vennero notificati con il proclama 10 marzo 184976
del feldmaresciallo Radetzky: accanto
all'alto tradimento, vi erano elencate anche altre azioni delittuose non tutte di carattere
politico, quali la partecipazione a sommosse, l'arruolamento illecito, la diserzione e
l'induzione alla diserzione, lo spionaggio, la diffusione di scritti rivoluzionari, come pure la
rapina e il «furto pericoloso», la detenzione e l'occultamento di armi, la resistenza e
l'aggressione contro militari, la diffusione di cattive notizie sulla guerra, la cui repressione
avrebbe dovuto principalmente scongiurare il pericolo di ulteriori tentativi rivoluzionari. Ciò
nonostante, l'analisi di Paolo Rondini dimostra come, all'interno della considerevole mole di
condanne pronunciate dai consessi militari in quel torno di tempo, la parte più consistente di
esse riguardasse imputazioni per delitti comuni: porto abusivo d'armi, rapine, furti violenti,
resistenza alla forza pubblica77
.
Allo stato d'eccezione e alla norma introdotta con il proclama 10 marzo 1849 vanno ricondotti
i processi contro i membri del comitato mazziniano a Mantova (1852-1854)78
, la repressione
della tentata insurrezione milanese del 6 febbraio 185379
, la massiccia e sistematica attività
della commissione militare itinerante d’Este istituita allo scopo di reprimere i diffusi
fenomeni di banditismo e ribellismo in Veneto – nella cui natura Luigi Lacché ravvisa una
forte continuità con le procedure ad modum belli di antico regime80
. Dalla sua fondazione
nell'aprile 1850, stabilita dal Senato Lombardo-Veneto di concerto con le autorità militari di
Padova (su istanza dei possidenti e delle deputazioni comunali della bassa padovana, allarmati
75
Sul processo statario si rimanda al quinto capitolo. 76
RAG 1849, Parte I, pp. 26-28. 77
P. Rondini, «Ius gladii et aggratiandi». La legislazione e la giurisdizione penale militare nel Regno
Lombardo-Veneto, in L’ABGB e la codificazione asburgica, pp. 283-316: 294. 78
I processi contro la cosiddetta congiura di Belfiore seguirono due modalità procedurali: gli imputati colti in
flagrante, o gravati da sufficienti prove o indizi legali, furono processati secondo rito statario – quello normato,
si noti, non dal codice penale del 1803, ma dalla Constitutio Criminalis Theresiana. Gli altri imputati furono
invece giudicati con rito ordinario, il cui riferimento normativo era ancora il codice teresiano. Cfr. Dezza, La
legislazione penale asburgica, pp. 204-207. 79
Sul punto cfr. B. Mazohl-Wallnig, „Hochverräter“ und österreichische Regierung in Lombardo-Venetien. Das
Beispiel des Mailänder Aufstandes im Jahre 1853, «Mitteilungen des österreichischen Staatsarchivs», 31 (1978),
pp. 219-231. Per quanto riguarda le procedure stataria ed ordinaria utilizzate nei processi milanesi, Rondini
rileva le stesse dinamiche osservate da Dezza per i processi di Belfiore. Rondini, «Ius gladii et aggratiandi», pp.
307-308. 80
L. Lacché, “Ordo non servatus”. Anomalie processuali, giudizio militare e “specialia” in antico regime,
«Studi storici», XXIX (1988), 2, pp. 361-384: 375.
173
dell'intensificarsi del banditismo dopo il 1848), fino all'aprile del 1854 quando, con la fine
dello stato d'assedio, venne sostituito da una commissione civile, il tribunale d'Este irrogò ed
effettivamente eseguì nelle campagne venete e mantovane su cui aveva giurisdizione un
numero impressionante di condanne capitali81
– la maggior parte delle quali non sarebbe stata
pronunciabile da un giudizio ordinario – contro i colpevoli di furti e rapine82
: un'attività
punitiva di enormi proporzioni che nel cinquantennio precedente era rimasta un fatto
episodico, nonostante le preesistenti tensioni sociali83
.
Gli aspetti garantisti della procedura ordinaria utilizzata nei procedimenti per alto tradimento
nel corso del Vormärz (e tra questi, in particolare, lo stesso sistema a tre istanze, la più volte
ricordata disciplina probatoria – ossia la necessità per il giudice di avere una serie rigidamente
normata di prove per poter irrogare una condanna – e l'impossibilità di infliggere la pena
capitale in assenza di almeno due testimoni o della confessione del reo), avrebbero impedito
ai tribunali, come è stato osservato da diversi studiosi, la pronuncia di molte sentenze
condannatorie. Si tratta di un dato che risalta tanto più limpidamente se si confronta la politica
punitiva prequarantottesca con quella attuata durante lo stato d'assedio.
Le fonti esaminate inducono tuttavia ad avanzare una precisazione: non furono solo le
garanzie procedurali a far sì che nessuno Hochverräter venisse giustiziato prima del 1848. Le
condanne capitali irrogate nel Vormärz per alto tradimento furono, certo, numericamente
molto inferiori rispetto non solo a quelle inflitte successivamente, ma anche al numero degli
inquisiti (un dato, quest'ultimo, solitamente annoverato per sottolineare le conseguenze
garantiste della procedura utilizzata ma che, a mio avviso, è pure un segnale della vaghezza di
molte delle accuse sulle quali si dipanarono le inquisizioni): tuttavia, esse risultano comunque
considerevoli – siamo sull'ordine del centinaio –, specialmente se messe in relazione con gli
81
Il numero delle condanne capitali inflitte dalla commissione d’Este non è ancora stato con precisione appurato.
Verosimile sembra tuttavia la cifra proposta dal già citato giudice Chimelli, ossia 385: Chimelli, Storia del
grande processo di Este, p. 88. 82
Sulle vicende istituzionali che portarono alla formazione della commissione, le sue competenze e
modificazioni, i giudici che la composero, i dati quantitativi della sua attività e la documentazione da essa
prodotta si veda M. P. Pedani, Le «Commissioni in Este» ed il loro archivio (1850-1856), «Archivio veneto», V
serie, CXXVII (1986), pp. 71-89. Si veda, con le cautele suggerite nel capitolo precedente, anche Chimelli,
Storia del grande processo di Este, pp. 14-15 e 27-28. 83
Cfr. R. Derosas, Strutture di classe e lotte sociali nel Polesine preunitario, «Studi storici», XVIII (1977), 1, pp.
61-90: 72 e segg. e P. Brunello, Ribelli, questuanti e banditi. Proteste contadine in Veneto e in Friuli, 1814-1866,
Venezia, Marsilio, 1981, pp. 214-216. Secondo Brunello, che condivide il giudizio di Mario Vaini sul caso
mantovano (M. Vaini, I contadini mantovani nella rivoluzione nazionale (1848-1860). Contributo al dibattito
storiografico sule vicende del Mantovano negli ultimi cento anni, Milano, Edizioni del Gallo, 1966, in
particolare pp. 130 e segg.), il fenomeno del banditismo che la commissione d'Este aveva il compito di stroncare
sarebbe a tutti gli effetti interpretabile come un'insurrezione delle plebi contadine. Si veda anche, sempre per la
zona mantovana, Bertolotti, Le complicazioni della vita, pp. 156-157.
174
esiti punitivi dei processi per delitti comuni celebrati negli stessi anni. A questo proposito, è
stato spesso segnalato e ripetuto dalla storiografia84
quanto affermava per altro lo stesso
Federico Confalonieri85
, ossia che le condanne a morte per alto tradimento poterono essere
irrogate soprattutto grazie all'ignoranza degli imputati in materia procedurale; questi
sarebbero stati inconsapevoli del fatto che, in mancanza di confessione o di due prove
testimoniali concordi, il consesso giudicante era impossibilitato a pronunciare la pena
capitale. Tale interpretazione non mi sembra del tutto convincente. Innanzitutto, alcune fonti
esaminate nei capitoli precedenti suggeriscono come la consapevolezza del valore probatorio
della confessione e delle sue conseguenze sul piano punitivo fosse relativamente ampia, anche
tra gli strati sociali più bassi. In generale, appare poi poco credibile che i settari ed i
cospiratori lombardo-veneti – per lo meno quelli coinvolti nei processi successivi al primo –
non si fossero informati in questo senso, onde affrontare prevedibili procedimenti penali in
modo, per quanto possibile, preparato. Va inoltre detto che il principio del §430 non era certo
un mistero: la notificazione 21 marzo 1818 sui §§ 430 e 431 venne pubblicata nella «Gazzetta
di Milano»86
. Spiegando il contenuto del primo dei due paragrafi, essa specificava
chiaramente che la condanna capitale non sarebbe stata irrogabile in assenza di confessione
del reo o doppia testimonianza giurata. Più probabilmente, le confessioni vennero ottenute da
imputati stremati da lunghe detenzioni e da continui interrogatori, o anche, a mio avviso, dalla
convinzione di poter ottenere più facilmente una grazia.
L'assenza di esecuzioni va quindi ricondotta, primariamente, al sistematico intervento della
grazia sovrana, rispondente alla volontà di “normalizzare” la situazione politica senza
esasperare la tensione che le esecuzioni avrebbero prodotto, verosimilmente anche alla luce
del profilo sociale dei condannati. Come si è potuto dedurre dall'excursus sopra tratteggiato, si
nota tuttavia una discontinuità per quanto riguarda l’entità delle grazie usate nel corso degli
anni. Dopo i primi processi, le pene detentive nelle quali le condanne capitali furono
commutate si fecero, in linea di massima, sempre più miti: esse solitamente non superano i
pochi anni (spesso i pochi mesi) di carcere. Ciò diede luogo a problemi di proporzionalità: nel
marzo del 1833, un sovrano motuproprio avvertiva il presidente del Senato von Eschenburg
che, nei processi per alto tradimento, «il Senato nelle sue proposizioni per pene temporarie in
84
Dai più risalenti Luzio, Antonio Salvotti, pp. 133-135, Id, Nuovi documenti, p. XXI e Spellanzon, Storia del
Risorgimento, vol. II, pp. 41-42, ai più recenti Rondini, «Ius gladii et aggratiandi», pp. 312-314 e Cassi, Negare
l'evidenza, pp. 328-329. 85
Così infatti egli dichiara nelle sue memorie: F. Confalonieri, Memorie e lettere, a cura di G. Casati, vol. I,
Milano, Hoepli, 1889, p. 42. 86
«Gazzetta di Milano» 23 marzo 1818, n. 81.
175
luogo della pena capitale stabilita dalla legge non avrebbe sempre osservato la conveniente
proporzione, in modo, che Individui, i quali avrebbero meritato una pena maggiore possano
essere stati trattati con minore rigore che i meno colpevoli». Il presidente era quindi tenuto a
rendere «attento il Senato di quella inconvenienza e delle sue conseguenze, e sorveglierà, che
nella evasione di tali processi vengano debitamente tenute presenti le proposizioni già in
antecedenza fatte in simili casi»87
. Il rimprovero dell'imperatore, che probabilmente si riferiva
ad episodi molto puntuali, va a mettere in luce una prassi generalizzata adottata in questi anni:
il rigore punitivo proposto dal Senato e, di conseguenza, l'entità delle grazie erano
principalmente dettati dal contesto politico entro il quale i processi venivano istruiti. I primi
inquisiti, come avremo modo di illustrare più nel dettaglio, vennero trattati più severamente
non tanto per la pericolosità del loro progetto cospirativo, quanto per il momento in cui essi
vennero appunto giudicati.
Ciò non vuol per altro dire che le qualità personali dei condannati non esercitassero un certo
peso nella determinazione della grazia; come abbiamo visto per i delitti comuni, anche per i
politici le carte del Senato sono percorse da ricorrenze che permettono di distinguere il profilo
del cospiratore “irriducibile” (freddo, intelligente e, soprattutto, politicamente consapevole)
da quello meritevole della clemenza sovrana (giovane, ingenuo, intimorito, dotato di
intelligenza, cultura e carattere mediocri, di scarsa esperienza, vittima di esaltazioni altrui,
compreso di un pentimento sincero, spesso declinato anche sul piano religioso: in sostanza, un
individuo socialmente poco pericoloso). Talvolta, pur non frequentemente, la grazia veniva
utilizzata anche in senso strumentale, ossia entro un meccanismo di premialità – meccanismo
che affonda le sue radici in antico regime88
– allo scopo di ottenere dai beneficiati, in cambio
di uno sconto di pena, informazioni utili; proprio come avvenne, stando alla documentazione
senatoria, a Solera, Munari, Foresti ed Andryane89
.
Tuttavia, lo ripetiamo, l'andamento delle grazie e della loro misura è in primo luogo lo
specchio di ciò che le autorità politiche e giudiziarie ritenevano più o meno eversivamente
pericoloso in stretta relazione con la contestuale situazione politica.
87
Sovrano motuproprio 4 marzo 1833, ASMi, SLV, b. 31, fasc. 94. Il testo del motuproprio è riportato anche in
Grandi, Processi politici, p. 107. 88
Latini, Processare il nemico, p. 568. 89
La promessa di grazia veniva usata anche per indurre il rientro dei fuggitivi; questo è il caso, ad esempio, del
giovane conte Pirro de Capitani. In risposta ad una supplica della madre di Pirro, la sr. 12 ottobre 1829
dichiarava: «per speciale grazia voglio condonare al di lei figlio Pirro la pena di morte, a cui per legge potesse
venir condannato, sempreché egli si presenti volontariamente al Tribunale Criminale di Milano per sottostare
all'inquisizione e non solo confessi pienamente e sinceramente l'eventuale sua colpa, ma palesi pure senza
ritegno tutto quello che gli è noto dei delittuosi raggiri» (ASMi, SLV, b. 132, c. 3188). Pirro de Capitani venne
quindi sottoposto a processo, condannato alla pena di morte e graziato con una pena correzionale di sei mesi di
arresto (sr. 22 agosto 1830, ASMi, SLV, b. 135, c. 1749). Cfr. Grandi, Processi politici, p. 317.
176
2. 4. Gli organi inquirenti e giudicanti
Abbiamo già dettagliatamente vagliato, nel primo capitolo, l’articolazione giudiziaria del
Regno Lombardo-Veneto; si rivolgerà ora l’attenzione ai tribunali specificamente preposti alla
gestione punitiva dei delitti politici. Anche in questo caso, l’analisi è prevalentemente
concentrata sui primi anni Venti, periodo in cui tale sistemazione giudiziaria mutò più volte,
per poi assumere una configurazione di fatto definitiva fino al 1848.
I processi per alto tradimento vennero istruiti e giudicati, inizialmente, da Commissioni
speciali di prima e seconda istanza – istituite ex post, ossia dopo i fatti commessi90
– sedenti
dapprima a Venezia91
e poi, dal 182292
, unificate a quelle istituite a Milano l'anno precedente,
le quali erano state incaricate «zur Untersuchung und Beurtheilung aller jener Individuen […]
welche von der Mailänder Generalpolizeydirekzion wegen ihrer Verwicklung in die
Piemontesischen und Neapolitanischen Unruhen in Untersuchung gezogen wurden»93
, ossia
di inquisire e giudicare tutti quei sudditi dell'impero austriaco segnalati dalla direzione
generale di polizia per il loro coinvolgimento con i disordini che, nel 1821, erano scoppiati in
Piemonte e a Napoli94
.
L'opportunità di unificare le Commissioni speciali veneziane e milanesi, a fronte della scarsa
agilità nel mantenere in attività due tribunali distinti che trattassero separatamente la
Carboneria ed il coinvolgimento ai moti piemontesi e napoletani, era stata rilevata
dall'imperatore alla luce di un duplice vantaggio: riunendo in un medesimo consesso i giudici
migliori («den besten Individuen der beyden Spezial Commissionen»), si andava allo stesso
tempo a concentrare in un solo tribunale «den Faden aller beyden Conspirationen, und so viel
leichter ihre Verflechtung unter einander erkennen, und die Schuldigen zum Geständnisse
bringen könnte»95
: le strettissime connessioni che, come sopra si sottolineava, il governo e,
con esso, l'apparato giudiziario ravvisavano tra la partecipazione alle società segrete e
90
Analoghe riflessioni, relativamente alla piemontese Regia Delegazione istituita per giudicare moti del '21,
sono avanzate da G. S. Pene Vidari, Nota sul crimen lesae maiestatis, i moti mazziniani e la codificazione
albertina, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», XXXVI (2007), pp. 391-426: 392,
399 e 408. 91
La loro istituzione era stata discussa anche dal Senato, come si desume dalla corrispondenza di quest’ultimo
con l'imperatore (si veda ad esempio il parere 15 giugno 1819, ASMi, SLV, b. 1, fasc. 13). 92
Sr. 29 aprile 1822, ASMi, SLV, b. 22, fasc. 29, estratto di protocollo 14 maggio 1822; anche in Ibidem, b. 3,
fasc. 75 e Ibidem, b. 98, c. 975. La sr. è trascritta in Grandi, Processi politici, pp. 685-686 e in Sandonà,
Contributo alla storia dei processi, pp. 412-413. 93
Sovrano motuproprio 7 settembre 1821, ASMi, SLV, b. 2, fasc. 95; una traduzione italiana in Grandi, Processi
politici, pp. 676-677. 94
Il motuproprio specificava che esclusi dalla competenza delle Commissioni milanesi erano quelle persone
sospettate di aver partecipato ai moti piemontesi e napoletani, ma anche di appartenere alla Carboneria, «welches
Verbrechen ausschließend der Amtshandlung der venezianischen Spezial Commissionen zugewiesen bleibt».
Ibidem. 95
Sovrano motuproprio 9 marzo 1822, ASMi, SLV, b. 3, n. 44.
177
qualsiasi altra azione qualificabile come alto tradimento, richiedevano conseguentemente che
un unico organo inquirente tenesse le fila di tutte le indagini in corso.
Sciolte nel 1825 le Commissioni speciali, le loro attribuzioni furono delegate al Tribunale di
prima istanza ed al Tribunale d'appello di Milano, che divennero «le sole competenti due
Istanze criminali nel Regno Lombardo-Veneto per tutti i delitti contro lo Stato, e quindi per
tutti gli affari criminali relativi all'alto tradimento, e alle segrete società»96
.
A differenza delle Commissioni speciali, questi due tribunali non avevano alcuna autorità
sugli individui appartenenti all’esercito. Il problema emerse con cogenza allorché vennero
condotti i primi arresti degli aderenti alla Giovine Italia, tra le cui fila si potevano contare
diversi militari. Nonostante il parere del Senato, secondo cui sarebbe stato opportuno
estendere la competenza dei tribunali milanesi anche a questi ultimi97
, i loro processi vennero
demandati ad un'apposita commissione istituita a Milano, sottoposta al comando militare del
Regno Lombardo-Veneto98
.
É importante sottolineare la composizione linguistica e l'estrazione regionale dei giudici
incaricati di inquisire i delitti politici; una questione che, in linea generale, abbiamo affrontato
nel primo capitolo e che vale la pena di approfondire anche in questa sede per i suoi evidenti
riflessi all'interno di quel “campo di tensione” tra necessità di rigore e attenzione verso
l'opinione pubblica. Già con la sr. 7 settembre 1821 che istituiva le Commissioni speciali di
prima e seconda istanza di Milano per giudicare gli implicati ai moti piemontesi e napoletani,
Francesco I ordinava che queste fossero «composte di individui dei Miei Stati tedeschi». Lo
stesso concetto venne ribadito dalla sr. 22 marzo 1825, con la quale l'imperatore affidava ai
tribunali milanesi la competenza dei processi per alto tradimento; essa specificava, infatti, che
le inquisizioni, ed il referato sopra affari, che per lo innanzi erano di competenza delle Commissioni
speciali […] dovranno dai Presidenti assegnarsi a quei Consiglieri soltanto della rispettiva Istanza, i
quali facevano parte della Commissione; oppure a quei che per lo innanzi servivano negli altri Miei
Stati fuori dal Regno Lombardo-Veneto, e non sono nativi delle Province di questo Regno.
96
Sr. 22 marzo 1825, ASMi, SLV, b. 23, n. 271; una trascrizione in Grandi, Processi politici, pp. 88-90. Accanto
ai tribunali ordinari, allo scoppio delle rivoluzioni di Bologna e Modena venne istituito a Venezia un
commissario politico straordinario incaricato di assumere i primi interrogatori: ciò si deduce dalla relazione sul
processo 7 aprile 1835, ASMi, SLV, b. 33, fasc. 153. 97
Nota del Senato 5 novembre 1833, ASMi, SLV, b. 32, fasc. 142. 98
Si vedano la minuta di protocollo di consiglio 10 dicembre 1833 che riporta la sr. 2 ottobre 1833, comunicata
al presidente del Senato dal Presidio del Consiglio aulico di guerra (ASMi, SLV, b. 32, fasc. 150), e la minuta del
decreto del Senato 5 febbraio 1834 che riporta la sr. 17 novembre 1833 (Ibidem, b. 35, fasc. 156).
178
Dal momento in cui la maggioranza dei consiglieri di prima e seconda istanza era tuttavia
composta da lombardi e da veneti,
saranno tenuti i Presidenti delle due Istanze suddette di comporre le Aule destinate per la decisione di
tali affari sempre in modo, che le medesime consistano, se non intieramente, almeno in numero
maggiore dei Consiglieri come sopra qualificati. Onde ottenere quanto prima che la maggioranza dei
Consiglieri presso il Tribunale criminale, e presso l'Appello di Milano siano individui non oriundi del
Regno Lombardo-Veneto […] voglio, che ogni qual volta fosse necessario, e fintanto sussiste tale
necessità, sieno chiamati Consiglieri nativi delle Mie Provincie tedesche, ed assegnati ai Tribunali
suddetti99
.
Il motivo della premura con cui si volevano escludere i giudici lombardi e veneti dai tribunali
competenti per il delitto di alto tradimento risulta chiaro nelle parole dell’allora presidente
dell'appello milanese Degli Orefici, interpellato dal Senato in fase di organizzazione delle
Commissioni speciali di Milano, per un suo parere sulla nomina dei consiglieri che avrebbero
dovuto comporre i due nuovi consessi. Egli suggeriva di scegliere giudici non lombardi, allo
scopo innanzitutto di scongiurare il rischio che intercorressero eventuali relazioni tra alcuni
membri della Commissione e gli inquisiti:
L’impossibilità di prevedere fin ove estendere si potrebbero le fila d’un’inquisizione da intraprendersi
contro quelli, che si compromisero nelle passate politiche vicende del Piemonte, e di Napoli – li
molteplici vincoli di parentela ed altre relazioni di famiglia ed amicizia, ch’esistono particolarmente in
Milano ed altre limitrofe città, tanto fra di loro vicendevolmente, quanto con Piemontesi, e Genovesi;
– il riflesso che, per conseguenza, potrebbe nello sviluppo dell’inquisizione emergere il caso
d’insorgenza di qualche rapporto tra inquisiti, e membri della Commissione – e per finire l’esempio di
quanto dicesi operato colla Commissione esistente in Venezia, mi consigliarono la cautela di limitarmi,
nella scelta degli individui, agli esteri, cioè non Lombardi100
.
99
Sr. 22 marzo 1825, ASMi, SLV, b. 23, n. 271. Anche nel corso del 1824 – durante i mesi in cui veniva valutata
l’ipotesi di far cessare le Commissioni speciali, ipotizzando dapprima di demandare la competenza del delitto di
alto tradimento non solo alla prima e alla seconda istanza milanesi ma anche a quelle veneziane – l'imperatore
sottolineava la sua volontà che nei tribunali sia criminali che d'appello di Venezia e di Milano «die größere Zahl
der Räthe aus teutschen bestehe». Sovrano motuproprio 26 aprile 1824, ASMi, SLV, b. 5, fasc. 31 (tradotto in
Grandi, Processi politici, pp. 697-698). 100
Rapporto 27 giugno 1821, ASMi, SLV, b. 2, fasc. 59. Degli Orefici, inoltre, consigliava al presidente del
Tribunale criminale di Milano Dalla Porta di nominare nel suo consesso alcuni giudici del Tribunale di Udine,
«poiché nemeno [sic] in tutta la Lombardia, che tanto si lagna d’essere ripiena di Impiegati forestieri, esiste fra li
Consiglieri, e Pretori un numero sufficiente di non nazionali, che qualificati fossero sotto ogni aspetto al geloso
incarico cui dovrebbero destinarsi». Un paio di anni dopo, lo stesso presidente Dalla Porta, chiedendo il
permesso di integrare nel tribunale milanese il consigliere trentino Roner per supplire provvisoriamente alla
traslocazione di alcuni giudici, motivava la richiesta, poi accolta dal Senato, affermando che, onde garantire una
179
Allorché con sr. 22 agosto 1823, contrariamente alla prassi normalmente seguita per il
rimpiazzo e la nomina dei consiglieri giudiziari (il sistema a terne che abbiamo descritto nel
primo capitolo), l'imperatore chiese al Senato di avanzare una proposta complessiva per un
totale di 21 posti vacanti, il relatore Angeli osservava che, «se utile si dimostra l'esistenza in
ogni Tribunale di qualche Consigliere delle altre Provincie, tale utilità si presenta in maggior
grado riguardo a Milano, massime […] dopo che sta per sciogliersi la Commissione
speciale»101
.
Lo stesso venne ribadito per i processi del decennio successivo: dando un'interpretazione
estensiva della prassi voluta dall'imperatore di privilegiare, nei consessi preposti ai delitti
politici, i giudici tedeschi e trentini, a conclusione dell'inquisizione contro gli aderenti alla
Giovine Italia il presidente del Tribunale d'appello chiedeva al Senato il permesso di
«possibilmente escludere dai Votanti in questo processo i Consiglieri nazionali». Il Senato non
acconsentiva: sarebbe stato sufficiente che nel tribunale vi fosse stata la maggioranza, non
l'esclusiva presenza di membri provenienti dalle province tedesche dell'impero, soprattutto
alla luce del fatto che «pare anzi giovi nella pubblica opinione lo intervento di Giudici
nazionali»102
.
Entro l'articolazione sopra descritta, il Senato Lombardo-Veneto svolgeva, come nel caso dei
processi per i delitti comuni, la funzione di terza istanza giudiziaria.
L'ingerenza dell'imperatore nella conduzione dei processi per altro tradimento è riflessa dalla
gestione imparziale della giustizia, sarebbe stato fondamentale che nei tribunali vi fossero anche giudici «non
nazionali». Sessione 19 novembre 1823, ASMi, SLV, c. 2926. 101
Il relatore tuttavia aggiungeva non essere, a suo parere, «né necessario né conveniente di escludere affatto i
concorrenti del Regno [Lombardo-Veneto] perché fra questi vi sono molti, di cui non si ha motivo di dubitare in
nessun rapporto, e perché dimostrando una diffidenza generale così affligente, si cagionerebbe avvilimento e
costernazione fra tanti distinti Consiglieri». Al relatore ribatté il senatore Mazzetti, insistendo sulla necessità di
impiegare consiglieri delle province tedesche in ambedue i Tribunali criminali dei capoluoghi, ma specialmente a
Milano, anche per la preoccupante tendenza a comportamenti arbitrari che egli stesso aveva rilevato nel consesso
milanese nel corso della sua ispezione alle prime istanze lombarde, più volte ricordata. Inoltre, per quanto
riguardava il possibile malcontento conseguente a questa scelta, Mazzetti opponeva il fatto che «un Governo
savio ed energico non dee mai secondare le capricciose mire contrarie, e fomentare un mal inteso pregiudizio
nazionale ed uno spirito di partito». Sessione 20 marzo 1824, ASMi, SLV, b. 104, cc. 404-424 (qui 412 e 421).
Brevi stralci del protocollo sono riportati in Grandi, Processi politici, pp. 246-247. 102
Sessione 11 giugno 1833, ASMi, SLV, b. 153, cc. 1162-1165. Il protocollo è trascritto parzialmente in Grandi,
Processi politici, pp. 371-372. Una lettera di Francesco Degli Orefici, allora vicepresidente dell’appello
milanese, ad Antonio Mazzetti del settembre 1821 descrive appunto la delusione dei giudici lombardi
nell’apprendere «che di soli stranieri avessero ad essere composte le Commissioni di tutte e due le istanze, e
trovandosi ora ingannati nelle loro aspettative gettano fuoco e fiele dalla bocca». Degli Orefici a Mazzetti, 22
settembre 1821, BCT, BCT1-1376/II, c. 472; la lettera è citata in Pedrotti, I processi del '21, pp. 121-122, e in E.
Sfredda, Le carte di Antonio Mazzetti e la sua inchiesta sull’amministrazione giudiziaria della Lombardia
(1822), «Storia in Lombardia», VII (1988), 3, pp. 164-169: 165.
180
sua fitta corrispondenza con la presidenza del Senato; egli veniva informato attraverso
frequenti e regolari relazioni103
, in base alle quali non solo stabiliva l'esito dei processi
(confermando o meno le pene e le grazie proposte dal Senato), ma interveniva altresì sulla
loro conduzione, solitamente sollecitandone un più rapido disbrigo, e, come si è sopra
evidenziato, sulla composizione dei tribunali. Tuttavia, pure all'interno di una materia
politicamente delicata come quella dei processi per alto tradimento, il Senato Lombardo-
Veneto ricopre evidentemente un ruolo decisivo e tutto sommato indipendente, quantomeno
sul piano del giudizio: la documentazione esaminata non ha permesso di rilevare eventuali
pressioni da Vienna riguardo le condanne da pronunciare104
.
2. 5. Omogeneità del trattamento giudiziario delle sette
È interessante sottolineare l'omogeneità – per quanto riguarda sia l'apparato normativo di
riferimento, sia i parametri interpretativi dei giudici, sia, infine, le forme della comunicazione
pubblica relativa ai disordini politici ed alle conseguenti vicende processuali – con la quale
nel corso del Vormärz vennero trattati i delitti di alto tradimento. In particolare, le due grandi
crisi «nel rapporto tra potere austriaco e società lombarda»105
(e in misura minore veneta)
rappresentate dalla Carboneria e dalla Giovine Italia, vennero affrontate in modo analogo: non
si riscontrano, sul piano giuridico e punitivo, effettive cesure corrispondenti alla concreta
evoluzione del contestuale panorama latomistico lombardo-veneto. Ciò appare tanto più
evidente se si guarda al Vormärz attraverso la lente retrospettiva del '48, che getta, per così
dire, una luce di uniformità su tutto il periodo precedente.
Il modo in cui i tribunali del Regno interpretarono e, di conseguenza, giudicarono gli aderenti
alla Carboneria e alla Giovine Italia – fenomeni, come abbiamo sopra brevemente
tratteggiato, diversi per istanze, fisionomia politica, modalità d'azione, composizione sociale,
chiarezza di progetto, intenzionalità eversive, maturità “nazionale”, ampiezza del raggio di
coinvolgimento – fu sorprendentemente lo stesso, almeno nelle sue linee essenziali.
Osservando i procedimenti penali istruiti contro la Giovine Italia si ha insomma
103
Il Senato doveva infatti riportare lo stato dei processi attraverso relazioni, tratte a loro volta dai rapporti delle
commissioni inquirenti, con periodicità mensile. Cfr. il sovrano motuproprio 21 gennaio 1821, ASMi, SLV, b. 2,
fasc. 8, e l'ordine 8 gennaio 1822 trasmesso dal senatore Mazzetti al presidente della Commissione di II istanza
di Milano, di farsi rassegnare dalla Commissione speciale inquirente rapporti mensili sui processi per alto
tradimento (Ibidem, b. 3, fasc. 1). I rapporti, come pure la corrispondenza con l’imperatore, sono conservati nella
serie “Atti presidenziali” del fondo del Senato Lombardo-Veneto. 104
La considerazione sull'indipendenza del Senato è avanzata anche da G. Vittani, Il processo Pellico-Maroncelli
nei giudizi d'Appello e del Senato Lombardo-Veneto, in Ad Alessandro Luzio. Gli Archivi di Stato italiani.
Miscellanea di studi storici, vol. II, Firenze, Le Monnier, 1933, pp. 359-378: 377-378. 105
Arisi Rota, Il processo alla Giovine Italia, p. 8.
181
l’impressione, rileva Ettore Dezza, che la storia (almeno, la storia processuale) si ripeta106
: in
entrambe le occasioni l'inquisizione venne affidata ad abili magistrati del Tirolo meridionale,
Antonio Salvotti (che sarebbe diventato consigliere del Senato proprio a conclusione del suo
lavoro di inquirente) prima, Paride Zajotti poi; entrambi i processi coinvolsero un ampio
numero di imputati, molti dei quali dimessi per insufficienza di prove legali – conseguenza,
quest’ultima, della stretta osservanza del codice; in entrambi i casi, infine, le condanne
capitali vennero tutte graziate.
Significativamente, la sopra menzionata notificazione governativa che nell'agosto del 1833
avvertiva i sudditi lombardo-veneti della coincidenza tra semplice appartenenza alla Giovine
Italia e imputabilità per alto tradimento, riprende esplicitamente, sia nella forma che nel
contenuto, l'analoga notificazione sulla Carboneria pubblicata più di un decennio prima.
Come spiegava a questo proposito il Tribunale d'appello veneto ai tribunali di prima istanza,
Allorché per le macchinazioni della Setta dei Carbonari, dodici anni sono, l'ordine politico degli Stati
Italiani era minacciato di totale sovvertimento, Sua Maestà per avvertire i propri sudditi sulla generale
perversità delle dottrine di quella Setta, come altresì per premunire i medesimi contro le seduzioni
della stessa, ha disposto, che […] ne siano esposte a comune notizia le tendenze tanto delittuose in se,
che pericolose per lo Stato […]; l'eguale paterna sollecitudine Sovrana indusse Sua Maestà ad ordinare
anche presentemente l'istesso avvertimento ai suoi sudditi da farsi riguardo alla Setta denominata la
Giovane Italia formatasi nel corso dei recenti politici avvenimenti e forse più pericolosa della
Carboneria, di cui non è che un esaltato grado maggiore107
[corsivo mio].
Il Tribunale d'appello tira insomma le fila che collegano indissolubilmente le due esperienze
settarie, tanto più tra loro connesse alla luce della medesima reazione dell'imperatore.
Come osserva Arianna Arisi Rota, la principale fonte di informazione del governo era
rappresentata dai rapporti di polizia, molto spesso tuttavia sbilanciati; talvolta in senso
allarmistico, talaltra, invece, in senso minimizzante, dimostrandosi quindi incapaci «di
cogliere le trasformazioni avvenute nel corso degli anni nei gruppi sociali»108
. Ciò fece sì che,
almeno per un primo periodo, la Giovine Italia fosse riduttivamente interpretata come una
sorta di «versione più “aggiornata” della Carboneria»109
: una vera e propria «consapevolezza
del salto qualitativo» da essa operato «nell'attività di reclutamento in alcune realtà urbane […]
106
Dezza, La legislazione penale asburgica, p. 198. 107
Circolare dell'Appello di Venezia alle prime istanze venete, 6 agosto 1833, ASMi, SLV, b. 32, n. 122. 108
Arisi Rota, Il processo alla Giovine Italia, pp. 13-14. 109
Ibidem, p. 17.
182
e presso alcune categorie sociali […] maturò solo lentamente, di pari passo con le risultanze
della prima fase inquisitoria», a «scoppio ritardato»110
: e lo specchio più limpido di tale
lettura un poco miope sono proprio le carte processuali.
Rivelatore di questa interpretazione politica, prima ancora che giudiziaria, e soprattutto dei
suoi riflessi sul piano dell'informazione pubblica, è un lungo articolo apparso nella «Gazzetta
di Milano» nel settembre del 1835 – sul quale si tornerà poi –, a conclusione dei processi
contro gli aderenti alla Giovine Italia. Redatto dal giudice inquirente del processo, Paride
Zajotti, l'articolo riassume le risultanze e gli esiti dello stesso, nonché le premesse politiche
che portarono alla formazione della società segreta, tracciando una linea di continuità che
avrebbe unito quest'ultima ai movimenti rivoluzionari dei decenni precedenti, per risalire al
principio della Restaurazione. Una continuità sottolineata, appunto, dalle scelte punitive
prima, graziose poi, dell’imperatore: ancora una volta, dichiara l'articolo, il governo austriaco
era riuscito a vanificare, attraverso il «fermo braccio della legge», i tentativi rivoluzionari
delle sette; e ancora una volta Ferdinando I, come suo padre prima di lui, aveva dimostrato la
solidità dello Stato mitigando il rigore delle meritate condanne111
.
La visione esposta nell'articolo, che si potrebbe ritenere appositamente elaborata a beneficio
del pubblico, coincide con quella contenuta in una fonte “interna” dell'anno successivo, una
relazione senatoria su un processo per alto tradimento, nella quale si osservava come le «varie
sette rivoluzionarie dirette tutte a sconvolgere ogni legittimo Governo in Italia […] si
succedono l'una all'altra bensì sotto nomenclature diverse, ma aventi sempre in sostanza il
medesimo scopo di abbattere ogni legittimo Governo, e di crearne dei nuovi più o meno
anarchici»112
.
La novità portata dalla Giovine Italia veniva tuttavia colta più compiutamente, e in anticipo,
da un funzionario lucido, conoscitore dell’Italia e decisamente conservatore come Karl
Czoernig, il quale, nel suo memoriale inedito Ueber die Ursachen der Revolution in Italien
del 1833, dichiarava che nessuna tra le società segrete diffuse nella penisola aveva eguagliato
l’importanza e la capillare diramazione che in meno di due anni la Giovine Italia era riuscita a
conquistare, tanto da configurarsi come «la più raffinata e significativa creazione della
rivoluzione»113
. Intuitivamente, Czoernig individuava una delle cifre dei fenomeni eversivi
nell’Italia del 1820-1821 e dei primi anni Trenta nella difficile situazione dei giovani laureati,
110
Ibidem, p. 153. 111
«Gazzetta privilegiata di Milano», 29 settembre 1835, n. 272. 112
Relazione 22 dicembre 1836, ASMi, SLV, b. 39, n. 405. 113
Il brano è trascritto, tradotto in italiano, in U. Corsini, Czoernig e il Risorgimento italiano, in Karl Czoernig
fra Italia e Austria, pp. 17-39: 29.
183
soprattutto in legge, che non venivano assorbiti dall’amministrazione e che restavano senza
lavoro (oltre che, appunto in senso conservatore, nella disgregazione sociale dovuta alla
perdita del senso religioso e all’indebolimento dell’autorità della famiglia e dello Stato, e
nella conseguente immoralità dilagante). Neppure le pagine di questo attento osservatore sono
tuttavia scevre dalla consueta spiegazione etnico-geografica e caratteriale che abbiamo visto
tirata in ballo anche tra i fattori criminogeni nel caso dei delitti comuni; secondo lo statistico,
il clima italiano sarebbe stato tanto benigno da non richiedere un impegno lavorativo continuo
e da lasciar quindi spazio a speculazioni politiche114
.
2. 6. Una prospettiva comparativa
La gestione giudiziaria dei delitti politici nel Lombardo-Veneto va interpretata anche
attraverso il confronto con la politica repressiva condotta negli altri Stati italiani, sulla quale,
in alcuni casi, il governo austriaco esercitò una certa ingerenza: sia, massicciamente, dal
punto di vista strettamente militare115
, sia sul piano della collaborazione nell'istruzione dei
processi116
.
Nel Ducato di Modena, per giudicare i rei di alto tradimento, dagli anni Venti venne emanata
una serie di decreti regolanti le procedure sommarie, statarie e marziali117
, in conseguenza alle
quali furono messe in atto alcune esecuzioni118
. Tra queste, quelle di Ciro Menotti e Vincenzo
Borrelli, correi nella cospirazione modenese del 1831, vennero recisamente biasimate da
Metternich come politicamente imprudenti119
– il che, per via indiretta, denuncia uno dei
motivi principali della strategica applicazione della grazia sovrana nel Lombardo-Veneto,
ossia la riconosciuta inopportunità politica, sul piano della difesa dell'ordine pubblico
114
Si vedano su questo punto ancora Corsini, ma anche Tonetti, Carl Czoernig: la vita e le opere, in Karl
Czoernig fra Italia e Austria, pp. 3-16, specialmente pp. 4-5, e M. Meriggi, Czoernig liberale nostalgico. Gli
scritti «italiani», in Ibidem, pp. 51-61, soprattutto pp. 53 e segg. (saggio pubblicato anche in «Il Risorgimento»,
XLIII (1991), 1, pp. 101-113); infine ancora Id., Il Regno Lombardo-Veneto, pp. 168-169 e Id., Czoernig,
Mittermaier e la società lombarda, «Storia in Lombardia», VII (1988), 3, pp. 57-73: 59-60. 115
Cf. M. Meriggi, Gli stati italiani prima dell'Unità. Una storia istituzionale, Bologna, Il Mulino, 2002, pp.
112-113 e A. M. Banti, Il Risorgimento italiano, Roma-Bari, Laterza, 2004, pp. 46-51. 116
Come avvenne nel celebre processo Rivarola contro i settari romagnoli, ove ci fu un intenso scambio di
informazioni tra autorità pontificie e austriache. Balzani, I carbonari romagnoli, p. 221. 117
A. Martini, Il codice criminale estense del 1855, in I codici preunitari e il codice Zanardelli, a cura di S.
Vinciguerra, Padova, Cedam, 1993, pp. 300-349: 305-309 e E. Tavilla, Il diritto penale nel Ducato di Modena. Il
codice criminale del 1855: premesse, modelli, problemi, «Materiali per una storia della cultura giuridica»,
XXXVII (2007), 2, pp. 313-336: 316-318. 118
Qualche esemplare di una sentenza capitale del 1834 per alto tradimento, graziata dal Duca di Modena con la
galera a vita, venne inviato al Senato Lombardo-Veneto che a sua volta lo inoltrò al Tribunale criminale di
Milano. ASMi, SLV, b. 35, fascc. 191 e 192. 119
Blaas, Le sette politiche, pp. 27-28. Secondo Blaas Metternich avrebbe suggerito all'imperatore di scrivere al
Duca di Modena in favore dei condannati, allo scopo di evitare, pubblicamente, qualsiasi complicità dell'impero
austriaco con l'esecuzione.
184
congiuntamente alla ricerca del consenso, di una linea giudiziaria troppo severa.
Nel Regno di Sardegna, coloro i quali avevano partecipato alla rivoluzione del marzo del '21
vennero giudicati, sulla base delle settecentesche Regie Costituzioni, da una Delegazione
competente sia sui militari che sui civili120
; dieci anni più tardi i moti mazziniani furono
repressi da un Consiglio di Guerra che utilizzava, come riferimento normativo, la fattispecie
di alto tradimento definita dall'editto penale militare del 1822, esteso anche ai civili: esito dei
processi piemontesi furono anche diverse esecuzioni capitali121
.
I moti dello Stato Pontificio del 1821 vennero giudicati da una Commissione speciale dotata
di poteri straordinari, che diede vita al cosiddetto processo Rivarola, coinvolgente più di
cinquecento imputati: esso si concluse nel 1825 con diverse condanne tra le quali sette
capitali, tuttavia commutate in pene temporanee, su ordine di papa Leone XII, dallo stesso
cardinale Agostino Rivarola, legato della città di Bologna, che aveva condotto il processo.
Parallelamente a quanto avvenne nel Regno Lombardo-Veneto, molti condannati
beneficiarono in seguito di ulteriori amnistie che annullarono o diminuirono le pene detentive
inflitte122
. Nell'estate del 1826 il cardinale Rivarola fu vittima di un attentato, dal quale uscì
illeso (al suo posto morì invece il canonico di Ravenna); conseguentemente Leone XII istituì
una Commissione speciale mista, composta da ecclesiastici e militari, con il compito di
inquisire e giudicare i responsabili dell'attentato, nonché i rei dell'omicidio di Domenico
Matteucci, direttore provinciale di polizia a Ravenna (ed anche di un terzo omicidio, non
riconducibile a ragioni politiche). La sentenza pronunciata il 28 aprile 1828, che condannava
cinque imputati alla pena di morte, fu effettivamente eseguita a Ravenna nel maggio
successivo123
.
Nel Regno delle Due Sicilie, infine, per fronteggiare i crimini legati alla sicurezza dello Stato
si ricorse a misure repressive d'eccezione (ossia tribunali speciali e militari che dopo le
sollevazioni carbonare del 1821 divennero permanenti124
) molto simili a quelle usate contro il
120
Woolf, Il Risorgimento italiano, p. 373, riporta che le condanne capitali emesse in seguito alla rivoluzione del
'21 furono 97, delle quali novanta contumaciali, e due effettivamente eseguite (anche in Id., La storia politica e
sociale, in Storia d'Italia, vol. III: Dal primo Settecento all'Unità, Torino, Einaudi, 1973, pp. 5-508: 283). 121
Pene Vidari, Nota sul crimen lesae maiestatis. 122
M. Rosi, s.v. Rivarola (processo), in Dizionario del Risorgimento nazionale, vol. I, Milano, Vallardi, 1931,
pp. 872-884. 123
Con il varo del Regolamento Organico e di Procedura Criminale del 5 novembre 1831, la competenza per i
delitti più specificatamente politici («lesa Maestà, cospirazione, sedizione, ed attentati alla pubblica sicurezza»,
artt. 555-566) venne demandata al Tribunale della Sacra Consulta che avrebbe dovuto procedere «sempre in via
spedita, e sommaria». Cfr. I regolamenti penali di papa Gregorio XVI per lo Stato pontificio (1832). Ristampa
anastatica, a cura di S. Vincigurra, Padova, Cedam, 1998, pp. 59-60 e Latini, Processare il nemico, pp. 571-574. 124
Davis, Legge e ordine, p. 159.
185
brigantaggio125
.
Secondo Carlotta Latini, il fenomeno della repressione dei delitti politici negli Stati italiani
preunitari si distinguerebbe in due fasi: una prima, caratterizzata da una certa vaghezza dei
progetti di indipendenza, per fronteggiare i quali lo Stato reagì con l'istituzione di
commissioni speciali o miste o comunque d'eccezione. Una seconda fase in cui, alle
commissioni speciali, «si affiancava o si sostituiva la giustizia militare: a questa si faceva
ricorso come risposta ad uno stato di pericolo per l'ordine pubblico, cui si dava voce con una
dichiarazione di stato d'assedio»126
. Tale distinzione vale, appunto, anche per il Regno
Lombardo-Veneto – con il 1848 come spartiacque – salva la fondamentale differenza che le
Commissioni speciali qui in un primo momento istituite non giudicavano secondo riferimenti
normativi straordinari e d'eccezione, bensì in base alla procedura ordinaria.
Al contrario di quanto avvenne nel Lombardo-Veneto, quindi, in tutti gli altri stati italiani
sopra menzionati alcune tra le condanne a morte irrogate per alto tradimento furono
effettivamente eseguite. Tuttavia, i processi politici celebrati a Venezia e a Milano ebbero una
risonanza molto maggiore; da un lato per l'ampiezza della rete degli inquisiti, dall’altro per
l’estrazione sociale di molti condannati127
.
Il confronto va poi esteso alle altre province della Monarchia: come già anticipato nel capitolo
precedente, i dati riportati da Anton Hye sulle condanne capitali irrogate, eseguite e graziate
in seguito a procedimenti ordinari dai tribunali sottoposti all'autorità dell'Oberste Justizstelle
(quindi escluse le province venete e lombarde), indicano che dal 1 gennaio 1804 ai primi mesi
del 1848, quando la pena di morte venne temporaneamente abolita di fatto, le sentenze
capitali pronunciate per alto tradimento risultano 121, di cui due effettivamente eseguite,
Nonostante la natura eminentemente rapida del rito statario e i suoi termini precisamente
definiti, che consentivano di giudicare esclusivamente gli individui colti sul fatto o gravati da
sostanziali prove legali, esso venne ripetutamente utilizzato, soprattutto nei primi mesi della
sua attivazione, in un senso che andava decisamente oltre questo principio fondamentale.
19
Solo in un caso mi è stato possibile verificare con fonti archivistiche questo procedimento. Si tratta del
processo intentato contro un gruppo di giovani di Verola, in provincia di Brescia, accusati di rapina e uccisione:
poco dopo l’arresto del principale imputato, la pretura inviò le prime risultanze delle indagini al Tribunale di
Brescia il quale a sua volta le inoltrò alla delegazione provinciale affinché valutasse se ci fossero le condizioni
per la convocazione del giudizio statario. Secondo la delegazione «non concorrevano gli estremi di legge per tale
convocazione»; il Tribunale proseguì quindi il processo in via ordinaria. Relazione 26 marzo 1830, ASMi, SLV,
b. 53, 1830, fasc. VI. 32-2. 20
Jenull, Commentario sul codice , p. 481. 21
Notificazione 24 luglio 1821 del Governo lombardo (AG 1821, Vol. II, Parte I, pp. 82-85 e CLV 1821, vol. II,
pp. 49-52, lettera c). La notificazione venne pubblicata anche nella «Gazzetta di Milano», 31 luglio 1821, n. 212,
nonché stampata su manifesti: in BCT47-7 ne sono reperibili due, uno diramato dal Governo lombardo, l’altro
dal Governo veneto (datato 1 agosto 1821). 22
Sr. 24 novembre 1847 portata dalla notificazione 22 febbraio 1848, RAG 1848, Parte I, pp. 33-39.
236
Commentando alcune irregolarità occorse in provincia di Brescia (degli imputati erano stati
consegnati al consesso statario più di un mese dopo il loro fermo onde lasciare alla polizia il
tempo necessario al reperimento delle prove) il relatore Giuseppe Sardagna ebbe a rimarcare
come tale pratica fosse «assolutamente contrari[a] allo spirito della legge, ed alla natura d’un
giudizio statario» nonché, data la pena prevista, fonte di conseguenze irreparabili23
. Le parole
del consigliere esplicitano fin dalle prime battute la posizione cauta ed attenta ad arginare
eventuali abusi che il Supremo tribunale veronese avrebbe assunto anche in seguito nei
confronti di tale misura sommaria. A questo proposito, una nota del 1816 della Commissione
aulica di legislazione in affari giudiziari al Senato Lombardo-Veneto specificava che
nonostante l'applicabilità, anche nel processo statario, del §301 – ossia la possibilità da parte
delle autorità di polizia di procedere ai primi interrogatori qualora fosse stato impossibile,
data la lontananza del luogo dell'arresto, raggiungere entro dodici ore il giudizio criminale –
era indispensabile che concrete prove legali contro l'accusato sussistessero già al momento
dell'arresto, e non fossero invece ottenute solo successivamente dalla magistratura ordinaria o
dalla polizia24
.
Sistematiche «sinistre interpretazioni»25
sarebbero state rilevate d’altra parte anche oltre i
primi anni di applicazione e “rodaggio” del giudizio statario, tanto da indurre il Senato
Lombardo-Veneto a redigere un’apposita istruzione in cinque punti26
, confermata
dall'imperatore nel 182827
. Se la disposizione venne approvata dalla Cancelleria aulica unita,
al contrario i Senati viennesi e la Commissione aulica di legislazione in affari giudiziari,
anch’essi come di consueto interpellati sull’argomento, espressero parere negativo (condiviso
per altro dal relatore incaricato di esporre in Senato i protocolli trasmessi dall’Oberste
Justizstelle, il consigliere Pilgram, e da altri quattro senatori). Nella misura in cui l’istruzione
si discostava dalle leggi a tal proposito vigenti, essa sarebbe stata, secondo i due dicasteri e il
23
Sessione 2 settembre 1816, ASMi, SLV, b. 78, cc. 1370-1371. 24
«Das standerchtliche Verfahren kann aber nur dann eintreten, wenn gegen den Beschuldigten schon zur Zeit
seiner Verhaftnehmung rechtliche Anzeigen eines zum Standrechte geeigneten Verbrechens vorhanden sind;
mithin nicht in dem Falle, wenn sich erst nach seiner Verhaftnehmung aus einer bei dem ordentlichen Criminal-
Gerichte oder der Polizei-Behörde eingeleiteten Untersuchung Anzeigen gegen ihn ergeben». Nota 26 settembre
1816 riportata in I. Maucher, Sistematisches Handbuch des österreichischen Strafgesetzes über Verbrechen und
der auf dasselbe sich unmittellbar beziehen Gesetze und Verordnungen, Wien, Braumüller u. Seidl, 1844, Bd. 3,
p. 275. La nota viene menzionata anche nel verbale della sessione 29 ottobre 1816, ASMi, SLV, b. 78, cc. 1913-
1914. 25
Sessione 7 giugno 1827, ASMi, SLV, b. 120, c. 999. 26
L'istruzione, portata dal decreto del Senato Lombardo-Veneto 12 luglio 1828, venne pubblicata il giorno stesso
in Veneto «per il caso che nelle Provincie soggette a codesto Governo venisse attivato il giudizio Statario» (CLV
1828, vol. II, parte II, pp. 185-187) e il 2 agosto successivo in Lombardia (AG 1828, vol. II, parte I, pp. 181-
183). 27
Sr. 16 giugno 1828, riportata nei verbali della sessione 12 luglio 1828, ASMi, SLV, b. 125, c. 1423. La
risoluzione venne diramata alla autorità giudiziarie con circolare a stampa 23 luglio 1828 (segnalata in Estratto
Milano 1828).
237
relatore, normativamente scorretta, o al contrario superflua nella misura in cui invece vi
aderiva.
Tuttavia, osservò il presidente del Senato von Eschenburg – intervenuto stante la parità dei
voti dei senatori – tali disposizioni sarebbero state necessarie «in quanto che si tratta di un
oggetto criminale, ove la menoma sinistra intelligenza della legge espone ad evidente pericolo
non solo la libertà ma in regola la vita stessa degli incolpati». Il paragone con gli altri Länder
dell’impero, che avrebbe dovuto provare l’inutilità dell’istruzione, secondo il presidente
sarebbe stato improponibile proprio per l’anomala applicazione del giudizio statario in
Lombardia:
Nulla importa che nelle provincie antiche ove sono più rari i casi di giudizi statari non si siano scoperti
dei disordini, quando viemaggiori e più frequenti sono invece le irregolarità che nel proposito
s’incontrano nel regno Lombardo, dove il giudizio statario è per così dire un istituto stabile. Le
istruzioni in discorso saranno perciò forse superflue nelle provincie antiche ma tanto più necessarie in
questo regno28
.
L’utilizzo del giudizio statario negli altri Länder, misurabile almeno dal 1822 grazie alle già
citate Tafeln zur Statistik der Oesterreichischen Monarchie29
, pare confermare il
particolarismo lombardo al quale il presidente von Eschenburg allude: le uniche altre province
in cui il giudizio statario sembra essere attivo sono il Litorale, la Boemia (rispettivamente
sette e due condanne tra il 1822 e il 1828), e la Galizia (dove, tra il 1822 e il 1833, si
registrano 56 condanne capitali pronunciate da giudizi statari30
). Dal 1834 al 1847 le
28
Sessione 7 giugno 1827, ASMi, SLV, b. 120, cc. 999-1002. 29
Abbiamo già detto, nel terzo capitolo, che le Tafeln zur Statistik vennero compilate a partire dal 1828. Il primo
numero contiene però una tabella riassuntiva del periodo 1822-1828, che non riporta i dati relativi al Lombardo-
Veneto. Per gli anni Venti si può ricorrere a Springer, Statistik des österreichischen Kaiserstaates, Bd. 2, p. 146:
una tabella delle condanne, tra cui quelle capitali ordinarie e statarie, pronunciate in ogni provincia dell'impero
nel corso del decennio, lascia tuttavia sorgere qualche dubbio sulla precisione della compilazione: per il Veneto,
ove il giudizio statario non era attivato, sono infatti segnalate 11 condanne statarie, mentre senz’altro corretto è il
dato relativo alla Lombardia (14 condanne), che è stato possibile incrociare con le informazioni quantitative
desumibili dai protocolli di consiglio. 30
Che già negli anni Venti il giudizio statario fosse attivato in Galizia per i delitti di rapina trova conferma nelle
disposizioni legislative emanate in quel periodo e raccolte nei manuali e nei commentari del codice aggiornati; i
quali segnalano un decreto aulico 9 febbraio 1827 dell'Oberste Justizstelle, d'intesa con la Cancelleria aulica
riunita e la Commissione aulica di legislazione in affari giudiziari, diretto al Tribunale d'appello galiziano e
relativo al giudizio statario lì attivato, come in Lombardia, per soverchio numero di delitti di rapina (§505).
Nello specifico, si dispone che, se durante il periodo di attivazione di un giudizio statario in un determinato
distretto fossero state commesse altre rapine, tale giudizio avrebbe avuto il dovere e l'autorità di procedere anche
contro i colpevoli delle stesse. Il decreto è riportato in A. Visini, Handbuch der Gesetze und Verordnungen
welche hinsichtlich des Oesterreichischen Gesetzbuches über Verbrechen von 3 September 1803 von dem
Zeitpuncte seiner Kundmachung bis zu Ende des Jahres 1831 nachträglich erschienen sind, Wien, Anton Edler
von Aaschmid, 1832, pp. 501-502; in «Zeitschrift für österreichische Rechtsgelehrsamkeit und politische
238
condanne statarie, per quanto sporadiche (cinque in tutto) sono segnalate solo in Lombardia.
La competenza territoriale del giudizio statario venne chiarita dal Senato Lombardo-Veneto in
risposta ad un dubbio sollevato dall'appello milanese:
Esso qual legge straordinaria stabilita per certa specie di delitto, che si commetteranno nel circondario
precisamente indicato al pubblico, inseguisce ovunque fosse il colpevole, che ad onta della pubblica
diffidazione si fece lecito di commettere un delitto di tale straordinaria pena e legge perseguitato, e
perciò non sembra dubbio […] di dover ritenere, che tal uno imputato di delitto di competenza d’un
certo e determinato giudizio statario fino a che questo esiste in attività, allorché venisse fermato fuori
del circondario del succitato giudizio ma entro gli stati della Monarchia, debba da qualunque
superiorità, o criminale giudizio, sul fatto esser consegnato al succitato giudizio31.
Per quanto riguarda invece la competenza giurisdizionale, la circolare 13 marzo 1816 del
Tribunale d'appello di Milano32
precisò che, secondo quanto osservato dal Comando militare a
norma della sovrana patente 16 ottobre 1802, se un individuo pur soggetto alla giurisdizione
militare avesse commesso un delitto qualificato per il giudizio statario, da questo doveva
essere giudicato. Il punto venne ribadito anche dalla sopra citata notificazione governativa 24
luglio 182133
e dalla circolare del Governo di Milano 27 marzo 182234
che intimava le
delegazioni provinciali, su deliberazione del Consiglio aulico di guerra, di consegnare alle
autorità politiche i disertori e i soldati in congedo arrestati come sospetti aggressori affinché
venissero sottoposti al giudizio statario civile. L'estensione della competenza di quest'ultimo
ai militari venne infine confermata, alla vigilia del 1848, anche dalla sr. 24 novembre 184735
.
Gesetzkunde», 3 (1827), pp. 73-74; nonché in Maucher, Sistematisches Handbuch, Bd. 3, p. 281. 31
Sessione 2 settembre 1816, ASMi, SLV, b. 78, c. 1372. Tale disposizione fu ribadita dal decreto aulico 7
ottobre 1816 (trasmesso ai presidenti dei giudizi statari con circolare appellatoria manoscritta 22 ottobre 1816,
segnalata in Estratto Milano 1816), e confermata dal decreto aulico 12 febbraio 1821 dell'Oberste Justizstelle
portante alcuni chiarimenti sull'applicazione della procedura stataria, compilato d'intesa con la Commissione
aulica di legislazione in affari giudiziari (riportato in Maucher, Sistematisches Handbuch, Bd 3, pp. 273-275) in
risposta alla sr. 16 agosto 1819 e pubblicato nel Regno Lombardo-Veneto con notificazione governativa 24 luglio
1821 (AG 1821, Vol. II, Parte I, p. 82). Con circolare appellatoria 31 dicembre 1822 la competenza del giudizio
statario venne confermata a quanti fossero stati arrestati nelle province venete (circolare segnalata in L. Canova,
Nuovo indice alfabetico delle disposizioni emanate dal 1 gennaio 1815 a tutto il dicembre 1838 nella Lombardia
in qualunque si sia partita giudiziaria… con alcuni cenni intorno al giudizio statario in Lombardia ed alla
Sovrana Patente 18 gennaio 1818, Milano, Manini, 1840, p. 248). 32
La circolare venne trasmessa ai presidenti dei giudizi statari, alle corti di giustizia, ai tribunali e alle
giudicature di pace: AG 1816, Vol. I, Parte II, pp. 22-23 (segnalata anche in Estratto Milano 1816). 33
AG 1821, Vol. II, Parte I, pp. 84-85. 34
AG 1822, vol. I, Parte II, p. 90. 35
RAG 1848, Parte I, pp. 33-39.
239
Se entro i termini stabiliti dalla legge il consesso non fosse riuscito a provare legalmente il
delitto né d'altra parte l'innocenza dell'imputato, il processo doveva essere rimesso al tribunale
criminale ordinario (§509)36
. In caso di provata colpevolezza, la sentenza veniva
immediatamente pubblicata (§510); contro di essa non poteva avere luogo né ricorso né
supplica per grazia (§512).
Abbiamo già visto quanta attenzione i tribunali superiori dedicassero alla questione degli
eventuali abusi che potevano viziare il corretto esercizio della grazia. Se nei processi ordinari
la prassi talvolta utilizzata dai giudici inquirenti di ventilare agli imputati la promessa della
grazia o dell’impunità in cambio della confessione era risolutamente scoraggiata, in quanto
travalicante la sfera di competenza delle autorità giudiziarie, tanto più venivano ammoniti i
giudici dei consessi statari sospettati di aver esercitato analoghe pressioni verso gli inquisiti,
proprio perché i provvedimenti di clemenza, in questo tipo di procedura straordinaria, erano
legalmente impraticabili. In tal senso, ad esempio, il giudizio statario della provincia di
Brescia fu oggetto del dettagliato rapporto stilato nel 1816 da un consigliere dell’appello
lombardo, appositamente inviato in loco come commissario allo scopo di appurare se la
confessione di un accusato fosse stata indotta dalle allusioni ad una possibile mitigazione
avanzate del presidente del consesso37
.
Da quest’ultima disposizione, inoltre, si evince quanto il potere del giudizio statario fosse
ampio. Non sottoposto d'ufficio ad alcun appello, onde evitare dilatazioni che avrebbero
differito l'irrogazione della pena38
, e negando anche quella importante garanzia per l'imputato
che era la possibilità di ottenere la grazia, esso si poneva, in qualche misura, al di fuori dello
spirito informatore della procedura penale austriaca, dipanata attraverso un articolato sistema
di controlli gerarchici.
La pena comminata per il reo riconosciuto colpevole era la morte sulla forca; da questa
potevano essere esclusi, nei processi per sollevazione, quanti avessero partecipato meno
attivamente al delitto e qualora l'esecuzione capitale di uno o due capi si fosse dimostrata
sufficiente per «ingerire il terrore» agli astanti (§508)39
. Secondo il commento di Sebastian
36
Stante una dichiarazione del Senato Lombardo-Veneto menzionata nella circolare del Governo di Milano alle
delegazioni provinciali 8 maggio 1818, alla procedura ordinaria era rimesso anche l’imputato che, causa
malattia, non avesse potuto essere convocato dal giudizio statario, pur già intrapreso. AG 1818, vol. I, parte II, p.
293; cfr. anche Sessione 11 marzo 1817, ASMi, SLV, b. 79, c. 616 e Reale, Esposizione della competenza, pp.
94-95. 37
Sessione 21 gennaio 1817, ASMi, SLV, b. 79, cc. 149-155. 38
Sul punto si veda Lacché, “Ordo non servatus”, p. 382. 39
La discussione giuridica intorno all'opportunità di colpire i capi delle sollevazioni popolari con esecuzioni
esemplari affonda le sue radici in antico regime, come dimostra M. Sbriccoli, Crimen laesae maiestatis. Il
problema del reato politico alle soglie della scienza penalistica moderna, Milano, Giuffrè, 1974, pp. 324-326.
240
Jenull a quest'ultimo paragrafo40
, tale eventuale mitigazione non poteva conseguentemente
essere estesa ai rei di furto violento, assassinio – delitti ai quali era limitata l'azione dei giudizi
statari in Lombardia prima del 1848 – o incendio. L'efficacia dell'esempio deterrente della
pena capitale avrebbe potuto essere verificabile solo nei casi di sollevazione, la cui eventuale
diminuzione dovuta all'effetto ammonitore delle pubbliche esecuzioni si sarebbe manifestata
con chiarezza agli occhi del pubblico in un immediato rapporto causale: un'interpretazione,
quella di Jenull, confermata dal Senato Lombardo-Veneto, il quale stabilì, d'intesa con la
Commissione aulica di legislazione in affari giudiziari, che l'eccezione contemplata dal §508
non poteva essere estesa ai delitti diversi dalla sollevazione41
.
La già menzionata notificazione 24 luglio 1821, confermando definitivamente il punto,
aggiungeva tuttavia che
quegl’incolpati che hanno preso soltanto minor parte ad uno di questi delitti [contemplati dal §505],
quando è ordinato il giudizio statario pei delitti medesimi, devono dal detto giudizio rimettersi al
tribunal criminale ordinario, e la decisione del giudizio statario deve limitarsi a quei soli individui che
hanno cooperato al delitto col comandare, prezzolare, porvi mano od in altro attivo modo, avanti, o
all’atto del commesso delitto42
.
Pronunciata la sentenza, il condannato veniva dapprima affidato alle cure di un sacerdote e
dopo due ore trasportato sul «carro d'infamia» nel luogo dell'esecuzione, certificata da un
attuario; eventuali disordini, che potevano verificarsi dato il numero normalmente
considerevole di persone che vi assistevano, erano scongiurati dall'autorità politica, come di
consueto, per mezzo della forza armata appositamente predisposta. Il giustiziato doveva
restare esposto alla pubblica vista fino al tramonto; solo allora veniva inumato.
Onde divulgare il più possibile l'avvenuta esecuzione, «ad argomento del pubblico esempio ed
a terrore del malvagio», la gazzetta privilegiata e le gazzette provinciali pubblicavano una
breve narrazione del fatto tratta dagli atti del processo43
.
3. I protocolli di consiglio del Senato Lombardo-Veneto: una premessa sulle fonti
Per ricostruire l'attività, gli scopi e le attese politiche e giudiziarie dei provvedimenti statari
nelle province lombarde durante il Vormärz, si sono esaminate le discussioni di stampo tanto
40
Jenull, Commentario sul codice, pp. 507-508. 41
Sessione 19 agosto 1816, ASMi, SLV, b. 78, cc. 1201-1202. 42
AG 1821, Vol. II, Parte I, p. 84. 43
Cfr. Canova, Nuovo indice alfabetico, pp. 249-250.
241
politico-sociale, quanto più prettamente giuridico e “criminologico”, in merito all'istituzione,
il mantenimento ed i tentativi – tutti puntualmente vanificati – di soppressione di questa
misura straordinaria. A tali discussioni, lunghe e reiterate, parteciparono sia istituzioni
lombardo-venete che dicasteri centrali, in molti dei quali ci siamo già imbattuti nelle pagine
precedenti: il Senato veronese, il Tribunale d'appello lombardo e, attraverso di esso, i tribunali
provinciali; i Senati viennesi dell'Oberste Justizstelle, la Commissione aulica di legislazione
in affari giudiziari, la Cancelleria aulica riunita, la direzione di polizia di Milano, il Viceré, il
Governo lombardo; ed infine, naturalmente, l'imperatore.
Tra tutti gli attori coinvolti, la prospettiva più funzionale e completa, dal punto di vista delle
fonti tuttora accessibili, è senza dubbio quella del Senato Lombardo-Veneto. Qualora le
lacune documentarie, soprattutto negli archivi viennesi, non permettano di ottenere
informazioni dirette, attraverso i protocolli di consiglio del Senato è infatti possibile risalire
alla discussione che accompagnò per molti anni la persistente applicazione del giudizio
statario in Lombardia fin dall'indomani della sua istituzione, comunicata con circolare
appellatoria 2 gennaio 1816 (e pubblicata nella «Gazzetta di Milano» il 20 gennaio
successivo44
), secondo la quale le cessate corti speciali già istituite in epoca napoleonica e
decadute con l'attivazione del codice penale austriaco, vennero sostituite, di fatto senza
soluzione di continuità, con i giudizi statari nei dipartimenti di Olona (Milano), Alto Po
(Cremona), Mincio (Mantova), Lario (Como), Mella (Brescia) e Serio (Bergamo) «contro i rei
di aggressione o di assassinj sulle strade, nelle case e in qualunque altro luogo»45
.
Le corti speciali ordinarie napoleoniche erano state istituite con decreto vicereale 21 marzo
180846
. La loro competenza riguardava i delitti contro lo Stato e l'ordine pubblico, il
latrocinio, le aggressioni e le rapine a mano armata, gli incendi dolosi, l'opposizione alla forza
pubblica per sottrarre coscritti, disertori o arrestati. La procedura prevedeva un dibattimento,
in seguito al quale veniva pronunciata la sentenza inappellabile e non passibile di ricorso in
cassazione (una caratteristica centrale dei procedimenti d'emergenza, come si è visto per il
giudizio statario).
Con decreto vicereale 3 dicembre 181147
vennero erette le corti speciali straordinarie,
composte da tre giudici civili e da tre militari, che avevano competenza sui delitti contemplati
dal decreto 21 marzo 1808 nonché su qualsiasi crimine e delitto commesso da disertori,
44
«Gazzetta di Milano» 20 gennaio 1816, n. 20. 45
AG 1816, Vol. I, Parte I, pp. 2-3. 46
Bollettino delle leggi del Regno d'Italia. Dal 1 gennaio al 31 maggio 1808, pp. 222-229. 47
Bollettino delle leggi del Regno d'Italia. Dal 1 luglio al 31 dicembre 1811, Milano, Reale stamperia, 1811, pp.
1145-1147.
242
coscritti refrattari, vagabondi, da non meglio specificati «individui che non rendono buon
conto di sé» e condannati a pene afflittive o infamanti.
Tanto le corti speciali ordinarie che quelle straordinarie vennero soppresse con
determinazione 5 maggio 181448
dalla Reggenza del governo provvisorio di Milano49
nei
territori in quel momento dipendenti da essa e ripristinate l'anno successivo dal governo
austriaco: in Veneto, con notificazione 4 febbraio 181550
, «per i soli delitti d'insurrezione,
complotti o tumulti popolari», e in Lombardia nei dipartimenti di Olona, Alto Po, Mincio,
Lario, Mella e Serio, con determinazione del governatore di Milano Franz Saurau 5 novembre
181551
contro i rei di omicidio con qualità di latrocinio o commesso a scopo di furto, di
aggressioni, di furti con violenza o minaccia a mano armata.
Per giudicare i crimini contro la sicurezza dello Stato a Milano venne inoltre istituita, con
determinazione del Feldmaresciallo Bellegarde 31 marzo 181552
, una corte speciale
straordinaria composta da cinque giudici d'appello e tre militari, la cui procedura rimandava
alle norme stabilite dal sopra citato decreto 21 marzo 1808. Tale corte fu poi soppressa,
ristabilita la pace, con notificazione del governatore Saurau 21 novembre 1815, la quale però
contemporaneamente riconfermava l'attivazione delle corti speciali contro i delitti comuni
istituite con la determinazione del 5 novembre precedente53
.
Nel Regno Lombardo-Veneto il giudizio statario non venne quindi attivato al livello
“microterritoriale” dei distretti, come prevedeva il §505 Cp., ma a quello “macroterritoriale”
dei dipartimenti – con l’esclusione del dipartimento d’Adda (Sondrio)54
– che dal febbraio
1816 sarebbero stati riorganizzati, in base alla nuova sistemazione territoriale, nelle nove
province lombarde.
Il dibattito ricostruibile attraverso i protocolli di consiglio coinvolge inoltre diversi piani di
indagine: quello delle percezioni e delle interpretazioni delle tensioni sociali, delle cause
48
AG 1814, pp. 35-36. In Veneto esse erano già state soppresse con determinazione 9 gennaio 1814 (CLV 1813-
1814, parte I, pp. 66-67). Sulle corti speciali nel Regno d'Italia cfr. E. Dezza, Un critico milanese della
codificazione penale napoleonica. Pietro Mantegazza e le Osservazioni sulla legislazione criminale del cessato
Regno d'Italia (1814), in Ius Mediolani. Studi di storia del diritto milanese offerti dagli allievi a Giulio Vismara,
Milano, Giuffrè, 1996, pp. 909-977: 947-953 e Id., Il codice di procedura penale, p. 375. 49
Sulla Reggenza del Governo provvisorio si rimanda a M. Meriggi, Liberalismo o libertà di ceti?
Costituzionalismo lombardo agli albori della Restaurazione, «Studi storici», XXII (1981), 2, pp. 315-343. 50
CLV 1815, Vol. II, Parte I, pp. 30-32. 51
AG 1815, Parte III, pp. 1054-1055. 52
AG 1815, Parte I, pp. 33-34. 53
AG 1815, Parte III, pp. 1067-1068.
54 Ricordiamo le considerazioni del Senato Lombardo-Veneto riportate nel terzo capitolo, relative alla
sporadicità di episodi criminali nella provincia di Sondrio ed alla conseguente minor necessità, rispetto alle altre
delegazioni lombarde, di eseguirvi punizioni severe in funzione deterrente.
243
criminogene e dei mutamenti socio-economici intercorsi nelle province lombarde soprattutto
nel periodo di transizione politica e statuale tra Regno Italico e governo austriaco; quello delle
strategie finalizzate alla difesa della pubblica sicurezza e alla repressione della criminalità; e
non ultimo quello dei rapporti di forza intercorrenti tra gli attori politici e giudiziari coinvolti,
tra i quali si vuole porre l'accento sul Senato veronese onde ravvisarne, anche in questo
campo, i margini di azione e le possibilità decisionali nell'ambito dell’amministrazione
giudiziaria specificamente lombardo-veneta.
Da queste fonti si evincono inoltre i dati quantitativi sul numero annuo delle condanne
irrogate dai giudizi convocati, monitorati con regolarità dal Tribunale d'appello milanese
attraverso resoconti inoltrati ogni tre mesi al Senato Lombardo-Veneto, il quale a sua volta ne
riportava i risultati all'imperatore55
: una prassi che sarebbe rimasta in vigore fino al 1829,
allorché il sovrano motuproprio 11 febbraio dispensò il Senato dall'invio delle relazioni con
periodicità trimestrale.
A inizio anno veniva sovente compilata, inoltre, una tabella riassuntiva dei processi statari
celebrati nel corso dell’anno precedente, normalmente accompagnata da considerazioni
generali in merito all'efficacia di tale procedura e alle sue eventuali ripercussioni sul numero
delle rapine commesse.
Per quanto riguarda una possibile indagine qualitativa relativa ai singoli processi statari
celebrati in Lombardia, non esistono in tal senso fonti dirette. Informazioni sui capi di
imputazione, il luogo preciso del commesso delitto, i nomi, l’età e le professioni degli
imputati, sono desumibili innanzitutto dalla «Gazzetta di Milano» e dalle gazzette provinciali
che ne davano notizia56
(ma naturalmente solo in caso di giudizio conclusosi con condanna) e,
più sporadicamente, dalla documentazione (non completa) del Governo di Milano relativa alle
spese sostenute per la celebrazione dei processi statari e l’esecuzione delle condanne
55 L'invio di rapporti trimestrali, iniziato dal mese di novembre 1816, era stato ordinato dall'imperatore e
comunicato al Senato con nota 29 agosto 1816 dal presidente della Commissione aulica di organizzazione
Lasanzky. A tal proposito il Senato deliberò che, a partire dalla data stabilita, l'appello lombardo avrebbe dovuto
indicare «con apposito dettagliato rapporto tutti i giudizi statari che si trovano attivati ed i circondari a quali
cadauno di loro si estenda», nonché «il numero degl’incontri in cui questi giudizi si saranno radunati, e le
risultanze rispettive di sifatte radunanze, e di ditagliare finalmente gli effetti, che di tale straordinario
provvedimento derivarono alla pubblica sicurezza». Sessione 30 settembre 1816, ASMi, SLV, b. 78, cc. 1697-
1698. Le già menzionate Istruzioni per l'interna procedura delli Tribunali Criminali del 1818, descrivono pure,
nella parte relativa all'«ispezione superiore sui Tribunali Criminali», le tabelle trimestrali che le prime istanze
avrebbero dovuto inviare all'appello; nella tabella dell'ultimo trimestre dell’anno i tribunali dovevano specificare,
tra l'altro, anche il numero delle condanne capitali eseguite nella propria area di competenza e «se, e in quale
parte del suo distretto abbia avuto luogo, o sia attualmente in attività il giudizio statario, aggiungendovi le
corrispondenti osservazioni» (§98, f): CLV 1818, Parte I, p. 414. 56
Lo spoglio delle gazzette provinciali lombarde, accanto a quello della «Gazzetta di Milano», fornisce un
quadro abbastanza completo dei casi giudicati con rito statario. In particolare, le gazzette prese in considerazione
sono il «Giornale della provincia di Bergamo», il «Giornale della provincia bresciana», la «Gazzetta di
Mantova», la «Gazzetta provinciale di Pavia».
244
capitali57
.
4. Il giudizio statario in Lombardia
Il massiccio utilizzo del giudizio statario nei primi mesi di attivazione, come segnalano i dati
quantitativi, le frequenti irregolarità che ne viziavano la corretta applicazione e i dubbi del
Tribunale d'appello di Milano che sollecitavano sostanziali chiarimenti procedurali, posero fin
da subito ai senatori il problema dell'opportunità politica e giudiziaria dei provvedimenti
sommari. Ciò avveniva in un torno di tempo, si ricorda, in cui lo stesso codice penale e
l'organizzazione giudiziaria, da poco introdotti, erano sottoposti a frizioni e adattamenti e da
più parti si sollevavano proposte per apportarne alcune modifiche58
, onde far fronte con più
rigore ai frequenti fenomeni criminali e mettere in atto efficaci mezzi repressivi volti a sedare
i diffusi disordini sociali nelle province lombarde e venete.
Già nel settembre 1816 il Senato incaricò l'appello milanese di elaborare, di concerto con il
Governo lombardo, il proprio parere sugli «effetti che possono esser risultati a favore della
pubblica sicurezza dall’istruzione, e dal proseguimento di questi giudizi statari, e se convenga
perciò di continuarli, e se vi siano altri mezzi più convincenti, ed efficaci a prevenire ai fati
delitti»59
.
Nel gennaio successivo60
, rassegnando la tabella numerica dei giudizi statari celebrati in
Lombardia nel corso del 1816 (20 convocazioni, 18 sentenze capitali irrogate e 21 rinvii ai
tribunali ordinari), il Tribunale d'appello di Milano rispondeva alle sollecitazioni del Senato
avanzando il parere che tale misura straordinaria venisse temporaneamente mantenuta in
vigore senza modifiche procedurali. Secondo l'appello – ipotesi condivisa dal Senato
Lombardo-Veneto – la frequenza dei delitti che in quei mesi aveva allarmato le autorità
politiche e giudiziarie in Lombardia sarebbe stata ascrivibile ad una serie di fattori: la
straordinaria penuria di viveri, l'ingente numero di disertori, mendicanti, malviventi e
57
Documentazione reperibile in ASMi, AdG, GM (pm), bb. 45 e 45 bis. Su questo argomento si veda anche la
circolare manoscritta 12 gennaio 1839 (BCT47-9, fasc. 1839) dell'appello di Milano alle prime istanze lombarde,
comunicante la sr. 17 novembre 1838 con la quale si approvava il preventivo delle spese giudiziarie nel Regno
Lombardo-Veneto per l'anno 1839. Tra le varie voci di spesa vi è anche quella dedicata al «Giudizio Statario e
relativa esecuzione», per un ammontare di 800 fiorini. 58
Si veda, ad esempio, il documento trasmesso al Senato nel 1816 dal presidente dell'Oberste Justizstelle, che
sviluppava in nove punti alcuni desideri di cambiamento dell’organizzazione giudiziaria «esternati in questo
Regno». I due ultimi punti riguardavano le materie penali, ossia «che fossero inscritti nel Codice penale alcuni
altri fatti delittuosi, che non di raro si commettono nel regno, o che fosse per alcuni delitti stabiliti [sic] una pena
maggiore» e «che la procedura criminale fosse più semplificata, e che fossero ammessi appositi diffensori
agli’Inquisiti». Tali proposte non vennero prese in considerazione. Cfr. Sessione 24 dicembre 1816, ASMi, SLV,
b. 78, cc. 2401-2408. 59
Sessione 2 settembre 1816, ASMi, SLV, b. 78, cc. 1384-1385. 60
Sessione 21 gennaio 1817, ASMi, SLV, b. 79, cc. 173-184.
245
sospettati posti in libertà per insufficienza di prove legali, nonché «l'immoralità qual funesta
conseguenza de’ tempi ultimi passati». Disertori e rilasciati per insufficienza di prove sono
due categorie di persone alle quali i tribunali riconducevano sovente le ragioni del disordine
pubblico; per quanto riguarda i primi, qui il riferimento è evidentemente a coloro i quali
avevano disertato dai corpi austro-italiani. I militari della disciolta armata italiana, infatti,
erano già stati oggetto di amnistia, inizialmente in virtù della loro diserzione antecedente il 23
aprile 181461
, che nel 1827 venne estesa anche a quanti avessero disertato successivamente a
quella data62
. I disertori delle armate austriache erano stati dapprima esclusi da tale
provvedimento63
per poi esserne beneficiati nel 182064
.
All’analisi del Tribunale d’appello il Senato aggiungeva ulteriori fattori criminogeni;
anzitutto, l'insolita frequenza di matrimoni contratti tra giovanissimi senza mezzi di
sussistenza nella speranza di evitare il servizio militare65
e il già ricordato sovraffollamento
delle città: problema che secondo i consiglieri aulici sarebbe stato risolto impiegando
forzatamente gli individui potenzialmente pericolosi nelle campagne e negli istituti d’industria
61
Cfr. la circolare 26 marzo 1816 della delegazione provinciale di Milano ai podestà e ai sindaci (AG 1816, Vol.
I, Parte II, pp. 33-35), l'avviso 30 giugno 1816 del Governo lombardo (AG 1816, Vol. I, Parte II, pp. 122-123) e
la circolare manoscritta 8 luglio 1817 del Senato Lombardo-Veneto ai tribunali del Regno portante la sr. 8
maggio 1817 (segnalata in Estratto Milano 1817). 62
Cfr. le circolari 5 gennaio 1827 (portante la sr. 13 novembre 1826) e 14 febbraio 1827 (portante la nota del
Comando militare generale 18 gennaio 1827) del Governo lombardo alle delegazioni provinciali (AG 1827, Vol.
I, Parte II, pp. 1-2 e 44-45) 63
Cfr. la circolare 20 maggio 1817 del Governo lombardo alle Delegazioni provinciali (AG 1817, Vol. I, Parte II,
pp. 190-196), e la circolare 17 dicembre 1817 (AG 1817, Vol. II, Parte II, pp. 446-447). 64
Notificazione del Governo di Milano 4 novembre 1820 portante la sr. 3 ottobre 1820 (AG 1820, Vol. II, Parte
I, pp. 109-110; una copia del manifesto della notificazione è reperibile anche in BCT, BCT47-7). 65
A questo proposito cfr. anche Mittermaier, Delle condizioni d'Italia, p. 89. Stando alle ricerche comparative di
Edith Saurer, l'età in cui le persone si sposavano in Veneto era effettivamente molto più bassa rispetto agli altri
Länder presi in considerazione dalla studiosa (Boemia e Bassa Austria). Le ragioni sono molteplici –
riconducibili principalmente all'assenza dell'obbligatorietà del permesso politico per contrarre matrimonio e il
ruolo del prete, ancor più pressante in Veneto per il rapporto numerico tra clero e popolazione, che induceva le
coppie a sposarsi per dovere sociale e religioso – ma non quella adotta dal Senato: in Veneto, a differenza che in
gran parte dell'impero – ove, di fatto, i celibi nullatenenti erano i soli a dover sottostare all'obbligo di leva – gli
uomini sposati godevano di ben pochi privilegi in relazione al servizio militare. E. Saurer,
Geschlechterbeziehungen, Ehe und Legitimität in der Habsburgermonarchie. Venetien, Niederösterreich und
Böhmen im frühen 19. Jahrhundert, in Historische Familienforschung, hg. von J. Ehmer, T. Hareven, R. Wall,
Frankfurt-New York, Campus Verlag, 1997, pp. 123-156: 135-141; Ead., Aspetti della storia delle relazioni
d'amore eterosessuali: il permesso politico di matrimonio sotto la monarchia asburgica, in Identità culturale
europea. Idee, sentimenti, relazioni, a cura di L. Passerini, Scandicci (Firenze), La Nuova Italia, 1998, pp. 173-
190: 180-181 e Ead., Il matrimonio fra obbligo e privilegio (Veneto e Bassa Austria, sec. XIX), in Venezia e
l’Austria, pp. 157-167: 160-165. Precisamente, la sovrana Patente del 17 settembre 1820 regolante le procedure
di coscrizione, stabiliva che l'esenzione dalla leva avrebbe potuto essere richiesta dagli uomini che fossero già
sposati al momento della pubblicazione della patente, o che avessero contratto matrimonio ad un’età superiore ai
22 anni. Questa misura, commenta David Laven, sembra non tanto essere stata dettata da una carenza di
individui da arruolare o dal tentativo di scoraggiare l’“evasione legale”: da quanto emerge dai dibattiti della
commissione veneziana che, nel 1818, era stata istituita per lavorare sui nuovi criteri di coscrizione, tale
principio era volto piuttosto a rafforzare l'istituzione matrimoniale evitando i matrimoni prematuri. Laven, Venice
and Venetia, pp. 131-132.
246
delle altre province della Monarchia66
. Una causa meno contingente veniva infine annoverata:
quel tratto – rilevato anche dal conte von Menz, delle cui osservazioni abbiamo riferito nel
primo capitolo – per così dire, endemico dei criminali lombardo-veneti, potenziato dalla
cessata organizzazione giudiziaria. «I malviventi italiani già per natura loro perspicaci ebbero
nel sistema criminale difensivo degli ultimi tempi una continua pubblica scuola per
apprendere il modo con cui difendersi per scansare gli effetti della legge». I dibattimenti
pubblici frequentati «diligentemente», assieme alle carceri sovraffollate, sarebbero stati,
secondo i consiglieri, pericolosi luoghi di apprendimento delle tecniche di difesa nei processi
penali (ricordiamo le scritte sui muri delle prigioni denunciate da Mazzetti). Questa difficoltà
avrebbe potuto tuttavia essere affrontata da una classe giudiziaria più preparata, cosa che in
quegli anni di transizione legislativa – il Senato lo riconosce apertamente – non sarebbe stata
ancora concretamente ipotizzabile, data la diversità della procedura penale austriaca rispetto a
quella napoleonica precedentemente adottata.
Il rimedio per sedare i numerosi episodi criminali andava quindi individuato a monte, affinché
fossero «prima di tutto levate le sorgenti del male»: nell'attività delle autorità politiche, nello
zelo della magistratura, nel potenziamento del numero dei giudici nei tribunali e delle forze di
polizia, nell'inasprimento delle pene per i più pericolosi colpevoli di rapina, nella costruzione
di pubbliche case di lavoro e, infine, in una riforma del codice penale finalizzata
all'organizzazione di un sistema probatorio meno rigido, attraverso la modificazione del §412,
il quale normava troppo poco agilmente, secondo i tribunali del Regno, le modalità attraverso
cui i giudici avrebbero potuto avvalersi della prova indiziaria. Punto, quest'ultimo, sul quale,
in obbedienza alla sr. 17 giugno 1817, il Senato avrebbe ordinato agli appelli approfondite
indagini onde individuare, alla luce della loro esperienza, quelle difficoltà fino ad allora
incontrate nell'istruzione dei processi penali che avrebbero suggerito una revisione del
paragrafo suddetto67
.
La proposta dei voti minori dell'appello e delle autorità politiche di estendere anche alla
procedura stataria la prova indiziaria e di introdurre prima del giudizio una preliminare
66
Pure, come riporta Franco Della Peruta, le “case d'industria” lombarde e venete erano capillarmente diffuse nel
territorio. Per quanto riguarda, nello specifico, la Lombardia, il loro precedente va individuato nelle analoghe
istituzioni promosse negli anni Ottanta del Settecento da Giuseppe II. L’iniziativa venne ripresa dalle autorità
italiche e «sviluppata nei primi anni della Restaurazione, anche sotto la pressione della carestia». Della Peruta,
Aspetti della società italiana, p. 54. 67
Sessione 14 ottobre 1817, ASMi, SLV, b. 80, cc. 2797-2803. Le risposte degli appelli vennero discusse nel
corso della sessione 10 dicembre 1819: Ibidem, b. 88, cc. 4922-4926. Sul §412, i suoi effettivi o presunti limiti
nell'esercizio del libero convincimento e la sovrana patente 6 luglio 1833 nella quale sarebbe sfociata la riforma
del paragrafo, cfr. Povolo, La selva incantata, pp. 47 e segg. e P. Rondini, In dubio pro reo? La prassi giudiziaria
dell’arbitramento degli indizi nel Regno Lombardo-Veneto, in Amministrazione della giustizia penale, pp. 93-
150: 93-126.
247
inquisizione dilatabile a otto giorni, era invece, secondo il Senato, inaccettabile. Da un lato i
rimedi suggeriti avrebbero potuto arginare la carenza principale dell'applicazione pratica dei
processi statari – sottolineata anche dal governatore Saurau – ovvero quella di arrivare
relativamente di rado, entro i termini previsti dalla legge, ad una sentenza condannatoria,
tanto da rendere tale misura sommaria «anziché di utilità, di danno alla pubblica sicurezza a
soverchio dispendio pel regio erario», oltre che «vie più ridicola negli occhi di quel popolo
già altresì facilmente disposto alla più amara critica»68
; dall'altro, tuttavia, le riforme proposte
sarebbero state contrarie non solo alla natura rapida e sommaria del giudizio statario, ma
benanche agli stessi principi fondamentali dell'intera legislazione penale69
, i quali
prevedevano precise garanzie probatorie nell'irrogazione della pena capitale.
Eppure, nonostante le sollevate aporie dei provvedimenti statari sembrassero dimostrarne
l'inadeguatezza, il Senato trovava prematura la loro abolizione: proprio la comprovata
inefficacia avrebbe infatti costituito «un ulterior motivo di lasciarli per la ragione che non
conviene indebolire nella mente del popolo l'idea del rigore d'una legale provvidenza che la
legge preserva principalmente ad effetto d'incutersi timore»70
.
Nel corso dei mesi successivi, commentando per mezzo delle consuete relazioni
all’imperatore le tabelle rassegnate dall’appello di Milano sui giudizi statari celebrati nei
primi due trimestri del 1817 (in tutto l’anno si registrarono 25 convocazioni, 27 condanne e
35 rinvii) il Senato confermava il suo scetticismo nei confronti di una «straordinaria
provvidenza […] non qualificata e bastevole per sradicare il male introdottosi». Soltanto le
proposte già avanzate, nonché «la sollecita introduzione dell'organizzazione giudiziaria e delle
autorità di polizia in campagna», avrebbero potuto fornire «la più fondata speranza di
procurare poco a poco l'interna sicurezza»71
. Pur notando, come monitorato dall’appello, che
«l'infestazione de’ malviventi» andava scemando, e contrariamente al parere espresso dalla
direzione di polizia – secondo la quale nelle province di Cremona, Mantova e Lodi (ma non in
quelle di Bergamo e Brescia) l'attività dei giudizi statari avrebbe influito positivamente sulla
sicurezza pubblica –, i consiglieri aulici attribuivano il decremento della criminalità non tanto
al timore deterrente ispirato dalle procedure straordinarie, quanto piuttosto all'arresto di molti
vagabondi e persone sospette, consegnati alle carceri o ai lavori pubblici «che Sua Maestà con
Sovrana Clemenza si è degnata di ordinare a sollievo della povertà a quelli che ne
68
Sessione 30 settembre 1816, ASMi, SLV, b. 78, c. 1696. 69
L’opposizione all'introduzione della prova per concorso di circostanze nella procedura stataria sarebbe stata
ribadita dal Senato anche nelle successive sessioni 17 ottobre 1821 e 9 gennaio 1822 (ASM, SLV, b. 96, cc.
2263-2264 e b. 97, c. 66). 70
Sessione 21 gennaio 1817, ASMi, SLV, b. 79, c. 180. 71
Sessione 26 febbraio 1817, ASMi, SLV, b. 79, c. 532.
248
abbisognava la campagna nella primavera» nonché alla maggiore vigilanza di frontiera volta
ad impedire l'ingresso nel Regno «a persone miserabili e malvaghi degli stati limitrofi
dell'Italia»72
.
Nello stesso torno di tempo la questione coinvolse anche le autorità politiche e giudiziarie
venete. In una consulta discussa in Senato nel febbraio del 181773
, l’appello di Venezia
avanzava il parere di estendere i provvedimenti di emergenza anche alle province dipendenti
dalla sua giurisdizione, onde «raffren[are] la cupidigia e malvagità dei scelerati», dato il
crescente numero delle rapine consumate soprattutto nel padovano e nel veneziano. La
proposta venne respinta dal Governo veneziano il quale, pur riconoscendo un oggettivo
aumento delle rapine, affermava che «nel concorso di tante altre circostanze che non di rado
spingono al delitto anche gli uomini non inclinati a tali azioni, non si ravvisa nelle annotate
aggressioni una tal perversità dei delinquenti che faccia desiderare una straordinaria severità
di punizione, la quale per esser efficace deve riservarsi ai casi estremi» ed aggiungeva di aver
ordinato un’apposita indagine nelle province venete, i cui risultati avrebbero permesso di
individuare i mezzi più idonei a garantire la pubblica sicurezza.
Nella sua relazione all’imperatore, il Senato, da parte sua, appoggiava quest’ultimo parere: «il
numero delle rapine eseguite nelle provincie venete in confronto a quello delle lombarde
apparisce tenue arrivando appena alla decima parte, e se ciò non ostante non si riconobbero
motivi sufficienti per ritenere necessario il giudizio statario nelle provincie [lombarde], questi
possono esistere molto meno per le venete», nelle quali non si sarebbe verificato quello stato
di emergenza che, secondo il codice penale, ne avrebbe giustificato l’applicazione74
. Il
relatore Giacomo Bertoldi osservava inoltre come
la poca efficacia di questo estremo rimedio riservato ai casi di maggiori pericoli per la pubblica
sicurezza, quando applicato a misure così estese, si è palesato nelle provincie soggette al governo di
Milano, ove ad onta del giudizio statario non si è diminuita la frequenza di tali delitti: ed è questo un
argomento di più per confermare la verità attestata da tutti i secoli, che la severità delle pene non è il
mezzo più opportuno per reprimere i delitti.
72
Sessione 24 giugno 1817, ASMi, SLV, b. 79, cc. 1700-1701. Della campagna di arresti e rimpatri forzati e dei
progetti di impiego dei poveri nei lavori pubblici e nelle case di lavoro, proprio negli anni 1816-1817, con
riguardo alla provincia di Como, riferisce G. Galli, Vagabondi per forza. Oziosità e accattonaggio nel Comasco
dalla restaurazione all’unità, «Il Risorgimento», XXXII (1980), 2, pp. 151-175: 154 e segg. 73
Sessione 5 febbraio 1817, ASMi, SLV, b. 79, cc. 341-347. 74
Il più allarmante livello della criminalità delle province lombarde rispetto a quelle venete sarebbe stato
sottolineato anche nel 1820 in una relazione dell'appello milanese sugli affari criminali dell'anno precedente,
commentando la quale il Senato notava «aver fatto dispiacevole senso, che a differenza del Veneto siansi in
Lombardia aumentati i delitti». Sessione 6 giugno 1820, ASMi, SLV, b. 90, cc. 1489-1495.
249
Punto, quest’ultimo, ribadito dalle osservazioni del Tribunale di Udine, il quale notava come
«sotto il cessato governo, assai più frequenti erano le rapine ed altri misfatti di questi generi,
nonostante che giornalieri si offrissero al pubblico gli spettacoli dell'estremo supplizio, dei
ferri in vita e della berlina».
Secondo il Senato molto più efficace sarebbe quindi stata la perlustrazione ordinata dal
Governo che non la «per lo più inutile solennità dei giudizi statari», come confermò la
conseguente sr. 12 agosto 181775
. Una seconda proposta dell'appello veneziano, ossia
l’estensione della pena capitale per omicidio anche ai casi di raggiungimento della prova
attraverso il concorso delle circostanze, non venne neanche presa in considerazione dal
Senato, «essendo una tal innovazione affatto contraria ai principi essenziali del diritto
criminale austriaco»76
.
La successiva sr. 21 agosto 1817, emessa sulle relazioni stilate dall’Oberste Justizstelle e dal
Senato veronese relativamente alla pena di morte per i rei di rapina ed ai giudizi statari in
Lombardia, sanciva il mantenimento di questi ultimi, pur con qualche restrizione.
Un’istruzione segreta diretta al Tribunale d’appello ed alle autorità provinciali lombarde
ordinava infatti di convocare il consesso statario per titolo di rapina «allora soltanto quando se
ne può attendere un effetto corrispondente, e che la sicurezza esiga imperiosamente un castigo
pronto, e che faccia impressione». Contemporaneamente l’imperatore incaricava la
Commissione aulica di legislazione di stilare, di concerto con l’Oberste Justistelle, un
progetto di legge da estendersi indistintamente o in determinate province, secondo il quale
anche nel processo ordinario, «con una giusta gradazione ed a garanzia della sicurezza
privata, possano sottoporsi alla pena di morte le più gravi specie di rapina, particolarmente
alle strade od in truppe, come pure il delitto di appiccato incendio»; e infine di proporre le
necessarie modifiche ai paragrafi del codice penale relativi alla normativa stataria, viste «le
difficoltà confermate dall'esperienza […] acciocché in casi straordinari non manchi allo Stato
una risorsa efficace, e sia nello stesso tempo evitata possibilmente la durezza, e la
precipitazione»77
.
Se nel rapporto trimestrale maggio-luglio 1818, a fronte di un improvviso aumento delle
aggressioni verificatosi nei giorni precedenti, il Senato avrebbe cautamente proposto il
temporaneo mantenimento dei giudizi statari nonostante le forti perplessità sulla loro concreta
75
Sessione 9 settembre 1817, ASMi, SLV, b. 80, cc. 2423-2425. 76
Sessione 5 febbraio 1817, ASMi, SLV, b. 79, c. 346. 77
Sessione 24 settembre 1817, ASMi, SLV, b. 80, cc. 2582-2583.
250
efficacia78
, ben presto si sarebbe esplicitamente pronunciato a favore della pronta cessazione
di tale misura straordinaria, unendosi quindi ai voti nel frattempo espressi in questa stessa
direzione dal Governo e dall'appello milanesi, nonché dalla maggioranza dei tribunali
provinciali interrogati sulla questione79
; posizione che successivamente sarebbe stata
condivisa anche dalla Cancelleria aulica riunita80
e dal Viceré81
.
Secondo i consiglieri aulici, infatti, da un lato erano andati a cadere i principali motivi che
avevano suggerito l'attivazione dei giudizi statari (ovvero «la penuria de' viveri, e la quantità
di disertori italiani»); dall'altro la loro applicazione pratica aveva rivelato inconvenienti tali da
renderne inutile il proseguimento: «rarissime volte si ottiene la prova per testimoni, e per la
scaltrezza degl'incolpati non bastano le 24 ore per verificare le essenziali circostanze;
cosicché venendo sciolto il giudizio Statario senza effetto, mancasi il propostosi fine, e la
pubblica aspettazione». Il Senato proponeva quindi due soluzioni alternative finalizzate alla
prevenzione dei delitti e alla punizione dei colpevoli: un provvedimento politico, del quale si
sarebbe dovuto occupare il Governo, contro i «malviventi oziosi e vagabondi»; e una riforma
del §412 del codice penale (riguardo la quale, si ricorda, i tribunali del Regno erano già stati
interpellati)82
.
Nei mesi successivi gli invii delle relazioni trimestrali si sarebbero pertanto rivelati altrettante
occasioni per ribadire la posizione abolizionista delle autorità giudiziarie lombarde, anche alla
luce della sporadicità con la quale i processi statari venivano ormai celebrati. Anticipiamo
qualche cifra, per dare un'idea della loro dimensione quantitativa: dal 1818 al 1833 vi furono,
annualmente, un massimo di tre convocazioni e cinque condannati83
; dal 1834 al 1847, come
sopra si accennava, le condanne sarebbero state in tutto cinque: cifre ben diverse, quindi, da
quelle del biennio 1816-1817.
Eppure in un sovrano biglietto inviato nel maggio 1819 al presidente della Cancelleria aulica
78
Sessione 1 settembre 1818, ASMi, SLV, b. 83, c. 2769. 79
Cfr. sessioni 18 maggio e 24 agosto 1819, ASMi, SLV, b. 86, cc. 1801-1802 e b. 87, c. 3233. La prima riporta i
risultati, trasmessi dall'appello milanese, della consulta dei tribunali provinciali in merito alla questione del
giudizio statario; la seconda discute i dati delle tabelle trimestrali maggio-luglio 1819. Queste ultime fornirono
all'appello l'occasione per ribadire la proposta abolizione dei giudizi statari, che nei sei mesi precedenti avevano
irrogato una sola condanna. 80
Si vedano le sessioni 10 luglio e 7 dicembre 1821, ASMi, SLV, b. 95, c. 1518 e b. 96, c. 2604. 81
Sessione 9 gennaio 1822, ASMi, SLV, b. 97, c. 66. 82
Sessione 1 febbraio 1820, ASMi, SLV, b. 89, cc. 297-298. 83
Secondo le tabelle riassuntive compilate nel 1830 e nel 1838, nel 1818 vi furono tre convocazioni e tre
condanne capitali; nel 1819 tre convocazioni e cinque condanne; nel 1820 tre convocazioni, tre condanne e tre
rinvii ai tribunali ordinari; nel 1821 una convocazione e due condanne; nel 1822 due convocazioni e quattro
condanne; nel 1823 una convocazione, una condanna e due rinvii; nel 1824 due convocazioni, tre condanne e un
rinvio; nel 1825 tre convocazioni e tre condanne; nel 1826 due convocazioni e due rinvii; nel 1827 due
convocazioni, due condanne e un rinvio; nel 1828 cinque convocazioni, cinque condanne e dodici rinvii; nel
1829 due convocazioni, due condanne e un rinvio; tre condanne nel 1830, una nel 1831, una nel 1832 e tre nel
1833. Cfr. Sessioni 3 luglio 1830 e 17 gennaio 1838, ASMi, SLV, b. 136, c. 1814 e b. 180, c. 270.
251
riunita, trasmesso per mezzo di quest'ultima al Senato Lombardo-Veneto, l’imperatore
manifestava la sua preoccupazione per la turbata sicurezza pubblica e privata in Lombardia e
nella stessa Milano dove frequenti erano furti, rapine e omicidi, e ordinava da una parte che
fosse raccomandato al clero «di avere a cuore con tutto il zelo il miglior addottrinamento del
popolo dal pulpito e dal confessionale», dall’altra che la Cancelleria aulica, di concerto con il
Senato, desse le disposizioni necessarie affinché le autorità giudiziarie e politiche lombarde
«affrett[assero] con attività le inquisizioni sopra i delitti, ten[essero] man ferma
sull’applicazione delle leggi penali col dovuto rigore, fac[essero] seguire alla pena il castigo il
più tosto che sia possibile» e infine attivassero o mantenessero in vigore, se già esistenti, i
necessari «provvedimenti di sicurezza»84
: tra questi, evidentemente, il giudizio statario. Nello
stesso torno di tempo, il governatore di Milano Strassoldo informava la Cancelleria aulica
riunita che le aggressioni sulle strade in Lombardia, apparentemente scemate negli ultimi
mesi, erano recentemente tornate ad aumentare «con una frequenza, e con un'audacia
straordinaria»; soprattutto le province di Milano e di Mantova sarebbero state «infestate» di
assassini, tra i quali molti disertori. Risultava palese, agli occhi del governatore, che la
gendarmeria e il piccolo corpo delle guardie di polizia a cavallo, per quanto zelanti, fossero
numericamente insufficienti a tamponare questa grave situazione. Il Governo, da parte sua,
andava quindi a proporre l'istituzione delle guardie comunali – sull'esperienza degli “uomini
d'arme” esistenti in Lombardia prima del 1796 – secondo un progetto presentato dallo stesso
alla cessata Commissione aulica di organizzazione centrale85
, che tuttavia non sarebbe stato
preso in considerazione.
Nonostante la già rilevata minore problematicità delle province venete, tuttavia non esenti da
forti tensioni sociali, un’analoga preoccupazione veniva manifestata, sempre nel 1819, anche
per queste ultime; nella quali «una fatale tendenza agli omicidi, ai derubamenti, alle ferite, ed
a simili altri delitti» avrebbe richiesto, secondo un sovrano viglietto trasmesso ai tribunali di
prima istanza «che debba essere portata una particolare attenzione sopra questo argomento, e
nulla venga trascurato di ciò che può contribuire a garantire la pubblica sicurezza, sia col
perseguitare incessantemente i delinquenti, ed i perturbatori della pubblica quiete, sia
84
Sessione 21 luglio 1819, ASMi, SLV, b. 87, c. 2731. 85
Rapporto del Governo di Milano 30 settembre 1819, OeStA, AVA, HKa, AR, Ak, K. 1324, fasc. “Lombardo-
Venetien”, sottofasc. 1818-1819. A questo proposito intervenne anche il Viceré il quale, con una nota alla
Cancelleria aulica riunita, caldeggiava il progetto del Governo milanese: «Preso motivo delle frequenti
aggressioni alle pubbliche strade prega perché sia approvato il piano già rassegnato dell'istituzione delle guardie
comunali […] La pubblica sicurezza è ora compromessa in modo da rendere necessario un valido provvedimento
straordinario onde assicurarla meglio in avvenire» (Nota 14 ottobre 1819, Ibidem).
252
coll’assoggettare gli arrestati al rigore delle Leggi» [corsivo nel testo]86
.
Le sr. 17 gennaio 1821 e 20 febbraio 182287
avrebbero quindi riconfermato, in via
teoricamente temporanea, l'istituzione dei giudizi statari, in attesa dei risultati delle indagini in
merito alla possibile riforma del codice in materia probatoria88
.
Il rapporto di causalità tra le due questioni sottoposte a discussione (revisione della normativa
sulla prova indiziaria – giudizio statario) venne definitivamente scardinato dai senati viennesi
e veronese nel corso delle loro successive relazioni: la modifica del §412, proposta nel
frattempo anche dalla direzione generale di polizia di Milano89
, sollecitata dai tribunali
lombardi e veneti90
ed elaborata come proposta legislativa dalla Commissione aulica di
legislazione91
, non avrebbe avuto alcuna concreta influenza sull'eventuale cessazione delle
procedure d'emergenza92
. Allo stesso tempo, secondo l'unanime parere delle magistrature del
Regno, la permanenza dei processi sommari in Lombardia, prolungata per sei anni, sarebbe
stata «inconveniente, inefficace per i più scaltriti malfattori, terribile per alcuni miserabili che
v'incappano, indipendente da esso l'aumento ed il decremento in Lombardia delle aggressioni
e delle rapine». Allo scopo di mantenere la pur dubbia azione deterrente di tali procedure, i
senatori votavano infine la proposta di non pubblicare l'eventuale soppressione dei giudizi
statari, ma di comunicarla esclusivamente alla direzione generale della polizia di Milano ed
alle delegazioni provinciali (responsabili appunto delle convocazioni)93
.
La discussione concertata tra Senato Lombardo-Veneto, Oberste Justizstelle, Cancelleria
aulica riunita, Commissione aulica di legislazione, con il parallelo interessamento del Viceré,
86
Circolare del Tribunale d’appello di Venezia, 2 luglio 1819, CLV 1819, parte II, pp. 3-4. Un esemplare si trova
anche in BCT, BCT47-4. Significativamente, una circolare di poco successiva sollecitava nuovamente in questo
senso le autorità giudiziarie: «Sta grandemente a cuore di Sua Maestà Imperiale Reale che sia in ogni modo
garantita la pubblica sicurezza, e tranquillità, e quest’interesse, che non mai vien meno nel paterno suo cuore, ha
anche di recente richiamate le alte sue cure ad ordinare precisamente, che le relative Autorità debbano procedere
col massimo rigore, e sotto la più stretta loro responsabilità per lo scuoprimento, arresto, punizione de’
delinquenti, nonché delle Meretrici, e de’ Lenoni». La circolare non è segnalata in CLV 1819; ne è tuttavia
conservata una copia, anch’essa, in BCT, BCT47-4. 87
Sessione 13 marzo 1822, ASMi, SLV, b. 97, cc. 517-518. 88
Sessione 31 gennaio 1821, ASMi, SLV, b. 93, cc. 246-247. 89
Sessione 26 giugno 1820, ASMi, SLV, b. 90, c. 1655. 90
Sessione 6 giugno 1820, ASMi, SLV, b. 90, c. 1493. In più occasioni, lo abbiamo accennato, i tribunali
espressero la loro insoddisfazione nei confronti delle limitazioni previste dal §412. Si veda in tal senso la
relazione del consigliere aulico Antonio Mazzetti incaricato dal Senato Lombardo-Veneto, come si è già
ricordato, di compiere tra il 1822 e il 1823, in veste di commissario, un’ispezione tra le preture e i tribunali di
prima istanza del Regno. Bellabarba, Il giudice come ispettore, in particolare pp. 421-422. 91
Il progetto di legge venne trasmesso al Senato per il suo parere e riportato nei protocolli della sessione 17
luglio 1821, ASMi, SLV, b. 95, cc. 1604-1672. Le discussioni e le richieste di pareri sui progetti di riforma
andarono avanti negli anni; si vedano, ad esempio, i protocolli della sessione 13 agosto 1825, Ibidem, b. 111, cc.
1856-1898, e quelli della sessione 7 ottobre 1831, Ibidem, b. 143, cc. 2894-2897. 92
Sessione 17 ottobre 1821, ASMi, SLV, b. 86, c. 2264. 93
Sessione 9 gennaio 1822, ASMi, SLV, b. 97, c. 67.
253
del direttore di polizia e del governatore di Milano sui mezzi atti ad arginare i delitti di rapina
in Lombardia, si era quindi spostata sull'individuazione di altre soluzioni preventive
amministrative e di polizia.
Una serie di relazioni scambiate tra questi interlocutori nella prima metà del 182594
segnala
come da una parte l'ipotesi di prolungare l'attivazione del giudizio statario fosse considerata
del tutto superata, dall'altra si ricercassero rigorose misure alternative soprattutto volte a
depotenziare la pericolosità di determinate «classi di persone», ovvero gli «sfaccendati
vaganti per le città e vagabondi per le campagne, che troppo facile hanno ricovero e vitto dai
villici»95
e gli individui considerati minacciosi per la sicurezza pubblica ma posti in libertà
una volta scontata la pena o rilasciati dai tribunali ordinari per insufficienza di prove legali96
.
Contro questi ultimi il §455 del codice penale, la cui applicazione nel Lombardo-Veneto
venne suggerita dai Senati dell'Oberste Justizstelle97
, consentiva alle autorità politiche di
mettere in atto specifiche misure straordinarie, che furono concretizzate nell'erezione di un
«luogo di forzata occupazione» nell'isola di Ossero per i sudditi del Lombardo-Veneto, della
Dalmazia, del Litorale e del Tirolo italiano98
.
Una certa opposizione nei confronti dell’applicazione dei giudizi statari si misura anche su un
livello più personale: fonti diaristiche ed epistolari permettono di cogliere il disagio che alcuni
consiglieri provavano nel prendere concretamente parte a tali consessi giudiziari. Così il
giudice Paride Zajotti annotava nel suo diario il 28 ottobre 1827: «Ahimè! Domani mi tocca
d'assistere ad un giudizio statario: brutto incarico quello d'ammazzare un uomo così a tamburo
94
Sempre nel 1825 la Congregazione centrale lombarda supplicava l’imperatore affinché fosse garantita una più
rigorosa azione repressiva degli apparati dello Stato (la supplica è citata in Meriggi, Amministrazione e classi
sociali, pp. 331-332). Da una relazione del consigliere Salvotti di poco successiva apprendiamo che «Il Territorio
di Pavia e di Milano era infestato per tutto l’autunno del 1825 da parecchi aggressori che colla frequenza delle
loro rapine accompagnata taluna da sevizie e omicidi altamente turbavano la pubblica sicurezza. […]. Non vi era
più sicurezza per nessuno, né valeva la più squisita prudenza a prevenire il pericolo di tali aggressioni»
(Relazione 14 novembre 1826, ASMi, SLV, b. 51, fasc. VI. 150-2). 95
Il problema dell’aiuto prestato degli abitanti delle campagne ad individui genericamente “sospetti” è un tema
nel quale ci si imbatte su vari livelli. In seguito all'arresto di un disertore che era riuscito a vivere sei mesi in
campagna occupandosi come lavoratore giornaliero, nonostante l'allerta delle forze di polizia, nel novembre
1822 la delegazione di Brescia propose al Governo di Milano un regolamento che avrebbe obbligato tutti i
proprietari a denunciare al comune qualsiasi persona ospitata anche solo per una notte e ad ottenere apposito
permesso scritto. Il progetto venne tuttavia respinto dalla direzione di polizia, interpellata a questo proposito dal
Governo, e giudicato «vessatorio ed ineseguibile, pretendendo dal terriere ciò che neppur si esigge
dall'albergatore prezzolato», oltre che molto dispendioso: protocollo del Governo di Milano 15 novembre 1822,
ASMi, AdG, GP (pm), b. 2, fasc. 4 (assassini), sottofascicolo 4b – Brescia. Lo stesso fascicolo contiene il testo
del progetto (24 settembre 1822) ed il rapporto della direzione generale di polizia di Milano (11 novembre 1822). 96
Sessione 26 febbraio 1825, ASMi, SLV, b. 108, cc. 370-373. 97
Cfr. la minuta dei protocolli dei Senati viennesi: Raubanfälle im Lomb-Venez. Koenigreiche, 22. April 1825,
OeStA, AVA, OJ, LVS, K. 1, fasc. 19. I protocolli vennero trasmessi al Senato Lombardo-Veneto e discussi nella
sessione 4 giugno 1825, ASMi, SLV, b. 110, cc. 1156-1157. 98
Sessioni 25 giugno 1825 e 5 agosto 1828, ASMi, SLV, b. 110, cc. 1380-1388 e b. 126, cc. 1604-1606.
254
battente»99
. Nel rapporto di Torresani alla Polizeihofstelle del 1826, citato nel primo capitolo,
con cui il direttore della polizia di Milano riferiva alcuni stralci di carteggi intercettati ai
giudici operanti nel Lombardo-Veneto, si legge la sintesi di una lettera dell’allora presidente
del Tribunale criminale di Milano Giovanni Gognetti che confessava al consigliere aulico
Benoni le sue preoccupazioni sul giudizio statario, ossia che «non lo lascerebbe tranquillo se
vedesse appiccato taluno, cui a suo credere fosse stata applicabile soltanto la pena
ordinaria»100
.
5. Un errore giudiziario a Botticino
Se, nonostante le voci contrarie, la sovrana risoluzione 22 gennaio 1826 sancì la
continuazione dei giudizi statari nelle stesse province e per gli stessi delitti101
, un grave errore
giudiziario commesso due anni dopo dal consesso statario convocato a Botticino, nella
provincia di Brescia, avrebbe tuttavia riaperto con urgenza la questione.
Tanto il fatto criminoso che lo svolgimento delle indagini e del processo nelle sue varie fasi
sono dettagliatamente descritti in una relazione stilata dal senatore Maffei102
. Vale la pena di
tratteggiare brevemente tale percorso giudiziario onde illustrare, nella prassi, non solo i
rapporti intercorrenti tra autorità giudiziarie (i tribunali) e politiche (la delegazione
provinciale), ma anche, più in generale, la problematica coesistenza – sia in ambito
procedurale che in sede punitiva – di processo ordinario e processo statario.
La sera del 6 marzo 1828 alcuni uomini armati si introdussero nella casa di un anziano notaio
«possessore di latifondi e buon economo, [che] avea nel pubblico il concetto di essere
danaroso». Sorprese in cucina le tre donne di casa mentre esse «stavano in dialogo tra loro
lavorando calzette, e a tutt'altro pensando che ad aver soggetto di timore», i rapinatori
riuscirono ad ottenere con le minacce le chiavi della stanza dell'anziano notaio. Due di essi si
introdussero quindi nella sua camera: la vittima «si svegliò, e aperti gli occhi si vide un lume
di fronte, e dai lati due armati, che uno gli misurava al petto un lungo pugnale nudo; l'altro gli
presentava una pistola montata. E “denari o vita” furono le prime parole che si sentì intronare
99
Il brano è trascritto in Brol, Antonio Bresciani, p. 64. Il giudizio statario al quale Zajotti fa qui riferimento
venne celebrato nel comune di S. Pietro in Sala, provincia di Milano, i giorni 29, 30 e 31 ottobre – come si
deduce dalla «Gazzetta di Milano» 2 novembre 1827, che pubblicò la sentenza – contro due giovani di Milano,
entrambi «oziosi», imputati di «tre consecutive rapine con ruberia di denari ed effetti, commesse in società a
mano armata di coltello e pistola, con minaccie di morte»; uno dei quali condannati a morte dal consesso
statario, l’altro rimesso alla procedura ordinaria. 100
OeStA, HHStA, KA, VA, K. 50, fasc. “fol. 1-99”, c. 49. 101
Sessione 18 febbraio 1826, ASMi, SLV, b. 114, c. 439; si veda anche la circolare manoscritta 1 marzo 1826,
diramata alle prime istanze lombarde, segnalata in Estratto Milano 1826. 102
Relazione 15 luglio 1829, ASMi, SLV, b. 53, fasc. VI 184. La relazione venne scritta su richiesta della sr. 10
maggio 1929 (riportata nei verbali della sessione 5 giugno 1829, ASMi, SLV, b. 129, c. 1350).
255
agli orecchi». L'uomo acconsentì a cedere il denaro e condusse gli aggressori in cantina;
trovandovi solo poche lire, questi lo legarono e malmenarono brutalmente. Un figlio,
svegliatosi per il rumore e le grida del padre, «mosso da tenerezza figliale», si precipitò in
cucina, per venir anch'egli aggredito, e mortalmente ferito, da uno dei rapinatori.
Le prime indagini vennero condotte dagli agenti di polizia di Brescia e di Chiari, che
dipanarono il «primo filo onde dirigersi alla scoperta dei delinquenti». Cinque individui,
«presi di mira siccome sospetti della rapina» furono subito arrestati; tra questi un oste,
Giacomo Trenti, riconosciuto dagli aggrediti come uno dei colpevoli.
Il delegato provinciale incaricò l’aggiunto della pretura di Chiari di proseguire le indagini e
compiere l’investigazione in via politica; questi subordinò quindi gli atti espletati alla
delegazione provinciale di Brescia il 21 aprile successivo, la quale a sua volta li comunicò con
una nota al presidente del Tribunale della stessa città consultandolo sulla possibilità di
convocare il giudizio statario, ricevendone risposta affermativa.
Il giudizio statario si tenne a Botticino dal 3 al 6 maggio 1828, contro i cinque imputati (che
rimasero ostinatamente «negativi»); integrando le indagini già svolte dalle autorità di polizia
con pochi ulteriori risultati, esso si concluse infine con la condanna capitale di tre imputati, tra
cui il Trenti, mentre gli altri due vennero rimessi al tribunale ordinario per insufficienza di
prove.
Poco dopo la pubblicazione della sentenza, il commissario di polizia comunicò al consesso
statario che i due condannati a morte assieme al Trenti e uno degli imputati rimessi al giudizio
ordinario, Giovanni Bondoni, «domandavano ardentemente un nuovo esame». Allo scopo di
sentire rapidamente tutti e tre, il giudizio si divise in due consessi. Il primo interrogato
riconobbe di essere «veramente colpevole del delitto per cui fu pronunciata la sua condanna e
da cui ne implorava dalla Divina misericordia il perdono; ma che doveva professare
solennemente davanti a Dio e agli uomini l'innocenza di Giacomo Trenti»: non cinque ma
quattro persone avevano preso parte alla rapina. Analoga confessione venne rilasciata dal
secondo condannato. Separatamente esaminato, anche Bondoni si risolse quindi a confessare,
contro il proprio interesse personale, affermando che «alla notizia della condanna di Trenti la
coscienza non gli reggeva a permettere l'ultimo supplizio di un innocente». Il giudizio
statario, sentite le tre dichiarazioni concordi, stabilì di sospendere la sentenza contro Trenti e
di rimandarlo al tribunale ordinario, mentre gli altri due imputati vennero giustiziati.
«Egli è facile immaginarsi», commentava il relatore, «quanta impressione negli animi del
pubblico dovea produrre la condanna d’un uomo innocente proferita da un giudizio armato di
così tremendo potere, che decide senza reclamo, le cui sentenze siegue così rapido il patibolo,
256
come il folgore siegue il lampo». Nel frattempo il processo Bondoni, come si evince dalla
sentenza contro di lui proferita103
e dai protocolli del Senato che registrano la discussione in
merito alla pena suggerita, venne demandato al Tribunale criminale di Milano – come del
resto lo stesso Trenti e il terzo imputato che assieme a Bondoni era scampato all'esecuzione –
poiché da quello di Brescia provenivano i giudici che avevano formato il consesso statario. La
prima istanza pronunciò quindi la condanna al carcere durissimo a vita, confermata
dall'appello e mitigata in via di grazia, su consiglio del Senato veronese e proprio in virtù
della confessione: «il Bondoni», osservava il consigliere Maffei, ancora in veste di relatore,
già rimesso dal giudizio Statario in Botticino al Tribunale ordinario, e sempre addietro negativo,
confessò il suo reato al nobile fine di trarre l'oste Trenti dall'ingiusta condanna a morte stata
pronunziata dal giudizio Statario suddetto; egli quindi con un raro morale eroismo all'ingiusto
supplizio altrui ha preferito e resa certa la propria condanna, che poteva essere incerta. Questo tratto di
generoso animo merita certo di essere riconosciuto.
Tuttavia il mancato accordo tra i senatori sull’entità della pena detentiva da proporre richiese
l’intervento del presidente von Eschenburg:
se fosse lecito di giudicare l'inquisito non come giudice che deve trattare la causa pubblica, ma come
semplice privato, si dovrebbe certamente ammirare quella magnanimità dell'inquisito, colla quale egli
ha per dir così sagrificato se stesso per salvare un innocente condannato già a morte, e
conseguentemente si dovrebbe minorare assai la pena legale […]. Ma come giudice si deve aver il
principale riguardo all'atrocità del misfatto […], alla soddisfazione che deve darsi alla sicurezza
pubblica104
.
Il presidente suggeriva pertanto la relativamente debole mitigazione a 20 anni di carcere, con
l'esacerbazione della berlina: la proposta non venne tuttavia accolta dalla maggioranza dei
votanti, né d’altra parte dall’imperatore che approvò, infine, la commutazione a 15 anni di
carcere duro.
Il caso di Botticino e il suo problematico esito indussero l'espletamento di nuove indagini,
tanto sul processo specifico quanto sulla generale ed annosa questione dell'opportunità del
processo statario. La sr. 21 giugno 1828105
conseguente ad un rapporto stilato dalla
103
Allegata alla Relazione 15 luglio 1829 sopra citata. 104
Sessione 29 dicembre 1828, ASMi, SLV, b. 127, cc. 2729-2730. 105
Riportata nei verbali della sessione 8 novembre 1828 ASMi, SLV, b. 127, c. 2305.
257
Cancelleria aulica riunita «sugl'incidenti» che ebbero luogo nel corso del giudizio statario
bresciano, fa riferimento ad una commissione inviata a Brescia (alla cui composizione non è
stato possibile risalire) per condurvi le opportune ricerche106
. La commissione avrebbe dovuto
sottoporre i propri risultati alla Cancelleria aulica riunita allo scopo di metterla nelle
condizioni di comunicare a questo proposito con il Senato veronese; il quale veniva inoltre
nuovamente sollecitato a rassegnare il proprio parere sull'opportunità di far cessare i giudizi
statari. A quest'ultima richiesta il conchiuso stabilì, per eminenter majora con il relatore
Raicich, di ordinare all'appello di raccogliere l'opinione dei tribunali lombardi e di «entrare in
concerti» con il Governo: operazione superflua, secondo il consigliere Salvotti (l'unico
votante contrario al conchiuso), dal momento che lo stesso quesito era già stato proposto negli
anni precedenti e i tribunali, d'accordo con la Cancelleria aulica unita, si erano dichiarati
favorevoli alla sospensione del giudizio statario. Rispetto a tale osservazione – forse
polemicamente volta anche a sottolineare l'eccessiva dilatazione di un processo decisionale
che sembrava non tener conto delle opinioni delle autorità giudiziarie lombardo-venete, pur
richiedendole periodicamente – il presidente von Eschenburg conveniva che, se «non
sussisteva più a giudizio del Senato la necessità della conservazione di questa misura,
tantomeno poi essa sussisterà adesso». Sebbene l'osservazione e il confronto tra le tabelle
trasmesse con i rapporti periodici bastassero da soli, secondo il presidente, a dare la cifra
dell'aumento o decremento dei giudizi statari e quindi dedurne la superfluità, tuttavia questi
dati non sarebbero stati sufficienti per emettere un fondato parere sulla convenienza o meno
del loro proseguimento in Lombardia sul piano della risonanza pubblica. Il parere dell'appello
andava quindi richiesto allo scopo di sapere «quale effetto ha generalmente prodotto su quella
popolazione la sussistenza del giudizio statario negli anni ultimi decorsi»107
.
La citata sr. 10 maggio 1829, alla quale rispondeva la relazione sul processo sopra riassunta,
richiedeva appunto al Senato di trasmettere un «circostanziato rapporto» sullo svolgimento
del giudizio statario in questione, sulle sue eventuali irregolarità e sulle deliberazioni prese in
proposito.
Secondo il Supremo tribunale veronese, dal punto di vista sostanziale nessun errore era stato
commesso. Dopo aver passato in esame tutte le prove legali a carico del Trenti
(principalmente il fatto che egli era stato identificato con sicurezza dalle vittime della rapina
come aggressore), la relazione riconosce che se i veri colpevoli non avessero dichiarato
106
Forse si tratta del commissario che, secondo la sopra citata relazione 15 luglio 1829, il Governo di Milano
avrebbe inviato in loco per indagare sull’accaduto. 107
Ibidem, cc. 2305-2306.
258
l'innocenza dell'oste «nessuno al certo avrebbe dubitato che Trenti fosse una vittima condotta
al patibolo per un’ingiusta condanna. E però non vide, e non vede il fedelissimo Senato, quali
deliberazioni avesse a prendere per prevenire o riparare un errore da non ripetersi, né
dall’indole, né dalla procedura del Giudizio statario, ma che poteva benissimo essere comune
anche al Giudizio ordinario».
Per quanto riguarda l'aspetto procedurale, la Cancelleria aulica riunita, il cui parere viene
riportato e commentato nella relazione, riteneva che l'eccessivo intervallo di tempo intercorso
tra il delitto e la convocazione del consesso statario avrebbe inficiato la legalità dello stesso.
Tuttavia né il codice penale né la relativa notificazione 24 luglio 1821, osservano i senatori,
stabilivano dei termini precisi in questo senso, bensì esclusivamente quelli entro i quali
concludere il giudizio una volta convocato108
.
I protocolli di consiglio della sessione 15 luglio 1829 nel corso della quale la relazione fu
discussa, riportano anche il parere di minoranza del senatore Salvotti; secondo il consigliere,
nel caso in questione non sarebbero stati rispettati i principi fondanti della procedura stataria
poiché
la polizia di Brescia fece arrestare sull'appoggio di vaghi sospetti gli imputati […] contro i quali
dunque all'atto del loro arresto non esistevano ancora indizi legali della loro reità. Sarebbe stato dovere
del giudizio Statario di esaminare prima di tutto gl'indizi militanti in odio degl'imputati, e di dichiararsi
incompetente dopo aver verificato la mancanza di legalità degli indizi stessi al momento
dell'arresto109
.
L'opinione di Salvotti non fu tuttavia recepita dalla maggioranza dei votanti, che dichiararono
non essersi verificati sostanziali vizi di forma. La relazione fu inviata, in obbedienza al
sovrano rescritto 22 agosto 1829, alla Commissione aulica di legislazione «onde nella
revisione del Codice penale vi abbia quel riguardo che troverà del caso»110
.
108
Relazione 15 luglio 1829, ASMi, SLV, b. 53, fasc. VI 184. 109
Sessione 15 luglio 1829, ASMi, SLV, b. 130, cc. 1702-1712. 110
Sessione 4 settembre 1829, ASMi, SLV, b. 131, c. 2219. Qualche accenno sui lavori di revisione del codice
penale ai quali la relazione fa appunto riferimento: la sr. 17 giugno 1817 assegnò al consigliere aulico von Zeiller
il compito di riferire sul perfezionamento della legislazione; von Zeiller presentò una prima proposta, relativa al
diritto materiale, il 9 novembre 1823, ed una seconda, sulla procedura, l'8 febbraio 1825. Un disegno di legge
sulle gravi trasgressioni di polizia venne avanzato nel 1824. Dal 1828 la Commissione aulica di legislazione in
affari giudiziari si occupò intensivamente delle proposte, e la sr. 28 gennaio 1830 ne ordinò la discussione. Come
referente fu nominato Sebatian Jenull (mentre il consigliere Kaunitz dovette occuparsi delle trasgressioni di
polizia). Le discussioni terminarono solo il 25 aprile 1848; nel frattempo gli avvenimenti rivoluzionari
rimandarono i lavori di riforma. F. Hartl, Grundlinien der österreichischen Strafrechtsgeschichte bis zu
Revolution von 1848, in Die Entwicklung der österreichisch-ungarischen Strafrechtskodifikation im XIX-XX.
Jahrhundert, hg. von G. Máthé, W. Ogris, Budapest, Unió, 1996, pp. 13-54: 47. Nel fondo “Hofkommissionen”,
259
Un ultimo rapporto111
venne infine presentato l'anno successivo, su sollecitazione della
Cancelleria aulica riunita112
, a conclusione delle discussioni intavolate tra le diverse autorità
politiche e giudiziarie del Regno: i tribunali criminali, l'appello milanese, il Governo
lombardo ed il Viceré. Ancora una volta esse manifestarono invano le loro riserve verso un
provvedimento straordinario inefficace nel contenimento della criminalità, come chiarivano i
dati quantitativi; svuotato di quel carattere eccezionale, dopo il biennio 1816-1817, che ne
avrebbe giustificato un utilizzo intenso e sistematico; pericolosamente soggetto ad errore,
come aveva palesato il caso in questione.
La tabella numerica dei giudizi statari e delle rapine commesse negli anni 1816-1829, stilata
«a maggior dilucidazione» sui risultati della commissione mista rassegnati dall'appello113
ed
allegata ai protocolli inviati alla Cancelleria aulica riunita, dimostrava infatti, secondo i
consiglieri, da una parte che «la continuata spaventevole frequenza dei delitti [di rapina] nella
Lombardia [fosse] l'effetto ordinario delle solite cause che strascinano al delitto medesimo
anziché l'effetto di speciali temporanee cause, che ne producano accidentalmente una
straordinaria frequenza, alla di cui momentanea repressione ha la legge introdotto lo
straordinario rimedio del giudizio statario»; dall'altra che quest'ultimo «non [fosse] quel
mezzo atto ed efficace a far scemare la frequenza di questi delitti».
La pericolosità del giudizio statario si sarebbe declinata anche su un piano più generale, che
coinvolgeva, secondo il Senato, l'intero sistema penale e il principio di proporzionalità dal
quale esso doveva essere informato:
Il voler dopo 14 anni far continuare uno straordinario giudizio in tante Province indistintamente, è lo
stesso che dichiarare ordinaria una procedura e pena che la legge ha disposta e fissata soltanto come
temporario rimedio per casi affatto speciali, in qualche singolo distretto. Con ciò contro le massime
fondamentali della giustizia punitiva si toglie quella necessaria gradazione di pena che la legge nella
ordinaria procedura ha stabilito per questo delitto gradatamente dalli 5 anni di carcere alla pena di
morte; ed in effetto si va per lo più a colpire coll'estremo supplizio i rei meno perversi e meno esperti,
che s'inducono a confessare, mentre i più depravati ed abbituati a questo delitto, persistendo nelle loro
negative […] devono comunemente rimettersi al giudizio ordinario.
purtroppo molto danneggiato dal fuoco, si trova infatti un restaurato “Entwurf des I Theiles des Strafgesetzes
über Verbrechen zu Folge der Beschlüsse der zur Revision des Strafgesetzbuches A. H. niedergesetzten
Commission nach ihren ersten Berathungen vom 21 Jänner 1829 bis 6 Junius 1832” (OeStA, AVA, OJ, HKo, K.
90). I Karton 111 e 112 dello stesso fondo, estremamente rovinati, contengono inoltre migliaia di pagine di
protocolli che probabilmente sono il frutto del lavoro delle commissioni, ma privi di intestazione e di data. 111
Sessione 3 luglio 1830, ASMi, SLV, b. 136, cc. 1814-1817. 112
Sessione 9 dicembre 1829, ASMi, SLV, b. 132, cc. 3186-3187. 113
Sessione 7 novembre 1829, ASMi, SLV, b. 132, c. 2864.
260
La revoca dell'editto 2 gennaio 1816 che aveva attivato il giudizio statario in tutte le province
lombarde indistintamente, con l’esclusione della Valtellina, non avrebbe tuttavia escluso la
possibilità di proclamare singoli giudizi qualora si fossero verificati gli estremi previsti dal
§505, limitatamente ad alcuni specifici distretti. Mutando parere rispetto a quanto suggerito
qualche anno prima, la maggioranza dei consiglieri respingeva il progetto della commissione
mista di non rendere pubblica tale deroga, poiché «in questi oggetti [esigono] la giustizia e la
dignità del Governo di procedere con tutta apertezza e fermezza». La proposta venne però
accolta con favore dal voto di minoranza dei consiglieri Castellani e Bonacina; secondo i due
senatori (e secondo il presidente che ne condivideva l’opinione), l'eventuale sospensione
dell’editto di attivazione non avrebbe dovuto essere resa nota, «giacché ciò produrrebbe nei
più facinorosi forse un incentivo al delitto e nei tranquilli abitanti un motivo di maggior
timore». Gli inconvenienti della procedura stataria – originati dal fatto che essa, utilizzata
quale «misura di permanenza», andava a «colpire talvolta con pena troppo grave le rapine
meno attroci ed a punire tra diversi delinquenti quelli che si rendono confessi come meno
depravati» – avrebbero suggerito «non già di levare il giudizio statario per le rapine ma
piuttosto di modificarne gli effetti in modo che la pena fosse sempre proporzionata alla
gravità del delitto, e la maggior pena vada a colpire li più depravati». Con i dovuti
aggiustamenti, lo statario avrebbe potuto essere esteso anche alle province venete, «dove pure
il fatalissimo delitto di rapina si è reso più frequente di quello lo fosse in addietro». La
proposta concreta dei senatori, non condivisa dalla maggioranza dei votanti ma che vale
comunque la pena di riportare, era quella di istituire al posto dei tribunali delle commissioni
speciali, sottoposte a procedure più sbrigative, dotate della facoltà di applicare le misure
straordinarie previste dal §455 – in modo da indurre ai delinquenti il timore che «nemmeno il
difetto di prova legale basta a salvarli» – ed obbligate ad esacerbare in ogni caso le pene
temporanee con i famigerati colpi di bastone da infliggersi sul luogo del commesso delitto: «il
ribrezzo, che hanno gli Italiani per la pena del bastone renderà anche la pena temporaria
accompagnata da questo inasprimento più temibile ed esemplare forse di qualunque altra, e
più efficace ove si infligga sul luogo del delitto».
È opportuno fare qui una digressione. L’applicazione della pena della bastonatura nei territori
lombardo-veneti è significativa per due ordini di motivi: anzitutto, essa segnala un’ulteriore
differenza tra le province italiane – ove era percepita quale odiosa ed infamante espressione
degli aspetti più barbari ed arretrati del sistema legislativo – e gli altri Länder della
Monarchia. Anche in questo caso, poi, la discussione della autorità politiche e giudiziarie
intorno all’opportunità dell’utilizzo di tale strumento punitivo si misura con le due consuete
261
ed opposte esigenze: l’efficacia intimidatoria e l’aderenza ad un pubblico consenso.
Nell’impero austriaco i colpi di bastone erano previsti sia come pena per le gravi trasgressioni
politiche – ciò che nel Regno Lombardo-Veneto era stato abolito già con sr. 14 marzo 1816114
– sia come inasprimento delle condanne detentive. Nel primo capitolo abbiamo accennato alla
moderazione, per altro caldeggiata anche dall'imperatore115
, con cui questa esacerbazione
veniva praticata nelle province lombarde e venete. Una relazione del 1825116
, compilata dal
Senato su sollecitazione del Viceré117
, informa proprio sull’utilizzo della bastonatura nelle
varie città del Regno, che secondo l’arciduca Ranieri avrebbe dovuto essere molto più
frequente, «essendo il bastone in questo Paese un mezzo più atto per ottenere la confessione,
che nol sono il digiuno, i ferri, e le catene», suggerendo ai tribunali – soprattutto quelli
lombardi – di «non lasciarsi abbagliare, che l'idea del castigo del bastone degradi la Nazione,
ma anzi ove la Legge lo permette di minacciarlo, e se la minaccia non frutta d'usarlo»118
. Dal
rapporto del Senato, in effetti, si ricava che i delinquenti lombardi e veneti venivano bastonati
tutto sommato di rado ed esclusivamente allo scopo di punire tentate fughe o condotte
«pertinaci»; mai, con l’eccezione di un solo caso, come esacerbazione di una pena detentiva.
La relazione sollevava un ulteriore aspetto che avrebbe concorso a determinare la sporadicità
di tale castigo; un aspetto che richiama quanto già osservato nel primo capitolo a proposito
dell'emarginazione sociale del boia e del rifiuto dei secondini di collaborare alla messa in atto
di punizioni umilianti per i condannati, come l’esposizione alla berlina. Anche in questo caso,
osserva il Senato, capitava che gli inservienti delle carceri rigettassero di eseguire le
bastonature. Ciò era ad esempio successo al Tribunale di Belluno, che sino a quel momento
aveva fatto ricorso una sola volta all’inasprimento in oggetto; ma «siccome si erano allora
rifiutati i secondini dal prestarsi a questa esecuzione, fu d'uopo servirsi di estranea persona
che si cuoprì la faccia onde non essere conosciuta».
La questione sollevata dal Viceré si risolse due anni più tardi, allorché la Commissione aulica
di legislazione in affari giudiziari e la Cancelleria aulica riunita comunicarono al Senato
(affinché manifestasse anch'esso la propria posizione) il loro parere negativo sull’opportunità
di reintrodurre nel Regno Lombardo-Veneto il castigo corporale per le trasgressioni politiche
abrogato nel 1816. Secondo i due dicasteri viennesi – osservazione con la quale il Senato
conveniva unanimemente –, la sr. 14 marzo 1816
114
Sul punto si veda Garlati Giugni, Nella disuguaglianza la giustizia, pp. 96-111. 115
Sr. 26 luglio 1819, ASMi, SLV, b. 87, c. 3234, riportata in Grandi, Processi politici, p. 207.
116 ASMi, CA, CV, 1825; il rapporto è pure trascritto in Grandi, Processi politici, pp. 736-738. 117
Grandi, Processi politici, p. 253. 118
Il commento del Viceré alla relazione pervenne al Senato nel dispaccio discusso nel corso della Sessione 13
dicembre 1825, ASMi, SLV, b. 113, cc. 3112-3117.
262
venne accolta con generale applauso in queste province, i cui abitanti essendo rimasti esenti da questa
pena sotto la cessata legislazione italica avevano veduto con sommo dispiacere introdursi una specie di
castigo, che a loro dire apparteneva alle barbarie dei più remoti secoli. Volendo ora riattivare una pena
aborrita dalla pubblica opinione non solo si incontrerebbero tutte le sinistre conseguenze, che da tali
urti non vanno mai disgiunti, ma si esporrebbe il Governo anche alla censura di essere titubante e
variabile nelle sue massime119
.
6. Ulteriori interventi di dissenso
Il parere favorevole all’abolizione dei giudizi statari della maggioranza dei senatori non venne
recepito dalla sr. 29 dicembre 1830120
;
la quale, rifiutandone la sospensione, chiuse
definitivamente la discussione.
Negli anni successivi, tuttavia, esaminando la spinosa questione dei mezzi atti ad arginare la
criminalità nel Regno, il Senato veronese avrebbe continuato a ribadire la sua contrarietà nei
confronti del giudizio statario e delle eventuali modifiche orientate nel senso di una maggiore
flessibilità della procedura, proponendo piuttosto rimedi alternativi a suo avviso più efficaci.
In una lunga relazione del gennaio del 1838121
, il consigliere Salvotti tratteggiava un quadro
estremamente lucido e molto critico della pubblica sicurezza nel Lombardo-Veneto e dei
conseguenti provvedimenti giudiziari e politici messi in atto nel corso degli anni precedenti,
ravvisandone i risultati ed i limiti. Osservando i dati quantitativi122
dei delitti commessi nei
119
ASMi, SLV, b. 122, c. 2348 (cfr. anche Grandi, Processi politici, pp. 296-298). 120
Sessione 18 febbraio 1831, ASMi, SLV, b. 139, c. 410. 121
Sessioni 17 e 19 gennaio 1838, ASMi, SLV, b. 180, cc. 260-316 (segnalate e trascritte, in alcune parti, in
Grandi, Processi politici, pp. 508-511). La relazione discute un rapporto della Cancelleria aulica riunita che il
Dicastero aulico di Polizia, con nota 24 giugno 1827, aveva trasmesso al Senato allegando il proprio parere. 122
Salvotti lamenta tuttavia i limiti delle tabelle nelle quali venivano riassunti i dati criminali: «formarsi una idea
chiara e precisa dello stato della pubblica sicurezza nel Regno Lombardo-Veneto è cosa impossibile. L'uomo di
Stato, che non può seguire gl'impulsi, che bene spesso derivano da un timore esagerato, vorrebbe formare i suoi
giudizi sui fatti positivi, ma questi fatti sono così complessi e vari, che a farli emergere in modo chiaro e
dettagliato vorrebensi ben altri soccorsi che quelli che vennero fin qui somministrati dalle tabelle adottate.
Queste tabelle sono assolutamente manchevoli nel loro organismo; e non corrispondono allo scopo cui dovriano
servire». Al di là degli errori quantitativi, «questo prospetto numerico non può mai offrire una idea positiva dello
stato della pubblica sicurezza, né della moralità degli abitanti. Né delle tendenze più o meno criminose che
veramente convenisse più specialmente reprimere, e molto meno delle cause, alle quali con maggiore o minore
probabilità attribuir si dovesse la maggiore o minore emersa frequenza dei delitti. […] Le tabelle dovrebbero
presentare possibilmente completo il quadro della malattia sociale; imperocchè senza una previa conoscenza
della medesima non si possono applicare i rimedi, che fossero richiesti dalle peculiari circostanze del paese, alla
pubblica sicurezza del quale vuolsi efficacemente provvedere. Le nostre tabelle sono concepite dietro una idea
semplicissima, ma sventuratamente con questa semplicità non si raggiunge lo scopo che si doveva prefiggere e il
cui difetto nelle presenti discussioni si appalesa evidentissimo e grave. Compilare un quadro statistico sui delitti,
onde è travagliata la società, non è lavoro molto facile; ma dopo tutto quello che si è fatto anche in estranei paesi
su questi oggetti, e dopo tutto ciò che si è stampato in questa materia, non sarebbe difficile l'avvicinarsi ad una
maggiore perfezione. Sarebbe però mestieri, che Sua Maestà ordinasse agli aulici Dicasteri di comunicarsi su
questo proposito le proprie idee, onde dietro un piano uniforme e con esaurienti formulari guidare le inferiori
263
sette anni precedenti, la debole diminuzione delle rapine sia in Lombardia che in Veneto – a
fronte tuttavia di un aumento del numero dei delitti complessivi – in conseguenza alle più
rigorose misure di polizia adottate dopo il 1831, non sarebbe stato, secondo Salvotti, un
risultato soddisfacente. Nelle province lombarde, in particolare, il «freno» alla criminalità
esercitato dalle autorità giudiziarie si era rivelato più inefficace che nelle province venete. Il
giudizio statario, in vigore in Lombardia da più di vent'anni, «non produsse tutti gli utili
risultati che se ne attendeva la popolazione e il Governo. E ciò derivava dalla nessuna
influenza che una tal procedura aveva sulla scoperta e sul convincimento del delinquente –
mentre non la gravità, ma la certezza della pena trattiene l'uomo dal delitto». Proprio la totale
sproporzione tra delitti commessi e delitti scoperti e puniti, soprattutto in Lombardia –
sproporzione che si declinava tanto nel processo ordinario quanto in quello statario e che era
stata solo marginalmente assorbita dalla riforma del §412 – rappresentava, secondo il relatore,
il problema più urgente e macroscopico dell'amministrazione della giustizia nel Regno:
la scoperta del delinquente vi si può ravvisare per una mera casualità; la regola sta per la perfetta
oscurità, in cui deve stare l'Autorità sull'autore del delitto, vale a dire la regola sta per l'impunità; ed
una tal regola renduta viva ed efficace nella opinione del popolo va a diventare lo stimolo più possente
al delitto, stimolo che invano si spera di superare con altre misure più o meno rigorose, più o meno
legali.
Seguendo uno schema frequente nei documenti di questo tenore, la relazione passa quindi in
rassegna i fattori criminogeni che avrebbero determinato la specificità delinquenziale
lombardo-veneta. La prima causa, come di consueto, veniva ravvisata nel «guasto morale
degli abitanti» soprattutto delle campagne, attribuito essenzialmente ai «politici
sconvolgimenti» dei decenni precedenti; non solo quelli interni ma anche quelli
che nati in più vicini o più remoti paesi diventano per la loro notorietà popolare il triste argomento dei
comuni discorsi. Le masse popolari non possono considerarsi oggidì rendute di tal modo straniere ai
discorsi che ne conseguitano, da doverli considerare siccome fenomeni del tutto indifferenti alle viste
dell'uomo di Stato. D'altronde la novella generazione è educata da quella che nacque e crebbe nelle
vicende che più dappresso turbarono l'ordine sociale di questi paesi medesimi. E come il germe dei
mali fisici si propaga nelle famiglie, ciò stesso avviene col germe della corruzione morale.
Autorità, dalle quali sole possono essere forniti i singoli elementi di quel quadro generale che si desidera».
264
Non poteva tuttavia essere compito della autorità politiche e amministrative quello di
instillare nella popolazione i precetti morali: «Lo Stato deve qui necessariamente essere
soccorso dai ministri della religione; imperciocché la moralità non si lascia disgiungere dalla
religiosità, massimamente nelle classi popolari. Migliorare la moralità è dunque sinonimo che
meglio diffondere la religiosità». Lo Stato allora poteva lavorare a latere, allo scopo di
rendere più efficace l'azione del clero, attraverso la diffusione dell'istruzione elementare e la
sorveglianza sulla scelta dei curati e dei parroci.
Altra essenziale fonte di disordine sociale era, secondo Salvotti, l'applicazione smodata del
precetto politico – misura di polizia volta a «limitare o dirigere per un tempo breve
determinato l'esercizio della libertà individuale in coloro che sono conosciuti capaci di
abusarne a danno della pubblica sicurezza»123
, che si colloca “a margine” delle pratiche
giudiziarie – soprattutto in Lombardia ove i precettati erano più di 23.000 (a fronte dei 2000
in Veneto). Uno strumento repressivo più dannoso che utile, pericoloso in quanto esercitato
arbitrariamente dalla polizia, sulla base di una prassi risalente al governo italico124
, nonché
socialmente deleterio poiché coloro i quali ne venivano colpiti sarebbero ineluttabilmente
caduti entro un circolo vizioso che li avrebbero portati, in una spirale senza via d'uscita, dai
margini della società al carcere e da questo di nuovo ai margini della società:
i precettati veng[o]no a costituire […] una classe separata e distinta di persone, che si educano alle
colpe ed ai delitti. Il precettato è come segnato in fronte da un marchio d'infamia, che tiene da lui
lontane le persone migliori, e rifiutato da esse deve necessariamente procurarsi il consorzio dei suoi
simili. [...] E' duopo adunque riparare a questo disordine. La società ha tutto l'interesse essa stessa di
utilizzare queste forze e di deviarle dalla carriera del delitto […]. Innegabile essendo il fatto della
forzata loro disoccupazione, deve il Governo accorrere al riparo – ammazzarli non si può – l'autorità
militare non vuole accoglierli, e così finora si credette di avere a tutto provveduto col precetto
politico. Ma questo null'altro risultato produsse, che di far alternare la vita di tutti costoro fra la libertà
e la prigione.
La relegazione di alcuni di questi individui nelle fortezze ungheresi125
, nei primi anni Trenta,
123
V. Guazzo, s. v. Precetto politico, in Enciclopedia degli affari, ossia guida universale per la cognizione e
conformazione di qualunque atto, e per lo sviluppo di qualsiasi affare tanto tra privati, come avanti qualunque
Autorità od Ufficio, vol. 7, Padova, Crescini, 1853, p. 215. 124
Sul punto cfr. F. Bortoluzzi, Il Precetto politico nelle province venete (1813-1850), in Amministrazione della
giustizia penale, pp. 271-289. Si vedano, per confronto, le pagine sul precetto nello Stato Pontificio di S. C.
Hughes, Crime, disorder and the Risorgimento, Cambridge, Cambridge University Press, 1994, soprattutto pp.
87-94. 125
Cfr. L. Pete, Lo Spielberg ungherese, in L’alba dell’Europa liberale, pp. 65-74, e il più risalente A. Gianola,
265
non era stata che una temporanea ed effimera valvola di sfogo. L'accorata critica di Salvotti al
mezzo del precetto politico non nasconde certo una evidente – e già più volte rilevata –
frizione tra magistratura e forze di polizia, accusate dal senatore di non saper che dispiegare
un arbitrario rigore “intermittente”, il cui unico risultato era quello di acquietare le critiche
sollevate contro le autorità politiche e giudiziarie, considerate pubblicamente incapaci di
prevenire e punire i delitti:
mossa da questi clamori la Polizia [arresta] parecchie decine dei più sospetti precettati esistenti nei
dintorni ove il delitto è successo. Sottentra per poco una calma locale; tutti applaudono alla spiegata
energia – il colpevole è dunque arrestato. Ma dopo alcun tempo di indagini penose, dispendiose e
inutili – bisogna ridonare a tutti costoro la libertà. I delitti si riproducono – e la scena ripiglia il suo
corso di prima.
Misure più efficaci sarebbero quindi state le case di industria e di lavoro forzato, già
frequentemente caldeggiate negli anni precedenti, e un'apposita legge contro il
vagabondaggio – fenomeno al quale veniva ricondotta la maggioranza dei delitti, soprattutto
nell'alto milanese – in quel torno di tempo in fase di elaborazione di concerto con i governi.
Il consigliere annoverava infine ulteriori fattori che avrebbero contribuito a determinare la
proliferazione degli episodi criminali: l'esteso confine difficile da sorvegliare; la frequente
diserzione degli arruolati forzosi (della posizione di Salvotti in merito all’arruolamento coatto
abbiamo già riferito nel terzo capitolo) e la refrattarietà alla coscrizione; l'eccessivo numero
delle bettole, che per le classi popolari avrebbero rappresentato «ciò che erano per le più
elevate le case da giuoco»; l'insufficienza della forza pubblica; la diffusione del contrabbando
perlopiù impunito126
; il già denunciato sovraffollamento delle carceri il quale, oltre a
rappresentare una «fonte perenne di morale corruzione», soprattutto costituiva un ostacolo
allo svolgimento dei processi criminali, poiché alla «scuola delle carceri» – qui Salvotti
riprende la consueta interpretazione dei pericoli della detenzione – gli imputato avrebbero
appreso i modi in cui evitare la condanna ed eludere il lavoro degli inquirenti; l'esagerata
lentezza delle inquisizioni criminali, che andavano sovente ad «affogarsi nel pozzo della
registratura».
Deportati lombardo-veneti in Ungheria dal 1831 al 1848, Modena, Società tipografica modenese, 1934. 126
Sul tema del contrabbando si rimanda a E. Saurer, Strasse, Schmuggel, Lottospiel. Materielle Kultur und Staat
in Niederösterreich, Böhmen und Lombardo-Venetien im frühen 19. Jahrhundert, Göttingen, Vandenhoeck &
Ruprecht, 1989.
266
In seguito ad un sensibile aumento delle rapine consumate sia in Lombardia che in Veneto nel
corso del 1837 rispetto all'anno precedente, il Senato venne sollecitato127
ad esporre le
necessarie delucidazioni sul fenomeno ed eventualmente i rimedi per arginarlo. In conformità
alla prassi usuale, il tribunale veronese chiese a sua volta il parere dell'appello lombardo, il
quale trasmise le proprie interpretazioni e proposte: le rapine non avrebbero subito un
aumento effettivo, bensì relativo al solo anno 1836, nel corso del quale il numero dei delitti
era insolitamente diminuito per una serie di fattori, ovvero «il terrore che incusse il flagello
del cholera morbus anche agli animi dei malvagi» e la cessata attività di «due bande di
aggressori, che dicansi sciolte».
I provvedimenti suggeriti dall'appello e dal Senato allo scopo di arginare i fenomeni criminali
ruotano, come di consueto, attorno al binomio educazione ed indottrinamento/severità
repressiva e punitiva: accanto alla sostituzione del terrore suscitato dal cholera morbus con «il
timore di Dio e delle pene umane mediante una migliorata educazione e mediante una pronta
e rigorosa esecuzione della giustizia punitiva», si caldeggiava il potenziamento della vigilanza
della pubblica sicurezza. «La generazione meglio educata» – osservava il relatore Schrott in
un'interessante digressione socio-famigliare – «diverrà anche la generazione moralmente
migliore». L'educazione dei giovani nel Lombardo-Veneto avrebbe tuttavia presentato
maggiori problemi rispetto a quanto avveniva nelle antiche province dell'impero,
nelle quali non regge la tanta libertà d'incontrare matrimoni che sussiste in questo Regno anche per la
gente che vive affatto senza garantiti mezzi di sussistenza. Sarebbe interessante se le tabelle statistiche
ci offrissero i dati della proporzione nel numero dei delinquenti fra i figli legittimi ed illegittimi; ma
anche senza di ciò non si corre pericolo di sbagliare coll'asserire come risultato pratico di molti
processi criminali che la maggior parte dei delinquenti si è la prole legittima o legalmente ritenuta per
legittima, procreata in sussistenza di matrimoni di gente povera e disperata. Sono un male i parti
illegittimi, ma sono un male per la società forse maggiore, ed al certo maggiore per la sicurezza
pubblica i figli di gente povera e disperata.
I senatori non accolsero tuttavia il parere dell'appello secondo il quale un provvedimento atto
ad arginare il fenomeno, e conseguentemente la criminalità, poteva essere identificato, oltre
che nell'azione del clero, anche nell'elaborazione di una legge che limitasse nel Regno
Lombardo-Veneto la libertà di contrarre matrimonio tra due persone dotate di mezzi troppo
127
Come richiesto dal sovrano biglietto 20 febbraio 1838 riportato nei protocolli della sessione 2 marzo 1838,
ASMi, SLV, b. 181, c. 872.
267
precari128
.
Accanto ad osservazioni di questo tenore viene avanzata, pur molto timidamente, una
riflessione che appare in qualche modo più lungimirante, più in linea con i concreti, urgenti,
acuti disagi economici della popolazione lombardo-veneta, inaspriti dall’incremento dei
prezzi dei generi di prima necessità: «una calamità mandata dal cielo, difficilmente riparabile
dal Governo» e tuttavia «non potendosi non scoprire, massime sulle piazze delle città, lasciate
per così dire in balia dei rivenditori, che la carestia dei viveri è in parte anche artificiale,
potrebbe per avventura con delle misure politiche essere messo in generale un qualche freno a
questa classe d'imoderati speculatori»129
.
Le «modificazioni legislative riguardo al giudizio statario e della patente 6 luglio 1833
intorno alla prova indiziaria» finalizzate alla «più sicura ed energica esecuzione della giustizia
punitiva» proposte dall'appello, vennero invece accolte in Senato solo da due consiglieri, Pace
Bonacina (il quale già si era dichiarato favorevole al mantenimento dei giudizi statari) e
Zaccaria Sartori. Secondo Bonacina essendo «la prontezza della pena del delitto
principalmente atta ad incutere al popolo una durevole, salutare impressione» sarebbe stato
opportuno stabilire che, qualora in un processo statario non si fosse raggiunta la prova
richiesta dal §430 per poter irrogare una condanna capitale (ovvero la confessione o più di una
testimonianza concorde) ma la colpevolezza dell'imputato fosse stata comunque provata
legalmente, allora il consesso avrebbe potuto pronunciare la pena che sarebbe stata inflitta
secondo la procedura ordinaria. La maggior parte dei senatori ritenne tuttavia non fosse
opportuno modificare la patente da così poco tempo attivata, né tantomeno i paragrafi del
codice «standosi ora in aspettazione del nuovo codice penale»130
.
128
La stessa proposta era stata avanzata da Czoernig nel suo memoriale del 1833 al quale già abbiamo fatto
riferimento (Meriggi, Il Regno Lombardo-Veneto, p. 182). D'altra parte, come accennato sopra in nota, a
differenza che nel Lombardo-Veneto, in alcune zone dell'impero chi intendeva contrarre matrimonio doveva
essere previamente legittimato dalla autorità politiche, e tale permesso era vincolato ad un reddito minimo; ad
esempio in Tirolo questa regola, emanata dalla Dieta nel 1820, rimase in vigore fino al 1921. A questo proposito
si vedano, in senso comparativo, anzitutto E. Mantl, Heirat als Privileg. Obrigkeitliche Heiratsbeschränkungen
in Tirol und Vorarlberg 1820 bis 1920, Wien-München, Verlag für Geschichte und Politik-R. Oldenbourg Verlag,
1997 e C. Grandi, All’altare col permesso: amore e burocrazia nel Trentino asburgico, in Amori e trasgressioni.
Rapporti di coppia tra ‘800 e ‘900, a cura di A. Pasi, P. Sorcinelli, Bari, Dedalo, 1995, pp. 189-225; ma anche
Saurer, Il matrimonio fra obbligo e privilegio, pp. 159-160; Ead., Aspetti della storia delle relazioni d'amore;
Bellabarba, Storie di polizia e di famiglie, pp. 278-279. 129
Il meccanismo di speculazione al quale si riferisce il consigliere Schrott è efficacemente chiarito, per il caso
veneto e in riferimento alla grave carestia del 1846-1847, da P. Brunello, I mercanti di grano nella carestia del
1846-47 a Venezia, «Studi storici», XX (1979), 1, pp. 129-156. 130
Sessione 10 settembre 1838, ASMi, SLV, b. 184, cc. 3116-3124.
268
5. Conclusioni
Il processo statario – pur segnato per sua natura da una irriducibile ambiguità in quanto
procedura straordinaria esercitata dalle magistrature ordinarie – nel primo biennio di
attivazione sembra, se non rispondere ad un concreto stato di emergenza, quantomeno
fungere, come avrebbe dovuto, da misura repressiva d'eccezione; la quale, con uno scopo
speculare ma di segno opposto rispetto a quello dei provvedimenti generali di amnistia
concessi massicciamente nei primi mesi di Restaurazione, era finalizzata al rapido
ristabilimento dell'ordine pubblico. Un'eccezionalità che nei fatti, come abbiamo visto, si
sarebbe rivelata ordinaria dato il numero costante dei crimini socialmente allarmanti perpetrati
in Lombardia.
Eppure, i tratti più contraddittori dei giudizi statari emersero proprio dal 1818, quando la
continuità del loro utilizzo li rese, per usare le sopra citate parole del presidente del Senato
Lombardo-Veneto von Eschenburg, un «istituto stabile»; una «misura di permanenza», come
osservarono altri consiglieri aulici. La relativa sporadicità con la quale gli stessi sarebbero
stati convocati, assimilabile quantitativamente alle sentenze capitali irrogate dai tribunali
ordinari, avrebbe depotenziato lo stato d'eccezione riconducendolo alla normalità e posto con
urgenza agli stessi senatori degli insormontabili problemi di proporzionalità delle pene e
coesistenza di ordinario e sommario.
Le osservazioni del Senato sopra riportate sulla vanificazione, perpetrata dall'utilizzo del
giudizio statario, della gradazione delle pene – fondamentale principio della giustizia
criminale – esplicitano con chiarezza questa aporia. Si ha ragione di credere poi – anche se le
fonti non lo dichiarano esplicitamente – che tale sproporzionalità vada letta anche in chiave
territoriale, dato lo sbilanciamento tra Lombardia e Veneto, dove il giudizio statario non venne
mai attivato.
La resistenza che da Vienna si opponeva all'abolizione dei giudizi statari, nonostante la
posizione unanimemente contraria delle autorità politiche e giudiziarie del Regno e degli altri
dicasteri centrali interpellati sulla questione, può essere forse interpretata come la volontà di
garantire da una parte un potente mezzo straordinario di repressione utilizzabile in caso di
necessità: una «risorsa efficace» che non doveva mancare allo Stato, come esplicita la sopra
citata sr. 21 agosto 1817; dall’altra un esempio di un rigore che evidentemente le procedure
ordinarie non erano in grado di trasmettere, data l'allarmante quantità, soprattutto il
Lombardia, di crimini e trasgressioni. «Frequenti in questo Regno sono sgraziatamente le
rapine ed aggressioni d’ogni genere» – così commentava il Senato un caso di uccisione e
rapina giudicato in via ordinaria dal Tribunale di Rovigo nel 1823 – «e pochi sono i casi
269
all’incontro in cui si possano colpire i rei con tremendo castigo»131
.
In tal senso il giudizio statario va interpretato quale strumento di controllo della società che,
come osserva Ettore Dezza, si muove chiaramente nel campo della politica, oltre che in quello
dell'amministrazione giudiziaria132
. In quest’ultima direzione va letta la conduzione parallela,
principalmente negli anni 1817-1822, della prolungata discussione in merito alla riforma del
sistema probatorio – al quale veniva ricondotta dalla magistratura lombardo-veneta la causa
delle numerosissime sospensioni dei processi per difetto di prove legali; punto dolente,
abbiamo già visto, dell'amministrazione della giustizia nel Regno Lombardo-Veneto – e quella
sull'eventuale abolizione dei giudizi statari; come se una più agile irrogazione delle condanne
ordinarie avesse potuto rendere in certa misura superflua l'attività dei tribunali straordinari.
L'opposizione del Senato all'estensione dell'utilizzo della prova indiziaria anche alla
procedura stataria ed alla dilatazione dei limiti temporali della stessa, dimostra come i
consiglieri aulici, nell'impossibilità di abolire il giudizio statario, ne arginassero tuttavia il
raggio d'azione evitando quelle modifiche che, snaturandone il carattere rapido ed eccezionale
in direzione di una maggiore flessibilità, lo avrebbero avvicinato pericolosamente alla
procedura ordinaria.
Prima del 1848 e dell'attivazione dello stato d'assedio, il giudizio statario altro non è che una
sottodiramazione meno garantista della giustizia penale, parallela a quella ordinaria con la
quale instaurava un rapporto sia di contraddizione che di reciproca influenza. Una relazione
biunivoca che si ravvisa chiaramente non solo nella sopra citata questione legislativa della
riforma del §412, ma anche nella più puntuale politica del Senato Lombardo-Veneto in merito
alle sentenze capitali irrogate nel corso dei processi ordinari, con le quali non poteva non
interagire la contemporanea applicazione di una misura sommaria che prevedeva come unica
possibile condanna la pena di morte.
Come osserva Massimo Meccarelli, nonostante il rapporto di continuità attraverso il quale le
formule procedurali d'eccezione degli stati otto-novecenteschi sarebbero state mutuate dalle
procedure d'emergenza dei secoli precedenti, si registra tuttavia un sostanziale mutamento di
paradigma tra antico e nuovo regime: nella fase di prevalenza del diritto comune, le misure
eccezionali si collocavano nel campo della straordinarietà (all'interno di un rapporto di
correlazione tra ordinarium ed extraordinarium), mentre in un contesto giuridico codificato
l'eccezione denoterebbe uno stato di emergenza (che si staglia in contrapposizione, e non più
131
Relazione 19 novembre 1823, ASMi, SLV, b. 48, fasc. VI. 144-2. 132
E. Dezza, L'impossibile conciliazione, p. CLXXVI.
270
in correlazione, con l'ordinario)133
. In questo senso, si potrebbe affermare che il giudizio
statario nella Lombardia del Vormärz sembra essere sospeso a metà strada tra le due categorie
proposte da Meccarelli; con la prassi e la norma ordinarie esso si pone certo in
contrapposizione, pur lasciando intravedere anche importanti punti di contatto, di scambio
reciproco, per quanto problematico e contraddittorio.
Se il Senato aveva la facoltà ed il dovere, nei procedimenti penali ordinari conclusisi con
sentenza capitale, di trasmettere all'imperatore il proprio parere in merito alla eventuale
concessione della grazia per la commutazione della pena, le occasioni nelle quali essa veniva
sconsigliata erano talvolta la conseguenza di una precisa volontà di porre in atto un’azione
riequilibratrice, volta appunto ad arginare parzialmente la difficoltà di conciliare tale
contraddittoria coesistenza. Una conciliazione, quella tra giudizi ordinari e straordinari,
tuttavia impossibile: le cautele che i consiglieri aulici usavano nel lasciar libero corso alle
condanne capitali irrogate dai tribunali ordinari, e le loro disquisizioni, registrate nelle
relazioni e nei protocolli di consiglio, sul valore pedagogico della pena di morte e sull’utilità
di esercitarla in modo efficace e conseguentemente sporadico, si pone in un contrasto irrisolto
– e d'altra parte irrisolvibile – con la contemporanea attivazione del giudizio statario.
133
M. Meccarelli, Paradigmi dell'eccezione nella parabola della modernità penale, «Quaderni storici» 131
(2009), 2, pp. 493-521.
271
ALCUNE RIFLESSIONI A MARGINE
1.
Uno degli intenti di questo lavoro, richiamati già dalle prime pagine, era quello di mettere in
luce i punti di contatto e di divergenza tra i piani di indagine individuati; non solo, quindi, tra
la dimensione normativa, giuridica e pratica della pena di morte e della grazia sovrana, intese
anche nella loro restituzione pubblica, ma pure tra quelle che sono state identificate quali
possibili declinazioni della prassi giudiziaria (delitti comuni, alto tradimento, processo
statario).
Tale prospettiva ha naturalmente richiesto l’analisi di fonti di varia natura: normative (codici,
leggi, risoluzioni), archivistiche (in riferimento, specialmente, alla documentazione
giudiziaria prodotta dal Senato veronese e, in seconda battuta, da altri tribunali lombardo-
veneti; ma anche carteggi, dispacci, relazioni diplomatiche); periodiche, giornalistiche e
giurisprudenziali. È, insomma, dall’interazione tra i vari ambiti di analisi che si può ricavare
un quadro completo e non fuorviato delle basi giuridiche, delle giustificazioni teoriche e degli
utilizzi pubblici delle condanne capitali e delle loro commutazione graziose. Per riprendere le
parole di Aldo Andrea Cassi che aprono l’introduzione a questo lavoro, è proprio lo scarto
esistente tra la norma codificata e la sua applicazione a rivelarsi determinante per
comprendere l’intero meccanismo giudiziario. E, almeno per quanto riguarda la prescrizione e
la reale applicazione della pena di morte, possiamo concludere che è precisamente nella
grazia che si sostanzia questo scarto.
Nell’ambito della criminalità comune, solo l’analisi delle fonti giudiziarie consente, ad
esempio, di misurare la malleabilità di alcune prescrizioni punitive, altrimenti invisibile dalla
prospettiva esclusivamente normativa: si pensi alla pena di morte comminata, ma mai
applicata, per il delitto di falsificazione, o agli omicidi di donne giudicate moralmente
disonorevoli, di cui abbiamo visto qualche esempio nelle pagine precedenti. Per una cultura
giuridica condivisa nel primo caso, in virtù di una mentalità diffusa che si traduceva anche in
campo giuridico nel secondo, le imposizioni del codice si dimostravano impraticabili; ed esse,
pur obbligatoriamente applicate attraverso la pronuncia di una sentenza capitale, venivano
tuttavia arginate, mitigate, depotenziate, proprio grazie allo strumento di cui il Senato
Lombardo-Veneto poteva avvalersi: la proposta di grazia.
272
Questa dialettica tra norma, elaborazione giuridica e prassi, trova una sorta di lente di
ingrandimento nei processi politici: chi limitasse la propria ricerca al codice penale ed ai
relativi commentari ricaverebbe uno scenario molto distante dalla realtà. A loro volta, le
politiche punitive e le procedure penali adottate sia per i reati comuni che per l’alto
tradimento non possono essere messe precisamente a fuoco se non si comprende, in questo
panorama, anche il processo statario con cui esse vanno poste in relazione.
2.
La grazia e la pena di morte non sono che alcuni degli aspetti indagabili grazie all’utilizzo
incrociato e trasversale di fonti di varia natura.
Lo stesso Senato Lombardo-Veneto va necessariamente osservato attraverso la sua concreta
attività; la sua fisionomia, le sue competenze ed i rapporti gerarchici entro cui era inserito
sono molto più complessi e, in un certo senso, “scivolosi”, di quanto si possa ricavare dalla
costituzione che ne dettava la composizione ed il funzionamento. Occorre per altro tener
presente il carattere non sistematico della produzione normativa, soprattutto relativa
all’amministrazione interna, nel corso del Vormärz: come si avrà modo di ripetere nell’ultima
sezione di questo scritto dedicato alle fonti e alla bibliografia, si è rivelato indispensabile far
ricorso alla documentazione archivistica per ricostruire l’impianto normativo degli aspetti
indagati. Sovente le sovrane risoluzioni portanti mutamenti legislativi o costituzionali, anche
significativi, sono rinvenibili solamente all’interno dei verbali delle sedute del Senato, nel
corso delle quali esse venivano discusse per poi essere comunicate alle istanze inferiori con
circolari manoscritte perlopiù irrintracciabili: si pensi alla maggior parte delle disposizioni
prese man mano sul giudizio statario, o alle implicite norme regolanti la composizione
linguistica e regionale del Senato.
I protocolli di consiglio, come è emerso nel corso dello scavo archivistico, rappresentano una
fonte di eccezionale ricchezza, che naturalmente è stata qui utilizzata limitatamente agli
oggetti di interesse ed a quelli correlati, ma che potrebbe offrire innumerevoli spunti per
ulteriori ricerche. D’altra parte le molteplici possibilità di lettura di questo tipo di fonte sono
state ampiamente dimostrate da Claudio Povolo, nei suoi studi sull’archivio del Tribunale di
prima istanza di Vicenza1. Come si è cercato di mettere in luce, i protocolli di consiglio e, in
generale, le relazioni e correlazioni del Senato evidenziano, o fanno intuire, alcune questioni
di estrema importanza: in che modo si configurassero i rapporti gerarchici tra le istanze
giudiziarie e, soprattutto, come essi si risolvessero nella prassi; come si orientassero,
1 Povolo, La selva incantata e Id., Il movente.
273
prevalentemente, le interpretazioni giuridiche dei consiglieri; quale fosse la loro idea di
disordine politico. Non è questa la sede per sottolineare poi l’importanza delle fonti
giudiziarie come «campo di esplorazione» per la storia sociale2, e d’altra parte ciò non era
neppure il fuoco della mia ricerca. Tuttavia, abbiamo visto come le relazioni senatorie siano
percorse da “eccedenze” narrative (a volte probabilmente travalicanti le intenzioni di chi le
produsse3) che permettono di scorgere, in controluce, quella dimensione sociale, economica e,
in senso esteso, politica – spesso altrimenti inavvertibile – la quale poteva appunto richiedere
l’intervento della grazia. Mi riferisco, ad esempio, a fenomeni “sommersi” quali l’infanticidio
(le cui dinamiche possono essere indagate esclusivamente attraverso il filtro, per quanto
deformante ed angusto, del processo penale), ma anche a quel contesto di insofferenza e
instabilità politica del periodo precedente al ’48 che – lo abbiamo accennato in conclusione al
quarto capitolo – i tribunali lombardo-veneti traducevano in frequenti ma poco incisivi (sul
piano punitivo) procedimenti penali.
3.
La conclusione di una ricerca suscita sempre nuovi spunti di prosecuzione, l’apertura di
ulteriori piste di indagine, per mettere in luce gli aspetti inesplorati o approfondire quelli
appena toccati e rimasti sullo sfondo.
Sarebbe anzitutto auspicabile uno scavo più dettagliato delle fonti disponibili dei tribunali di
prima istanza del Regno Lombardo-Veneto (che per il mio lavoro è stato condotto solo
parzialmente); purtroppo, come già rilevato, ciò non è applicabile alle fonti dei tribunali
d’appello, scomparse o inaccessibili.
Un’altra pista di analisi (pur probabilmente difficoltosa, visti i danni subiti dalla
documentazione) è uno studio più sistematico delle carte dell’Oberste Justizstelle – che per
quanto mi risulta costituiscono anch’esse un campo piuttosto inesplorato, salvo il recente
progetto editoriale della Leopold Franzens-Universität Innsbruck sul Senato del Tirolo-
Vorarlberg4 – soprattutto (ma non solo) in senso comparativo: onde indagarne le relazioni con
il contesto lombardo-veneto, anche alla luce dei rapporti personali e professionali (si pensi
alla carriera dei giudici) intercorrenti tra i due tribunali. Abbiamo visto che le relazioni ed i
protocolli del Senato veronese non fanno alcun esplicito riferimento alla giurisprudenza
2 Sbriccoli, Storia del diritto e storia della società, p. 142.
3 C. Ginzburg, Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Milano, Feltrinelli, 2000, pp. 46-47; il concetto è
ripreso anche in Id., Il filo e le tracce, Milano, Feltrinelli, 2006, p. 11. 4 Si tratta di sei volumi, editi a Innsbruck tra il 2003 ed il 2012 sotto la curatela generale di C. Faistenberger, per
i tipi della Innsbruck University Press, con il titolo Ratsprotokolle. Oberste Justizstelle Tyrol.-Vorarlberg. Senat
1814–1844.
274
dell’Oberste Justiztelle e, in generale, ai casi giudiziari delle altre province della Monarchia.
Il discorso è reciproco? Quelle che nelle pagine precedenti ho chiamato “ricorrenze”, ossia le
tendenze interpretative del Senato italiano, si riscontrano anche nel discorso giuridico
prodotto dai senati viennesi? Quali sono gli eventuali elementi di discontinuità? In questa
prospettiva, sarebbe di particolare interesse verificare la risonanza che le interpretazioni
“etnico-climatiche” di giuristi e statistici (ossia la ricordata tendenza a leggere alcuni
fenomeni criminali come “fatalmente” italiani) avevano nella giurisprudenza dell’Oberste
Justizstelle, in riferimento alle altre province con popolazione italiana (soprattutto il Tirolo e
il Litorale).
I risultati della ricerca porterebbero, fatalmente, all’anno della rivoluzione; a voler mettere, in
qualche modo, alla “prova del ‘48” tutto l’impianto ricostruito in questo lavoro. Al di là dei
processi statari e marziali (in parte già studiati), come si comporta l’apparato giudiziario
“ordinario”? Se nella mia analisi ho cercato di mettere in luce le contraddizioni tra processi di
emergenza e processi ordinari, tanto più il problema si porrebbe nel periodo dello stato
d’assedio: come si relaziona a tale contesto di emergenza quella prassi giudiziaria che
abbiamo visto tanto attenta alla questione della pena di morte; quella cultura giuridica che,
dagli anni Trenta, disquisiva sempre più intensamente di riforme in senso “liberale” della
procedura penale? Come insomma viene assorbito, dai giudici e dai giuristi, lo stato
d’assedio? E come viene dibattuto – qualora venisse dibattuto – nella stampa specialistica? In
che modo si riconfigura poi il ruolo delle gazzette, comunicatrici, nel Vormärz, delle politiche
punitive e graziose dello Stato? Come vengono veicolate le sentenze capitali in un periodo in
cui la necessità d’ordine sembra di gran lunga prevalere sulla ricerca del consenso? In ultima
analisi: in che modo quella tensione in più occasioni verificata tra natura segreta del diritto
penale e necessità di comunicazione viene risolta, mutato il contesto politico e istituzionale?
In questa senso, potrebbe rivelarsi proficuo proseguire nella direzione interpretativa proposta
nel primo capitolo, allorché si notava una sorta di incomunicabilità tra sfera giudiziaria e
apparato militare. Sarebbe parimenti interessante ricercare i cambiamenti apportati,
nell’ambito della pena capitale e della grazia, dall’introduzione dei nuovi codici penali
(sostanziale e di procedura) e dalla soppressione del Senato nei primi anni Cinquanta,
indagando quindi il nuovo ruolo mediatore – in questo lavoro appena accennato – del
Ministero della giustizia e dello Oberste Gerichtshof, per verificare quanto tale importante
cambiamento istituzionale abbia avuto riflessi nella prassi giudiziaria: cosa rimane nel
Nachmärz, in altre parole, della trentennale esperienza del Senato Lombardo-Veneto.
275
FONTI E BIBLIOGRAFIA
1. Archivi, fondi e serie archivistiche (con relative abbreviazioni)
ARA: Accademia roveretana degli Agiati, Rovereto
ASMi: Archivio di Stato di Milano
AdG: Atti di Governo
GP (pm): Giustizia punitiva (parte moderna)
PS: Potenze Sovrane
CA: Cancellerie austriache
CV: Cancelleria del Viceré (Geheime Section – Acten)
PG: Presidenza di Governo
SLV: Senato Lombardo-Veneto del Supremo Tribunale di Giustizia
ASRo: Archivio di Stato di Rovigo
TCC: Tribunale di prima istanza civile, criminale e mercantile
PT: Presidenza del tribunale
PCC: Protocolli di consiglio criminale
ASVe: Archivio di Stato di Venezia
PGG: Presidio di Governo – Geheim
ASVi: Archivio di Stato di Vicenza
TCA: Tribunale criminale austriaco
ASVr: Archivio di Stato di Verona
CCC: Corte civile e criminale
TPV: Tribunale provinciale di Verona
BCR: Biblioteca Civica di Rovereto
BCT: Biblioteca Comunale di Trento
BCT1: Fondo miscellaneo
BCT47: Nuove Acquisizioni – Fondo Antonio Mazzetti
BNM: Biblioteca Nazionale Marciana, Venezia
FMST: Fondazione Museo Storico del Trentino, Trento
AE: Archivio miscellaneo
AY: Archivio Pietro Pedrotti
276
OeStA, AVA: Österreichisches Staatsarchiv, Allgemeines Verwaltungsarchiv, Wien
HKa: Hofkanzlei
AR: allgemeine Reihe
Ak: Akten
OJ: Oberste Justizstelle
HKo: Hofkommissionen
LVS: Lombardisch-Venetianischer Senat
OeStA, HHStA: Österreichisches Staatsarchiv, Haus- Hof- und Staatsarchiv, Wien