1 Percorsi verso l’innovazione: strumenti e metodologie NON SOLO STATUTI…! PROCESSI E STRUMENTI ORGANIZZATIVI PER FARE INNOVAZIONE NELLE ISTITUZIONI MUSEALI Antongiulio Bua Comitato tecnico scientifico –Beni e servizi culturali Regione Lombardia Alessandro Hinna Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
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Comitato tecnico scientifico –Beni e servizi culturali
Regione Lombardia
Alessandro Hinna
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
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Premessa
Dall’inizio degli anni 90, sullo sfondo di un importante ripensamento del rapporto tra
pubblico e privato, chiamato in causa in nome del principio di sussidiarietà, il diritto dei beni
culturali ha innestato nell’importante complesso normativo dedicato alle funzioni di
conservazione e tutela dei beni, le premesse giuridiche per innovare assetti istituzionali e
logiche operative.
Tutto ciò ha definito un nuovo campo organizzativo nella cui successiva strutturazione
sembrerebbero oggi prevalere elementi di “legittimazione istituzionale” più che elementi di
“efficienza tecnica”, dove le innovazioni normative introdotte sembrano essere vissute non
come presupposto, ma già come testimonianza di innovazione organizzativa.
Partendo da queste basi, le brevi note presentate hanno lo scopo di spostare l’enfasi del
dibattito sulla innovazione delle istituzioni museali dalla scelta del modello giuridico (con
particolare riferimento ad una prassi che sembra attualmente privilegiare la fondazione di
partecipazione) alla definizione del progetto istituzionale. Per questo, dopo una breve
introduzione al processo di definizione di un campo organizzativo, dove all’obiettivo
esclusivo della conservazione è andato sommandosi quello della valorizzazione, il paper
passa ad approfondire gli elementi distintivi di una fondazione di partecipazione ed i loro
rilievi sulla struttura economica e organizzativa dell’istituzione culturale; quindi, viene di
seguito avanzata una prima ipotesi di analisi processuale nella quale - coerentemente alla tesi
che si va sostenendo - la scelta della forma giuridica rappresenta una fase di un processo di
analisi più generale, nel quale essa è necessariamente preceduta dall’osservazione di talune
variabili che aiutano a esplicitare, con maggiore chiarezza e determinazione possibili, il
progetto istituzionale che si intende realizzare.
Il documento si conclude, infine, con una prima riflessione circa le possibilità di applicazione
del modello di fondazione di partecipazione in una logica di efficienza tecnica.
1. Il quadro istituzionale in cui il cambiamento si colloca1
Il passaggio agli anni 90’ ha significato un profondo ripensamento dei rapporti tra cittadini e
pubblica amministrazione. Tendenze culturali e politiche liberiste di paesi vicini da una parte,
gravità della situazione economica e finanziaria dello Stato e delle amministrazioni dall’altra,
resero in quegli anni inevitabile l’avvio di un processo di revisione delle scelte in essere che,
prima ancora che nei comportamenti, si evidenziarono in una stagione legislativa incisiva, con
interventi mirati sia all’organizzazione interna dei compiti e ruoli delle singole
amministrazioni, sia al rapporto tra Stato e comunità. Si operò infatti contemporaneamente
per la maggiore autonomia organizzativa e la pluralità di scelta delle formule istituzionali per
l’erogazione dei servizi pubblici locali (L.142/90); per l’abbandono di logiche di gestione
autoreferenziali in favore di un “orientamento al cittadino” nello svolgimento delle attività
amministrative (L.241/90); per il recupero del rapporto tra pubblico e privato nella gestione e
nel finanziamento di servizi di interesse collettivo con primi interventi di legislazioni speciale
(es. L. 266/90 o L.381/91) che fecero da apri pista alla costituzione del così detto Terzo
settore.
1 Il par.1 e 2 del presente contributo vengono argomentati in maniera più distesa in A. Hinna, Innovazione
tecnica senza innovazione organizzativa: origini e trasformazioni istituzionali nella gestione dei musei statali,
paper presentato per il “V Workshop dei Docenti e Ricercatori di Organizzazione Aziendale” (Università Luiss
Guido Carli, Roma 5-6 febbraio 2004)
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Erano queste, dunque, le premesse per un sistema giuridico-istituzionale nel quale avrebbero
trovato legittimazione principi e comportamenti di sussidiarietà verticale (attraverso processi
di decentramento istituzionale ed amministrativo) ed orizzontale, chiamando in causa il
privato nel rivestire un ruolo non solo operativo nell’erogazione dei servizi, ma anche
decisionale nella formazione ed attuazione delle politiche pubbliche.
E’ in questo quadro più generale, dunque, che può essere accolto a pieno il significato di un
ripensamento - che in quegli stessi anni iniziava ad avviarsi – del senso istituzionale e
dell’orientamento strategico di fondo del sistema museale italiano, iniziando un cammino
(tutt’altro che concluso) verso un nuovo e diverso equilibrio tra conservazione e
valorizzazione, cultura ed economia della cultura, mettendo profondamente in crisi l’istanza
di conservazione come attività esclusiva e finalizzante del singolo museo.
La crisi del sistema politico e partitico dell’inizio degli anni 90’, unito alle pressioni derivanti
dalla futura entrata nella comunità europea furono forse le motivazioni principali di un
inversione di rotta: gli anni dell’età dell’”oro” (così da alcuni vennero definiti gli anni 80’ per
il settore dei beni e delle attività culturali), ovvero un’epoca di grande interesse ed
effervescenza politica che portò ad una crescita vertiginosa della spesa pubblica nel settore
(che raddoppiò - in termini reali - dall’inizio del decennio) erano finiti. D’altro canto, il
finanziamento del settore dei beni culturali non legato a ragioni di natura strettamente
culturale, ma piuttosto ad interessi (macro) di occupazione e sviluppo economico, avevano
portato ad un intervento massiccio dello Stato, con conseguenze negative sulla capacità di
gestione della spesa e scarso impatto sull’efficienza e l’efficacia delle istituzioni beneficiarie.
Ciò apparve con chiarezza quando, con alle porte l’Europa unita, la struttura di offerta del
sistema museale italiano - non dando certo ragione degli ingentissimi investimenti fatti nel
corso degli anni precedenti - si dimostrava assolutamente inadeguata a cogliere la sfida
dell’integrazione economica degli stati componenti.
Su queste basi, gli osservatori più attenti iniziarono a denunciare l’urgenza di una nuova
identità dell’istituzione museale, immaginata non più come un contenitore di beni di valore,
ma come perno delle attività culturali della città. L’enfasi e l’attenzione del dibattito volsero
conseguentemente sui temi inerenti l’organizzazione e la gestione dell’istituzione e non più –
o non solo – sugli effetti indiretti da essa provocati. Decentramento, autonomia, ruoli,
compiti, profili professionali, meccanismi di finanziamento, modalità di accordo e
collaborazione con le imprese private divennero le nuove dimensioni di confronto e ricerca.
2. L’importanza del percorso legislativo svolto ed i rischi ad esso connessi
La pubblicazione di importanti indagini empiriche dei primi anni 90’ sottolinearono
chiaramente l’”urgenza” di alcuni importanti punti da inserire nell’agenda legislativa italiana.
Tra questi, oltre ad una generale difficoltà di movimento all’interno di una vasta
proliferazione di norme giuridiche e quindi all’esigenza di avviare la revisione del corpus
giuridico in materiale culturale, si faceva esplicito riferimento all’opportunità di:
1. creare un forte potere centrale, che non fosse frammentato in otto o dieci ministeri con
obiettivi, logiche e culture amministrative differenti, ma che piuttosto nell’unitarietà
degli indirizzi ripartisse in maniera efficiente funzioni e compiti tra i diversi livelli
politico-amministrativi, applicando principi di sussidiarietà (verticale);
2. avviare un deciso processo di decentramento amministrativo tale da accelerare la
spesa per investimenti, magari basata su sistemi di panificazione pluriennale e
obiettivi trasparenti;
3. investire nell’autonomia delle istituzioni culturali, con particolare riferimento al
settore del patrimonio e dei musei. Qui, forte era dichiarata l’esigenza di creare
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organismi più autonomi, più vicini ai bisogni del pubblico e, per questo,
potenzialmente più adatti a dare risposte soddisfacenti;
4. avviare un percorso di decentramento, collaborazione e sussidiarietà tra i vari livelli
politico-amministrativi, attraverso la costituzione di commissioni miste di
coordinamento tra Stato e Regioni;
5. studiare nuove forme di partnership pubblico-privato per una più efficace gestione del
servizio.
Un’agenda legislativa intensa, dunque, che combinata al percorso di rinnovamento del
sistema amministrativo nazionale candidò le scienze amministrative a nuove protagoniste del
percorso di rinnovamento della gestione dei beni culturali, lasciando sullo sfondo
l’opportunità di interventi organizzativi (non solo istituzionali) per l’attivazione e gestione dei
processi di innovazione auspicati.
Ciascuna delle richieste normative espresse fu poi effettivamente affrontata dal legislatore,
creando così i presupposti normativi affinché l’auspicata evoluzione gestionale potesse poi
nei fatti avvenire. Pertanto, coerentemente ai punti appena rilevati, è utile ricordare che:
- vi fu l’istituzione formale, con il D.lgs. del 20 ottobre 1998, n. 368, del Ministero per i
Beni e le Attività Culturali;
- il tema del decentramento venne affrontato a più riprese a partire dalle note leggi
Bassanini (L. 59/97 e L. 127/97) fino ad arrivare alla più recente riforma del Titolo V
della Costituzione;
- con la Legge n. 352/97, in tema di attività museali degli enti locali, fu affermato il
principio di programmazione delle iniziative, nonché il rilievo delle attività culturali,
definite come categoria “ampia”, comprensiva degli interventi di valorizzazione e
promozione della fruizione dei beni culturali;
- furono previste le soprintendenze “autonome” o “speciali”, la cui prima esperienza è stata
la Soprintendenza Autonoma di Pompei dotata di autonomia scientifica, organizzativa,
amministrativa e finanziaria (ad essa sono seguite poi la Soprintendenza archeologica di
Roma e le quattro soprintendenze speciali per i “poli museali” di Venezia, Firenze, Roma
e Napoli, istituite con il D.M. 11 dicembre 2001).
3. Le forme di collaborazione pubblico - privato: la fondazione di
partecipazione tra mito ed efficienza
Ciò premesso, non v’è dubbio che i passi più importanti (tanto più se si abbandona il dato
normativo per osservarne l’effettiva applicazione) furono però compiuti con riferimento alle
forme di collaborazione pubblico-privato. L’introduzione dei cosiddetti “servizi aggiuntivi”
(legge “Ronchey “del 14 gennaio 1993, n.4) ne fu il primo passo. Una norma che deve la sua
importanza forse non tanto agli effetti finanziari prodotti sul sistema museale, quanto ad un
significato di rottura con il passato: prima di allora i privati (con o senza finalità di lucro)
partecipavano al settore dei beni culturali attraverso l’esecuzione di compiti specifici
(restauro, catalogazione, etc..), ma non erano chiamati ad intervenire direttamente nella
gestione.
La conferma di un processo ormai definitivamente avviato arrivò poi con il citato D.lgs. del
20 ottobre 1998, n. 368, nel quale fu espressamente previsto che - per il più efficace esercizio
delle sue funzioni - il Ministero per i Beni e le Attività Culturali potesse stipulare accordi con
altre amministrazioni o con soggetti privati, nonché costituire o partecipare ad associazioni,
fondazioni o società. Se a ciò si aggiunge che a livello locale l’evoluzione normativa
(successivamente confluita nel Testo Unico dell’agosto 2000) aveva già prefigurato diverse
forme di collaborazione pubblico-privato (si veda par.4), se ne deriva che già verso il volgere
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del decennio l’Italia era ormai dotata di un impianto normativo che, in sostanza, aveva aperto
alla gestione dei servizi culturali qualsiasi forma funzionale, pubblica o privata, individuale o
collettiva, non profit o a scopo di lucro. Di qui il dibattito sulla possibilità o meno di trovare
un giusto equilibrio tra esigenze di valorizzazione e fruizione del bene (che potrebbero indurre
ad una sua “sovraesposizione” per fini, ad esempio, di spettacolarizzazione e divertimento) ed
esigenze di tutela e conservazione che, invece, motivano logiche di fruizione controllata.
Proprio su questo delicato equilibrio è sembrato, in questi anni, legittimarsi naturalmente il
settore delle aziende non profit, la cui naturale e da tempo argomentata idoneità alla
produzione di beni pubblici o meritori (Hansmann, 1980) sembra aver attenuato le
preoccupazioni di molti. Letteratura e prassi da un parte, successivi interventi di legislazione
locale (legge 448/2001, art.35) dall’altra, hanno poi di fatto ricondotto gran parte del dibattito
intorno all’istituto della fondazione, in quanto strumento giuridico particolarmente idoneo
all’innovazione nella gestione dei beni culturali.
E’ questa, d’altro canto, un’ulteriore conferma della riscoperta (non solo italiana) di queste
antiche istituzioni, le quali si ripresentano oggi assai variegate nella forma e nella struttura,
regolate da quella che non a caso viene definita “giungla legislativa” (tab.1)
Tab. 1- Fondazioni Museali e sistema delle Fondazioni Italiane Classificazione delle Fondazioni italiane
Natura Tipologia Denominazione
Fondazioni di diritto
civile
Fondazione tradizionale Fondazione
(tra queste, quindi, anche le Fondazioni Museali private)
Fondazioni Universitarie
(L.388/00))
Fondazioni di origine bancaria
(L. 218/90)
Fondazioni costituite o partecipate dal Ministero per i beni e
le attività culturali
(D.lgs.368/98)
Fondazioni create ex-novo dal
legislatore
Fondazioni che gestiscono fondi pensionistici
(D.lgs. 124/93)
Fondazioni Casse di previdenza e assistenza
(L.537/93)
Fondazioni Liriche
(D.Lgs. 367/96)
Fondazioni derivanti dalla
trasformazione di determinate
categorie di enti pubblici
Le Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB)
(L. 328/00)
Fondazioni di diritto
speciale
Fondazioni derivanti dalla
trasformazione di singoli enti
pubblici
Esempi: Scuola nazionale di cinema"; Istituto nazionale per
il dramma antico; “La Triennale di Milano”; Museo della
scienza e della tecnica.
Fondazioni di Partecipazione Fondazioni individuate
nella prassi
Fondazioni a patrimonio
progressivo Fondazione di Comunità
E’, quella della fondazione di partecipazione, una forma giuridica senz’altro innovativa, ma
che sembra in prima istanza trovare un forte legittimazione in quanto portatrice di valori
coerenti con valori più generali della società e, per questo, capace di rendere accettabili i
delicati accordi istituzionali sommariamente descritti. In particolare, nel caso delle fondazioni
di partecipazione costituite da Enti locali, la stessa legislazione nazionale può aver avuto una
valenza di “autorizzazione” o legittimazione delle scelte operate. Come noto, infatti, a livello
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statale, le fondazioni museali costituiscono oggi delle ipotesi concrete di cooperazione tra
soggetti istituzionali ed entità private al fine di svolgere attività non lucrative in ambito
culturale. La modalità di partecipazione del Ministero a dette organizzazioni, tra l’altro, può
avvenire anche con il conferimento di beni culturali o di diritti d'uso su beni mobili o
immobili di sua proprietà. In tal caso, lo statuto della fondazione dovrà prevedere che, in
ipotesi di estinzione o di scioglimento, i beni culturali ad essa conferiti in uso dal Ministero
tornino nella disponibilità di quest’ultimo.
Ma se questa, data la strumentazione giuridica a disposizione, può essere considerata una
delle poche strade percorribili a livello centrale per l’avvio di partnership con privati o altre
amministrazioni dello stato, il discorso è senz’altro diverso a livello di Enti locali. Qui, infatti,
proprio la possibilità di attivare a tale scopo diverse forme giuridiche di gestione, rende più
dubbia la possibilità di legare l’uso diffuso dell’istituto fondazionale ad esigenze di efficienza
tecnica. A tale scopo, infatti, almeno a parere di chi scrive, meglio si giustificherebbe un
approccio contingente alla scelta dell’assetto istituzionale, capace di suggerire l’una o l’altra
forma di governo in funzione degli obiettivi e delle caratteristiche operative che si intendono
attribuire alla costituenda istituzione culturale.
La giustificazione di procedere su basi contingenti è d’altro canto motivata dal successo di
importanti istituzionali culturali che, seppur dotate di differenti vesti giuridiche, hanno
ampiamente dimostrato l’efficacia del proprio agire.
Su queste premesse, come anticipato, si intende in questa sede:
- evidenziare il rischio di considerare le innovazioni della formula normativa
(fondazione di partecipazione) non come presupposto, ma già come testimonianza di
innovazione organizzativa;
- spostare l’enfasi del dibattito sulla riorganizzazione dei servizi culturali, dalla scelta
del modello giuridico alla definizione del progetto istituzionale;
Pertanto, dopo una breve disamina delle altre forme giuridiche attivabili nella gestione delle
attività in esame (par.4), vengono approfonditi gli elementi distintivi di una fondazione di
partecipazione ed i loro rilievi sulla struttura economica e organizzativa dell’istituzione
culturale (par.5).
4. Forme associative di espletamento di funzioni e servizi e forme di
gestione dei servizi pubblici locali.
Nel proporre un quadro di riferimento relativo alla gestione di servizi non inseriti in una
filiera industriale e non aventi rilevanza economica è bene operare una prima distinzione in
relazione agli strumenti istituzionali prefigurati dall’ordinamento per lo svolgimento di
funzioni e servizi e per la gestione di servizi pubblici locali.
Questi si possono suddividere nelle cosiddette forme associative e nelle forme di gestione. La
distinzione non è puramente terminologica, ma anche di contenuti, per cui è bene sottolineare
come:
- nel primo ambito vengono previste le forme di associazione tra gli enti per l'esercizio di
funzioni e di servizi (siamo qui nel campo della cosiddetta amministrazione negoziata e/o
partecipata);
- nel secondo ambito vengono previste le forme di gestione dei servizi pubblici locali che
"abbiano per oggetto produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a
promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali" (siamo qui nel campo delle
esternalizzazioni funzionali e/o delle vere e proprie privatizzazioni).
Le forme associative previste sono: a) convenzioni; b) consorzi; c) unioni di enti locali; d)
esercizio associato delle funzioni; e) accordi di programma.
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Le forme di gestione, invece, erano, fino ad oggi (l’accezione temporale è d’obbligo),
disciplinate secondo l'Art. 113 bis del D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267 - Testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali, come modificato dalla legge finanziaria 2002. I "servizi
pubblici locali privi di rilevanza industriale" venivano scorporati dagli altri servizi erogati
dagli enti locali. Tale articolo faceva quindi una elencazione che lasciava intendere una
gerarchia di scelta a cascata tra quattro "raggruppamenti" di possibili forme di gestione
espressi con 4 commi consecutivi. Nel comma 1 si diceva che i servizi "sono gestiti
mediante affidamento diretto a: Istituzioni, Aziende Speciali anche Consortili (e qui vi è il
riferimento ai predetti Consorzi-Azienda), Società di Capitali costituite o partecipate dagli
enti locali, regolate dal codice civile." Nel comma 2 si diceva che "è consentita la gestione in
economia quando, per le modeste dimensioni o per le caratteristiche del servizio, non sia
opportuno procedere ad affidamento ai soggetti di cui al comma 1". Nel comma 3 si
affermava che "gli enti possono procedere all'affidamento diretto dei servizi culturali e del
tempo libero anche ad Associazioni e Fondazioni da loro costituite o partecipate". Nel
comma 4 si prefigurava che, per i servizi dei commi precedenti, "quando sussistano ragioni
tecniche, economiche o di utilità sociale , i servizi......possono essere affidati a terzi, in base a
procedure di evidenza pubblica, secondo le modalità stabilite dalle normative di settore ".
Da tempo è in atto una volontà di riforma della gestione dei servizi pubblici locali per
adeguare gli stessi a standard europei e per introdurre elementi di concorrenzialità nella
scelta dei gestori. Da ultimo il decreto legge del 29 settembre 2003 “in materia di sviluppo
dell’economia e di correzione dei conti pubblici “ vuole con urgenza porre mano a detta
riforma anche nel settore di quelli che lo stesso decreto definisce “servizi pubblici locali privi
di rilevanza economica”. I quali appaiono prima facie assimilabili all’oggetto delle attività
proprie della costituenda agenzia.
Al momento, vista l’estrema novità del dettato normativo, non si possono formulare
interpretazioni puntuali dello stesso. E’ però già definibile l’impossibilità di creare forme
societarie miste e l’abolizione del sistema della concessione a terzi. E’ poi chiaro come, ove
le attività previste ricoprissero una specifica valenza economica, queste dovrebbero trovare la
loro disciplina nell’art. 113 e quindi esclusivamente in forme di gestione societaria mista
pubblico-privata (in quest’ambito promosse). Ma, al momento, si versa in uno stato di
indeterminatezza normativa la quale spinge, per l’urgente definizione del presente progetto, a
consigliare modelli consolidati e certi che potranno generare i futuri scenari di apertura al
mercato del settore.
Tutto ciò premesso, dopo un breve inciso sulla gestione in economia, vengono presentati gli
elementi caratterizzanti delle diverse forme associative e gestionali alle quali si faceva
riferimento.
4.1. La gestione in economia: un’ipotesi residuale
Rimane un dato certo il disposto normativo secondo cui la gestione in economia deve essere
utilizzata solo quando, per le modeste dimensioni o per le caratteristiche del servizio, non
risulti minimamente utile la costituzione di altre strutture organizzative. La natura residuale
della gestione in economia è confermata, oltre che dalla legge finanziaria 2002, anche dalla
giurisprudenza che è stata spesso concorde nel ritenere che l’Ente locale possa farvi ricorso
solo in presenza di servizi di così scarsa entità da rendere antieconomica l’eventuale
decisione di dare origine ad un’inopportuna germinazione di nuovi soggetti giuridici (Cons.
Stato, sez. V, 2 dicembre 1998, n.1723).
In caso di ricorso a detta modalità gestionale, infatti, il servizio viene reso all’utenza da parte
del personale dell’Ente locale, nel rispetto di tutte le disposizioni ordinamentali del
medesimo Ente quali, ad esempio, le norme in materia di controlli e di contabilità. In tal
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modo, si tratta senza dubbio della forma di gestione primaria che maggiormente potrebbe
“ingessare” la gestione di un bene culturale.
In particolare, i punti critici di tale forma possono individuarsi:
� nella difficoltà di impostare relazioni di varia natura e contenuto con i molteplici
soggetti (pubblici e privati) che possono operare nel settore e con i quali è necessario
interagire;
� nella difficoltà di gestire in modo ottimale i flussi finanziari in entrata e in uscita;
� nella rigidità nell’organizzazione del personale pubblico, soggetto a specifiche
disposizioni;
� nell’assoggettamento alle norme di contabilità pubblica.
4.2. I Consorzi-azienda L'art. 25, c. 1, legge n. 142/1990 nella sua formulazione originaria aveva attribuito a Comuni
e Province la facoltà di costituire Consorzi per la gestione associata di uno o più servizi,
secondo le disposizioni dettate per le Aziende speciali.
La circostanza che tale disciplina stabilisse che i Consorzi potevano essere costituiti per la
"gestione... di uno o più servizi" aveva indotto a ritenere che, dopo l'entrata in vigore della
legge n. 142/1990, non fosse più consentito costituire — ad eccezione di quelli "obbligatori"
di cui al settimo comma dell'art. 25 cit. — Consorzi per lo svolgimento di funzioni c.d.
istituzionali di competenza comunale e provinciale (artt. 156, c. 1 e 169, c. 1 .T.U. n.
383/1934). Il rinvio alle "norme previste per le Aziende speciali" aveva comportato, poi, una
sorta di divieto di costituire Consorzi per lo svolgimento di servizi sociali in quanto gli unici
ammessi dovevano considerarsi, in base al detto rinvio, quelli che gestivano servizi aventi
"rilevanza economica ed imprenditoriale". Peraltro, la giurisprudenza, sul presupposto che
l'art. 25, legge 142/1990 prevedeva la possibilità di costituire un Consorzio "per la gestione
associata di uno o più servizi" senza alcuna limitazione riferibile alla natura e alla rilevanza
(sociale o imprenditoriale) dei servizi stessi, era pervenuta alla conclusione che il Consorzio
rappresentava "uno dei possibili strumenti a disposizione degli enti locali per la gestione
associata di uno o più servizi pubblici quale che sia la natura degli stessi". Se ne era dedotto
che l'attività dei Consorzi poteva "differenziarsi secondo che riguardi lo svolgimento dì
funzioni e servizi sociali, ovvero di rilevanza economica ed imprenditoriale".
Tale conclusione, anticipata dalla giurisprudenza, è stata, per cosi dire, ribadita dal legislatore
che ha, infatti, previsto che gli enti locali possono costituire Consorzi sia per l' "esercizio di
funzioni", che per la gestione di "servizi sociali" e di servizi "aventi rilevanza economica ed
imprenditoriale", stabilendo, nel contempo, che a questi ultimi e - se previsto nello statuto - a
quelli costituiti per la gestione di servizi sociali, si applicano le norme previste per le aziende
speciali. Ora, a seguito delle modifiche intercorse attraverso l’approvazione dell’art. 35 della
Legge Finanziaria 2002 la forma di gestione tramite Consorzio Azienda è disciplinata dalla
norme relative all’azienda speciale ed è riservata ai servizi pubblici non aventi rilevanza
industriale e quindi disciplinati all’art. 113 bis del TUEL.
Questa forma di gestione associata, anche se con modalità diverse e con differenti approcci ai
servizi, è già abbastanza sperimentata con riferimento a realtà territoriali e bacini di utenza
molto ampi e con la caratteristica soprattutto di centri-rete o centri servizi (per la cultura e il
turismo). I vantaggi in termini di efficacia ed economicità dei servizi possono essere elevati,
perché vi è la possibilità di portare la cooperazione a livello di gestione aziendale, ciò che
può permettere di spaziare oltre il livello base di servizi per fornire anche servizi diversi di
pubblica utilità e garantire fonti di risorse finanziarie.
Per quanto esposto, tre paiono gli elementi critici di osservazione: (a) il Piano-Programma
che di fatto deve comprendere (b) un contratto di servizio (convenzione) che disciplina i
rapporti tra il singolo Ente locale ed il Consorzio e lo statuto (c) che, redatto in conformità
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alla convenzione, dovrà riportare indicazioni in materia di nomina, funzioni, e
organizzazione degli organi consortili.
4.3. Le convenzioni (art.30 TUEL) Questo strumento, al pari dei consorzi, può essere annoverato tra i fenomeni associativi su
base contrattuale, poiché vi si ritrovano alcuni degli elementi normalmente considerati
essenziali del fatto associativo quali la comunanza di attività e la prefigurazione di un dato
risultato. Inoltre, il TUEL prevede la forma pattizia per quasi tutti i fenomeni associativi tra
Enti locali (anche l’atto costitutivo di un consorzio assume sempre la forma di una
convenzione). Ciò trova conferma nel fatto che le convenzioni sono senza dubbio
assoggettate alla disciplina che regola le obbligazioni e i contratti.
In ogni caso, si deve considerare che, dal punto di vista meramente tipologico, le convenzioni
rappresentano il vincolo associativo più tenue che due o più Enti locali possano costituire tra
di loro, tanto che una convenzione può anche non avere alcuna rilevanza esterna dal punto di
vista strutturale.
Una convenzione avente ad oggetto la gestione di soli servizi pubblici (e non anche di
funzioni) può, in effetti, essere vista come mera estensione territoriale dell’attività di
un’azienda di servizi di un certo Ente. Si tratta quindi di accordi aventi lo scopo di
organizzare e gestire in comune determinate funzioni e servizi, anche al fine di massimizzare
economie di scala o di scopo.
Quanto al contenuto, il comma 2 dell’articolo 30 in esame stabilisce che le convenzioni
debbano necessariamente indicare i fini, la durata, le forme di consultazione degli enti
contraenti nonché i reciproci obblighi e garanzie che devono intercorrere tra questi, oltre alle
modalità di assetto dei rapporti finanziari. Alla luce di quanto disposto dall’art. 1418, co.3,
c.c. si ritiene che gli elementi indicati devono essere presenti a pena di nullità della
convenzione.
4.4. Le aziende speciali e le istituzioni (art.114 TUEL) Le due unità organizzative considerate, che in prima istanza possono apparire simili,
presentano in realtà alcune rilevanti differenze.
Se da un lato è vero, infatti, che il legislatore delinea una disciplina pressoché comune quanto
alla struttura interna e ai rapporti con l’Ente locale di riferimento (soprattutto per ciò che
attiene al potere direttivo), è altrettanto vero che i due istituti sono volti a soddisfare esigenze
profondamente diverse tra di loro e ciò si riflette su non poche caratteristiche della
regolamentazione.
L’Azienda speciale, infatti, definita come “ente strumentale dell’Ente locale dotato di
personalità giuridica, di autonomia imprenditoriale e di un proprio statuto”, è un vero e
proprio ente pubblico economico organizzato in forma imprenditoriale e, come tale, soggetto
alla disciplina civilistica d’impresa. La sua adozione è, nella prassi, spesso ritenuta idonea
alla gestione di una pluralità di servizi pubblici anche di impresa.
Il perseguimento degli obiettivi di efficacia, efficienza ed economicità, indicati
nominativamente dal comma 4 dell’art.114, è rimesso all’autonomia operativa e gestionale
dell’azienda che, tuttavia, deve agire nell’ambito degli indirizzi fissati dall’Ente locale, con
cui si instaura un rapporto di strumentalità basato sull’attuazione delle linee programmatiche
utili all’ottimale erogazione del servizio pubblico.
Ciò vuol dire che l’Ente locale si limita al conferimento dei mezzi e delle risorse necessarie,
anche provvedendo a coprire gli eventuali costi sociali, ma l’obbligo del pareggio di bilancio
e il concreto soddisfacimento dell’interesse pubblico spettano all’azienda, la cui azione sarà
autonoma e diretta. Data la natura imprenditoriale dell’azienda in esame, il suo rapporto con
l’Ente locale viene regolato per il tramite di apposito contratto di servizio nel quale
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dovrebbero essere regolate le dimensioni fondamentali di natura amministrativa, finanziaria e
commerciale.
L’Istituzione, invece, pur condividendo numerosi tratti del modello azienda speciale, è
caratterizzata da una più accentuata strumentalità nei confronti dell’Ente locale, essendo
prevista come forma di gestione organizzata per la cura e l’esercizio dei soli “servizi sociali”
privi di rilevanza industriale e a carattere tipicamente erogativo in cui non necessariamente si
presenta un margine di profittabilità2.
In ogni caso, è proprio a causa della finalizzazione considerata che l’istituzione, pur essendo
dotata di autonomia gestionale, non gode di personalità giuridica, né di autonomia
imprenditoriale. Inoltre, sia l’erogazione del capitale necessario per l’attività dell’istituzione,
sia il suo ordinamento e funzionamento competono esclusivamente all’Ente locale che li
disciplina mediante lo statuto e appositi atti regolamentari3.
In conclusione, l’istituzione, pur consentendo di mantenere un collegamento diretto e
strutturale con l’Ente locale, presenta (almeno in potenza) una scarsa sensibilità al
cambiamento ed uno scarso orientamento all’implementazione di progetti di sviluppo e di
azioni di autofinanziamento. L’istituto in questione, infatti, non è dotato di un patrimonio
autonomo. Da ultimo, presenta l’inconveniente di essere strutturalmente poco aperta
all’esterno (siano essi privati o enti pubblici). E’ questo un limite proprio anche dell’azienda
speciale a meno che a tal fine non sia trasformata in società di capitali o azienda consortile.
Volendo schematizzare, quindi, le principali differenze tra l’istituzione e l’azienda speciale
sono che, a differenza della prima, la seconda:
• è dotata di personalità giuridica e di autonomia patrimoniale ed imprenditoriale;
• ha un proprio organo di revisione e forme autonome di verifica della gestione;
• è dotata di proprio personale a cui si applica pienamente l’impianto normativo del lavoro
privato.
Rispetto all’istituzione, quindi, l’azienda gode di maggiore indipendenza gestionale e di
maggiore flessibilità organizzativa, nonostante la sottoposizione, al pari dell’istituzione, agli
indirizzi generali dell’Ente locale di riferimento.
4.5. Le società di capitali costituite dagli Enti locali Le società di capitale, oggi a totale capitale pubblico
4, costituiscono uno strumento
attraverso il quale l’Ente locale tende a perseguire un obiettivo di redditività di impresa. La
migliore qualità del servizio è resa possibile dalle risorse finanziarie e dalle conoscenze
tecniche e organizzative dell’impresa privata, nonché dalla snellezza e funzionalità tipiche
dello strumento privatistico.
La possibilità di convivenza all’interno dell’azienda di più soci, rende particolarmente
delicata la stesura dei così detti patti parasociali, dedicata generalmente alla regolazioni di
variabili di gestione fondamentali quali ad esempio regole di funzionamento degli organi e
modalità di decisione e di governo.
2 Ciò non vuol dire che l’istituzione non possa essere utilizzata anche nel caso dei servizi culturali. L’art. 128 del d.lgs. n.112/98, infatti, ha specificato che con l’“espressione servizi sociali” si devono intendere tutte quelle
attività destinate a rimuovere o superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra
nella sua vita. Questo concetto può, quindi, essere inteso in senso ampio, tanto da ricomprendervi anche i
servizi volti ad assicurare il “benessere culturale” quale è il caso delle prestazioni erogate da teatri, musei o
pinacoteche. 3 L’Ente locale dovrà, quindi, conferire il capitale di dotazione e successivamente approvare programmi, bilanci
e conti consuntivi. 4 Le società miste pubblico-private sono state recentemente abrogate dall’allegato alla legge finanziaria per il
2004 che ammette la sola possibilità della società totalitaria pubblica
11
4.6. Le associazioni e le fondazioni costituite o partecipate dall’Ente locale (art.113 bis
TUEL) Si ritiene, innanzitutto opportuno rammentare sommariamente la differenza tra
un’associazione e una fondazione.
Nel primo caso si è in presenza di una persona giuridica privata costituita da un insieme di
soggetti che si riuniscono per perseguire un preciso scopo statutario, ma che possono poi nel
corso della vita dell’ente apportare modifiche all’attività e ai fini dell’ente medesimo. In
particolare, i vari soci esprimeranno il loro voto in assemblea (ogni socio un voto) trattandosi
di un ente strutturato secondo una logica democratica. Alla base di detta forma giuridica, v’è
un contratto associativo aperto all’entrata successiva di nuovi soci rispetto a coloro che
l’hanno fondata. Le fonti di finanziamento di detti istituti è sostanzialmente riconducibile ad
entrate da proventi istituzionali, e quindi non fiscalmente imponibili, ed entrate di natura
strettamente commerciale.
Nel caso della fondazione si crea, invece, una persona giuridica privata costituita da un
patrimonio vincolato in modo più rigido al perseguimento dello scopo statutario per tutta la
sua durata (la prassi conosce ipotesi di modifica dello scopo della fondazione a determinate
condizioni) e che comunque è, almeno formalmente, distinta dalle persone (fisiche e
giuridiche) che l’hanno costituita, senza che peraltro questo impedisca di prevedere, nello
statuto, forme precise di elezione degli organi tali da garantire la rappresentanza dei vari
fondatori. La fondazione non è strutturata in modo democratico come l’associazione, manca
l’organo assembleare e le decisioni circa l’attività e gli indirizzi della fondazione sono
assunte dal Consiglio di Amministrazione o dal Consiglio direttivo (in caso di adozione del
modello di governo duale tipico delle fondazioni di origine bancaria). Gli organi e
l’ordinamento interno vengono predefiniti dal fondatore nel relativo negozio costitutivo che,
tra l’altro, si caratterizza per essere (a differenza di quanto visto nel caso dell’associazione)
di tipo chiuso.
Dal punto di vista delle fonti di finanziamento, la fondazione si caratterizza generalmente per
una propria sorgente di reddito derivante dal patrimonio. Sotto il profilo fiscale, essa è
considerata, ente commerciale o non, a seconda della prevalenza o meno di entrare di attività
di natura commerciale rispetto a quelle di natura istituzionale.
5. Elementi di innovazione giuridico istituzionale della fondazione di
partecipazione (focus) 5
Pur rinviando ad altre sedi le considerazioni di natura strettamente giuridica, è importante qui
sottolineare come le nuove fondazioni museali (sia quelle ministeriali che quelle costituite o
partecipate dagli enti locali) si differenzino profondamente dalle fondazioni tradizionali così
come sopra descritte.
In particolare, la fondazione di partecipazione assomma alle prerogative della fondazione
classica quelle dell’associazione, così come definite dal codice civile. Cercando una
equilibrata fusione e sintesi dell’elemento personale delle associazioni e dell’elemento
patrimoniale delle fondazioni, questo istituto risponde alla esigenza di essere “vivai di idee e
iniziative” (caratteristica propria dell’associazionismo), pur garantendo una certa stabilità
5 Vengono qui sintetizzate alcune delle considerazioni già in altre occasioni affrontate (A. Hinna, Le Fondazioni
museali: complessità organizzativa e ambiti di applicazione, In AA.VV., L’azienda museo: dalla conservazione
del valore alla creazione dei valori, Franco Angeli, Milano (in corso di pubblicazione).
12
dell’organizzazione nel tempo. L’istituto fondazionale che ne deriva si caratterizza (tra l’altro)
in quanto:
� è costituito da patrimonio di destinazione a struttura aperta;
� l’Atto Costitutivo è un contratto plurilaterale con comunione di scopo che può ricevere
l’adesione di altre parti oltre quelle originarie, ai sensi dell’art. 1332 del c.c.;
� la struttura aperta consente la variazione del numero dei contraenti senza rendere
necessaria la modifica della struttura del contratto;
� possono fare parte di una Fondazione di Partecipazione Stato, Regioni, enti pubblici e
privati, con il diritto di nominare i loro rappresentanti nel Consiglio di
Amministrazione, secondo le indicazioni dello statuto redatto nel momento
costitutivo;
� l’ingresso di nuove parti è garantito dalla clausola di adesione, o apertura, la quale può
implicare il controllo di determinate condizioni di ammissibilità (ovviamente prima
determinate nel contratto);
� all’attività della Fondazione possono aderire altri soggetti in qualità di Partecipanti, in
quanto contribuiscono in modo determinante alla sopravvivenza dell’Ente mediante il
versamento di somme di denaro, prestazioni di lavoro volontario o attraverso la
donazione di beni materiali e immateriali;
� attraverso una definita composizione di Organi viene garantita la proporzionalità tra
tipologia di contributo e partecipazione all’attività.
Rispetto al modello di fondazione tradizionale, gli elementi appena ricordati determinano
quindi:
• un maggior numero di attori che, direttamente o indirettamente, partecipano
all’attività delle fondazioni ed un maggior grado di eterogeneità delle ricompense che
detti soggetti dovrebbero ottenere dalla loro partecipazione alla Fondazione;
• una diversa composizione delle fonti di finanziamento da cui l’azienda fondazione
trae le proprie risorse e, quindi, una diversa tipologia di contributi che i singoli
soggetti dovrebbero apportare alla stessa.
5.1 Le dimensioni di complessità economica ed organizzativa Tutto quanto detto comporta, sotto il profilo finanziario ed economico, alcune caratteristiche
assolutamente peculiari delle nuove fondazioni di partecipazione. In particolare, il fatto che il
fondatore (pubblico) non conferisca in sede di costituzione un patrimonio congruo a fornire
una rendita finanziaria adeguata al perseguimento dello scopo istituzionale, ma piuttosto
conferisca (spesso in uso e non in proprietà) i beni culturali che ha in consegna, porta alla
costituzione di fondazioni con patrimoni la cui progressiva formazione è funzione,
contemporaneamente o alternativamente, di: finanziamenti pubblici, finanziamenti o
donazioni private, entrate derivanti dallo svolgimento delle attività svolte con e per i beni a
essa conferiti in concessione d’uso.
Pertanto, la nascente fondazione, si caratterizzerà (distinguendosi da una fondazione
tradizionale) per:
− un ridimensionamento dell’importanza dello stock di patrimonio iniziale, in quanto ciò
che più rileverà in fase di costituzione non sarà la consistenza iniziale del patrimonio ma,
ad esempio, l’idea progettuale o le variabili di contesto, ovvero le condizioni effettive
perché questo possa realisticamente crescere nel tempo;
− un nuovo rapporto tra patrimonio disponibile e obiettivi perseguiti, in quanto nel caso
della fondazione di partecipazione – caratterizzata inevitabilmente da un patrimonio a
formazione progressiva – questi si pongono in una dinamica tipica dell’azienda di
produzione e, quindi, inversa al caso classico di fondazione: patrimonio e obiettivi si
porranno in questa sede in un rapporto di interdipendenza reciproca, dove le possibilità di
crescita del patrimonio saranno inevitabilmente legate alla capacità del management di
13
realizzare gli obiettivi, i quali – pur nel rispetto di quanto statutariamente fissato come
scopo della fondazione – potranno dimostrarsi sempre più ambiziosi in linea con il
“progressivo” crescere della consistenza patrimoniale;
− una nuova attività di “gestione caratteristica”, in quanto alla gestione del patrimonio
tipica di una fondazione classica, dovrà aggiungersi, almeno in una fase iniziale del ciclo
di vita dell’azienda, un’attività di pianificazione strategica della raccolta fondi;
− una nuova e più forte attenzione all’efficacia della propria attività, in quanto, come
conseguenza del punto appena espresso, la significatività del ruolo da essa svolto sarà
condizione necessaria alla sopravvivenza dell’istituto;
− una nuova logica di responsabilizzazione dei soci, in quanto questa non sarà più di tipo
patrimonialistico, e quindi sul conferimento iniziale, ma di tipo continuativo sulla
dinamica della gestione corrente.
Gli elementi e le relazioni sinora individuati. mettono in luce l’importanza di competenze
tecniche e manageriali come condizioni fondamentali e contributo critico all’equilibrio
istituzionale delle nuove fondazioni museali. Rispetto al modello fondazionale classico,
quindi, ciò si traduce in una nuova (e/o diversa) natura dei compiti e in un maggior livello di
risultati richiesti, con importanti conseguenze sul piano della complessità organizzativa.
Più in particolare, partendo dall’ipotesi che il livello di complessità organizzativa di un
istituto fondazionale sia funzione (a) della tipologia di assetto istituzionale adottato, (b) della
composizione delle fonti di finanziamento e, infine, (c) della tecniche adottate, le fondazioni
di partecipazione museali possono essere inserite tra le tipologie fondazionali a maggior grado
di complessità organizzativa (fig.1). Queste le principali motivazioni:
1. sotto il profilo istituzionale, le regolamentazioni di settore e la conseguente dinamica-
trasformazione delle possibili combinazioni soggetti-contributi-ricompense incide sia
sulla dimensione quantitativa dei compiti da esse svolte, sia sulla pressione sui risultati
che, data la natura e l’eterogeneità degli interessi (politici ed economici) messi in campo,
non può che vedersi incrementata;
2. sotto il profilo delle fonti di finanziamento, la necessità di dedicarsi al reperimento di
risorse o all’implementazione di attività di tipo economico implica un aumento del
numero degli elementi da considerare nell’assunzione delle decisioni: le fondazioni
donative raramente hanno la possibilità di prevedere e standardizzare i flussi finanziari in
entrata, elemento centrale per la determinazione degli obiettivi perseguibili; i processi
decisionali sono spesso caratterizzati da un’incessante negoziazione tra obiettivi
istituzionali perseguiti e bisogni percepiti e (quindi) vincenti sotto il profilo del funding;
alla gestione della raccolta fondi, inoltre, sono necessariamente dedicate risorse e
competenze specifiche con importanti conseguenze sul livello di specializzazione e
divisione del lavoro;
3. dal punto di vista della tecniche, infine, il fatto di essere fondazioni operative, implica (a
differenza di quanto accade per le granting foundation) la gestione diretta delle attività
istituzionali, producendo direttamente beni e servizi di utilità collettiva - anche attraverso
la realizzazione interna di interi processi di produzione di beni e servizi – con importanti
ripercussioni sia sul profilo di incertezza dei compiti, sia sulla dimensione quantitativa
degli stessi.
14
Fig. 1 Le dimensioni di complessità organizzativa di una fondazione
granting
di supporto
operating
non donative
Ass. istituz.
semplice
donative
Ass. istituz.
composto
strategic giving
A conclusione dell’analisi fin qui svolta, vale forse la pena sottolineare come le fondazioni
museali oggetto del dibattito non hanno nulla a che fare con le fondazioni museali americane
ad esse spesso assimilate. Quest’ultime, infatti, sono fondazioni tradizionali di diritto privato
e, quindi, (a) istituzioni private, (b) che gestiscono musei quasi sempre privati, (c) la cui fonte
principale di entrata è data dai proventi da investimento del patrimonio finanziario di
dotazione e (d) dal mercato delle donazioni private. Le nuove fondazioni museali italiane,
invece, saranno (a) istituti privati, (b) che gestiscono musei pubblici, (c) non dotati di un
patrimonio finanziario di partenza, né (d) di un mercato consolidato di donazioni.
Sono differenze queste forse scontate, ma che spesso non sembrano tenute nella dovuta
considerazione da alcuni fautori del “modello americano”, e che definiscono in maniera chiara
l’approdo ad una diversa tipicizzazione istituzionale: le fondazioni museali italiane così
descritte, infatti, verrebbero a costituirsi come “fondazioni di gestione”, intendendo come tali,
appunto, istituzioni formalmente riconosciute come fondazione, il cui scopo e le cui risorse
finanziarie non sono principalmente derivanti dagli investimenti patrimoniali (e quindi
strettamente correlati alla dimensione di detto patrimonio), ma si compongono attraverso la
dinamica dei risultati di esercizio e delle politiche di fund raising.
Dal punto di vista dei policy makers (Ente locale) ciò ha significato in quanto:
• la fondazione deve essere pensata in funzione di un patto strategico dal quale siano
derivabili gli elementi di “tenuta” della gestione corrente e copertura dell’eventuale
sbilancio di esercizio della costituenda fondazione;
• divengono variabili fondamentali di analisi i risultati di esercizio e di fund raising attesi,
nonché la disponibilità nel tempo ad integrazioni e contributi (dei fondatori) in conto
esercizio (documenti fondamentali: contratto di servizio, business plan);
• la fondazione è, sotto il profilo manageriale, sostanzialmente assimilabile ad una tipica
azienda di servizi, salvo il fatto che essa può (ove riesca!) ad attivare una fonte di
finanziamento aggiuntiva derivante dalle politiche di fund raising messe in atto;
• ciò che distanzia la fondazione di partecipazione dall’azienda o società di gestione è
essenzialmente il “senso dell’istituto fondazionale”, contraddistinto da scopo
esclusivamente altruistico e non di lucro.
Nuova fondazione di partecipazione
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6. Legittimità e rilevanza di una logica di analisi processuale
L’analisi sinora svolta ha posto dunque l’evidenza sull’importanza di considerare tutte le
caratteristiche di una forma giuridica, in questo caso la fondazione di partecipazione, per
valutarne le relative potenzialità ed eventuali criticità in funzione del suo utilizzo per la
gestione dell’istituzione o sistema museale che s’intende creare e sviluppare. Pertanto è
legittimo parlare di un problema di “coerenza” tra modello giuridico, configurazione
organizzativa e progetto istituzionale che ci si propone di realizzare. Di qui l’opportunità di
una analisi per gradi che lasci precedere la definizione del progetto istituzionale alla “scelta
ragionata” dell’assetto istituzionale dell’azienda da costituirsi. Ciò al fine di evitare il rischio
- la prassi lo ha più volte dimostrato - di incardinare il progetto istituzionale all’interno di un
sistema di regole (per altro auto dichiarate) che ne potrebbero mortificare le potenzialità di
sviluppo.
Se ciò è vero in una generica logica di start up di impresa, lo è certamente di più qualora
l’oggetto di analisi ed avvio sia una istituzione museale pubblica. Queste, infatti, sono
istituzioni complesse che hanno scopi, funzioni e ruoli diversi da soddisfare. In particolare, la
natura pubblica del servizio erogato fa sì che la sua efficacia sia data dalla contemporanea:
- percezione della creazione di valore pubblico,
- sostenibilità operativa ed amministrativa,
- legittimazione e sostegno presso l’ambiente di riferimento.
Tutto ciò premesso, viene quindi di seguito sinteticamente riportato uno schema processuale
di analisi e definizione del progetto istituzionale. Coerentemente alla sede in cui il lavoro
viene presentato, infine, le argomentazioni vengono proposte non come punti fermi o tesi
comprovate, ma come primi suggerimenti derivabili da studi specifici di settore ed esperienze
dirette di assistenza. Detto processo si compone di 7 macro steps (fig.2) l’uno all’altro
interdipendenti in forma sequenziale (→) ed alle volte reciproca (↔).
Fig.2 Il processo di analisi e definizione del progetto istituzionale
Grant R. M., 1999. L’analisi strategica per le decisioni aziendali, Il Mulino, Milano
Hansmann H.B., 1980. The Role of Nonprofit Enterprise, The Yale Law Journal, aprile.
Lorenzoni G., 1992. Accordi, reti e vantaggio competitivo, ETASLIBRI, Milano
March J.G. e Simon H.A., 1958. Organizations, New York: John Wiley Porter M., 1998 . “Cluster and new economics of competition”, Harward Business Review, novembre-dicembre Tuschman M., Nadler D., 1986. “Organizing for Innovation”, California Management