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Mario Spezi - Inviato in Galera

Jan 02, 2016

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Mario Spezi - Inviato in Galera
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Mario Spezi

Inviato in galeraUn giornalista in manette

Aliberti editore

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Tutti i diritti riservati© 2007 Aliberti editore

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Indice

Una giustizia senza le prove12345678910111213141516171819202122232425262728293031

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Una giustizia senza le prove

Oltre al fatto che il cronista della «Nazione» Mario Spezi, arrestato con l'accusa di aver depistato le indagini sul "mostro" di Firenze e di calunnia (nonché inquisito per concorso nell'omicidio di un medico), è stato completamente scagionato anche dalla Cassazione, le sole mostruosità che, in questo caso, hanno meritato gli onori della cronaca a me sono parsi il decorso delle inchieste passate e le più recenti procedure della Giustizia nazionale.

A trentotto anni dal primo delitto; dopo la condanna, nel 1994, di Pietro Pacciani, identificato, per gli stessi delitti, come il "mostro"; la sua assoluzione in Appello; l'annullamento della sentenza da parte della Cassazione e la sua morte avvenuta nel 1998, senza che si sia venuti a capo del "caso"; ci sono due magistrati che hanno fatto arrestare e tenuto in galera per ventitré giorni un cronista impegnato nel condurre, in proprio, contro-indagini irrispettose di quelle dei magistrati che lo hanno accusato e certamente non in grado di inquinare le prove di delitti commessi da così lungo tempo.

Ciò che a me pare, dunque, debba interessare, chiunque abbia a cuore il buon funzionamento della nostra Giustizia e il suo corretto rapporto con la libertà di informazione non sono tanto le inesistenti implicazioni di Spezi nei delitti rimasti impuniti, bensì la "forma" che le accuse dei magistrati perugini hanno assunto per giustificarne arresto e detenzione.

Chi, sottoposto a indagine per un reato particolarmente grave, non abbia nulla di cui temere – scrisse il gip – «è portato a un atteggiamento aperto e disponibile, teso a non nascondere alcunché agli inquirenti»; ovvero, sentendosi ingiustamente indagato, tende «ad assumere comportamento di chiusura e di rifiuto… che non ha di norma benefici effetti sulla linea difensiva della persona interessata». Diverso è il caso quando un soggetto che viene toccato da un'indagine «inizia una sorta di "guerra personale" con l'Autorità giudiziaria», volta a delegittimarla in vari modi e «cercando di distruggere gli inquirenti, la loro linea investigativa, il loro prestigio». Depurata dei risvolti psicoanalitici, la teorizzazione sembra riflettere, innanzitutto, una sorta di "sindrome Berlusconi" della quale parte della nostra magistratura soffre e tende a sollevare ogni qualvolta se ne discuta l'operato.

In secondo luogo, per quanto riguarda il rapporto fra magistratura e libertà di informazione, le parole dei magistrati di Perugia a me è parso riflettessero un modo di pensare ancora più inquietante, là dove hanno definito l'inchiesta giornalistica di Spezi, per il solo fatto di essere contraria alle loro convinzioni, «una grave quanto sgangherata operazione di depistaggio massmediatico… un'operazione di autentica "disinformazione", non dissimile da quella che potrebbe svolgere un servizio segreto deviato». Qui siamo in piena sindrome – di anacronistica e tragica memoria – mutuata da una cultura giacobina mal digerita che poco si addice al senso della misura di un magistrato.

Insomma, poiché non lo si è potuto accusare di omicidio, si è indagato e incarcerato Spezi per le sue inchieste giornalistiche, assumendole come prova della sua supposta colpevolezza. E qui siamo piombati nella terza sindrome, quella del "teorema" come intuizione senza prove.

Di male in peggio.

Piero Ostellino«Corriere della Sera», 26 aprile 2006

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«È necessario che l'innocenzaabbia altrettanta protezione del delitto».

Monsieur de La Rochefoucauld, Massime, CCCCLVI

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Mi hanno tolto anche l'orologio. È buio. Credo che siano più o meno le dieci di questo rintronato venerdì 7 aprile. Alle mie spalle esplodono, uno di seguito all'altro, i colpi delle due porte metalliche che vengono chiuse. La prima è solo a sbarre; la seconda – il "blindato" – è tutta di ferro, con lo spioncino quadrato al centro, giusto all'altezza degli occhi. È un rumore che va oltre le orecchie, che comincia a scorrere freddo nelle vene, entra nel cervello, poi, nel cuore. Lo so da subito: non uscirà più da me, resterà in circolazione come un virus che si può tenere sotto controllo, eliminare, mai.

Segue lo stridore della grossa chiave d'ottone, ed è la sottolineatura sotto la fine della libertà.Sono solo, immobile, nella luce cruda che scende dal centro del soffitto, gli occhi verso la

finestra con le sbarre davanti a me e, oltre quelle, il buio. Nella mano destra ho il sacco di nylon trasparente con il kit del carcerato. Sono in una stanza lunga, dalla porta alla finestra, circa tre metri e larga poco più di due.

Alla mia sinistra, due letti a castello, per materassi e cuscini due parallelepipedi di schiuma gialla; a destra, un tavolino appoggiato alla parete e due sgabelli di legno senza schienali; inchiodati al muro, a una trentina di centimetri dal pavimento, due armadietti stretti.

Più che sete, ho la bocca e la gola piene di segatura. Vorrei bere. A destra c'è la porta, sempre di ferro, di uno sgabuzzo di un metro e poco più per lato: il gabinetto. Dentro, che si toccano quasi uno con l'altro, il wc, un piccolo lavandino, un bidet e, in un angolo, una pila di rotoli di carta igienica. Non ci sono rubinetti e ci metto un po' a capire che, per far scendere l'acqua, bisogna pigiare con il piede un grosso pulsante di gomma nera sul pavimento. Lo schiaccio e dalla cannella esce un getto violentissimo che sbatte contro lo smalto del lavandino e schizza verso il soffitto investendomi.

«Merda!»Provo con maggiore cautela, ma quello non ne vuol sapere di schiacciarsi. Aumento

gradualmente la pressione sul piede. Niente. Poi, di colpo, il pulsante cede sotto la suola e, di nuovo, una specie di geyser mi colpisce dal basso la faccia.

«E merda!»Mi arrendo e bevo riempiendomi il cavo delle mani incrociate sotto il rubinetto del bidet. Mi

passo acqua fresca sulla faccia, sul collo, sulla nuca. Niente, l'incubo non svanisce: è tutto vero. O, almeno, sembra.

Torno nella cella e appoggio sul tavolino il sacco di nylon che mi è stato dato poco prima e comincio a tirar fuori il contenuto: una scodella di metallo, un piatto e un bicchiere di plastica, una decina di forchettine e coltelli come quelli che ti danno negli aerei, due asciugamani di grossa tela a righe marroni e, dello stesso tessuto, due lenzuola e una federa, una saponetta, che seppure incartata emana un profumo dolce che neanche i deodoranti nei cessi delle stazioni. Conclude l'equipaggiamento una ruvida coperta marrone con al centro le iniziali bianche «AP». Questa volta non stanno per Associated Press; significano Amministrazione Penitenziaria.

A chiudere in cella il primo giornalista arrestato per le proprie idee dai tempi del cavalier Benito Mussolini, sono state le indagini cominciate su di me un paio di anni prima da un «funzionario a disposizione» della Polizia di Stato, un certo Michele Giuttari, che, rimosso dalla carica di capo della Squadra Mobile fiorentina dal ministro degli Interni Rosa Russo Jervolino, è stato impiegato da alcuni magistrati per un'indagine sul Mostro di Firenze, il cui ultimo delitto risale a venti anni prima.

Il poliziotto nel 2003 ha inventato di sana pianta l'acronimo GIDES, che sta per Gruppo Investigativo Delitti Seriali, una sorta di gruppo speciale come quello dell'FBI, dove lavorava l'agente Clarice Starling interpretata da Jodie Foster nel Silenzio degli innocenti e da Julianne Moore in Hannibal. Solo che quella delle attrici holliwoodiane era una sezione speciale vera, quella

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casereccia di Giuttari, finta, mai esistita. Al Ministero non ne sanno niente, nessuno l'ha costituita, semplicemente non esiste. Se ne deve dedurre che la carta intestata «Ministero degli Interni» con sotto la dicitura «Gruppo Investigativo Delitti Seriali/Firenze-Perugia», Giuttari se la sia fatta fare a sue spese, così come l'indirizzo di posta elettronica che vi è indicato e che è [email protected], un indirizzo, cioè, che chiunque potrebbe farsi. Insomma, il Ministero degli Interni non gli ha dato neanche una casella di posta elettronica. Il Viminale lo ha anche diffidato dal fare uso illegittimo di quella carta, ma lui se ne è infischiato. Senza alcuna conseguenza. Eppure questo poliziotto, appena un anno prima, nel marzo del 2005, è stato condannato dalla Corte d'Assise di Palmi, in Calabria, a un anno e otto mesi di reclusione per falsa testimonianza.

In particolare Giuttari ha trovato credito presso il sostituto procuratore di Perugia Giuliano Mignini che, infatti, ha finito per firmare il mio arresto, delegando, tra l'altro, a eseguirlo l'inesistente GIDES. E molto credito ha trovato presso tanti miei colleghi che gli hanno conferito il titolo di "superpoliziotto", lo accreditano come capo di uno speciale gruppo analogo alla unità speciale dell'FBI, gli dedicano ampie paginate, interviste in televisione e sui giornali.

Il sospetto su di me gli era nato nel giugno del 2004, quando l'investigatore siciliano aveva ascoltato una mia conversazione intercettata con Francesco Calamandrei, il farmacista di San Casciano indagato nel caso, e aveva seguito alla televisione una puntata di Chi l'ha visto? alla quale ero stato invitato a partecipare.

Che per loro ero sospetto per le mie idee, non è una mia supposizione. Per quanto incredibile, lo hanno messo per iscritto. C'ero andato pesante in tv, lo ammetto: a me tutte quelle storie che tiravano fuori su sette sataniche composte di Vip dietro ai delitti del Mostro, strani oggetti esoterici che erano solo banali fermaporte, testimoni oligofrenici o alcolizzati all'ultimo grado che ricordavano all'improvviso cose vecchie di venti anni, proprio non andavano giù e l'avevo detto in video, un atteggiamento decisamente diverso da quello cui l'hanno abituato i miei colleghi. Questo per loro era grave, molto grave: «…lo Spezi, condividendo con l'amico (il farmacista Calamandrei, n.d.r.) un singolare e sospetto interessamento anche verso il troncone perugino dell'indagine, dimostra di essersi fattivamente adoperato per demolire le ipotesi accusatorie, utilizzando i canali televisivi…», aveva scritto il piemme Mignini nel primo decreto di perquisizione a mio carico. Insomma, ero colpevole di avere criticato la loro indagine. Ero colpevole delle idee che avevo espresso e, soprattutto, delle verità basate su documenti.

Qualcuno, più tardi, invece, dirà e scriverà che mi sono cacciato nei guai perché credo di essere un giornalista investigativo. Rischi del mestiere, insomma.

Io, invece, non so bene neanche che cosa si intenda con quell'espressione. Se si vuole indicare un tipo a metà tra Indiana Jones e Humphrey Bogart, Borsalino spinto indietro sulla nuca, eterna Lucky all'angolo della bocca e, soprattutto, uno che non si fa scrupoli nell'andare a cercare notizie e prove nei cassetti di uno sconosciuto o tra le lenzuola sgualcite di una sconosciuta, ebbene, allora, io sono completamente diverso. Borsalino e sigarette a parte.

Io sono uno al quale, qualcosa come trenta anni fa, quando cominciai il mestiere, fu insegnato che un giornalista – giornalista e basta, senza aggettivi – deve verificare ogni notizia, dalla grafia esatta del nome di una strada sull'elenco del telefono, a quella data dalla fonte più sicura, papa incluso.

Adesso, se fai così, dicono che sei già un giornalista investigativo. Gli altri, allora, che fanno? Rimettono la sera in copia più o meno bella quello che il mattino hanno scritto sul taccuino sotto dettatura?

Io ho sempre pensato e penso di essere solo un cronista e che un giornalista deve fare il giornalista, e un investigatore, l'investigatore. Penso anche che il limite, forse l'unico, oltre cui un cronista giudiziario non deve andare è non mandare in malora un'inchiesta. Sono anche sempre stato convinto che se quei due si scambiano le parti, perlopiù va a finire tutto in un gran casino.

Mi sono sempre attenuto a queste regole.Però, a me, è finita male lo stesso.

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Sono in una prigione che chiamano Capanne, una ventina di chilometri fuori Perugia, solo in una cella. Non ho male dentro, qualcosa ha anestetizzato i sentimenti. Meccanismi automatici di difesa, credo che si dica in questi casi. Sicuramente un senso di irrealtà, di assurdo. E di comico. Lo so, è troppo facile, in una situazione così, citare Kafka e il suo Processo. Ma io lo faccio, perché questo è diverso: sembra riscritto da Franco e Ingrassia.

Il fatto è che Giuttari e Mignini mi hanno fatto cadere dentro la mia stessa storia, una tra le tante che per professione ho seguito – delitto Moro, Ustica, P2, sequestri di persona, terrorismo rosso e nero, fino a beccarmi due "condanne a morte" da Prima Linea e da Ordine Nero –, proprio dentro quella che seguo da più tempo, quella che ho cominciato a scrivere dal giugno 1981, per cui i colleghi, per prendermi in giro, mi hanno ribattezzato "il mostrologo". Una storia di delitti orrendi, di assassini inafferrabili, di grotteschi "compagni di merende", di indagini infinite che si nutrono una delle altre, di processi, di prigioni, di dolore. La storia, insomma, del Mostro di Firenze. La storia lunga trentotto anni che ho appena rimesso insieme e raccontato, con l'amico Douglas Preston, uno dei più noti autori americani di thriller, soprannominato "the best sellers maker" – e infatti il suo ultimo romanzo, Dance of Death, è stato cinque settimane al sesto posto della classifica del «New York Times» –, uno scrittore cui Hollywood compra diritti per fare film, un giornalista che scrive per testate che si chiamano «National Geographic», «New Yorker», «Vanity Fair».

Insieme abbiamo scritto un libro intitolato Dolci colline di sangue, che tra dodici giorni Sonzogno dovrebbe fare uscire in libreria.

Adesso ho paura anche per il libro. Paura che lo blocchino con una scusa. Perché Giuttari e Mignini, adesso, vogliono aggiungere alla storia altri capitoli, non più di carta, ma di vita. La mia.

Loro mi hanno spinto dentro quelle pagine e io ci sono cascato nel più crudele dei modi, incarnando, cioè, uno di quelli che per me sono i tre archetipi del terrore: finire sotto terra in una bara sepolto vivo; tentare di correre per sfuggire a un tremendo pericolo, magari un'onda alta trenta piani, e non riuscire ad avanzare di un centimetro; essere chiuso innocente, per l'appunto, in una cella e, magari, venire dimenticato.

Non che mancassero le avvisaglie – sono stato perquisito tre volte in due anni – ma insomma, l'ipotesi dell'arresto era stata fino a oggi solo la scusa per qualche battuta al giornale: «Che ti porto in galera? Arance o sigarette?» Roba da riderci su.

Svuotato sul tavolo il sacco di nylon con il corredo del detenuto, spengo la luce che disegna in maniera troppo violenta la mia nuova realtà. Per illuminarla mi basta quella gialla che viene da qualche lampione fuori. Mi siedo sul letto in basso e accendo un'altra sigaretta. Un pacchetto di Marlboro e un accendino sono le uniche cose che possiedo.

Mi hanno portato via da casa senza farmi prendere niente, neanche il portafoglio, vestito com'ero, pantaloni, camicia e pullover. Non ho una penna, un pezzo di carta, uno spazzolino da denti, un rasoio, neanche un pettine. Tutto quello che avevo in tasca, me l'hanno sequestrato all'arrivo in carcere, con la grazia del pacchetto di sigarette e dell'accendino. Oltre all'orologio, si sono presi la catena che avevo al collo, gli anelli, il cellulare. Le stringhe delle scarpe, no, perché avevo i mocassini. In compenso, se mi voglio impiccare, mi hanno lasciato le bretelle. Provo a scoprire che ora è infilando il naso tra due sbarre, ma da dove mi trovo non riesco a vedere l'orologio tondo appeso al soffitto del corridoio che avevo notato quando ero arrivato.

Nella cella non c'è un posacenere. Butto i mozziconi per terra, in un angolo, e lascio che si consumino fino a spengersi. Quando ce ne sono a sufficienza da darmi fastidio, mi alzo, li raccolgo e li butto in una pattumiera di plastica blu che è dietro la porta. Al ritmo con cui fumo, devo ripetere l'operazione abbastanza spesso. Non mi preoccupo delle sigarette che finiranno presto, sono sicuro che il giorno dopo potrò comprarne altre e che, comunque, mi restituiranno i pacchetti che mi hanno

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sequestrato.Entro nel gabinetto e guardo la mia faccia nel piccolo specchio che è sopra al lavandino. Mi

meraviglio che sia sempre la stessa. Perché il resto è tutto cambiato. Il mio mondo non c'è più. Strano, sono passate solo poche ore dall'arresto, eppure quella che era stata la mia vita mi sembra lontanissima, quasi amputata dalla mia persona.

Adesso il mio mondo, lo spazio, ma anche il tempo, ha le dimensioni della mia cella, la cella 2 nel braccio "Osservazione", o anche "Transito", in sigla "TR", una specie di sezione di isolamento. Non posso avere contatti con nessuno, neanche con gli altri detenuti, ma, questo, ancora non lo so. Dei miei compagni di braccio, credo in tutto una decina, che si parlano da cella a cella, sento le voci gutturali in arabo, albanese, in qualche lingua che non riconosco, con sullo sfondo il gracchiare elettronico delle televisioni accese ognuna su un programma diverso. Siamo tutti dallo stesso lato del corridoio e non ci possiamo vedere.

È un mondo tremendamente angusto, lo so. In compenso, è completamente vuoto. Qui è difficile anche trovare un punto di riferimento per fissare in qualche modo un "prima" e un "dopo". Un "prima" e un "dopo" di che cosa?

Certo, non ho dimenticato niente del mondo che avevo, e mia figlia e mia moglie in qualche modo vagano nella cella. Ma al posto delle emozioni e dei sentimenti che provavo, adesso ne ho solo il ricordo.

Anestesia locale. Del cuore.Anche io ho la televisione, inchiodata al muro sopra la porta. Sulla parete accanto al letto

superiore ci sono i comandi. Rifiuto di delegare a quella scatola di metallo e circuiti stampati la mia vita, qualunque essa sia, e la lascio spenta.

Rifiuto l'anestesia anche del cervello.Più o meno a quell'ora vanno in onda i telegiornali, che non vedo. Alla gente che non mi

conosce, ai miei amici che non sanno, a qualche parente sparso per l'Italia una bella collega con gli occhi azzurri, una mia grande foto alle spalle, annuncia, senza alcun tono di sorpresa, e tanto meno di scandalo: «E torna alla ribalta l'inchiesta sul Mostro di Firenze, oggi con due arresti: il giornalista Mario Spezi, accusato di avere depistato le indagini, e un pregiudicato campano. Il servizio di Alvaro Fiorucci».

La voce perugina di Fiorucci fa tranquillamente scivolare il racconto su una serie di immagini di repertorio: io che cammino per le strade di Perugia; io che vengo portato via in auto dal Magnifico di Firenze; la solita cartina con i luoghi dei delitti attorno a Firenze e le foto dei morti; una passerella davanti della procura di Perugia del sostituto procuratore Mignini e del commissario Giuttari, che, per andarsene a prendere il caffè, devono per forza passare davanti a qualche telecamera; il farmacista Calamandrei con l'espressione di chi non ha capito in che film è.

Mario Spezi, scrittore e cronista storico dei duplici omicidi delle coppiette – racconta Fiorucci, anche lui per niente scosso dal fatto che un giornalista sia stato sbattuto in galera – è stato arrestato assieme al pregiudicato Luigi Ruocco con l'accusa di avere ostacolato le indagini sull'omicidio del medico Francesco Narducci avvenuto nel 1985, ordinato, secondo la procura perugina, per coprire il coinvolgimento del medico perugino nelle vicende del Mostro di Firenze. Il pubblico ministero di Perugia Giuliano Mignini, che ha ottenuto dal gip Marina De Robertis l'ordinanza di custodia cautelare, ipotizzerebbe che i due avrebbero tentato di far ritrovare alla polizia nella villa Bibbiani di Capraia oggetti e documenti che avrebbero riaperto la cosiddetta pista sarda archiviata negli anni Novanta a scapito delle indagini che coinvolgono proprio Mario Spezi e il farmacista di San Casciano Francesco Calamandrei nell'omicidio di Francesco Narducci.

Ohi, questa è roba seria: coinvolto in un omicidio, altro che idee. Chissà che avranno in mano per sospettarmi di un delitto del genere? Che traccia avranno mai trovato che mi ricollega a un signore affogato nel Trasimeno venti anni prima e che solo Giuttari e Mignini credono che sia stato ucciso e non morto per disgrazia o per suicidio?

Poi, la telecamera propone un primo piano sul viso del commissario Giuttari che recita una tautologia: «Sono stati raccolti soprattutto negli ultimi mesi tutta una serie di elementi indiziari che

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hanno portato a emettere questa ordinanza di custodia cautelare in carcere».Sullo schermo, infine, compare l'amico Douglas Preston, colto quando, qualche giorno prima,

usciva dalla procura di Perugia, dove aveva subito un interrogatorio che lo aveva sconvolto e, poi, fatto molto meditare sulla Giustizia italiana.

«Per lo stesso presunto depistaggio – concludeva il racconto il cronista Fiorucci – sono indagati un ex ispettore della Polizia di Stato e lo scrittore americano Douglas Preston, che con Mario Spezi ha appena scritto un libro sul Mostro di Firenze».

Fine. Nessuna domanda sull'arresto di un giornalista, nessuna considerazione, nessun parere chiesto a chi, anche professionalmente, mi conosce bene, magari un qualsiasi magistrato di Firenze, dove per venti anni ho fatto il cronista giudiziario.

Servizio successivo.Mentre, grazie al tubo catodico, divento celebre nei tinelli degli italiani, nella mia cella ho

freddo. Freddo e fame. Non mangio da mezzogiorno e io a quell'ora mi tengo leggero. Poi c'è che, a me, il nervosismo, invece di chiudere lo stomaco, lo apre.

Vado allo spioncino del blindato e chiamo: «Guardia!» Al terzo tentativo, un tipo in tuta da combattimento e anfibi si avvicina, la faccia scocciata. Gli dico che ho fame, che vorrei qualcosa da mettere sotto i denti. Quello mi guarda stupito, poi annuisce, tipo presa per i fondelli: «Sì, mo' ariva, devi solo aspetta'…»

Colgo il messaggio e mi rimetto ad aggeggiare con la roba che mi è stata consegnata. Faccio il letto, quello di sotto, ché con la mia discopatia di sessantenne salire e scendere dalla branda di sopra sarebbe una sofferenza. Non ho niente per la notte, dovrò dormire vestito.

Ripongo in un armadietto la scodella di metallo, quella di plastica, il bicchiere e tutte quelle posate bianche. Noto che uno dei coltelli, uno solo, ha una forma un po' diversa dagli altri. "Sarà per il pesce", sghignazza una vocina qualche parte dentro il mio cervello. D'accordo, non un granché come humour, ma, date le circostanze, decido di darmi la sufficienza.

Messo via il servito, apro gli altri armadietti, così, per fare qualcosa. E dentro a uno trovo un mezzo chilo di pane tagliato a fette e ancora sigillato in una specie di domopak. Doveva essere dell'inquilino precedente. Lo apro, mangio una, due, tre fette e le mando giù con l'acqua del bidet raccolta nel bicchiere di plastica.

Pane e acqua, un classico.In quel decreto di perquisizione di Mignini c'era un'altra "chicca", che gli aveva prestato il

commissario Giuttari, il quale aveva fatto una scoperta illuminante durante le sue indagini, perlopiù svolte evidentemente guardando la televisione e leggendo i giornali. Nel numero della «Nazione» del 23 giugno 2004 il poliziotto aveva letto una mia intervista a Mario Vanni, l'ormai vecchio "compagno di merende" di Pietro Pacciani condannato all'ergastolo e ospite, per motivi di salute, in una casa di cura. Io, e lo avevo scritto in quell'articolo, tanti anni prima, sarà stato il '64 o il '65, partecipai a una cena goliardica a Montespertoli con un sacco di amici di allora, tra i quali anche il futuro farmacista Calamandrei. Anzi, l'appuntamento era a San Casciano, proprio davanti alla farmacia che, allora, era ancora del padre. Da bravo figlio di papà, arrivai con la mia MG Midget decappottabile verde e ruote a raggi. Qualcuno di quei "vitelloni" decise di far partecipare alla cena anche il "grullo" del villaggio, il postino Mario Vanni. E lui arrivò entusiasta, braccio teso nel saluto romano, in bocca «Eja, eja alalà» e «Torneremo!», un'asta con il tricolore su una spalla. Lo misero nella mia macchina, che era scoperta e, così, bandiera al vento, il corteo dei goliardi mosse verso la trattoria di Montespertoli.

Io, come si chiamava quel tipo buffo, non lo sapevo e, credo, nessuno me lo disse. Non lo rividi più.

Molti anni dopo, a metà dei Novanta, per caso incontrai per strada Calamandrei, che avevo anche perso di vista da quando nel 1969 si era sposato. Ci aggiornammo sulle nostre vite e la sua davvero non era stata felice, ma ricordammo anche i tempi di gioventù. Lui mi ripropose il ricordo di quella cena, che però a me era quasi del tutto svanito, e mi chiese se ricordassi il "grullo" con la bandiera che avevo portato nella mia spyder. Dissi che non ricordavo l'episodio, e lui aggiunse: «Bene, comunque sai chi era? Era Mario Vanni».

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Il "grullo" era diventato celebre, nel frattempo: lo avevano condannato come "compagno di merende".

Mi venne da ridere.Ebbene nel documento firmato dal sostituto procuratore Mignini era scritto che, come

dimostrava la mia intervista, conoscevo «Mario Vanni dalla fine degli anni Sessanta».L'espressione era stata ripresa direttamente da un rapporto del commissario Giuttari che, lo

stesso giorno della pubblicazione dell'articolo, il 23 giugno, aveva richiesto la mia perquisizione «perché – aveva scritto – conoscevo Mario Vanni fin dalla gioventù». Da notare che la scoperta dei miei "rapporti" con Vanni era stata fatta leggendo un mio articolo sul giornale e sottolineo la rapidità della richiesta, a poche ore dalla lettura dell'intervista, senza, quindi, che ci fosse spazio per un qualsiasi controllo, per una qualche parvenza di indagine sulla mia supposta conoscenza di Vanni, che avevo incontrato una soia volta in vita mia e senza neanche sapere come si chiamava.

Quel «fin dalla gioventù» era ed è un falso. Scritto da un poliziotto condannato l'anno prima a un anno e otto mesi per falsa testimonianza dal Tribunale di Palmi perché aveva mentito in Corte d'Assise sui suoi ambigui rapporti con un boss della 'Ndrangheta che aveva cercato, non per catturarlo, ma per chiedergli una raccomandazione per una promozione e falsamente a capo di un'inesistente Squadra Speciale.

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Io, come ho già detto, quando sono nei casini ho fame e, se non posso fare niente per cercare di uscirne fuori, ho voglia di dormire. Insomma, stacco la presa dal mondo, lo cancello con il telecomando di qualche ghiandola cerebrale.

Niente notte agitata, la mia prima notte in galera; niente passi nervosi su e giù come un leone in gabbia; niente disperazione da buttare contro il soffitto bianco; nessun ululato alla luna che non vedo. Mi tolgo solo le scarpe e tutto vestito mi infilo sotto il lenzuolo e la coperta con la sigla AP, la faccia contro il muro. Accanto al letto, a mo' di comodino, ho messo uno sgabello e sopra le sigarette, l'accendino e il bicchiere di plastica pieno d'acqua.

Prima di chiudere gli occhi, ho il tempo di notare che la luce gialla che viene da fuori proietta sulla parete, proprio sopra la mia testa, una croce, l'intersezione di due sbarre della finestra.

Affondo in un sonno nero e denso.Di colpo la luce del soffitto si accende come un'esplosione muta e cancella i miei sogni. Loro

possono attivarla dall'esterno di ogni cella. Vedo due occhi scuri che mi scrutano dallo spioncino quadrato del "blindato". Riporto con indifferenza lo sguardo sulla finestra a sbarre dalla parte opposta, come se loro non esistessero. O, meglio, come se non fossero persone. "Loro" sono le guardie.

Non è stata neanche una scelta, né il risultato di qualche ragionamento, solo che è stato così dall'inizio, dal primo contatto con i secondini. Non per disprezzo, ma li ho cancellati dal genere umano e li ho classificati come fastidiose presenze in questo mio nuovo mondo. Presenze delle quali devo tenere conto e alle quali non posso oppormi, ma con le quali non posso avere alcun rapporto, neanche di antipatia.

La presenza dietro allo spioncino, intuisco, ha acceso la luce e mi osserva perché è la mia prima notte in prigione. Potrei fare la sciocchezza irrimediabile. Non ci penso neppure.

La luce si spenge e tutto torna abbastanza indistinto nell'alone giallo che viene da fuori.Questa notte la luce torna a riaccendersi altre tre volte.

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Erano arrivati a prendermi alle quindici e trenta, con una specie di trucco, di cui non capisco il motivo neanche adesso. Più o meno alle due qualcuno mi aveva telefonato dalla caserma dei carabinieri di Grassina, la stazione più vicina a casa mia, su una collina a sud di Firenze. Una voce che conoscevo, perché da ormai quasi due anni ogni tanto sono chiamato dai carabinieri, mi aveva detto gentilmente: «Dottor Spezi, potrebbe passare da noi verso le quattro e mezza?»

«D'accordo, ci sarò», avevo risposto non del tutto tranquillo.Mia moglie Myriam, poi, mi ha detto che aveva sentito accendersi dentro la sua testa quel calore

inequivocabile. Le succede tutte le volte che ha l'intuizione che la realtà non è come si presenta e che le cose stanno per andare male, molto male. Roba da intuito femminile, insomma.

«Ti vogliono arrestare», mi ha detto, gli occhi azzurri aperti sulla paura.Io mi sono pure arrabbiato, altro segno inequivocabile che temevo che avesse ragione, ma non

volevo ammetterlo: «Possibile che, invece di tranquillizzarmi, tiri fuori sempre argomenti che danno angoscia? Ma che vuoi, che mi invitino per arrestarmi? Sarà come le altre volte, mi restituiranno della roba che mi hanno sequestrato».

Finito il pranzo ero salito nel mio studio e mi ero messo al computer dopo avere acceso il brano jazz I surrender, my dear. E, così, non ho sentito il campanello dell'ingresso. Dal fondo delle scale mia moglie mi ha chiamato: «Mario, hanno suonato. La polizia…» I suoi occhi erano già pieni di panico.

Erano tre dei soliti che ormai da un paio di anni mi venivano a fare visita all'improvviso per perquisirmi la casa. Lo avevano fatto già tre volte, l'ultima pochi giorni prima, dopo l'interrogatorio a Perugia di Douglas Preston e la sua partenza per gli Stati Uniti. Il lungo con l'aria da bravo ragazzo e il basso e tarchiato con i capelli rossi a spazzola e la faccia che doveva sembrare quella di uno cattivo. La novità era la ragazza, carina, tonica, jeans e Reverse, capelli ramati.

«Ancora!», avevo detto, appena li avevo visti. «Che volete questa volta? Un'altra perquisizione?» Ma lo sapevo che questa volta era diverso, lo sapevo che aveva ragione mia moglie. Ma loro, niente, non lo hanno detto.

«Deve venire con noi», si è limitato a rispondermi il truce.«Dove? Alla caserma di Grassina? Ma mi avevano detto tra un'ora… alle quattro e mezza…»«Fa niente… venga adesso».L'adrenalina mi è entrata in circolo in dosi massicce. Ho sentito che c'era la sorpresa e che non

mi sarebbe piaciuta per niente. Ho preso il cellulare e ho chiamato uno dei miei avvocati, Nino Filastò.

«Nino, sono tornati. Questa volta mi vogliono portare via… No, niente perquisizione, mi portano alla caserma di Grassina… No, non mi hanno detto altro… Ok, ci conto».

Ho preso le chiavi della mia Twingo, deciso a spostarmi con i miei mezzi. Con quelle chiavi volevo dire ai poliziotti: «Vi seguo, ma io sono libero».

Mi hanno lasciato fare. Solo quando siamo stati in strada, al parcheggio, e hanno visto che me ne andavo verso la mia macchina, hanno detto: «Fermo! Dove va? Lei viene con noi!»

Quella frase, proprio non la volevano dire, ma ormai era chiaro: ero in arresto.Visto che continuavano a nascondersi dietro al silenzio, ho fatto l'imbecille: «No, grazie.

Preferisco la mia macchina. Così non dovete disturbarvi a riportarmi a casa…»«Spezi, la smetta! Salga sulla nostra auto!»Ho visto con la coda dell'occhio Myriam che era scesa dietro a noi e ci aveva raggiunto. Era tesa

come un filo di seta sul punto di spezzarsi. Dell'equivoco, ormai, era rimasta solo un'apparenza trasparente.

Mi ci attaccai: «No, io mi sposto come mi pare. A meno che sia in arresto. E, allora, fatemi

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vedere il mandato!»Non ce l'avevano. Era incredibile, ma non avevano niente. Potevo risalire in casa e sbattergli la

porta in faccia. Se mi avessero messo le mani addosso e caricato a forza nella loro fottuta Alfa nera, che nome avrebbe avuto la loro azione: sequestro di persona? Revival di un'operazione della Stasi, la polizia segreta della defunta Repubblica Democratica Tedesca? O della Gestapo? O di una qualsiasi polizia di un dittatorello sudamericano?

«Venga con noi!»«Perché? Sulla base di che cosa? Fatemi vedere un foglio… qualcosa… Non potete portarmi via

così… sarebbe un sequestro di persona! Se sono in arresto, ditelo! E fatemi vedere il mandato!»Il rosso a spazzola mi si è avvicinato: «Non insista, Spezi, è solo peggio. Venga!»Poi, una frase che forse voleva essere gentile, ma a me è sembrata solo assurda: «È per sua

moglie, per non scioccarla…»«Non mi tocchi! Vi rendete conto che mi state sequestrando? Io non vengo con voi!»Myriam ormai era a due passi e poteva sentire: «Mario, che cosa vogliono? Dove vogliono

portarti?» La sapeva anche lei la risposta, ma non aveva ancora il coraggio di darsela.Gliel'ha data il rosso, nascondendola nel gergo della giustizia: «Stiamo eseguendo un ordine di

custodia cautelare, signora».A mia moglie, straniera, la complessa definizione del mandato di cattura non è apparsa chiara:

«Che cosa? Che…?»Ho tagliato corto: «Mi hanno arrestato Myr. Vogliono portarmi in carcere. Avverti subito Filastò

e anche l'avvocato Traversi e gli altri, l'Ansa, "La Nazione"… tutti!»Negli occhi celesti di mia moglie ho visto svanire qualcosa di molto simile alla vita.Forse è in quel momento che sono entrato nel mio nuovo mondo: l'assurdo. Uno stacco brusco

dalla realtà per entrare in un incubo altrettanto reale. Forse è stato in quel momento che tanti fili che mi tenevano collegato alla vita, alle sue emozioni, ai suoi sentimenti, si sono staccati. Ero in un'altra dimensione e già vedevo gli altri e il resto lontanissimi, come un astronauta in orbita affacciato all'oblò della sua capsula spaziale, o, forse, come un entomologo osserva gli insetti sotto la lente del suo microscopio. Dei due, a ogni modo, avevo il distacco.

Mi sono appoggiato con un braccio al tetto della Twingo: «Non avete un mandato, non potete arrestarmi. Avanti, allora… prendetemi con la forza! Io, di mia volontà, non vengo…»

Con la coda dell'occhio ho visto che a Myriam si era avvicinata, lo spavento in viso, la signora Giovanna del piano terreno. Assisteva a quel teatro dell'assurdo e non sapeva che cosa fare e che cosa dire.

Loro si devono essere resi conto che avevano fatto una sciocchezza. Il rosso e quello con l'aria da bravo ragazzo hanno fatto per avvicinarsi a me con aria decisa: «Non ci costringa a prenderla con la forza…»

Ho capito che l'avrebbero fatto e sentire le loro mani addosso non mi piaceva. Avrei reso la scena più drammatica, ma non sarebbe servito a molto. E, comunque, c'era chi poteva raccontare come quell'arresto era avvenuto. Poi, mi sono detto stupidamente, questo è un equivoco che in poche ore nella caserma di Grassina si chiarirà, qualche titolo sui giornali per un paio di giorni e fine della storia.

Sono salito sulla loro Alfa nera, sul sedile posteriore, e il truce e la poliziotta con i capelli ramati si sono messi uno da una parte e una dall'altra.

Sono partiti facendo ovviamente fischiare le gomme sull'asfalto.Ma, arrivati in fondo alla stradina dove abito, invece di prendere a destra, verso Grassina, hanno

girato a sinistra, verso l'imbocco dell'autostrada di Firenze Sud.«Ehi, ma dove andiamo? Dove cavolo mi portate?»Il truce: «Non si preoccupi».«Come, non mi preoccupo? Avrò pure il diritto di sapere dove finisco? Ditemelo, perdio!»Come risposta, la rossa finta e il rosso vero hanno girato i visi verso i finestrini e si sono messi a

guardare il panorama. In tasca avevo il cellulare. L'ho aperto per chiamare l'avvocato Filastò e avvertirlo che era inutile che andasse dai carabinieri di Grassina e che, poi, gli avrei fatto sapere

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dove mi avrebbe potuto trovare.«E basta con 'sto telefono!» La poliziotta tonica me l'ha strappato di mano, lo ha spento e se l'è

messo nella tasca dei jeans.«Ma insomma… Non sarà mica un segreto di stato dirmi dove mi portate!»«Per ora – concesse il rosso – andiamo al Magnifico».

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5

Il Magnifico, a dispetto del nome, è un orrendo edificio a due passi dall'ingresso di Firenze Nord e dall'aeroporto di Peretola. Si chiama così perché era nato come residence ai tempi dei Mondiali italiani, ma non fu neanche inaugurato. Poi lo comprò la polizia per farci appartamenti per i suoi dipendenti e degli uffici. Da qualche anno l'ultimo, sterminato piano è occupato dalla mezza dozzina di uomini del GIDES.

Ci siamo arrivati in pochi minuti. Abbiamo attraversato quella che avrebbe dovuto essere la hall del residence e con l'ascensore sono stato portato all'ultimo piano. Larghi corridoi disadorni, ampi saloni illuminati da una luce che, attraversando con qualche difficoltà i vetri sporchi, tingeva tutto di grigio. Il Magnifico a quel livello sembrava più un vuoto garage sotterraneo che un ufficio di polizia. Mi hanno fatto entrare in una stanza dove, accanto alla finestra, c'erano due piccoli divani contrapposti e, in mezzo, un tavolino basso.

«Si sieda».Ho ubbidito. Poi ho acceso una sigaretta. E ho deciso di non parlare con loro che, seduti davanti,

mi controllavano.Non sapevo perché mi avevano arrestato, non conoscevo i reati che mi contestavano. Come K,

appunto, il protagonista del Processo di Kafka. Non gliel'ho voluto chiedere.Dopo un bel po' di silenzio, ho sentito la necessità di andare in bagno e ho chiesto il permesso. Il

grosso mi ha scortato fino al cesso e lì, anche se lo avevo capito da un pezzo, per la prima volta, ho sentito veramente che cosa vuol dire essere amputato della libertà: fai un'azione banalissima, per di più riservata per definizione, e uno sconosciuto resta accanto a te a osservarti. Situazione anche ridicola, bisogna ammetterlo. Non ho provato né vergogna né rabbia. Pena, sì, per quell'aspetto ignorato del lavoro del poliziotto fatto di sacrifici.

Sono rimasto in quella stanza che si riempiva di fumo, non solo mio, almeno due ore, senza dire e fare alcunché. Il commissario Giuttari, la cui sorprendente indagine aveva portato al mio arresto, ha preferito non farsi vedere da me. Non gli mancavano i motivi per quella scelta.

Ho pensato che quel soggiorno ozioso fosse dovuto allo svolgimento di certe pratiche burocratiche, anche se mi era sembrato troppo lungo. Probabilmente, invece, stavano aspettando i risultati della perquisizione in casa di un ex poliziotto mio amico e di un'altra in una villa dal parco sterminato dalle parti di Montelupo Fiorentino.

Poi sono venuti a riprendermi e mi hanno fatto rifare il percorso inverso fino alla hall mancata del Magnifico. Non mi hanno messo le manette, mai. Sapevano che non avrebbe fatto un gran bell'effetto per l'Italia la fotografia in giro per il mondo di un giornalista con i polsi infilati nei "ferri". Mi hanno tenuto, da una parte e dall'altra, saldamente sotto braccio. La costrizione, anche se limitata, dei propri movimenti è stata una sensazione orrenda.

Prima della porta a vetri, l'aria di circostanza, c'erano i miei due avvocati, Nino Filastò e Sandro Traversi, che sono anche due miei amici. Sono andato verso di loro e i miei custodi mi hanno lasciato fare. Gli avvocati mi hanno detto qualche parola che non ricordo per farmi coraggio e che sarebbero venuti a trovarmi prima possibile. Io ho pensato alle sigarette che sarebbero finite presto e che non avrei potuto sostituire, perché mi avevano portato via senza neanche farmi prendere il portafogli. L'ho detto loro. Un gesto simultaneo, e tutti e due hanno tirato fuori qualche decina di euro e me le hanno infilate in tasca. Poi, un saluto mogio.

Fuori era un bel pomeriggio assolato, il cielo era blu, il sole mi ha colpito la faccia e mi ha costretto a chiudere gli occhi. Buffo, fino a quel momento non ci avevo pensato: ad aspettarmi, dalla parte opposta del piccolo piazzale davanti all'ingresso del Magnifico, schierati che formavano un muro, erano i miei colleghi e i fotografi con i loro zoom a cannone e le telecamere. Qualcuno di loro mi ha chiamato per nome, ché sennò la foto non veniva bene, e allora ho aperto gli occhi, ho

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alzato il viso e li ho visti. Credo di aver sorriso, ho alzato un braccio per salutarli e prima che mi infilassero in una Alfa 147 nera ho agitato la mano con le dita a V come Churchill. "Magari ho esagerato – ho pensato –. Magari sono ridicolo".

Seduto accanto al finestrino, sono passato a tutta velocità davanti ai fotografi che mi bersagliavano di scatti, gli occhi fissi davanti a me, sulla bocca un sorriso, così, tanto per far vedere che quella faccenda non mi sembrava tanto seria.

Proprio mentre l'auto superava il cancello, gli strilli di una donna mi hanno fatto girare la testa e ho colto un paio di fotogrammi di Antonella che gridava con il suo forte accento siciliano: «Tutti quelli che avvicinano Spezi finiscono in galera!» Era Antonella Triolo, la mamma di Veronica, la bambina che qualche anno prima era stata sottoposta a sua insaputa a una sperimentazione abusiva di psicofarmaci e sulla cui storia avevo scritto un lungo articolo. Antonella, semplice, quasi analfabeta, espansiva, generosa e appassionata, che poi aveva ottenuto giustizia facendo condannare per la prima volta in Italia un medico per lesioni volontarie, aveva molto affetto per me. Era lei, involontariamente, l'inizio del capitolo che stava andando avanti con il mio arresto. Era la moglie separata di Luigi Ruocco, «il pregiudicato campano», come lo avrebbe definito qualche ora dopo il Tg, catturato quel pomeriggio assieme a me, perché mi avrebbe aiutato nel tentativo di depistare le indagini sul Mostro e così, era scritto nell'ordine di carcerazione, «allontanare i crescenti sospetti su di me». Che anche Ruocco fosse finito nel mirino di Giuttari e Mignini, però, a quel punto del pomeriggio, ancora lo ignoravo.

L'Alfa 147 nera su cui mi trovavo era in mezzo ad altre due, o forse tre, che, tutte in fila, formavano un rumoroso e fastidioso corteo: lampeggianti blu accesi sul tetto, sirene a decibel da inquinamento acustico folgorante, gomme gementi a ogni curva, palette sporgenti dai finestrini per bloccare eventuali automobilisti distratti che non cedevano il passaggio, sguardi "cattivi" dei poliziotti che, in borghese, più poliziotti non potevano essere. La scena, vista da fuori, doveva ricordare, anche se in toni più sbiaditi, quella dell'arresto di Brusca che veniva portato in questura a Palermo. Quel 7 aprile, il "trofeo" ero io: un giornalista free lance di sessanta anni, con parallela attività di disegnatore satirico e caricaturista.

Infilammo il casello di Firenze Nord senza un'esitazione e ci buttammo nella corsia sud, direzione Perugia, l'ululato delle sirene che mi scuoteva il cervello e mi faceva digrignare i denti.

A quell'ora i venti chilometri di autostrada che circondano come una circonvallazione Firenze sono sempre completamente intasati e le auto procedono su due colonne a passo d'uomo, prima, seconda, alt, prima, seconda, alt. La terza resta un miraggio. Noi, invece, andavamo a tutta velocità, corsia d'emergenza e, quando anche questa era bloccata, slalom tra le auto in fila, la paletta agitata minacciosa davanti al naso di intimoriti automobilisti che per farci passare si mettevano nelle più difficili posizioni. Brusche frenate, ripartenze a razzo, centimetri di gomma lasciati sull'asfalto, clacson nervoso nelle orecchie dei più recalcitranti, carrozzerie che si accarezzavano: doveva sembrare un film.

Al volante era Tiziana, la rossa, che sembrava divertirsi da matta e allo stesso tempo conquistava a modo suo qualche punto sui maschi.

«Guida bene, lei», le ho detto calmo.«Grazie», mi ha risposto soddisfatta.Ho acceso una sigaretta e dopo qualche boccata ho chiesto al rosso che mi stava accanto: «Ma è

proprio necessario tutto 'sto casino? Non si può fare a meno della sirena, mi buca il cervello?»«Ora, appena siamo fuori dall'ingorgo, la spengiamo».Lo hanno fatto più o meno all'altezza dell'uscita di Firenze Sud. Allora ho alzato gli occhi verso

destra e su, in cima alla collina, ho rivisto casa mia. Ho pensato a Myriam lì dentro, forse ancora sola con la sua angoscia, e ho avuto male allo stomaco. A Giuttari e a Mignini ho rivolto un pensiero da querela immediata.

Il viaggio è rimasto veloce, ma finalmente tranquillo. Nessuno parlava dentro l'abitacolo. Ho ripensato agli ultimi avvenimenti, quelli che mi spingevano verso il carcere, quelli che erano cominciati, una sera di gennaio, proprio in casa di Antonella Triolo, la moglie del «pregiudicato campano» Luigi Ruocco.

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6

A casa di Antonella, quella sera, avevo dato appuntamento a Fernando Zaccaria, Nando, come lo chiamano tutti, alternativa borghese al vecchio "Serpico", il soprannome che si era guadagnato anni prima quando era ispettore di polizia alla "Mobile", specializzato nell'infiltrarsi nelle gang di trafficanti di droga, uno che la vecchia "mala" fiorentina la conosceva pregiudicato per pregiudicato. Nando aveva lasciato in anticipo la polizia ed era diventato presidente di un importante istituto di vigilanza privata. A dispetto degli anni, che poi non sono tanti, ha conservato l'aria da scugnizzo napoletano prigioniero di un doppiopetto, i capelli lunghi fin quasi sulle spalle, anche se grigi, lo stesso entusiasmo nel lavoro. Era il miglior amico di Antonella, perché per anni l'aveva aiutata solo per generosità e voglia di giustizia a raccogliere tutti gli elementi che erano serviti a far condannare il medico che aveva sperimentato gli psicofarmaci sulla figlia.

A Nando avevo raccontato quello che io e Douglas Preston avevamo raccolto e scoperto sul caso del Mostro di Firenze e che avevamo messo nel nostro libro Dolci colline di sangue che sarebbe stato pubblicato tra un paio di mesi. A noi non tornava niente dell'indagine di Giuttari e Mignini e neanche di quella parallela condotta dal sostituto fiorentino Paolo Canessa, che cercavano tutti, anche se in direzioni diverse, oscuri quanto "eccellenti" mandanti per quei delitti. Per noi, dietro a quella catena di orrendi omicidi c'era solo, si fa per dire, un serial killer solitario. Come, anni prima, avevano scritto i supersbirri della speciale sezione dell'FBI. E per noi l'assassino era da cercare in mezzo, o vicino, a quella banda di sardi che, nel 1968, per uccidere aveva usato per la prima volta la Beretta 22 che, dal 1974, era diventata del Mostro. Da Nando volevo sapere se aveva qualche cosa di inedito da raccontarmi su quei tipi.

Quella sera, a casa di Antonella, avevo portato anche la foto di uno di loro, di quello che aveva più di altri attirato l'attenzione mia e di Douglas. Seduti attorno a un tavolo nel tinello, gliela mostrai, senza dirgli di chi era e lui cominciò a ricordare avvenimenti vecchi. Collegò quel viso a nomi sardi, nomi che decenni prima avevano riempito paginate di cronache nere, quelle che raccontavano la terribile saga dei sequestri di persona in Toscana. Alcuni di quei nomi erano stati per anni collegati al caso del Mostro, avevano formato la cosiddetta pista sarda, abbandonata dagli inquirenti nel 1989, quando decisero di puntare su Pietro Pacciani, il contadino di Mercatale Val di Pesa.

Antonella, che ci aveva fatto il caffè, stava ad ascoltare e, all'improvviso, se ne uscì esclamando: «Ma quelli lì, Luigi li conosce tutti! E li ho conosciuti anch'io, solo che ero una bambina. Mi ricordo quando mi portavano alle loro feste in campagna!»

La coincidenza mi parve un colpo di fortuna.«Antonella – le dissi – devi farmi conoscere tuo marito e farmici parlare di queste cose. Lo puoi

assicurare che tutto resterà riservato, io il suo nome non lo farò mai».Antonella annuì: «Io glielo dico. Se accetta di parlare con te, di lui ti puoi fidare, perché sa che

cosa hai fatto per nostra figlia».«Luigi – le fece eco Nando – avrà i suoi precedenti, ma è un uomo di parola, io lo conosco».«E poi – rincarò Antonella – guai a lui se non sta ai patti!»Qualche sera dopo eravamo di nuovo attorno allo stesso tavolo, io, Antonella, Nando Zaccaria, la

giovane Veronica e, ora, anche Luigi Ruocco. Era molto robusto, il volto massiccio, il collo taurino, i capelli castani ricci e due occhi celesti con uno sguardo fermo e aperto che mi piacque. Indossava una tuta da ginnastica e lo avrei sempre visto, nei nostri incontri successivi, vestito a quel modo. Spendeva le parole con molta parsimonia.

Prima di quell'incontro, mi ero ricordato che alcuni anni prima, un sottufficiale dei carabinieri, particolarmente impegnato nell'indagine sul Mostro, mi aveva detto che quei sardi avevano sicuramente, da qualche parte in campagna, una casa abbandonata, poco più di un rudere, dove si

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riunivano al riparo da occhi e orecchie indiscreti, ci tenevano nascoste armi e, ai tempi dei sequestri, ci ospitavano anche latitanti. Quella casa era frequentata, anzi era a disposizione, anche dei sardi legati alla Beretta 22 del Mostro. Solo, mi aveva detto il carabiniere, non erano mai riusciti a scoprirla.

Era questa, quindi, la domanda che più mi premeva fare a Luigi Ruocco: sapeva di una casa "segreta" a disposizione di quei sardi e, magari, anche del tipo sospettato da me e Douglas?

«Ne ho sentito parlare – mi rispose con il suo forte accento campano –. Ma io non so dove sia. Però conosco uno, un certo 'Gnazio, che tra quei sardi è una specie di padrino, che sicuramente me lo sa dire».

«Ma certo, Ignazio! – esclamò Zaccaria – Sicuro! Lui sa tutto dei sardi. E chi meglio di lui?»Passarono pochi giorni e Luigi mi chiamò sul cellulare. Aveva l'informazione per me, mi disse e

mi diede appuntamento davanti all'entrata della nuova Ipercoop di Ponte a Greve, tra Firenze e Scandicci, quella che ha l'ingresso tra due maxisupposte d'argento alte venti vetri.

Ci andai che era ormai buio e Luigi era già lì ad aspettarmi, piuttosto infreddolito. Io presi un caffè, lui un Campari corretto con un goccio di Martini e raccontò.

Non lo sapevamo, ma nascosto tra la la folla dei clienti dell'Ipercoop, un poliziotto mandato da Giuttari ci stava fotografando di nascosto.

Solo un mese prima, mi disse Luigi, il suo amico 'Gnazio era stato in quella casa, proprio con il tipo della foto che a casa di Antonella avevo mostrato a Zaccaria. Disse che il vecchio aveva notato un armadio a vetri dove su uno scaffale erano allineate sei scatole di metallo chiuse a chiave e che l'occhio gli era caduto dentro a un cassetto in basso chiuso male. Aveva colto l'immagine di due, forse tre pistole e una poteva essere anche una Beretta 22. 'Gnazio aveva chiesto al sardo che cosa c'era in quelle scatole e l'altro, infastidito, gli avrebbe risposto: «Roba mia», e basta.

Sei scatole: sei, quanti i delitti riusciti del Mostro. Alla serie di otto, infatti, bisogna togliere il primo, che non è suo, e quello del settembre '83, quando per errore ammazzò due giovani gay tedeschi. Se dalle scene dei crimini l'assassino aveva preso, come spesso fanno quelli del suo genere, un "souvenir" da una vittima femmina, poteva averlo fatto solo sei volte. Il particolare mi convinse della sincerità di Ruocco, ché molto difficilmente avrebbe potuto conoscere un simile dettaglio della storia del Mostro.

Gli chiesi se poteva andare a dare un'occhiata a quella casa, per dirmi esattamente dov'era e descrivermela. Mi chiese soldi. Pochi. Una ventina di euro per la benzina, e glieli diedi. Mi sembrò giusto, visto che lui non aveva il minimo interesse personale a fare quelle cose lì.

Il poliziotto di Giuttari scattò qualche altra foto.Ci rivedemmo un paio di giorni più tardi, solito posto, ignari di essere sempre nell'obbiettivo

della macchina fotografica del poliziotto di Giuttari, che sapeva tutto dei miei spostamenti, perché teneva i miei telefoni sotto controllo. Luigi mi raccontò della casa e mi disse che la porta d'ingresso era a vetri e che, sbirciando dentro, si poteva vedere quell'armadio con le scatole di metallo e lui le aveva viste. Gli proposi di tornare lì e di scattare attraverso la porta qualche foto con una digitale che gli avrei procurato e lui accettò, se gli pagavo la benzina e una pizza per due, ché ci sarebbe andato con un amico. Gli diedi cinquanta euro e qualche giorno dopo gli consegnai una macchina fotografica che mi ero fatto prestare dall'amico Massimo Sestini, il "principe" dei paparazzi.

La faccenda della foto era importante per me. Se davvero in quella casa era nascosta la Beretta 22 del Mostro che la polizia cercava invano da un quarto di secolo, quello era lo scoop che valeva una vita da giornalista. Solo che avrei dovuto avere la prova che l'avevo trovata io.

Di tutto quello che era avvenuto, naturalmente, avevo informato l'amico Nando Zaccaria, entusiasta di lasciare, anche se per poco, il doppiopetto e tornare a essere "Serpico".

Io e lui decidemmo di andare a dare un'occhiata a quella casa.Trovammo con una certa difficoltà la stradina sterrata, tra Montelupo e Limite, a ovest di

Firenze, che ci avrebbe portati fin lì. La percorremmo per un tratto abbastanza lungo sotto i rami di un fitto bosco e poi ci trovammo in una sorta di slargo con una costruzione a capanna dove veniva imbottigliato il vino. Più avanti si vedeva un pezzo di una bella costruzione bianca. Tutto in ordine, tutto mantenuto benissimo.

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«Ma dove ci ha mandati Luigi? O ci siamo sbagliati?», ci chiedemmo. Telefonammo a Ruocco, che, invece, ci confermò che eravamo arrivati nel posto giusto e ci disse di andare avanti un altro po'. Facemmo così e ci ritrovammo nel parcheggio riservato a chi voleva comprare alla vendita diretta olio e vino della fattoria. Parcheggiammo e scendemmo. A una piccola finestra, si affacciò una donna e le chiedemmo se potevamo comprare delle bottiglie. Ci rispose che quello era giorno di chiusura, ma che, se fossimo andati avanti, avremmo incontrato il casiere e che forse ci avrebbe accontentati. Con il suo permesso entrammo in un piccolo giardino, passammo sotto un arco e ci ritrovammo davanti alla facciata di una villa bellissima, conservata perfettamente. C'erano statue da giardino, fontane e, davanti, si estendeva un parco stupendo con piante esotiche, anche sequoie e palme californiane. Scattai qualche foto con il mio cellulare.

Andammo avanti nel giardino e trovammo il casiere che stava tagliando dell'erba. Ci mettemmo a parlare con lui, chiedendo informazioni su quella villa che non ci aspettavamo di trovare. Nando diede un nome falso, non per giocare a "Serpico", ma perché non voleva che, se davvero la casa che cercavamo era nella disponibilità di sardi anche pericolosi e magari del Mostro, venissero a sapere chi eravamo.

Con la scusa che gli sarebbe piaciuto affittare, se c'era la possibilità, una casetta in quel paradiso, Nando riuscì a farci indicare, oltre un dosso, a qualche centinaio di metri di distanza dalla grande villa, due piccole costruzioni decisamente in cattivo stato, una delle quali a noi parve uguale a quella descrittaci da Luigi Ruocco. Credemmo di averla individuata, facemmo altre due chiacchiere con il giardiniere, lo salutammo e ce ne andammo. Solo quando ormai eravamo a Montelupo, Nando si accorse di essersi dimenticato di comprare le bottiglie di vino che voleva davvero.

Anche la gita mia e di "Serpico" finì nell'album fotografico e nell'archivio registrazioni di Giuttari.

Che però decise che ne doveva sapere di più e che, quindi, doveva ascoltare e vedere molto più da vicino.

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7

La mattina dell'1 febbraio uscii di casa verso le dieci e andai al parcheggio. Aprii la portiera della Twingo d'argento e subito lo sguardo andò sull'autoradio. Che non c'era più. Mandai un'imprecazione e mi accorsi che l'altro sportello, quello di destra, era mezzo aperto, ma in una maniera strana: la parte superiore con il finestrino era scostata dalla carrozzeria di una ventina di centimetri, la parte bassa era chiusa. Feci il giro dell'auto e vidi lo scempio: per prendermi l'autoradio avevano forzato con qualche cosa di grosso e robusto la portiera piegando la parte superiore verso l'esterno e la carrozzeria, contro la quale avevano fatto leva, ne portava pesanti segni. Il nottolino della chiusura pendeva miseramente fuori dal suo posto come un impiccato. Mi guardai attorno sconcertato. Non perché pensavo, come tutti quelli ai quali capitano queste faccende, che sono cose che succedono solo agli altri, ma perché in quel furto non tornava niente. Primo, l'oggetto del desiderio del ladro maldestro: una vecchia Panasonic giunta a servire la sua terza auto e che non avrebbe potuto far gola neanche al più disperato dei tossici.

Poi c'era che per rubarla era necessario venire appositamente fin lassù, in campagna, e che l ì non ci si arriva a piedi o per caso. Un piano attentamente studiato e una vera spedizione organizzata per prendere la mia arcaica autoradio?

Infine, c'era che la mia utilitaria era parcheggiata in mezzo a una serie di modelli super, che sembrava capitata per sbaglio all'ultimo salone internazionale dell'automobile: Porsche aggressive, Suv rostrati, Bmw con ruote larghe come una Formula 1, Jaguar britannicamente altere, Alfa feline. Tutte superaccessoriate e dotate di impianti stereo da fare invidia a un dj.

Ma il ladro aveva voluto la mia.Escluso che fosse un collezionista di modernariato, e riconosciuto l'inequivocabile stile "Pantera

rosa", entrai nella Twingo, accesi il motore e, quindi, anche tutto quello che ci avevano messo al posto dell'autoradio, e a voce alta dissi: «Giuttari, visto che mi stai a sentire, prendi la mia autoradio e cacciatela in quel posto». Lo dissi senza eufemismi, nella versione originale. Volgare, lo so, ma l'umore non era dei migliori, senza contare la soddisfazione. E, soprattutto, era un chiaro messaggio per dire che sapevo che mi avevano messo "cimici" nell'auto e che non me ne fregava niente, perché non avevo niente da nascondere.

Me ne andai diritto ai carabinieri di Grassina, feci constatare il danno a un carabiniere che se ne uscì con la frase: «Ma guarda 'sti cretini! E che dovevano fa' tutto 'sto danno per prendere un'autoradio? Io 'sta gente la manderei a zappa'!»

Feci denuncia contro ignoti, ché non avevo elementi per accusare nessuno. Qualche settimana dopo ci avrebbero pensato direttamente e incredibilmente gli stessi Mignini e Giuttari a darmi la prova che erano stati loro, con tanto di documento ufficiale.

Dal carrozziere feci raddrizzare alla buona lo sportello, perché almeno si chiudesse. Rimandai, invece, la visita dal mio meccanico Luca, che mi avrebbe dovuto ripulire l'auto dalle "cimici". La rimandai per parecchi giorni, per settimane. Una scelta sbagliata, dettata dalla pigrizia, si sarebbe detto, e per parecchio tempo, poi, me lo dissi anche io. Una scelta, o una non scelta, che sarebbe stata decisiva per i successivi avvenimenti, in primo luogo per arrivare al mio arresto. Un grave e apparentemente incomprensibile errore, quindi, ma le cose, quando si parla di uomini, non sono tanto semplici e spesso non le capiscono a prima vista neanche i diretti interessati. Io, per esempio, lo capii quando ormai ero chiuso in cella e mi ricordai che a decidere la nostra vita non siamo mai soli, ma c'è anche il nostro inconscio e lui ha una volontà più forte della nostra e, soprattutto, calcola tutto al millimetro e non sbaglia mai.

Lui, per esempio, aveva tenuto ben presente che di lì a pochi giorni sarebbe finalmente tornato a Firenze dal Maine l'amico Douglas Preston, che inevitabilmente si sarebbe prima o poi seduto nella mia Twingo e che nell'abitacolo avremmo parlato, ascoltati dalle "cimici" di Giuttari, di Luigi

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Ruocco, di Nando Zaccaria, della grande villa vicino a Limite e della casetta semidiroccata dove, forse, erano nascoste armi e, magari, addirittura la Beretta 22 del Mostro.

Oltre al mio inconscio, dell'arrivo dello scrittore americano, naturalmente me ne ricordavo anche io, ma mi ero amputato la seconda parte del pensiero, quella relativa alle chiacchiere che sarebbero state ascoltate e registrate dal cosiddetto GIDES.

Douglas arrivò per passare una decina di giorni di vacanza nell'amata Firenze con la sua famiglia, la moglie Christine e i due figli Alethia e Itsaak, e già al nostro primo incontro lo misi al corrente degli ultimi sviluppi della mia ricerca e gli feci conoscere "Serpico". Era curiosissimo di vedere il luogo della "casa dei sardi", anche se, a lui, quella storia sembrò troppo bella. «È troppo perfetta, sembra un film fatto a Hollywood – commentò – e la realtà non è mai un film hollywoodiano».

Una mattina che pioveva tornammo alla bella villa di Limite, io, Zaccaria e Doug. Rivedemmo la stessa donna che ci aveva parlato dalla finestra e le chiedemmo il permesso di mostrare quella stupenda costruzione al nostro amico americano. Ci fece entrare nel parco e, di lì, arrivammo fino al punto in cui si poteva scorgere la casetta che ci interessava. Poi ce ne andammo.

Non ricordo se fu in quell'occasione, tornando a Firenze, che parlammo di che cosa avremmo dovuto fare se davvero delle armi fossero state scoperte. Nei giorni precedenti Luigi Ruocco era tornato da solo, così mi aveva detto, alla villa e con la digitale di Sestini, che gli avevo dato, aveva scattato alcune foto dell'interno della casa attraverso la porta a vetri. Si vedeva anche un armadio a vetrina, o così sembrava, ma tutto era così confuso, con il flash che si era riflesso nel vetro della porta, che era impossibile capire bene che cosa era stato fotografato.

Qualcuno di noi avanzò anche la folle idea di entrare in quella casa, forzare le scatole, tirare fuori la Beretta dal cassetto e farsi immortalare con la scoperta sensazionale. Il progetto, fortunatamente, fu presto accantonato e fu presa la più saggia decisione di andare a riversare le nostre informazioni alla polizia che, poi, avrebbe eventualmente fatto una perquisizione.

Solo che, così, si presentavano due problemi seri per noi: il primo era che, se davvero avessero trovato l'arma del Mostro, sicuramente la notizia avrebbe fatto il giro delle varie redazioni fiorentine nell'arco di tempo di uno starnuto e noi avremmo perso il nostro scoop. La seconda era che, sia che le armi ci fossero state, sia che non ci fossero, non sarebbe stato igienico far sapere a quel gruppo di sardi che eravamo stati noi tre a gettare la polizia su di loro.

Alla fine, tra me e Zaccaria, fu presa la decisione che avremmo chiesto a qualche commissario che conoscevamo di fare passare l'informazione come proveniente da una fonte anonima, anzi avremmo anche prefabbricato il biglietto senza firma.

Ci mettemmo a un computer e lo stile della prosa finta anonima lo stabilì Nando, uno che di biglietti del genere ne aveva letti abbastanza. Il risultato fu:

APPUNTO PER DOTT. BERNABEI – Notizia confidenziale, attendibile, in quanto complice in passato di alcuni furti di bestiame, riferiva che in località Limite sull'Arno, appena dopo passato Montelupo, all'interno della proprietà di […] di via di Pullicciano, in una casa distaccata dalla villa, semiabbandonata, ove si può accedere da diverse strade sterrate, vengono custodite armi. La casa è quella che si trova sul retro della villa in una discesa, sulla sinistra. Il locale interessato è quello di fronte al vecchio forno del pane sotto l'arco d'ingresso. In passato in questa casa veniva data ospitalità a latitanti sardi tra i quali il famigerato […] e altri implicati in sequestri di persona. La casa era nella disponibilità di un certo […]. Per informazioni parlare con il giardiniere Salvatore che ivi abita in altro locale della villa, distante dalla precedente.

Decidemmo anche che lo avremmo dato al funzionario della questura prescelto dicendogli come stavano le cose, giocando, cioè, a carte scoperte. Puntammo sul capo della Digos, Gianfranco Bernabei, perché ne avevamo stima e lo consideravamo un amico. Per non perdere lo scoop, poi, ci venne in mente di offrirci, almeno uno di noi due, magari Zaccaria che era stato uno dei loro, di far da guida fino alla casetta, per potere assistere alla perquisizione e magari in diretta al ritrovamento della Beretta 22. Avremmo, comunque, chiesto al commissario di avvertirci quando avrebbero fatto irruzione nella "casa dei sardi" per stare in campana. Io avrei accompagnato Zaccaria fino al

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portone della questura, ma sarebbe salito lui solo. E così feci.Mentre in via Zara, praticamente buia, aspettavo il ritorno dell'amico, notai un agente in

borghese della squadra di Giuttari fermo davanti alla saracinesca abbassata di un bar. Mi venne la voglia di avvicinarmi e salutarlo, ma poi lasciai perdere.

Nando ridiscese dopo più di mezz'ora e decisamente incavolato. Il capo della Digos gli aveva detto che quella non era roba per lui e lo aveva indirizzato al capo della Mobile. Insomma, la faccenda non era andata come previsto.

Comunque, speravamo che la spedizione della polizia nel parco della villa di Limite sarebbe stata fatta e la chiamammo, chissà perché, la passeggiata.

E con questo termine, per evitare interferenze di Giuttari, la descrivemmo al telefono anche a Douglas, che stava avvicinandosi alla ripartenza per l'America con il timore di non potervi assistere.

Ebbe, però, il tempo di conoscere i modi, lo stile e l'intelligenza investigativa di certa nostra polizia e di certa magistratura. Nella maniera più brutale.

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Lo avrebbe raccontato pochi mesi dopo lui stesso in un grande servizio di ben quattordici pagine con cui il noto ed autorevole mensile «The Atlantic» avrebbe fatto conoscere per la prima volta agli americani, non solo la storia del Mostro di Firenze, ma soprattutto la storia mostruosa delle indagini.

Avrebbe scritto Douglas Preston:

La mattina del 22 febbraio me ne stavo andando verso il mio primo caffè, quando il cellulare suonò. Un uomo che parlava in italiano mi informò che era un agente di polizia e che doveva incontrarmi immediatamente. No, non era uno scherzo. E no, non poteva dirmi a che proposito, solo che era "obbligatorio".Scelsi il posto più pubblico possibile, Piazza della Signoria. Due agenti in borghese del GIDES mi portarono dentro Palazzo Vecchio, dove, nella stupenda corte rinascimentale circondata dagli affreschi del Vasari, fui avvertito con una citazione legale che dovevo comparire davanti al giudice Mignini. Il poliziotto mi avvertì che se non fossi comparso sarebbe stato un grave reato; lo avrei messo nella sgradevole posizione di venirmi a cercare e prendermi con la forza.Chiesi: «È a proposito del caso del Mostro?»«Bravo», disse l'agente.Il giorno dopo fui introdotto in un piacevole ufficio della Procura della Repubblica, appena fuori le mura dell'antica città di Perugia. Erano presenti uno degli agenti del giorno prima, un piccolo e nervoso capitano dei carabinieri dai capelli arancioni, uno stenografo e Giuliano Mignini, seduto alla scrivania. Mi ero vestito bene (gli italiani sono severi in queste faccende) e mi ero munito di una copia dell'«International Herald Tribune» per appiglio.Mignini era un uomo piccolo, di un'indeterminata età di mezzo, ben curato, con una faccia grassoccia e i capelli radi. La sua voce era calma e gradevole e si indirizzò a me con una elaborata cortesia, concedendomi il titolo di dottore, che in Italia indica il massimo rispetto. Mi spiegò che io avrei avuto diritto a un interprete, ma che trovarne uno avrebbe richiesto molte ore, durante le quali io avrei dovuto essere trattenuto e questo non sarebbe stato piacevole. Io gli chiesi se avevo bisogno di un avvocato e lui mi disse che, anche se naturalmente quello era un mio diritto, non era necessario, perché mi avrebbe posto solo qualche domanda di routine.Le sue domande erano cortesi, poste quasi con tono di scusa. Lo stenografo batté le domande e le mie risposte su un computer. A volte Mignini rimetteva le mie risposte in un italiano migliore, chiedendomi subito di controllare se corrispondeva a quello che avevo voluto dire. Mi chiese dell'avvocato di Spezi Alessandro Traversi e voleva sapere che cosa potevo dirgli a proposito della strategia dell'avvocato di Spezi. Mi fece molti nomi e mi chiese se Spezi li aveva mai citati. La maggior parte mi era sconosciuta. L'interrogatorio andò avanti così per un'ora e io cominciai a sentirmi rassicurato. Ebbi anche un barlume di speranza che avrei potuto raggiungere mia moglie e i bambini per pranzare in un ristorante non lontano che era caldamente raccomandato da una guida. A quel punto la conversazione si diresse verso la nostra visita alla villa. Perché ci eravamo andati? Che cosa dovevamo farci? Dove avevamo camminato esattamente? Avevamo parlato di una pistola? Di scatole di metallo? Avevo mai girato le spalle a Spezi? Incontrammo qualcuno? Chi? Che cosa ci dicemmo?Risposi sinceramente, cercando di eliminare ogni atteggiamento che potesse sembrare sospetto, ma vidi che Mignini non era soddisfatto. Mi ripeté le stesse domande in forme diverse.Cominciai allora ad accorgermi che il precedente stile di interrogatorio non era stato altro che un ballon d'essai. Il gioco cominciava adesso.La faccia di Mignini avvampò e la sua tensione crebbe. Spesso dava istruzioni allo stenografo di rileggermi le mie prime risposte. «Lei aveva detto questo e ora dice questo. Qual è la verità, dottor Preston? Qual è la verità?»Cominciai a inciampare nelle mie parole (sapevo di non parlare un italiano sciolto, specie con termini legali e criminologici). Con un crescente senso di disagio potevo sentire dalla mia stessa voce balbettante

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ed esitante che potevo sembrare un bugiardo.«Ascolti questo», disse Mignini. Fece un gesto allo stenografo che schiacciò un pulsante sul computer. Sentii lo squillo di un telefono e, poi, la mia voce:«Pronto?»«Ciao, sono Mario».Spezi e io chiacchierammo per un po' mentre con sbalordimento mi accorsi che nell'intercettazione la mia voce era più chiara che nella vera chiamata telefonica. Mignini la fece andare una volta, poi un'altra. La fermò al punto in cui Spezi diceva: «Lo abbiamo fatto» e mi puntò gli occhi addosso: «Esattamente che cosa ha fatto, dottor Preston?» Gli spiegai che Spezi si riferiva alla sua decisione di informare la polizia di quello che gli era stato detto a proposito di possibili prove nascoste nella villa.«No, dottor Preston». Fece riscorrere il nastro ancora e ancora e ancora. «Che cosa è la cosa che faceste? Che cosa faceste?» Abbordò la frase con la quale Spezi aveva detto che il telefono era cattivo. Che cosa voleva dire con quello? Gli spiegai che pensava che il suo telefono era sotto controllo. E perché, Mignini volle sapere, noi ci preoccupavamo di sapere se i nostri telefoni erano intercettati se non eravamo impegnati in un'attività illegale?«Perché non è carino avere il telefono sotto controllo», risposi debolmente.«Questa non è una risposta, dottor Preston». Fece andare di nuovo il nastro, fermandolo a ogni parola per sapere che cosa Spezi o io volevamo dire, come se avessimo parlato in codice, un banale trucco della Mafia. Cercai di spiegargli che le mie parole volevano dire solo quello che dicevano, ma Mignini gettò nella spazzatura le mie spiegazioni. Il suo viso si colorò di una vampa di piacere. Capii perché: si aspettava che io mentissi ed era convinto che avevo soddisfatto le sue aspettative. Farfugliai una domanda: «Pensa che noi abbiamo commesso un reato in quella villa?»Mignini si raddrizzò nella sua poltrona e con una nota di trionfo nella voce disse: «Sì».«Cosa?»«Lei e Spezi o avete messo, o stavate studiando come mettere prove false nella villa nel tentativo di montare contro un innocente la falsa accusa di essere il Mostro di Firenze, di depistare l'indagine e di allontanare i sospetti da Spezi. Questo è quello che stavate facendo. Quella frase – lo abbiamo fatto – significa questo».Ero basito. Balbettai che quella era solo una teoria, ma Mignini mi interruppe e disse: «Queste non sono teorie. Questi sono fatti!» Riprese dicendo che io sapevo benissimo che Spezi era indagato per l'omicidio Narducci e che io sapevo molto più sul delitto di quanto volessi far credere. «Questo fa di lei un favoreggiatore, dottor Preston –, decretò Mignini – e posso sentirlo dalla sua voce. Io sento il tono di chi sa, di chi ha grande familiarità con quei fatti. Si ascolti – la sua voce salì piena di esaltazione a malapena contenuta – Ascolti se stesso!»E, forse per la decima volta, rifece andare la conversazione telefonica. «Forse lei è stato ingannato, anche se non lo penso. Lei sa! E ora lei ha l'ultima occasione – l'ultima occasione – di dirci quello che sa, o io l'accuserò di falsa testimonianza. Non me ne importa niente; lo farò, anche se la notizia domani farà il giro del mondo».Mi sentii male ed ebbi l'improvvisa necessità di orinare. Chiesi di andare in bagno. Ritornai qualche minuto dopo, cercando di mettere insieme un atteggiamento più calmo. «Le ho detto la verità – dissi rauco. – Che cosa posso dirle di più?»Mignini agitò la mano e prese un grosso volume. Lo piazzò sopra la scrivania con estrema delicatezza, lo aprì, e con una voce da orazione funebre cominciò a leggermi il testo della legge. Sentii che ero indagato per il reato di reticenza e di falsa testimonianza. Mi comunicò che l'indagine sarebbe stata sospesa per consentirmi di lasciare l'Italia, ma che sarei rientrato nell'inchiesta non appena l'indagine su Spezi fosse conclusa.Il segretario mise in moto la stampante. Le due ore e mezza di interrogatorio erano ridotte a due pagine che io in parte corressi e firmai.«Posso averlo?», chiesi.«No. È secretato».Rigido, ripresi il mio «International Herald Tribune», lo infilai sotto il braccio e mi girai per andarmene.«Se dovesse decidere di parlare, dottor Preston, noi siamo qui».Con le gambe di caucciù scesi in strada, dentro una pioggerellina invernale.Lasciai l'Italia il giorno dopo. Quando fui di nuovo nella mia casa nel Maine, che sta sopra una scogliera da cui si vede il grigio Atlantico, mi misi ad ascoltare le onde che, sotto, si rompevano sugli scogli e i gabbiani che, sopra, si chiamavano. Ho sentito le lacrime scendere sul mio viso.

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Per prudenza Douglas avrebbe evitato di raccontare in quell'articolo che la sera del suo rientro a Firenze dopo l'interrogatorio di Mignini e alla vigilia del suo rientro nel Maine, io, lui e Nando Zaccaria ci incontrammo in segreto nella casa di via Ghibellina, che una sua amica americana, in quei giorni in California, gli aveva prestato per la vacanza diventata un incubo. Per fissare l'appuntamento ci eravamo serviti di telefoni prestatici da amici e di cabine telefoniche. Ci sembrò di essere diventati un gruppetto di dissenzienti braccati dal Kgb, precipitati di colpo dall'Italia del 2006 ai tempi dell'Urss.

Io e Nando volevamo sapere che cosa era stato chiesto a Doug, per cercare di capire che diavolo avevano in testa Mignini e Giuttari. Il racconto di un ancora scioccato Preston ci trasmise tutta la sua inquietudine e la sua preoccupazione. Quei due pensavano davvero che noi, ma in particolare io, avessimo tentato di depistare l'indagine e non per uno schifoso fine giornalistico, ma proprio perché direttamente coinvolti nei delitti del Mostro o, almeno, in quello parallelo, stando a quei due, del medico perugino Narducci.

Era un'ipotesi priva non solo di qualsiasi logica investigativa, ma di logica pura e semplice. Bastava una sola, semplice riflessione per scartarla: seppure io avessi avuto a che fare con quelle storiacce, mi sarei affidato, «per allontanare da me i crescenti sospetti», a un pregiudicato campano, che prima di quei giorni non avevo mai conosciuto, a un poliziotto che era stato uno dei migliori della Mobile fiorentina tra i Settanta e gli Ottanta e a un famoso scrittore americano?

Però, quei due, questa riflessione non la fecero. Difficile credere perché non ne erano capaci. Sarebbe far torto alle loro intelligenze. Ma se non era per quel motivo, perché allora non ne tennero conto? Perché davano loro fastidio due giornalisti e scrittori che si dannavano per dimostrare l'infondatezza delle loro indagini e delle condanne inflitte a degli innocenti e che di lì a poco avrebbero pubblicato un libro su questo? Perché volevano screditarli in anticipo davanti al pubblico?

Questa ipotesi farebbe torto alla loro onestà. Quindi, va scartata obbligatoriamente.Ma non sono riuscito a trovare un'altra risposta.Di tutto il racconto di Douglas, la cosa più inquietante per me era proprio la frase di Mignini

«per allontanare da sé i crescenti sospetti». Sospetti, lo sapevo già, di essere il mandante, o uno dei mandanti, dell'omicidio del medico Francesco Narducci. Lo avevo letto sui giornali, una mattina del dicembre precedente. C'era scritto che io avrei ricevuto una informazione di garanzia per quel reato, anche se io, ancora oggi, non l'ho mai avuta.

I giornali scrivevano tutti la stessa cosa, segno inequivocabile che avevano avuto una stessa fonte, ben informata, sicuramente ufficiale. Lessi, allora, che io ero indagato perché sospettato di avere incaricato due fratelli siciliani abitanti a Firenze di eliminare il giovane medico di Perugia, diventato inaffidabile perché sarebbe stato in procinto di tradire me ed altri rivelando tutta la verità indicibile nascosta dietro al Mostro di Firenze.

Non solo non ho mai avuto quella comunicazione giudiziaria, ma i nomi di quei siciliani, che poi seppi essere solo due piccoli truffatori e certo non killer della Mafia, non li avevo mai sentiti; il dottor Narducci non lo avevo mai conosciuto né visto; addirittura a Perugia non ero mai stato.

Ma, a parte questo, che c'entravo io con i delitti del Mostro? Da dove poteva venire un sospetto tanto assurdo?

Non sapevo, allora, dell'esistenza di un documento – credo il più incredibile, folle e ridicolo documento mai finito in un'inchiesta della Repubblica – che un personaggio inqualificabile per mitomania, maldicenza e cattiveria si era dato da fare per consegnare a Mignini.

Questo personaggio è una donna romana zoppa, capelli arruffati e tinti di biondo, pesanti labbra colorate di rosa, che va in giro con una grossa Mercedes ultimo modello spesso guidata dal marito.

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Da anni si aggira, senza aver alcun titolo per farlo, alla periferia dei più clamorosi delitti italiani, da Cogne a Capaci, passando per Arce e magari, nella sua città, per via Poma o via Caetani, trovando sempre, a suo dire, clamorose verità che inevitabilmente hanno a che fare con servizi segreti, ovviamente deviati, poteri occulti, esoteriche realtà che solo lei conosce, e spesso con una misteriosa, quanto sconosciuta setta, una sua vera ossessione, la Schola della Rosa rossa. Erano passate poche ore dall'abbattimento delle Twin Towers a New York, che i giornali furono inondati da suoi fax in cui rivelava che dietro all'attacco era la Schola della Rosa rossa. Nelle sue farneticazioni tutto è collegato: il caso Moro e Cogne, il mostro di Marcinelle Dutroux e gli attentati della Mafia, la Uno bianca e Luigi Chiatti. Sempre uniti dalla misteriosa, antichissima, potentissima setta che raggruppa i Vip nazionali di ogni settore – dallo spettacolo alla magistratura –, suo oggetto del desiderio e causa di frustrazione.

Si chiama Gabriella Carlizzi, si spaccia per giornalista senza esserlo, per scrittrice perché stampa libri a sue spese, per confidente dei servizi, quelli buoni. Aveva, fino a quando la magistratura ha deciso di oscurarlo, un sito Internet che aggiornava di continuo dando sfogo alla sua grafomania. Tenta, a ogni nuovo caso da prima pagina, di avvicinare i magistrati, i poliziotti, i testimoni, i giornalisti che se ne occupano cercando di convincerli delle sue tesi e, allo stesso tempo, di prendere informazioni.

Nel suo sito una sezione era riservata ai suoi colloqui con la Madonna di Fatima e ai suoi mistici rapporti con un certo padre Gabriele, un sacerdote scomparso anni fa, e che lei sostiene sia il suo spirito-guida. Raccoglie denaro con questi trucchi, specie da persone anziane, attività che nel giugno del 2006 le è valsa una pesante condanna per circonvenzione di incapace.

Ha collezionato una serie di condanne per diffamazione e calunnia, comprese quelle ai danni del questore di Roma Cavaliere e dello scrittore Alberto Bevilacqua, che aveva indicato una decina di anni fa come Mostro di Firenze.

Da me è stata denunciata perché a lei era bastata la mia prima perquisizione per scrivere a chiare lettere sul suo sito che, stavolta, il Mostro ero io. I miei avvocati ottennero anche l'oscuramento del suo sito, primo caso del genere in Italia, che, quarantotto ore dopo risorse grazie a una minuscola variazione nel titolo, suggerendo non pochi spunti di discussione sulla libera informazione via Internet.

Per quanto possa sembrare incredibile, è stata Gabriella Carlizzi il testimone chiave che ha fatto deviare l'indagine sul Mostro di Firenze verso le ipotesi esoterico-sataniste. È stata lei che ha convinto il giudice Mignini e il commissario Giuttari che la morte del medico perugino Narducci era collegata, attraverso l'appartenenza alla misteriosa setta della Rosa rossa, al caso del Mostro, è stata lei a volermi far cadere dentro questa storia. E, indice del livello della qualità del giornalismo nostrale, anche questa donna si è guadagnata con simili panzane interviste lunghe una pagina, partecipazione ai più noti talk show nazionali, continue chiamate come esperta del caso.

Ma per quanto tutto questo sia stupefacente, molto di più è, che un magistrato e un commissario di polizia possano aver preso in seria considerazione quello che anche al più sprovveduto dei lettori sarebbe apparso come un delirio di stupidità insostenibili, una collezione di sgangherate fandonie messe insieme da una mente, non solo malata, ma priva di qualsiasi discernimento. Un documento che proprio quel personaggio andò a farsi consegnare, entrando non si sa in base a quali titoli, nel carcere di Lauro, vicino ad Avellino, da un suo compare chiuso in cella per calunnia, per essersi spacciato per avvocato, per truffa e millantato credito, un alcolista di nome Domenico Maria Rizzuto.

Eppure, la prova che quel documento fu ritenuto buono è nel fatto che Mignini non solo lo secretò, «data la delicatezza dei contenuti» e che, in un altro documento scrisse che io mi comportavo in un certo modo, «perché ignaro che lui era in possesso delle rivelazioni di Domenico Maria Rizzuto», ma addirittura fu l'unico documento che allegò a sostegno della richiesta del mio arresto.

Di nuovo, pensare che Mignini e Giuttari ci credessero davvero, farebbe torto alle loro intelligenze. Come prima, però, ritenere che abbiano usato quel documento senza crederci offenderebbe la loro onestà e, quindi, è un'ipotesi che va subito scartata.

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Ma, ancora questa volta, non riesco a trovare un'altra risposta.

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Ovvio che la Carlizzi poté fare sul suo sito lo "scoop", che solo pochi suoi fans lessero, di pubblicare per prima le "rivelazioni" di Rizzuto. Che quel documento lo aveva ricevuto lei nel carcere di Lauro e che andò a Perugia per metterlo nelle fidate mani del sostituto procuratore Giuliano Mignini, evitando i magistrati di Firenze, non solo lo ha scritto lei, ma lo ha confermato proprio il giudice perugino.

Trascrivere per intero le pagine di quel documento sarebbe sciupare parecchia carta. Meglio passare direttamente ai capisaldi su cui poggia. I nomi, quasi sempre "eccellenti", buttati da Rizzuto dentro a quei fogli, valgono ognuno una risata, tanto assurdo è il ruolo che i due calunniatori tentano di dargli. E non perché sono "eccellenti", ché non sarebbe sinonimo di innocenza, ma proprio perché la logica non può accostarli a storie che già di per sé sono prive di qualsiasi verosimiglianza.

Allora: racconta il Rizzuto che lui ha grandi qualità di detective in particolare in materia di sette sataniche e che perciò uno degli avvocati di Pietro Pacciani gli chiese di collaborare. Lui, furbo, si era già accorto «della strana attività che svolgeva il quotidiano "La Nazione" di Firenze: notai – scrive – che le notizie erano distorte e palesemente strumentali, scrivevano di tutto ma anche il contrario, come se fossero al servizio di poteri occulti, che in seguito riconobbi nella massoneria».

Con sicurezza Rizzuto punta direttamente il dito su di me: «Colui che sembrava l'esperto sul Mostro era Mario Spezi il quale, pur non essendo il direttore del giornale, determinava la linea del giornale e anche molta soggezione nei colleghi». A parte gli sghignazzamenti, se leggono queste parole, dei colleghi che conoscono me e la mia carriera, non male per un free lance quale sono diventato, uno, cioè, che ha solo un contratto di collaborazione con il giornale.

Comunque sia, per vie traverse, il detective alcolista arriva in una fattoria del Mugello molto nota a Firenze, perché gestita da una cooperativa che si occupa del recupero di tossicodipendenti e di reinserimento di soggetti difficili, nonché per un ottimo pecorino che produce: Il Forteto. Ma al furbo detective non gliela si fa e lui scopre che in realtà tra pecore e caci «si sono perpetuati per anni riti esoterico massonici». Mica cosette folkloristiche con grembiulini e cappucci: i membri della setta, «nomi illustri da far impallidire chiunque, gente irreprensibile di giorno, che si trasformano in mostri di notte, effettuavano riti esoterici conditi di orge omosessuali, zoofile e pedofile, e forse erano interessati per questi cerimoniali a prendere i feticci delle vittime (del Mostro, n.d.r.), quando il mostro uccideva, e, sconvolto dopo il delitto, andava a rifugiarsi ne Il Forteto».

Il detective, «mediante segreti appostamenti e grazie alle informazioni prese con molta cautela», scopre che in quella fattoria si riunivano quasi tutti i Vip di Firenze e non solo, tanto che, scrive, in certi giorni era difficile avvicinarsi per le tante forze dell'ordine schierate attorno a loro protezione. Insomma, la segretezza va bene, ma mica fino al punto di rinunciare a una prestigiosa scorta!

«Chi sono i frequentatori?», chiede Rizzuto a questo punto del memoriale, assaporando il colpo di scena.

«Sono – comincia a snocciolare – i marchesi Rosselli Del Turco, gli Antinori, il giudice istruttore Crivelli del Tribunale di Firenze, il famoso piemme Paolo Canessa (saldamente titolare dell'inchiesta sul Mostro). Ma – prosegue con un impressionante crescendo – l'ex procuratore Piero Luigi Vigna e l'ex procuratore generale Piero Tony, attualmente presidente del Tribunale dei Minori di Firenze. Altri personaggi ben noti – Rizzuto ormai non si trattiene più – frequentavano Il Forteto, come Maurizio Costanzo e – tanto per ribadire vecchie calunnie – lo scrittore Bevilacqua. Il Costanzo e la moglie Maria De Filippi – non dimentica il detective – qualche anno fa adottarono un figlio: come e grazie a chi?» Mistero, Rizzuto non lo dice.

Una panzana, questo documento, che farà sganasciare dalle risate i magistrati della procura di

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Firenze, quando ne verranno in possesso.Buffo poi, ma quei nomi, nobili fiorentini a parte, inseriti solo per dare un "brivido blu" alla

bufala del secolo, sono gli stessi che la Carlizzi, e soprattutto Giuttari, ritengono responsabili, delle loro difficoltà. Chissà come e perché sono finiti lì dentro tutti insieme?

Il piemme Canessa ha recentemente e bruscamente rotto con il poliziotto; il giudice Crivelli ha respinto alcune sue richieste; Vigna ha criticato aspramente l'inchiesta; Tony chiese e ottenne l'assoluzione di Pietro Pacciani in Appello; Maurizio Costanzo, che pure l'aveva invitata altre volte, non fece partecipare la "veggente" a un suo show; Alberto Bevilacqua attende un risarcimento di seicento milioni di vecchie lire dalla Carlizzi che lo indicò, in un altro delirio, come Mostro.

Curiosamente, infine, quasi tutti questi personaggi sono quelli che nel suo ultimo libro il "superpoliziotto" identifica con il "partito avverso", nel quale militerei anche io, lasciando intravedere una congiura Vip ai danni suoi e della sua brillante indagine.

Il detective dell'"altro mondo" Rizzuto è davvero molto scrupoloso e, infatti, rivela che le sue scoperte sono dovute ai racconti che gli ha fatto una donna particolarmente arrabbiata, per non si sa quali motivi, con Il Forteto. E questa "insospettabile" teste gli rivela che «a lei i bambini raccontavano puntualmente di riti esoterici, di persone che si riuniscono per delle specie di messe durante le quali subivano violenze di tutti i generi. I bambini riferivano di avere visto anche del sangue e giovani donne che dormono ma con gli occhi aperti».

Si ignora quali pessimi film dell'orrore guardino di notte Rizzuto, la sua teste e la sua "Musa" Gabriella Carlizzi.

Prove di questo racconto, naturalmente non ce ne possono essere, ma questo, per Giuttari e Mignini, è un dettaglio.

Il sottoscritto, aggiunge come cosa ovvia Rizzuto, era, in qualità di Mostro di Firenze, un frequentatore tra i più assidui del Forteto, dove conobbi il medico perugino Narducci, quello che, siccome ci stava per tradire tutti, decidemmo di far fuori utilizzando manovalanza prestata dalla Mafia siciliana. Il Forteto, per il Rizzuto, doveva essere un'"istituzione" piuttosto democratica e aperta, perché, stando a lui, oltre ai Vip e ai mafiosi, ospitava «anche latitanti, persino del clan dei sardi». Davvero un club unico al mondo: aristocratici fiorentini, apprezzati scrittori, stimati magistrati, comandanti dei carabinieri, mafiosi siciliani, latitanti sardi, giornalisti, medici, anchorman televisivi, avvocati, questori, contrabbandieri albanesi…

Non è tutto: al Forteto, viste le attività che vi si svolgevano, non era difficile, prosegue il memoriale di Rizzuto, trovare un cadavere di riserva. E fu con uno di questi cadaveri "in eccesso", evidentemente affogato, che fu realizzata la messinscena del ritrovamento dell'annegato del Trasimeno spacciato per Narducci. Un giochino che, spiega finalmente Rizzuto, fu possibile grazie alla complicità di tutta la famiglia del medico morto, dell'allora procuratore capo di Perugia Restivo, del questore Trio e del comandante dei carabinieri. Così, tanto per fare le cose di nascosto.

Ma, finalmente, Rizzuto svela i retroscena di alcuni dei più inquietanti delitti italiani: il Mostro di Firenze è collegato a Luigi Chiatti, il Mostro di Foligno che una decina di anni fa uccise due bambini, e a Fabio Savi, l'ex poliziotto della questura di Bologna a capo della banda della Uno bianca. Non è finita: queste storie sono intrecciate anche con le bombe fatte esplodere agli Uffizi e attribuite alla Mafia e a Totò Riina. «Vedi – allude furbescamente Rizzuto – intreccio tra massoneria e mafia… comprensivo delle bombe inspiegabilmente messe a Firenze».

No, non siamo ancora alla fine: c'è un'altra perla e un altro membro del "partito avverso" a Giuttari. «Iscritto alla medesima Loggia – prosegue il memoriale – anche il questore di Firenze dell'epoca Forleo, condannato per un inspiegabile omicidio di un contrabbandiere in Puglia (il questore Forleo sparò da un elicottero contro un'imbarcazione di contrabbandieri nel corso di un'operazione, n.d.r.). Perché – chiede inquietante il superdetective –, cosa poteva fare un contrabbandiere pugliese?»

Molti ingenui risponderebbero: contrabbandare sigarette. E invece no. Rizzuto rivela: «Bene, trattava anche carne umana proveniente dall'Albania, giovani donne e bambini… sapeva troppo, sapeva che lo sbirro faceva parte di una non meglio precisata organizzazione le cui giovani vittime venivano smistate al mercato della prostituzione… ma anche utilizzate per sacrifici umani in

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Toscana».Anche la mano esita e un po' si vergogna a scrivere quello che segue, eppure è la verità: un

magistrato di questa repubblica, Giuliano Mignini, e un commissario, sia pure solo "a disposizione", Michele Giuttari, credono e lo hanno scritto in documenti ufficiali, che l'insieme delle persone appena citate sono, collettivamente, il vero Mostro di Firenze, che ha commissionato gli atroci delitti a me, un giornalista free lance, scrittore e disegnatore satirico. Questa è la loro indagine. Questa è l'inchiesta che ha macinato, e continua a macinare, milioni di euro e rispettabili persone.

Neanche lo scrittore di feuilleton più strafatto di assenzio dell'Ottocento sarebbe riuscito a mettere insieme tante bestialità. Che, però, il sostituto procuratore Giuliano Mignini secreta, «stante la loro delicatezza», e ritiene l'asso nella manica contro di me, che, poverino, tenterò di proclamarmi innocente non sapendo che lui ha in mano nientemeno che il documento Rizzuto!

Il fatto, evidentemente ritenuto marginale, che non ci sia nemmeno l'ombra di una prova non può certo fermare la corsa verso l'arresto di un giornalista.

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Quasi nove ore di volo da Pisa a New York, altre sei in auto per raggiungere la sua fattoria di Rond Point nel Maine e una buona mezz'ora immobile nel vento sulla scogliera con l'Atlantico grigio sotto e con i gabbiani gracchianti sopra non bastarono a Douglas Preston per smaltire la rabbia, né per convincerlo completamente di non avere vissuto un incubo. Rientrò in casa e, afferrato il telefono, chiamò tutte le associazioni americane di scrittori per informarle della brutta avventura italiana. Immediate le risposte: lo contattarono CNN, «Whashington Post», «New York Times», «Boston Globe». Tutti pubblicarono articoli sulla sua, e mia, vicenda. L'aggettivo più usato dai media statunitensi per descrivere la nostra esperienza fu «outrageous».

In quelle ore anche per l'associazione internazionale Reporters sans frontières, che si occupa di monitorare la libertà di stampa in tutti i paesi, io ero diventato «il caso Italia».

Il Committee to protect journalists scrisse sul suo sito:

Douglas Preston, nostro collega scrittore e copresidente del Membership Committee dell'International Thriller Writers, è tornato recentemente dall'Italia, dove è stato fermato, interrogato dalla polizia e infine incriminato per false dichiarazioni, e accusato (ma non incriminato) di complicità in omicidio. Questo sbalorditivo incidente nasce dal libro che Douglas ha scritto insieme al giornalista italiano Mario Spezi, in cui si racconta la loro inchiesta su un caso insoluto di omicidi seriali. Il libro è previsto in uscita ad aprile, in Italia, e poi negli Stati Uniti. Douglas se l'è cavata relativamente bene. Mario Spezi, invece, è stato accusato di omicidio, e la sua carriera, i suoi mezzi di sostentamento e la sua vita stessa sono in gioco. Douglas ha passato l'ultima settimana tentando di aiutare Spezi.(Preston) ha detto a Karen Dionne di Backspace: «Ho avuto difficoltà a ottenere l'appoggio di PEN Club e di altre organizzazioni che difendono la libertà di stampa, dato che il mio amico non è ancora stato arrestato, ma "solo" incriminato. In un certo senso non sembra così urgente, soprattutto quando ci sono dei giornalisti che vengono uccisi in altre parti del mondo. Ma io spero di creare abbastanza rumore da mettere in imbarazzo le autorità italiane, che sono molto sensibili all'opinione degli Stati Uniti. È incredibile che in un paese civile come l'Italia un giornalista possa essere incriminato con accuse di omicidio gonfiate ad arte perché ha osato sfidare un giudice potente. Io sono stato solo uno spettatore colpito da una pallottola vagante». Di seguito troverete un resoconto che Douglas ha inviato a Susan Henderson per il suo blog Publisher Marketplace. Vi preghiamo di inoltrare questo scritto e/o il resoconto di Douglas a chiunque crediate possa dare pubblicità a questa vergognosa situazione.

Sui blog degli scrittori e dei giornalisti americani il mio nome, unito a quello di Douglas, scorreva da una costa all'altra.

Sui giornali italiani la storia fu ignorata o rimase relegata nelle pagine toscane, se ce l'avevano. Qui, l'unica a parlarne sul suo sito era Gabriella Carlizzi.

Pensai che Doug drammatizzava un po' troppo. Che pericolo potevo correre?La mattina del 25 febbraio una nota dell'Ansa riportava la ragione del crollo del mio ottimismo e

confermava la sensibilità della mia categoria per quanto stava avvenendo a un giornalista:

L'inchiesta coordinata dal piemme di Perugia Giuliano Mignini sulla morte del medico perugino Francesco Narducci, avvenuta nel 1985, collegata a quella sul Mostro di Firenze, si arricchisce di nuovi elementi, con la perquisizione di questa mattina nell'abitazione del giornalista fiorentino Mario Spezi, già perquisito altre due volte in passato nell'ambito della stessa indagine. Lo ha rivelato proprio il giornalista, spiegando che gli investigatori erano alla ricerca di armi o parti di esse – non trovate – e di appunti, con l'acquisizione di block-notes e altra documentazione. Nei precedenti decreti di perquisizione era stato ipotizzato, tra l'altro, anche un tentativo del cronista – che ha seguito l'inchiesta sul Mostro di Firenze scrivendo anche libri sulla vicenda – di demolire le indagini sui presunti mandanti degli atroci delitti. Giovedì scorso la procura di Perugia ha interrogato come teste e poi indagato per reticenza Douglas

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Preston, lo scrittore americano che insieme a Spezi ha scritto un nuovo libro sul caso, in uscita il prossimo aprile, dal titolo Le dolci colline di sangue e che lo stesso Spezi ha definito una sorta di controinchiesta. Il giornalista è stato coinvolto nelle indagini sul caso Narduccci nel novembre di due anni fa: all'epoca l'ipotesi contestata era di favoreggiamento nei confronti di persone indagate per la morte di Narducci, mentre in seguito è stato ipotizzato il concorso in omicidio. Tutte accuse che il giornalista ha sempre respinto.

Sul sito TgCom lessi sgomento: «Le indagini della procura di Perugia vanno di pari passo con quelle di Firenze, segno che l'inchiesta sulla morte di Narducci è stata infine collegata con quella del Mostro di Firenze. Secondo le due procure, Narducci sarebbe venuto a conoscenza dei segreti della setta che ordinava ai "compagni di merende"».

La perquisizione di quella mattina fu strana, ma ebbe il merito di rendermi chiaro quale assurda fantasia coltivavano Mignini e Giuttari. Era la stessa di Gabriella Carlizzi e di Domenico Maria Rizzuto: io ero il Mostro di Firenze. Se ancora non mi avevano tirato sulla testa quell'accusa terribile, era solo perché non potevano. Sui delitti del maniaco fiorentino, infatti, la sola procura competente era quella di Firenze. Ma Giuttari e Mignini cercavano di arrivare allo stesso risultato tentando di tirarmi dentro al presunto e mai provato omicidio del medico di Perugia.

Nel mandato di perquisizione era scritto che, stavolta, i poliziotti erano entrati a casa mia per cercare armi. Anzi, una pistola. La pistola che io, magari con l'aiuto di Douglas Preston, di "Serpico" Zaccaria e di Luigi Ruocco, avrei avuto intenzione di nascondere da qualche parte nel parco della bella villa di Capraia per poi farla ritrovare dalla polizia e fare cadere così su qualche innocente il sospetto che fosse il Mostro.

Per la meraviglia, credo, il mio cervello si bloccò per qualche secondo. Poi ebbe una scossa ad alto voltaggio e vidi con chiarezza tutto l'obbrobrio e il pericolo che erano quelle parole: se io avessi davvero voluto far credere che qualcun altro fosse il Mostro, non mi sarebbe bastato nascondere e quindi far ritrovare una pistola qualsiasi. Per far questo, io avrei dovuto "piantare" da qualche parte solo quella pistola. Io avrei dovuto far scoprire la Beretta calibro 22 con la quale erano state uccise sedici persone. Proprio quella, non una uguale. E avrei potuto farlo solo perché io avevo quella pistola. E potevo averla solo se ero il Mostro!

E, tuttavia, la perquisizione fu strana. Un'arma di quel genere è piccola, può essere nascosta in decine, se non centinaia di posti in qualsiasi casa. E, invece, i poliziotti fecero un'ispezione decisamente sommaria. Addirittura ignorarono stanze intere, come la camera di mia figlia. Non si interessarono minimamente ai rispostigli in terrazza, la cucina non li attrasse per niente e in camera da letto non gettarono neanche un'occhiata.

Era di nuovo lo stile "pantera rosa" usato per mettere cimici nella mia auto? Oppure sapevano che in casa mia non c'era nessuna arma e la loro visita, più che per portare via qualcosa, era servita a portare dentro altre cose? Ancora cimici?

Non l'ho mai saputo e magari, da qualche parte in casa, ho ancora qualcuno di quegli "insetti" elettronici.

Se la perquisizione era strana, come se sapessero che in casa mia quella pistola, o qualsiasi altra arma non c'era ed era inutile cercarla, molto più strano, addirittura assurdo, era che un magistrato e un commissario di polizia avessero deciso di intervenire a quel punto della loro indagine. Basta avere un minimo di esperienza, anche solo quella di un vecchio cronista di "nera", per capire con chiarezza che nel loro comportamento c'era qualcosa che contrastava terribilmente con l'ABC del poliziotto.

Più tardi, quando sarei stato già in cella, se le cose non fossero state già sufficientemente chiare, ci avrebbe pensato lo stesso sostituto Mignini a sottolineare la non credibilità della loro azione. Avrebbe, infatti, scritto il magistrato perugino che la loro irruzione in casa mia sarebbe riuscita a scongiurare che io mettessi nel parco della villa di Capraia la prova falsa, la Beretta 22 cioè, che avrebbe depistato l'indagine. E questo superava anche lo stile "pantera rosa". Stando a Giuttari e a Mignini, infatti, bisognerebbe credere che due inquirenti, che possono tenere sotto controllo praticamente minuto per minuto il loro presunto "mostro", credono di scoprire che quello sta per portare in un dato posto l'introvabile pistola dell'assassino, l'arma inutilmente ricercata da più di

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trenta anni, la prova "regina" per incastrare il colpevole e, invece di beccarlo con quella in mano, intervengono prima facendo sfumare l'incredibile chance. No, questa volta, se questo fosse vero, avrebbero superato di parecchio anche l'ispettore Clouseau.

Credere questo, sarebbe offendere le loro intelligenze, e, quindi, le cose devono stare altrimenti.Naturalmente informai subito Douglas del nuovo sviluppo e, di nuovo, l'amico americano

contattò tutti i blog che contano.

Io ora sono al sicuro, a casa, in America. Ma Spezi – avvertiva Douglas – è ancora laggiù, è in pericolo. Bisogna fare qualcosa! La loro scelta di tempo (per la perquisizione, n.d.r.) non è sorprendente: il nostro libro uscirà il 19 aprile. La polizia è entrata in possesso di una bozza del libro, sequestrata nel corso di una perquisizione in casa di Mario Spezi, quindi Mignini e Giuttari sanno benissimo che cosa abbiamo scritto su di loro. Si tratta dunque di uno scoperto tentativo di usare il potere giudiziario per intimidire e ridurre al silenzio due giornalisti, e probabilmente prelude a un'azione legale per bloccare l'uscita del libro in Italia. Dopo il mio interrogatorio, la polizia ha perquisito di nuovo l'appartamento di Spezi (lo avevano fatto altre due volte prima di allora) sequestrando diversi documenti. In seguito sembra che la polizia stessa abbia fatto filtrare alcuni dettagli delle indagini a beneficio della stampa, e sul «Corriere della Sera», «La Nazione» e «il Giornale» sono apparsi articoli sul mio interrogatorio e sulla perquisizione e le carte sequestrate in casa di Spezi. Gli inquirenti hanno lasciato trapelare anche la notizia che Spezi era sospettato di essere coinvolto in diversi omicidi e che poteva essere legato alla setta satanica che la polizia crede essere mandante degli omicidi del Mostro di Firenze. Abbiamo un disperato bisogno di pubblicizzare questo attacco alla libertà di stampa. Io sono tornato negli Stati Uniti e sono al sicuro, ma Spezi corre gravi rischi. Ieri mi ha scritto: «Sono molto depresso: per aver fatto il nostro dovere, mi trovo in questa situazione…» Occorre fare qualcosa il più presto possibile.In tutta la mia carriera di giornalista non avevo mai subito, né visto, un abuso del potere giudiziario simile a quello a cui ho assistito in Italia.

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Passato lo shock della nuova perquisizione e delle paurose considerazioni che suggeriva, il mio inconscio decise che, almeno per il momento, il suo compito era finito, e mi fece ricordare dello strano furto con scasso nella mia auto. La mia "dimenticanza" aveva consentito che tutte le chiacchiere tra me e Douglas dentro la Twingo fossero ascoltate e registrate e tutti i nostri spostamenti in macchina, segnalati a Giuttari e Mignini. Insomma, avevo dato loro una bella mano per mettere da parte quelli che loro avevano definito con parecchia fantasia "gravi indizi".

Svolto da bravo imbecille il compito inconscio, decisi finalmente di andare da Luca, il mio meccanico, perché desse un'occhiatina dentro la Twingo. Era il primo marzo. Dal giorno del furto era passato esattamente un mese. Il meccanico infilò una mano nel vuoto lasciato dall'autoradio rubata e, con un sorrisetto, tirò fuori una manciata di fili elettrici rossi e neri. Erano stati collegati a quelli che erano serviti per la Panasonic. All'altro capo c'era una scatola nera, grande come un pacchetto di sigarette. Un nastro adesivo nero era stato messo per coprire le lucine verdi e rosse che davano i segnali "On" e "Off". All'estremità di un altro filo pendeva una sorta di linguetta piatta larga tre o quattro centimetri e lunga una decina. «Io non me ne intendo – disse con aria disgustata Luca – ma questo dovrebbe essere un microfono».

Aprì il cofano e gli bastò un'occhiata per vedere fili dove non dovevano esserci. Questi erano collegati alla batteria e terminavano con un altro "pacchetto di sigarette" nero che su un lato aveva un piccolo disco di metallo nichelato. «E questo – Luca era sempre più disgustato – dovrebbe essere un GPS o qualcosa del genere».

Da casa chiamai un fotografo della «Nazione» che venne a immortalare me che stringevo in mano i "trofei" elettronici. Poi andai in procura e presentai un esposto.

Lo scrissi da solo. Non avevo elementi per potere indicare Giuttari e Mignini come responsabili dell'intrusione e, soprattutto, del danneggiamento della mia auto.

Tuttavia – aggiunsi in fondo al foglio dopo avere raccontato i fatti – devo comunicare alcune circostanze che ritengo possano essere utili per identificare i responsabili.Proprio dalla fine di gennaio sono oggetto di intercettazioni telefoniche e di pedinamenti con rilievi fotografici da parte degli uomini del cosiddetto GIDES comandato dal commissario Michele Giuttari su incarico del sostituto procuratore di Perugia Giuliano Mignini.Di quanto affermo può dare prova lo scrittore americano Douglas Preston al quale, in un interrogatorio a Perugia, il 23 febbraio u.s., sono state fatte ascoltare registrazioni di conversazioni telefoniche intercorse tra me e lui. Voglio precisare che, poiché la mia abitazione si trova in una strada di campagna isolata e scarsamente trafficata, mi sarei dovuto accorgere se qualcuno mi seguiva. Questo non è mai avvenuto, dal che deduco che gli spostamenti della mia auto erano rilevati tramite attrezzatura GPS.Ritengo che tale attività investigativa sia perfettamente legittima. E, tuttavia, sono rimasto colpito dalla singolare coincidenza di essere oggetto di intercettazioni e di pedinamenti da parte del GIDES e, proprio nello stesso periodo di tempo, da parte, devo concludere, di misteriosi individui capaci anche essi di disporre di identiche sofisticate apparecchiature elettroniche. Non riesco ad arrivare ad alcuna conclusione circa l'attribuzione di quei reati a qualcuno e, se ho riportato le circostanze di cui sopra, è perché confido che la Procura della Repubblica, con i mezzi e con l'esperienza di cui dispone, possa utilizzarli molto meglio di me per fare chiarezza sull'episodio. Con osservanza…

Bussai alla porta di un sostituto procuratore, mi presentai, mi riconobbe e, preoccupato, mi fece sedere davanti a lui. Gli dissi il motivo della mia visita e feci per consegnargli il foglio con l'esposto. Ritrasse le mani, come se avesse paura di scottarsi. «Questa faccenda, dottor Spezi, è troppo delicata, lei capisce. Sarebbe bene che la presentasse direttamente al procuratore capo, al dottor Nannucci».

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«Sì, capisco – risposi –, ma non vorrei mettere di nuovo in difficoltà il dottor Nannucci. Come lei sicuramente sa, quando fui perquisito la prima volta, bastò una mia innocente telefonata al procuratore perché Giuttari e Mignini lo mettessero sotto indagine addirittura per tentativo di intralcio dell'inchiesta sul Mostro di Firenze!»

«Lo so, lo so. Ma, magari lei dà l'esposto a qualcuno del suo ufficio e poi ci penseranno loro…»Andai nella cancelleria del procuratore capo Ubaldo Nannucci e di nuovo spiegai il motivo della

mia visita. Mi dissero di aspettare. Poco dopo venne un ispettore della polizia giudiziaria e mi disse che avrebbe ricevuto lui l'esposto.

Nessun magistrato mi volle vedere.La mattina dopo mi precipitai all'edicola a comprare i giornali. Solo «La Nazione», ma in una

pagina della cronaca di Firenze, riportava la notizia delle cimici scoperte nell'auto di un giornalista in un breve articolo a una colonna. Come una curiosità.

E io non avevo una scogliera su cui andare a piangere.A farmi tornare il sorriso ci pensò, ma non lo fece apposta, il giudice Mignini.Fu quando, a metà marzo, ricevetti l'ennesima, cortese telefonata dai carabinieri di Grassina che

mi invitavano nella loro caserma. La lupa Zaira mi venne incontro con la coda festosa. L'avevo conosciuta cucciolo e l'avevo vista crescere.

Fui fatto accomodare in un minuscolo ufficio, dotato di scrivania e computer, da un carabiniere che mi parve incomprensibilmente imbarazzato. Evitava di guardarmi in faccia e si dava da fare con dei fogli. Senza alzare la testa dal tavolo, disse tutto d'un fiato, come se si scaricasse di un peso: «Siamo incaricati di restituirle l'autoradio».

Ho pensato che scherzasse: «No…, non ho capito…»«Le ridiamo la sua autoradio. Non è contento…?»Non riuscii a nascondere il mio sorriso incredulo: «Mi sta dicendo che… ammettete che me

l'avete rubata e che m'avete scassato la macchina per farlo…»«No, non noi! Noi siamo solo incaricati di ridargliela. C'è un decreto – il carabiniere era

decisamente nervoso agitando un foglio con l'intestazione "Procura della Repubblica di Perugia" – del giudice Mignini che dà ordini al GIDES del commissario Giuttari di restituirle l'autoradio, essendo venute meno le ragioni del sequestro…»

«Ma – riuscii con parecchia difficoltà a non scoppiare a ridere –, ma questo è incredibile… Hanno messo su un documento ufficiale che mi hanno scassato la macchina per prendermi l'autoradio! Ma si rende conto…?»

Il carabiniere cercò di abbreviare la situazione: «Io non so niente, Spezi. Si riprenda l'autoradio, per favore. Ecco… metta una firma qui…»

«E – cercai di fare il difficile – se non funziona più? Se me l'avessero rotta? Non posso mica riprendermela al buio…»

«Spezi, per favore, firmi…»Firmai sotto lo sguardo torvo di un carabiniere il cui viso si era tinto di rosso.Mi misi la vecchia Panasonic sotto braccio, salii in macchina e senza neanche un'esitazione me

ne andai di nuovo in procura. Tornai nella segreteria del dottor Nannucci e vi trovai lo stesso ispettore che aveva preso il mio esposto per furto e danneggiamento contro ignoti. Mi guardò sgomento.

«Ho scoperto gli autori! – dissi con finta aria di trionfo – Di più: hanno confessato. Anzi, lo hanno messo per iscritto, su carta intestata e bolli vari. Sono – scandii – il sostituto procuratore di Perugia Giuliano Mignini, in qualità di mandante, e il commissario Michele Giuttari in quella di esecutore».

Scrissi e sottoscrissi la nuova denuncia e la consegnai all'ispettore.A tutt'oggi non ne so più niente.La parentesi di surreale buonumore fu breve.Mi bastò andare a fare una "girata", la sera del 31 marzo, nel sito Internet della Carlizzi. Lo

facevo abbastanza regolarmente, da quando aveva scritto che il Mostro ero io e l'avevo querelata. In mezzo ai suoi deliri, alle perfidie, alle fandonie più inverosimili quella donna mischiava cose vere,

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apprese non si sa come, non si sa da chi. Il cocktail che ne usciva fuori era da manuale di psichiatria, ma tra le righe, come in filigrana, si intravedevano informazioni esatte. Era il più folle osservatorio sulla vicenda che ormai mi riguardava così da vicino, ma poteva anche servire per intuire quali sarebbero state le prossime mosse di Mignini e Giuttari. Un invisibile filo univa quei tre personaggi.

A quello che lessi quella sera, ho ripensato anche quando ormai ero dentro l'Alfa nera che mi portava verso il carcere di Perugia. Per quanto possa sembrare incredibile, quella donna già condannata per diffamazione, sotto indagine per truffa e circonvenzione di incapace, mai stata giornalista, annunciava con una settimana di anticipo il mio arresto.

Chi le aveva dato un'informazione tanto delicata? E come faceva a conoscere addirittura i motivi che avrebbero fatto prendere quella decisione a Mignini e a Giuttari?

Con la sua prosa contorta, farcita di assurdità e di ignoranze, quella volta si rivolgeva direttamente a Douglas Preston che con la posta elettronica l'aveva diffidata a non occuparsi di lui su quel sito e, tra la riproduzione della copertina del suo ultimo libro, Brimstone, e del mio vecchio romanzo Il passo dell'orco, scriveva:

Ma Gabriella non perde tempo e invita Preston a recarsi presso di lei e guardare con i propri occhi il Mostro e le sue vittime… Lei mette nero su bianco e risponde all'e.mail di Preston: «Prenota la prima pagina del "The New Yorker" e vieni da me, farai lo scoop che aspetti da tanto tempo…» Come reagirà Douglas Preston? Accetterà l'invito o subirà il divieto di un amico italiano? Certo è che il «The New Yorker» questo scoop non se lo lascerà scappare… se Preston si tirerà indietro, qualcun altro darà un volto e un nome al Mostro, sulla prima pagina del prestigioso giornale… cui invieremo questo articolo…E soprattutto – proseguiva – voglio chiedere serenamente a Douglas Preston: «a te, cosa cambia se un giorno si provasse che il "tuo" Mostro era un abbaglio, mentre il vero Mostro è un altro?… Potresti addirittura scoprire di averlo conosciuto da vicino, di averci lavorato, di esserne diventato amico, di stimarlo come professionista, e di non aver mai percepito, che dentro una persona così colta, così sensibile, così per bene, vi fosse un labirinto ove la Bestia si nasconde, da quando ha completato la sua Grande Opera di morte… Un Mostro che si rispetti, sa ingannare chiunque, altrimenti sarebbe subito giudicato da Alberto Bevilacqua come un "Mostro Cialtrone"!… Non sarebbe forse per te, caro Preston, l'esperienza più sconvolgente della tua vita? Allora sì che potresti scrivere il trhiller unico al mondo, e magari con il ricavato delle vendite, acquistare il "The New Yorker"…» Sì, tutto questo al momento può apparire il frutto di una "mitomane" (qualcuno si sarà affrettato a presentarmi così a Douglas Preston), tuttavia potrebbe rivelarsi una profezia, giunta ad un passo dalla sua realizzazione…

E, più sotto, anticipando quasi alla lettera la tesi di Mignini, il quale avrebbe sostenuto che il mio interesse per la pista sarda era in realtà un tentativo di depistaggio, aveva scritto: «E come ignorare un documento del genere, avendo la prova che la pista sarda altro non è stata che un reiterato depistaggio?»

Una sigaretta tra le dita, lo sguardo sul paesaggio toscano che sfilava veloce oltre il finestrino dell'Alfa nera, penso che molto difficilmente la Madonna di Fatima, con la quale la Carlizzi afferma di avere frequenti colloqui, avesse perso tempo per farle quella profezia. La rivelazione era avvenuta, molto più facilmente, dentro un ufficio giudiziario. Chiunque l'occupasse, dimostrava di avere fiducia in un personaggio come Gabriella Carlizzi e, questo, era già sufficiente a dare un giudizio sul suo lavoro, qualunque fosse.

«Le andrebbe un caffè», il poliziotto seduto accanto a me nell'Alfa che mi portava verso il carcere di Perugia mi ha scosso dalle mie riflessioni. L'invito, data la situazione, mi è parso vagamente grottesco. «Ci fermiamo al prossimo autogrill – ha proseguito quello –. Dopo non ce ne sono più».

«A me va bene», ho detto.Siamo entrati nel largo piazzale dell'area di sosta Lucignano e le due auto scure hanno

parcheggiato una accanto all'altra. È stato solo allora che ho visto che nell'altra c'era Luigi Ruocco e ho capito che il pretesto per l'arresto era stata la villa di Capraia e le gite che vi avevamo fatto.

Sono sceso e finalmente ho allungato il corpo. Non avevo manette, due agenti, però, mi stavano vicini, uno davanti e uno di dietro. Ruocco e gli altri sono rimasti nella loro macchina. Tiziana e un

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altro ci precedevano e ogni tanto gettavano un'occhiata alle spalle, per vedere che non creassi problemi. Io avevo voglia solo di un caffè. Le gente si teneva distante, guardava con pudore: ero un carcerato, anche senza ferri e loro erano poliziotti, anche senza divise.

Abbiamo salito le corte scale dell'autogrill, siamo passati attraverso il varco antifurti e davanti a noi il bancone del bar d'incanto si è svuotato di avventori. Ero come tutti gli altri, non credo neanche di avere una faccia inquietante, ed ero diverso da tutti. Mi muovevo come chiunque, guardavo le carte luccicanti dei dolci, le bibite colorate nel frigo, le pubblicità che pendevano dal soffitto, ma ero già dentro una prigione.

Tiziana dalla cassa mi ha chiesto se il caffè andava bene e se volevo qualcos'altro. Le ho detto che volevo tre pacchetti di Marlboro e me li ha presi. Quando me li ha dati, ho tirato fuori dalla tasca posteriore dei pantaloni gli euro che i miei amici avvocati mi avevano dato, ma la rossa non li ha voluti. Ho insistito, niente da fare. Non mi ha fatto piacere: era cortesia o pietà?

Quando abbiamo lasciato l'Autosole per immetterci sulla bretella di Bettolle che porta a Perugia, era già buio. Abbiamo salito le tortuose strade che portano dentro la città a velocità sostenuta e poi mi è sembrato di vedere una grande costruzione moderna e, prima, un cancello. Ai due lati, telecamere in spalla, colleghi della Rai e di qualche televisione locale. Sono entrato tra una raffica di flash e l'auto si è infilata in un grande parcheggio sotterraneo pieno di mezzi di tutti i tipi. Credevo di essere arrivato in prigione, ma non era così. Era la caserma dei carabinieri.

Ci hanno fatto salire, me e Ruocco, non ricordo a quale piano, tenendoci separati in modo che non potessimo comunicare. Ci hanno portati in un lungo e stretto corridoio e ci hanno fatto sedere a diversi metri di distanza, un gruppetto di agenti tra noi. Sono riuscito a incrociare il suo sguardo e a scuotere la testa per dirgli «ma che cavolo stanno facendo?» Lui aveva l'aria tra l'incavolato e il mogio ma si è portato il medio alla tempia e ha picchiettato due o tre volte. Era il suo giudizio.

L'aria, con tutta quella gente, è diventata presto pesante in quel budello quadrato, non si poteva fumare e le luci erano fioche. Diciamo che l'atmosfera tendeva al depresso spinto. Lì in mezzo, asciutto, molto tonico, quasi eccitato, si muoveva un tipo sui quaranta che ho pensato fosse il direttore della prigione. Era vestito in stile agente di commercio il primo giorno della fiera: scarpe di cuoio giallo, abito marrone con gilet troppo largo, camicia con collettone alto e larghissimo, cravatta con maxinodo, polsini aperti che spuntavano troppo dalle maniche della giacca. Aveva i capelli arancioni. Douglas non aveva ancora scritto l'articolo sull'«Atlantic» e così solo parecchi giorni dopo avrei scoperto che era un capitano dei carabinieri.

Ho pensato che era il direttore della prigione, perché, in fondo, ero un ospite un po' speciale. Mi si è avvicinato e mi ha chiesto se volevo un caffè, «purtroppo solo uno della macchinetta automatica».

«Sì – ho detto – corto e senza zucchero».È tornato poco dopo porgendomi il bicchierino di plastica.«Il caffè – gli ho detto invece di ringraziarlo – chiama la sigaretta…»Ha preso un atteggiamento da uomo di mondo: «Faccio per lei un'eccezione… per una volta».Ho sorseggiato il liquido scuro e, poi, mi sono fumato tre o quattro sigarette, ché l'attesa di non

sapevo che cosa era comunque lunga e il tipo dai capelli arancioni era sparito.Finalmente mi hanno fatto entrare in una stanza di un bianco accecante, dove c'era un tipo con un

camice, un tavolo con fogli, un grosso tampone nero e, in un angolo, sopra un piccolo palco, una strana sedia con poggiatesta. Davanti c'era una grande macchina fotografica su un cavalletto. Dietro, la parete era a quadretti. Ero nella stanza dove si prendono i dati dei nuovi arrivati, impronte digitali, foto di faccia e di profilo, altezza, peso e via misurando. Il tipo in camice mi ha chiesto che gli porgessi, a turno, i palmi delle mani. Con un rullo li ha spalmati abbondantemente con un denso inchiostro nero. Poi, prendendomi un dito alla volta, ha schiacciato le prime falangi su dei cartoncini su cui erano prestampati gli spazi per ogni dito. Infine, su un quadrato più largo, ha stampato il palmo della mano. Ha ripetuto l'operazione quattro o cinque volte per ogni mano.

Poi mi ha detto di andare sulla sedia e di stare ben dritto, la nuca sul poggiatesta. Ha scattato alcune foto e, quando è stato soddisfatto del risultato, ha detto che potevo alzarmi.

«Me ne può dare una copia?», gli ho chiesto serio. Quello mi ha guardato stupito. Deve avere

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pensato che ero proprio scemo, e ha risposto paziente, con un sorriso imbarazzato: «Volentieri… ma non si può…»

Mi hanno riportato nel corridoio e lì ho dovuto aspettare che facessero lo stesso servizio a Luigi Ruocco. Poi, sempre facendo attenzione che non potessimo comunicare, ci hanno fatto scendere al piano terra e ci hanno messo di nuovo dentro le Alfa nere. Per dribblare giornalisti e telecamere, questa volta siamo passati per un'uscita secondaria. C'era un solo teleoperatore che aveva avuto l'intuizione giusta.

Non ho mai capito il perché di questi "nascondini" dei poliziotti: che gliene fregava se alle già tante immagini prese dal primo pomeriggio al Magnifico se ne aggiungeva un'altra?

Non era la mia preoccupazione principale. Adesso, ho capito, mi portano davvero in prigione. Tra poco, ho sentito una fitta nel cuore, passerò per quella porta. Sarò davvero dentro, nel mondo degli altri, degli uomini senza volto, senza vita, di quelli che ti dimentichi che esistono, perché non li puoi neanche immaginare. Tra poco sarò anch'io uno di loro.

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L'Alfa correva veloce nel buio della campagna umbra. Il carcere di Capanne è a una ventina di chilometri dalla città. Avrei preferito che andasse più piano, volevo allontanare quel cancello, che aveva un gusto di definitivo. Oltre, lo sentivo, c'era un buco nero, la non vita.

Ci siamo arrivati presto. Il cuore ha cominciato a battermi forte nel petto, ero rigido, avevo caldo e non volevo che di fuori si vedessero le emozioni che avevo dentro. Ho tenuto fisso lo sguardo davanti a me.

Ci siamo fermati subito, in un grande atrio, accanto al posto di guardia. Uno dopo l'altro, a turno, i poliziotti che mi avevano in custodia sono scesi, sono entrati nel casotto e lì hanno consegnato le pistole. Ci deve essere un qualche regolamento per cui neanche un agente può entrare armato in un carcere.

Nuova ripartenza, attraversamento di un enorme piazzale con al centro un'aiuola con una gigantesca scultura tipo Calder, in fondo cubi di cemento a tre, forse quattro piani, con le finestre a sbarre, la prigione vera e propria. Ci siamo rifermati davanti al nuovo ingresso, le guardie carcerarie in divisa blu che mi aspettavano. Tiziana e gli altri mi hanno consegnato a loro. Mi hanno guardato e hanno cercato di salutarmi. Il mio sguardo li ha sconsigliati dall'insistere. Se ne sono andati a testa bassa.

I miei nuovi guardiani mi hanno accolto a muso duro, si vede che non sono abituati a ricevere bella gente. Il "lei" non è contemplato e a loro che tu sia un detenuto in attesa di giudizio o un "definitivo" non gliene frega niente.

«Cammina!»Mi sono mosso tra una mezza dozzina di agenti in divisa blu, manco uno che sembrasse di

buon'umore.«Fermati!»Mi sono ritrovato davanti a un'alta inferriata dipinta di un bianco avorio. Dalla parte di là saliva

una rampa di scale. Con una grossa chiave di ottone una guardia ha aperto la grata. «Sali fino al secondo e aspetta».

Trovarsi solo, lì dentro, è stato un piacere fatto di malinconia. Ho salito quattro rampe di scale e mi sono ritrovato davanti a sbarre identiche alle prime. Dall'altra parte non c'era nessuno.

«Colleeeeega!», con la "e" aperta da far schifo e strascicata, il grido di un secondino da sotto. Quel richiamo l'avrei sentito decine e decine di volte, e sempre mi avrebbe fatto ribrezzo.

«Colleeeega!», ha ripetuto la voce siciliana. Io mi sono seduto sull'ultimo scalino ad aspettare. Una decina di minuti dopo è arrivato il "collega", anzi i "colleghi" di quelli rimasti giù, un'altra grossa chiave di ottone in mano. Hanno aperto le sbarre. Le hanno richiuse con un gran fracasso. Li ho seguiti per lunghi e vuoti corridoi illuminati crudamente. E sempre cancelli, fragore di sbarre, scale che salgono, scale che scendono, corridoi deserti e disadorni che girano seccamente a novanta gradi. E quel grido. «Colleeega!»

«Fermati».Uno è entrato in una stanza e dopo pochi secondi si è riaffacciato e con una mano mi ha fatto

segno di seguirlo. Ero in un ambulatorio medico, c'erano un dottore seduto dietro a un piccolo tavolo e una dottoressa di colore, grassa e giovane, accanto. Lui non mi ha neanche guardato, lei ha posato su di me uno sguardo severo. Mi hanno fatto sedere davanti a loro, due guardie alle mie spalle.

Mi hanno fatto domande di routine sulle mie malattie pregresse, attuali e sulle cure che seguivo. Mi hanno detto che mi avrebbero continuato a fornire le medicine che prendevo o, comunque, quelle che gli somigliavano di più. Mi hanno controllato la pressione e li ho visti leggermente trasalire. Non mi hanno detto di quanto, ma doveva essere maledettamente alta. Mi hanno dato una

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pasticca da far sciogliere sotto la lingua.La medichessa mi ha preso sangue dalla vena di una mano, ché nell'incavo del braccio non

riusciva a trovarla, nonostante una mezza dozzina di tentativi.Poi, con un formulario davanti, mi hanno fatto una serie di domande: facevo uso di droghe?

Abuso d'alcol? Appartenevo a qualche clan?L'ultima domanda non l'ho capita subito. Parlavano di Camorra, Mafia, 'Ndrangheta, quella roba

lì, fatta di cosche e clan.Quando ho capito, ho fatto l'idiota: «Sono solo iscritto all'Ordine dei Giornalisti».«Questo non conta», ha risposto il medico facendo spallucce.Fine della visita.Prima di lasciare l'ambulatorio li ho salutati. Se ne sono meravigliati.Ho rifatto il percorso inverso, di nuovo fino al piano terra, di nuovo tra porte a sbarre che

sbattevano, chiavi che cigolavano, luci che accecavano, facce ingrugnite.Mi hanno fatto entrare in una stanza vuota a parte un tavolo e una sedia. A terra era stesa una

coperta marrone e, accanto, c'era uno scatolone di cartone. Mi hanno detto di tirare fuori dalle tasche tutto quello che avevo. Ho messo sul ripiano le banconote, pochi spiccioli, le chiavi della Twingo, il cellulare, il fazzoletto, l'accendino, le sigarette, compresi i tre pacchetti che mi aveva comprato Tiziana la rossa.

Non bastava: mi hanno chiesto l'orologio, la catenina e anche la fede. Mentre uno prendeva un oggetto dopo l'altro, ci attaccava un bigliettino e lo riponeva in una scatola, un altro mi ha detto sordo: «Spogliati!»

Non ci avevo pensato a quella cosa là, fino a quel momento. Si chiama ispezione personale, in realtà è una delle più avvilenti umiliazioni che si può infliggere a un uomo. Ho pensato – forse sperato – che per me fosse una formalità o poco più. Mi sono tolto pullover, camicia e maglietta, mi sono sfilato le scarpe. Mi sono fermato.

Quello che sembrava il capo mi ha guardato con disprezzo: «Tutto».Il sangue mi è salito al viso, e non era pudore. È stato in quel momento, credo, che ho cancellato

gli agenti di custodia dalla categoria "uomini". Per me sono diventate non-persone, figure virtuali e prive di intelligenza ed emozioni in un videogame scemo. Che, però, ero obbligato a giocare.

«Se hai freddo ai piedi, sali sulla coperta», mi ha detto, e io l'ho fatto.Duro descrivere come ci si sente nudi in quella situazione Ma è venuto subito di peggio. «Fai tre

flessioni», mi ha ordinato il "capo". Non ho capito che cosa dovevo fare, che senso avrebbe avuto quella ginnastica e ho scosso la testa.

«Fai così… fino a terra», mi ha detto un altro accennando ad accovacciarsi.Le flessioni del carcere sono questo: accosciarsi sui talloni, per controllare che non nascondi

niente nell'ano. Tre volte. Davanti a quelli che ti guardano dall'alto dentro a una divisa blu.Ero accanto allo scatolone di cartone. Quando sono stato accovacciato ho guardato dentro e ho

riconosciuto una camicia di forza. Pronta per l'uso. Qualcuno non deve avere gradito quella ginnastica. Ho fatto velocemente le altre due "flessioni" e ho deciso di guardarli negli occhi. Loro hanno evitato i miei e hanno preferito fissare il pavimento. Non so a quanto sia salita la pressione, ma ho sentito sulla mia pelle nuda che cosa vuol dire definire "bruciante" un'umiliazione.

Poi mi sono rivestito e ho chiesto che mi lasciassero almeno l'accendino e le sigarette. Mi hanno concesso un solo pacchetto.

Siamo tornati nei corridoi e di nuovo abbiamo superato un certo numero di sbarramenti con relativi fracassi di sbarre sbattute, fino a che mi hanno chiesto di fermarmi davanti a un tavolo dietro al quale era seduto un altro agente. Ha riempito un registro con il mio nome e da uno scaffale ha preso un sacco di nylon trasparente, il kit del carcerato, e me lo ha dato.

Abbiamo ripreso il cammino verso la stanza fredda dove avrei vissuto per ventitré giorni. Ma, allora, nessuno avrebbe saputo dirmi quanto tempo ci sarei dovuto restare.

Il corridoio del reparto TR, "Transito", non era troppo lungo e non era troppo illuminato. Uno mi ha aperto la cella numero 2 e con la testa mi ha fatto cenno di entrare.

Ho varcato la soglia mordendomi un labbro, ho camminato fino al centro della piccola stanza,

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proprio sotto la luce bianca che scendeva dal soffitto, e mi sono fermato, gli occhi fissi sulle sbarre della finestra davanti a me.

Alle mie spalle, allora, sono esplosi, uno di seguito all'altro, quei colpi delle porte metalliche che venivano chiuse.

Non mi sono voltato.

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14

Sabato 8 aprile mi sveglio in un'alba senza ombre e in bianco e nero. Riconosco subito dove mi trovo. Le voci roche in albanese, arabo e in qualche altra lingua di Babele dei miei coinquilini già rotolano da una cella all'altra nel corridoio del braccio TR. I prigionieri che non si conoscono si chiamano usando il numero di cella come nome: «Cinque!» «Dimmi, tre». Se hanno lo stesso idioma cominciano una conversazione. Le televisioni mischiano imbecillità gracchianti. I blindati vengono fatti sbattere da un secondino che li apre, ché dobbiamo tutti essere bene in vista, protetti solo dalla porta a sbarre.

Ho mal di testa. Mi capita o per colpa della cervicale o, più spesso, perché dentro la testa due o più idee o sentimenti fanno a pugni tra loro. Oggi è per tutti e due i motivi. Il parallelepipedo di schiuma chiamato pomposamente cuscino non è piaciuto alle mie vertebre e, per quanto riguarda il casino delle idee, mi sembra che tra le mie meningi sia in corso il mondiale tra Rocky Marciano e Joe Walcott al Madison Square Garden.

E ho mal di schiena. La giornata di ieri e quella specie di materasso di lattice hanno risvegliato la vecchia discopatia. Ho nelle reni una fitta costante di dolore con improvvisi, imprevedibili acuti. Per alzarmi senza aggravare la situazione, infilo le dita nei buchi del piano di metallo rosso scuro che sarebbe la rete del letto sovrastante e mi tiro su, fino a sedermi. Ruoto le gambe all'esterno del letto e lentamente, sperando di non incastrare qualche nervo tra le vertebre dissestate, mi alzo. Devo stare molto attento, se faccio il movimento sbagliato, ma non ho mai capito qual è, resto piegato in due e senza un appoggio non sto in piedi.

Sono già vestito e ho freddo. Mi accendo una sigaretta, calcolo le dimensioni del mio nuovo mondo: tre brevi passi in larghezza, otto dalla porta a sbarre alla finestra. La apro e ammiro il panorama: un cortile di una ventina di metri di lunghezza per cinque circondato da costruzioni bianche a un piano scandite da finestre a sbarre. Ma, di fronte, non abita nessuno. Il pavimento è di lastre quadrate di porfido. Sopra, come una lastra di marmo, un rettangolo di cielo ancora bianco. Da dietro le costruzioni non spunta niente, né la cima di un albero, né una collina, né un edificio magari lontano. Anche gli uccelli, che pure a quest'ora dovrebbero essere numerosi, si tengono alla larga da Capanne.

Ho fame, non mangio da mezzogiorno di ieri. Mi ricordo del pane a fette e ne afferro una. Vado in bagno e mi guardo allo specchio: è bastato meno di un giorno e una notte per farmi diventare un avanzo di galera. La barba non fatta è bianca, i capelli sono arruffati e non ho niente, dita a parte, per ravviarli, i vestiti dentro ai quali ho dovuto dormire sono tutti sgualciti, la bocca è impastata e non ho uno spazzolino. L'odore non lo sento, ma non deve essere dei più gradevoli. Mi getto acqua sulla faccia ed è tutta la toeletta che posso fare.

Non so che ora è, so solo che è presto. Non conosco le regole della casa, nessuno te le spiega. Ricordo di avere visto in qualche film americano i detenuti seduti a lunghe tavole che mangiano tutti insieme in una sorta di self service. Qui, non succede niente, nessuno ti viene a chiamare per una parvenza di colazione, di qualunque cosa purché calda. La cella è fredda, il sole non ci arriva mai e scoprirò poi che è esposta a nord-ovest. Sono vestito come lo ero in casa mia il giorno prima, pantaloni di cotone e un pullover leggero. Mi rimetto nel letto, sotto la coperta marrone.

Sono sicuro che già questa mattina arriveranno i miei due avvocati e mia moglie e penso anche che il mio soggiorno a Capanne sarà breve, il tempo di comparire davanti al gip, o giudice per le indagini preliminari, che non potrà convalidare questa assurdità. Sono in una situazione sgradevole, devo ammetterlo, ma alla fine sarà una questione di due o tre giorni. E io, che per mestiere e passione rubo le personalità degli altri per farne personaggi di racconti e romanzi, posso passare il tempo facendo questa volta l'avvoltoio di me stesso: osservarmi da fuori e fare conoscenza con un tipo detto perbene che entra in galera per la cosiddetta carcerazione preventiva. Non capita mica a

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tutti quelli che fanno il mio lavoro.Penso a quello che la gente legge sui giornali questa mattina, allo scandalo che il mio arresto sta

suscitando, agli articoli dei colleghi che mi difendono, al casino che sta scoppiando, alla «Nazione», dove entrai la prima volta nel 1975, che sicuramente sta scatenando una campagna durissima per la mia libertà e per quella di stampa guidata dal direttore Francesco Carrassi. Per fortuna, invece, non posso leggerli. Chi se ne va in giro per le strade di Firenze, alla stessa ora, infatti, è aggredito da clamorose locandine della «Nazione»: «Mostro: arrestato un giornalista», che magari fanno sensazione, ma proprio un complimento per me non sembrano.

Il lettore apprende sotto il titolo quasi uguale della «Repubblica»: «Mostro di Firenze, arrestato giornalista», che

avrebbe cercato di depistare le indagini in corso sul presunto omicidio di Francesco Narducci e quelle sul Mostro di Firenze il giornalista Mario Spezi arrestato ieri su richiesta del sostituto procuratore di Perugia Giuliano Mignini. Nei suoi confronti è stata eseguita nel primo pomeriggio un'ordinanza di custodia cautelare in carcere (sembra chiesta dal magistrato più di un mese fa) nella quale si ipotizzano i reati di calunnia e turbativa di pubblico servizio. Gli stessi addebiti mossi a Luigi Ruocco, 51 anni, originario di Gragnano (Napoli), inquisito più volte in passato per reati contro il patrimonio.Spezi ha sempre respinto tutte le accuse a suo carico.

Sulla pagina umbra del «Messaggero» lo sconosciuto collega Italo Carmignani lascia intendere di saperne più degli inquirenti. «Già finito nel registro degli indagati per i depistaggi nello strano caso del dottor Narducci, Mario Spezi ora fa il suo ingresso nella parte più pesante dell'indagine, quella relativa ai mandanti dell'assassino del gastroenterologo», per poi arrivare a concludere, ammiccando furbo e inquietante a un tempo: «E che bisogno ci sarebbe di depistare, se non si avessero cose ben più gravi da nascondere?»

Scrive la collega Erika Pontini sulla "mia" «Nazione»

L'arresto è stato motivato dal rischio della reiterazione sia della calunnia sia dell'interruzione di servizio pubblico. Rendendo Spezi, secondo la procura, «complice» di Luigi Ruocco, 55 anni, pregiudicato campano, domiciliato a Scandicci, pagato da Spezi per aiutarlo a depistare le indagini, facendo ritrovare l'arma del delitto del «mostro» e altre cose attinenti agli omicidi in una villa a Capraia-Limite. E Ruocco, aggiungono gli inquirenti, è legato anche a Ignazio Cavallaro, uno dei fratelli siciliani indagati per concorso nel delitto Narducci. Insieme a Spezi, al farmacista Francesco Calamandrei e ad altre tre persone.Aggiunge il magistrato: «La denuncia calunniosa è stata in ogni caso presentata e quello che è peggio, in un luogo segreto, ben custodito sono forse occultate le misteriose scatolette di cui, particolare inquietante, è in possesso Spezi. Ciò apre inquietanti prospettive su Spezi e i suoi complici». L'ipotesi agghiacciante è che l'operazione Bibbiani doveva servire «per occultare degli oggetti legati ai delitti che evidentemente sono in suo possesso (Mario Spezi, n.d.r.) o dei suoi complici». Lo scopo del giornalista era quindi, secondo la ricostruzione accusatoria, quello di eludere le indagini perugine ma anche i complici avrebbero avuto un movente. Ruocco voleva «vendicarsi» per la vicenda della figlia, sottoposta ad un'errata sperimentazione farmacologica (in quell'occasione avrebbe conosciuto Spezi) visto che il proprietario della Villa era collega della dottoressa «incriminata». E in più avrebbe percepito un pagamento in denaro dal giornalista. Mentre Zaccaria avrebbe coronato le sue ambizioni politiche. È l'ex ispettore a raccontarlo agli inquirenti, svelando la confidenza che gli fece il giornalista: «qualora la pista dei sardi sarebbe stata sviluppata e trovato riscontro per lui sarebbe stata una grossa soddisfazione, sarebbe stato smerdato Giuttari ed io, avendo collaborato alle indagini ed essendo prossima una mia candidatura in politica sarei stato eletto ministro degli Interni». Le cose sono andate diversamente: venerdì pomeriggio il giornalista e il pregiudicato sono stati prelevati dalle loro abitazioni e condotti in carcere. Perché altrimenti – sostiene il giudice – potrebbero reiterare il reato. Li attende ora l'appuntamento più duro: martedì mattina con il giudice che li sentirà nell'ambito dell'interrogatorio di garanzia.

Un pezzo da brividi perché in quelle righe è condensato tutto quello che, a mio parere, un giornalista, specie di "giudiziaria", non deve mai fare, a parte l'abuso dell'aggettivo "inquietante": un articolo che vuole essere, chissà perché?, un atto d'accusa; parole che si spingono fino ad

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avallare in maniera acritica la folle tesi accusatoria che io, con «quegli oggetti legati ai delitti che evidentemente sono in (mio) possesso», sono il Mostro di Firenze. «Evidentemente» in mio possesso? Ma come fa, la collega Pontini, a usare quell'avverbio? Ma dove sono? E si è mai chiesta come si fa a depistare un'indagine scrivendo articoli? Non le è venuto in mente, a lei, a Mignini, a Giuttari, che esprimere una tesi diversa da quella ufficiale, giusta o sbagliata che sia, ha a che vedere solo con la libertà d'espressione?

E ancora: quel riferimento alla «cupola che ordinò il delitto di Francesco Narducci» è tratto sicuramente dal folle e del tutto incredibile documento dei due calunniatori Domenico Rizzuto e Gabriella Carlizzi. E, allora, se lo conoscono, i miei colleghi ci credono?

E il povero Ruocco, che «avrebbe voluto "vendicarsi" per la vicenda della figlia, sottoposta ad un'errata sperimentazione farmacologica visto che il proprietario della Villa era collega della dottoressa "incriminata"»? Ma se Ruocco non sa neanche chi è il proprietario della villa? E se lo sa, si sarebbe vendicato contro un cardiologo per un torto subito da una psichiatra? E, poi, chi mai voleva portare la polizia dal proprietario della villa? Non avevamo indicato in questura quella casetta semiabbandonata? Ancora: ma non sono loro stessi, inquirenti e giornalisti, a dire che volevamo indirizzare i sospetti sulla pista sarda? Allora si decidano: sui sardi o su uno stimato cardiologo? E si decidano ancora: Ruocco lo ha fatto per soldi o per vendicarsi?

Poi c'è la barzelletta dell'ex agente di polizia Nando Zaccaria che voleva diventare ministro degli Interni e che quei due prendono per seria verità. Era, quella, una frase che avevo detto a Nando al telefono, evidentemente intercettata da Giuttari e Mignini. Avevo detto al mio amico ridendo: «Aho, se troviamo il Mostro, diventi ministro degli Interni!» L'avevano presa alla lettera e così l'avevano passata ai due colleghi perugini, evidentemente del tutto sprovvisti di britannico humour, oltre che delle più elementari conoscenze del mondo politico.

E, se pure queste cose sono gravi, anzi gravissime, c'è ancora di peggio. In quello stesso articolo Erika Pontini, alla quale la notizia non può essere stata data che da qualche inquirente, fa nome e cognome della persona che in maniera del tutto arbitraria loro credono che si nasconda dietro allo pseudonimo "Carlo" che io e Douglas abbiamo dato al nostro maggior sospettato dei delitti, usando con grande cura tutti gli accorgimenti per non farlo identificare. Questo è un raro esempio di pericolosa disinvoltura di giornalisti e di inquirenti: se, infatti, davvero il nome pubblicato è quello dell'assassino, la cronista e i suoi informatori farebbero correre seri rischi a me, una volta fuori, e alla mia famiglia già ora; se quella persona, invece, fosse del tutto estranea alla vicenda del Mostro, averla indicata come sospetta sarebbe un torto gravissimo che gli viene fatto.

Dovrei andare, questa mattina 8 aprile, lontano dalle edicole di Umbria e Toscana, e quindi dagli uffici di Giuttari e Mignini, per trovare giornali che espongono la vera situazione. Corretto pur senza sbilanciarsi, il «Corriere della Sera» lascia intendere che qualcosa non quadra nel mio arresto:

LA MOGLIE: «LO HANNO RAPITO» – La moglie di Spezi ha riferito che il marito, all'arrivo dei tre poliziotti, ha cercato di utilizzare la sua auto, ma gli agenti lo hanno invitato a viaggiare con loro. La moglie ha aggiunto che non gli è stato permesso telefonare all'avvocato, poi avvertito da lei. «Mio marito è stato rapito. Qui, evidentemente, si può agire nella piena illegalità. È una vicenda assurda, sono due anni che lo stanno perseguitando e io mi chiedo come è possibile che tutto ciò avvenga senza che nessuno reagisca» ha detto Miriam Spezi.

Ma è «Libero», il giornale di Feltri, che per primo attacca e pubblica a quattro colonne:

IL CASO / Douglas Preston, l'amico scrittore del giornalista incarcerato: «Mario è in cella per aver fatto il suo dovere»L'appello dagli Stati Uniti«Spezi sta male, liberatelo»«Douglas Preston, americano del Massachussets, 50 anni è coautore con il giornalista Mario Spezi di Dolci colline di sangue pubblicato da Sonzogno. Nel libro si afferma che sullo sfondo degli otto duplici omicidi attribuiti al "mostro di Firenze" non ci sia nessun compagno di merende e nemmeno una pista satanica, ma piuttosto un clan sardo. Per questa tesi il cronista della Nazione è in carcere a Perugia: omicidio e depistaggio le accuse: mentre lo scrittore americano è imputato a piede libero per false

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dichiarazioni. Preston ha lanciato un appello dagli Stati Uniti affinché il collega in prigione soltanto per avere osato criticare e contraddire la tesi dei magistrati che hanno indagato sui delitti venga liberato. Qui sotto riportiamo il suo racconto della vicenda. Venerdì invece toccherà al tribunale decidere se scarcerare Mario Spezi.

«Libero», quindi, pubblica per intero l'appello che Douglas Preston ha lanciato ai media americani e su Internet appena ha saputo del mio arresto.

Oggi la polizia italiana ha arrestato il mio caro amico e coautore Mario Spezi. Lo ha attirato fuori dalla sua casa a Firenze con un pretesto e lo ha caricato su una macchina. Ho parlato con sua moglie Myriam, che dice che la polizia si è rifiutata di esibire un mandato e non gli ha permesso di chiamare il suo avvocato. In seguito si è saputo che l'arresto è stato ordinato dal GIDES, l'unità speciale della polizia diretta da Michele Giuttari. Spezi è stato condotto al quartier generale del GIDES per essere interrogato, dopodiché, a quanto ne so, è stato portato a Perugia e incarcerato. Secondo quanto riferisce la stampa, le accuse a carico di Spezi sono calunnia, diffamazione, disturbo dell'ordine pubblico e turbativa di indagine. In sostanza, è stato arrestato per aver fatto il suo lavoro di giornalista. Secondo un'agenzia, sarebbe anche sospettato di un delitto irrisolto di trent'anni fa, un'accusa del tutto campata in aria. Il 19 aprile da Sonzogno (RCS Libri) è prevista l'uscita del libro che Spezi e io abbiamo scritto insieme, Dolci colline di sangue. Il libro esprime critiche nei confronti di Michele Giuttari così come del pubblico ministero di Perugia, Giuliano Mignini, incaricato dell'indagine che ora Spezi è accusato di avere turbato. Io stesso un mese fa sono stato fermato in Italia dagli investigatori dell'unità di Giuttari e interrogato da Mignini riguardo alle nostre attività giornalistiche in relazione al libro. Alla fine mi è stato sbattuto in faccia un avviso di garanzia per falsa testimonianza e mi è stato consentito di tornare a casa. Non è un caso che questo arresto capiti proprio dodici giorni prima dell'uscita del nostro libro. Il Dipartimento di Stato americano ha chiesto al giudice Mignini di chiarire la mia posizione legale in Italia e, a quanto mi risulta, di spiegare su quali basi io sia stato fermato, interrogato e accusato di falsa testimonianza. Ma quello che è successo a me non è nulla: è Mario la vera vittima di questo sconcertante abuso di potere ed è in gioco la sua libertà come giornalista e come essere umano. Chiedo a tutti voi, per favore, per amore della verità e della libertà di stampa, di accorrere in aiuto di Spezi. Questo non dovrebbe accadere in un paese bello e civile a cui sono molto affezionato, il paese che ha dato al mondo Galileo e il Rinascimento.

La reazione in America è immediata. Ann Cooper, uno dei più noti avvocati di New York e direttore esecutivo del Committee to Protect Journalist (CPJ), associazione per la libertà di stampa, invia una lunga lettera al presidente del Consiglio Berlusconi:

Sua Eccellenza Berlusconi, la invitiamo a fare tutto quanto in suo potere per fermare la persecuzione del nostro collega italiano, Mario Spezi, e assicurare che il nostro collega americano, Douglas Preston, possa recarsi in Italia e gli sia consentito di lavorare liberamente. La ringrazio per la sua attenzione a queste questioni urgenti. Attendiamo la sua risposta.

La protesta internazionale è inviata dal CPJ al presidente in Italia di Information Safety and Freedom, Stefano Marcelli, perché sia resa nota anche da noi.

La vicenda Spezi-Preston, commenta Stefano Marcelli, getta un pesante discredito sull'immagine internazionale del nostro Paese e rischia di farlo precipitare agli ultimi posti nelle classifiche sullo stato della libertà di stampa e la democrazia. La lettera del CPJ disegna un Paese dove i giornalisti sono minacciati e intimiditi dalle autorità e forse, giornalisti e autorità, che finora evidentemente hanno dato questa impressione, dovrebbero dimostrare al mondo che così non è.

La faccenda finisce sui più importanti siti internazionali, da ITW (International Thriller Writers) all'International Federation of Journalists, da Reporters sans frontières a un sito cinese, paese che pure non è proprio ai primi posti per la libertà di stampa.

La scrittrice Natsu Shimamura rilancia sui siti giapponesi l'appello di Doug e la mia vicenda. Da Tokyo telefona a Myriam per avere informazioni di prima mano e mandarmi la solidarietà sua e degli scrittori giapponesi.

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Ancora Doug telefona dagli Usa al mio legale Alessandro Traversi e si offre di pagare la cauzione per tirarmi fuori di galera, ma apprende in questa occasione che da noi quell'istituto non esiste.

Gli scrittori americani aderenti al Pen Club lanciano una sottoscrizione per pagare le mie spese legali che, secondo i parametri statunitensi, potrebbero essere devastanti. Mia moglie ringrazia, ma rifiuta l'offerta, perché i miei due avvocati Traversi e Filastò hanno accettato l'incarico gratuitamente.

Un atteggiamento, quello della stampa estera, che contrasta in modo violento con quello di molti media nazionali, tra i quali compaiono articoli sorprendenti, autentici manuali sui quali scoprire come funziona in Italia il giornalismo giudiziario, salve le dovute eccezioni. Di che scrivere un saggio neanche tanto breve sulle anomalie dell'informazione nel nostro Paese.

Cronisti che non "beccano" una notizia, se non quelle che gli dettano i magistrati e che, quindi, per lavorare sono costretti a diventarne gli amplificatori; cronisti che scrivono senza manco l'ombra di uno spirito critico o di un'intelligenza autonoma; piemme, quindi, che dispongono i "pennini" a loro disposizione per far trapelare le notizie che vogliono, come vogliono e al momento che vogliono. Piemme che distribuiscono notizie ai giornalisti "bravi", quelli che collaborano, cioè, e quasi non parlano con quelli "cattivi".

Non c'è solo complementarietà tra magistrato e cronista, c'è complicità. Il giornalista giudiziario steso come uno zerbino davanti all'uscio del sostituto procuratore, ne diventa uno strumento, al pari di un agente di polizia giudiziaria. Perché non si limita a gettare fango sul detenuto in attesa di giudizio di turno, ma contribuisce attivamente a creare nell'opinione pubblica un clima a lui contrario e favorevole alle tesi dell'accusa. Niente di nuovo, si faceva anche nell'Urss.

Se, poi, saltasse fuori che quei cronisti fanno tutto questo in buona fede, perché sono convinti che da una procura della Repubblica e dalla scrivania di un commissario non può uscire che verità, be', allora aiutiamoli. Pochi mesi dopo quell'aprile 2006 anche loro apprenderanno che il commissario Michele Giuttari a quella data teneva gelosamente nascosta, persino al Viminale, la notizia che giusto un anno prima era stato condannato dal Tribunale di Palmi in Calabria a un anno e otto mesi per falsa testimonianza. Il poliziotto aveva mentito sugli stretti rapporti che aveva con un boss della 'Ndrangheta, tal Salvatore Filippone, al quale, invece di dare la caccia, si raccomandava perché intercedesse presso il ministro degli Interni per una promozione. Ancora pochi mesi e avrebbero appreso che il procuratore capo di Firenze Ubaldo Nannucci avrebbe denunciato per calunnia quel poliziotto assieme al piemme Mignini, che lo avevano ingiustamente accusato di avere ostacolato, per chissà quali inconfessabili motivi, le loro indagini sul Mostro. E, poi, ancora, che Giuttari e Mignini, sarebbero stati perquisiti e quindi indagati perché avevano messo sotto intercettazione telefonica tutti i giornalisti che li criticavano e persino il capo ufficio stampa del Viminale.

La mattina dell'8 aprile non so niente, in realtà, di, quello che accade fuori della mia cella. Vedo solo che due guardie carcerarie, una in blu, l'altra in tuta grigia da combattimento o giù di li, arrivano alla mia porta, la aprono ed entrano con facce ingrugnite. Quello in blu, che sta davanti, ha in mano un pesante mazzuolo nero; l'altro mi guarda con disgusto e ordina: «Alzati». Obbedisco e, il gomito appoggiato sulla branda superiore, mi metto a osservare la guardia che comincia a battere il mazzuolo sulle sbarre della finestra facendo vibrare le mie cellule cerebrali e salire il mal di testa. È la "cerimonia" della battitura, saprò più tardi. La fanno un giorno sì e uno no, in media, per controllare se il detenuto, nottetempo, ha segato qualche sbarra.

«Altro che segare – dico alle guardie –, non ho neanche un Trim per le unghie!»Quello in tuta non apprezza: «Stai dritto! E fuori le mani dalle tasche!»Obbedisco di nuovo a quei personaggi del videogame in cui sono finito.«Ho mal di testa – oso dire –, a chi chiedo un'aspirina, qualcosa che me lo faccia passare?»«Quando vengono per la "terapia", glielo chiedi».La "terapia"? Quale terapia?Se ne vanno senza aggiungere altro, ma lanciando un'occhiataccia che vuole essere un

avvertimento.

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Mi siedo al tavolino e mi rendo conto che ho a disposizione solo due sgabelli senza schienale. Perfetti per la discopatia. Rifletto su quella scelta di arredamento carcerario e non trovo né motivi estetici né ragioni di sicurezza. Concludo che sono solo una gratuita vessazione, un modo come un altro per dare una dose in più di disagio. Me ne torno sotto la coperta marrone alla ricerca di un po' di caldo, anche perché al tavolo non ho niente da fare: non ho da leggere, da scrivere, da occuparmi in qualche modo.

Due sere prima con Myriam e l'amica Andreola ero andato a vedere il film Il grande silenzio, quello quasi muto sui monaci della Grande Certosa che non parlano neanche con gli animali, ma che meditano e pregano. Mi era piaciuto, a parte certe immagini un po' troppo compiaciute della loro bellezza, e mi aveva affascinato. Bene, in meno di settantadue ore sono passato dalla solitudine virtuale a quella effettiva. Ottima occasione per vedere come ci si sta. Mi viene in mente la scritta nel convento francescano di San Salvatore al Monte, subito dopo il portone d'ingresso, prima del chiostro: «O beata solitudo, tu sola beatitudo». Ora posso verificare.

Sono in un grande vuoto, non c'è direzione, un prima e un dopo. Non c'è alcuna possibilità di programmare la propria vita, neanche per faccende di poco conto.

In questa situazione, ogni pensiero, ogni emozione, ogni ricordo, distilla da quello strumento musicale che è la mia persona una nota, una sola alla volta, ma che riesce a riempire il vuoto. Ogni nota, infatti, si dilata fino all'inverosimile e puoi sentirla in tutta la sua essenza.

Nella vita normale, quella fuori di qui, queste note non si sentono quasi mai, perché la gente è un'orchestra e pure abbastanza strampalata. La gente è violino, tamburo, tromba, oboe, arpa, tutti strumenti mischiati che, più che musica, fanno un gran casino.

Fuori di qui, nella vita normale, quel rumore assordante non finisce mai, anche quando sei solo, nel chiuso della tua casa, perché ormai la sua eco si è fissata nella tua testa.

Qui, nella cella 2, braccio TR, non c'è rumore, né dentro, né fuori dalla testa. Il mondo, ormai, è lontano dalla non-vita. Qui la calma è piatta. C'è solo la corda di un violoncello che non sai dov'è e che, come un Kaddish, il lacerante canto ebraico dei morti, manda una nota straziante alla volta. L'ascolti, la segui, la trattieni, non la puoi lasciare. Poi, di colpo, con sorpresa, ti accorgi che quella corda di violoncello tesa nel vuoto sei tu e la nota è uscita da te. Mai la tua vita è stata così piena. Perché finalmente ti rendi conto che suoni e senti una nota alla volta.

Ma non è come nella Grande Certosa, accarezzata dal canto gregoriano: qui le note sono solo quelle del Kaddish.

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C'è una bionda alle sbarre della mia cella. Bella, giovane, morbida e dentro un camice bianco. Alle sue spalle, la già familiare sagoma del tipo in tuta antisommossa.

«La sua terapia», mi dice la pupa. Non è lei, ovviamente, la terapia, ma le due pillole avvolte in un pezzetto di carta che tiene tra le unghie laccate. Sono le medicine che la sera prima ho chiesto al medico di continuare ad avere. La guardia fa sferragliare la chiave nella serratura e apre il cancello. I due entrano e la bionda ha nell'altra mano l'aggeggio per misurare la pressione. Compie l'operazione stando accanto al tavolino sul cui ripiano ho steso il braccio scoperto. Chiedo come va.

«Meglio… è ancora alta però…»A pochi centimetri da me e dall'infermiera sta Rambo, a gambe divaricate, pronto a intervenire in

caso di necessità. Mi passa un flash nelle sinapsi: in Technicolor, nello splendore dei 70 mm, Dolby stereo, io afferro la bionda alle spalle e le pianto il dito indice alla tempia.

La pianto subito.Dico alla bionda che ho mal di testa e dolori alla schiena e le chiedo qualcosa che me li faccia

passare. Mi dice di non avere niente con lei, che mi farà portare qualcosa stasera, «quando ripasserà la terapia».

Sono preoccupato per le mie sigarette, che stanno per finire e domando o di comprarne o di riavere quelle che mi hanno sequestrato.

«Quelle – replica duro il secondino – non le puoi riavere. Le devi comprare».«Già, ma dove?»«Non ti hanno dato il libretto carcerario?»«Il che…?»«Avevi soldi quando sei arrivato?»«Sì, ma me li hanno presi…»«Certo. Quelli li teniamo noi, a te danno un libretto, come un conto corrente. Tu fai le

ordinazioni e noi scaliamo l'importo».«Ah bene. E quando posso farlo?»«Be', siamo a sabato e non si può… Lunedì forse passa lo spesino per raccogliere le richieste.

Avrai la roba mercoledì o giovedì prossimo».È la prima sensazione di quasi panico che provo dall'ingresso a Capanne. Avrò sì e no un paio di

sigarette e smettere di fumare ora, in queste condizioni, non mi sembra un'impresa a portata. Non ho contatti con nessuno, non posso chiedere sigarette in prestito e giovedì mi sembra futuro remoto. Mi dico che a quella data dovrei essere stato già messo fuori dal gip, ma il panico da non fumo resta.

Passata la "terapia", mi rimetto nel letto, per il caldo, il dolore alla schiena e perché disteso sento meno la necessità delle sigarette. Ci sto solo una decina di minuti che torna Rambo e infila di nuovo la chiave nella serratura: «L'avvocato», mi dice sintetico.

Mi ravvio i capelli in qualche modo con le mani, mi do una sistemata agli abiti ed esco dalla cella. Lì per lì, un senso di sollievo, poi, fatti due o tre passi, un'oppressione più pesante di prima. Mi sento più prigioniero in quei grandi corridoi che nella piccola cella. Lì posso fare poco, molto poco, ma faccio quello che voglio. Qui ho lo spazio davanti e dietro me, ma sono sotto il controllo di un altro uomo, di uno sconosciuto che comanda i più insignificanti movimenti: «Fermati!», «Aspetta!», «Sali le scale!», «Cammina lungo la parete di sinistra!», «Fuori le mani dalla tasche!»

Dopo lunghi corridoi, scale in salita e poi in discesa e una quantità difficilmente valutabile di sbarre che si aprono e sbattono alle spalle, vengo introdotto in una stanza illuminata dal sole con un tavolo al centro e due sedie con braccioli, una per parte. Su una è seduto l'avvocato Alessandro Traversi, un pacco di fogli davanti. Mi viene incontro, mi abbraccia, si informa delle mie condizioni. So che riferirà a Myriam e dico con la voce più tranquilla che posso che sto bene, tutto

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sommato, che non c'è da preoccuparsi per me. Ed è anche vero.Ci sediamo e, prima delle faccende legali, gli chiedo due cose: di darmi tutte le sigarette che ha e

una penna. Alessandro è un tipo da pieno self control, più simile a un gentleman inglese che a un fiorentino pressapochista. E, così, per mia disgrazia è il tipo che riesce a fumare due o tre sigarette in ventiquattro ore e solo in certi giorni e in certe occasioni. Mi dà un pacchetto semivuoto di Diana e una Bic, di quelle con il cappuccio. Poi cerca di tranquillizzarmi: «Non ti preoccupare, ora arriva Myriam con Nino Filastò. Ti ha portato abiti freschi, da leggere e anche una stecca di sigarette. Anzi… mi meraviglio che non siano ancora arrivati… sono partiti prima di me…»

La porta si apre ed entra un secondino giovane e alto con un gran sorriso: «Il colloquio è sospeso. Tutti i colloqui sono sospesi. Ordine della procura. Avvocato, si accomodi…»

Io e Sandro ci guardiamo perplessi negli occhi. Che cosa vuol dire questa disposizione? Perché non posso parlare con il mio avvocato e con mia moglie? Perché non posso difendermi?

«Mah…» mormora Traversi sconcertato.Mi saluta stringendomi vigorosamente la mano, si raccomanda che stia tranquillo, ché tutto

durerà poco. Gli dico che non c'è da preoccuparsi, che deve rassicurare Myriam, convincerla che io sto bene. Aggiungo che non voglio assolutamente che mia figlia Eleonora lasci Praga per venire qui. Deve starsene lontana da questa melma, tornerà quando ne sarò fuori.

Sono preoccupato per mia moglie. Da due anni è scossa da questa storia, da tre perquisizioni con il campanello che suona alle sei del mattino e al citofono la voce roca: «Polizia!»; dalla paura quotidiana che mi succeda quello che è successo il giorno prima. Io, che sto dentro, non mi preoccupo per me, ché tanto come sto lo so. È non sapere niente di chi sta fuori che mi dà angoscia.

Vengo ripreso in custodia da Rambo che mi fa fare il percorso inverso e mi scorta fino alla mia cella mentre nella testa cerco inutilmente una risposta alla domanda di perché mai i miei colloqui sono stati sospesi. Saprò parecchi giorni dopo che proprio questa mattina il giudice per le indagini preliminari Marina De Robertis ha accolto la richiesta di Mignini e ha applicato l'articolo 104, comma 3 del codice di procedura penale e che, quindi, «ritenuta la gravità dei fatti in contestazione, sussistendo specifiche ed eccezionali ragioni di cautela come evidenziate dal piemme richiedente, è necessario dilazionare per un tempo non superiore a cinque giorni l'esercizio del diritto di conferire con difensori». È una norma pensata e applicata nei confronti di importanti boss della Mafia e grossi capi terroristi.

Ma io non sono accusato appena di tentata interruzione di pubblico servizio e tentata calunnia?Comunque, ormai salto la colazione. La distribuzione è avvenuta mentre ero nella stanza del

colloquio. Torno al classico: pane e acqua. Ho una penna, ma niente su cui scrivere.Un raggio di sole entra nella mia cella e va a colpire la parete in fondo al letto. Prendo uno

sgabello, mi siedo, le gambe accavallate, le braccia conserte, la schiena e la testa contro il muro, la faccia verso la finestra. Il sole mi scalda un po'.

Resto immobile, gli occhi socchiusi e lascio scorrere il tempo che se ne va gorgogliando sommessamente dentro a qualche tubo e alla fine non ce ne è più. Resta solo il presente, non guardo indietro, non scruto in avanti. Ascolto le note che escono una a una da me.

Non so da quanto tempo me ne sto così, senza muovere un muscolo, quando una guardia mi chiede: «Vuoi andare all'aria?»

Sorrido. Già, l'"aria". La famosa "ora d'aria". L'ho vista in qualche film. Incredibile: ora tocca a me. Se non me ne ero accorto, adesso so che sono davvero un detenuto, un carcerato, un galeotto.

«Sì, ci vado», rispondo, spinto più dalla curiosità che da una vera voglia di uscire. Il secondino apre le sbarre, io afferro le sigarette e l'accendino ed esco. Il tragitto fino all'"aria" stavolta è corto, ma passo davanti alle altre celle e posso vedere i miei compagni dietro alle sbarre. Mi guardano incuriositi, qualcuno mi saluta. Vengo scortato fino a una porta che dà su un cortile in tutto identico a quello che vedo dalla mia cella. Venti metri per cinque, più o meno; sui quattro lati, edifici chiari a un solo piano con finestre a sbarre e, dietro, nessuno. Due telecamere, sui due lati brevi. Non c'è niente, nemmeno una panca. Non c'è nessuno, non posso vedere nessuno, «sussistendo specifiche ed eccezionali misure di cautela».

Mi concedo una delle ultime sigarette rimaste e cammino lentamente, prima in su, poi in giù. E

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di nuovo. E di nuovo. Il divertimento mi stanca presto. Quasi l'intero cortile è in ombra, a parte l'angolo più lontano dalla porta d'ingresso. Lo raggiungo e mi lascio scivolare a sedere per terra.

Il pavimento è di mattonelle rettangolari di porfido. Sono circondato dai rettangoli degli edifici bassi marcati dai rettangoli delle finestre divise in quadrati dalle sbarre. Le ombre proiettano rettangoli neri, eccezionalmente una losanga. Intravedo un mondo fatto di quadrati, rettangoli, losanghe, parallele che si moltiplicano all'infinito, come tra due specchi contrapposti. Sopra la testa ho un rettangolo celeste unito. Non passa neanche una nuvola a spezzare l'ossessione dei quadrati e dei rettangoli e a segnalare che qualcosa comunque avviene. In un cielo tutto blu non ci sono parole, non ci sono storie e, se ne riconosci una, fa troppo male leggerla dal cortile di una galera.

Sarà difficile farsi credere da quelli che non sono mai stati in prigione, ma spero che l'"aria" finisca presto. Non vedo l'ora di tornare nella mia cella.

Ci torno per il pranzo, vale a dire alle undici e mezza. Il cibo te lo porta, sempre scortato da un secondino, un altro detenuto, lo spesino, che spinge un carrello di metallo diviso in comparti. Lo "spesino" è personaggio importantissimo in galera, specialmente in un reparto come il mio, dove non ci sono contatti con gli altri detenuti. Lui, invece, ci vede tutti, uno a uno, conosce tutti, raccoglie le richieste di ognuno e, se può, e se vuole, cerca di soddisfarle. Chi fa lo "spesino" lo fa per una manciata di soldi, che vanno nel suo libretto carcerario, ma nella scelta una parte non da poco deve averla il fatto che quella, in carcere, è una posizione di potere.

Mi scopro decisamente imbranato nel farmi servire il pranzo. Prendo la scodella di metallo, la infilo verticale oltre le sbarre allungando il braccio, ma non capisco come fare a rientrarla senza rovesciare il contenuto. Lo "spesino", un maghrebino parecchio scuro, mi guarda con un lampo di stupore. Capisce che sono un neofita, mi toglie la scodella dalla mano e me la ripassa, orizzontale, in un piccolo spazio rettangolare a metà della porta dove quattro sbarre, per una ventina di centimetri, si interrompono. Mentre io porto il pranzo sul tavolo, lui mette in quello speciale passavivande due piccole mele che rotolano per terra all'interno della cella e un nuovo pacco di mezzo chilo di pane tagliato a fette e incellophanato e riparte per il suo giro.

«Ehi! – lo richiamo – Senti. Devo comprare roba… non ho il libretto…»Si ferma e mi fissa: «Ce l'hai i moduli per la spesa?»«No, che roba è? Chi me la deve dare?»«Chiedili alla guardia. Comunque la spesa si fa martedì». E se ne va.Chiamo la guardia. Cerco di essere gentile: «Scusi, devo chiedere a lei i moduli per la spesa, il

libretto…?»«Sì, domani…» E se ne va pure lui.Sempre più preoccupato per le mie sigarette, me ne vado al tavolino e guardo dentro alla scodella

di metallo. C'è una poltiglia rossa che dovrebbero essere tagliatelle al sugo, un pezzo di carne macinata completamente nera, all'esterno e all'interno, e qualche foglia d'insalata senza sale e senza olio. Apprenderò presto che, chissà per quale motivo, qualsiasi tipo di carne e con qualsiasi tipo di cottura lì dentro è nera e che l'insalata la puoi mangiare condita solo se ti compri l'olio e il sale.

Butto tutto nel cesso. Mangio le due mele e un paio di fette di pane.Ma non mi deprimo. Perché oggi alle due c'è Valentino. Sì, Valentino Rossi, The Doctor. Gran

Premio del Qatar, c'è da rimontare su Capirossi e Hayden e pure Melandri, ché l'inizio del Mondiale quest'anno è stato un disastro, una sfiga dietro l'altra.

Anche per questo mi piace Rossi, uno che non nomina mai la sfortuna, uno che se non arriva primo è colpa solo sua e, comunque, si è divertito lo stesso, uno che se le cose vanno male gli piace rincorrere e il più delle volte gli riesce. Uno che, anche se perde, vince comunque.

Se non avessi sessanta anni e un po', direi che Rossi è il mio idolo, anche se, io, una moto non l'ho mai guidata. Lui è vita al positivo, quello che fa, anche quando cade, non è mai un dramma, lui una storia in testa ce l'ha sempre ed è sempre una bella storia. E, poi, c'è che lui ha quell'accento di Tavullia che è lo stesso del paese a pochi chilometri di distanza, dove sono nato io, Sant'Angelo in Vado, e dove ho passato le estati della mia gioventù, quando anch'io avevo belle storie per la testa.

Rinuncio alla seconda ora d'aria, salgo, con non poche difficoltà, sul letto superiore per vedere meglio, accendo Italia 1 e una sigaretta.

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Luci rosse… verdi, via!Cielo sereno, vento forte in Qatar. Sul circuito di Losail c'è tempesta. Stoner scatta dalla pole,

seguito da Hayden, Capirossi e Valentino. Per il Fenomeno si preannuncia una gara difficile, ma dopo pochi metri arriva la prima sorpresa: Rossi incalza subito Capirossi e lo passa. Ora è terzo. Alle spalle di Stoner e Hayden. Altri pochi giri e, al sesto, Rossi e Hayden ingaggiano un duello da film. Si passano per ben sei volte, ma alla fine – manco a dirlo – Valentino ha la meglio e si lancia all'inseguimento di Stoner, che precipita in classifica. Il pubblico è tutto in piedi. Hayden a quattro giri dalla fine rompe gli indugi e passa Valentino. Al giro successivo, però, Valentino, gas spalancato, testa spiaccicata sul serbatoio, gomiti larghi, ripassa Kentucky Kid e se ne va e passa in solitario sotto la bandiera a scacchi. Rossi c'è e raggiunge quota cinquantaquattro vittorie in carriera, come il suo mito, Mike Doohan.

Fine della gara. Spengo il televisore. Cado di nuovo nella mia cella.No, anche per me una caduta non deve essere un dramma, anch'io una storia in testa devo

continuare ad averla e deve essere ancora una bella storia. Anch'io devo rincorrere e mi deve pure piacere. Neanche io devo dare colpe alla sfortuna.

Anche questa che mi è capitata è vita. La devo girare al positivo.E se ho perso un Gran Premio, il Mondiale è ancora lungo.

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Per cercare di vedere che razza di storie ho nella testa, a metà pomeriggio mi portano dalla psicologa. Rifaccio di nuovo tutto il percorso tra lo sbattere delle sbarre che si aprono e si chiudono e arrivo in una stanza al piano terra, se non sbaglio vicino all'ufficio matricola. Dentro, seduta a un tavolo, c'è una ragazza mora dai capelli corti che mi saluta cercando di mostrare empatia, come ha studiato fino a pochi mesi prima. Mi invita a sedermi davanti a lei e mi chiede se accetto il colloquio. Noto che sul tavolo ha il pacchetto delle sigarette e l'accendino: «Con una sigaretta parlo meglio».

Sorride, me ne offre una e ne accende un'altra per sé. Lì dentro non si potrebbe fumare.Credo che le abbiano insegnato a non chiedere mai il motivo perché uno è finito qui dentro, così

la prende alla larga. La interrompo, le dico chi sono e come sono arrivato davanti a lei. Mi riconosce, gli occhi si illuminano, si ricorda di avermi visto in televisione. Mi chiede del libro, le dico che, salvo imprevisti, dovrebbe uscire tra poco, il 19 aprile. È tutta contenta di conoscere uno scrittore, mi assicura che ne comprerà una copia e che tornerà per farmela firmare.

Mi chiede come sto, se sono depresso. È chiaro, cerca di sapere se mi voglio ammazzare, l'hanno mandata qui per questo. Lei deve guardare dentro di me. Io guardo dentro lei. Io ho più di una dozzina di anni di analisi alle spalle, di certe cose ne capisco un po'. Questa non è né freudiana né junghiana: questa è di scuola sciacquina-perugina e arrivo al sodo: «Stia tranquilla, non ho nessuna intenzione di suicidarmi e manco di farmi un pochino male».

L'ho rassicurata. Mi chiede come sto qui dentro e le dico che sicuramente c'è di meglio. Mi lamento del fatto che non ho niente per lavarmi, per cambiare di abiti, per leggere e scrivere e le chiedo se può fare qualcosa per risolvere questa situazione. Le dico anche di sapere che questa mattina mia moglie, che non mi hanno fatto incontrare, ha portato un pacco per me, ma che non mi hanno dato niente.

«La vedo nervoso», è la sua diagnosi. Ci ha preso in pieno, lo ammetto.La visita è finita, mi riportano in cella.Alle cinque e mezza arriva la cena, due fette di mortadella e un formaggino. Mi ci faccio un

panino. Bevo acqua presa dal rubinetto del bidet.Arrivano rapidi il buio e il freddo, non accendo la luce brutale del soffitto, lascio di nuovo che

entri quella giallognola di un lampione fuori. Ed è in questo momento che la mia moto perde l'equilibrio e cado.

All'improvviso il senso che credevo di vedere in quello che sto vivendo scompare. Resta solo la situazione di merda in cui mi trovo. Non c'è più una storia. Niente significa altro, tutto è solo se stesso. Ed è tutta roba di merda. Non ho un solo motivo per stare su e i fili che mi reggevano si spezzano di colpo. Schianto dentro e schianto a sedere sul letto, mi prendo la testa tra le mani, sento qualcosa di caldo che cerca di salire fino agli occhi. Resisto, digrigno i denti, lascio sfuggire un grosso sospiro dai polmoni che restano vuoti.

Ho paura.Non è facile descrivere la paura. A me viene in mente così: sei alla guida di una moto, che poi è

la tua vita, e vai, più o meno bene, con qualche derapata di troppo, qualche distrazione che potrebbe essere fatale, qualche sorpasso azzardato, ma vai da qualche parte. Poi, di colpo, ti accorgi che i comandi non rispondono più: lo sterzo è come se fosse nelle mani di un altro che non vedi, i freni non funzionano, l'acceleratore non lo pigi più tu. La moto va, tu sei sopra e non puoi scendere, non sai dove va, non puoi fermarla, non puoi farle prendere la direzione che vuoi. Il cuore, allora, comincia a impazzire e niente ha più importanza; che senso hanno più il fondo pensione, l'assicurazione sulle malattie, il coniuge devoto, la figlia che ti dà tante soddisfazioni, il prestigio guadagnato con anni di carriera, il buon investimento dei sudati risparmi, il mutuo per la casa, il

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libro che hai in mente di scrivere?Niente.Credevi di essere tutto quello e qualcos'altro e non lo sei più.Non sai più neanche chi sei.Che cosa sono io al buio, solo, dentro una cella fredda e buia nel carcere di Perugia?Dove vado? Meglio: dove mi portano?E, tanto per rincarare la dose: non è questo il paese di Enzo Tortora?Anche Valentino, mi dico, forse sa che cos'è la paura. Quando la sua moto gialla si imbizzarrisce

e lo sbalza di sella e lui scivola sulla schiena, veloce, sull'asfalto verso la ghiaia della via di fuga. Ecco, in quegli attimi, non può fare più niente per la sua vita. In quegli attimi la moto con il "46" fa le capriole per aria e può ricadergli addosso, un altro concorrente che lo segue sul filo dei trecento orari può essere troppo vicino e non può fare niente per evitarlo, il cordolo contro cui va a sbattere può essere più duro del suo casco, non sa dove e quando finirà la sua scivolata. La sua storia, in quegli attimi, non la può più fare lui.

Questo, credo, è la paura: non avere più una storia.Io sono caduto dentro una cella fredda e buia, scivolo verso l'ignoto, penso di non potere fare

niente per correggere la mia imperscrutabile traiettoria. Ho paura.Ma anche io arrivo sulla ghiaia della via di fuga, rimbalzo contro il cordolo, faccio un po' di

piroette, stringo forte i denti e mi ritrovo in piedi. Quella cosa calda che saliva verso gli occhi si raffredda e torna giù. La moto è li, sdraiata su un fianco, ma è intatta, il motore gira ancora. Come la vita.

Devo rialzarla, riportarla sull'asfalto, saltare sulla sella, dare gas e cominciare la rincorsa.La caduta non può non avere un senso, deve fare parte di una storia. Il problema è riconoscerla,

la storia. Insomma: che senso ha tutto questo?Neanche io devo dare colpa alla sfortuna o a una gomma sbagliata, se no, non arrivo a niente di

vero. Mi tornano le parole del mio amico francescano, padre Galileo, che in un'altra cella, nel convento di San Salvatore a Monte, mi diceva: «Quando per tentare di spiegare una situazione ti si presentano più possibilità, c'è un trucco per capire qual è quella giusta: è quella che ti fa più male, quella più cattiva per te».

Okey, allora: perché sono qui?Non ci metto troppo ad arrivare alla soluzione, anche se mi meraviglia. Però capisco subito che

così la storia ricomincia, la vita riprende senso, la paura svanisce.Sono in prigione perché ci sono voluto venire io.Lo so, lo so, è difficile da spiegare, ma, intanto io lo vedo, se mi guardo allo specchio

spietatamente, che le cose stanno così. Lo so che è stato il mio daimon a decidere tutto e lui ha una volontà molto più forte della mia e sa calcolare qualsiasi mossa con estrema precisione, senza sbagliare. Lui abita dentro di me, ognuno ha il proprio daimon. Oggi, laicamente, lo chiamano inconscio; chi ha una deriva mistica preferisce credere che sia l'angelo custode; io, che sono un pagano politeista, lo chiamo daimon, come Socrate. A me piace pensare che sia una persona senza corpo ma con la sua intelligenza e la sua volontà, un piccolo dio che dentro la nostra testa fa quello che vuole e noi non possiamo farci niente. Il daimon è più divertente dell'inconscio e degli angeli custodi e, se ci provate a vedere, la vita con lui funziona anche meglio.

Io, poi, confermando l'opinione di persona non facilmente definibile, che soprattutto chi mi conosce bene, ha di me, sono anche un monoteista cristiano. Ecco, sì: sono un cattolico, ma temperato da un sano politeismo. E da cristiano, inevitabilmente, mi dico anche che se il Padre Eterno mi ha riservato questa esperienza, mica può averlo fatto perché mi vuole male. Lui vuole bene a tutti. Ignoro che cosa si disse, a questo proposito, il "collega" ebreo chiuso ad Auschwitz, al cui confronto Capanne è un agriturismo umbro, ma non posso avere risposte a tutto.

Però ho la prova che il daimon è proprio bravo.Quando la mattina dell'1 febbraio trovai la mia Twingo d'argento scassinata e priva

dell'autoradio, mi ci vollero pochi secondi, l'ho già raccontato, per capire che Giuttari e i suoi amici me l'avevano farcita di microfoni e aggeggi del genere. Però mi distrassi, me ne fregai e, per quanto

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possa sembrare impossibile, quasi me ne dimenticai e solo un mese più tardi andai dal mio meccanico a far ripulire la macchina dalle cimici. Bene, ne sono sicuro, è stato lui, il mio daimon, a confondermi. Faceva parte del suo piano: lasciare i microfoni per il tempo necessario a Giuttari e Mignini per raccogliere le conversazioni tra me, "Serpico" Zaccaria e Douglas Preston, nelle quali loro avrebbero creduto di trovare gli elementi utili per arrestarmi. E devo complimentarmi con il mio daimon, perché – e lo sottolineo – per concepire un'operazione del genere era necessario che lui avesse ben chiaro il modo tutto particolare di ragionare di Giuttari e Mignini.

Bravo! Ma perché mi ha portato qui?Non c'è nessun'altra spiegazione, oltre a un'altra specialissima e personalissima che non sto a

scrivere: il mio libro, uscita prevista il 19 aprile, tra undici giorni ormai, e il daimon non se l'è scordato.

Mi vuol fare pubblicità? Mi sta facendo girare uno spot che va ogni giorno su tutte le reti?Non proprio, non credo. Se lo conosco bene, a lui, di queste cose, non gliene frega granché. È

che a lui, il libro mio e di Douglas piace. Per le cose vere che ci sono dentro, per le mistificazioni che smonta, per la difesa che fa di persone innocenti gettate ingiustamente nel fango. A lui quel libro piace tanto e vuole che, anche se io sto dentro, quelle pagine se ne vadano in giro il più possibile, che circolino, che vadano lontano, magari fino in America.

Lo so, qualcuno dirà che è facile scriverlo nel libro che state leggendo, perché poco prima della sua pubblicazione è accaduto davvero che la Warner Books ha comprato i diritti di Dolci colline di sangue per gli Stati Uniti e il resto del mondo. Ma non è così: io, questa storia dell'America, l'ho scritta l'11 aprile 2006, quando all'uscita del libro scritto con Douglas mancavano ancora otto giorni, e l'ho scritta ancora chiuso nella mia cella sul quaderno che finalmente mi è stato dato.

Io, come sarebbe andata, non lo potevo sapere l'11 aprile 2006. Il mio daimon, al quale faccio fiducia, evidentemente, sì.

E, subito sotto, ho aggiunto in quel quaderno: «Visto che il mio daimon è stato così bravo a farmi entrare in galera, spero che abbia già calcolato anche come farmi uscire».

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La domenica, forse, i secondini sono più rilassati. O più distratti. E così, oggi domenica 9 aprile, giorno di elezioni con l'Unione data per grande favorita, mi fanno fare l'ora d'aria mattutina in compagnia. Mi ritrovo nello stesso cortile con altri due ospiti di Capanne: Nino, albanese sui trent'anni, elegante tuta nera, scarpe da ginnastica pure nere marca Prada, lunghi e lisci capelli biondi raccolti in una sottile coda, tipo parecchio intelligente e sveglio, in attesa di giudizio per qualche rapina in villa dalle parti di Firenze; l'altro è Kamel, piccolo tunisino, spacciatore di media tacca, nero di pelle e incazzato nero, ché, due giorni prima quando lo hanno arrestato, gli hanno sequestrato trentacinquemila euro in contanti.

Dopo una stretta di mano, chiedo una sigaretta a Nino e l'ottengo; ne chiedo una per più tardi anche a Kamel, ma mi dice che non fuma. «Che cavolo ti serve chiamarti Kamel?» scherzo.

Sorride: «Fuori, cocaina, quanta ne vuoi; sigarette, mi dispiace…»Gli habituées delle patrie galere li riconosci da come camminano nell'ora d'aria: passi lunghi e

veloci dal momento che entrano, nessuna esitazione, almeno per la prima mezz'ora su e giù senza soste o da soli o in coppia parlando fitto. Sanno che è necessario fare moto per la circolazione del sangue, ché in cella si sta troppo fermi. Se vedi uno che, come me, ciondola con il naso per aria, vuol dire che è dentro per la prima volta. Nino e Kamel camminano veloci. Mi fanno cenno di unirmi a loro.

In carcere non chiedi mai a un altro perché è finito lì dentro. Se gli va di dirtelo, bene, sennò te ne devi fregare. Loro due, perché io sono qui lo sanno, lo hanno visto alla televisione e gli viene da ridere. Loro mi dicono che cosa li ha portati in questo cortile, ma nessuno dice di essere colpevole e nessuno si protesta innocente. E così, imparerò, fanno tutti. I detenuti veri parlano solo delle cose che sono contro di loro e di quelle che sono a favore. Di quello che rischia di tenerli dentro e di quello che potrebbe farli uscire. Parlare di innocenza o di colpevolezza nella giustizia fatta realtà non ha senso. Quelli che sanno di diritto parlerebbero, credo, di "verità processuale" che, con la verità senza aggettivi, il più delle volte, non è nemmeno parente. I detenuti veri non hanno avuto bisogno di studiarlo, lo hanno imparato sul campo. E sulla propria pelle.

Anche io imparo un sacco di cose e, nelle altre ore d'aria che farò con molti altri detenuti, completerò l'istruzione. Per esempio, che la massa dei piccoli spacciatori, quasi tutti giovani maghrebini, è un business non male per un paio di avvocati che a Perugia la gestisce. In pratica tutti questi delinquentelli, alcune centinaia, sono difesi da quei due che, così, si trovano ad avere in contemporanea anche settanta o ottanta cause, seguite con quanta cura è facile immaginare. Per esempio, è impossibile per loro essere presenti a tutti i colloqui in carcere o a tutte le udienze davanti al Tribunale del Riesame. Vanno dove il loro assistito gli ha promesso un extra sulla notula. Gli altri disperati si lamentano che da mesi non incontrano l'avvocato, vedono scadere termini per richieste di libertà o di riesame, gli arrivano condanne definitive e non hanno sentito uno straccio di arringa a loro difesa.

Gli spacciatori, in genere, dispongono di parecchio liquido e, così, gli avvocati preferiscono farsi pagare in nero, salvo poi presentare allo Stato una notula per gratuito patrocinio che li risarcisce del trenta per cento della parcella che negano sia stata loro pagata.

Kamel guadagnava bene. «A Perugia – mi dice – si consuma più di un quintale di "roba" al mese. La prendono tutti; avvocati, fruttivendoli, giudici, insegnanti, la mamma, la figlia, tutti». Gli studenti no, loro fumano. Così Kamel ha potuto presentare un'istanza di scarcerazione: quattromila euro, il conto dell'avvocato. La risposta dovrebbe essere arrivata, ma nessuno si preoccupa di fargliela conoscere.

Nino ce l'ha con i secondini di Capanne, «i peggiori che ho incontrato. Quando aprono la cella la mattina, ti dicono "buongiorno" e vogliono che tu glielo ridica. Ma io non lo faccio mai e non

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voglio che loro lo facciano. Che senso ha dire "buongiorno" qui, dove ogni giorno è uguale a un altro?»

Al rientro in cella, quando ancora sono nel corridoio del reparto TR, imparo una norma fondamentale dell'etica carceraria. Incrocio un altro detenuto che ha in mano uno stupendo pacchetto di Marlboro e, veloce, gli chiedo: «Puoi darmi qualche sigaretta? Appena le ho, te le restituisco…» Non finisco la frase che Nino l'albanese mi dà un colpetto sulla spalla e mi guarda severo: «Qui non devi mai dire così, impara. Qui, chiedi senza promettere che restituirai. E dai non perché rivuoi indietro. Se lui te la vuole dare, te la dà e basta e tu lo stesso. Non si dà per riavere».

Incasso la lezione e, fortunatamente, anche un paio di Marlboro. Le mie sigarette ormai sono finite.

A metà pomeriggio, per un attimo, credo di avere un'allucinazione: davanti alla mia cella, al di là delle sbarre, arriva scivolando una spazzola sul cui dorso con un elastico è assicurata una sigaretta. Non è Babbo Natale che fa gli straordinari a Pasqua, è il detenuto della cella accanto alla mia, la uno, che mi invita: «Dai, spingi con lo spazzolone. È per il cinque!»

Scopro così il servizio postale tra detenuti. Chi vuol dare qualcosa a un altro, in questo caso una sigaretta, ma potrebbe essere un po' di caffè, di zucchero, di sale, fissa il "pacco" a un qualsiasi oggetto piccolo e abbastanza pesante e lo fa scivolare sul pavimento lucido in direzione della cella del destinatario. Ogni detenuto con il proprio spazzolone infilato tra le sbarre, dà un colpetto al "pacco", come giocasse a hockey, per spingerlo nella direzione giusta fino a che arriva a destinazione. Non è un'operazione facile, perché le sbarre sono molto ravvicinate e non si può menare un bel colpo. Normalmente il "pacco" viaggia al ritmo di un metro, un metro e mezzo per ogni detenuto. Ma succede che un colpo mal assestato lo allontani troppo dal fronte delle celle. E, manco a farlo a posta, l'incidente capita a me, quando sono stato io a chiedere una sigaretta a sei. Per pochi centimetri il mio spazzolone non riesce ad arpionare la sigaretta che mi è stata spedita assicurata a un accendino. Nel tentativo di guadagnare qualcosa in lunghezza, mi sdraio ventre a terra, prendo il manico dello spazzolone nel punto più alto possibile, allungo il braccio e la spalla fin quasi a slogarla, ma non ce la faccio, questione di un paio di centimetri. I miei tentativi grotteschi vanno avanti per una decina di minuti sotto gli occhi infastiditi dell'agente di custodia che, solo un paio di metri più in là, è seduto a una scrivania a leggere i giornalini.

Non gli chiedo niente, ma, evidentemente, quel mio strisciare e agitare lo spazzolone sul pavimento devono infastidire il suo campo visivo. Così, non per farmi un piacere, ma per eliminare un disturbo, si alza sbuffando, si avvicina al "pacco" e gli dà un calcio con l'anfibio mandandolo verso le mie sbarre. Non lo ringrazio.

Un signore borghese di sessanta anni come me, dovrebbe, forse, vergognarsi di essersi ridotto a fare quell'esercizio per una miserabile sigaretta. Io me la fumo seduto sul letto e trovo che raramente ne ho gustata una così buona.

Questa notte è infame. So che la rivivrò spesso, anche a distanza di anni. È la notte di Mohammed, un algerino di poco più di venti anni che, quando era già buio da un pezzo, l'hanno messo nella cella accanto alla mia, la tre, dove c'è già un altro detenuto, Claudio, un perugino che, dicono, trafficava in puttane rumene. Mohammed è in piena crisi di astinenza e questa notte imparo che cosa significa. Fino all'alba, con brevi intervalli di dieci, dodici minuti, il sonno è squarciato da orrendi rigurgiti cavernosi che sanno di dolore insopportabile, dove a far più male non è il corpo, dal rumore del vomito buttato fuori dai denti con pezzi d'anima, da gemiti strozzati come una vita soffocata, dagli urli degli altri che maledicono il carcere e i secondini che non fanno niente per tentare di mettere fine a quella miseria, dalle bestemmie della guardia, ché quello gli rovina la notte e che «così impara a farsi».

Saranno, penso, le tre o le quattro, quando arriva un infermiere, un tipo basso, quasi un nano, con un parrucchino rossiccio che maledicendo l'algerino gli dà una dose di Malox. Sì, di Malox, la stessa roba che prendo io quando ho mangiato un po' troppo e ho difficoltà a digerire. Non sapevo che era utile nelle crisi di astinenza. E, infatti, non serve a niente.

Mohammed chiede una puntura, di metadone penso, e gli altri dalle loro celle gridano di fargli una puntura. Guardie e infermiere dicono che non possono, che bisogna aspettare la mattina. Che

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finalmente arriva, per Mohammed e per tutti noi.Il lunedì mattina mi portano a votare nel seggio costituito dentro il carcere, ché, anche se

detenuto, ne ho il diritto e Myriam e i miei avvocati hanno fatto di tutto per farmi arrivare il certificato elettorale.

Faccio sempre più schifo, con la barba sempre più lunga, i capelli sporchi e spettinati, i denti mai lavati, i vestiti, con i quali continuo a dormire, sempre gli stessi del giorno del mio arresto, un'espressione in viso che tende al tetro. Durante il tragitto tra la mia cella e il seggio elettorale, sto per incrociare un gruppo di detenuti che rientrano dall'"aria" e, siccome non posso scambiare parola con nessuno, le guardie che mi scortano mi fanno entrare in una stanza fino a che il corteo è passato. Dentro c'è un tavolo, una sedia girevole con braccioli e schienale piuttosto invitante e uno sgabello di legno come quelli che ci sono nelle celle. L'agente che mi tiene compagnia me lo indica: «Se ti vuoi sedere, ti siedi su questo».

«Carino», mi dico. La gratuita vessazione non mi va. Preferisco stare in piedi e gli pianto addosso gli occhi senza espressione. Lui mi gira le spalle.

È roba da poco, la mia, però comincio a capire com'è che in galera si può diventare cattivi. Fisso le sue spalle e mi chiedo: «Esiste un bambino che sogna di fare il secondino da grande?»

Al seggio, dove presidente è una donna, mi accolgono con un gran sorriso, ché visitare i carcerati è un'opera di bene e io sono il giornalista che fanno vedere in televisione. Mi mettono davanti le schede e la matita. Io chiedo qualche sigaretta. La guardia mi strattona e mi spinge verso la cabina e non dà il tempo a presidente e scrutatori di completare l'opera di bene.

Per oggi è tutto, per quanto riguarda la vita sociale.La sera mi diverte amaramente, e la politica non c'entra niente, scoprire che le previsioni di

grande e facile vittoria dell'Unione erano tutte sbagliate e che se la giocano all'ultima scheda. Flop degli istituti di iperscientifici e precisissimi pronostici: un altro passo nel degrado nazionale. Ma non me ne frega molto di sapere come andrà a finire e preferisco la puntata di Lost, l'unico programma che io e Myriam ci divertivamo a guardare.

Mi piace immaginare che anche lei in questo momento lo stia a vedere.

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Mi arrivano telegrammi, lettere e biglietti, anche da sconosciuti. Mi arrivano pensieri da persone che non vedo da decenni o che ho incontrato una sola volta. Mi fanno capire che fuori qualcosa si muove, che, a dispetto di certi colleghi anche vicinissimi, si sta organizzando un fronte di solidarietà e di protesta. Ho i quotidiani telegrammi di Myriam, certo, ma resto colpito dai più inaspettati.

«Sicuro tua innocenza esprimoti sentimenti amicizia et solidarietà. Ex sindaco Sciango». È Giuseppe Pasquini, ottanta anni e un po', che al paese tutti chiamano con quel soprannome e nessuno sa che cosa significa. È stato sindaco di Sant'Angelo in Vado tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, una specie di istituzione. Non lo vedo da quando ero un ragazzo.

«Caro Mario, su di te sento solo parole belle, anche da chi non ti conosce. Pensieri affettuosi. Francesca Joppolo». Una giovane collega che non incrocio da anni.

«Siamo indignate e addolorate e vi vogliamo esprimere la nostra solidarietà. Fateci sapere se è in corso qualche iniziativa di protesta o sostegno alla quale aderiremo senz'altro. Augurandovi che questo incubo finisca al più presto. Adelita e Cristina Lattanzi del Circolo Acli in Chiostro di Lucca». Le due meravigliose cuoche del circolo dove una volta soltanto sono andato per una conferenza.

Alberto Eva, giallista, vincitore di un premio Tedeschi, e tappezziere ha scritto a mia moglie: «Sono il tappezziere pazzo che si ostina a scrivere racconti gialli. Trovo ridicole, prima ancora che infamanti, le accuse rivolte a Mario. Se non fosse che viene da piangere, muovono al riso più sgangherato».

E, poi, i giornalisti della «Nazione». Ma non tutti. Mi scrivono quelli che si stanno battendo dentro al giornale perché le cronache della mia vicenda non riflettano solo le "verità" della procura di Perugia e perché la direzione si decida a prendere una posizione chiara, magari con un fondo in prima pagina: «Siamo in tanti a fare il tifo per te: forza e coraggio ti aspetto in redazione un abbraccio forte». E, ancora: «Ti siamo tutti vicini, non sei solo. Non lasciarti abbattere. Tieni duro e prepara altre vignette. Gli amici di QN».

Altri continuano a scrivere su di me roba che potrebbe essere buona per Mignini il giorno che dovesse chiedere la mia testa. Il direttore della «Nazione» Francesco Carrassi non ritiene ancora giunto il tempo per scrivere un fondo a difesa, se non proprio mia, della libertà di stampa. La stessa cosa pensa evidentemente di fare il direttore di «QN» Giancarlo Mazzuca, che sulla vicenda non scriverà mai una riga. Decisioni, le loro, travagliate e forse influenzate dalle opinioni di un vicedirettore, Mauro Avellini, che fino a poco tempo prima era a capo della redazione umbra della «Nazione» ed è testimone a favore di Mignini nell'indagine sulla morte del medico Narducci e che, quindi, dà credito, in buona fede, alle tesi dell'accusa.

Oggi, martedì 11, ricevo finalmente il pacco che già sabato Myriam mi aveva portato. Posso cambiare gli abiti, ma devo continuare a lavarmi come prima, ché i controlli non hanno fatto passare spazzolino, dentifricio, attrezzatura per radermi, pettine, pulisciunghie. C'è anche un libro, perché non ha la copertina rigida, proibita in carcere: sono I Racconti di Truman Capote, mio scrittore di irraggiungibile riferimento, che avevo cominciato a leggere a casa.

Nel loculo che è il mio bagno, mi spoglio completamente e mi insapono da capo a piedi la pelle che per il freddo è d'oca.

Finalmente posso mettermi indumenti puliti, anche se le calze sono di due colori diversi, una rossa, l'altra blu. Credo che Myriam, nella concitazione si sia sbagliata, ma poi apprenderò che sono state le guardie a fare la selezione, giudicando eccessivo il numero di calze che mi erano state portate. Le hanno divise, ma trattenendo la metà di ogni paio.

Voglio rendermi presentabile: domani devo incontrare il gip Marina De Robertis che mi

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interrogherà e deciderà se scarcerarmi o, magari, concedermi i "domiciliari". Sono sicuro che questa storia grottesca è al penultimo capitolo e che domenica prossima, Pasqua, sarò a casa.

Non ho giornali e, quindi, non posso leggere quello che il piemme Mignini sta preparando per mantenermi in cella. Per lui, leggerei sul «Corriere della Sera» di oggi, «il cronista accusato di avere depistato le indagini sul Mostro di Firenze è al centro di un'autentica operazione di disinformazione, non dissimile da quella che potrebbe svolgere un servizio segreto deviato».

Queste sono le parole di un magistrato per definire gli articoli di un giornalista, in cui si sostiene una tesi investigativa diversa da quella ufficiale.

I miei avvocati Sandro Traversi e Nino Filastò hanno preparato la richiesta di riesame dell'ordinanza di custodia cautelare nella quale, tra l'altro, è scritto che il reato che mi è stato contestato

innanzitutto non è mai stato consumato e si verterebbe, semmai, nell'ipotesi del tentativo. Anzi, in realtà – hanno aggiunto – si sarebbe ben al di sotto del compimento degli atti idonei e univoci che possono integrare la figura del delitto tentato, rimanendo in ogni caso nel mero campo di una (supposta) intenzione, dato che non sono stati rinvenuti da nessuna parte gli oggetti che, secondo l'impostazione accusatoria, avrebbero dovuto essere occultati nella villa («li avrebbero messi in quel luogo»), nella quale peraltro nessuno degli indagati risulta neppure entrato.

Ma per Mignini io avrei tentato il depistaggio «per occultare l'omicidio in danno di Francesco Narducci e il movente dello stesso». Solo che, oltre ad appartenere al mondo della più torbida fantasia l'ipotesi che io sia un assassino, nessuno mi ha mai accusato e tanto meno condannato per la morte del medico perugino che non si sa neppure se fu ucciso.

Orbene – sottolinea invece il piemme nella richiesta di arresto – che le dichiarazioni di Rizzuto debbano continuare ad essere fatte oggetto di approfonditi riscontri (già positivamente iniziati) è un fatto evidente, ma che le stesse non (il non, che non dovrebbe esserci se si segue la logica, è frutto di un errore sintattico dello stesso Mignini, n.d.r.) debbano costituire un pesante indizio a carico dello stesso Spezi, lo dimostra non solo il loro contenuto ma proprio l'abnorme e criminale reazione posta in essere da Spezi per sottrarvisi.

Per salvare, dunque, se stesso dall'inchiesta perugina ma anche per far "crollare" l'indagine fiorentina contro Calamandrei.

Dimostrando, quindi, di dare fiducia al racconto demente del calunniatore Rizzuto, Mignini ne fa sue le tesi, per offrire un movente al mio «comportamento criminale». La visione criminologica che ne risulta offrirebbe molti spunti di riflessione:

L'operazione di Spezi – afferma con sicurezza il piemme di Perugia – avrebbe potuto raggiungere insperati risultati, amplificati dall'aperta ostilità di larghi settori dell'establishment fiorentino verso l'ipotesi, ormai consolidata, di un gruppo di notabili che gestivano i "compagni di merende", nell'ambito dei quali dovrebbe ascriversi anche il Narducci, rivelatosi pericoloso per il gruppo. Per questo mondo fiorentino, tutto sarebbe dovuto finire ai vari Lotti, Vanni e Pacciani, ma meglio ancora sarebbe stato se si fosse riusciti a concentrare le indagini sugli immigrati sardi perché in tal caso non vi sarebbe stato il minimo pericolo che l'inchiesta lambisse il mondo dei notabili e dei mandanti.

Non pochi, con un eufemismo e sorrisi, giudicheranno più tardi «particolarmente interessante» il passo dell'ordinanza dove mi si accusa di essere il gestore delle pubbliche relazioni dell'establishment fiorentino, fatto coincidere con un Mostro di Firenze nobile e tentacolare. Senza uno straccio di prova, naturalmente, a sostegno di una tesi così audace.

Per Mignini, poi, che io sia colpevole «non è posto in discussione dal fatto che le famose scatolette non siano state rinvenute nella perquisizione».

Insomma, il movente e la prova come optional.Non ho il minimo dubbio che un giudice per le indagini preliminari, messo lì come garanzia per

il cittadino finito in cella, rigetterà al mittente quelle accuse assurde e mi rispedirà a casa.

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E, allora, mi faccio anche la barba. In un angolino del bagno, dietro a una specie di catasta di rotoli di carta igienica, trovo un sacchetto di nylon trasparente ancora chiuso con dentro una mezza dozzina di rasoi blu usa e getta. Non ho crema da barba, né il pennello, ma con una spugna che mi è stata data in dotazione provo a fare più schiuma possibile strofinandola sulla saponetta bagnata. Quando la spugna è intrisa di sapone, me la passo sulla faccia bagnata sulla quale resta un velo di bianco.

La barba, ormai, è vecchia di cinque giorni e il rasoio è proprio leggero. Quando l'operazione è finita, la mia faccia sembra passata su una grattugia. E non ho neanche una goccia di dopobarba.

Per pulirmi le unghie, che sembrano quelle di un tipografo addetto all'inchiostrazione, mi servo del cappuccio della Bic che mi aveva dato l'avvocato Traversi. Spezzo la barretta che servirebbe a tenere la penna ancorata al taschino di una giacca e, visto che finisce a punta come una piccola freccia, riesco a rendere abbastanza accettabili le mie mani.

Per pettinarmi uso la solita forchetta di plastica bianca.La mattina di mercoledì 12 ripeto questa toeletta e, scortato da un paio di agenti, vengo portato,

sempre dentro al carcere, in una sala dove si svolgerà l'udienza.Vedo i miei due avvocati e non sono per niente ottimisti come me. Anzi.«Questa – mi spiegano riferendosi al gip Marina De Robertis – è una che ha concesso l'ok al tuo

arresto anche sulla base del documento Rizzuto. E, poi, che fa? Si rimangia tutto?»Ma, allora, che stiamo a fare qui? Una commedia? E perché il sistema non ha previsto che a

decidere oggi sia un giudice che non è immischiato con l'inchiesta?Insomma: perché a fare l'arbitro chiamano un giocatore, per di più della squadra di Mignini?La signora De Robertis è seduta al centro di un tavolo, vestita con la toga. È giovane, non

giovanissima, bruna, capelli sulle spalle, del tutto priva di carisma. Mi ricorda piuttosto una casalinga e, comunque, una che sembra stare a disagio sulla importante poltrona a schienale alto che le hanno dato. Man mano che l'udienza andrà avanti sul suo viso quel disagio si disegnerà sempre più forte fino a darle un'espressione quasi di sofferenza o di grande fastidio.

Alla sua sinistra la cancelliera, che per tutto il tempo dell'udienza mi sorriderà e annuirà a tutto quello che dirò. Alla mia sinistra, diviso dai miei avvocati, è il piemme Mignini, in faccia l'aria decisa di chi vuol dare battaglia, ma anche, a guardarlo meglio, la sicurezza di chi sa di avere già la vittoria in tasca.

Accanto a lui è un giovane uditore, un tipo, più che magro, secco, occhi e capelli neri, occhi strabuzzati, lineamenti tirati, che sembra arrivato direttamente dall'ufficio moscovita di Lavrenti Beria all'NKVD o dal convento spagnolo di Tomás de Torquemada, il capo del Consejo Supremo de la Santa Inquisición. Non sarà affatto così, ma io mi immagino che stia rimpiangendo i tempi delle care, vecchie cataste di legna su cui bruciare eretici e streghe.

Il mio umore volge al nero, il dolore alla schiena si è accentuato, le bizzarre tesi che Mignini espone e il modo mi rendono nervoso. Quando tocca a me parlare, mi rendo conto che la mia voce è troppo tesa, una nota troppo alta. Esordisco denunciando le condizioni in cui sono tenuto, mostro addirittura le calze bicolori, dico che ho solo cercato materiale per un mio servizio giornalistico, altro che «disinformazione da servizi segreti deviati», che non avrei mai pensato che Luigi Ruocco mi avesse ingannato per sì e no duecento euro. Grido, ormai, che è impossibile sospettare qualcuno che è andato alla polizia a raccontare tutto e per di più prima di nascondere le prove false. Semmai, chiarisco, un colpevole avrebbe fatto il contrario.

Il gip De Robertis mi guarda come un oggetto curioso e mi porge, gentilmente, una domanda che mi lascia di sale e mi fa credere di avere perso la ragione. L'unica domanda che mi farà in questa udienza.

«Lei – mi chiede – ha mai fatto parte di una setta satanica?»Prima non sono sicuro di avere capito bene. Poi cerco di mettere ordine nelle sinapsi: ma non

sono accusato di tentata interruzione di pubblico servizio?Io, in una setta satanica? E se uno appartiene a un club del genere, che fa? Risponde: «Sì, mi

dispiace non avere qui la mia tessera d'iscrizione»? Oppure: «Li ho frequentati un po', ma solo per ragioni sociali. Sa, le conoscenze possono servire…»?

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Nino Filastò, che è alla mia destra e che mi conosce bene, mi ficca un gomito nelle costole che quasi grido: «Non ridere!» Si raccomanda al mio orecchio.

Obbedisco, ma non so come rispondere. Un semplice "no" mi sembra inadeguato all'importanza della domanda. Ritiro fuori la vecchia risposta che nel contesto, stavolta, suona un po' retorica, lo ammetto: «Sono solo iscritto all'Ordine dei Giornalisti».

Fine dell'udienza.Prima di lasciarmi, Sandro Traversi e Nino Filastò mi preparano: «Non ti aspettare niente di

buono. Non sperare in niente. È chiaro, con quella domanda…»«Ma – replico incerto – e poi che succede? Se non esco ora, quando…?»«Faremo ricorso al Tribunale del Riesame. Mario, noi cominciamo a prepararlo da oggi, per non

perdere tempo».«Riesame…? E, a quando si va?»«Fine mese… inizio maggio…»Deglutisco. Cercherò di mandare giù il rospo più tardi, solo nella mia cella. Adesso li saluto

composto e li ringrazio per quello che finora hanno fatto.In cella cerco consolazione nel letto. Voglio credere che i miei avvocati, a dispetto della loro

grande esperienza, questa volta si sbagliano. Ma c'è di nuovo il mio daimon a dirmi che non è così. Io, normalmente, sono uno che sogna a occhi aperti quello che vuole. Mi scelgo una cassetta virtuale, me la infilo nel cervello e mi godo il film. Oggi voglio vedere la mia liberazione, la mia uscita dal carcere tra un paio di giorni, l'abbraccio di Myriam, i colleghi che mi accolgono festosi, ma non ci riesco. Appena pigio il tasto start interviene il daimon e tutto si blocca. La mia fantasia non gira, non proietta niente e sullo schermo della mente c'è solo l'effetto neve.

Deve essere, mi dico, un meccanismo di difesa per situazioni come questa. Rappresentarsi qualcosa di gradevole che invece non avverrà è pericoloso. Creerebbe un'attesa che, delusa, risulterebbe insopportabile. Allora il cervello vede solo il presente, per quanto vuoto di avvenimenti. Credo che questo sia un antidoto a un'aspettativa malriposta.

Rifletto sulla carcerazione preventiva: è come se un tipo avesse il sospetto di avere una cancrena e i medici, per prima cosa, gli amputassero la gamba che non sta bene. Quindi facessero gli esami sull'arto e scoprissero che è sano. E lo comunicassero all'interessato che, forse, direbbe; «E la mia gamba?» «Pazienza…»

È una vera imbecillità, specie di questi tempi, che esistono marchingegni di tutti i tipi per tenere sotto controllo chiunque ventiquattro ore su ventiquattro. La carcerazione preventiva andrebbe applicata molto, ma molto discretamente e solo quando esistono davvero pericoli seri per la comunità. Negli altri casi è una tortura o, a essere buoni, una pena inflitta senza una condanna.

Ho carta e penna e addirittura un modulo per fare la spesa. Prima scriverò finalmente una lettera a Myriam, poi, con cura sceglierò quello che voglio comprare.

Non è facile scrivere una lettera in una situazione così di merda. Non puoi far credere alla persona cara che la prendi troppo alla leggera, perché non saresti credibile; non puoi drammatizzare troppo, ché scaricheresti sull'altro ancora pesi sopra a quelli che già l'opprimono; non puoi lasciar trapelare che la schiena ti fa male che sembra sul punto di spezzarsi, che per il mal di testa ti danno la Tachipirina, quella che si dà ai bambini, ma con ventiquattro ore di ritardo, che vai avanti a pane, acqua e qualche mela, che la situazione igienica è paragonabile a quella di una favela di Rio. Bisogna stare in equilibrio e rimandare certi racconti a più tardi, quando sarò fuori.

Comincio: «Amorone mio, tu no, ma io ti ho visto. In televisione, all'ingresso del carcere, con Sandro e Nino, il sacco di Ikea ai piedi, mentre chiudevi l'ombrello. Eri molto elegante. Poiché sapevo che quella scena l'avrebbero mandata in onda a ogni telegiornale, me li sono visti tutti».

Poi faccio un racconto serio del mio soggiorno, cose da dire agli avvocati, la bugia che «la discopatia è completamente sparita», la raccomandazione di tranquillizzare Eleonora. Quindi mi permetto un po' di leggerezza: «Il servizio pranzo è in camera, mi hanno assegnato la suite n. 2, singola, letto doppio, ma in verticale, il personale è di colore, ma vaisselle e pulizie devo farle da solo».

Non so quando la lettera partirà. Mi manca il francobollo e, tra la data in cui passa lo "spesino",

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quella in cui me lo porterà e i "tempi tecnici" per uscire da Capanne e arrivare a Firenze, spero che non diventi un esemplare da collezione.

Ora posso dedicarmi alla spesa, perché ho finalmente il prestampato su cui scrivere le ordinazioni. Mi sono accorto che su un lato dell'armadio è incollato un foglio scritto a caratteri piccolissimi. È l'elenco, insospettatamente ricco, di tutto quello che si può comprare in galera e, a ogni "articolo" corrisponde un numero di codice e il prezzo. Si va dalla Bic al coniglio crudo e intero, dalla marmitta alle mutande, dal pepe alle merendine, dalle salsicce allo shampoo antiforfora.

Tre stecche di sigarette, tanto da mettermi al riparo da altre situazioni di emergenza, è il primo ordine che scrivo. Subito dopo un mezzo chilo di caffè, ché da quando sono entrato non ne prendo, escludendo che possa aspirare a quel nome il liquido marrone trasparente e dolciastro con il quale ogni mattina lo spesino riempie la tazza di plastica che, come i miei compagni, gli tendo attraverso le sbarre.

Caffè, vuol dire macchinetta per il caffè. C'è anche quella nella lista. La macchinetta presuppone il fuoco e, allora, compro un fornellino da campeggio completo di bomboletta del gas. Sono contento che ci sia, però mi stupisco che dicano di applicare strettissime misure di sicurezza e, poi, ti lascino la possibilità di dar fuoco alla cella.

Aggiungo cioccolata, nera e fondente. Parecchia. E consolatrice Nutella, lo confesso. Però, questa, non me la daranno mai. Ordino tre quotidiani il dì e completo la spesa con tutti gli articoli per l'igiene di cui ho bisogno, dal pettine allo spazzolino da denti.

La sera, poco prima delle otto, come mi hanno detto, metto il foglietto in equilibrio nell'apertura delle sbarre che serve da passavivande, dove lo "spesino" verrà a ritirarlo. Se nel frattempo, a mia insaputa, un venticello non l'avrà fatto cadere.

Oggi i giornali, che non posso leggere, parlano ampiamente di me. Il commissario Giuttari, intervistato sul mio arresto, dichiara: «I fronti sono due, quello delle inchieste satellite legate alle attività che miravano a ostacolare pesantemente l'inchiesta principale sulle uccisioni e, appunto, i delitti del Mostro. La domanda è sempre quella: perché farlo? Perché depistare?»

Fedele come una fotocopia, il cronista Italo Carmignani del «Messaggero», ripropone la domanda: «Perché depistare, se si è innocenti?» sotto il titolo che più colpevolista non si può: «Un biglietto confidenziale incastra il giornalista».

Si differenzia completamente da queste posizioni acquiescenti «il Giornale» che, parlando dello stato di semiisolamento in cui mi trovo, titola: «Spezi trattato come un brigatista».

Ancora «il Giornale» e «l'Unità» intervistano Myriam che colpisce dura e fredda. «Mario ha fatto il suo lavoro, è una colpa? Neanche nella più spudorata dittatura un giornalista è arrestato solo in quanto giornalista».

«La Nazione» appare schizofrenica, colpevolista e quasi esultante a Perugia, innocentista e solidale, senza troppa enfasi comunque, nelle altre pagine. Qui viene pubblicato il documento che i redattori hanno adottato al termine di un'assemblea dedicata al mio caso: «L'arresto del collega Mario Spezi – si legge tra l'altro – ci ha lasciati sconcertati. Conosciamo Spezi da trenta anni e la sua brillante carriera professionale è sempre stata improntata alla correttezza, alla ricerca anche autonoma della verità e all'inchiesta che talvolta ha pure messo in discussione l'operato degli inquirenti».

Il direttore Francesco Carrassi scrive in una pagina locale un editoriale in cui chiede ai giudici di mandarmi a casa, «almeno agli arresti domiciliari».

Molto più grave e scandalosa appare la situazione all'estero e ben più pesante è la presa di posizione di Reporters sans frontières, che denuncia: «Sono centoventuno i giornalisti in prigione in questo momento nel mondo. La loro condizione è uno dei parametri presi in esame per valutare lo stato dei diritti umani nei vari Paesi e quindi il loro livello di democrazia. La maggior parte di questi casi riguarda nazioni rette da dittature o regimi autoritari. Uno riguarda l'Italia: quello del collega Mario Spezi».

E Douglas Preston non esita a dichiarare al londinese «Guardian», che lo pubblicherà: «L'arresto di Spezi è il più grave episodio di abuso contro la stampa in Europa occidentale dalla fine della

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guerra».Dall'estero o da dentro i confini nazionali, i punti di vista sulla libertà di stampa sono molto

diversi.

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Mi avevano fissato l'udienza con il gip Marina De Robertis l'ultimo giorno possibile, forse nel timore infondato che se fossi stato scarcerato, avrei fatto un soggiorno troppo breve nelle patrie galere. E adesso il giudice si prende il tempo massimo che gli è concesso per far conoscere la sua decisione, non per lo stesso motivo, ché lei lo sa che mi lascerà in galera, ma, suppongo, perché io possa approfittare della solitudine in cui mi ha messo. E così il giorno fissato per conoscere il mio più immediato destino è il sabato di Pasqua, 15 aprile.

Devo occupare con il niente quattro giorni e quattro notti. Devo riascoltare le note che una a una escono da me. Per fortuna sono uno strumento non così male.

Mi invento una meridiana, per sapere almeno che ora è. Un'occupazione che mi prende parecchio tempo, ma tanto ne ho da buttar via. Ho osservato, dunque, dalla mia finestra sul cortile che la breve rampa di accesso sostitutiva degli scalini, ritengo per i disabili, ha una ringhiera che proietta la sua ombra sul pavimento a rettangoli di pietra. L'estremità dell'ombra è come una punta che si sposta sulle lastre seguendo il sole. Insomma, funziona come la lancetta di un orologio. Le ore sono le lastre di porfido.

Il problema non è semplicissimo: infatti la mattina, quando le ombre sono più lunghe, la mia lancetta si sposta lentamente, mentre, man mano che il sole si alza, lei si accorcia e accelera. Passato mezzogiorno, ricomincia a correre allungandosi sempre un po' di più.

Devo, poi, fissare dove mettere le ore 12 e lo faccio con l'ausilio della televisione: quando nello schermo scocca il mezzodì, vado a controllare dove è la punta dell'ombra e scopro così dov'è mezzogiorno nel mio orologio. Vedo con piacere che, casualmente, ogni pietra, perlomeno nelle ore centrali del giorno, corrisponde a un'ora. Potrò, dividendo mentalmente le pietre, calcolare anche le mezze ore e i quarti d'ora.

Alla fine sono molto soddisfatto del mio orologio. Per "costruirlo" non ho dovuto muovere un muscolo: me ne sono stato seduto immobile, forse per più di un'ora, sul mio sgabello rivolto verso la finestra a osservare un'ombra e delle pietre. E questa capacità di immobilità mi dà ancora più soddisfazione.

Non ho ancora visto nessuno, a parte il fuggevole incontro del sabato precedente con l'avvocato Traversi e l'"aria" con Nino e Kamel. Myriam mi manda un telegramma annunciandomi che finalmente potremo vederci sabato.

Disegno la mia cella, stando seduto sul letto, la schiena contro il muro. Poi mi viene in mente una cosa più divertente: faccio a memoria la caricatura del commissario Giuttari e mi riesce benissimo. Chissà, mi dico, quando esco forse la posso vendere a qualche giornale, sempre che interessi a qualcuno. Oppure, fantastico, potrei disegnarci attorno i cerchi di un tirassegno con tanto di punteggio: 10 sulla punta del naso, 8 sulle guance, 6 sulle orecchie, 1 sui capelli. Mi diverto a farlo, anche se so che a Capanne nessuno mi darà le freccette.

Poi, comunque, mi ricordo che posso invitare nella mia cella un sacco di gente. Sono i personaggi del romanzo che ho cominciato a concepire a casa, il romanzo che non ho fretta di scrivere e ancora meno di finire, la storia cui tengo di più, quella di Deusdedit, un ragazzino dai capelli rossi che nasce, non si sa da chi, dentro un convento di clausura, in un piccolo paese del Centro Italia, la sera della vigilia di Natale del 1945, lo stesso anno in cui sono nato io.

Prendo il quaderno celeste su cui scrivo una sorta di diario, e comincio il racconto dall'altra parte.

A San Michele, d'estate, i cappelli continuavano a essere di feltro. Però gli uomini li spostavano indietro. Allora si vedevano le fronti, che erano bianche come d'inverno. L'abbronzatura cominciava qualche centimetro sopra gli occhi e il confine era netto, preciso, senza sfumature. Sulle facce quegli uomini

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avevano rughe secche, e le avevano anche sul dietro del collo, sotto la nuca, e si incrociavano come i rami senza foglie d'inverno.

In fondo, mi dico, io non sono mai solo. Anche nel mio piccolo studio a Firenze, dove passo molte ore del giorno e spesso della notte, non c'è altra presenza fisica che la mia, proprio come qui in cella. Ma, se voglio, posso stare in compagnia dei miei personaggi, devo cercare di conoscerli a fondo, devo scoprire le loro storie, anche e soprattutto quelle più personali che magari non racconterò mai in un libro, devo capire i loro caratteri, i loro modi di pensare, di parlare, di esprimersi con i gesti. Come posso annoiarmi?

La sera, nel buio giallo del lampione di fuori, mi viene in mente una donna che, magari nello stesso momento, sta davanti ai fornelli e sta valutando se lasciarmi in galera o no. Penso a tutti quelli come lei, i giudici, che hanno già mandato in galera tante persone e tante ne manderanno. Gente che la sera guarda la televisione in famiglia, la mattina prende il cappuccino al bar e commenta i risultati delle partite con gli altri avventori, compra il giornale, va in ufficio e, come lavoro, con il rispetto dell'interruzione per il pranzo, affibbia un "tot" di anni di prigione a un'altra persona.

Di colpo vedo con chiarezza quasi abbagliante una realtà che mi appare assurda in tutta la sua evidenza. Non è neanche il risultato di un ragionamento, il mio: è un'immagine messa a fuoco benissimo, indiscutibile come un oggetto che tutti possono vedere e toccare. L'assurdità è che un uomo possa giudicare un altro uomo. Meglio: l'assurdità è che un uomo possa essere convinto di amministrare giustizia. Meglio ancora: l'assurdità è che un uomo possa mandare un altro uomo in carcere nel nome della giustizia.

Mi appare altrettanto chiaro che, su questa terra può esistere una sola, vera forma di giustizia: quella "fai da te", quella della vendetta, quella di chi ha subito un torto e lo fa pagare a chi glielo ha fatto. Quella di cui parla la Bibbia nel Vecchio Testamento: «Occhio per occhio, dente per dente».

Lo so, lo so, si arriverebbe alla barbarie. Lo so che tribunali, giudici, carceri sono necessari. Ma è proprio tra la loro necessità e la loro assurdità che andrebbe trovato il sentiero stretto dove far camminare, con parecchia cautela, chi cerca di tener calmi gli animi e, magari, evitare certi rischi per la società. In fondo, è una questione di parole, che è roba importante. Di parole e di simboli: via la parola "giustizia", che qui nessuno sa declinare; via «in nome del popolo italiano» e simili, ché nessuno può parlare in nome mio, specie di quelle cose lì; via «la giustizia è uguale per tutti», perché sarebbe giusto il contrario, «la giustizia non deve essere uguale per tutti», visto che non un solo delitto è uguale a un altro; via crocefissi e toghe, ed ermellini e cordoni dorati e tocchi e orpelli del genere, ché nelle aule di tribunale non si celebra alcun rito e non abita alcun sacerdote. Via anche la parola "giudice", perché nessun uomo può giudicare un altro uomo.

Quelli che ora si vestono di questa qualifica dovrebbero considerarsi, più umilmente, una sorta di vigili urbani che, invece del traffico d'auto, tentano di regolare quello dei difetti umani. I vigili appioppano multe perché la circolazione migliori, mica perché ti considerano un automobilista immorale.

Mi viene in mente una vecchia chiacchierata con Douglas, che anni prima aveva passato quattro mesi con un pueblo di indiani Navajo, tra New Mexico e Arizona. Migliaia di miglia a cavallo con loro, la miseria divisa in poveri tuguri, la lingua, le tradizioni, la storia da imparare e anche un rito di iniziazione per poi scrivere un libro, Parlando con la terra, mai tradotto in Italia.

Gli chiesi che cosa prevedevano i Navajo per uno di loro che avesse commesso un grave reato, uccidere per esempio. Mi raccontò che per quegli indiani il fatto che un uomo avesse commesso un omicidio era segno evidente che era malato e che, quindi, non c'era alcuna logica nel condannarlo a qualsiasi pena. Insomma, per loro non c'è bisogno di una perizia psichiatrica: se uccidi, sei malato. E, allora, mi spiegò Doug, i capi e il medicine man tentano di guarirlo con un complesso cerimoniale che consiste anche nel fargli passare non so quanti giorni e quante notti in un posto deserto tra animali feroci a ripercorrere, non so come, tutta la sua vita, fin dall'infanzia.

Magari il metodo è discutibile e forse non funziona bene, però il principio mi sembra molto più civile del nostro.

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Che senso ha, infatti, chiudere un uomo, non importa quale delitto abbia commesso, in una stanza di due metri per quattro e, in pratica, buttar via la chiave? Ma, soprattutto, chi ha il diritto di fare questo?

E che cosa c'è dietro al sogno di un giovane che cresce e studia perché da grande quello sia il suo mestiere?

Qui, steso sulla branda della mia cella, mi è chiaro: una volta, neanche troppo tempo fa, due o tre secoli, gli uomini trovavano normale che uno di loro fosse ritenuto colpevole e condannato dopo avere subito, e non segretamente, la tortura. Oggi stentiamo a credere che non avessero niente da obbiettare. Vedo chiaramente che tra non molto tempo, forse altri due o tre secoli, i nostri posteri avranno serie difficoltà a credere che noi trovavamo ovvio che un uomo giudicasse un suo simile.

Prima di addormentarmi, riesco a sorridere amaro. Mi ricordo che, circa un anno prima, all'inizio del mio libro che dovrebbe uscire tra pochi giorni, misi una profetica citazione dall'Ecclesiaste e ora mi chiedo chi mai me la suggerì: «Ho anche visto sotto il sole: nella sede del diritto, il delitto; nella sede della giustizia, la nequizia».

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«Ho una notizia buona e una cattiva: quale vuoi prima?»È sabato 15 aprile, di nuovo nel luminoso parlatoio riservato ai colloqui con gli avvocati, e

Sandro Traversi, lo capisco subito, cerca di mettere una zolletta di zucchero nell'amara notizia che passerò Pasqua in cella, perché il giudice Marina De Robertis ha respinto la richiesta di scarcerazione.

Trionfante, la collega Erika Pontini della redazione perugina della «Nazione» annuncia così quel giorno la brutta notizia sul giornale. «Non gli è servito a nulla spiegare. Raccontare per quattro ore la sua tesi di cronista a caccia di uno scoop sui delitti del "mostro di Firenze". La versione del giornalista fiorentino Mario Spezi, sessant'anni, non ha convinto né il piemme che indaga sull'omicidio del medico perugino Francesco Narducci, né il giudice».

«Ho capito quella cattiva – rispondo a Sandro –, dimmi almeno la buona».«Il tuo libro Dolci colline di sangue è uscito con quattro giorni di anticipo. È in libreria. Per il

resto, sì, hai indovinato…»«Uhm… be', ne hai una copia da farmi vedere?»«No, mi dispiace, non l'hanno fatto passare, ha la copertina rigida. Forse con Myriam, che viene

tra un po'… Abbiamo già presentato il ricorso al "riesame", non perderemo neanche un giorno…»«Lo so, lo so che fate tutto per il meglio…»La signora che aveva dato l'ok al mio arresto anche sulla base del "fantastico" documento

Rizzuto e che nel nostro unico incontro si era limitata a chiedermi se avessi mai fatto parte di una setta satanica ha rigettato la richiesta di scarcerazione e anche quella di mettermi ai "domiciliari",

ritenuti sussistenti i gravi indizi contestati come sopra richiamati a base dell'ordinanza di custodia cautelare, anche all'esito delle dichiarazioni dei due indagati in sede d'interrogatorio dinanzi a questo Giudice, considerato peraltro le versioni contrastanti rese dai predetti coindagati, circa le finalità, l'iniziativa ed il ruolo nella operazione posta in essere ed oggetto dei reati di calunnia e turbamento della regolarità dell'ufficio Giudiziario inquirente sulla morte per ipotizzato omicidio di Francesco Narducci, indagine collegata con quelli per il delitti del c.d. "Mostro di Firenze"; ritenuto che le esigenze cautelari del periodo di reiterazione e di inquinamento probatorio, allo stato, in attesa dei necessari, prossimi riscontri ed approfondimenti istruttori, devono ritenersi tali da essere adeguatamente garantite solo dalla misura in atto, ritenuto quanto alla certificazione medica ecc., ecc.

Poi, nel motivare questa decisione, la dottoressa De Robertis se la prenderà anche con la mia scarsa disponibilità a mettermi volontariamente a disposizione della procura di Perugia e con il fatto che in parecchie delle mie telefonate intercettate ho dimostrato, ampiamente lo ammetto, disprezzo per inquirenti e investigatori del caso. In effetti, era per me difficile, sapendomi ascoltato, resistere alla tentazione di esprimere con amici che mi chiamavano i più offensivi pensieri per quelle persone. Per il gip di Perugia, quest'atteggiamento era indizio, non di maleducazione, ma di colpevolezza.

E, infatti, nella richiesta avanzata al Tribunale del Riesame, i miei avvocati Traversi e Filastò hanno, tra l'altro, dovuto scrivere: «Le argomentazioni dell'ordinanza De Robertis sono inconsistenti, totalmente suggestive e viziate da un'ottica di pregiudizio, oltre che basate su valutazioni personalistiche e considerazioni di tipo psicologico prive di giuridica rilevanza».

Passando poi, alla sostanza del rifiuto della De Robertis, hanno scritto, stupiti, che gli indizi contro di me

sono rappresentati, come si evince a pagina 10 del provvedimento, dalle dichiarazioni del Rizzuto

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incredibilmente definite "puntuali", in seguito alle quali sono stato iscritto nei registro delle notizie di reato.Orbene, – hanno scritto i miei due legali – la Memoria descrittiva dei fatti in narrazione per la competenza del Sostituto Procuratore della Repubblica di Perugia Dottor Giuliano Mignini del predetto Domenico Maria Rizzuto e i due verbali di assunzione di informazioni del medesimo Rizzuto del 30 maggio 2005 hanno un contenuto a dir poco delirante. Tanto che stupisce che le suddette dichiarazioni possano essere state prese in considerazione e, quindi, rivestite di una qualche attendibilità da parte degli inquirenti.Innanzitutto la qualità del "soggetto" dichiarante, recluso nel carcere di Lauro (e ci piacerebbe sapere per quale reato e quali siano i suoi precedenti penali), addirittura sottoposto a procedimento penale per calunnia in danno di poliziotti, come lui stesso scrive nel memoriale. Questo per quanto riguarda l'attendibilità intrinseca. Passando poi al contenuto delle sue affermazioni, vi troviamo un confuso affastellarsi di vicende, personaggi, intrecci, con tanto di richiami alla massoneria e a sette religiose ed esoteriche, come in un puzzle di cui è arduo ricostruire le file.Basti qui citare, tra le asserzioni più sconcertanti espresse dal Rizzuto, quelle che riguardano noti magistrati fiorentini (Dott. Tony, Dott. Crivelli, Dott. Vigna, Dott. Canessa) alludendo ad oscuri legami dagli stessi tenuti con la Cooperativa il "Forteto", sito in Vicchio di Mugello, luogo in cui – a suo dire – si riuniva una setta massonica, dedita sia al buddismo che al "culto di Iside", in seno alla quale si consumavano orge e riti esoterici e della quale, tra gli altri, avrebbero fatto parte, oltre al Narducci e allo Spezi, anche i Marchesi Antinori e Rosselli del Turco. Per non parlare dell'assurda circostanza riferita dal Rizzuto dello «smembramento in n. 14 pezzi del corpo di Iside o di Osiride», che avrebbe determinato la «cessazione della serie omicidiaria» dei delitti del c.d. "Mostro di Firenze"!

E, anche loro, alla fine non hanno resistito alla tentazione, ma molto più elegantemente di me, hanno concluso:

D'altronde, argomentare con congetture e illazioni è… parlare di nulla. Come nel celebre passo shakespeariano del Romeo e Giulietta in cui Romeo si rivolge a Mercuzio (che va fantasticando di una strega di nome Mab, che di notte vola su un cocchio fatto di guscio di nocciola, le cui ruote hanno per raggi lunghe zampe di ragno), dicendo: Taci, Mercuzio! Tu parli di niente. E quest'ultimo risponde: È vero, parlo di sogni, generati nient'altro che da una vana fantasia.

Saluto Traversi e mi faccio riportare in cella.Dovrei riflettere sull'utilità di un giudice che deve controllare la validità di un ordine d'arresto,

ma trovo una sorpresa, che con le uova di Pasqua ha poco a che fare. Sono quasi le undici e mezza e passa lo spesino con il pranzo; allungo la scodella di metallo oltre le sbarre e quello ci getta dentro pasta, carne macinata, insalata, finocchi crudi e una specie di colla giallastra che lui chiama risotto. Poi mette sul "passavivande" tre pacchi di mezzo chilo ciascuno di pane e tre arance.

«Ma che è tutta 'sta roba? E tutta mischiata…»«Deve bastarti fino a martedì. Domani è Pasqua e lunedì è festa. Ci rivediamo martedì».In un solo contenitore si confondono spaghetti rossi e unti, pezzi di carne nera, poltiglia gialla di

riso e verdura bianca tagliata a fette. Solo guardare quelle leccornie è un invito all'anoressia. Il mio pranzo odierno, quello festoso della Pasqua, quello semifestoso del lunedì dell'Angelo, con le aggiunte di tre cene, finiscono nel cesso. Salvo pane e arance.

La mia linea comincia a migliorare. Sono anzitempo in una buona condizione tipo spiaggia.L'agente di custodia interrompe le mie meditazioni dietologiche: «Colloquio. La moglie».Non vedo Myriam da otto giorni, da quando sono stato arrestato. Mi sono preparato all'evento: il

giorno prima, approfittando del sole, ho fatto l'"aria" in solitario seduto nell'angolo soleggiato, il viso verso i raggi, per dargli un po' di colore; questa mattina mi sono rasato accuratamente e ho lavato i capelli, anche se senza shampoo; ho messo vestiti nuovi. Voglio trasmettere l'impressione che me la cavo bene, che non deve preoccuparsi per me più di tanto.

Sono emozionato, come un ragazzino che va al suo primo incontro galante.Con in mano un grande sacco di carta, in cui ho messo gli indumenti sporchi, ripercorro corridoi

e supero vari sbarramenti, quindi mi aggrego a una fila di altri detenuti che, pure, sono condotti al colloquio. Dobbiamo camminare in fila indiana, il fianco destro contro la parete, in silenzio, le mani

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fuori dalle tasche. Arriviamo in una specie di grande anticamera completamente vuota a parte un lungo tavolo di legno appoggiato alla parete. Lì sopra dobbiamo mettere i sacchi di carta e una guardia mette su ognuno un bigliettino con il nostro nome. Quindi siamo infilati in un'altra stanza, una specie di grande cella senza mobilio, ma con una piccola televisione accesa. Saremo una ventina. Chi si conosce si mette a parlottare, altri fanno conoscenza, ché sono quasi tutti giovani, sotto i trenta, marocchini, albanesi, algerini, un paio di colore, qualche italiano. Sono quasi tutti vestiti con tute e scarpe da ginnastica, la tenuta più pratica per questo genere di hotel. Sono il solo in pantaloni di velluto a coste, mocassini e pullover. Non so che cosa fare, mi sento diverso, mica per altro, ma per l'età e lo sentono anche loro. Mi appoggio a un termosifone, le mani dietro la schiena, e lascio scorrere lo sguardo sui miei compagni. Qualcuno, che mi riconosce perché mi ha visto in televisione, accenna un saluto con un sorriso e un'alzata di sopracciglia. Contraccambio nello stesso modo. Scopro che c'è anche Nino, l'albanese rapinatore in villa, sempre elegante, anche nei modi. Lui mi saluta anche con la voce; la mano, qui, non la stringe nessuno.

Restiamo in questa megacella per una ventina di minuti e non so perché. Poi, ogni tanto, si affaccia una guardia e grida uno o due nomi e i chiamati possono uscire e andare nella sala dei colloqui. Io vengo chiamato per ultimo.

Percorro, scortato, un corridoio a "elle", vedo una lunga stanza dove, dietro a un vetro che dalla parte opposta, quella nella sala colloqui, è a specchio, sono seduti tre o quattro secondini che osservano senza essere visti. Subito dopo c'è la porta che immette nella grande stanza dove avvengono gli incontri e la vedo subito. La sala è quadrata, circa sei metri per altrettanti. Una parete è occupata per tutta la lunghezza dal finto specchio dietro al quale i secondini controllano che non avvengano passaggi di roba proibita. Ci sono otto tavoli tondi con delle sedie attorno. Ci sono molte mogli o compagne, qualche persona anziana, un paio di bambini ancora in fasce.

Myriam è seduta a un tavolo rotondo contro il muro, sola, pettinata impeccabilmente, un trucco leggero e fresco, abiti eleganti e sportivi, un sorriso affisso sulle labbra. Ci conosciamo dal 1967, mi vuole comunicare le stesse cose che io tento di comunicare a lei: sto bene, non devi preoccuparti per me, sto affrontando la situazione nel migliore dei modi, devi pensare a te e non a me. Ma, proprio perché ci conosciamo dal 1967, vedo nei suoi occhi quanto dolore questo sforzo le costa: sono sempre stati blu come il mare d'estate, adesso sono grigi come uno stagno d'autunno.

Cerco di essere "tonico" anche nei movimenti, la stringo a me, ci sediamo, le prendo una mano, non gliela lascio per tutta la durata del colloquio.

Parliamo, prima di cose pratiche, poi di noi, dei nostri sentimenti e di quelli di nostra figlia Eleonora, che mi ha scritto una lettera che ancora non mi è stata consegnata. Anche la roba, specie da mangiare, che Myriam mi ha portato oggi non ha superato i controlli e non può darmi niente. Mi dice che domani andrà dai nostri carissimi amici Kiki e Paolo in Garfagnana a passare la Pasqua con loro, io le dico che ho chiesto di assistere alla Messa, ma che non mi hanno ancora risposto, e che per il resto penso di dedicare il tempo alla scrittura di Deusdedit.

Un'ora passa veloce nelle sale colloqui. Il secondino annuncia la fine. Abbraccio Myriam, cerco di trasmetterle fiducia, non so se ci riesco.

Veniamo riportati nella grande cella vuota, poi, uno a uno veniamo chiamati e non capisco il perché. Quando lo scopro, qualcosa di freddo e di amaro mi entra in circolazione nelle vene. Io, come gli altri, sono condotto in una stanza dove di nuovo è stesa a terra una coperta. Come all'arrivo in carcere. Davanti a un secondino devo spogliarmi completamente e rifare di nuovo tre di quei movimenti che loro chiamano "flessioni". Dovrò farlo ogni volta dopo un colloquio, ma lo racconterò a Myriam solo quando sarò definitivamente fuori di qui.

Sono di nuovo in cella e penso di mettermi subito a scrivere, di andare tra i miei personaggi, per non essere solo, per distrarmi. Non ci riesco. Mi entra nella testa e nel corpo uno strano torpore che mi impedisce di prendere qualsiasi iniziativa, anche la più piccola. Mi sdraio sopra il letto. Non leggo, non dormo, non penso, non sogno a occhi aperti.

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Solo dopo due giorni, il lunedì di Pasqua 17 aprile, riesco a riprendere qualche appunto su quella specie di diario blu. Sono pochi i fatti da segnalare e pochi lo saranno fino al mercoledì 19, quando la guardia arriverà e, tendendomi un grosso sacco nero da spazzatura, mi dirà bruscamente: «Sbrigati! Metti la tua roba qui dentro. Vai di sopra, con gli altri!»

Fino a quel momento, dal sabato in cui ho incontrato Myriam, il mio tempo è passato senza fatti rilevanti, ma mai senza una storia. Solo che è una storia che era e deve restare dentro di me. Un carcere, meglio ancora un reparto di quasi isolamento come il mio, ha un'ottima topografia per lo spirito. Come un convento, magari di clausura.

Non certo di una cella, non certo di Capanne, ma di quella topografia, lo so da ora, una volta fuori sentirò la nostalgia e spero che, quando lo dirò, non passerò per scemo.

La mattina ho la lettura dei giornali, che poi distribuisco, tramite lo spesino, a qualche compagno che me lo ha chiesto. Un giorno leggo con stupore e fastidio un titolo sul «Giornale» che riporta una frase del legale di Luigi Ruocco: «Cianferoni: "Ruocco è stato usato, ora deve confrontarsi con Spezi"». Non capisco a che cosa mira l'avvocato che aveva partecipato con me alle allegre cene organizzate da Antonella Triolo, la madre di Veronica, per festeggiare la sentenza che aveva condannato il medico responsabile della sperimentazione illegale di farmaci sulla ragazza.

Ma soprattutto mi chiedo: «Ma chi glielo fa fare?» E poi: ma non è lo stesso Ruocco ad avere detto di avermi ingannato per vendermi qualche bufala per una manciata di euro? E sarei io ad averlo usato?

Mi commuove e mi fa tenerezza la lettera che due grandi amici hanno inviato alla «Nazione» tentando di portare una prova che io, insistendo sulla "pista sarda", non ho avuto alcuna intenzione di depistare. Sono Domenico Viaggiano, per quasi venti anni Direttore dell'Accademia di Belle Arti di Firenze, e l'architetto Roberto Maestro, docente di Disegno ad Architettura. Argomentano che la mia idea della pista sarda non è nuova, che possono testimoniare, e si mettono a disposizione dei magistrati, che io quella "fissazione" ce l'ho da anni. Loro, che tanto sanno di arte, non possono neppure pensare che esistono un magistrato e un poliziotto capaci di sostenere che basterebbero alcuni articoli su un giornale per indirizzare un'indagine da una parte piuttosto che da un'altra.

Il 18 aprile, undici giorni dopo il mio arresto, un appello è lanciato in mio favore da un gruppo di colleghi di diverse testate, Franca Selvatici di «Repubblica», Sandro Bennucci della «Nazione», Vincenzo Tessandori della «Stampa», Antonella Mollica del «Giornale», Guido Colomba, Presidente dell'Unione Nazionale Cronisti.

Dal 7 aprile – si legge nel documento che i promotori invitano a sottoscrivere anche servendosi di Internet – il giornalista Mario Spezi è in carcere per calunnia e depistaggio. Gli sono stati negati perfino gli arresti domiciliari. I giudici di Perugia lo accusano di aver turbato, con le sue indagini giornalistiche e con le sue ricerche su piste alternative rispetto a quelle ufficiali, le indagini sulla morte del medico perugino Francesco Narducci e sui delitti del Mostro di Firenze, l'ultimo dei quali risale al 1985. Pur ribadendo fiducia nella magistratura e non volendo entrare nel merito degli indizi raccolti dagli inquirenti, di cui non abbiamo completa conoscenza, rileviamo – proseguono i firmatari – che in Italia la carcerazione preventiva viene disposta, di regola, per delitti gravissimi e non certo per i reati contestati a Spezi, la cui colpa maggiore sembra quella di aver scritto libri e articoli che contrastano con l'inchiesta. E appare abnorme – conclude il documento – che un cittadino possa finire in galera per le sue idee.

I primi a firmare sono Riccardo Nencini, presidente del Consiglio Regionale della Toscana, Leonardo Domenici, sindaco di Firenze, il ministro dell'Ambiente Altero Matteoli e il deputato Ds Michele Ventura, sorprendendo il piemme Mignini, incapace di capire che la solidarietà possa

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arrivarmi da parti politiche così diverse tra loro.Presto le firme arrivano a quattrocento. L'associazione per la libertà di stampa Information

Safety and Freedom «invia i più sentiti auguri di Buona Pasqua a Mario Spezi, il giornalista fiorentino arrestato dalla magistratura di Perugia e sottoposto a un duro regime di detenzione».

Caro Mario – si legge nella sua nota – noi tutti e i colleghi italiani ti siamo vicini in questa brutta vicenda che conferma quanto il nostro mestiere sia sempre sottoposto al rischio della censura, e al tentativo di mettere a tacere le voci libere e il libero esercizio della critica anche nei nostri paesi democratici. Questa Pasqua resterà come una delle pagine più nere non solo nella storia del giornalismo italiano, ma anche di quella della nostra Repubblica. Ti inviamo un caro augurio, che è anche un messaggio di solidarietà e un invito a resistere, non solo per te, ma anche per la difesa di tutta la nostra categoria e la dignità del nostro mestiere.

Stefano Marcelli, presidente dell'ISF, chiede pubblicamente:

Forse il CSM dovrebbe verificare cosa sta accadendo alla procura di Perugia. E il Viminale dovrebbe chiarire l'attività del GIDES e del suo capo che aveva già perseguito un altro giornalista fiorentino gravandolo di pesanti accuse sulla vicenda del Mostro, che si sono poi rivelate infondate. Il 19 aprile arriverà nelle librerie italiane un libro scritto da Spezi assieme allo scrittore americano Douglas Preston, anche lui indagato. Si tratta di una sorta di controinchiesta che contiene numerose critiche all'andamento ufficiale delle indagini e che promette di diventare un best seller mondiale come i precedenti firmati da Preston. Qualcuno non vuole che quel libro venga letto?

Ai giornali è inviato un drammatico documento a firma Carlo Bartoli, presidente dell'Associazione Stampa Toscana, Massimo Lucchesi, presidente dell'Ordine dei Giornalisti della Toscana, Stefano Sieni dell'Ordine Nazionale Giornalisti:

Dopo aver già espresso la nostra solidarietà al momento dell'arresto di Mario, facciamo adesso appello ai giornalisti italiani perché riflettano su quanto si sia indebolita la nostra professione negli ultimi anni e di come sia quindi necessaria e urgente una risposta compatta e unitaria a minacce di questo tipo che si fanno sempre più frequenti. Invitiamo anche il mondo delle istituzioni a riflettere su come il ruolo di una stampa indipendente e garantita nel proprio diritto alla critica sia un elemento centrale per il corretto funzionamento di una democrazia. E, infine, vogliamo richiamare il Consiglio Superiore della Magistratura e il Ministero degli Interni a valutare se le procedure seguite in tutta questa vicenda e lo spirito che le anima, siano compatibili con i principi sanciti dall'articolo 21 della Costituzione che fa salvo il diritto di espressione per ogni cittadino, ma anche se vadano d'accordo con il più banale buonsenso e la reputazione del nostro Paese a livello internazionale.

Sull'«Unità» Franco Abruzzo, Presidente dell'Ordine dei Giornalisti di Milano, si chiede polemico: «I giornalisti possono cercare una verità diversa da quella dei piemme? Possono scrivere libri sui grandi fatti di cronaca o scrivere un libro diventa una prova di colpevolezza?»

«La Stampa» intervista Douglas Preston al telefono e fa il titolo con una sua frase: «Spezi è in carcere perché ha detto la verità sul Mostro».

«La Repubblica», riferendosi alle calunnie della Carlizzi e al documento Rizzuto, titola e punta il dito contro Perugia: «Spezi, la sintonia della procura con un sito web pieno di accuse».

So che tutto questo non muoverà, non dico il CSM o il Ministero degli Interni, ma neppure una foglia.

La verità che c'è nel libro mio e di Douglas Preston è che l'indagine sul Mostro, da parecchio tempo, è solo una storiaccia di acquisizione e gestione di potere. Fare appena un po' d'aria attorno quel castello di carte rischia di farlo crollare e anche chi c'è salito sopra potrebbe farsi parecchio male. Non ci sono mostri "eccellenti" da coprire, di cercare quello vero non frega niente a nessuno, i "compagni di merende" sono al massimo un modo di dire.

Che non si muoverà una foglia, lo sanno anche Giuttari e Mignini.Il poliziotto, poi, ha anche messo il suo nome sulla copertina di un libro uscito da poco, Il

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mostro, in cui, oltre a fare impunemente sotto gli occhi di tutti i magistrati italiani e di tutti i funzionari degli Interni, una caterva di rivelazioni di segreti istruttori, mi indica come "sospetto", sempre per quello che ho scritto. Avermi sbattuto in galera, adesso fa al suo libro una bella pubblicità, cosa che sicuramente lui non ha voluto. Una faccenda, questa del libro di un poliziotto su un'inchiesta aperta e che lui stesso conduce, che avrò molte difficoltà a spiegare ai colleghi americani, inglesi, francesi, quando, una volta libero, verranno a fare servizi sulla mia vicenda. Così come non saprò rispondere, non solo a loro, ma a tanta gente comune che mi chiederà come è possibile che nessuno, Ministero degli Interni, Polizia di Stato, CSM o altro, sia intervenuto a fermare un poliziotto già condannato per falsa testimonianza e che si raccomandava a un boss della 'Ndrangheta per essere promosso. Molti avanzeranno strane ipotesi, altri mi domanderanno di quale innominabile protezione godesse o peggio.

Non saprò rispondere e ancora oggi non so la risposta.Ma non rifletto su queste faccende quando, ubbidendo all'ordine del secondino, butto tutta la mia

roba dentro il grande sacco nero della spazzatura, perché ora devo andare di sopra, con gli altri.Il cuore mi batte forte, lo stomaco diventa un nodo. Non è paura, grande preoccupazione, sì. Che

situazione dovrò vivere ancora? Come sarò accolto? Chi sarà l'uomo con il quale mi troverò ventiquattro ore su ventiquattro in una cella uguale a questa, tre metri per quattro? Che età avrà? Da dove verrà? Che delitto avrà commesso?

Devo sbrigarmi, chissà perché, la guardia sembra avere fretta. Esco e di nuovo corridoi e cancelli e scale. Il sacco è inaspettatamente pesante, la mia schiena malandata è attraversata da una lama fredda, la bocca diventa secca, l'enfisema mi taglia il respiro.

Arranco quando vado verso la mia nuova destinazione, la cella 3, braccio 3B.

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Devo trascinarmi fino al terzo piano e quando sbuco dalle scale mi ritrovo in un largo corridoio illuminato dal sole. Di fronte a me sono le celle e qui sono molte di più che nel reparto TR, forse una ventina, forse trenta. Dietro alle sbarre i loro inquilini osservano il nuovo arrivato.

Non ho più fiato, la robusta guardia che mi scorta evita accuratamente di darmi una mano. Va fino alla cella che mi è stata destinata, la 3, e con le chiavi in mano aspetta che arrivi. Prima che apra, da quelle che saranno le mie sbarre mi viene incontro una mano con un bicchiere di plastica pieno d'acqua: «Prendi, bevi».

Così conosco Motorola, il mio compagno, l'uomo con il quale dividerò i dieci giorni più neri e incredibili della mia vita.

Entro, butto il sacco in un angolo e mi siedo sul letto basso, per riprendere fiato. Mi ripeto la giaculatoria che mi accompagna da almeno venti anni: «Devo smettere di fumare, cavolo!»

Riesco finalmente a dire «Grazie» all'uomo che mi ha dato da bere, ma ansimo e tengo ancora la testa bassa, verso il pavimento. Vedo avvicinarsi due piedi infilati in un paio di infradito di gomma. Sono blu. I piedi, voglio dire, non le pianelle. Blu scuri, quasi neri e anche le caviglie hanno il colore delle macchie ematiche di un cadavere. Il proprietario dei piedi deve essersi accorto dell'esitazione del mio sguardo che saliva verso il suo viso e mi precede: «Nun te preoccupà, non è niente, non c'ho niente che s'attacca. È che so' un tossico… insomma, lo ero. Mo' è parecchio che nun me faccio. Ciao, so' Motorola», e mi tende la mano.

«Moto…? Non ho capito…»«Sì, Motorola, come er telefonino. Me chiamano tutti così, ché quando stavo fuori e spacciavo

facevo tutto per telefono».«Ah, ho capito. Io sono Mario» e finalmente lo guardo in faccia. Avrà poco più di trenta anni,

capelli neri ondulati, magro, faccia intelligente, un bel buco nero al posto del canino di destra, accento romanesco e tuta da ginnastica blu.

«Mi dispiace – gli dico – magari te ne stavi proprio bene da solo…»«Naaah…! Tanto io prima o poi me ne vado, me ne torno al carcere mio, qui so' venuto solo per

il processo d'Appello, possino ammazzalli!»«Ah! Senti – gli dico – dimmi come sei sistemato, ché io mi adatto. Mi sembra che sei nel letto

di sopra. A me va proprio bene, ché con 'sto mal di schiena non ce la farei a salire…»«Ahò – mi fa – ma te, perché t'hanno tenuto tutto 'sto tempo di sotto? Me pare strano…»«Non lo so. È la prima volta che entro in carcere. Io – cerco di fare un po' di presentazioni – sono

quel giornalista del Mostro… non lo so… magari m'hai visto in televisione…»E subito Motorola mi dà una buona notizia: «Io – dice – la televisione nun la guardo quasi mai.

Però ho capito… me pare che t'ho visto… sì, me pare. Ora – e scoppia a ridere sarcastico mostrando altri vuoti nella dentatura – capisco tutto. Sei quello che non l'hanno fatto parlare neanche con gli avvocati. E c'avevano raggione! Come mai non c'ero arrivato? Se vede subbito che c'hai 'na faccia da criminale efferato! Basta guarda' come te sposti gl'occhiali sul naso, un gesto proprio da delinquente… Ahò, ma questi so' proprio scemi!»

Ammetto che il mio ingresso nel mondo dei criminali non è stato dei più trionfali.Prima di tutto, Motorola mi prepara un caffè, il primo che prendo dal 7 aprile, perché, infatti solo

quel pomeriggio, appena prima che mi trasferissero, mi era arrivata la spesa, compresi il fornello, la moka e il caffè. Poi, sistemo la mia roba nell'armadio. Sistemare è una parola grossa: non ci sono scaffali e di grucce non è il caso di parlare. Insomma, da queste parti, un armadio è uno scatolone vuoto che ha il guaio di aprirsi davanti e non di sopra, così che ogni volta che vuoi prendere qualcosa rischi di far cadere tutto sul pavimento. A sistemare la mia roba impiego il tempo di sentire bollire la caffettiera.

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Ci sediamo al tavolo, io e Motorola, e gli offro una sigaretta. Qui abbiamo anche il posacenere: una saponetta tagliata a metà e pazientemente svuotata, con tanto di solchi ai lati per appoggiare la sigaretta, quindi accuratamente ricoperta di carta argentata. Me lo porterò a casa e sarà l'unico souvenir della mia prigione.

Ho una tavoletta di cioccolata e ne offro al mio compagno.Nasce così la mia amicizia più strana, ma anche la più gratuita, perché continuerà quando io sarò

lontano da qui e perché sarà fatta solo di parole scritte. Sarà Motorola il primo a mandarmi una lettera, un semplice foglio a quadretti, con grafia e grammatica incerte, ma con idee e sentimenti sicuri ed espressi nel modo più efficace. «Se quando avrai voglia mi scrivi ne sarei felice, ma solo se ti va, tanto per me rimarresti comunque il Sig. Mario Spezi giornalista conosciuto in un luogo che non è quello dove l'avrei dovuto conoscere».

Scopro un uomo intelligente, curioso, un attento osservatore della realtà, uno che la psicologia l'ha imparata sulla strada, dove non è solo teoria, ma funziona se resiste alla prova della pratica che, nel caso di gente come lui, può essere anche pericolosa. Conosco uno che è anche un "duro" vero, perché lo è in primo luogo con se stesso e non si compiange e non si assolve da nessuna colpa: «Quando m'hanno condannato ho detto addio alla mia donna. "Non mi scrivere – le ho detto – non venirmi a trovare, scordami". C'ha poco più di vent'anni, è bella, e che so' scemo? Io dovrei credere che mi sta ad aspettare tutto 'sto tempo? Sai quanti ne ho conosciuti che stavano in galera e si consolavano perché le "femmine" gli scrivevano, li andavano a trova', je portavano la robba. E io, intanto, fuori, me le trombavo! No, a me così non va, solo per il gusto di ricevere una letterina… E, allora, via!»

Le donne per Motorola, tutte le donne, sono "le femmine" ed è curioso, ma in questo termine, così come lui lo usa, non c'è alcun accento di maschilismo, alcun tono di disprezzo, anzi. "Femmina", per lui, è il maiuscolo di "donna": tutto quello che la distingue, e magari contrappone, all'uomo, ma anche, e soprattutto, quello che la esalta.

Nei dieci giorni che condivideremo io e Motorola faremo la spesa, cucineremo, puliremo la cella, magari usando sul pavimento, per sbaglio, il detersivo dei piatti così che la cella sarà invasa da un piccolo tsunami di schiuma, parleremo anche fino a notte tarda delle nostre vite così diverse, così lontane e così vicine, resteremo in silenzio a lungo rispettando i sentimenti dell'altro, rideremo anche, perché lo sappiamo tutti e due che la tragedia di certa gente, che si crede potente e importante, nasce quando il suo senso della vita non è più in sintonia con gli dei. Allora nasce anche il ridicolo e quelli fanno pure pena.

Io e Motorola evitiamo accuratamente la tragedia.Lui è convinto che tutti i magistrati, chi più chi meno, hanno contratto una malattia, «un virus

che dai libri che leggono tutti i giorni, dalla mattina alla sera, per anni, je s'è messo nella capoccia. Se lo beccherebbe chiunque, a forza de sta' chiuso co' quella robba in una stanza! Imparano delle formule che so' pazzesche e alla fine contraggono la malattia, quella de nun capi' più la vita. Poi vogliono giudica' la vita! Ma come fa uno che crede a 'ste fregnacce? Dov'è la vita in quei libri? Che cazzo ne sanno quelli?»

C'è una categoria di persone che Motorola disprezza di più, gli avvocati d'ufficio e anche per quelli normali non è che ha una grande simpatia.

«Devo famme sette anni e otto mesi! Me l'ha appena confermato l'Appello, perché quella che m'hanno dato d'ufficio m'ha venduto. Sì, venduto, te meraviglia? Fanno tutti così: se mettono d'accordo con i pubblici ministeri, "Io ti assolvo quei due, però questo me lo dai". Non ci credi? Io so' un delinquente, so' il primo a dillo, se mi condannano per quello che ho fatto, non c'ho niente da ridi'. Ma, porca miseria, mica per quello che non ho fatto! Io spaccio, spaccio alla grande, l'ho sempre fatto, non c'ho bisogno di nessun altro per farlo. E, invece, stavolta m'hanno dato "associazione per delinquere". Me so' ritrovato sul banco degli imputati con altri quattro disgraziati, uno pure nero, mai visti. Il giudice me fa: "Er nero era il suo complice a Castelvolturno, dove andava a rifornirsi di droga, vero?" A Castelvolturno, Mario, ce vanno tutti quelli come me, per procurarsi la robba, a venderla so' tutti neri, per conto della Camorra. Ce sta' un posto che la polizia manco se lo sogna d'andarci, ché je fa paura. Io guardo er nero vicino a me e dico ar giudice:

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"Presidente, quanno ho comprato la robba laggiù, l'ho presa dal primo che me la vendeva. Stava dentro 'na macchina, c'aveva un cappellino, era nero ed era pure notte: ma come faccio a riconoscerlo?" Quella stronza chiede il patteggiamento, gli altri ce stanno, io no. Conclusione: sette anni e otto mesi, e sai perché? Perché ad arrestarmi – ahò c'avevo appena quaranta grammi – è stato il piemme d'una cittadina dove non era mai stata arrestata una banda, dove non era mai successo niente d'importante. Je faceva comodo un titolone sui giornali "La procura sgomina grosso traffico di droga"! Sì, quaranta grammi! L'avvocata, che me veniva a trova' in carcere con certe minigonne che je se vedeva tutto e s'accarezzava pure na ciocca de capelli…»

Lo interrompo: «Che vuol dire? Che vuol dire che s'accarezzava una ciocca di capelli?»Motorola mi guarda stupito: «Ahò, e sei pure uno ch'ha studiato! Ma come, nun ce lo sai?

Quando una donna davanti a te se mette a accarezzasse 'na ciocca de capelli, magari tra due dita, vor dì che vo' esse scopata. Nun me di' che nun lo sapevi?»

«No, lo psicologo sei tu. Vai avanti…»«Be', te dicevo, 'sta mignotta m'ha venduto. Ma è pure scema! Che nun ce lo sa che prima o poi

esco? E, allora, 'ndo' va? Ma 'ndo' va? Io l'acchiappo e je stacco la capoccia! Je stacco la capoccia!»«Ma dai…!»«Nooo? Nun ce credi? A Ma', ma te sei mai chiesto il perché di certi delitti che sembrano

inspiegabili? Ti ricordi quei due, marito e moglie, in Abruzzo, me pare, che dentro la loro villa so' stati torturati tutta la notte e poi li hanno accoppati e manco hanno rubato niente? Ma te sei chiesto perché? Be', erano tutti e due avvocati. E ce puoi scommette su chi è stato… E quell'avvocato a Milano, che una mattina esce di casa e, bum, je fanno un buco 'n testa? Non c'è una spiegazione, non aveva nemici, dicono. Ah no? Be' vorrei vedere tutti quelli che ha difeso… A Ma', sta tranquillo, quando esco, io, a quella je stacco la capoccia e poi la metto sugli scalini della Corte d'Assise. Quando leggerai che hanno trovato la capoccia de quella mignotta lì, Mario, tu pensa a me! Però, ahò, nun me tradi'!»

«Vai tranquillo, Motorola…»Abbiamo la doccia in cella, una cosa fantastica. Dentro al gabinetto, che in pratica è uguale a

quello che avevo prima, solo un po' più grande, c'è lo spazio per prendersi una doccia, basta solo picchiare con la schiena ogni trenta secondi contro la manopola, perché altrimenti il getto si interrompe. Resta un lusso impagabile.

La schiena, ormai è a pezzi, devo muovermi con molta precauzione, soprattutto quando mi siedo o mi alzo, per non rimanere piegato in due e non essere abbattuto da una mazzata di dolore. Alzarmi dal letto è diventata un'operazione che richiede alcuni minuti, devo sempre aggrapparmi alla rete sopra la mia testa per tirare su il busto; poi, centimetro dopo centimetro, giro il bacino per portare le gambe verso il pavimento; allungarmi in tutta l'altezza è un tormento; il dolore diventa accettabile quando sono in piedi, per un po'. Qualche minuto dopo è solo steso che trovo sollievo.

Alle sette e mezza guardo il tiggì umbro, per vedere se c'è qualche novità che mi riguarda. Viene annunciata un'intervista con Myriam e sento un colpo allo stomaco. Mia moglie è nordica, belga, ma ha passionalità meridionali, specie quando è indignata. Ho paura che dica qualcosa di troppo, qualcosa di pericoloso per lei.

La vedo seduta sul divano bianco del nostro salotto, sempre elegante, curata, ma i tratti del viso sono tirati e una piega amara è sulla bocca. Guarda ferma la telecamera con gli occhi diventati grigi e con voce sicura e lenta scandisce: «Mario è stato arrestato perché il suo libro è una controinchiesta che va contro le indagini degli inquirenti. Mi domando se è un reato avere dubbi su un'inchiesta? Se non è dovere di ogni giornalista esprimere dubbi quando qualcosa non convince. Io vengo da un Paese dove esiste un'altra idea della giustizia».

Dentro di me le dò il massimo dei voti e anche la lode: è stata bravissima, calma, non si è fatta tradire dall'emozione né dall'indignazione.

Motorola, che ha seguito l'intervista seduto sul suo letto, commenta entusiasta: «Ammazza che femmina! A Ma', c'hai proprio 'na moje 'n gamba. Bella, elegante, intelligente. M'è proprio piaciuta…»

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A portarmi i giornali, qui, nel braccio 3B è un italiano, un tipo di mezza età, quasi distinto, genere bottegaio di provincia di media caratura, con i capelli grigi sulle tempie pettinati all'indietro, vestito senza la solita tuta ma con pantaloni, camicia e pullover a "V".

«Spezi, mi scusi, ma stamani il "Corriere" non era ancora arrivato. Glielo porto senz'altro domani». Parla bene, con sicurezza, i suoi gesti sono sicuri.

«Grazie, non si stia a preoccupare…»Ignorante come sono della vita carceraria, mi faccio l'idea che sia un commerciante esterno che

ha una specie di appalto per vendere la sua roba dentro la prigione. Poi, quando un po' più tardi, affronto la mia prima "aria" collettiva, lo riconosco dall'altra parte del grande cortile. E anche lui è uno che passeggia veloce.

Mi vede e viene verso di me.Intanto mi guardo intorno. Il cortile, forse venti metri per trenta, è delimitato, da una parte, dal

padiglione a tre piani dove vivo anch'io, sui due lati più corti da due lisci e alti muri di cemento grigio, e, in fondo, da una rete metallica della stessa altezza che fa passare lo sguardo tra le sue maglie. Di là si vede una specie di spianata d'erba, attraversata da un paio di stradine asfaltate e deserte e, poi, in fondo, a quasi duecento metri, il muro di cinta, con le casematte e le torrette con le guardie.

Dalla metà della prigione si allunga verso il centro del cortile una costruzione più piccola, praticamente tutta a vetri, e dentro c'è il secondino che ci può osservare perché ha una vista a quasi trecentosessanta gradi. Davanti a sé ha un microfono, se dovesse chiamare qualcuno. Saremo, credo, una quarantina. Anche in questo cortile non c'è alcuna attrezzatura, neanche una sedia. Molti passeggiano, veloci naturalmente, altri se ne stanno seduti dove batte il sole e alcuni cominciano a giocare a carte. C'è chi corre in cerchio e uno, un ragazzo di colore, sembra che faccia proprio sul serio, con il cappuccio della felpa tirato su e le Adidas ai piedi.

Qualcuno, specie tra i più giovani, mi sorride e mi saluta. Sono quasi tutti maghrebini, qualche albanese, poco più che ragazzi. Non hanno il coraggio di avvicinarsi e di parlarmi. Mi chiamano "zio", credo per via dei capelli bianchi. Mi guardo in giro e davvero sono il più vecchio, e anche di molto. Più tardi Motorola mi spiegherà che quell'epiteto, lì dentro, è anche un segno di simpatia e di rispetto.

«Sono Lorenzo», mi dice lo spesino che mi ha raggiunto. «Ti va di parlare? Facciamo due passi…»

Ha ammazzato la moglie, Lorenzo, e gli hanno dato trenta anni. Per via della premeditazione.Sono qui da tredici giorni, spero di averne da passare solo altrettanti e mi sembrano un'eternità:

mi prende una vertigine a pensare a trenta anni. Da dentro, è qualcosa che non può essere immaginata. Un paio di settimane ancora per me, se mi va bene, ed è una distanza enorme dalla libertà. Mi fa paura pensare che, se mi va male con il Tribunale del Riesame, dovrò restarci dei mesi. In questo cortile trenta anni sono incalcolabili, così tanti che diventano privi di senso. Ma anche dieci, anche cinque. Un giorno di galera è tanto: quanto sono undicimila giorni in una cella?

Lorenzo spera nell'Appello, spera che la pena scenda a diciassette, magari sedici anni.Quanto sono seimiladuecentocinquanta giorni in una cella?Sono la sua speranza.A qualcuno fuori capita di dire: «Gli hanno dato solo sedici anni…», eppure De André ricorda «a

chi vive ancora che il prezzo fu la vita per il male fatto in un'ora».«Non c'era premeditazione – mi racconta – è tutto successo per un senso vietato che ho

imboccato per sbaglio».Per quel senso vietato Lorenzo non s'è beccato una multa, ma trenta anni. Perché se non lo

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avesse imboccato, poi, non si sarebbe fermato a bere un caffè in quel maledetto bar. E se non avesse voluto quel caffè, non avrebbe alzato lo sguardo sullo specchio alle spalle del cameriere e non l'avrebbe vista. Invece la vide e la tazzina restò a mezz'aria. Non gli aveva detto, lei, che con l'altro era tutto finito? Non lo aveva convinto che la sua era stata una sbandata, ma niente di più? Che ormai quella storia l'aveva chiusa? Che poteva avere di nuovo fiducia in lei? Che la serenità poteva tornare nella loro famiglia e che le loro due bambine riavrebbero avuto la sera la buonanotte di tutti e due i genitori?

E, invece, eccola lì, che nello specchio passeggia con l'altro. E ride, e gli stringe un braccio e appoggia il viso sulla sua spalla.

«Non è stato più il dolore perché andava con quello, Mario, è stato peggio: mi aveva davvero ingannato, mi aveva davvero tradito».

Lui l'ha affrontata per strada e adesso non ricorda più che cosa le ha detto e soprattutto non ricorda più quello che lei ha detto a lui. E non ricorda quella maledetta pistola che doveva starsene nel cassettino dell'auto e che invece si ritrovò in mano. Non lo so se dice la verità o se mente a se stesso. A me, non me frega un accidente, io non devo giudicare.

«Non ricordo niente ancora oggi. Mi hanno detto che non finivo di sparare, dieci, undici colpi. Tutti a segno. Non sono neanche scappato, non ho neanche tentato. È come se non l'avessi uccisa, io non lo ricordo».

Si era portato dietro la pistola, Lorenzo, e questo in un tribunale diventa premeditazione, diventa trenta anni.

Vedo i suoi occhi, gli occhi di un assassino, e sono pieni di paura.«Eppure, Mario, non sono i trenta anni che mi fanno soffrire. Sono le mie due bambine, le ho

perse, non vogliono vedermi, non vogliono sentire neanche parlare di me, ché gli ho tolto la madre. Me le hanno portate un giorno, qui, per un colloquio. Non hanno alzato la testa dal tavolo, non mi hanno detto una parola. E le capisco, hanno ragione, ma io, Mario, non voglio perdere per sempre le mie bambine, io voglio recuperarle. Ma come faccio? Come faccio…? Tu sei uno che ha studiato… uno che ha scritto libri… Dimmi… che cosa devo fare…»

Non l'ho mai letto in nessun libro come si fa e credo che non sia scritto da nessuna parte, eppure, io, a Lorenzo, una risposta vorrei dargliela. Ma non la so e mi sento un verme e se un verme ha un cuore io ho male al cuore che mi si stringe. Ho paura di secernere banalità dalla bocca diventata secca e una banalità, in questo momento, può essere una coltellata.

Sto zitto, guardo il cemento rosso che scorre sotto i nostri piedi e poi penso ancora al mio amico frate, a Galileo e dico, non so se a me stesso o a Lorenzo: «Non mentirgli mai… di' loro sempre la verità, anche la più cruda… non aver paura di mostrarti nudo… non voler sembrare quello che non sei… Soprattutto, non ingannarle mai. Ai figli, bisogna avere il coraggio di chiedere perdono. Non lo so Lorenzo, ora è troppo presto, ora sono piccole… Un giorno, forse… forse capiranno… non lo so… non lo so».

Mi stringe un braccio con la mano. Forse per ringraziarmi, forse per consolarmi della mia impotenza. Credo che abbia capito la mia difficoltà. Mi dice: «Grazie. È vero, bisogna dire la verità ai figli… Forse un giorno… più in là… forse…»

Riprendiamo a passeggiare e non ci guardiamo in faccia.L'ora d'aria, qui, dura due ore. E non puoi dire «Basta, voglio tornare in cella», ma te le devi fare

tutte. Spendiamo le parole con parsimonia, io e Lorenzo. Non si possono sprecare, ché per noi due, oggi, ce ne sono poche.

Più tardi, in cella, un secondino mi viene a portare un "invito". Con un riflesso condizionato mi chiama «signor Spezi» e mi dà del "lei". Come un furetto Motorola salta giù dalla sua branda e fa sarcastico alla guardia: «Ahò, che bello! Mo' da domani me dai del "lei" anche a me. Perché solo a lui?»

L'agente è imbarazzato, non replica. Lo rassicura Motorola: «Non te la pija', scherzavo».Il secondino mi consegna un foglio e sotto lo stemma della Repubblica e la dicitura «Procura

della Repubblica presso il Tribunale di Perugia», leggo che il pubblico ministero Giuliano Mignini invita me e Luigi Ruocco

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a presentarsi, quali persone sottoposte alle indagini per i predetti reati, il giorno 24.04.06, h. 09,00, dinanzi a questo piemme, nell'ufficio sito al terzo piano di questa Via Fiorenzo di Lorenzo n.n. 22/24. / per essere interrogati e sottoposti a confronto stante il contrasto ravvisabile nei rispettivi interrogatori, resi dinanzi al gip, nella Casa Circondariale di Capanne – Perugia, con l'assistenza dei difensori di fiducia già nominati (Avv. Luca Cianferoni per il Ruocco e Avv. Traversi e Filastò per lo Spezi).

Che il magistrato perugino ci tenga proprio a invitarmi è sottolineato, appena sotto, da una frase non male per involontario umorismo. Il piemme, infatti, mi «avvisa che in caso di mancata presentazione, senza che sia stato addotto legittimo impedimento, potrà essere disposto l'accompagnamento coattivo…» Come se fossi libero di decidere se accettare o meno.

Ma c'è, nell'ultima pagina, quando ormai timbri e firma sono stati apposti, una frase scritta a mano quanto mai significativa, una frase che indica un ripensamento, o, meglio, un rimediare all'ultimo momento a una dimenticanza che potrebbe essere antipatica per la Giustizia italiana, almeno sul piano dell'immagine.

«Si dispone – scrive Mignini con la sua penna –, sin da ora, la traduzione dei detenuti, Mario Spezi e Ruocco Luigi, senza manette ai polsi ed evitando l'esposizione al pubblico…»

Che la disposizione non sia presa per Ruocco è freudianamente indicato dal fatto che Mignini, ignorandolo come persona, per indicarlo ha scritto prima il cognome e poi il nome; che il vero oggetto dell'attenzione sia io, è svelato dall'inconscio rispetto di nominarmi come un "cristiano".

La disposizione dell'ultimo minuto è presa perché, per accettare il suo "invito", dovrò uscire allo scoperto, dovrò scendere da un cellulare e salire gli scalini che portano all'ingresso della procura tra due ali di fotografi e telecamere che, senza quel ripensamento, rischierebbero di mandare in giro dappertutto la fotografia in catene dell'unico giornalista arrestato in Occidente tra i centoventuno che nel mondo sono rinchiusi in una galera.

Perché questo scrupolo, se Mignini sostiene di avermi mandato in cella non come giornalista?L'idea del confronto, richiesto a quanto pare dall'avvocato Luca Cianferoni, legale di Ruocco, mi

si presenta oscura, incomprensibile. Ma, anche se non lo capisco subito, un senso deve averlo. Non so qual è; penso solo che potrebbe essere una trappola per me.

Che interesse, infatti, avrebbe Ruocco a chiedere di mettersi in contraddittorio con me, visto che non lo accuso di niente? E che cosa vuol negare di quello che io ho detto, visto che, a sua volta, non mi accusa di niente?

Lui ha detto che mi ha raccontato tutte balle per prendermi qualche decina di euro? E va bene, pazienza, sono stato un ingenuo. Ma che c'entra un confronto?

«Un confronto – mi disse una volta Sandro Traversi – è quasi sempre negativo per le due parti: nessuno, infatti, riesce a convincere pienamente il giudice che, così, avrà dubbi sulla sincerità di entrambi. I confronti, sono da evitare».

Se è così, perché un avvocato come Luca Cianferoni lo ha richiesto?Di sicuro, mi dico, non è stato Ruocco. E non solo perché lui lo sa che non abbiamo da

confrontarci su alcunché, ma anche perché di certe pratiche legulee non è così pratico.Domenica mattina l'avvocato Cianferoni, minaccioso, aveva dichiarato sul «Giornale»: «Ruocco

è stato usato, ora deve confrontarsi con Spezi».Se, allora, l'iniziativa è tutta dell'avvocato, è chiaro che lo ha fatto perché è convinto, come è

giusto che sia, che il confronto potrà tornare utile per ottenere la scarcerazione del suo assistito. Ma chi e che cosa può avergli dato questa convinzione?

Probabilmente il fatto che «Ruocco Luigi» a Mignini, come imputato, non interessa per niente, mentre «Mario Spezi» interessa e come.

Insomma, sarà un caso, ma mi pare chiaro che in questa circostanza l'avvocato Cianferoni e il piemme Mignini si trovano alleati. Almeno oggettivamente. Ai miei danni.

Leggo l'"invito" di Mignini a Motorola e gli espongo i miei dubbi e i miei interrogativi. Lui non ha esitazioni: «Embe'? Me pare chiaro! Che te dicevo? Er giudice j'ha fatto capi' che se er suo diceva quarcosa che t'incastrava, jelo metteva fuori. E l'avvocato l'ha capito. Fanno così, Mario! Damme retta, ché lo so bbene. Ahò, io so' andato dentro la prima volta che c'avevo quindici anni.

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Fanno così! Vuoi vedere che il piemme darà parere favorevole alla scarcerazione di Ruocco e alla tua no? Quanto ce scommetti?»

Non replico a Motorola, non gli sto a dire che è pieno di prevenzioni verso avvocati e magistrati, che, oltretutto, io e Cianferoni abbiamo ottimi rapporti personali.

Provo a rimettermi al tavolo e riprendere il mio "diario", ma riesco a scrivere solo poche righe. È più difficile con qualcun altro che ogni tanto ti interrompe e oggi Motorola è un po' in crisi e ripercorre a voce alta il suo processo che termina regolarmente con la promessa che «tanto a quella je stacco la capoccia».

Alle sette e mezza accendo la tivvù, per guardare il tiggì umbro e sentire se c'è qualcosa che mi riguarda. E dalla prima notizia mi vengono i brividi. È una bufala, lo capisco dalle prime parole, ma mi fa paura lo stesso, ché quest'inchiesta è piena di bufale, ma di danni ne ha fatti tanti lo stesso. Racconta il cronista televisivo perugino che in procura si sono ricordati di quel cadavere che se ne sta in frigo all'obitorio dal 1982, perché non si sa bene chi sia e nessuno lo ha richiesto. Pare che fosse un operaio sudamericano che qualcuno accoppò fracassandogli il cranio. «Vuoi vedere – si devono essere detti a Palazzo di Giustizia – che proprio quello fu usato nell'ottobre del 1985 per la sceneggiata del doppio cadavere che doveva servire a nascondere l'omicidio di Narducci?»

Peggio: è stata un'idea, a quanto scrivono i colleghi, dei redattori perugini della «Nazione» che, dopo avere frugato nei propri archivi fotografici, sono corsi in aiuto del piemme Mignini arruolandosi come volontari nella sua squadra di polizia giudiziaria. La solita Pontini e il suo "allievo" Pierpaolo Ciuffi rivendicano orgogliosi: «La svolta potrebbe essere in quelle foto uscite dall'archivio della «Nazione». Una comparazione che non lascia indifferenti. La chiave di volta di tutta l'indagine?»

Sognando di avere trovato la soluzione del caso, Erika Pontini e con lei il piemme Giuliano Mignini e il commissario Michele Giuttari, si lanciano nella spericolata tesi secondo la quale i satanici mandanti dell'uccisione di Francesco Narducci, tra i quali il sottoscritto, avendo bisogno di un cadavere di riserva da far ripescare al posto di quello del medico, avrebbero mandato qualcuno all'obitorio a prendere il sudamericano, che se ne stava lì inutilizzato, e lo avrebbero buttato nel lago Trasimeno, certi di far passare un morto con la testa spaccata in due per un morto affogato.

E questo sarebbe il nuovo inizio della sceneggiata del doppio cadavere, una pochade che nemmeno i Marx Brothers sarebbero riusciti a immaginare.

«L'omicidio – si legge in un testo di Mignini – è stato eseguito allo scopo di conseguire per sé (Spezi, n.d.r.) e per i concorrenti nel reato l'impunità di altri reati, vale a dire dei duplici omicidi di coppie appartate in auto, già attribuiti al "Mostro di Firenze"».

Il povero Narducci, insomma, membro anche lui della misteriosa quanto potente setta di Vip satanisti, anzi, «custode dei macabri feticci», avrebbe avuto alla fine qualche dubbio morale e avrebbe minacciato, incautamente, di sputtanare tutti i soci. Che, allora, decisero di farlo fuori. Ma, noblesse oblige o «sennò è troppo facile e tutti lo saprebbero fare», gli «eccellenti mandanti dal volto coperto» studiarono il più arzigogolato assassinio che si ricordi, fregandosene, forse per amore del beau geste, della più elementare regola alla base di questo genere di attività: limitare al minimo le persone a conoscenza del delitto ed evitare, soprattutto, gente delle forze dell'ordine.

Così, secondo Mignini e Giuttari, si svolse l'omicidio: i killer, presi a prestito dalla Mafia grazie alle conoscenze dell'avvocato Luca Cianferoni, un ragazzo molto precoce, visto che all'epoca aveva circa dieci anni, con un pretesto attirarono Narducci sull'isola Polvese in mezzo al Trasimeno. Lì lo strozzarono, spezzandogli però una cartilagine dell'osso del collo e, comunque, lasciando qualche segno compromettente. Per non fare scoprire l'omicidio durante l'autopsia, pensarono di sostituire il cadavere del medico con un altro. E, allora, grazie alle complicità del questore e del comandante dei carabinieri di allora, dell'avvocato della famiglia del morto, del padre e di un fratello di Narducci, di un medico legale, di qualche infermiere e almeno un paio di portantini, di autisti di carri funebri e ambulanze, nonché, si presume, di qualche addetto alle salme, prelevarono il corpo del sudamericano dimenticato e lo gettarono in acqua, non lontano dal pontile di Sant'Arcangelo, non trascurando di ancorarlo saldamente al fondo, perché non emergesse. In un passo, a dire il vero, poco chiaro il piemme Mignini spiega poi che «passati i cinque giorni canonici», il cadavere fu

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fatto riemergere. Ecco, qualcuno, come il mio avvocato Nino Filastò, si è chiesto: che cosa sono «i cinque giorni canonici»? Insomma, qual è il canone, o regola, in base al quale il cadavere di un assassinato deve riemergere dopo cinque giorni? Perché non sei? O quattro?

Il dottor Mignini, probabilmente per ragioni di riservatezza, ha evitato di spiegarlo, lasciando in molti una grande curiosità.

Comunque sia, sempre secondo la ricostruzione del magistrato e del poliziotto Giuttari, fu l'avvocato della famiglia Narducci, digiuno fino ad allora di immersioni subacquee, a essere incaricato di disincagliare il corpo del medico. Il bravo legale andò, allora, in un negozio di articoli sportivi e comprò tutto l'occorrente, muta da sub, bombole, pinne ed occhiali. Si immerse e sganciò dal fondale il cadavere. Che finalmente fu ritrovato.

Sul molo accorse una dozzina di persone, tra le quali anche il medico legale e, seguendo i due autori della ricostruzione, o nessuno si accorse che il morto ripescato non era Narducci o tutti erano d'accordo e facevano parte della messinscena.

Da non troppo lontano un fotografo immortalò la scena. Quasi venti anni dopo qualcuno tra gli investigatori ebbe la geniale idea di controllare, prendendo come punto di riferimento la larghezza di una delle doghe di legno del pontile, quanto era alto, o lungo, visto che era sdraiato, il corpo riemerso. Naturalmente su quello che si vedeva nella vecchia fotografia. I periti della procura stabilirono che era più corto di una decina di centimetri rispetto a Narducci e che quindi non poteva essere lui.

Con due domande, di non poco conto, rimaste senza risposta e che nessuno fece loro. La prima: un cadavere a mollo cinque giorni subisce notevoli deformazioni, ma soprattutto, non se ne sta dritto come uno stoccafisso, anzi si piega ad arco e così si irrigidisce. I periti, allora, hanno calcolato anche di quanti gradi era la piegatura di quel corpo?

La seconda: per calcolare così precisamente quanto era lungo quel cadavere sulla base della larghezza delle doghe su cui era adagiato, bisognava essere certi che fosse a quelle perfettamente perpendicolare. Uno spostamento anche solo di una frazione di grado avrebbe cambiato il dato di parecchi centimetri. Doghe e cadavere erano perpendicolari?

Ma la sceneggiata non era giunta ancora al suo finale. Per Mignini e Giuttari la "cupola" satanica fece passare il sudamericano per il gastroenterologo perugino, per ingannare i periti che avrebbero fatto l'autopsia e, poi, avrebbero rimesso i due cadaveri ai loro posti: uno, nella cella frigorifero dell'obitorio, l'altro dentro la cassa con il suo nome. Fine.

Ma perché tutta questa sceneggiata? Per ingannare i medici legali che, sicuramente, hanno pensato gli investigatori, non si sarebbero accorti che l'affogato loro proposto era invece andato all'altro mondo per cranio fratturato.

Bene, ma, allora: perché i soliti "satanisti" Vip si diedero tanto da fare e riuscirono a ottenere che l'autopsia sul cadavere di Narducci, o di chi fosse, non venisse fatta?

Insomma: la sceneggiata non aveva alcun senso. Passione per il beau geste, come si diceva, e in fondo, i satanisti devono essere un po' strani, sennò che satanisti sono?

«La Nazione» del 22 aprile è orgogliosa dello scoop, capace di chiudere per sempre le sbarre alle mie spalle, e in prima pagina, ricostruendo anche a colori una copertina dei vecchi Gialli Mondadori, annuncia. «La rivelazione. Mostro di Firenze, svolta nelle indagini sull'omicidio del medico perugino – Due cadaveri per un giallo».

Il giorno seguente il giornale offre ampio spazio al commissario Michele Giuttari, il "superpoliziotto", uno che probabilmente non apprezza l'humour dei fratelli Marx, e che salta allora felice in sella alla nuova patetica ipotesi investigativa: «Sì, stiamo lavorando sulla morte di quest'uomo avvenuta nell'82 e ci sono elementi molto interessanti, che possono condurre a qualche cosa di concreto… Credo che sul fatto che il cadavere ripescato non fosse Narducci non ci siano dubbi… Adesso, alla luce di questi fatti nuovi, si potrebbe avere un ulteriore momento di chiarezza».

«Quella che ci aspetta. Da anni», conclude l'articolo, con cipiglio severo, Pier Paolo Ciuffi.La bufala vivrà sulla carta per un paio di giorni. Poi scomparirà, senza chiedere scusa ai lettori.

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24

Passa lento il tempo fino al giorno del confronto, il lunedì 24 aprile.La mattina, Motorola fa il caffè per tutti e due, ché ha capito subito che ho il risveglio diesel.

Durante il giorno, sono io l'addetto alla macchinetta e la sera il mio compagno diventa cuoco. Abbiamo comprato una pentola, la pasta, del pomodoro e anche delle salsicce per fare il sugo. Quando il pranzo è pronto, spostiamo il tavolo al centro della cella e, così, mangiamo seduti uno di fronte all'altro.

La televisione o è spenta o è a volume basso su Mtv. Ci sgranchiamo a turno le gambe, facendo gli otto piccoli passi della cella in su e in giù. Mentre uno cammina, l'altro se ne sta sulla branda con i suo pensieri.

Alle quattro i detenuti che lo vogliono, possono riunirsi in una sala, regolarmente chiusa con delle sbarre, destinata alla "socializzazione". Il problema è che è proprio di fronte alla mia. C'è un calciobalilla che fa un gran fracasso sottolineato dagli strilli in arabo dei giocatori; ci sono un paio di tavolini per giocare a carte e c'è una televisione a tutto volume.

La prigione di Capanne è dotata di un campo di calcio, di una palestra e anche di una biblioteca. Ma le due attrezzature sportive sono chiuse per tutti quei ragazzi detenuti; in biblioteca, dove ho chiesto di andare, se non altro per fare qualcosa, non mi ci porteranno mai.

Alle sei torna la calma e cominciano i saluti delle donne, tutti i giorni. Il loro padiglione è lontano circa duecento metri dal nostro, non le puoi neanche riconoscere. Ma ogni sera, alla stessa ora, e per circa trenta, ininterrotti minuti, le donne sventolano dalle finestre i loro indumenti, soprattutto reggiseni e mutandine purché colorati. È una strana solidarietà, ma anche, mi spiega Motorola, un modo di comunicare con i loro uomini in galera. È uno spettacolo sorprendente e quasi ipnotizzante.

Stiamo svegli, fino a quando passa la "terapia". A me danno la mia solita medicina, quasi tutti gli altri, Motorola incluso, prendono delle gocce per tentare di dormire.

Il sabato 22 rivedo finalmente Myriam, che mi porta il cambio degli abiti e un libro, rilegato in brossura ovviamente, per potere passare, Don Chisciotte, che, però non riesce a superare, per oscuri motivi, i severi controlli di Capanne. Qualche giorno dopo, comunque, ne avrò una copia che una cortese addetta alla misteriosa biblioteca del carcere mi farà avere.

Io e Myriam parliamo di nuovo con la mano nella mano, sappiamo che il Tribunale del Riesame ha fissato l'udienza per il 28 e questo vuol dire che, se andrà bene, tra una settimana sarò libero. Le dico che questa volta il mio daimon mi ha fatto immaginare il ritorno a casa e mi ha fatto sognare a occhi aperti le prime cose che farò: passeggiare con lei in centro, tra la gente; sedermi al tavolino di un caffè; poi prendere un bagno molto caldo, con le luci basse e le Variazioni Goldberg nel giradischi; cenare con del buon pane, una scelta di ottimi formaggi, finire con uno zuccotto morbido al punto giusto. Infine andare a letto tra lenzuola fresche e addormentarmi con Balou, il vecchio, caro certosino sui piedi, per poi andare alla stazione a prendere e ad abbracciare Eleonora che torna da Praga.

Parliamo e ho una strana, inspiegabile sensazione: il tempo non passa, sembra troppo lungo, mi sento a disagio e anche se me lo tengo per me, vorrei tornarmene in cella. Quasi mi vergogno di questi sentimenti e vorrei trovare una spiegazione.

Quando sono di nuovo con Motorola, vengo ripreso, come dopo il primo colloquio con Myriam, da un torpore che mi impedisce quasi di pensare. Mi butto sulla branda e solo dopo parecchio scambio qualche parola con il mio compagno. Gli parlo di questa inspiegabile abulia che mi assale dopo ogni incontro con mia moglie.

«Ah – fa Motorola –, succede a tutti. È sempre così dopo un colloquio. È il giorno peggiore».La risposta un po' mi tranquillizza, ma mi chiedo: perché è così?

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Non lo so se anche in questa faccenda il mio daimon ci ha messo lo zampino, ma la risposta la trovo quella sera stessa, leggendo al tavolino, sotto la piccola luce a muro, un racconto di Capote. Apro il libro a caso e casco su Una chitarra di diamanti, roba del '49.

Si parla di una prigione, guarda caso, e di un tipo che ci sta da un casino di tempo. In qualche maniera è riuscito a sistemarsi qualcosa che somiglia a una vita, lì dentro, e gode del rispetto degli altri detenuti. Poi, un giorno, arriva uno nuovo, un giovanotto con la faccia da schiaffi, ma simpatica, uno pieno di ottimismo, che in galera si è portato anche una chitarra tempestata di brillanti. Falsi, ovviamente. La suona bene e canta e, così, piano piano la simpatia degli altri detenuti passa dal vecchio al giovane che, da una parte, ne soffre, dall'altra non sfugge al fascino di quel bellimbusto. I due, anzi, fanno anche amicizia, fino a che il giovane propone al vecchio un piano per evadere e per convincerlo gli ricorda quello che ritroverebbe fuori dal carcere.

Il vecchio ci sta e un giorno, mentre lavorano nei campi, tentano la fuga correndo lungo il letto di un ruscello quasi secco. Le guardie se ne accorgono e li inseguono. Il giovane ce la fa; il vecchio inciampa, cade e viene riacciuffato.

E torna nella prigione, che non è più come prima, ma molto, molto più triste.Così Truman Capote spiega la tristezza del vecchio, e con la sua, la mia: «Fino a quel momento

non era stato solo. Adesso, riconoscendo la propria solitudine, si sentiva vivo. E non voleva essere vivo… poi, il mondo».

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Sei un bastardo preso dall'accalappiacani, ma la gabbia per il quadrupede è molto, molto più grande di quella in cui rinchiudono te. Se, come me, finisci dentro un cellulare. Sono seduto su una sedia dura inchiodata al pavimento di metallo. La parete a destra è tutta di ferro, di un blu quasi nero, senza finestrini, come quelle di dietro e davanti, contro la quale devo schiacciare le ginocchia. Quella a sinistra è una lastra di metallo a piccoli fori. Al di là vedo due agenti di custodia, il basco celeste in testa, seduti, loro, su poltroncine imbottite. Lo spazio in cui mi hanno rinchiuso è più o meno novanta centimetri per novanta. Nelle curve devo puntare le spalle a destra o a sinistra, per non sbattere contro il ferro.

Il viaggio da Capanne alla procura di Perugia, solo una ventina di chilometri, sembra lunghissimo: sto vivendo una delle esperienze più umilianti. Chiuso in quella scatola di ferro, sono un essere al quale è stato tolto tutto, anche lo stato di uomo. Sono un animale incapace di qualsiasi cosa e vivo solo perché qualcuno mi getta da mangiare. Tra poco mi mostreranno ai curiosi per passione e a quelli per mestiere. Il tempo di un'occhiata e di un paio di scatti e, poi, sarò rinchiuso di nuovo.

Niente ferri ai polsi, ché io, paradossalmente, sarei più pericoloso con le manette.È lunedì 24 aprile, il giorno del confronto richiesto dal legale di Luigi Ruocco, l'avvocato Luca

Cianferoni. Il cielo è blu, il sole fa il suo dovere; una perfetta giornata di primavera. Ma il mio animo è scuro: sento che mi stanno portando verso una trappola. Devo stare molto attento, devo essere molto presente, non lasciarmi sfuggire alcun particolare, se voglio evitare di cascarci.

Stringo le mascelle, quando mi fanno scendere dal cellulare e le due guardie ai lati mi tengono per le braccia.

«Non stringete troppo – sibilo –, tanto non scappo, fumo troppo».Quei due mi fanno percorrere i pochi metri fino agli scalini che introducono alla procura a passo

di bersagliere, ma non possono evitare gli obbiettivi dei fotografi e le telecamere. Guardo davanti a me, non cerco nessuno con gli occhi. Poi, proprio quando sto per entrare, sento alla mia destra un «ciao» dolce e triste. Mi giro appena in tempo per vedere il bel viso di Antonella Mollica del «Giornale» che mi sorride. Si è messa lì non per strapparmi una frase a effetto da sfruttare nell'articolo che deve scrivere il pomeriggio, ma solo per salutarmi, per farmi sentire meno solo. Rispondo con un identico «ciao», ma non so se lei ha potuto sentirlo.

La stanza scelta per il confronto non è molto grande. Il piemme Mignini è seduto alla scrivania e non guarda mai negli occhi, come sua abitudine. L'uditore "venuto dal freddo" o dalla Santa Inquisizione gli è accanto. Sull'altro lato un carabiniere in borghese addetto alla registrazione di quello che sarà detto. Dietro è l'ufficiale dei carabinieri con i capelli arancioni. Davanti al magistrato, seduto su una sedia, è Luigi Ruocco, chiuso in se stesso e nella solita tuta nera e rossa. Tra me e lui, che sono quasi di fianco a Mignini, si installa Sandro Traversi, mentre Nino Filastò si mette alla mia destra. Dietro a Ruocco, quasi sullo sfondo, vedo l'avvocato Luca Cianferoni, sul viso l'espressione di chi sta per partire alla conquista della Polonia.

E siccome è Ruocco che ha chiesto il confronto, sta a lui parlare per primo. E debutta in perfetto "stile Mario Merola", la voce napoletana quasi sopraffatta dal pianto, le lacrime che stanno per sgorgare copiose dagli occhi chiari. Il tema che ha scelto per la sceneggiata è un classico: i figli, che si sa, «so' piezz 'e core».

Con un tono basso comincia ad accusarmi di avere strumentalizzato sua figlia Veronica e la malattia di cui ha sofferto per…

Lo interrompo bruscamente, con voce decisa, forse tagliente. Ci ho messo qualche secondo per riprendermi dalla sorpresa, poi un velo rosso sangue mi è sceso davanti agli occhi, ché io le sceneggiate napoletane non le sopporto neanche a teatro. Gli dico di smetterla subito con quella

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storia, di non tirare in ballo, lui, la figlia che mi sono limitato ad aiutare scrivendo un importante servizio per il settimanale «Gente» per il quale lui, la moglie e il loro avvocato non finivano di ringraziarmi; che sfruttare una situazione penosa come è stata quella, non mi sembra serio; e che, comunque, non ha niente a che vedere con questa storia e lui lo sa bene. Decido di prenderlo in contropiede su un punto che, a torto o a ragione, ritengo debole in un meridionale: l'onore, la parola data.

«Se mi sono rivolto a te per avere delle informazioni, è perché tua moglie mi aveva assicurato che mi potevo fidare, che sei un uomo d'onore. Complimenti! Che uomo d'onore!»

Non me ne accorgo, ma, lo scriverà lui stesso qualche giorno più tardi, il piemme Mignini sobbalza sulla sedia nel sentire le mie parole. «Uomo d'onore»? Spezi ha detto «uomo d'onore»? Incredibile! Peggio: spaventoso!

«Spezi – sosterrà cinque giorni più tardi Mignini davanti ai giudice del Tribunale del Riesame – è nato nel Centro Italia, è sempre vissuto in queste regioni: eppure sono sobbalzato sulla sedia quando ho sentito che usava quell'espressione tipicamente siciliana».

Che cosa Mignini vorrà dire con questo? Che io uso quell'espressione perché tra le mie amicizie devono per forza esserci dei mafiosi? Che chi è siciliano è mafioso, sempre e comunque?

Poi mi ricorderò che, stando a lui e al commissario Giuttari, che danno credito all'indimenticabile "rivelazione" Rizzuto, io avrei assoldato come killer del medico Narducci due fratelli siciliani, ergo mafiosi, ergo assassini. Anzi, addirittura li avrei assunti grazie ai buoni uffici proprio dell'avvocato Cianferoni, che all'epoca aveva dieci anni e che adesso assiste Ruocco in questa stanza.

Ecco, quindi, perché, per Mignini, io dico «uomo d'onore»!Mica perché la stessa espressione l'aveva usata Antonella, la moglie di Ruocco, siciliana, ma per

niente mafiosa, anzi persona molto perbene.Mica perché ormai, tra film, televisione, libri e giornali, quelle parole sono diventate un modo di

dire comune.No: per Mignini uno che dice «uomo d'onore» è contiguo ad assassini della Mafia e almeno un

avviso di garanzia se lo merita. Ecco che usare quell'espressione è, per Mignini, la prova che io ho assoldato due killer siciliani! E io, scioccamente, preso dalla foga del confronto con Ruocco, mi sono tradito, proprio davanti a lui.

Parola di Giuliano Mignini, magistrato in Perugia.Mi sento male a pensare che l'inchiesta sul Mostro e quella parallela sulla morte di Narducci

sono state costruite con questi criteri.Chissà che cosa il pubblico ministero avrà pensato di Shakespeare, o del suo traduttore, quando

lesse, se lo ha mai fatto, il Giulio Cesare, là, dove fa dire ad Antonio che «eppure Cesare era uomo d'onore»?

Che il «bardo di Stratford-on-Avon» fosse in realtà il contatto inglese di una cosca del Trapanese?

Comunque, Ruocco abbandona la sceneggiata, le lacrime tornano indietro, al loro posto, il cuore si ricompone e la voce si ricompatta. Nega di avermi mai parlato di aver visto in quel casolare abbandonato dalle parti di Limite sull'Arno armi e scatolette di metallo. Di queste cose, dice, lui non ha mai parlato né sentito parlare. Sono solo affari miei.

Prima che riesca a replicare, interviene martellante e allo stesso tempo incisiva come un trapano, la voce dell'avvocato Cianferoni. Si rivolge direttamente a me e il suo tono potrebbe far paura a un bambino, ché sembra mi voglia inchiodare alle mie sconvolgenti responsabilità.

La mia bocca resta aperta, ma adesso per lo stupore. Devo controllarmi per non ridere: ma non è quell'avvocato lo stesso uomo che, solo poche settimane prima, ha partecipato, proprio seduto accanto a me, a due o tre cene offerte da Antonella, la moglie di Ruocco, per festeggiare la causa che avevano vinto? Ma non è lo stesso che mi invitava nel suo studio perché aveva da darmi materiale per articoli? Non è con lui che scherzavo la sera che aveva portato al ristorante anche il suo bambino e ci divertivamo a fare tante fotografie?

Riesco a trattenere la risata, anche perché di colpo mi è chiaro il motivo del confronto e il sangue mi sale alla testa: scaricare su di me, solo su di me, la storia delle armi e delle sei scatole di metallo

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viste in quella catapecchia che avrebbe dovuto essere usata da un gruppo di sardi. Se fosse stato così, allora avrebbe ragione Mignini: quella faccenda me la sarei inventata io, che quella roba adesso nascondo chissà dove.

Però, che sia così, o che anche armi e scatolette siano un'invenzione di Ruocco, la sua posizione non cambierebbe di un grammo. Se, poi, Ruocco, avesse confermato di essersi inventato anche quelle, andrebbe bene a lui, ma anche a me.

Invece non deve andare così. Ed eccola, allora, la vera ragione del confronto: non alleggerire la posizione del piccolo pregiudicato campano, ma appesantire la mia.

Replico secco all'avvocato Cianferoni: «Ruocco non mi disse di avere visto, lui, armi e scatole. Mi disse che a lui lo aveva riferito un certo Ignazio, 'Gnazio anzi, che le aveva vedute. Mi sono inventato anche questo Ignazio? Non è così, Ruocco?»

Il campano bofonchia qualcosa, nega di conoscere un qualsiasi Ignazio, nega che uno con quel nome gli abbia riferito alcunché.

Lo interrompo di nuovo: «C'era anche tua moglie quando me ne parlasti. Posso capire che ti scoccia che i tuoi amici vengano a sapere che andavi a raccontare in giro quello che ti dicevano su armi e nascondigli, ma c'è chi può confermare».

L'avvocato Traversi che, come sua abitudine, se ne era rimasto, almeno apparentemente, freddo e impassibile, aspettava proprio quella frase di Ruocco su Ignazio. Apre un fascicolo sulle sue ginocchia, cerca una pagina e quando la trova chiede con voce cortese e suadente: «Mi scusi, signor Ruocco, ma leggo qui, in una sua deposizione, che lei disse e fece mettere a verbale che conosceva un tale Ignazio, amico dei sardi che, allora, avevano una casa dalle parti di Settimello. Sono sue queste parole, oppure di qualcun altro?»

Centro!La stoccata è di quelle che abbattono un toro, ma la corrida nell'ufficio di Mignini continua. Il

magistrato che ha creduto di avere ricevuto, magari passata sotto il tavolo, la carta vincente non si vuole arrendere. La sua è giustizia creativa: se non ci sono fatti su cui indagare, basta immaginarli.

Ho dentro di me profondo rancore. Ma non contro Luigi Ruocco: lui, questa versione dei fatti, non poteva inventarla e, in fondo, capisco che faccia di tutto per sfilarsi da questa scomoda situazione, perché ha ancora dei conti in sospeso e una nuova condanna glieli farebbe scontare per intero.

All'una decidono tutti di fare una pausa, anche per mangiare qualcosa.Io ho voglia di fumare. Quando esci dalla cella non ti fanno portare appresso né sigarette né

accendini e, il più delle volte, ti perquisiscono. Ho imparato presto a mettermi in una tasca dei pantaloni un pacchetto, semivuoto, e un accendino e fare in modo che vengano sequestrati. Nel taschino della camicia, poi, ho messo cinque o sei sigarette e un altro accendino.

Mi portano al pian terreno della procura, ma, questa volta, non mi fanno uscire dalla porta principale. Mi fanno percorrere un lungo corridoio che sbuca su una specie di piazzetta sul lato destro dell'edificio che è, certo solo per caso, in un inequivocabile stile littorio. Mi fanno attraversare di corsa, quasi sollevandomi, quello spazio vuoto e mi portano dentro al vecchio e decrepito palazzo di fronte che una volta ospitava le vecchie galere.

Da qualche parte un collega che mi vede ma che io non vedo mi grida: «Mario, come va?»«C'è di meglio», rispondo.Mi rinchiudono in una stretta e lunga stanza che era stata il parlatorio e nel mezzo c'è ancora la

grata che divideva i detenuti dai parenti. Muri, sbarre, qualche sedia sgangherata, la rete del divisorio, tutto è ricoperto da un denso strato di polvere grigia, quasi nera che, se non facesse schifo, potrebbe essere raccolta con le mani come lana grezza e non filata. Sul soffitto forma delle corde o delle liane che pendono per alcune decine di centimetri e sono unite da fitte reti di ragno. Non c'è luce elettrica e la sola debole fonte luminosa è la finestra a sbarre che dà su un buio cortile interno.

Il soggiorno qui sarà breve, meno di due ore, ma in compenso sarà una gita nel carcerario vintage, quello dell'Abate Farìa.

Credo che mi porteranno almeno un panino e un bicchier d'acqua, ma mi illudo. Quando chiedo a

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una guardia notizie rassicuranti per il mio stomaco, mi replica meravigliato, anzi sdegnato: «Stasera!» Mi fa, però, la grazia dell'acqua.

Metto in fila tre sedie, così che posso sedermi e allungare le gambe, e mi accendo con soddisfazione una sigaretta. Il secondino sbircia dallo spioncino, vede la mia testa avvolta dal fumo azzurro, ma non mi dice niente.

«Chissà perché – mi dirà Motorola – quelli delle traduzioni so' sempre mejo de quelli drentro. Parono pure umani».

Lo diventano ancora di più al rientro in procura, nelle prime ore del pomeriggio. In attesa della ripresa del confronto, mi parcheggiano, con due di loro, in una piccola stanza adiacente all'ufficio di Mignini. Uno di loro arriva ad offrirmi un caffè dalla macchinetta, mi lascia fumare, scambia un accenno di conversazione.

Veniamo raggiunti lì dentro dall'avvocato Nino Filastò, che ha avuto la premura di portarmi a vedere il mio libro Dolci colline di sangue, anche se non potrò prenderlo con me a Capanne per via della copertina rigida. Per la prima volta l'ho in mano, ne sento il peso, osservo che aspetto ha. Come un padre che vede per la prima volta il figlio appena nato. Mi piace, ne sono orgoglioso. E, comunque, è figlio mio. E di Douglas.

Il libro incuriosisce le guardie che mi chiedono di potergli dare un'occhiata.«Certo. Qui comandate voi». Sono stato stronzo inutilmente. La loro è stata una curiosità gentile.Uno dei due si siede al tavolo, il libro aperto davanti e comincia a leggerlo. La lettura lo intriga e

dice al collega: «Ma questo è davvero interessante, te lo devi leggere pure tu. Io me lo compro, poi lei, Spezi, me la fa una dedica?»

Sorrido più disteso: «Volentieri, ma fuori di qui».Filastò mi ha anche portato l'ultimo numero della rivista «Left - Avvenimenti», che ha me in

copertina, sotto il perentorio titolo: «Fuori il Mostro!» e accanto «Quest'uomo è Mario Spezi. Ha la sua verità su Pacciani & Co. che per i piemme è depistaggio. Tra le proteste della stampa internazionale». Dentro, sei pagine sono occupate da un articolo intitolato «La verità non è un mostro» scritto proprio da Douglas e che termina con orgoglio: «Mario e io non abbiamo alcun potere; noi non abbiamo nessun superpoliziotto che diriga una squadra di detective, non abbiamo nessun giudice, magistrato e pubblico ministero a nostra completa disposizione. Noi siamo solo due giornalisti. Ma abbiamo una cosa in più degli altri: si chiama verità».

Un riquadro mi fa sorridere. Lo firma Fabio Norcini, grande organizzatore di eventi e mostre a Firenze, massimo esperto di fumetti e disegnatori. Il suo titolo, riferito a me, è «Ma è anche un ritrattista ironico e raffinato» e parla con simpatia della mia attività di caricaturista.

Impossibile immaginare in questo momento, tra due secondini, separato da Mignini solo da una parete, con il cellulare blu scuro che mi aspetta per riportarmi in galera, che pochi mesi più tardi, in agosto, proprio Fabio Norcini organizzerà una grande esposizione di mie caricature nel più bello spazio che il Comune di Firenze può mettere a disposizione di un artista, il Forte di Belvedere. E il titolo sarà, ovviamente, Dimostro in mostra…

Quando, finalmente, sono di nuovo in cella, mi sembra di respirare libertà: via dai magistrati, dagli avvocati che vogliono invadere la Polonia, dalle guardie, dalle gabbie metalliche per accalappiacani, dai colleghi che saltellano per un'inquadratura migliore.

Racconto a Motorola, che ne è molto curioso, come è andato il confronto e alla fine mi do un voto sopra la sufficienza. Lui ribadisce beffardo che, se avessimo scommesso, avrebbe vinto: «A' Ma', t'hanno fregato».

La mattina dopo, se potessi, potrei fare una rassegna stampa e arriverei, più o meno, alle stesse conclusioni, che il match, cioè, è stato perlomeno pari. Bisogna tener conto che, per scrivere un articolo, in questi casi il giornalista dipende interamente dagli avvocati delle due parti e dal pubblico ministero, perché l'udienza è stata a porte chiuse. Quindi, fa la media e cerca di avvicinarsi a quanto davvero è successo. E così, per «La Stampa» il confronto «è stato più o meno inutile»; per il «Corriere della Sera», «cinque ore di interrogatori e due di confronto non cambiano idee e teoremi, come dicono gli avvocati di Spezi, e niente è cambiato, le accuse restano in piedi, come sostiene il piemme Mignini»; per «la Repubblica», «il giornalista e Ruocco restano sulle loro

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posizioni»; per «l'Unità», «confronto sereno tra Spezi e Ruocco – I legali: "versioni uguali al 90%"»; secondo «il Giornale», «Il faccia a faccia dopo gli interrogatori – I legali: versioni uguali, dai giudici solo ipotesi».

E finalmente «La Nazione» titola: «Non esiste alcun depistaggio». Dentro al giornale è stata vinta la battaglia dei colleghi che, non solo per simpatia verso di me, ma anche solo per il rispetto della testata, hanno voluto che i servizi sulla mia vicenda si discostassero di più dalla posizione della procura di Perugia. A guidarla in prima fila Stefano Sieni, Leonardo Sturiale, Gigi Paoli e Stefano Cecchi, dietro loro, molti altri. Saprò poi che la loro è stata una battaglia dura, non facile, a tratti anche surreale e che gli ostacoli maggiori venivano, ovviamente, dalla redazione umbra, ma, all'interno della redazione fiorentina, dallo stesso vicedirettore Mauro Avellini, ex capo dell'ufficio di Perugia, un collega che ho solo incrociato un paio di volte, al quale non ho mai parlato, l'unico che, quando farò il mio ritorno al giornale finalmente libero, tra gli abbracci, la commozione, le battutacce, le pacche sulle spalle dei giornalisti e dei tipografi, mi saluterà con un cenno del capo e tirerà dritto. Forse per timidezza.

Ora mi aspettano i giorni più lunghi: i quattro che mi separano dal Tribunale del Riesame. Dalla libertà o dal baratro.

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In questi giorni quello che ormai è diventato "il caso Spezi" dilaga sui giornali, anche sulle prime pagine.

Non conosco il collega Renato Farina, l'ho visto una volta in televisione ripercorrere i luoghi del Codice da Vinci di Dan Brown. Neanche lui mi conosce e lo scrive in "prima" sul giornale di cui è vicedirettore, «Libero». E scrive pure che non sa un tubo del Mostro di Firenze, che non gliene frega niente, ma che dopo avere studiato il caso e interrogato amici cronisti, onesti e fidati conoscitori delle vicende che hanno portato al mio arresto, scrive a chiare lettere: «Il carcere per Spezi è un'infamia».

Il pezzo di Farina ha un titolo amaro: «Il giornalista dimenticato in cella dai giornalisti». Ricordati gli appelli lanciati in mio favore dal «Boston Globe», dal «Washington Post», da senatori americani, organizzazioni internazionali, le loro lettere a Berlusconi, a Prodi, a Ciampi, al CSM, al ministro della Giustizia, Farina deve constatare che nessuno di loro si è mosso. «Però – aggiunge subito – un po' hanno ragione. Vedono l'inerzia dei gazzettieri e pensano tra sé e sé: scioperano per qualsiasi bazzecola, non si è visto un solo Cdr che abbia lanciato un allarme e alzato la voce. Ecco, nel nostro piccolo, lo facciamo qui, noi, ora» L'articolo termina così: «Ci sentiamo tutti, noi giornalisti, oggetto di intimidazione. Siamo vicini a Spezi, e difendendo lui e i suoi diritti di uomo e giornalista, tuteliamo un bene persino più grande di un singolo e di una categoria. Che sarebbe, e scusate se mi scappa la parolina retorica, la libertà di stampa».

Il pezzo di Renato Farina fischia nelle orecchie di parecchi. Subito dopo è Paolo Serventi Longhi, segretario nazionale della FNSI, il sindacato dei giornalisti, a intervenire sul «Corriere della Sera», anche se con parecchia prudenza: «Pur ribadendo fiducia nella magistratura […] rileviamo che in Italia la carcerazione preventiva viene disposta per delitti gravissimi e non certo per i reati contestati a Spezi, la cui colpa maggiore sembra quella di avere scritto libri e articoli che contrastano con l'inchiesta». Serventi Longhi chiede «chiarezza subito […] perché vogliamo essere certi che Spezi non sia accusato per qualcosa che attiene alla sfera professionale, o che riguarda l'indagine che conduce da anni sulla vicenda del Mostro di Firenze. Spezi scava e scavando si trovano verminai. Dovrebbero essere di più i giornalisti che scavano […]».

Dal Canada arriva sulla «Repubblica» l'appello di Gilles Blunt, autore di libri pubblicati anche in Italia, come Quaranta modi di dire dolore e Tempesta di ghiaccio, e mette al corrente il vice presidente del CSM Virgilio Rognoni della sua ripugnanza per il duro trattamento che mi è stato riservato. «Che ne è – scrive – dei diritti civili? La prego di fare il possibile per garantire che il signor Spezi sia trattato secondo i principi della civiltà e della giustizia e non del potere incontrollato di uno stato di polizia».

Poi Farina risponde a Vincenzo Tessandori della «Stampa», che aveva ripreso il suo appello, ma aggiungendo che non è vero che per me nessuno si è mosso: «I presidenti dell'Ordine e del sindacato hanno espresso solidarietà. Ma sono robine. Massimo D'Alema mentre parliamo è in Romagna e a Conselice sta inaugurando un monumento alla stampa clandestina e alla libertà di stampa, magnifico. Nessuno gli ha chiesto nulla di Spezi e lui neanche si è sognato di pensarci».

Il 25 ancora «Libero» pubblica due pagine con l'intera ordinanza del mio arresto. Titolo: «Quel giornalista vada in carcere: scrive cattivi articoli». Sostiene Farina: «Insomma: siccome non si può provare che lo Spezi è il Mostro di Firenze, lo si incarcera per le sue inchieste giornalistiche tese a dimostrare che altri sono i veri mostri di Firenze. Un ginepraio, dove, nel dubbio si sbatte in galera un giornalista».

Alla vigilia ormai dell'udienza davanti al Tribunale del Riesame, al mio diciannovesimo giorno di carcere, "il caso Spezi" raggiunge la prima pagina del «Corriere della Sera» con la firma di Piero Ostellino. Titolo: «Una giustizia senza le prove».

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«La Nazione» ha cambiato toni e le firme sotto i pezzi che si occupano di me sono cambiati. Stefano Cecchi conclude il suo articolo: «Ora serve chiarezza. Al più presto. Alla magistratura farla. Portare prove a sostegno di questo racconto terribile (Le rivelazioni di Rizzuto, n.d.a.). E farlo prima che il fiume di fango, che ha già travolto troppe persone, tracimi e inghiotta tutto. Compreso il buonsenso».

Farina il giorno dopo rilancia su «Libero»:

Ieri sul caso Spezi è intervenuto Piero Ostellino, «Corriere della Sera», prima pagina. Ha definito «mostruosità» un paio di argomenti usati dai piemme e accettati di sana pianta dal gip di Perugia per «irrogare la misura della custodia cautelare» al cronista fiorentino. Deve stare attento Ostellino. Rischia di "condizionare" l'opinione pubblica, dunque di fatto depistare le indagini e danneggiare altri indagati. Non scherzo. Le toghe umbre, dichiarazioni e ordinanze alla mano, potrebbero anche ragionare così. Ho letto i memoriali di accusa e gli interrogatori di un detenuto (peraltro già imputato per calunnia) che accusa Spezi di essere il "mostro di Firenze". Ridicolo.

E il vice direttore di «Libero» affronta uno dei nodi fondamentali del "caso Spezi":

Non riesce ad uscirmi di mente che tutta questa storia sia inquinata da un piccolo conflitto di interessi. Il gip, nella sua ordinanza, non si limita a sostenere che Spezi si accanisce contro le toghe. Include anche gli inquirenti. E tra essi quello che Spezi delegittimerebbe con più pervicacia è il superpoliziotto Michele Giuttari, che si dedica da anni alla caccia del Mostro. Egli è stimato da tutti, e noi ci mettiamo in coda tra gli ammiratori. Giuttari è però anche uno scrittore di successo. Ha scritto proprio sulla materia del suo lavoro: Il Mostro. Anatomia di un'indagine, editore Rizzoli, uscito proprio in coincidenza con quello di Mario Spezi e di Douglas Preston (il giallista americano) e intitolato Dolci colline di sangue, edito da Sonzogno. Giuttari nel suo libro se la prende molto con Spezi. Possiamo dire che delegittima il suo lavoro di giornalista? Spezi a sua volta è durissimo con Giuttari. Chi ha ragione? I magistrati, che lavorano di concerto con Giuttari, hanno scelto qual è il loro scrittore preferito. Ma che gioco è se tra due contendenti uno ha le manette? Alle considerazioni di Ostellino ne aggiungo una. Siamo sicuri che reagire in modo caotico, angosciato e dunque furioso alle accuse, cercando elementi di discolpa sia prova di colpevolezza come dicono i magistrati? Io no. Il gip cita una canzone del noto giurista Renato Zero, Mai dire mai. In soccorso alla mia tesi posso citare Giuliano Vassalli, che è solo presidente emerito della Corte costituzionale, non compone canzoni e non è uno scrittore del livello di Giuttari, però pare sia la massima autorità nel campo del diritto penale. Trovo – studiando la storia dei presidenti della Repubblica – questa sua citazione riguardo a Giovanni Leone, accusato in modo assolutamente infondato di corruzione. Le sue reazioni scomposte proprio dal punto di vista giornalistico (un'intervista all'Ansa) indussero Dc e Pci a chiederne le dimissioni. Scrive Vassalli sul comportamento di Leone: «Gli uomini si agitano di più per le cose false che vengono loro attribuite che per quelle vere».

«La Nazione» pubblica una lettera del mio amico Igino, sacerdote e psicoanalista, l'allievo di fra Galileo, «Mario, la tua fede trascende ogni vicenda umana».

Sono quel che sono, le etichette non mi piacciono, non me ne fido. Cerco verità, questo sì, e sogno anche quella con la V maiuscola. Qualcuno mi ha detto che questa non la trovi da nessuna parte, da questi paraggi, o magari che averla vuol dire cercarla. Non lo so se è così, però io cerco. Non so come questa faccenda, detta altrimenti e peggio, è uscita fuori e qualcuno sui giornali c'ha fatto anche dell'ironia.

Mi sono deciso a scrivere – dice Igino – dopo aver sentito un alone di derisione rispetto all'amicizia con un frate francescano, padre Galileo, deceduto alcuni anni fa, con cui Mario parlava di tutto e naturalmente anche di Dio. Morto padre Galileo, Mario si è rivolto a me che di padre Galileo conosco bene lo spirito per essere stato, lui, mio maestro. […] Ne è emersa un'immagine di un uomo che proprio perché crede nell'esistenza di Dio ha bisogno di cercarlo per "condividerlo" nella sua anima.

A Milano dissotterra l'ascia di guerra la tribù dei giallisti e su Angolo Nero firmano insieme un appello «Andrea G. Pinketts, scrittore e giornalista investigativo, Sandro Ossola, scrittore, Edoardo Montolli, giornalista, Andrea Carlo Cappi, scrittore e traduttore di Douglas Preston, Davide

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Franzini, editore, Paul De Sury, docente universitario, Gian Franco Orsi, già direttore de "Il Giallo Mondadori", presidente dell'AIEP Italia».

Scrivono:

Noi, gruppo di scrittori, giornalisti e lettori con lunga frequentazione di giornalismo investigativo e questioni criminali, apprendiamo con profonda sorpresa dai media delle accuse, che a noi suonano assolutamente inverosimili, di "favoreggiamento" nel caso del Mostro di Firenze, rivolte a un giornalista e scrittore che sappiamo invece essere stato in prima linea fin dal principio nell'indagine sul caso in questione. Mario Spezi ha sempre offerto il proprio contributo all'investigazione, anche se le sue scoperte potevano risultare inaspettate a chi credesse che si fosse già raggiunta una soluzione: ricordiamo che nel 2002, a una puntata del programma RAI Chi l'ha visto, uno dei massimi entomologi forensi europei da lui interpellato ha datato (in modo, ci è parso, pressoché inequivocabile) con ventiquattr'ore d'anticipo il momento del delitto su cui si è basata per anni la tesi Pacciani, tesi che, in base a quella valutazione scientifica e oggettiva, diventava meno credibile. Francamente non pensavamo che in Italia la strenua ricerca della verità potesse essere fraintesa come favoreggiamento dei colpevoli e ci sentiamo vicini a un giornalista di coraggio e di talento come Mario Spezi. Allo stesso modo, pur avendo Spezi pubblicato un libro-inchiesta su Le sette di Satana, non riteniamo che abbia in alcun modo "favoreggiato" nel 1969 Charles Manson e l'assassinio di Sharon Tate. Al posto suo, pensiamo che avremmo fatto lo stesso, senza che questo faccia di noi dei Mostri. Semmai il contrario.

Andrea Pinketts lancia l'idea di una "marcia" dei giallisti sul carcere di Perugia, se l'esito dell'udienza di venerdì 28, dopodomani, sarà ancora la prigione.

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«Ciao Papy,come stai? Almeno così dovrebbero cominciare le lettere».

Per la prima volta da quando sono qui devo soffocare con violenza un'emozione troppo forte. Ma gli occhi mi si velano lo stesso e devo strofinarli con il dorso della mano perché le parole sulla lettera che Eleonora mi ha spedito da Praga si sono appannate.

Me l'hanno data solo adesso, con ventidue giorni di ritardo, e invece mia figlia l'ha scritta subito dopo il mio arresto.

Chissà, forse non avevano afferrato bene quello che avevano letto con qualche dannato scanner. Eleonora usa la penna come un fioretto, meglio, come un incisore il bulino. Il sorriso ritorna, riconosco così bene Eleonora in quelle parole, che mi sembra di averla vicina. Continuo a leggere un'altra pagina, e il cuore si scalda. Troppo.

Mi ci vuole un bel po' di tempo perché il respiro, il battito del cuore e il cervello tornino ai ritmi normali. Lascio che la tempesta passi standomene sdraiato sul letto. Motorola deve avere capito e non chiede niente e non dice niente e non fa neanche rumore.

Quando vede che torno ad alzarmi, scende anche lui e in silenzio comincia a preparare i caffè. Ho voglia, e credo che lui ne abbia diritto, di leggergli qualche frase di Eleonora.

Ascolta serio e, poi, senza alzare la voce: «Tosta. Una che non fa prigionieri, eh? Bel tipo!»Rigiro la busta tra le mani e mi accorgo che sul francobollo ceco c'è il simbolo astrologico

dell'Acquario, il segno zodiacale di Motorola. Lo stacco con delicatezza e glielo regalo: «Prendilo, mia figlia porta fortuna».

Mi sembra di intravedere un'emozione dietro alle sue pupille scure. Dice «grazie», prende il rettangolino di carta e con cura lo va a mettere tra i documenti che ha, tutta roba del suo processo.

Non parliamo più questa sera e lasciamo la televisione, a volume basso, su Mtv. Non accendiamo neanche la luce e con il buio che avanza scivoliamo nel sonno o in qualcosa che gli somiglia.

A metà della notte la discopatia mi frega. Devo alzarmi per andare al gabinetto e, mezzo addormentato, non prendo tutte le lente, precise precauzioni che mi servono per non incastrare un qualche nervo in mezzo alle dannate L5 e S1. Scendo dal letto come uno sano, mi allungo e, senza arrivare a essere diritto, vengo colpito da una tremenda pugnalata alla schiena, giù sotto le reni, dove sono quelle due maledette vertebre. Il dolore è fortissimo e il busto si piega bruscamente in avanti senza che lo possa trattenere. È impossibile anche raddrizzarmi e per il peso sbilanciato crollo sul pavimento, un braccio contro la porta metallica del gabinetto e un fracasso indecente.

Non ho il tempo di realizzare bene quello che è successo, e Motorola con un balzo è giù dalla sua branda, mi afferra per le ascelle e tenta di risollevarmi chiedendomi come sto.

Lo tranquillizzo, gli dico che è solo la schiena, non è niente. Lui aveva pensato a un collasso. Arrivano le guardie, richiamate dal frastuono, accendono da fuori la luce nella cella, osservano dallo spioncino. Le rassicuriamo, spieghiamo loro che cosa è successo, che possono stare tranquille. Continuano per un po' a guardarci, poi, convinte, se ne vanno e fanno tornare, finalmente, il buio.

La luce opaca e svogliata del primo mattino mi trova con gli occhi aperti, i denti stretti e un'idea ben piantata nella testa: non mi va, non mi va giù che la versione che hanno fatto dire a Ruocco possa essere considerata buona. Di quelle armi e di quelle scatole di metallo, bufala o verità, mi parlò lui. E, perdio, ci deve essere un mezzo per dimostrarlo. Ci deve essere, nella versione che gli hanno fatto recitare, un punto debole, una rotellina che non funziona, un trucco. Lo devo trovare, lo devo scoprire. Devo fare in modo che domani, quando davanti ai giudici del Riesame, Mignini tenterà di portare anche questo a reggere le sue traballanti tesi, scopra che si è appoggiato su un

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puntello fragile come lo zucchero filato.Mi alzo, vado al tavolo, preparo un foglio grande e una Bic. Devo mettere sulla carta il filo dei

ragionamenti che farò, non devo perdere un solo passaggio. Meglio abbondare, prima. Poi, dovrò ripulirli di tutto il superfluo, renderli chiari, evidenti. Indiscutibili.

Quindi torno a sdraiarmi, vestito, sul letto e fisso la rete rossa sopra a me. Cerco di far scorrere nella mia mente due film in parallelo: quello dei fatti come si svolsero realmente da quando incontrai Ruocco e quello che gli hanno fatto raccontare al confronto. Se tra i due c'è, e ci deve essere, un'incongruenza, salterà fuori. L'importante è che io resti concentratissimo e dei due film non perda un solo fotogramma.

Non so quanto rimango in questa posizione, immobile. E, poi, di colpo, eccola! Chiara, senza sfumature, ecco la cavolata di cui Mignini non si è accorto!

Salto giù dal letto, mi siedo al tavolino, comincio a scrivere, freneticamente. Scrivo troppo, scrivo in maniera complicata, frasi incidentali, altre tra parentesi, tutta roba inutile. Ripulisco il testo due, tre, quattro volte.

E, infine, ecco, quello che domani dirò ai giudici del Riesame:

Ho la prova – la prova, non un ragionamento – che Ruocco non ha detto la verità quando ha sostenuto che lui non ha mai saputo niente di armi e scatole di metallo. Questa: per potermi ingannare, come lui stesso ha detto, Ruocco ha fotografato con la macchina che gli ho prestato l'armadietto a vetrina che si vede attraverso la porta a vetri della casa adiacente alla sua vicino a Scandicci e non quella del casolare abbandonato a Limite sull'Arno. Ve lo ha detto lui stesso. A me, ovviamente, disse invece che aveva scattato le fotografie laggiù. Orbene, questa è la prova che fu lui a parlarmi dell'armadietto a vetri, perché solo lui – e non certo io – poteva sapere che attraverso la porta a vetri della casa attigua alla sua si poteva vedere un armadio di quel tipo. Per ingannarmi, lui mi ha descritto quello che vedeva a due passi da casa senza dovere andare fino alla villa di Limite. E questa, non essendomi io accorto che mi faceva vedere una casa per un'altra, è anche la prova che io vicino a quella casa abbandonata non sono mai stato.

Dovrei essere soddisfatto, ma non lo sono per niente. Sono preoccupato, o, forse, ho di nuovo paura. Rischio ancora una volta di perdere il controllo della mia moto e quella che devo affrontare domani è una curva maledetta. Lì mi gioco non il Gran Premio, ma il Mondiale. E sui giornali di questa mattina è scritto che Mignini darà parere favorevole alla scarcerazione di Luigi Ruocco. Sono contento per lui, non ha fatto niente di male, ma per me questa non è una buona notizia. Non so se domani sarà l'ultimo giorno in prigione.

Motorola ha vinto la scommessa: qualcuno mi ha venduto.

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La mattina presto mi rimettono dentro la gabbia del cellulare, che stavolta non è l'unica. In questa specie di pullman blindato ce ne sono, una in fila all'altra, quattro. Un canile su ruote. Noi, i prigionieri, ovviamente non ci possiamo vedere. Ci portano tutti al Riesame, tutti con la stessa speranza in tasca. Gli altri tre con le manette, io no.

Stavolta si va nel centro medievale di Perugia, ché il Tribunale è lì, e il furgone si parcheggia con il muso a due passi dalla porta gotica dell'ingresso principale. Saremo chiamati uno a uno per essere giudicati meritevoli di lasciare le patrie galere o tornarci. E, mentre uno sarà davanti ai giudici, gli altri tre dovranno restare nelle gabbie di novanta centimetri per novanta dentro al furgone, che così diventa anche una prigione su ruote.

Un'udienza del Riesame dura poco, tra i venti e i quaranta minuti. Hanno deciso di "fare" prima i miei tre compagni e poi finire con me e con Ruocco, ché discutere e decidere per noi prenderà più tempo. Nessuno, penso, può immaginare che ci vorranno sette ore e mezza.

Attraverso i fori della mia gabbia e, poi, oltre il finestrino del corridoio riservato ai secondini, intravedo un gruppo di colleghi, qualche operatore con la telecamera in spalla, i fotografi. Passanti, pensionati, studenti o donne che vanno a fare la spesa, si fermano incuriositi e chiedono che razza di criminale sta per entrare in Tribunale che merita tante attenzioni. Qualcuno decide che vale la pena di aspettare per vedermi.

Myriam è già dentro, al secondo piano credo, con Nino Filastò e Sandro Traversi, che hanno voluto risparmiarle la scena.

Un'udienza del Tribunale del Riesame è a porte chiuse. Non c'è spazio per il pubblico, per i giornalisti e neppure per una moglie. Dentro, davanti ai tre giudici, saremo solo io, i miei due legali, il piemme Mignini con il suo uditore, il cancelliere e, suppongo, un poliziotto.

Myriam resterà tutto il tempo nel corridoio, seduta su una panca di legno, la maggior parte del tempo assieme ad Antonella Mollica, la collega del «Giornale», che è anche un'amica. Il corridoio è diventato una specie di sala stampa, fitta di giornalisti. Aspetteranno per andare a cercare briciole di notizie e di sensazioni ogni volta che un avvocato o il pubblico ministero usciranno dall'aula magari solo per sgranchirsi le gambe.

E, naturalmente, saranno anche loro, gli avvocati e il magistrato, ad andare incontro ai cronisti per dare ognuno la propria versione di quello che sarà successo nel chiuso dell'aula. Anzi, già prima dell'inizio dell'udienza il piemme Mignini cerca la giornalista Erika Pontini della redazione umbra della «Nazione». Non la vede e chiede dove sia. Si fa avanti una ragazza, gli dice di essere la sostituta, che Erika si è presa una settimana di vacanza. Mignini non nasconde un gesto di delusione e, davanti agli altri sconcertati cronisti, commenta a voce alta: «Proprio oggi doveva lasciarmi solo!»

Sono le dieci e mezza, credo di ricordare, quando mi portano davanti ai giudici. Prima di entrare in aula, ho il tempo di vedere Myriam, di salutarla da lontano, sorriderle e farle coraggio con il pollice alzato.

L'aula è piuttosto piccola, ma luminosa. Subito accanto alla porta, sulla sinistra, è il banco dei giudici, che oggi sono tre donne, tre signore attorno alla quarantina, una forse meno. Anche la cancelliera è una "femmina", direbbe Motorola.

Di fronte a loro, sulla destra è il tavolo per Mignini e il suo "pupillo". A sinistra, ci sono i tavoli per i miei avvocati che sono venuti in forze, Traversi con la giovane avvocato Laura Faggi, Filastò con Massimo Buttarini, un esperto di criminologia. Io devo stare nel mezzo, i miei appunti in mano, su una sedia di legno senza braccioli e senza un tavolo davanti, il più scomodo possibile, insomma.

Non ho ricordi completi di quelle sette ore e mezza, solo brandelli. Rammento vagamente le prime, lunghe e noiose schermaglie procedurali, le eccezioni, sulle quali ogni volta il Tribunale ha

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dovuto "ritirarsi" per decidere. Ricordo che quelle di Mignini, una tesa addirittura a estromettere uno dei miei due avvocati, sono state tutte respinte e questo mi ha fatto sperare nell'imparzialità di quelle tre donne.

Poi ricordo la passione nelle parole di Nino Filastò, uno che conosce come nessuno tutta la vicenda del Mostro e le mostruosità delle indagini, un uomo che ha anche la virtù di indignarsi. Ricordo il viso rosso di Mignini, chino sulle sue carte, mentre la voce toscana di Nino tuona. Ricordo gli occhi sbarrati del suo giovane uditore, forse stupito all'ardire di un avvocato che non fa volentieri ricorso agli eufemismi.

Ho sentito che Filastò citava il nome della Carlizzi, la calunniatrice che si era data la briga di andare fin dentro un carcere vicino ad Avellino per prendere da un detenuto di nome Rizzuto, condannato per calunnia, quella specie di memoriale demenziale, per poi consegnarlo direttamente nelle mani di Mignini. Ho sentito Mignini che mi accusava di essermi dichiarato del tutto estraneo alle vicende del Mostro e della morte del medico perugino Narducci, «perché non ero ancora a conoscenza di quel materiale delicatissimo». L'ho sentito ancora, più che dire, gridare leggendo il suo intervento, invece di parlare a braccio come tutti i suoi colleghi, che in casa mia era stata sequestrata, «occultata dietro a una porta, una pietra satanica che mi ostinavo a chiamare fermaporte». Mi rivedo mentre, sentendo questa assurdità, scuoto la testa e rido nervoso, che quella pietra è uno degli oggetti più comuni che si possono trovare in Toscana, specie nelle case di campagna, e che se la mostri a qualcuno e gli chiedi di dire che cosa è, tutti rispondono inequivocabilmente: «Un fermaporte». Solo per Mignini e Giuttari quella pietra è «una piramide tronca a base esagonale, atta a mettere in contatto il mondo terreno con quello degli inferi» e, quindi, una pesantissima prova contro di me.

Ricordo Mignini che punta il dito contro me, su «un inspiegabile rancore di Spezi verso le indagini» e sulla «gravissima strumentalizzazione a livello di informazione e di coro massmediatico che il soggetto riesce a controllare». Ricordo di averlo sentito gridare: «La questione finita davanti al Tribunale è solo la punta di un iceberg dai contorni terribili».

La presidente del Tribunale non lascia affiorare sul viso alcun sentimento, alcun pensiero, tanto meno un giudizio. Segue attentamente e su dei fogli prende molti appunti, sia che parli un avvocato sia che parli il piemme. Ai suoi lati, le altre due signore in toga sono altrettanto impassibili.

Mi sorreggono i nervi e, probabilmente, ancora di più la rabbia, non certo la colazione che questa mattina non ho potuto fare, perché mi hanno portato via troppo presto. Ma, passata l'una, sento la stanchezza e ringrazio chi ha proposto una pausa per il pranzo. Mi portano in una stanza allo stesso piano e, prima di essere di nuovo rinchiuso, rivedo Myriam e riconosco sul suo viso i segni della tensione, anche se si sforza di sorridermi.

Niente per lo stomaco neanche oggi, neanche la fetta di pane secco che è stato il mio pranzo nei primi giorni. Non deve essere prevista dal regolamento la figura del detenuto in trasferta. In ventitré giorni perderò sei chili.

I cronisti approfittano della pausa per raccogliere da avvocati e magistrato materiale per il pezzo che la gente leggerà domani. E Gigi Paoli della «Nazione» scriverà: «Al centro della battaglia per la remissione in libertà del giornalista c'è l'ordinanza di custodia del gip Marina De Robertis: diciassette pagine, sostiene la difesa, di «insanabile illogicità e contraddittorietà», di «argomentazioni inconsistenti e viziate da pregiudizio» in cui non vi è «alcuna congrua e specifica motivazione che supporti l'emissione di una misura così grave quale la custodia in carcere».

Replica Mignini: un «forte indizio» è il semplice contestare la linea investigativa ufficiale, cercando aiuto in «sprovveduti, frettolosi e incauti sostenitori giornalistici e politici» che prendono per «oro colato» le sue dichiarazioni «intollerabili» e non «articolate e precise» come quelle del supertestimone Rizzuto.

Dice il gip: «C'era un piano di Spezi per far credere che a Villa Bibbiani gravitavano alcuni membri della pista sarda. Ma è stato Ruocco a inventarselo. C'era un piano di Spezi per occultare le famose scatolette nella villa? Ma se le stava cercando. E chi le ha mai viste? Chi ne ha mai parlato o scritto? Spezi, mai. Ah, già. Ma c'è Rizzuto. Quel Rizzuto per le cui parole i gravi indizi di colpevolezza a carico di Spezi sono "pacifici" per il depistaggio e "consistenti" addirittura per il

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concorso nell'omicidio Narducci. Ma da quand'è che le parole di un giornalista che fa il suo mestiere, perché di solo parole vivono queste carte, sono indizi pacifici e consistenti?»

Io, invece, passo il tempo fumando un paio di sigarette che sono riuscito a contrabbandare. Poi si riprende.

E ricordo Traversi che nel suo stile opposto a quello di Filastò, parla dei «barattoli» o scatole «che si sarebbero dovute trovare nella villa, ma che in realtà non esistono da nessuna parte, neanche a casa di Spezi, per cui l'ipotesi dell'accusa non ha alcun riscontro materiale»; che «l'ordinanza di custodia cautelare appare sottendere una visione distorta del comportamento di Spezi, con innumerevoli e ripetute considerazioni di tipo psicologico, prive di rilevanza giuridica»; che «la considerazione che Spezi sia costituzionalmente portato a reiterare i reati richiama concezioni lombrosiane che non dovrebbero ormai trovare posto in ambito giudiziario».

Vedo Mignini alzarsi e uscire nel corridoio, per fare due passi, forse per fumare un po' la sua pipa. Ed è lì, fuori dell'aula, che la mia nordica Myriam supera anche la più passionale moglie partenopea, facendo quasi stramazzare a terra i miei impalliditi colleghi. Loro, ancora pieni di stupore e ammirazione, me lo racconteranno più tardi, naturalmente. Quando, dunque, Myriam vede Mignini passeggiare solo nel corridoio, gli si avvicina alle spalle e, sapendolo molto cattolico, anzi, ipercattolico a quanto si dice, da meno di un metro di distanza, manco fosse una Pupetta Maresca in versione fiamminga, gli dice con voce forte e sicura: «Visto che lei è credente, Dio la punirà per tutto quello che ha fatto. DIO LA PUNIRÀ!»

Dicono poi che il viso del magistrato sia avvampato e che, senza una replica, si sia allontanato, girando l'angolo del corridoio e scomparendo.

Mi dirà poi Myriam: «Avevo paura, avevo sentito Mignini che dentro l'aula urlava, che diceva cose terribili su di te, che eri un criminale. Ho avuto paura che fosse impossibile combattere contro una simile mentalità».

Quando Mignini torna al suo posto, riprende il suo intervento leggendo dodici pagine di quella che sembra una vera e propria requisitoria. Se la prende pure con la mia, per lui, «grande intelligenza, che rende più pericolose le capacità criminali di Spezi» e conclude con una frase che lascia tutti di sasso: «Adesso i motivi per cui Spezi deve restare in carcere sono aumentati. Perché egli ha dimostrato la sua enorme pericolosità riuscendo, anche dal chiuso di una cella, a organizzare una campagna massmediatica internazionale a suo favore!»

Dalla mano della presidente del Tribunale cade sul banco la penna, con un piccolo "toc". Non so se per una leggera distrazione, ma non credo. Comunque, non prenderà più appunti.

«Bene così», mi sussurra Filastò.Alla fine, dopo che tutti hanno parlato, tocca, se voglio dire la mia, a me. Voglio. Mi alzo in

piedi e parlo guardando verso Mignini, che rivolge lo sguardo altrove e non lo dirigerà mai su di me. Ribatto a tutte le sue accuse e, poiché ha tirato in ballo anche la frottola fatta dire a Ruocco nel confronto, posso portare la mia prova che mente, quella per cui ho lavorato in cella. Avere scritto e riscritto la dimostrazione della bugia, aver limato fino all'essenziale le parole, averle concatenate con cura perché fossero le più efficaci è servito. Mi sento parlare sicuro, il ragionamento non si impiglia in nessuna frase e raggiungo l'effetto: «Come può Ruocco dire di non avere mai sentito parlare di un armadietto con sei scatole di metallo dietro a una porta a vetri, se addirittura li aveva fotografati per di più accanto alla sua casa, in un posto, cioè, che io non ho mai conosciuto? Questa è la prova della bugia!»

Sento che le mie parole hanno effetto, che hanno un peso, che rimangono nell'aula e non svaniscono come fumo.

Poi ricordo al piemme che se, bontà sua, ho «buona intelligenza, ho anche migliore memoria» e che posso citargli, passo dopo passo, tutte le frasi che nei suoi documenti sono identiche a quelle scritte, ma mesi prima di lui, dalla Carlizzi nel suo sito delirante e gli chiedo se può spiegare questa singolare coincidenza. Gli chiedo se sa che questa donna è già stata condannata per avere scritto una decina di anni prima che Alberto Bevilacqua era il Mostro di Firenze e che attualmente è sotto processo per truffa e circonvenzione di incapace. «Complimenti a lei che le crede!», non so resistere di gridare a Mignini.

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Poi ricordo di avere finalmente guardato in faccia la presidente e di avere concluso, la bocca secca come un vecchio pezzo di legno, dicendo che «sono solo un giornalista che cerca di fare al meglio il suo lavoro e una brava persona».

L'avvocato Laura Faggi corre a prendere un bicchier d'acqua, ché senza una goccia di saliva, quasi non riesco a respirare. «Sei stato bravissimo», mi rincuora Sandro Traversi.

Non lo so, so solo che sono esausto, sfibrato, con il sistema nervoso disconnesso e, quindi, privo di emozioni.

Mi portano via, ma non ancora in carcere, ché adesso tocca a Ruocco. Non mi riportano neanche nella stanza dove sono stato nella pausa per il pranzo degli altri. Mi fanno scendere con un ascensore nel sottosuolo di quel palazzo medievale. Mi fanno percorrere una serie di stretti corridoi e, infine, mi fanno entrare in una cella, che è solo un cubo vuoto e chiuso da una grande porta a sbarre, per cui sono "a vista".

Non ho niente, neanche una sigaretta. Vado verso la parete di fondo, ci appoggio la schiena e mi lascio scivolare verso il pavimento. Quando sono seduto, con le braccia raccolgo verso il petto le ginocchia e ci poggio la fronte. Forse non penso. Vivo e basta, se questo è vivere.

Non so quanto tempo resto così, a richiamarmi alla realtà è un leggero ticchettio sul ferro di una sbarra. Alzo gli occhi e vedo una delle due guardie che mi hanno portato quaggiù. Non è più giovane, è tarchiato, il viso è sgradevole e ha un forte accento napoletano. Ma sorride e in una mano ha un bicchierino di plastica con un caffè preso da una macchinetta; nell'altra una tavoletta di cioccolata. Pagati con i suoi soldi.

«Spezi, prenda. Mi sembra che ne ha bisogno».Non so il suo nome, non lo saprò mai. Spero che un giorno legga queste pagine, perché sappia

che non lo scorderò facilmente, dato per certo che quel che conta non sono tanto il caffè e la cioccolata.

Che comunque mi rinvigoriscono un po' e mi fanno passare accettabilmente i tre quarti d'ora che dura la seduta per Ruocco. Per lui Mignini, ovviamente, dà parere favorevole alla scarcerazione.

Nella notte mi riportano in cella.Domani, sabato, il Tribunale chiude all'una. È il termine estremo di tempo per conoscere il mio

destino.

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Ci svegliamo molto presto, io e Motorola, questa mattina di sabato 29 aprile, il giorno è ancora incerto, a due sole dimensioni, grigio, senza luci, senza ombre. Sono venuti a prendere il mio compagno, lo riportano al suo vero carcere, quello di San Gimignano. Aspetterò solo la mia sorte.

Motorola ha preparato i bagagli, due grandi sacchi neri per la spazzatura. Le guardie hanno aperto le sbarre, è ora di salutarci. Ci stringiamo la mano, gli dico: «Grazie. Mi sei stato di grande aiuto. In tutti i sensi».

Mi fissa: «Stasera guardo il telegiornale. Voglio sapere come ti è andata. Ricordati di me…»Sorrido, credo: «Come potrei non farlo? Ma se esco, tranquillo: ti mando un saluto in tivvù.

Ciao».«Ciao».Resto solo nell'aria grigia della cella. Devo solo aspettare.Mi fisso un orario limite, oltre il quale non posso più avere una speranza. Considerando che il

Tribunale chiude all'una, ammettendo che un fax, passando di mano in mano, ci metta un po' di tempo ad arrivare in quelle giuste e mettendo in conto che un altro po' ci voglia perché qualcuno venga a comunicarmi la decisione dei giudici, lo fisso all'una e trenta.

Decido di regalare cinque minuti all'imponderabile, alla burocrazia e alla disperazione: l'una e trentacinque.

Dopo, c'è solo il baratro.Poiché è sabato, è anche giorno di visite. Quindi, alle dieci e mezza, se ricordo bene, mi scortano

al parlatorio. Passo davanti alle celle del mio braccio e molti altri detenuti mi chiedono: «Zio, esci?», «Zio, sei fuori?» È simpatia e partecipazione, la loro. Apro le braccia: «Non lo so, per ora vado solo al colloquio».

Non mi sono fatto la barba, per scaramanzia. Un mio tic, in vista di appuntamenti importanti. Myriam, invece, è inappuntabile. Ma è tesa fino all'estremo.

Non parliamo molto, abbiamo una sola cosa da dirci e ce la diciamo prima di lasciarci dopo esserci tenuti la mano per un'ora: «Allora, a tra poco. Fuori…»

Non mi giro a lanciarle un ultimo sguardo, quando esco dalla sala, a segnalarle che sono convinto che non ce n'è bisogno.

Invece, non lo sono per niente e, solo nella cella, sdraiato sul letto, cerco di lasciare scorrere su di me un tempo che non ha suoni, come se fosse immobile.

Myriam, che è arrivata a Perugia con l'avvocato Traversi, torna nel bar che è di fronte all'ingresso di Capanne. Si siede a un tavolino e chiede un cappuccino decaffeinato. Accanto alla tazzina mette il cellulare, che non smette di fissare. Anche lei sa che gli uffici giudiziari chiudono all'una. Anche lei si è data quella scadenza. Traversi l'ha dovuta lasciare sola, perché è andato in Tribunale e la chiamerà appena avrà conosciuto la sentenza. Il barista, che sa chi è, non le dice niente. I giornalisti, che aspettano davanti al cancello del carcere, se ne rimangono fuori ed evitano di avvicinarla. E anche in quel bar il tempo smette di battere.

Millecentottantatré chilometri più in là di Capanne, verso est, in un piccolo appartamento di Praga, Eleonora cerca di fregare il tempo che ha lo stesso, estenuante ritmo di qui. Chiacchiera di altre cose, teatro, marionette, arte, con Martin, uno dei suoi migliori amici. Si preparano un tè, lo sorseggiano lentamente. Fumano.

Io vedo, attraverso le sbarre, le lancette dell'orologio appeso al soffitto del corridoio e si stanno avvicinando pericolosamente all'una. La mia ansia aumenta, fumo una sigaretta dietro l'altra, per un po' faccio su e giù dentro la cella, poi torno a sdraiarmi. Mi rialzo, torno a guardare l'orologio, le lancette che mi sembra abbiano rallentato. Mi ributto sul letto. Mi rialzo. Cammino.

Seduta al tavolino del bar, Myriam continua a fissare il display del cellulare che resta silenzioso

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e immobile. Le segnala solo che ormai anche per lei è l'una. Sente posarsi in mezzo al petto un peso enorme.

All'una e un quarto decido che devo prepararmi al peggio. Devo cancellare dal cervello la speranza, i sogni a occhi aperti dell'uscita dal carcere, dell'abbraccio libero con Myriam, del ritorno a casa, dell'andare incontro a Eleonora che lunedì torna da Praga. Sul letto tento di regolare il respiro, di accettare che resterò un carcerato ancora per lungo tempo. Non ci riesco, non so rinunciare a quel sogno. Scatto di nuovo in piedi, torno alle sbarre, a guardare l'orologio: l'una e venticinque. Dieci minuti al limite massimo che mi sono fissato.

Il cellulare di Myriam continua a tacere. Non la chiama Traversi, ma non la chiama neanche un amico, un mio collega. Lei comincia a tremare: non hanno il coraggio di dirle la verità, pensa.

Come le lame di una forbice, le lancette dell'orologio, ormai stanno per chiudersi sulle due. È troppo, troppo tardi, mi dico. Mi sento un invertebrato, qualcosa di gelido scorre nelle vene. Accendo la televisione sul "terzo". Saprò dal Tg umbro, mi dico, come è andata. Pigio il tasto e non succede niente, lo schermo resta vuoto e idiota. La mia televisione non funziona. E anche questo incidente nella mia testa suona come il tamburo che sottolineava le condanne a morte.

Mi getto sul letto, stavolta a faccia in giù, sulla coperta ruvida. Vorrei piangere e scopro che non ne sono capace. E, di colpo, un urlo. E, poi, un altro, un altro ancora e ancora un altro. Dalle altre celle, dove tutti i televisori sono accesi sul telegiornale, i carcerati gridano a me con i loro accenti di Babele: «Zio, sei libero!», «Zio, esci!», «Zio, ti hanno scagionato di tutto».

Mi ritrovo sui miei piedi, scattato in su neanche fossi un gatto al quale qualcuno ha pestato la coda. Due balzi e sono alla porta, le mani strette alle sbarre: «Ridillo! Riditemelo ancora! Ancora!»

E dal lungo braccio 3B decine di voci entusiaste ripetono forte. «Zio, sei libero! LIBEROOO!»Per l'emozione devo appoggiarmi al letto superiore, la fronte su un braccio, il respiro corto, gli

occhi che mi bruciano. Poi, respiro a lungo, la bocca spalancata, il viso verso l'alto. E mi sento leggero, come mai mi sentirò.

Nel bar di fronte al carcere, anche il peso che opprimeva il petto di Myriam è scivolato via. Con qualche anticipo su di me. Quando all'improvviso si è accorta, gli occhi sempre attaccati al display del cellulare, che lì dentro non c'era campo. Anche lei è scattata, il telefono in mano, ed è uscita di corsa all'aperto. E subito quell'aggeggio ha cominciato a vibrare e a suonare e lei, con la morte in gola, ha pigiato il tasto verde: «Sì…?»

«Fantastico! Complimenti! Abbiamo vinto! Vinto! Su tutta la linea». Era la voce di Stefano Sieni, l'amico e collega della «Nazione», ignaro che Myriam non sapeva niente. E anche lei gli ha chiesto di ripetere, di dire più chiaramente, di sentire di nuovo.

Subito dopo le è arrivata la voce sorridente di Sandro Traversi: «Finalmente Myriam. È tanto che cerco di chiamarti ed eri irraggiungibile…» E poi l'hanno chiamata in tanti e i giornalisti che fino a quel momento se ne erano tenuti a pudica distanza, adesso, il sorriso sulla bocca, le vanno incontro come un pacifico plotone.

Ma le prime parole di Myriam sono per Eleonora. La chiama subito e nel cellulare esplodono gli strilli di gioia che infiammano l'atmosfera di un appartamento di Praga. Laggiù, il tè è presto sostituito con una bottiglia di buon vino boemo, anche l'amica Chiara si unisce alla festa. Ma, come me, come Myriam, anche Eleonora vuole, in qualche maniera, sentire di nuovo la notizia. Corre all'Intemet Café sotto casa e fa il giro dei quotidiani italiani on line.

Sugli schermi della televisione, al Tg3 delle due e mezza, Bianca Berlinguer annuncia finalmente a tutti i miei amici: «Dopo ventitré giorni di carcere il giornalista Mario Spezi accusato di avere depistato le indagini sui delitti di Firenze è tornato in libertà. Lo ha deciso il Tribunale del Riesame».

Più o meno nello stesso tempo, al di là delle mie sbarre prende posizione, gambe larghe, cranio rasato, grande come un armadio, faccia di pessimo umore, un secondino in tuta da combattimento: «Sbrigati, metti tutta la roba dentro a questo sacco».

Mi tende il solito involucro nero da spazzatura, ma a me oggi piace tantissimo. A lui, invece, sembra che, liberandomi, gli abbiano fatto un dispetto.

Butto nel sacco quasi tutto e non dimentico il portacenere fatto con una saponetta e ricoperto di

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carta stagnola. Chiedo alla guardia se posso regalare ai miei vicini il cibo che mi avanza e quello acconsente.

Finalmente apre le sbarre, ma mi blocca sulla soglia: «Prima – mi dice severo – pulisci bene la cella. Poi puoi uscire».

Resto un attimo sbalordito, il labbro inferiore che penzola come a un imbecille. Alzo lo sguardo fino alla sua altezza e lo scruto. No, non scherza. Torna a scendermi davanti agli occhi un velo rosso. Stringo gli occhi e gli punto il dito sul petto: «Tu non hai capito. Io, qui, non sarei mai dovuto venire. Io, qui, ci sono stato illegalmente. Se vuoi, la cella te la pulisci tu!»

Quello fa la faccia da duro. Afferra la porta e me la sbatte in faccia. Gira la chiave nella serratura e chiude: «Se ti piace stare qui, restaci!» E se ne va lentamente.

Spingo la faccia tra due sbarre e gli urlo alle spalle: «Senti, cretino. So anche come ti chiami, se non mi fai uscire subito, ti denuncio per sequestro di persona. Hai capito? Ti denuncio!»

Quello si blocca. Non avrà un QI per andare a Harvard, però la mia minaccia la capisce. Tenta di darsi un atteggiamento indifferente, fa ancora qualche passo verso il tavolo dei secondini, fa finta di guardare qualcosa, poi torna verso la mia cella. Riapre la porta, come se fosse una concessione.

Stavolta mi precede, invece di scortarmi, e cammina veloce. Troppo per me, che arranco con il sacco nero troppo pesante per la mia discopatia e per il mio enfisema. Sbuffando e ansimando arrivo, comunque, al piano terra dove vengo "consegnato" a un'altra guardia carceraria, vestita in maniera meno inquietante e dall'aria più gentile. Quello con gli anfibi e con la "capoccia" rasata mi dice, per regolamento credo, "buongiorno", senza alcuna traccia di augurio. E, allora, mi ricordo la frase che Motorola mi aveva consigliato come risposta quando sarebbe arrivata l'occasione. Sorrido all'ormai mio ex carceriere, gli metto gentilmente una mano su una spalla e guardandolo negli occhi gli dico: «Bene. Io me ne vado. Tu, torna dentro».

Lo so, non è un gran battuta. Anzi, sa di meschineria. Però quello gira i tacchi e se ne torna davvero dentro.

La guardia in tranquilla divisa blu mi riconsegna tutto quello che mi era stato preso all'arrivo, ventitré giorni prima e, poi, mi fa accomodare in una grande e spoglia stanza dalla cui finestra, a quasi duecento metri di distanza, vedo, anzi ammiro, il portone dell'uscita.

«Be', perché? Perché non mi fate uscire?», domando un po' deluso.Quello risponde gentile: «Abbia pazienza. È questione di poco. Le pratiche burocratiche… E,

poi, bisogna sistemare il problema dell'ordine pubblico. Fuori ci sono troppi giornalisti e fotografi…»

Vado alla finestra, ovviamente con le sbarre, mi accendo una sigaretta e tento di sfruttare il tempo dell'attesa per gustarmi meglio il momento in cui varcherò quella soglia che vedo ormai vicina.

La porta alle mie spalle si riapre, mi giro e vedo entrare, anche lui con il sacco di nylon nero, Luigi Ruocco. Hanno scarcerato, ovviamente, anche lui e dobbiamo fare la stessa trafila. Non ci sono più motivi per cui non dobbiamo incontrarci e parlarci. Ci ritroviamo soli e chiusi in questa grande stanza priva di qualsiasi mobile.

Non ho imbarazzo e neanche risentimento. Solo, non so che cosa dirgli. Riprendo a fumare e torno a guardare fuori. Lui si avvicina, mi chiede se ho un accendino. Mi giro e gli accendo la sigaretta. Cominciamo a parlare con qualche frase sbocconcellata, come due sconosciuti che si ritrovano in una sala d'aspetto. Ci lamentiamo dell'attesa, per la quale non capiamo la ragione. Dico: «Problemi di ordine pubblico per troppi giornalisti? Ma chi ci crede? Qui a Perugia, quanti vuoi che siano? Non arrivano a dieci».

Dice lui: «Magari è perché un capo delle guardie non è pronto e invece vuol finire anche lui in televisione…»

«Ci sta…»Ancora silenzio e fumo. Trovo ridicolo che non ci parliamo. Riprendo: «Chi ti aspetta fuori?

Antonella e Veronica?»«Sì, sono venute tutte e due».«Come è andata per loro questa storia? Come se la sono vissuta?»

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«Male. È che io rischiavo grosso. Tu lo sai, io sono in affidamento: una piccola condanna e mi scatta la vecchia pena».

Io, questa frase, la prendo se non come una giustificazione, almeno come una spiegazione del suo comportamento al confronto.

Gli rispondo: «Sì, lo sapevo. Capisco che per te sarebbe stato un casino davvero brutto». Spero che lui prenda la mia frase, se non come un perdonare, almeno come una sorta di riconciliazione.

Di quella faccenda del confronto non parliamo in termini chiari. Qualche accenno al suo avvocato, da parte mia. Non di riconoscenza. Ruocco tace e annuisce con la testa.

Altro silenzio, altro fumo.Gli dico, calmo: «Certo, se non avessi voluto fare il furbo a raccontarmi tutte quelle balle, per

una manciata di euro, poi, non sarebbe successo niente».Ci pensa su un momento, poi replica, anche lui calmo: «A te ti volevano fregare comunque.

Qualsiasi pretesto era buono…»Questa volta sono io ad annuire in silenzio.Spendiamo così, tra poche parole e molto fumo, più di un'ora.Sono passate le quattro quando la porta si riapre e la guardia in divisa blu ci dice: «Andiamo. Si

esce».

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Tutte le sigarette della mia vita pesano dentro al sacco nero che trascino verso l'uscita della prigione di Capanne. Duecento metri di gioia tenuta stretta tra i denti.

Alle spalle la voce roca e campana di Luigi Ruocco: «Dammi. Te lo porto io».Mi fermo, «Grazie».E finalmente, leggero, arrivo al cancello. Sono tutti a una trentina di metri di distanza, ma io

vedo solo Myriam e il suo viso che si accende di gioia. Fa piano i primi due o tre passi, poi, con un sorriso grande corre verso di me. Ci abbracciamo, le accarezzo la nuca. Sopra la sua spalla vedo Ruocco stretto tra la moglie Antonella e la figlia Veronica. Dietro a loro, l'avvocato Cianferoni, che non verrà a salutarmi. Forse, anche lui è timido.

Riesco a vedere il mio avvocato Sandro Traversi, che sorride non come un legale soddisfatto del proprio lavoro, ma come un amico felice. Abbraccio anche lui. E, poi, colleghi. Dico dentro al microfono della Rai: «È andata in onda una cosa molto antica: si è costruito un falso reato sul racconto di due calunniatori, è roba che si faceva ai tempi dell'Inquisizione, quindi roba vecchia. E c'è qualcuno nella procura di Perugia che non si è accorto che siamo nel 2006, che i processi alle streghe non si fanno più, che è stato inventato lo stato di diritto…»

Mi chiedono molte cose sui miei ventitré giorni da inviato speciale dietro le sbarre, l'unico in Occidente che da sessanta anni a questa parte ha avuto una tale opportunità professionale. Io voglio ringraziare Sandro Traversi e Nino Filastò, «non so se più eccezionali come avvocati che come persone». E non dimentico Motorola che sono sicuro che questa sera guarderà il tiggi. Rispetto la promessa che gli ho fatto all'alba: «Voglio ringraziare anche il mio compagno di cella, Motorola, che mi è stato di grande aiuto in tutti i sensi. Davvero un criminale per bene».

Poi arriva la domanda scontata, quella che viene sempre fatta in occasioni del genere: «Hai ancora fiducia nella giustizia?» Siccome me l'aspettavo, ho la risposta pronta. «La giustizia non è un'entità concreta; di concreto ci sono singole persone che amministrano la giustizia e la fiducia non si può mai dare a priori. Si valuta di volta in volta».

Domande più "tecniche" anche per Traversi, il quale se ne esce, invece, con una deliziosa battuta, pensando alla vicinanza del lago e al vecchio Annibale, il cartaginese: «Abbiamo vinto la battaglia del Trasimeno!» Una battuta che manderà su tutte le furie il piemme Mignini, il quale replicherà: «Vedremo chi vincerà la guerra!» E annuncerà l'immediato ricorso in Cassazione contro la decisione del Tribunale del Riesame, incredibilmente senza conoscere neanche le motivazioni.

Perderà anche la guerra, il 26 ottobre successivo, quando la Suprema Corte rigetterà come «inammissibile» il suo ricorso.

Un collega di Perugia mi chiede se tornerò mai nella sua città, che forse adesso odio. Gli rispondo sorridendo che Perugia è una stupenda città, ma che purtroppo non me l'hanno fatta conoscere nelle migliori condizioni. «Cercherò – aggiungo – di tenermene alla larga, anche se già sabato prossimo, 4 maggio, dovrò tornare qui, e proprio in procura per rispondere alle domande di Mignini che ha fissato per quella data l'interrogatorio per l'indagine sulla morte di Narducci».

Non posso saperlo, ma quel 4 maggio sarà per me uno dei giorni più piacevoli, come se un regista di commedie si fosse divertito a riavvicinare la data della mia scarcerazione e quella del nuovo interrogatorio per ottenerne l'effetto più divertente possibile. Quella mattina, infatti, Sandro Traversi verrà a prendermi a casa e mi aspetterà nella sua auto leggendo il giornale. Io scenderò e lo raggiungerò velocemente e prima di salire in macchina, non credendo ai miei occhi, leggerò attraverso il lunotto posteriore il titolo a tutta pagina: «Il capo del GIDES Giuttari indagato per falso».

Tornerò a Perugia molto allegro e per niente preoccupato, visto che con i miei legali avremo deciso, sfruttando un mio diritto, di avvalermi della facoltà di non rispondere. Una breve formalità,

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quindi, l'interrogatorio, ma che prenderà il ritmo di una pochade. Io, infatti, terrò il giornale sulle mie ginocchia e, certo non appositamente, proprio girato dalla parte del piemme Mignini, che dell'indagine su Giuttari non saprà niente. Ma, poiché il magistrato ha l'abitudine di non guardare mai verso il suo interlocutore, non si accorgerà di niente. Il titolone, invece, non sfuggirà al suo uditore, il cui collo si allungherà fuori del colletto della camicia neanche fosse un cartoon. Lo vedrò roteare gli occhi cercando, ma inutilmente, di attirare l'attenzione di Mignini sul giornale che ho in grembo.

Firmerò il breve verbale e, con Traversi, uscirò dalla stanza. E vedrò, neanche un secondo dopo, un carabiniere schizzare fuori dall'ufficio di Mignini e buttarsi giù per le scale, presumo, verso l'edicola più vicina.

Fuori della procura, ci saranno di nuovo i colleghi a farmi domande, compresa quella su che cosa penso di tutta la vicenda. E io aprirò il giornale e mostrerò il titolo dicendo «Questo è il miglior commento. Se oggi qualcuno mi avesse chiesto che cosa volevo in regalo, un quadro del Botticelli o questo giornale, avrei risposto: il giornale».

L'accusa di falso nei confronti del poliziotto, poi, cadrà. Ma lui, il suo ufficio, la casa e la stanza di Mignini saranno perquisiti dalla polizia mandata dalla procura di Firenze. Molto materiale verrà sequestrato. Verranno trovate intercettazioni, molte a carico di giornalisti, illegali o presunte tali. Entrambi finiranno indagati. Al poliziotto verranno tolte anzitempo tutte le deleghe e tornerà a essere un funzionario a disposizione; a Mignini saranno affiancati altri due sostituti procuratori, ché il procuratore capo di Perugia penserà che sarà meglio non lasciarlo solo.

A me, il 3 novembre, il presidente del Consiglio regionale della Toscana Riccardo Nencini consegnerà, per Dolci colline di sangue, il premio più ambito da un giornalista: quello di scrittore dell'anno «per la libertà di stampa».

Che presto avrò anche queste soddisfazioni, il pomeriggio di sabato 29 aprile, non lo so. Mi basta il presente.

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Brindiamo, io finalmente con un doppio caffè vero, Myriam e Sandro con spumante, dentro al bar davanti alla prigione e poi dobbiamo passare in questura, per alcune brevi formalità, mi hanno detto. E, invece, devo ripetere tutta la trafila che feci al mio arrivo: foto segnaletiche, impronte digitali, misurazioni varie. Chiedo a uno dei due poliziotti che mi sta premendo un dito nero su un cartoncino bianco: «Ma non le avete già? Me le avete prese quando sono arrivato…»

Quello mi guarda un momento stupito, poi chiede: «Ma l'hanno portata dai carabinieri? Mica qui?»

«Sì, nella caserma dei carabinieri…»«Eh, allora noi non ce le abbiamo, gliele dobbiamo prendere anche noi».E così ho una conferma sulla stretta collaborazione tra Carabinieri e Polizia di Stato.Il viaggio di ritorno si svolge ormai al buio, tra continue telefonate di colleghi che vogliono

qualche frase, buona magari per un titolo.Sono rilassato, è un piacere leggermente inebriante tornare tra la gente, tutto mi sembra più vivo,

i colori più vivaci, i suoni più distinti, ogni cosa messa a fuoco più precisamente. Penso che l'effetto sia dovuto all'esercizio durato più di tre settimane di prendere il più possibile da quelle note che suonano una alla volta, lente, distaccate le une dalle altre. Ma dentro, e avrò sempre difficoltà a spiegarlo, mi resta un filo di tristezza, di malinconia, un filo che parte da Capanne, dalla casa dei non vivi. Quasi un effetto paradossale, il filo vibrerà e mi farà stare male proprio ogni volta che avrò a che fare con situazioni piacevoli. Inevitabilmente, allora, il mio inconscio, o il mio vecchio daimon, si connetterà con quella casa dove anche io, per ventitré giorni, sono stato un non vivo. I sentimenti, le emozioni di quel tempo resteranno per sempre dentro di me, come un piccolo ergastolo. E sul mio polso farò tatuare, indelebile, 3/3B, il numero della mia cella e del mio braccio, «il marchio di una grande ingiustizia», lo definirà Alix Kirsta sul londinese «The Guardian».

Arriviamo a casa verso le otto di sera e davanti al cancello, chissà da quante ore, è schierato quello che mi sembra un intero battaglione di fotografi, cameraman e giornalisti. Appena scendo dalla macchina vengo bersagliato da una salva di flash che sembra non finire. Sorrido divertito, conosco quasi tutti, sono sempre stato dalla loro parte, nel battaglione, e trovo assurdo che stasera sia io la notizia. So il loro lavoro, immagino quello che vogliono e così metto un braccio attorno alle spalle di Myriam che inutilmente si schermisce. Saluto tutti, molti per nome, mi fanno gli auguri, mi stringono la mano. Abbraccio ancora Sandro Traversi e finalmente salgo nella mia casa.

Raramente quello che per giorni e giorni si è sognato a occhi aperti si verifica nello stesso modo e la realtà è spesso deludente. Ma il mio daimon, al quale dovrò pur decidermi di dare un nome, è un tipo preciso e quel poco che promette mantiene. Tutto, allora, è come nel sogno: un pigro bagno caldo con le note delle Variazioni Goldberg di Bach; una cena a lume di candela, formaggi francesi, buon pane e uno zuccotto, morbido al punto giusto; un letto con lenzuola fresche e anche un caldo gatto grigio sopra i piedi.

Un sogno che non sparirà con la luce del giorno, ma che continuerà domenica con una passeggiata pomeridiana nel centro di Firenze, con l'incontro casuale di amici, le strette di mano di gente mai vista che mi avrà riconosciuto e mi darà solidarietà, l'invito, quella sera stessa, a partecipare alla prima del Maggio musicale, al Teatro Verdi, Preludio e morte di Isotta di Wagner e la Nona di Mahler.

Ci metteranno, me e Myriam, in un palco di prim'ordine piuttosto vicino all'orchestra e così l'intera platea ci potrà vedere e riconoscere. Prima che le luci si spengeranno e ancora nell'intervallo, avvocati, ma anche magistrati verranno a stringermi platealmente, è il caso di dirlo, la mano e persino a dirmi, volutamente a voce alta: «Mi vergogno della mia categoria!»

E dopo lo spettacolo, due passi e lì, dietro al Teatro, in via Isola delle Stinche, da Vivoli, per un

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sandwich e inevitabilmente per uno dei suoi gelati, per me i migliori del mondo.«Ho finito tutto, siediti, ché te ne preparo uno», mi dice Simone, il genero di Simonetta Vivoli,

dopo avermi abbracciato. L'attesa è un po' troppo lunga per un panino, ma c'è un bel perché: Simone arriva e stende una tovaglia bianca sul tavolino e, dietro a lui, una ragazza porta vassoi con mozzarella e pomodori, crostini, salumi, e anche una bottiglia di vino. Ed è il mio banchetto per la libertà.

Il sogno non finisce e lunedì, di buon'ora, io e Myriam, dopo l'intervallo della domenica, giusto quello che ci voleva per recuperare e presentarci al meglio, siamo alla stazione. Torna Eleonora. Tempi perfetti, grande regia.

La vedo, la gente si dissolve e resta solo lei. Viene verso di me, è la gioia che cammina. Mi abbraccia, tenera e forte. Sopra la sua spalla vedo Myriam sorridente e gli occhi non sono più due stagni in autunno, ma di nuovo il mare d'estate.

Eleonora avvicina la bocca al mio orecchio. Il suo pudore dei sentimenti le concede appena quattro parole. Le più belle: «Sono fiera di te».

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Questa parte di alberoè diventata libro

sotto i moderni torchidi Grafica Veneta, Trebaseleghe (PD)

nel mese di maggio 2007.Possa un giorno

dopo aver compiuto il suo ciclopresso gli uomini desiderosi di conoscenza

ritornare alla terrae diventare nuovo albero.