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L'OMBRA DELL'AUTORE Teoria e storia dell'autore cinematografico Guglielmo Pescatore Carocci
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L'ombra dell'autore. Teoria e storia dell'autore cinematografico

Mar 07, 2023

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L'OMBRA DELL'AUTORE Teoria e storia dell'autore cinematografico Guglielmo Pescatore

Carocci

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Guglielmo Pescatore

L'ombra dell'autore

Teoria e storia dell'autore cinematografico

Carocci editore

Page 3: L'ombra dell'autore. Teoria e storia dell'autore cinematografico

1a edizione, aprile 2006

© copyright 2006 by Carocd editore S.p.A., Roma

Finito di stampare nell'aprile 2006

dalla Litografia Varo (Pisa)

Impaginazione ed editing Le Varianti, Roma

ISBN 88-430-3947-4

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)

Senza regolare autorizzazione1

è vietato riprodurre questo volun1e anche parzialmente e con qualsiasi mezzo,

compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

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I.

I.I.

I.2.

1.3. l-4-1.5. 1.6. 1.7. r.8.

2.

2.1.

2.2.

3.

J.I. 3.2. J.3.

Indice

Prefazione di Franco La Polla

Introduzione

Nascita dell'autore cinematografico

Le origini: autori, inventori e artisti Autore, opera e letterati Ragionare per autore Diritto d'autore Autore come produttore Autore come ruolo professionale Autore come ruolo estetico Un primo bilancio

Asincronismi r: Francia e Italia

La Francia negli anni Venti Scenari italiani: l'autore tra anni Venti e Trenta. Un esem­pio: Augusto Genina 2.2.1. La costruzione di un autore I 2.2.2. Eclettisn10 e originalità I 2.2.3. Una personalità internazionale

I:idea di autore tra classicità e modernità

La politica degli autori: il classico visto dal moderno I: autore tra dogma, rituale e modernità Intermezzo: !'autore, lo strutturalismo e il modernismo politico

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23 25 26 27 29

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L'O,\lBRA DELL'AUTORE

3+ Struttura, scrittura, sintomo 79 3.5. Aperture. L'autore: testo e contesto 86

4. La buona distanza. Analisi di Sentieri selvaggi 89

4.1. La porta come forma simbolica e cwturale 89 4.2. Sentieri selvaggi e il suo tempo 92

4-3· Due universi semantici 96

4·4- Ièinglobante e l'inquadratura fordiana 100

4.5. r; autore come istanza negoziale tra le forme culturali e la materia del film 105

5· Asincronismi II: il falso, la produzione a basso costo e il caso Leone 107

5.1. Falso e intertestualità 107 5.2. Parodia e autorità 109 5.3. It's nota quote: il problema della citazione 110

5+ Falso e iterabilità 112

5.5. La griffe contraffatta: la dinamica estetica del basso costo 115 5.6. Il caso Leone: artigianato, originalità, distinzione 119 5.7. Citazioni, prestiti, convocazioni nella trilogia del dollaro

(e poco oltre) 121

6. L'autore cotne personaggio 129

6.1. Il luogo di una presenza: l'autore come personaggio concet-tuale nel cinema della modernità 129

6.2. Uno sguardo retrospettivo: Hitchcock nel bicchiere 135 6.3. Prodotti di genere/prodotti di marca: l'autore come brand

e la logica autoriale del postmoderno 147

7. In conclusione: oltre l'autore 155

7.1. Narciso nella rete 155 7.2. Dalla cattedrale al bazar: nuove forme della creazione · 161

Bibliografia 169

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Prefazione

Sappiamo bene che il dibattito sulla nozione d' autol·e non nasce certo con l'elaborazione della "politica" che lo riguarda, varata. dai "Cahiers" circa mezzo secolo fa. Esso parte in sostanza con l'avvento del cinema stesso. Ma è altrettanto vero che i suoi .termini sono molto variati nel tempo, rispon­dendo - se non altro - ad esigenze che diversi momenti della nostra (inte­sa come europea) storia culturale hanno sentito ed elaborato. ,

Non sempre si è trattato di ~a questione estetica. Talvolta essa era di carattere tecnico, talaltra organizzativo. Fu il pensiero idealista a confon­dere questi piani, ossessionato dal mito della soggettività irriducibile del Creatore, dell'Artista, affiancare al cui lavoro anche un solo tecnico avreb­be significato eliminare qualsiasi possibilità di ricoll~gare direttamente ali' opera del primo ogni qualsivoglia prodotto della sua fantasia, della sua ispirazione. Pure, come ci ricorda Pescatore, negli anni Dieci in. Francia scenografo, attore e operatore cinematografiCi venivano indicati come pos­sibili autori dell'opera. E con essi, in qualche modo prefigurando l'epoca televisiva, anche la casa di produzione. ' .

Per affrontare il problema è dunque necessario premunirsi: da un lato della consapevolezza che esso cambia termini, forma, senso a seconda del periodo culturale in cui viene affrontato, dal!' altro della consapevolezza che, comunque stiano le cose, parlare di autore nel cinema europeo e nel cinema americano significa affrontare due temi e due problemi alquanto diversi, i quali, se P.ossono avere un terreno comunque sul vers.arite della riflessione teorica normativa, sono però ben distinti su quello del valore culturale. Per fare un solo, piccolo esempio, il rispettoche l'Europa ha sempre nutrito verso la letteratura (sia esso formulato nei termini di Epstein, di D'Annunzio o d'altri ancora) - e che ha informato di sé non poco suo cinema, anche nei più liberi adattamenti - non è rintracciabile, almeno negli stessi modi, negli Stati Uniti, una nazione che ha invece dpe­tutamente piegato la letteratura alle esigenze del mercato hollywoodiano. A chi mai in America nel primo Novecento sarebbe potuta venire in mente una secca, pregnante ed eloquente formula come quella di caméra-stylo?

' . ' . , I '

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L'OMBRA DELL'AUTORE

Il problema è serio e complesso. Esso affonda le sue radici nel sospet­to che ha sempre segnato in USA l'idea di letteratura e di intelligencija, non solo nella semplicistica spiegazione che quella americana è una società materialistica (suo malgrado), capitalistica e via dicendo. E solo un frain­tendimento, come spiega bene Pescatore, poteva far pensare alla critica europea che potesse essere sostenibile un'equivalenza tra cineasta, regista e autore, nel cinema d'oltre Atlantico.

Ma naturalmente la questione va ben oltre !'opposizione fra USA ed Europa. Questa è soltanto una faccia del variegato prisma che compone il dibattito sul concetto d'autore.

Un'altra di queste facce appassiona particola1mente, e certo non in ter­mini positivi: la mistica dell'immagine che purtroppo furono proprio alcu­ni critici dei "Cahiers" a celebrare. Ma davvero una persona di cultura può affermare che la messa in scena di Mizoguchi è tutto ciò che serve per capi­re il suo cinema? E si badi, non sto qui parlando della conoscenza della lin­gua giapponese, così disprezzata o comunque sottovalutata da Rivette, ma proprio della messa in scena del grande regista. Se non abbiamo le infor­mazioni necessarie a comprendere come quella certa inquadratura ripren­da un'immagine della pittura nazionale tradizionale che rimanda a un significato nascosto sotto la pura e semplice iconografia specifica, come potremo renderci conto della - innegabile - autorialità di Mizoguchi? La mistica dell'immagine è. uno dei maggiori pericoli che la divulgazione del cinema sta correndo in questi anni, foriera di sproloqui un po' invasati e un po' furbeschi che possono lasciare tracce indelebili su giovani neofiti ed entusiasti.

Quanto alla politique des auteurs, va dato atto a Pescatore di avere finalmente trattato !'argomento in termini formalmente e teoricamente seri, tralasciando completamente quello che per non poco tempo, nella mentalità comune, è stato il malinteso di fondo della questione: i contenu­ti, i temi, le ossessioni che caratterizzano!' opera dei singoli autori. Non che anche per questi non vi sia spazio nella critica, come sanno bene gli "auto­risti" britannici che fecero capo alla rivista "Movie", ma la politique è fatta - è sempre stata fatta - di cose un po' più determinanti. Lo stile, si dirà. Ma Pescatore chiarisce bene che anche questo concetto va soppesato e valutato con grande attenzione onde non cadere nei grossolani errori di un'esibizione che in fin dei conti risulta del tutto esterna ali' autonomia del­l'universo filmico. Ricerca della perfezione che si identifica nella necessità e nell'omogeneità, dunque? No, nemmeno quello, se a sentir Truffaut tale perfezione è «abietta, immorale e oscena».

Come si vede, la nozione d'autore implica un continuo rimpallo, una corsa in avanti che non lascia spazio a riferimenti certi, a sicurezze graniti­che. In certo senso, si tratta piuttosto di un wode in progress che è allo stes-

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PREFAZIONE

so tempo una inesausta fatica di Sisifo. Come spesso accade, taluni paladi­ni si dettero ad affermazioni azzardate: identificare, come fa Rohme1; l'au­tore con il genio - e dunque escludere che egli possa soffrire di decadenza e di declino - è un altro modo di esaltare quella mistica di cui faremmo tutti bene a sbarazzarci.

Una cosa tuttavia emerge chiaramente dal dibattito sulla politique inaugurato ed elaborato dai "Cahiers": che il problema non era quello di liberarsi dalle strette della critica idealista, ma che in esso è oggi possibile (come era invece molto più difficile, se non impossibile, negli anni Cin­quanta) leggere le avvisaglie di un mutamento epocale che di n a poco avrebbe investito la critica nel suo insieme, e più specificamente la fine della trndizionale idea di autore davanti alle bordate dell'incalzante strut­turalismo e in seguito del decostruzionismo. A loro volta tutte forme sin­tomatiche, si noti, della r'rivoluzione" postmoderna.

In breve, lo studio di Pescatore diventa in questo modo non un'inve­stigazione su un concetto, ma un affresco della cultura critica del secondo Novecento. Il cinema vi occupa il posto centrale, certo, ma è altrettanto sintomatico che una ricerca del genere passi oggi - e direi necessariamen­te - proprio per quel campo creativo così a lungo sottovalutato da tanta cultura critica del secolo scorso. Il cinema, intendo dire, ha in certo modo liberato la critica dallo stallo nel quale essa si trovava, appesantita da «sì dolci memorie e sì lungo costume» - cioè da una tradizione teorica certo non immobile, ma inevitabilmente frenata dalla sua stessa secolare storia -rinnovando i termini del dibattito proprio attraverso ciò che di non stret­tamente letterario esso aveva da offrire. Un felice meticciato, potremmo dire, che si riflette bene nelle pagine di questo libro così innamorato del cinema e insieme così lucidamente consapevole dei destini della nostra intera cultura.

Bologna, marzo 2006

FRANCO LA POLLA

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Introduzione

Questo volume è il frutto di un lungo percorso, cominciato anni addietro in occasione della preparazione del "III Convegno Internazionale di Studi sul Cinema" di Udine, dedicato al tema dell'autore. Devo a Leonardo Quaresima, infaticabile pron1otore e animatore di quell'iniZiativa, l'aver focalizzato per primo la mia attenzione su una questione che avrebbe accompagnato come un basso continuo la mia attività di ricerca e di didat­tica. A Gian Piero Brunetta va un sentito ringraziamento per avermi affi­dato la redazione del saggio relativo alla nascita dell'autore cinematografi­co nella sua monumentale Storia del cinema mondiale, permettendomi di affrontare la questione con un taglio che univa l'attenzione agli aspetti sto­riografici con la discussione delle implicazioni teoriche. Parte di quel sag­gio, profondamente rivisto sia nella redazione che nella prospettiva gene­rale, è confluito nel primo capitolo e nel primo paragrafo del secondo.

Col tempo mi è apparso evidente leccessivo peso che avevo attribuito alle avanguardie degli anni Venti nel processo di consolidamento del!' au­tore cinematografico, di cui adesso riconosco meglio la complessità e l'ete­rogeneità dei percorsi. Questo spiega perché nel volume abbia dato spazio alla ricostruzione di momenti e temi significativi piuttosto che tentare una panoramica complessiva che avrebbe finito per coincidere con un secolo di storia del cinema. Il rischio è evidentemente quello della frammentarie­tà, tuttavia mi è sen1brato opportuno isolare alcuni nodi, a mio avviso rile­vanti, nella definizione e nelle mutazioni che l'idea di autore cinematogra­fico ha subito negli anni, cercando di mostrare come, a fianco di una pras­si autoriale, si fossero andate delineando delle riflessioni teoriche, sia implicite che esplicite, su quella stessa nozione. Ho cercato anche di mostrare i legami assai forti, anche se spesso non così evidenti, esistenti tra l'idea di autore e il n1odo in cui teorici, critici, studiosi, n1a anche il comu­ne spettatore, hanno guardato al cinema nel suo complesso.

In questo lavoro di ampliamento della prospettiva un ruolo rilevante hanno avuto le occasioni di confronto con altri colleghi: sono grato soprat­tutto a Giulia Carluccio e Federica Villa per gli inviti al workshop "Il lavo­ro sul film". In quelle occasioni ho potuto rendermi conto di quanto fosse

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L'OMBRA DELL'AUTORE

necessario affiancare alla ricostruzione storico-teorica il confronto con la materialità del testo filmico nelle sue diverse specificità e articolazioni. Mi sono così convinto a inserire nel volume delle analisi di caso, autori e film, che potessero illustrare concretamente le molteplici sfaccettature della questione. Un ringraziamento particolare va a Franco La Polla e France­sco Casetti, con cui ho potuto discutere più volte gli aspetti generali della ricerca e le sue articolazioni, ricevendone preziosi consigli e costante inco­raggiamento.

Non avrei potuto fare a meno del fondamentale lavoro di Veronica Innocenti nella ricerca dei materiali e di Claudio Bisoni, che ha rivisto il testo, fornendomi preziosi suggerimenti e integrazioni. Sono grato anche ad Alessanda Zuliani per laccorto lavoro di editing. Da ultimo vorrei rin­graziare i miei studenti degli ultimi anni, con cui ho discusso più volte a lezione i temi di questo libro e che col loro interesse mi hanno spinto a pro­seguire.

l\1ota. La traduzione dei testi in lingua, in mancanza di altre indicazioni, è da intendersi mia.

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I

Nascita dell'autore cinematografico

I.I

Le origini: autori, inventori e artisti

Parlare di autore cinematografico ci appare oggi del tutto naturale, tuttavia basta allontanarsi dall'ambito contemporaneo e dalle nostre abitudini di fruizione cinematografica per accorgersi, andando ad esempio a indagare la stessa nozione nel cinema delle origini, che concetti come quelli di "autore" o "opera" non sono affatto coestensivi della storia del cinema. In particola­re, per quanto ci interessa qui, volgendo uno sguardo alle origini ci si accor­ge di alcune questioni fondamentali relative alla natura e ali' operatività del­]' autore cinematografico.

Ci si accorge innanzitutto che l'individuazione di una figura autoriale nel cinema e la sua assimilazione a quella del regista è il frutto di una gestazione durata qualche decennio lungo un percorso non privo di deviazioni, di vico­li ciechi, di scarti e discrasie tra le diverse cinematografie'. Si tratta dunque di una storia tutt'altro che lineare e di cui è difficile ricostruire l'intero svi­luppo tracciando una linea di continuità. È anche difficile, se non impossi­bile, 'stabilire un termine cronologico oltre il quale la nozione di autore diventa stabilmente fissata nella pratica estetica, negli usi sociali e nella sto­riografia del cinema. Come si vedrà, ed è un po' la ragione di questo libro, lautore cinematografico non cessa di cambiare aspetto, forma e funzioni accompagnando la storia del cinema attraverso molteplici metamorfosi. In questo capitolo e nel successivo mi occuperò di tracciare quel percorso che porta a sovrapporre artista, autore e regista. Anche così si tratta comunque di ripercorrere trent'anni di storia del cinema. Mi è sembrato dunque oppor­tuno rileggere alcuni momenti salienti della storia del cinema, a partire dal periodo muto, proprio seguendo la traccia del!' autore. Privilegerò, almeno come punto di partenza, il discorso estetico, perché caratterizzare lautore

I. Per la trattazione di questioni relative alla nascita dell'autore cinematografico in rela­zione al concetto di regia cfr. L. A1bano, Il secolo della regia. La figura e il ruol.o del regista nel dnenta, Marsilio, Venezia r999; L. Gandini, La regia a'nematogra/ica. Storia e profili critici, Carocci, Roma r998.

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I.' OMBRA DELL'AUTORE

come soggetto estetico vuol dire porsi implicitamente anche tutte le questio­ni che afferiscono agli altri usi possibili di tale nozione, senza dimenticare che statuto estetico e statuto mediale sono, negli anni cieli' affermazione del cinema, indissolubilmente legati. E dovendo partire delle origini non si può che comirtciare dall'invenzione del cinema e dai Lumière.

Parlare dei Lumière comporta una ambiguità di fondo: essi ci appaiono contemporaneamente come inventori del cinema e come autori dei primi film, al di là delle precisazioni storiche del caso. Ciò è ancora più interessan­te se si pensa che contemporaneamente al cinematografo molte altre inven­zioni e scoperte divengono oggetto di esibizione e spettacolo, senza che que­sto implichi l'idea di un possibile autore. La stessa invenzione del fonografo, che sembra avere una storia molto sin1ile a quella del cinematografo, sotto questo aspetto appare completamente diversa: è difficile pensare a Edison -o a chiunque altro - come ali' autore delle prime registrazioni fonografiche, quantomeno da un punto di vista estetico. Ciò dipende evidentemente dal fatto che la storia del fonografo e dei suoi sostituti più moderni, a differenza di quella del cinema, si è sviluppata quasi completamente nel solco della semplice riproduzione. Dunque ci è facile immaginare Louis Lumière nei panni del primo autore cinematografico solo perché ve ne sono stati altri in seguito. l:ambiguità tuttavia rimane e assai facilmente si ritroveranno nella saggistica cinematografica analisi e apprezzamenti estetici sull'opera di Lumière, le cui vedute, del resto, appaiono anche ai nostri occhi dotate di un fascino che va oltre l'interesse puramente storico. Questo a ulteriore dimo­strazione di come nel caso cieli' autore sia difficile, e spesso anche improprio, scindere il nostro punto di vista attuale sui primi decenni del cinema dalle effettive condizioni produttive e ricettive cieli' epoca.

Se si prescinde per un attinio dal!' attribuzione ai Lumière cieli' atto pri­migenio della storia del cinema, si vedrà facilmente come la loro produzio­ne di vedute animate possa essere inserita all'interno di linee di sviluppo e fenomeni culturali più ampi: una storia delle forme, per rimanere nel campo dell'estetica, ma anche una storia della visione popolare, spostandoci nel campo della storia sociale. Cosl, a seconda della prospettiva di studio, si potrà pensare al loro cinematografo nella tradizione delle macchine ottiche, un universo ricco e variegato di scienza e spettacolo che di solito si designa come precinema'. Ancora, considerare i legami tra le vedute Lumière e il vedutismo pittorico', o piuttosto accostare il realismo di.movimento e di

2. Assai numerosi sono gli studi sul precinema, tuttavia nella prospettiva che qui si indi­ca, quella di una storia dell'immaginario più che di una storia delle nlacchine, un riferimento fondamentale è da considerarsi G. P. Brunetta, Il viaggio dell'icononauta, Marsilio, Venezia r997, corredato peraltro di ampie indicazioni bibliografiche.

3. Cfr. !vi. Bertozzi, Il pantheon, !'"inventore" e I.a vedutd, in A. Boschi, G. Manzoli (a cura di), Oltre l'autore II, in "Fotogenia", n. 3, r996.

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J. NASCITA DELL'AUTORE CINEMATOGRAFICO

atmosfera delle prime proiezioni ad analoghe ricerche dell'arte colta\ seguendo il paradosso godardiano per cui <<Lumière è l'ultimo degli impres­sionisti>>. Queste diverse posizioni iodicano anche differenti statuti autoria­li: dall'autore pieno della grande pittura alla semplice assenza dello spetta­colo ottico, passando per lautore "debole" del vedutismo. Dunque un Lumière autore fluttuante, dallo statuto variabile? Probabilmente si tratta di una domanda mal posta perché presuppone comunque una scelta, una sorta di sanzione - come io giudizio -, laddove lo statuto autoriale io que­stione è più il risultato dei diversi discorsi sul cioema di Lumière che non di una prassi estetica riconosciuta. Questo vuole forse dire che non è possibi­le attribuire a Lumière un'iotenzione estetica, anche implicita, a cui potreb­be corrispondere una qualche forma di "volontà autoriale"? Non esatta­mente, perché a ben vedere, dietro la produzione Lumière è possibile scor­gere un progetto che è al tempo stesso commerciale ed estetico. Essa si orga­nizza ben presto nella forma di un catalogo, che raccoglie vues diverse, dalle vedute vere e proprie alle scene familiari, dalle brevi azioni comiche alle attualità, ricostruite o meno. Si è voluto vedere io queste differenziazioni un primo abbozzo di quelli che saranno poi i generi cioematografici; io realtà si tratta comunque di vedute, che obbediscono a un medesimo criterio, quello di mettere io catalogo, dunque di rendere disponibile come merce, l'iotero spazio del visibile. E questa volontà implicita che porterà gli opera­tori Lumière a filmare la folla delle grandi metropoli o a girare la manovel­la tra paesaggi e popolazioni esotiche, io paesi lontani e ancora sconosciuti allo sguardo occidentale. Al catalogo delle vedute, che è dunque un catalo­go di sguardi, luogo della virtualità del visibile come merce, corrisponde il programma, lesibizione io sala, che di quella virtualità è la forma attuale e condensata, resa disponibile alla fruizione, io modi non dissimili da quelli delle vetrioe dei passages benjamioiani. Si tratta di una sorta di Grand Tour onnicomprensivo, che non si limita più solo allo spazio del bello, del curio­so o dell'esotico, ma si apre sulla cronaca, sul familiare, sulla visione qua­lunque, o forse su qualunque visione; per l'icononauta', che si è districato tra i mille percorsi delle macchioe ottiche, è forse lapprodo ultimo, la pro­messa di una raggiunta libertà dello sguardo. Se dunque le vedute Lumière sono certamente oggetti estetici, io quanto oggetti di spettacolo, essi lo sono io una logica merceologica, che fa corrispondere la produzione al catalogo e la fruizione al programma. Siamo in presenza dunque di un'estetica com­merciale, nell'ambito della quale più che di autore è opportuno parlare di istanza produttrice, istanza che coiocide con il cioematografo- ioteso come macchina e come invenzione - prima ancora che con Lumière. Ciò è testi~

4. Cfr. J. Aumont, J;ceil intenninable. Cinén1a et peinture, Séguier, Paris I989 (trad. it. J;occhio intenninabile. Cinenza e pittura, Marsilio, Venezia 1991).

5. Riprendiamo qui la definizione di Brunetta, Il viaggio, cit.

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L'OMBRA DELL'AUTORE

moniato anche dal fatto che nei primissimi anni del cinema, mentre non viene affatto percepita come plagio la riproduzione delle vedute Lumière (riprodurre uno sguardo, guardare dove qualcun altro ha già guardato non può essere soggetto a sanzione), è la diffusione o la copia del loro apparec­chio che deve essere impedita, per quanto è possibile.

A questo punto occorre dire che, se fin qui abbiamo parlato solo dei Lumière, la veduta come elemento integrato in un catalogo o in un pro­gramma caratterizza le origini del cinema, in cui si costituiscono le prime case di produzione; l'istanza produttrice che abbiamo associato con il cine­matografo Lumière subirà un processo di differenziazione e specificazione fino ad arrivare al marchio delle case stesse, inteso, a cavallo degli anni Dieci, anche con1e un elemento autoriale, in un'accezione assai più produt­tiva che estetica, rispetto alle definizioni che abbiamo qui proposto. I Lumière - estranei all'idea di cinema come arte o come forma espressiva -più che autori sono i primi fautori, probabilmente inconsapevoli, di una estetica della produzione che negli anni finirà col contrapporsi all'estetica autoriale. Non si deve tuttavia perdere di vista un altro aspetto fondamen­tale: se è vero che per i Lumière la veduta è innanzitutto una merce, essa ha quanton1eno una caratteristica peculiare, è una percezione, o meglio, la registrazione meccanica di una percezione. Questa caratteristica non sarà priva di conseguenze per i successivi sviluppi del cinema, e l'idea stessa di autore cinematografico può essere in qualche modo considerata come un "effetto collaterale" di tale anomalia.

A differenza dei Lumière, George Méliès si considerò sempre un artista:

Sono nato artista nell'animo (mi è stato spesso rimproverato) 1 padrone delle mie mani, capace in molti mestieri, creativo e coinmediante per natura. [. . .] Sono stato lavoratore "intellettuale" e manuale. Questo spiega perché ho amato il cinen1a con ~anta passione6.

E fu davvero, in un certo senso, artista completo come pochi altri nella sto­ria del cinema: si dedicò e controllò personalmente tutte le fasi della pro­duzione cinematografica, essendo contemporaneamente esibitore dei suoi stessi filmati. Benché sia stato spesso accusato di una concezione statica e teatrale del mezzo cinematografico, ebbe in realtà sempre estrema coscien­za e cura del lavoro di mise en scène; il suo cinema è di certo tra i più rico­noscibili, sia per ricorrenze stilistiche che per le costanti tematiche e icono­grafiche. Abbiamo dunque un artista, uno stile, forse finanche una poetica: questo equivale a dire che lartista Méliès fu anche autore cinematografico?

6. G. Méliès, En tnarge a l'histoire du cinétnatographe [1926], citato in A. Costa, Auto­biografia co1ne ritratto d'artista, in A. Franceschetti, L. Quaresin1a (a cura di), Prùna dell'au­tore, Atti del III convegno internazionale di studi sul cinetna, Fonun, Udine 1997, pp. 162-3.

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I. NASCITA DELL'AUTORE CINEMATOGRAFICO

Anche in questo caso la risposta non è univoca e dipende certo dall'ambito discorsivo in cui poniamo il problema. Per quanto qui ci interessa, si tratta piuttosto di collocarlo all'interno di un processo storicamente determinato che nel corso di una trentina d'anni ha portato allo sviluppo di una figura socialmente riconosciuta di autore cinematografico, di cui la caratterizza~ zione estetica è componente fondamentale.

Da questo punto di vista lartista Méliès va accostato piuttosto alla figura del!' artigiano che non a quella dell'autore, cosa che del resto appare spesso evidente nelle sue stesse dichiarazioni. Egli intende il suo essere artista come la capacità di possedere e dominare un'arte - il cinema - che richiede doti pratiche, ideative e finanche estetiche, ma non certo una volontà autoriale che attraverso l'opera trovi forma ed espressione. Un'idea di arte come "mae­stria", dunque, che ha nella cura della realizzazione la sua prima qualità:

Nella sua cura meticolosa di tutti gli aspetti del lavoro cinematografico, Méliès deli­nea una concezione, prima ancora che di "autoren inteso come responsabile ùt toto della sua creazione, di artista innamorato della propria arte, nell'ambito di un'idea di cinema in1pregnata di romanticismo artigianale che definisce unicità e irripetibi­lità dell'esperienza di Méliès, ma allo stesso tempo anche i suoi limiti7.

Il contributo di Méliès nell'ambito della storia dell'autore è piuttosto quel­lo di situare il cinema, già nella sua fase aurorale, nel campo del!' arte, sia pure proponendo e praticando una concezione della creatività e dell'inven­zione artistica vicina a quella delle arti minori, del numero da palcoscenico, dell'illustrazione popolare.

Abbiamo visto come di fatto lo statuto del cinema dei primi anni non prevedesse affatto una figura di autore paragonabile a quella di cui stiamo seguendo le tracce. Potremmo dire dunque che non esistevano ancora i pre­supposti per l'emergenza dell'autore cinematografico, ma forse un'afferma­zione in tal senso sarebbe viziata da una visione prospettica che finisce con il proiettare sul passato quelli che saranno gli sviluppi futuri della storia del cinema, percependo le differenze come mancanze. Preferiamo allora dire che in quel cinema, di cui Lumière e Méliès ci sono apparsi un campione significativo, l'autore non aveva necessità né ragione di essere, era cioè estraneo alla sua organizzazione estetica e produttiva. Ciò non significa affatto negare che lemergenza dell'autore avesse bisogno di alcune precon­dizioni, che vennero a crearsi negli anni seguenti. Un punto cruciale, come abbiamo già sottolineato, era il passaggio dal programma composito dei primi tempi al film inteso come opera; era anche necessario lo sviluppo di una figura di attore inteso come interprete, chiamato a impersonare un ruolo, piuttosto che come artista che presenta se stesso o il suo numero al

7. Costa,Autobiogra/ia, cit., p. r65.

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L'OMBRA DELL'AUTORE

pubblico (da questo punto di \~sta Méliès, ad esempio, non può certo esse­re considerato un attore). Bisognava inoltre che la questione dell'arte cine­matografica, che pure già Méliès poneva, fosse considerata io relazione alla speaficità produttiva, professionale ed estetica del cinema stesso.

I.2

Autore, opera e letterati

Intorno al 1908 fu proprio la questione del fihn come opera a trovare un prin10 riscontro nella pratica dell'adattamento di testi letterari e teatrali noti al grande pubblico e di cui si cercava di sfruttare il richiamo. Si trattò di un'operazione il cui carattere era dllllque innanzitutto cornn1erciale e che in Francia \~de la nascita di due case di produzione, Le Fihn d'Art e la Socié­té cinématographique des auteurs et gens de lettres (SCAGL), entrambe indi­rettamente legate alla Pathé. Fece cosi la sua comparsa nei manifesti e nel materiale pubblicitario in genere il nome dell'autore; si trattava però del­!' autore del testo adattato: Zola, Hugo, Dun1as, Lema!tre campeggiavano sulle locandine dei cinematografi, che intanto stavano diventando luoghi di spettacolo "rispettabili" e dotati di un certo lusso. Questo processo, che mirava a offrire una patente di dignità cultutale al cinema, nel tentativo di ampliarne il pubblico in diiezione delle classi medie, vide coinvolti anche artisti provenienti da una delle istituzioni più affermate dello spettacolo francese, la Comédie Française, assieme ad attori scritturati dagli altri gran­di teatri parigini. Il cinema aveva dunque opere, autori e attori. In realtà si rimaneva.nell'ambito dell'adattamento e della dipendenza da altre forme artistiche - cosa del resto sancita anche dal punto di vista giuridico proprio nel 1908.- quali la letteratura e il teatro: dopotutto, Dumas non è ce1to un autore cinematografico. Il film, però, grazie alla stampella letteraria - egra­zie anche alla quasi contemporanea diffusione del lungometraggio - comin­ciava ad essere fruito come opera autonoma: non si andava più a vedere il cinematografo, ma Les Misérables.

Se il cinema francese, pur con le sue innovazioni, rimaneva ancorato a un rapporto di fondamentale dipendenza, basato su uno scambio a senso unico, con la cultura "alta", in Italia il coinvolgimento del mondo letterario nel cinema avveniva in maniera assai più articolata e ricca di contaminazio~ ni reciproche:

Il cinema italiano - sul piano internazionale - appare in ogni caso come il territorio in cui più presto che altrove, e in forn1a più complessa ed esemplare, la nozione d'autore subisce un processo di morfogenesi e si articola secondo una figura che potremmo definite politopica. Certo fenomeni del tutto simili si possono osse1vare anche in Francia, ma per quanto riguarda il cinen1a italiano si ha l'impressione che

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I. NASCITA DELL'AUTORE CINEMATOGRAFICO

sia dal punto di vista quantitativo che della varietà di sfaccettature il problema inve­sta in pieno la società letteraria, coinvolgendola da subito a vari livelli e soprattutto modificandone alclllli co1nportamenti8,

Se dunque in Italia si ripercorre l'esperienza francese con la costituzione della Film d'Arte Italiana, che alla fine del 1909 comincia a proporre i suoi primi adattamenti per il grande schermo, non è.certo questo l'episodio più significativo del coinvolgimento del mondo letterario nel nuovo mercato creato dal cinema.

È infatti la gran parte dei letterati italiani a cedere alle lusinghe del nuovo spettacolo - nonostante i suoi assai dubbi meriti artistici - nella spe­rauza di guadagni lauti e veloci. Si va da Pirandello a D'Annunzio, passan­do per Verga, Martoglio, Di Giacomo, Oxilia, D'Ambra, Bracco, Capuana, Gozzano, solo per citare i più noti. Benché questo improvviso interesse sia dettato innanzitutto da rngioni economiche, vario è l'atteggiamento con cui si guarda al cinema: dal possibilismo di Gozzano, che pur situandolo fuori dai territori dell'arte, ne intravede alcune possibilità espressive, al disprez­zo di Verga, che considera il suo lavoro per il cinema alla stregua di un pec­cato inconfessabile, fino alla visione apocalittica del Pirandello di Serafino Gubbio, al quale il cinematografo appare come una macchina pronta a fago' citare ogni elemento umano. Nonostante le diversità di giudizio, il mondo letterario italiano è comunque cosciente, prima e più di quello francese, delle mutate condizioni della pratica artistica in un universo che si va popo­lando di immagini filmate:

C'è in ogni caso e con pochissime eccezioni - nelle dichiarazioni e negli autocoffi­menti dei letterati - la percezione del mutan1ento di stato del proprio ,lavoro e la consapevolezza di aver perso momentaneamente le bussole creative e le 1;agioni pro­fonde del proprio fare espressivo. Più che il senso di colpa per la perdita di identi­tà che colpisce la prin1a ondata migratoria è la percezione [ ... ] di muovere da uno stato solido verso una smaterializzazione del proprio corpo letterario e la metamor­fosi, in negativo o in positivo, del proprio Io creativo in una forma ibrida e non ben definita'.

Il passo di Brunetta appena citato ci indica una questione cruciale: se è vero che la migrazione'dei letterati nel mondo del cinema contribuisce fortemen­te alla sua legittimazione artistica - e dunque i vari Caserini, Pastrone, Guaz­zoni, De Liguoro ecc. escono dall'anonimato, alla vigilia della guerra, anche grazie ali' apparire di altri nomi, quelli degli scrittori -, è anche vero che il cinema, arte dallo statuto incerto e ancora in cerca d'autore, fa la sua con1-parsa nel panorama estetico modificandone il territorio, rendendo virtuali e

8, G. P. Brunetta, Fuori l'autore!, in Boschi, Manzoli (a cura di), Oltre l'autofe II, dt., p. 18. 9. Ivi, p. 22.

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L'OMBRA DELL'AUTORE

incerti i contorni di moli - come quello dello scrittore autore - fino ad allo­ra ben saldi. Il cinema dunque nei primi decenni del Novecento, più che aggiungersi alle altre arti, secondo la formula della "settima arte", finisce con loccupare una posizione centrale in quel più generale mutamento dell' oriz­zonte ermeneutico che definisce la modernità: la nascita del!' autore cinema­tografico segue un percorso parallelo a quello della morte del!' autore tout court, inteso come cardine interpretativo e fondamento della prassi estetica.

VItalia degli anni Dieci è da questo punto di vista un campo d'osserva­zione privilegiato. Vesempio forse più significativo è quello della partecipa­zioue di D'Annunzio a Cabiria che, se nella realtà è limitata a un ruolo mar­ginale, finisce con il legittimare definitivamente il ruolo del!' autore per un'opera cinematografica. Ma alla spregiudicatezza mediatica e alla lungi­miranza di D'Annunzio corrisponde anche un riposizionamento della figu­ra del letterato e del!' artista rispetto a un campo d'azione che sembra richie­dere nuovi modelli per la prassi creativa:

Quando firma il contratto con Pastrane per le didascalie di Cabiria D'Annunzio, con una sola mossa, si assume la piena paternità di un'opera non sua: si offre, direm­mo oggi, come testimonial della qualità del prodotto e gli conferisce un marchio di legittimità artistica e culturale che modifica, in modo decisivo, l'equilibrio dei rap­porti tra cinema e letteratura. D'Annunzio vede nello schermo il luogo privilegiato di realizzazione dell'opera d'arte totale teorizzata da \'X'agner e Nietzsche10

Altri ancora sono i motivi di interesse che caratterizzano il panorama italia­no, e che qui ci limitiamo a ricordare: i primi scritti di Ricciotto Canudo, che già nel 1908 intravvede un autore capace di dare corpo ali' opera d'arte totale, e che provvederà ad esportare il dibattito culturale italiano nel ferti­le tenitorio dell'avanguardia francese"; la pubblicazione nel 1916 del mani­festo La cinematografia futurista che darà un contributo fondamentale alla legittimazione del regista come autore; la nascita, con i film delle dive, a par­tire dal 1913, di una figura di autore-attore (o più spesso attrice: il caso della Bertini che accrediterà se stessa come vera autrice di Assunta Spina è il più noto)" che, se anche di durata limitata, ci segnala come il cinema contri­buisca a porre la questione del!' autore in un contesto mediologico prima ancora che estetico. Tutti episodi che forniscono un'ulteriore dimostrazio-

10. Ivi, p. 25. , 11. Cfr. almeno R. Canudo, Trionfo del dne111atogra/o [1908], ora in G. Grignaffini, Sape­

re e teorie del cinen1a. Il periodo del rnuto, CLUEB, Bologna 1989; Id., La naissance d'un sL'<ièJne art. Essai sur le ciné!natographe [1911], ora in Grignaffini, Sapere e teorie del dne1na, cit. Sul rapporto tra il cinema e le arti cfr. L.' Quaresima (a cura di), Il dnenta e le altre arti, la Bien­nale di Venezia-Marsilio, Venezia 1996, e in particolare ivi, in relazione ai temi di questo capi­tolo, il saggio di P. Bertetto, I.:estasi dell'ùnmagine. La teoria del cinetna al di là delle arti.

12. Cfr. Costa, Autobiografia, cit., pp. 165-6.

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1, NASCITA DELL'AUTORE CINEMATOGRAFICO

ne di come il cinema italiano degli anni Dieci sia uno dei cardini intorno a cui ruota un riassetto complessivo dell'istituzione artistica.

Ma da questo punto di vista è forse Pirandello, con la sua idea del cine­ma come strumento di asse1vimento dell'uomo alla macchina, di automa­zione e meccanizzazione del processo creativo, a spingersi più lontano. Le ragioni della sua condanna senza appello saranno le stesse, viste in positivo, su cui si svilupperà una delle linee di pensiero principali dell'avanguardia, a conferma della modernità delle intuizioni pirandelliane, al di là delle con­notazioni pessimistiche e apocalittiche. I:avanguardia francese dunque si troverà a far convivere l'oggettività meccanica e "oltreumana" del cinema, già indicata dai futuristi e, in negativo, dallo stesso Pirandello, con il sog­gettivismo necessario a ogni pratica autoriale. Una contraddizione che non tarderà a dimostrarsi straordinariamente fertile.

r.3 Ragionare per autore

Prima di continuare la strada che nel corso del secondo capitolo ci porterà a individuare, confrontando lesperienza dell'avanguardia francese con la situazione del cinema italiano, una prima tappa di consolidamento dell' au­tore cinematografico, è opportuno fermarci un attimo per un breve bilan­cio che ci indichi come mai, a quasi un secolo di distanza, una questione come quella dell'autore continui a permanere ancora nei discorsi attuali, chiedendosi anche quali sono i campi discorsivi a cui essa si riferisce già dai primi decenni della storia del cinema.

Intanto c'è da interrogarsi sul motivo che rende così forte, così resi­stente agli attacchi, così difficilmente eliminabile la nozione di autore. Si possono naturalmente accampare delle ragioni di comodo, oppure una motivazione di tipo generale, che definirei antropologica''· Per quanto riguarda le prime, si dirà che si usa lautore come etichetta di comodo per identificare oggetti che non necessariamente ad esso fanno riferimento (uno stile, ad esempio, o ancora più semplicemente un gruppo di testi): uso stru­mentale, dunque, di un nome che ha mera funzione di indice. Per quanto riguarda invece la motivazione antropologica, essa giustificherebbe la necessità di una figura d'autore con il bisogno da parte del comune spetta­tore, del cinefilo o dello studioso di attribuire parte della responsabilità comunicativa a un soggetto antropomorfo altro da sé: si tratterebbe dunque di una mitologia, in senso proprio, di cui non può sfuggire laspetto evi­dentemente religioso.

13. Cfr. a questo proposito l'idea di schenti personificanti in D. Bord\\'ell, Making Mea­ning, Inference and Rhetoric in the I11terpretat10n o/ Cinema, Hatvard University Press, Cam­bridge-London 1989.

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L'OMBRA DELL'AUTORE

Per quanto ampiamente motivate siano queste due opzioni, esse lascia­no senza spiegazione la capacità operativa della nozione di autore. Una capacità di tutto rilievo, se è vero che la nozione di autore, attaccata da molti, ridimensionata, decostruita, rappresenta nel discorso sul cinema un oggetto di dubbia consistenza teorica, ma di indubbio valore euristico. Mi sembra però che ciò che la rende così tetragona agli attacchi e alle re,~sioni sia una sua qualità intrinseca di natura assai particolare. Si tratta di quella che definirò come una sorta di "perfezione" che emana dal ragionare "attra­verso" l'autore. Uso qui il tennine "perfezione'' nel senso in cui si usa in lin~ guistica indicando, ad esempio, un tempo verbale come "perfetto"; oppure per come si usa nel linguaggio comune quando si dice "perfezionare un contratto". Nel senso dunque di sottolineare l'aspetto puntuale, concluso di ciò di cui si parla, piuttosto che la sua natura processuale, mobile, mutevo­le. Nel campo mobile della storia e delle pratiche discorsive, ragionare per autore ,è un po' come piantare dei paletti, segnare dei confini, definire ter­ritori. E un modo per costruire oggetti chiusi, "perfetti" appunto, per il pro­prio discorso1 la cui coerenza viene definita a priori, e in cui l'interpretazio­ne trova un prin10 limite, Ìravalicabile, ma. sempre presente, nel circolo chiuso che si stabilisce tra autore e opera.

Ritornerei però allo iato che sembra potersi individuare, a proposito della nozione di autore, tra valore euristico certo e consistenza teorica dub­bia. Da w1 lato esso segnala le inadeguatezze e i limiti dei modelli teorici di riferimento, che non riescono a rendere conto al loro interno di quelle acqui­sizioni che, per altra via, quella del ragionamento per autore, divengono accessibili al discorso sul cinema. Cosa questa finanche owia e che non scan­dalizza nessuno. Dall'altro, però, ci indica che l'autore come strwnento euri­stico trova la sua forza attraverso la rimozione del problema: in altre parole, è solo dando per scontato ciò che è incerto, cancellando laspetto per così dire fantasmatico, in cui levidenza è solo laltra faccia della falsità, ricondu­cendo la credenza nell'alveo più tranquillizzante della cognizione, che è pos­sibile porre in opera il "ragionamento per autore". Esso opera dunque attra­verso la "chiusura" di una contraddizione: contraddizione che viene, se non cancellata, almeno resa ineffettiva, sottratta al suo aspetto dinamico e pro­duttivo, in 'altri ternllni ('perfezionata". E c'è da chiedersi se ciò non co1n­porti anche la rimozione di un aspetto dell'oggetto cinema.

Ciò che insomma il ragionamento per autore ci nasconde del cinema, proiettandolo in maniera naturale, ma un po' surrettizia, nella tradizione mil­lenaria delle ·a1ti, è la sua valenza istituzionale che si è storicamente formata, articolata e modificata, peraltro in un contesto, quello della modernità, che già di suo provvedeva a minare, scuotere o riassestare i cardini più classici dell'interpretazione: concetti come arte, opera o autore, appunto. Senza volerci allontanare dagli aspetti specifici dell'oggetto che qui ci riguarda, sarà

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bene comunque ricordare che la storia del cinema si sviluppa per intero in un periodo di profondi mutamenti dell'orizzonte ermeneutico.

Appare a questo proposito indicativa la differenza che viene a crearsi, già dai primi anni, tra il cinema europeo e quello americano: se infatti nella tra­dizione americana il lavoro intellettuale è completamente integrato nel ciclo produttivo, l'intellettuale europeo, erede del filone romantico, ha spesso pri­vilegiato una relazione diretta, fuori dai rapporti di produzione, con il pub­blico. Si tratta qui più dell'immagine che due culture si costruiscono dell'in­tellettuale e dell'artista che non della realtà dei fatti, tuttavia questo importa fino a un certo punto: sta di fatto che a Hollywood il regista, dopo aver visto riconosciuto il suo ruolo professionale, tenderà a ritagliarsi degli spazi di autonomia realizzativa all'interno del ciclo produttivo, e sarà quello il campo di eventuali rivendicazioni. In Europa, il riconoscimento del regista proce­derà di pari passo con lattribuzione alla sua figura di una competenza espressiva e comunicativa che egli dovrà valorizzare e difendere. Egli diven­terà, agli occhi del pubblico, il garante comunicativo del film, realizzando un circuito ermeneutico esterno, anche se non estraneo, alla logica produttiva. Questa è anche la ragione per cui, nel delineare la nascita dell'autore cine­matografico ho seguito la linea europea; arriveremo solo nei capitoli succes­sivi a vedere come il modello autoriale europeo si proietterà e si adatterà, attraverso la politique des auteurs, ali' ambito americano.

Fare la storia dell'autore cinematografico non vuol dire dunque farla contro lautore, ma piuttosto portare alla luce delle differenze, che rischia­no di svanire in un panorama piatto dominato da un unico punto di vista. Per questo è intanto opportuno chiarire che cosa indichiamo con autore, perché, come abbiamo visto, per quanto familiare e naturale ci appaia rife­rirsi ad esso, anche un'analisi schematica ce ne mostra la molteplicità di sensi e la difficoltà di attribuirgli una designazione univoca. Mi sembra che possano essere almeno quattro le accezioni a cui ci riferiamo parlando di autore cinematografico e che qui vorrei ripercorrere, per capire, alla luce di quanto già detto, come vadano a definirsi nei primi decenni del cinema.

r.4 Diritto d'autore

Autore viene inteso in questo caso come colui che detiene la proprietà intel­lettuale dell'opera, nel nostro caso del film. Ciò compmta che il film stesso venga considerato come "opera d'arte}) o quanton1eno ''opera d'ingegno" e pertanto ricada tra gli oggetti disciplinati dalle varie normative, nazionali e internazionali, che compongono il diritto d'autore. Senza volere entrare qui in un campo, quello legislativo, particolarmente articolato e complesso, che tra laltro prevede in genere una distinzione tra i diritti morali (inalienabili,

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riguardanti grossomodo il controllo sull'opera) e quelli patrimoniali (relativi allo sfruttamento dell'opera), va ricordato che anche da questo puuto di vista lo statuto dell'autore cinematografico ha subito notevoli modificazioni, ed è stato spesso caratterizzato in maniera sfumata, con contorni incerti.

Se infatti una sentenza francese del 1904 stabiliva che il movimento nel cinema non poteva essere attribuito a un autore, «ma alla macchina parti­colare a mezzo della quale tale movimento è ottenuto e all'illusione ottica generata dalla successione ininterrotta dei quadri davanti ali' obiettivo e alla loro proiezione sullo schermo»'\ di lì a poco la revisione berlinese, datata 1908, della convenzione di Berna decretava che:

Vengono protette con1e opere letterarie o artistiche le produzioni cinematografi­che quando, attraverso i dispositivi della messa in scena o le combinazioni degli incidenti rappresentati, l'autore avrà conferito all'opera un carattere personale e originale15.

Per quauto progressiste possano sembrare le dichiarazioni del 1908 rispetto ai giudizi di soli quattro anni prima, va notato che esse vengono rese nel­!' ambito di un discorso che riguarda!' adattameuto di opere letterarie o tea­trali, e dunque il cinema può essere arte solo nella misura in cui adatta, in maniera originale, un'opera già in sé dotata di valore artistico.

A questo stadio !'artisticità, e dunque la possibilità di individuare un autore, è fondata in ultima analisi sulla lingua e sulla parola, e proprio la mancanza di parola - se non nelle didascalie - costituirà lo scoglio princi­pale per l'ammissione del cinema nella cerchia delle arti tutelate dal diritto d'autore. Per questa stessa ragione, l'ingresso massiccio dei letterati nell'in­dustria cinematografica, proprio negli anni immediatameute successivi alla conferenza di Berlino, ha avuto un ruolo importantissimo nel processo di definizione dell'autore cinematografico. Dobbiamo inoltre notare che il diritto d'autore applicato al cinema, almeno nelle sue prin1e formulazioni è ben lungi dal risolvere la questione dell'attribuzione della paternità dell' o­pera a un soggetto specifico. Così in Italia, ad esempio, verso la fine degli anni Dieci si sviluppavano tra i giuristi criteri come la «comunione d'auto­re» e la <<locazione d'opera»16, atti appunto ad affrontare una situazione in cui!' attribuzione autoriale appariva tutt'altro che defmita. Del resto, !'atti­vità legislativa è comunque legata a un contesto culturale più ampio, e dun­que, nel nostro caso, alle questioni che approfondiremo nei punti successi-

14. Corte d'appello di Pau, 18 novembre 1904, citato inJ.-lvI. Pontier, Le droit du cù1én1a, PUF, Paris 1995, p. 48.

15. Citato inJ.-J. Meusy, La voiefrançaise vers la reconnaissance du réalisateurco1nn1eauteur cti1éJnatographique, in Franceschetti, Quaresima (a cura di), Prùna dell'autore, cit., p. 189.

16. Cfr. Brunetta, Fuori l'autore!, cit., pp. 17-30.

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I. NASCITA DELL'AUTORE CINEMATOGRAFICO

vi. Non stupisce affatto, allora, che la legislazione francese, in anni ben più recenti, nel 1985 per la precisione, abbia definitivamente preso le parti del regista, attribuendo a lui solo la qualifica di autore e accogliendo così quel­la che era stata una delle parole d'ordine della Nouvelle Vague.

r.5 Autore come produttore

Autore è il responsabile materiale della fattura dell'opera. In questa pro­spettiva il film viene considerato come artefatto o come prodotto. A parte i casi di "autore artigiano", che ha il controllo completo sull'intero ciclo pro­duttivo del film, e a volte anche su quello distributivo, concentrando in un unico soggetto tutte le competenze tecniche e creative necessarie alla sua realizzazione, casi che riguardano essenzialmente il cinema dei primi anni (ancora Méliès è un buon esempio) e parte dell'avanguardia e dello speri­mentalismo, il film è in genere opera collettiva ed è pertanto assai difficile far convergere su un unico molo o persona l'intera responsabilità produtti­va. Nel corso dei primi decenni del cinema sia i discorsi che le pratiche rea­lizzative hanno privilegiato di volta in volta ruoli professionali diversi, fmo a stabilire un'equivalenza - stabilizzatasi in Europa verso la fine degli anni Venti -tra lautore e il ruolo professionale del regista. Del resto, anche rima­nendo nell'ambito del cinema dei primi anni si va da un predominio del­l'attività di ripresa, a cui corrisponde la valorizzazione, anche terminologi­ca, del ruolo dell'operatore (1895-1900 circa, per la Francia), a quella della messa in scena, ricalcata sul modello teatrale, a cui corrisponde (nei primi anni del secolo) la figura del mettetti' en scène (il corrispettivo italiano, insce­natore, è decisamente più tardo).

I: attenzione sembra dunque concentrarsi su due ruoli non specifici, in qnanto, se da un lato l'operatore è solo colui che "gira la manovella", met­tendo in atto in maniera più o meno meccanica le capacità riproduttive insi­te nel mezzo cinematografico, dall'altro il metteur en scène è colui che riadatta alla riproduzione filmata un'attività propria di altre forme spetta­colari. A questo si aggiunga lo scarso interesse mostrato ali' epoca per l' atti­vità di assemblaggio delle vedute animate (quello che oggi chiameremmo montaggio), attività certo non irrilevante, soprattutto nel momento in cui le vedute diventano pluripuntuali, ma presente, ad esempio, anche nei film a trucchi. Tutte indicazioni che sembrerebbero dare ragione a chi ritiene che il cinema dei primi anni non produce affatto oggetti specifici e riconoscibi­li, quali a noi oggi appaiono i film, suscettibili di essere percepiti social­mente come artistici e dunque come opera di un autore. l:unico autore pos­sibile sarebbe allora una sorta di "autore-bis", <<l'esercente, che presenta ai suoi spettatori il programma che egli stesso ha concepito e di cui è, per

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quanto sia, lautore»". Una visione di questo genere, se ha il merito indub­bio di farci comprendere meglio le differenze che separano il cinema delle origini dalla storia successiva anche per quel che riguarda la questione del­!' autore, ipotizza di fatto che i primi anni del cinema siano estranei al cine­ma stesso come fenomeno sociale e istituzionale riconoscibile.

Senza voler entrare nel merito di una querelle che rimane aperta e dibat­tuta tra gli storici, vorremmo notare soltanto che la comparsa di ruoli come loperatore o il metteur en scène, per quanto poco specifici fossero, costi­tuisce il primo passo verso l'individuazione di figure professionali propria­mente cinematografiche che negli anni successivi si contenderanno la pater­nità delle produzioni filmate. Del resto, prop1io la genesi delle figure pro­fessionali sarà alla base della difficoltà di stabilire una responsabilità realiz­zativa univoca: per quanto paradossale possa apparire, si è molto più precisi attribuendo un film a Méliès che non, supponiamo, a Cappellani. Proprio questa difficoltà porterà a distinguere e privilegiare una responsabilità di tipo progettuale, ideativa e in ultima analisi creativa, e\~dente ad esempio nell'equivalenza autore-regista, che costituisce il fondamento dell'autoriali­tà intesa in senso estetico. Da questo punto di \~sta, l'idea di autore come realizzatore risulta un passaggio necessario per arrivare all'autore come arti­sta a cui va attribuita la responsabilità estetica del film,

r.6 Autore come ruolo professionale

Come abbiamo visto, a cavallo del primo decennio del secolo si vanno defi­nendo nel cinema dei ruoli professionali specifici. Questo processo, al pari di altri più o meno contemporanei, come la diffusione del lungometraggio o il passaggio dall'acquisto al noleggio da parte dell'esercizio cinematogra­fico, è integrato in una progressiva istituzionalizzazione del cinema, che si dota cosi di caratteri riconoscibili e di forme prescrittive, sia linguistiche che produttive. Per quanto si possa discutere se in questo modo si attui o meno una frattura radicale con il cinema dei primi anni, più interessante è il fatto che il cinema cominci ad avere un prodotto specifico, il film, che viene frui­to come oggetto autonomo e identificabile, ben diverso dal programma composito delle vedute animate che attirava lo spettatore delle origini.

Il passaggio è sostanziale, dal nostro punto di vista, perché proprio in quanto oggetto autonomo il film può essere quantomeno proposto tome oggetto artistico a cui corrisponda un'intenzione d'autore. E non è un caso se proprio nel 1908 il discorso legale, come abbiamo visto, riconosce la possibi-

17. A. Gaudreault, Les "chtunps de l'intervention cinéastique" a l'époque du cinénttl des prentiers ten1ps, in Franceschetti, Quaresima (a cura di), PritJtà dell'autore, cit, pp. 33-4

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I. NASCITA DELL'AUTORE CINEMATOGRAFICO

lità, pur limitata ai casi di adattamento, di un autore propriamente cinema­tografico e se a partire dal 1913, quando cioè il processo di istituzionalizzazio­ne sta arrivando al suo compitnento, si cominci a usare in Francia, sia pure in maniera occasionale e limitata, il termine autore per indicare il regista.

Il cinema di quegli anni vive dunque una contraddizione: a un oggetto chiaramente individuato, il film, non corrisponde un soggetto altrettanto facilmente individuabile, lautore, e questo proprio a causa del processo di differenziazione dei ruoli professionali della produzione cinematografica. In questa contraddizione !'attribuzione della paternità autoriale rimane a lungo incerta, con strascichi che, come nel caso della diatriba tra lo sceneg­giatore e il regista, si trascineranno ben oltre il periodo del muto. E se la contrapposizione regista-sceneggiatore rimane la più evidente del periodo, come dimostra anche la storia delle associazioni professionali (solo nel 1929 la Société des auteurs et compositeurs dramatiques francese accettò al pro­prio interno dei registi cinematografici), durante tutti gli anni Dieci accade che ad essere indicati come possibili autori siano anche lo scenografo, I' o­peratore, !'attore e soprattutto le case di produzione, che nel frattempo si erano dotate di marchi riconoscibili e di apparati pubblicitari che avevano anche lo scopo di imporre il nome della casa presso il grande pubblico.

È interessante notare a questo proposito come un esponente della prima avanguardia francese, Louis Delluc, a fronte della difficoltà di defi­nire con sicurezza un ruolo autoriale preciso, lanci nel i92I il termine "cinea­sta", a indicare chiunque sia coinvolto in qualche misura nell'attività cine­matografica, compresa la figura del critico o del teorico, Solo a partire dagli anni Trenta, quando già autore e regista sembrano legarsi definitivamente -grazie anche ai buoni uffici dell'avanguardia - il termine assume quella valenza assai più ristretta con cui viene adoperato anche oggi.

r.7 Autore come ruolo estetico

In questa accezione l'autore è individuato come soggetto responsabile di una "intenzione d'autore", di una ((volontà autoriale" che diviene il presupposto e il criterio generativo dell'opera. Essa è implicitamente legata alle accezioni precedenti e in parte le presuppone: perché vi sia un'attribuzione estetica è necessario non solo che il film appaia come opera autonoma, ma anche che sia possibile individuare un responsabile materiale o ideativo e realizzativo del fihn stesso. Non stupisce dunque che nell'ambito del discorso cinemato­grafico si cominci a parlare di "autore di film" proprio nel momento in cui si va perfezionando lassegnazione al ruolo professionale del regista delle maggiori responsabilità creative. Potremmo anzi dire che lascesa del regista è in gran patte parallela al diffondersi, prima nelle pubblicazioni settoriali e

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poi nel linguaggio comune, di una nozione di autore inteso come artista, artefice e unico responsabile del valore estetico di un film.

In Francia, tra la fine degli anni Dieci e i primi anni Venti, fu un grup­po di giovani intellettuali, legati alle esperienze del!' avanguardia letteraria e artistica, e approdati al cinema con l'idea di valorizzare le possibilità di un'arte nuova, a dare un impulso decisivo alla diffusione del discorso auto­riale in campo cinematografico. Gli esponenti della prima avanguardia, nome con cui venne indicato il loro movimento, elaborarono in maniera più o meno implicita, perché non si trattò mai di una vera teorizzazione, un'i­dea autoriale che era perfettamente funzionale a un progetto la cui posta in gioco era il rinnovamento radicale del cinema francese. Se era necessaria una rivoluzione estetica, i suoi promotori non potevano che essere i respon­sabili ultin1i della creazione artistica, degli autori dunque.

Come vedremo più avanti, anche l'autore invocato dalla prima avan­guardia è solo parzialmente sovrapponibile a quello a cui ci riferiamo oggi: esso rimaneva legato a un progetto dai contorni utopici, in cui la centrali­tà del cinema era il cardine su cui imperniare un mutamento dell'intero universo estetico. Tuttavia Delluc, che pure consegnava alla lingua, attra­verso il termine cineasta, tutte le ince1tezze del!' attribuzione autodale, non aveva dubbi nel considerare Abel Gance lautore della Dixième symphonie {!918): una contraddizione soltanto apparente perché proprio in quanto cineasti a tutto tondo, capaci di riunire le diverse competenze ideative e creative della produzione cinematografica, Gance, I:Herbier, Dulac, Epstein e lo stesso Delluc erano, al di là di ogni dubbio, gli autori dei pro­pri film.

Così La Dixième symphonie, opera fondativa della prima avanguardia e riferimento estetico per una generazione di cineasti - e il termine opera è in questo caso pienamente adeguato - fu probabilmente il primo film d'auto­re, inteso in senso estetico, della cinematografia francese. Anche a questo proposito dobbiamo però registrare, tra le tante deviazioni di percorso della storia che stiamo seguendo, un'ulteriore contraddizione: se il film di Gance fu il primo film d'autore prodotto in Francia, si potrebbe affermare che il primo film d'autore francese fu in realtà un film americano, The Cheat (C. B. DeMille, 1915). Si trattò del prin10 grande avvenimento estetico social­mente riconosciuto a svolgersi in una sala cinematografica, che coinvolse il Tout Paris, lélite intellettuale della capitale. Come ebbe a dire qualche anno dopo Delluc, fu allora che molti intellettuali compresero le potenzialità arti­stiche del cinema e alcuni di essi decisero di dedicarsi a quello che sembra­va un terreno vergine e ricco di promesse.

I:impatto di The Cheat e delle altre produzioni americane - i film di Griffith, Ince e le comiche di Charlot - nel panorama stagnante del cinema francese fu enorme, come testimoniano le parole di Henri Langlois:

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I. NASCITA DELL'AUTORE CINEMATOGRAFICO

Immaginate uno Spitfire che venga a posarsi tra i monoplani del 1914, una sei cilin­dri che appaia al Bois nel 1906; [ ... ] quando, nel 1914 o 1915 ci si sedeva nella pol­trona di un cinema, ci si attendeva qualunque cosa, soprattutto di distrarsi, ma certo non di vedere sorgere dallo schermo una nuova Gioconda, un nuovo Fokin, un altro Whitman'8•

Dunque, per quanto la storia dell'autore cinematografico sia una storia europea, furono americani i primi cineasti ad essere considerati - in Fran­cia - autori a pieno titolo. Ciò awenne certo perché il cinema americano appariva un serbatoio di straordinarie innovazioni tecniche e linguistiche, ma anche perché critici raffinati come Vuillermoz e Delluc o teorici dell' a­vanguardia come Epstein avevano di quel cinema una visione squisitamen­te europea, come del resto sarebbe capitato molti anni dopo con la Nou­velle Vague. Per quanto brillanti fossero le loro analisi, essi scambiarono per caratteri originari del cinema americano - che appariva di un modernismo primigenio, immediato e incontaminato - quelle che invece erano speri­mentazioni già pronte a trasformarsi in standard produttivi di un cinema che viaggiava molto velocemente verso l'istituzionalizzazione e la produzio­ne industriale. La disillusione non tardò ad arrivare, e nel 1931, sconfessan­do gli entusiasmi di gioventù, Epstein scrive: «DeMille pretendeva di visua­lizzare leleganza americana. I suoi film sono solo un grande magazzino»''. Ciononostante, il passo decisivo era fatto e anche attraverso un parziale fraintendimento del cinema americano si era consolidata quell'idea emi­nentemente europea che vedeva requivalenza tra cineasta, regista e autore, tutti sinonimi indicanti lo stesso soggetto responsabile della qualità estetica di un film, della sua artisticità, alla fine.

I.8 Un primo bilancio

A differenza di un testo letterario, la cui materia, il cui "luogo", apparten­gono comunque alla lingua naturale, e che è, dunque, facilmente ricondu­cibile a un soggetto enunciatore, a un enunciante, e quindi a un autore della performance comunicativa, in un testo audiovisivo quello che generica­mente e geneticatnente viene considerato autore può avere, in realtà, un controllo relativo, a volte addirittura minimo, sul testo stesso. Si tratta, in buona sostanza, di una produzione stratificata, sia dal punto di vista delle procedure, sia dal punto di vista degli attori coinvolti nel processo, e per­tanto, necessariamente, desogettivizzata.

18. H. Langlois, Trois cents ans de cinétna. Ecrits, Cahiers du Cinéma-Cinémathèque Française-Fondation Européenne des Métiers de l'Image et du son, Paris r986, p. 229.

r9, J. Epstein, Btlan de fin JJtuet [1931], in Id.,. Ecrits sur le cinéJna, vol. I, Seghers, Paris 1974, p. 236.

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L'OMBRA DELL'AUTORE

Se adattiamo all'ambito del cinema e dell'audiovisivo l'idea di un autore garante della relazione tra lopera e le sue interpretazioni, ci tro­viamo in una situazione curiosa, in cui di fatto il prodotto audiovisivo non è che una sortà di epifenomeno, di manifestazione di un senso che è in qualche modo custodito, proprio di un soggetto che precede il testo. Abbiamo a che fare, in sostanza, con due idee, con due modi di pensare l'autore, che si riflettono poi nel modo in cui si arriva a determinare l'au­tore ·di un testo cinematografico o audiovisivo. Da un lato un autore "logocentrico": al centro troviamo la parola, il logos, e!' autore, che ha con la sua parola un rapporto di tipo consequenziale. In questo senso, la nozione di autore prende forma a partire dall'idea che ci siano soggetti che hanno "diritto di parola" e altri che, invece, non ne hanno.

Dall'altro, la visione dell'autore inteso come il realizzatore materiale che mette in gioco un legame di proprietà diretta fra autore e oggetto: loggetto appartiene a chi l'ha creato, che può deciderne a sua discrezione. Ci sono, tra questi due atteggiamenti, delle relazioni rilevanti e non a caso la que­stione della costituzione dell'autore nell'ambito del cinema lega in maniera forte, difficilmente discernibile, due questioni diverse: lo statuto artistico dell'oggetto e il diritto d'autore (il diritto di essere autore, e di rivendicare la proprietà dell'oggetto creato).

Queste due linee procedono a lungo in maniera separata, distinguibile: da una parte, abbiamo i testi come luoghi di parola, che fanno riferimento all'autore e a llll'autorità di natura sociale, estetica, culturale.ecc.; dall'altra, invece, persiste un'idea di attribuzione. Le acque iniziano a confondersi nel momento in cui sorge la possibilità di riproduzione degli oggetti artistici, nel momento in cui cioè lopera d'arte (sia essa un quadro, un vaso, llll'in­cisione) non resta unica, ma produce un multiplo potenzialmente infinito, replicabile, che spezza quel rapporto di appartenenza e vicinanza con la propria creazione. È evidente poi che uno degli ambiti nel quale la possibi­lità di riproduzione estensiva è maggiore è proprio quello delle immagini, e in particolare delle immagini in movimento.

Nel momento in cui si ha eh.e fare con un oggetto potenzialmente ripro­ducibile in un numero infinito di copie, si rende evidente il venir meno del­l'idea della proprietà, dell'appartenenza, supportata dall'elemento del con­tatto e della vicinanza. Si perde il rapporto diretto fra il soggetto e I' ogget­to prodotto. La relazione d'autore cosl intesa non regge più, e va sostituita con una relazione che ponga un rapporto tra un oggetto, che a questo punto è un oggetto virtuale, immateriale, da cui proliferano infinite repliche, e il suo soggetto realizzatore, lautore.

Si tratta di un passo cruciale, perché nel momento in cui abbiamo a che fare non più con un oggetto materiale, bensì con un bene immateriale, la tentazione forte è proprio quella di ricalcare questa modalità di relazione su

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r. NASCITA DELL'AUTORE CINEMATOGRAFICO

quella "logocentrica", per la quale l'autore è da intendere come garante della parola. Se dovessimo definire questo tipo di oggetto immateriale, non potremmo che vederlo come "espressione" dell'autore, oggetto di parola, discorso. Si ha uno slittamento verso il verbale: l'oggetto non è più pro­prietà dell'autore, ma diventa espressione verbale dell'autore, si passa per­tanto da un'idea di realizzazione di un oggetto materiale, a un'idea di pro­prietà intellettuale di un oggetto discorsivo da parte di un autore. Questo spostamento è ricco di implicazioni. Ferma restando l'idea di realizzazione, poiché è comunque sempre un soggetto, ancorché collettivo, che realizza un oggetto, cio che cambia è l'idea di autore che da autore-realizzatore diventa soggetto/garante.

La contraddizione si fa sempre più evidente. Se da un lato il cinema e l'industria dell'audiovisivo moltiplicano i ruoli che concorrono all'invenzio­ne del film, dall'altro la critica «reinventa l'autore per cercatvi la fonte e la garanzia dell'unità filmica»'°.

È interessante, a questo proposito, quanto nota Carla Benedetti:

[. .. ]c'è come un'ipostasi dell'autore da parte della critica cinematografica: si pre­suppone che vi sia un'intenzionalità, un "tono)), un'identità, ad attraversare le com­petenze particolari, e che la qualità artistica dell'opera finita passi per l'azione uni­ficante di un regista. Il paradosso consiste allora nel fatto che la molteplicità esibita può essere intesa e apprezzata solo se riportata sotto la giurisdizione dell'autore unico21

Una contraddizione che ci accompagnerà, manifestandosi in forme diverse, lungo tutto il percorso di questo volume, a partire proprio dal paradosso della forma autoriale nell'avanguardia francese, da cui prenderemo le mosse nel prossimo capitolo.

20. M.-C. Ropars, P. Sorlin, Voies fiùniques pour un procès d'auteur, in "Hors Cadre", n. 8, 1990, p. 24,

21. C. Benedetti, I:otnbra lunga dell'autore. Indagine su una figura cancellata, Feltrinelli, Milano 1999, p. 86.

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Asincronismi I: Francia e Italia

2.I

La Francia negli anni Venti

Nella Francia degli anni Venti la contraddizione tipica delle avanguardie storiche, tra la natura meccanica, impersonale del medium-cinema e la necessità di espressione soggettiva propria della figura del!' artista-autore, assume molte sfaccettature diverse, in particolare nella prassi e nei discorsi cinematografici ruotanti intorno alla questione della fotogenia, centrale nella riflessione di cineasti come Delluc o Epstein. Mi limiterò qui a sof­fermarmi su alcuni punti che illustrano bene come, se in quegli anni si arri­va a una completa definizione del!' autore - attraverso discorsi che ne indi­viduano la specificità cinematografica, e dunque lo identificano con il regi­sta -, contemporaneamente è proprio l'autore a subire una sorta di "vir­tualizzazione", in un progetto il cui fine ultimo va ben oltre la legittimazione artistica del cinema.

Un primo punto riguarda lo straordinario interesse dimostrato dagli autori citati, e dai loro contemporanei, per quello che oggi definiamo cine­ma non-fiction. Un interesse che può in patte essere spiegato situandolo in un contesto culturale più ampio: un certo gusto stupefatto per le cose della natura di derivazione simbolista, che trova nel Maeterlinck "naturalista" (il volume dedicato alla vita delle api, ad esempio) la sua espressione più nota e influente. Una spiegazione solo parziale, in quanto trascura lapporto spe­cifico e fondante del cinema a quella che si configura come una sorta di ('scoperta di un inondo" mai visto prima, attraverso le immagini filmate. Cosa che del resto appare evidente anche solo considerando qualche brano tra i più noti. Delluc, ad esempio:

Tutta Parigi ha acclamato un film che è, a dire il vero, stupefacente. Chi non ha ancora visto la traversata di W1a nave da trasporto militare e delle vedette di scorta con il brutto tempo? È bello. Ho avuto modo di vederlo tre volte, in tre sale diver­se, e con tre tipi di pubblico. L'entusiasmo è stato lo stesso dappertutto. E un gros­so sospiro ha sottolineato la fine, arrivata troppo presto! Questa è bellezza, bellez*

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L'OMBRA DELL'AUTORE

za superiore, direi quasi la bellezza del caso, ma bisogna rendere giustizia all'opera­tore; ha saputo vedere con tale abilità da farci provare le sue stesse sensazioni di mare, di cielo, di vento. Non è più un film. È la verità naturale; e il pensiero che tra qualche anno simili visioni ci saranno offerte in quantità è un grande conforto. Come non accordare dunque la propria indulgenza a un'arte del tutto nuova, che i francesi hanno ornato di tutti gli intralci possibili? Poco importa, la libereremo1

Bellezza del caso, bellezza naturale, bellezza nella sua nudità. E il termine nudità non è usato casualmente. Commentando un altro brano di Delluc proprio dedicato alla rappresentazione cinematografica del corpo nudo, Francesco Casetti' ha collocato le riflessioni di questo teorico nel contesto di alcune grandi negoziazioni che il cinema svolge da protagonista sulla grande scena allargata della cultura visiva novecentesca. Nel caso specifico, quando Delluc nella Photop!astique au cinéma3 descrive il cinema come luogo di esibizione dei corpi e al contempo come luogo in cui questa esibi­zione riesce sempre a riscattarsi dalla volgarità sublimando la nudità, si può trovare nelle sue parole la consapevolezza che il cinema come medium riesce nella mediazione tra l'esibizione bruta della cose e la messa in forma dell'esperienza. Questa messa in forma, questa sorta di trasfigurazione sem­bra legata a poteri fotogenici che non hanno un centro nel soggetto creato­re. Dipendono dal medium in quanto tale. Eppure è anche vero che un certo ruolo va riconosciuto all'operatore, a una certa prassi del cinema. Per usare i termini di Casetti4, anticipando alcune conclusioni a cui giungerò nel corso del capitolo, si potrebbe dire che il cinema, nella sua immensa attivi­tà di negoziazione tra alcune istanze del Novecento, ricopre anche un ruolo nella ridefinizione (per successivi aggiustamenti) della nozione d'autore, tra l'immagine dell'autore-creatore che, tramite il cinema, si compie in modo definitivo, e l'immagine opposta di un autore, di un realizzatore che mette la propria sensibilità singolare e puntuale al servizio delle potenzialità, delle qualità morali, connaturate al nuovo medium.

Ma torniamo a Delluc: il cinema non è ancora nato, e per farlo nascere forse si tratta appunto di liberarlo da alcuni intralci. Che cosa intendesse nel caso specifico Delluc con il termine "intralci" non è dato di sapere in modo esatto. Tuttavia è opportuno ricordare che in questo periodo, nel pensiero

r. L. Delluc, Beauté [1917], in Id., Ecrits cinén1atographiques, vol. II, Cinétna et Cie, Ciné­mathèque Français, Paris 1986 (trad. it. La bellezza del ci11en1a, in G. Pescatore, a cura di, Foto­genia. La bellezza del cine111a, in "Cinema & Cinema'', n. 64, maggio-agosto 1992, p. 109).

2, Cfr. F. Casetti, I.:occhiO del Novecento. Cine!l1a, esperienza, tnodernità, Bon1piani, Lv1ila­no 2 005, pp. 39-45.

3. L. Delluc, La photoplastique au ciné111a [1918], in Id.; Ecrits cùtétnatographiques, voi. II, Ci11é111a et Cie, Cinémathèque Français, Paris 1986.

4. Cfr. Casetti, L:occhio del Novecento, cit. Cfr. anche, dello stesso autore, Co1nn1u11icati­ve Negotiation in Ci11e111a and Tel.evision, Vita e Pensiero, Milano 2002,

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2. ASINCRONISMI I: FRANCIA E ITALIA

teorico francese, si nota una contrapposizione tra narrativo e non-narrativo parallela e non sovrapponibile a quella appena considerata tra fiction e non­fiction. Una profonda sfiducia nelle potenzialità narrative del medium (intenso come mezzo a statuto rappresentazionale, basato sulla continuità di montaggio e l'assorbimento dello spettatore nel tessuto diegetico) è osser­vabile, in varianti diverse, sia in un teorico con1e Vuillermoz, sia in Epstein stesso.

Nel primo, sotto l'influenza di Bergson, del simultaneismo derivato da Apollinaire, della cultura simbolista, e dell'attrattiva teorica esercitata dal-1' analogia musicale, si trova una concezione del cinema come niezzo poe­tico, capace di realizzare giustapposizioni di immagini disparate. In questa prospettiva, l'immagine d'autore è quella del cineasta-poeta, di colui che tramite il cinema riesce a realizzare la propria soggettività creatrice, spin­gendosi verso obiettivi che il medium-scrittura, per le sue caratteristiche intrinseche, aveva almeno in parte inibito; cioè di colui che <<trasforma, ricrea, trasfigura la natura, secondo il proprio stato emotivo[ .. .), concen­tra tutta la forza del sentimento del pensiero in un oggetto inanimato, [ .. .) impone la sua personale visione degli esseri e delle cose a migliaia di spet­tatori>>'. In altri termini, «è il momento della scelta ispirata, dell'interpre­tazione personale, della vita colta attraverso un temperamento. È lora dello "stile"»6. Qui la soggettività poetante è "liberata" dal cinema, e non viceversa (come pure, vedremo, può capitare): tramite il cinema si compie l'immagine del poeta, nel senso che essa arriva alla sua realizzazione più piena. In questo senso invece l'immagine cinen1atografica, come sintetizza efficacemente I.:Herbie1; <<non è altro che lepifania di un'immaginazio­ne»'. Rispetto a ciò che scriverà Astruc nel secondo dopoguerra a propo­sito della caméra-stylo, pur rimanendo in un ambito che considera lautore (quanto meno quello letterario, se non quello cinematografico) in termini tradizionali, siamo già in una posizione in un certo senso più avanzata: non si afferma una sorta di analogia in termini di espressione della soggettività tra medium cinema e medium scrittura. Si tratta piuttosto di riconoscere le possibilità di un maggiore compimento dell'individualità poetante proprio attraverso l'immagine in n1ovimento.

In Epstein la narratività del cinema è un luogo in cui si pone il pro­blema del rapporto tra vero e falso: «Il cinema è vero: una storia è menzo-

5. E. Vuillermoz, Devant l'écran, in "Le Temps", 10 octobre 1917, citato in R. Abel, Foto­genia e cinegra/ia, in Pescatore (a cura di), Fotogenia, cit., p. 19.

6. E, Vuillennoz, Devant l'écran. Esthétique, in "Le Temps", 27 mars 1920 (trad. it. Davanti allo schenno. Estetica, in Pescatore, a cura di, Fotogenia, cit., P- 106).

7. M. L'Herbier, Suggestions pour illustrer et défendre une co11ception française du ciné­tnatographe [1918], sul film Rose-France, ora in N. Burch, 1\1arcel I}Herbier, Seghers, Paris 1973, p, 62.

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L'OMBRA DELL'AUTORE

gna»8• Ma questa affermazione non muove nella direzione del cinema puro, basato sui rapporti ritmici e plastici tra le inquadrature, quanto piut­tosto verso un'idea peculiare dell'elemento narrativo come qualcosa di immanente al discorso filmico'. Questo rifiuto del cinema puro'° mostra bene la distanza della concezione epsteiniana rispetto a un'idea del cinema come campo di realizzazione dell'io poetante, come espressa da Vuiller­moz o lJHerbier. Si tratta per molti versi di un superamento di un'idea di autore di derivazione letteraria che già prelude a una diversa coscienza del medium: non più - o non solo - la forma estetica di una soggettività che qualifica il cinema come arte> quanto invece un luogo che si dà "per sé)) e dunque in maniera indipendente sia dall'espressione di una soggettività, sia dalle regole della costruzione narrativa, senza tuttavia negarsi né la pos­sibilità di essere espressione poetica né la capacità di narrare. Uno statuto dunque apparentemente paradossale, che in realtà pone al centro la poten­za mediale del cinema, confinando tra gli effetti "collaterali" sia l'espres­sione estetica che la parola narrante. In questo senso appare più chiaro cosa significhi "liberare" il cinema e da quali "intralci" e quale debba esse­re il ruolo, ancora una volta paradossale, dell'avanguardia e dell'autore.

Per un verso> è evidente una volontà, comune a tutti coloro che sono parte della prima avanguardia, di cambiare il cinema, di rinnovarlo, di "libe­rarlo", secondo le parole di Delluc. Una volontà che sembra presupporre un inte1vento diretto, soggettivo e consapevole. Una volontà che è difficile non pensare come intenzione d'autore. Dunque, il fatto stesso di porsi come avanguardia, contro il cinema corrente, sen1bra implicare una posizione autoriale. D'altro canto, questa stessa volontà porta immediatamente a valo­rizzare un cinema, quello di non-fiction, in cui sembra non vi sia alcun posto per la figura dell'autore, in cui la bellezza è quasi "la bellezza del caso", al massimo filtrata attraverso il sentimento empatico dell'operatore.

In questa prospettiva> se c'è una posizione d'autore, essa si attua non in un progetto soggettivo, una presa di parola, un'idea di poetica, ma attra­verso la messa in valore delle qualità specifiche del cinema, in particolare la capacità che gli è propria di farci vedere la realtà in un modo nuovo, oppu­re, con un leggero slittamento, ed è la versione di Epstein, di farci vedere una nuova realtà. Se esiste un'ipotesi autoriale in Delluc (ma lo stesso vale

8. J. Epstein, Bonjour Cti1é!11a [192.1], in Id., Ecrits sur le cinén1a, Seghers, Paris 1974, voi. I {trad. it. in I.: essenza del cinen1a. Scritti sulla settùna arte, Biblioteca di B & N, Roma 2002,

p. 86). 9. Cfr. M. Dall'Asta, «Non ci sono rnai state storie». I teorici francesi e il problen1a del rac­

conto, in Pescatore (a cura di), Fotogenia, cit. 10. Sulla questione del cinema puro in Epstein cfr. G. Pescatore, I!anùna al rallentatore.

]\Tote su "La Chute de la 1naison Usher", in "Cinegrafie", n. 10, 1989, ora in Id., Il narrativo e il sensibile. Se111iotica e teoria del a·ne1na, Hybris, Bologna 2001, pp. 39-47.

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2. ASINCRONISMI I: FRANCIA E ITALIA

per altri), essa riguarda la prassi, ossia il fare cinema. I: autore non è dunque un soggetto di stato, ossia un soggetto che sussume in sé come potenzialità, l'intera sua opera, sia dal punto di vista dell'intenzione che della cognizio­ne. È più propriamente un agente, la cui attività specifica è quella di "libe­rare" il cinema, di realizzarne le potenzialità. Egli è dunque un realizzatore, nel senso letterale del termine. Un autore, dunque, che ci appare in una forma assai distante dalla concezione oggi più familiare e corrente. Un'idea di questo genere è pienamente confermata dalla prassi cinematografica vera e propria, ossia dai fùm di Delluc o Epstein, ma lo stesso credo possa vale­re per Gance o I:Herbier. Ci troviamo di fronte, in questi casi, a qualcosa di assai diverso da un'opera: piuttosto un procedere per tentativi, con fughe in avanti e improvvisi arretramenti, sperimentazioni ed episodi convenzio­nali, rimescolamenti e ossessioni.

Possiamo soffermarci adesso su un secondo punto non privo di inte· resse. È noto come, soprattutto in Epstein, si trovi correntemente l' affer­mazione che il cinema è una lingua. Cito anche in questo caso il passo più noto:

D'altra parte, il cinema è una lingua, e come tutte le lingue è animista, ovvero pre­sta un'apparenza di vita a tutti gli oggetti che designa. Più un linguaggio è primiti­vo, più questa tendenza animista è marcata. È inutile sottolineare quanto la lingua cinematografica sia ancora primitiva per quel che riguarda i suoi termini e le sue idee; non è dunque il caso di stupirsi che sappia dare una vita così intensa anche agli oggetti più morti che si trova a descrivereu.

Si vede dunque come la questione della lingua sia collegata a quella della "reinvenzione del reale" di cui si è parlato prima a proposito di Delluc: è la forza animista della lingua-cinema che permette di dare vita al mondo, di trasfigurarlo, di creare quell'impressione di nuovo, di mai visto prima che a Delluc sembra la qualità più straordinaria della nuova arte. Più avanti, nello stesso saggio, Epstein precisa che «non bisogna lasciarsi andare ad analogie facili e ingannevoli» con la lingua naturale; dunque <<la grammatica del cine­ma è una grammatica specifica»12

La questione della lingua ci appare di tutto rilievo per affrontare il pro­blema dell'autore: difatti, perché ci sia autore, bisogna che questi possa usu­fruire di un linguaggio, o quantomeno di un mezzo espressivo. Resta allora da stabilire fino a che punto laffermazione di Epstein sulla natura lingui­stica del cinema vada in questa direzione: la lingua del cinema di cui parla

11. J. Epstein, Le cinétnatographe Vtl de l'Etna [1926], in Id., Ecrits sur le cinéJna, Seghers, Paris 1974, voi. I (trad. it. Il cinentatogra/o visto dall'Etna, in I: essenza del ci11et11a. ScTitti sulla settùna arte, Biblioteca di B & N, Roma 2002, pp. 51-2).

12. Ivi, trad. it. p. 57.

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L'OMBRA DELL'AUTORE

Epstein sembra cosa ben diversa dal linguaggio cinematografico a cui comunemente facciamo riferimento. Per Epstein la lingua-cinema non è affatto un insieme di codici che veicolano il senso, essa è il senso stesso, ed è w1 soggetto terzo rispetto all'interlocuzione. Più che un sistema signifi­cante, il cinema è dunque un sistema significativo. Dire che «la grammatica del cinema è una grammatica sua propria» non significa limitarsi a sottoli­neare le differenze tra due forme espressive, tra due linguaggi: è piuttosto la rivendicazione di una sorta di autonomia del cinema, il quale parla «per sé», ha una sua propria intelligenza del mondo, non può essere usato come sub­ordinato a un soggetto autore, in quanto «l'obiettivo è se stesso»1J. È lo stes­so Epstein a porre laccento sulla differenza tra il linguaggio, inteso nel senso più con1une, e la lingua-cinema:

Attorno a ciò che si vorrebbe dire, le parole schizzano via co1ne una saponetta bagnata. Questa sera un amico, volendon1i spiegare tutto con eccessiva esattezza, ha sollevato all'improvviso le braccia per due volte senza aggiungere altro. Come altri credono sulla parola io ho creduto a quel 1nutisn10 affaticato. [. . .] Sulla linea del­l'interlocuzione interferenze di sentimenti imprevisti ci interrompono. Resta tutto da dire, e rinuncian10, esausti. Allora lo schermo accende il suo silenzioso cielo alto­parlante. Sicurezza di quel linguaggio che. un occhio quadrato riversa gracchiando. La tela capta un furto d'auto. Al di sopra delle teste, dall'arco a schermo, lieve come un fumo, passa Babilonia ricostruita in scintille'4.

Quest'ultimo brano di Epstein conferma il discorso già fatto: da un lato la lingua-cinema, che è innanzitutto se stessa, mal si presta ad essere piegata alle necessità espressive di un autote, essa rimane fondamentalmente altra, e anzi trova il suo spazio proprio nel momento in cui il soggetto vacilla, perde la propria capacità di espressione, sovrastato dai sentimenti; dall'al­tro, al cinema non esiste presa di parola, ogni atto linguistico di questa lin­gua particolare ha come risultato necessario il cinema e il mutismo. Fare cinema è in qualche modo una deroga alla propria capacità di parlare. I.:u­nico modo possibile per essere autori è allora rinunciare fino in fondo ad esserlo, accettare l'afasia e annullarsi come autori nella prassi. Essere, anco~ ra in senso proprio, realizzatori di cinema.

Nel!' esperienza della prima avanguardia francese. è in gioco non una nuova arte, ma oo' arte nuova, attraverso la quale la percezione est~tica pote~ va in1pregnare la \~la quotidiana. Se per certi versi una tale concezione già presagiva la spettacolarizzazione del sociale, essa vedeva però il cinema in una posizione e in un ruolo ben diversi da quelli che ci appaiono oggi, in un

13.J. Epstein, J;objectif lui-rnéJ11e [r925], in Id., Ecrits sur le dnéJ11a, Seghers, Paris 1974, vol. I (trad. it. parziale in G, Grignaffini, Sapere e teorie del ciuerNtt, CLUEB, Bologna 1989, p. 183).

14. Epstein, Le ci11é111atographe, cit., trad. it. p, 57,

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universo già multimediale di cui esso è solo una delle aree di manifestazio­ne, in un croce\~a di flussi mediatici a cui è difficile assegnare un centro. In altre parole, se negli anni Venti il cinema poteva apparire il luogo dell'inno­vazione attistica, luogo in cui lUl manipolo di cineasti a tutto tondo si eser­citava nell'avventura di voler cambiare tutto, essendo dunque autori fino in fondo e negando nel contempo il proprio ruolo, essendo autori di film ma anche autori del futuro del cinema, oggi è l'innovazione stessa ad apparirci delocalizzata, diffusa, ma proprio per questo inafferrabile in quanto momento singolare. E all'autore tocca allora rientrare nei ranghi, non più avanguardista e avventuroso deve accontentarsi del suo ruolo di genio minore, abdicando alla Storia il diritto di disporre il futuro del cinema.

Intanto comunque, a partire da qui, dai luoghi di queste riflessioni, se non si può dire che la funzione-autore ottenga ancorn un riconoscin1ento mediatico, senz'altro essa si istituzionalizza attraverso i vari percorsi carat­terizzanti la storia del cinema francese tra anni Venti e Trenta, anche nella direzione di un'accentuazione degli aspetti "personalistici", soggettivi, della creatiwtà. E lo fa sia attraverso quel tipo di cinema che verrà a volte etichettato come "avanguardia narrativa" e che introduce una serie di spe-1·imentazioni formali all'interno di occorrenze narrative melodrammatiche, cariche di implicazioni psicologiche, proprio per permettere una chiara e coerente espressione di una personalità d'autore (i prototipi di questo filo­ne possono essere considerati film come Mater Dolorosa di A. Gance, 1919, o El Dorado di M. I.:Herbier, 1921); sia nel cinema "di qualità", che vive di prestiti (seguiti talvolta da rifiuti) dall'universo teatrale o romanzesco, di Carné e Dm~wer; sia nei processi di assunzione dell'eredità delle avan­guardie all'interno di una tradizione di cinema sociale (I:Atalante di J. Vigo, 1934); sia, infine, nella rapida canonizzazione di un autore come Renoir15.

2.2

Scenari italiani: l'autore tra anni Venti e Trenta. Un esempio: Augusto Genina

Assai diverse appaiono le sorti della figura d'autore nella cultura e nel cine­ma italiani. Per cogliere al meglio queste differenze soffermiamoci ancora brevemente su alcune riflessioni dei futuristi, di D'Aununzio e su uno scrit­to di Epstein in una prospettiva comparata.

Per quanto si sia insistito sulla sfiducia epsteiniana nei confronti dell' e­lemento narrativo, non si deve credere che questo sentimento abbia impe-

15. Cfr. R. Abel, Il cineJJta francese verso un JJ1utan1e11to paradig!!1atico, I915-192!)',

D. Andre\\', Cine1na francese: gli anni Trenta, entrambi in G. P. Brunetta (a cura di), Storia del cine111a 111ondiale, vol. III, t. 1, !.:Europa. Le cine111atografie nazionali, Einaudi, Torino 2000.

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dito una riflessione sul possibile rapporto tra cinema e letteratura, e quindi tra cinematografo e istituzione letteraria. J;idea di Epstein è che il cinema «satura la letteratura modetna>>'6. Egli auspica un procedimento del tutto inverso a quello dell'adattamento letterario per lo schermo (idolo polemico che unisce tutti gli avanguardisti sulla scena internazionale tra loro, nonché alla critica francese del secondo dopoguerra), una sorta di "simpatia" tra procedimenti cinematografici e letterari nel nome di un adeguamento dei secondi ai primi. In termini generali questo adeguamento prende coscienza di un'accelerazione nel campo del consumo culturale che porta a un supe­ramento di categorie estetiche consolidate, come il "classico", in nome di un elogio della bellezza effimera («Una pagina che dura non è mai una pagi­na completa: è troppo generica [ ... ].Non auguro nemmeno al mio peggior nemico di diventare un classico e un cumulo di fesserie>>)'?.

Il modo in cui Epstein difende il concetto di letteratura cinematografi­ca ha a che fare con procedimenti specifici del linguaggio filmico indivi­duati in modo puntuale: estetica della prossimità (i primissimi piani alla Griffith che hanno il loro analogo letterario nella successione rapida dei dettagli della scrittura moderna); sguardo analitico («non si guarda la vita, la si penetra»)''; estetica della rapidità mentale (i film scorrono in fretta, ci obbligano a pensare in fretta, cosl come nella scrittura di Rimbaud <<in pochi secondi bisogna forzare la porta di dieci metafore»)''; estetica della successione rapida («la successione rapida e angolare tende verso il cerchio perfetto della simultaneità impossibile»)'°.

Se noi confrontiamo queste parole con alcune posizioni italiane, oltre agli innumerevoli punti di contatto, troviamo anche almeno un'assenza significativa. Manca sostanzialmente in Italia una attenzione cosl definita per procedimenti individuati sul piano peculiare del linguaggio (ad esempio in relazione a fattori presi in seria considerazione da Epstein: successione degli angoli di ripresa, uso della scala dei piani ecc.). Sicché l'impressione generale è che il cinema entri nella riflessione letteraria italiana con tanta forza proprio in virtù di un'assenza di consapevolezza circa i tratti distinti­vi del linguaggio e del medium cinematografico (esattamente ciò verso cui tutta l'argomentazione di Epstein torna sempre); cioè che questa assenza di consapevolezza faciliti in qualche modo velleità e progetti di scambi e con­taminazioni tra istituzioni, se non tra linguaggi.

16.J. Epstein, Le dnétna et !es lettres tnodernes [192!], in Id., Ecrits sur le cinéJna, Seghers, Paris 1974, val. I (trad. it. Il dnetna e la letteratura 111oderna, in E essenza del d11e111a. Scritti sulla settitna arte, Biblioteca di B & N, Roma 2002, p. 20).

17. Epstein, Le cinétna et !es lettres 1nodernes, cit., trad. it. pp. 23-4. 18. Ivi, trad. it. p. 21.

19. Ivi, trad. it. p. 22.

20. Ibid.

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I futuristi inscrivono il cinema nei propri interessi in quanto vedono in esso un mezzo che per agilità e vastità può sfidare i supporti tradizionali della comunicazione estetica. E se è vero che nelle idee marinettiane sul cinema, in una sorta di rovescio delle posizioni di Pirandello, si trova una riflessione entusiasta sulla natura meccanica del nuovo medium1 I1interesse pe1· il linguaggio cinematografico in quanto tale - per meglio dire, per il suo livello propriamente filmico - è comunque assai circoscritto (e non influen­zato dal pensiero di alcuni teorici, come Canudo e Luciani che pure, senza fare troppi proseliti, avevano cominciato o avrebbero cominciato di lì a poco, a riflettere organicamente su queste questioni).

Si può dire che tale interesse riguardi essenzialmente alcuni espedienti atti ad esibire i parametri tecnici della ripresa e a sottolinearne lartificio: accelerati, inversioni di scorrimento della pellicola ecc. Per quanto incurio­siti dall'equivalente cinematografico di procedimenti retorici della lingua, Marinetti e i suoi sodali pensano a un utilizzo del cinema per produrre una parodia dei processi di traduzione intersemiotica (<<Esempio: Canto dell'a­more di Giosue Carducci: "Da le rocche tedesche appollaiate I sì come falchi a meditar la caccia ... ". Daremo le rocche, i falchi in agguato»)" oppure effetti paradossali di letteralizzazione del livello metaforico e analogico con­sentito dai linguaggi verbali («Esempio: se vorremo esprimere lo stato ango­scioso di un nostro protagonista invece di descriverlo nelle sue varie fasi di dolore daremo un'equivalente impressione con lo spettacolo di una monta­gna frastagliata e cavernosa>>)", cioè pensano al cinema in prospettiva lette­raria (o antiletteraria, che, nel caso specifico, è la stessa cosa): non si pensa a rendere futurista il cinema ma a rendere cinematografico il futurismo, nelle forme di un interesse tutto sommato generico per la messa in movi­mento della parola (anche in senso tipografico).

Ciò che manca è una trattazione minimamente esauriente delle diffe­renze di linguaggio e delle procedure espressive: non a caso non esiste un cinema (futurista) dell'avanguardia italiana, mentre ne esiste uno dell' avan­guardia francese. La descrizione di Vita futurista (1916), l'unico film futuri­sta (comunque non sopravvissuto) conferma tale lettura. A parte qualche attenzione per i trucchi, si deve essere trattato soprattutto di una serie di riprese di un profilmico futurista: quanto di più lontano si possa immagi­nare dal concetto di rielaborazione autonoma di uno specifico formale.

Nel loro essere interessati a una nuova idea di pratica artistica che assu­ma il cinema come supporto aspecifico, i futuristi, paradossalmente, non sono dissimili dal loro idolo polemico: D'Annunzio. Quest'ultimo, come emerge dal breve scritto Del cinematografo constderato come stmmento di

21. R T. Marinetti et al, La cine111atogra/ia futurista, in "L'Italia futurista", n. 9, II set­tembre 1916, ora in P. Hulten (a cura di), Futuris111o&Futuristni, Fabbri, Milano 1986, p. 449.

22. Ibid.

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ltberazione e come arte di trasfigurazione, pensa al cinema in termini di fon­dazione di una nuova arte metamorfica, legata ali' estetica del movimento, al trucco e all'elemento meraviglioso23. Un'arte il cui scopo ultimo è, come si è detto, la realizzazione dell'ideale wagneriano, ma il cui scopo immediato è I' abbattimento dello spettacolo teatrale per consentire la rinascita di un nuovo teatro (come veniva auspicato anche da Gordon Ctaig). Il cinema quindi è sì un'occasione per la realizzazione di un ideale estetico, ma è anche un medium di passaggio.

Insomma, D'Annunzio e i futuristi, due istituzioni letterarie che vanno (giustamente) considerate tra le più propense ad assegnare un ruolo crucia­le al cinema sulla scena culturale del primo Novecento, condividono la stes­sa idea del cinema come medium-contenitore, come luogo transitorio per realizzare una distruzione delle arti tradizionali (del cattivo teatro, della tra­dizione narrativa e drammatica ecc.), come occasione di fondazione di una nuova arte, in nome della poliespressività (termine che compare esplicita­mente nel manifesto del 1916), come piattaforma di partenza per diramare nuovi sviluppi in molteplici dilezioni, non necessariamente cinematografi­che, mentre in Epstein si può parlare piuttosto del cinema come luogo di arrivo e di concentrazione di un'evoluzione tra le arti (un punto terminale quindi, non un punto di dispersione).

Se è vero quindi che con D'Annunzio si produce un cambio dei rap­porti tra cinema e letteratura che spinge il primo termine vetso la legittima­zione artistica in chiave autoriale e il secondo termine verso un'inedita inte­grazione nello scenario allargato dell'industria culturale, è altrettanto chia­ro che il processo di formazione di una certa autorialità, di un certo profilo d'autore, non è una funzione diretta di un'idea di cinema forte come quel­la evidente nell'avanguardia francese.

Diciamo tutto questo perché si può ipotizzare che ci sia una correlazio­ne tra il formarsi in Italia di personalità autoriali nel corso degli anni Venti e una concezione dominante aspecifica del linguaggio cinematografico. E che questa correlazione, a propria volta, abbia un ruolo (non esclusivo, ma non marginale) nel portare a modelli autoriali nazionali non tanto frutto di istituzionalizzazione autonoma, sulla scorta dell'autorità rappresentata dal-1' esperienza delle avanguardie storiche (cosa che avviene in Francia, anche grazie a un modello storiografico come quello di Langlois'4, attento ai pro­cessi di continuità), quanto piuttosto improntati sul piano delle risorse

23. G. D'Annunzio, Del cine1natografo considerato con1e stnanento di liberazione e co1ne arte di trasfigurazione [1914], ora in P. Cherchi Usai, Giovanni Pastrane. Gli anni d'oro del cine­nta a ]àrino, UTET, Torino 1986.

24. Cfr. la raccolta di scritti di H. Langlois, Trois cents ans de cinélna. Ecrits> Cahiers du Cinéma-Cinémathèque Française-Fondation Européenne des Métiers de l'Image et du son, Paris 1986.

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espressive a un eclettismo generalizzato e sul piano dell'istituzione a una sussunzione, una "presa in prestito" per assimilazione-analogia, dell'autori­tà dell'autore letterario nel campo cinematografico.

Del delinearsi di un simile modello autoctono di figura di autore mi pare esempio significativo il percorso di affermazione di Augusto Genina, sia in relazione al ventaglio delle risorse espressive e stilistiche associabili al suo cinema, sia in relazione al rapporto con l'istituzione letteraria e certi suoi autori (soprattutto Lucio D'Ambra).

Alla fine degli anni Dieci Geuina è già una personalità del settore, rico­nosciuta, stimata, assai ben remunerata: gli Annali del teatro italiano del 1921

lo attestano come direttore artistico meglio pagato, seguito da Antamoro, Camerini, Bonnard, Gallone, Pastrane''· Siamo in una fase di transizione che prelude ad anni di crisi e ridefinizione del mercato cinematografico ita­liano, e che pure si lascia alle spalle un quinquennio di consolidamento del­!' assetto industriale. La sensibilità culturale di Genina appare da subito del tutto estranea a quella "misura grande" del cinema nazionale che Gian Piero Brunetta descrive come l'incrocio tra espansione produttiva e titani­smo culturale in base al quale la letteratura universale, il repertorio teatrale della tradizione, le scuole figurative del passato venivano assunti come ter­reno di confronto e riproposizione, in un'unica spinta pedagogico-spetta­colare". La duttilità, la coscienza del ruolo del pubblico e dell'industria (tratti più volte, e a seconda dei casi, più o meno esplicitamente rimprove­rati al Nostro) fanno parte di uno scenario diverso. La figura di Genina, regista per eccellenza "duttile", realizzatore adattabile ai diversi universi produttivi (dalla Cines alla Milano Film, dalla ucr alla propria casa di pro­duzione, la Genina-Filrns, fino alla UFA), va letta nel contesto di spinte che caratterizzano l'industria culturale del periodo nel suo complesso.

Fausto Colombo ha individuato nella capacità di attingere in modo nuovo a repertori spettacolari e letterari preindustriali, nel senso dell'im­provvisazione e del riadattamento di risorse narrative straniere, alcune delle ragioni principali del successo di prodotti culturali di massa legati al mondo dell'editoria popolare e del fumetto nei primi vent'anni del Novecento". Si tratta di caratteristiche che possiamo attribuire anche alla macchina spetta­colare geniniana tra anni Venti e Trenta, in un passaggio di tempo fatto di cecità produttiva, perdita del mercato straniero e di controllo sull'invasione americana, nel quale il nome di Genina, assieme a quello di Pittaluga per la

25. A. Costa, I leoni di Schneider. Percorsi intertestuali nel cine111a ritrovato, Bolzoni, Ron1a 2002, pp. 104-5.

26. G. P. Brunetta, Cù1enut n1uto italiano, in Id. (a cura di), Storia del cinen1a 1nondiale, vol. m, t. 1, I.:Europa. Le ci11eJJ1atogra/ie nazionali, cit., pp. 31-60.

27. F Colombo, La cultura sottile. Media e industria culturale in Italia dall'Ottocento 'agli anni l\Jovanta, Bompiani, i\1ilano 1998.

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produzione-distribuzione-esercizio e di pochi altri registi (Lucio D'Ambra, Carmine Gallone, Mario Camerini, e poco dopo Alessandro Blasetti), indi­ca una linea di tendenza sostanzialmente nuova e ricca di conseguenze per il cinema nazionale, anche al di là del confine cronologico dei primi anni Trenta.

Una controtendenza"' che è utile indagare sia nel contesto nazionale sia in quello internazionale, in anni in cui in altri paesi europei si definiva una figura di autore cinematografico con caratteri specifici risultanti dalla com­posizione di diversi fattori: validazione del cinema come operazione creati­va, identificazione del ruolo registico, assimilazione regista-autore''.

In ambito nazionale, tra gli anni Venti e Trenta, Genina rappresenta un caso esemplare di distacco da quella dimensione pedagogico-spettacolare del cinema italiano a cui si riferisce Brunetta, in direzione della definizione di una figura di regista-autore che assomma garanzie di qualità tecnica ed estetica, dominio del medium cinematografico, sia pure in una dimensione artigianale avulsa da riflessioni specifiche, capacità di assorbire, per via parenterale più che per effettiva consapevolezza, le innovazioni linguistiche che caratterizzano il panorama internazionale. E tuttavia proprio rispetto a quest'ultimo si nota una sostanziale disomogeneità: se infatti nella seconda metà degli anni Venti in altre cinematografie si fa strada una sorta di prag­matismo del mestiere registico, questo accade a ridosso e alle volte in aper­to contrasto con la riflessione e la prassi avanguardistel0

• In Genina e nei suoi compagni di strada la duttilità realizzativa, la maestria dell'autore-regi­sta si fondano piuttosto sulla reazione alle formule proprie del cinema ita­liano, oramai estenuate e incapaci di reggere il confronto internazionale. Parafrasando Colombo, si tratta dunque di un "autore sottile", la cui por­tata innovativa sta assai più nell'eclettismo dell'artigiano capace di assorbi­re, convocare, riadattare e alle volte dare forma nuova a modalità tecnico­espressive concepite altrove, che non nella capacità di un'autonoma rifles­sione linguistica, ermeneutica ed estetica.

2.2.r. LA COSTRUZIONE DI UN AUTORE

Come si è giunti a un'immagine d'autore così ben definita, in termini di garanzia di qualità estetica e continuità/versatilità produttiva? Una breve

28. S. G. Germani, V. Martineili, Il d11e111a di Augusto Ge11i11a, Biblioteca dell'Immagine, Pordenone 1990.

29. G. Pescatore, Nasdta dell'autore dne111atografico, in G. P. Brunetta {a cura di), Storia del cine111a 111011diale, vol. I, !.:Europa. Miti, luoghi: divi, Einaudi, Torino 1999.

30. Esemplare in questo senso il pamphlet di H. Fescour,J,-L, Bouquet, I:idée et l'écran, Haberschill et A. Sergent, Paris 1925, fascicules I, II, III, che è una delle prime reazioni, in nome del "mestiere registico", alle concezioni dell'avanguardia francese.

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digressione sul ruolo della ricezione critica nello stabilizzare un effetto di "marchio'', o di firma, del cinema geniniano può risultare utile. Dall'insie­me degli articoli d'epoca a cui farò riferimento nel corso di queste pagine e da uno studio degli ingenti materiali antologizzati da Germani e Martinelli si possono identificare tre fasi principali nel processo di costruzione discor­siva dell' autore-Genina.

È condivisibile quanto afferma Germani: Genina c'è praticamente dal­l'inizio anche se non gli è dato di nascere grande autore, come pure ad altri succederà. In una prima fase bisogna distinguere tra l'affidabilità conquista­ta presso il mondo delle maestranze cinematografiche e la riconoscibilità di una "firma" di autore vera e propria, che è appunto altra cosa. Come abbia­mo detto, già dai tardi anni Dieci, al regista sono commissionati lavori importanti, progetti di punta di varie case di produzione. Ma il suo statuto autoriale è ancora dal profilo incerto e dal funzionamento discontinuo. Lo si nota dal fatto che molte recensioni, si tratti di elogi o di stroncature, non con­siderano il regista responsabile del risultato complessivo raggiunto, o addi­rittura non lo nominano neppure. Nella seconda parte degli anni Dieci capi­ta ancora di imbattersi in resoconti simili a quanto possiamo leggere di Luc­ciola (1917 ): «Se poi si considera che il soggetto è sostenuto da una tecnica abile e corretta, possiamo concludere che quest'opera è ben degna di figu­rare sullo schermo e di richiamare le anime sensibili» (Vice-Vidal, in "La rivi­sta cinematografica", 25 settembre 1923)''. Inoltre, anche quando la figura dell'autore è nominata e posta come principio di responsabilità dell'opera, essa oscilla tra diverse variabili riconducibili a Imo volta a differenti ruoli professionali (direttore, esecutore, esecutore artistico, rnetteur en scène, sog­gettista ecc.) secondo quel principio di incertezza di attribuzione che carat­terizza il primo periodo della storia della nozione di autore cinematografico e che abbiamo descritto precedentemente in questo libro.

Si entra in una seconda fase quando il numero di attestazioni e di richia­mi al nome proprio del regista, inteso come principale responsabile dell'o­pera, diventa rilevante in termini quantitativi. Parallelamente, le recensioni positive prendono il soprawento su quelle negative. È il periodo della fama raggiunta con La signorina Ciclone, la cui ricezione però testimonia di due fatti: in primo luogo che lapporto di D'Ambra viene messo complessiva­mente in ombra dalla personalità del regista; in secondo luogo che è anco­ra possibile per lautore letterario di maggiore successo rivendicare la pater­nità su un'opera rispetto alla quale lapporto è stato marginale. Tendenzial­mente, in questo stadio, la figura del regista-autore è ormai in grado di stare alla pari con, o di sopravanzare, quella del letterato, cosa che avviene con

31. In questo paragrafo le indicazioni bibliografiche relative alle citazioni dalla stampa d'epoca sono segnalate di volta in volta nel testo, cosl come vengono riportate dalla fonte da cui sono tratte, cioè il libro di Germani, Martinelli, Il cinenia di Augusto Genina, cit.

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D'Arnbta come con Pirandello a proposito dello Scaldino (1920): «Credo che ne siano già stati convinti tanto Luigi Pirandello, autore dell'ordito, che Augusto Genina, al quale spetta l'inquadratura e la messa in scena, di avere imbastito un lavoro di scarsissimo risultato» (Zadig, in "La rh~sta cinema­tografica", n. 13, IO luglio 1921); <<La novella di Pirandello è vecchia, l'argo-1nento è trito: ma larte di Genina è riuscita a ringiovanire la novella e a ren­dere originale la trama» (G. Giannini, in "Kines", 5 marzo 1921). Nel com­plesso le reazioni sono del seguente tenore: a proposito delle Avventure di Bijou (r919), «Augusto Genina conferma una volta di più il suo magnifico talento cinematografico. I.: autore e il tecnico vanno a gara a superarsi e riescono a fondersi meravigliosamente» ("La rivista cinematografica", n. 4, 24 febbraio 1920); a proposito di Cirano di Bergerac (1922), «Siamo infatti di fronte ali' opera di un poeta della cinematografia, che ha saputo competere vittoriosamente con l'altro poeta del lavoro e del teatro» (E. Vidali, in "L'in1pero", 28 gennaio 1926).

Il passaggio a una terza fase di consolidamento è indicato dal fatto che si rafforza e diffonde il brand dell'autore come sinonimo di "affidabile pro­fessionista". Inoltre, cosa più importante, la figura del cineasta competente si è stabilizzata al di là dei risultati e dei sti1goli giudizi. Infatti essa emerge, a monte dell'opera, indifferentemente in contesti di valutazione positiva e negativa. Anzi, sono proprio i giudizi più severi ad essere indicativi: a pro­posito del Principe dell'impossibile (1919), «Io non so veramente spiegarmi il perché Augusto Genina abbia voluto comporre questo film, dal momento che non c'è nessun segno né della sua intelligenza, né della sua esperienza cinematografica>> (G. Lega, in "Apollon", 31marzo1919); a proposito della Douloureuse (1921), «[ ... ] o Genina dormiva, o questo film non lo ha né ridotto, né messo in scena lui, né tanto meno onorato della sua consulenza artistica>> (Ignis, in "La vita cinematografica", 7 ottobre 1921). Qui le cadu­te sono descritte come incidenti di percorso, interruzioni di una continuità ben altrimenti riconoscibile, e la firma d'autore emerge in negativo, proprio nel lamento della sua assenza. Ma in questa fase può anche capitare che alla stupita constatazione dei demeriti si accosti l'attribuzione di meriti in assen­za, là dove al regista vengono ascritti risultati di cui non è responsabile, come capita con Rondini nel turbine (1921, di E. Piergiovanni, di cui solo supervisione e soggetto sono di Genina) del quale si legge: «Il soggetto e la messa in scena sono di Augusto Genina (Gugù), in cui si rivela, come del resto in tutti i films del Genina, la cura minuziosa, pedantesca quasi, di que­sto ntetteut-en-scène, per i minimi particolari» (Maxime, in ((La rivista cine­matografica", n. 5, IO marzo 1922); o con Jolly (1923, regia di Mario Cameri­ni e supen~sione di Genina): «Questo è un altro bel film che si aggiunge alla già numerosa collana dei capolavori diretti da Augusto Genina>> (F. Pinto, in "La rivista cinematografica", 25 ottobre 1924).

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La figura autoriale è ora così stabile che è comodo e naturale evocarla anche quando nei fatti non è pertinente, è ormai definita nelle sue sottospe­cificazioni (risparmio, efficienza, affidabilità, duttilità) e in confronto ad essa anche la personalità letteraria gioca un ruolo di appoggio. Indicativa a que­sto riguardo la strategia di promozione del Focolare spento (1925), film dedi­cato dal regista alla madre (in genere, il meccanismo discorsivo della dedica ha per oggetto ciò che si ritiene proprio, di diritto o di fatto), del quale, su flani e manifesti, si poteva leggere essere stato ispirato da una «SOa\1ssitna poesia>> di Edmondo De Amicis: la figura dell'autore letterario non più come garante di qualità e continuità di gusto, ma, almeno nel caso circo­scritto, con1e spunto di partenza in un processo autonomo di creatività.

Ovviamente il fronte della ricezione critica spiega solo un aspetto del problema dei consensi e delle regolarità di accoglienza che investono il lavo­ro del cineasta. È necessario anche vedere in quali modi Genina stesso abbia contribuito alla costruzione di questa immagine di sé.

2.2.2. ECLETTISMO E ORIGINALITÀ

Quanto si è detto non deve far credere che Genina sia privo di un ideale spe­cificamente estetico. Un ideale spesso in linea con le categorie ereditate dalla tradizione: si pensi alla concezione dell'abilità espressiva- o di certe sue sot­todeterminazioni, come, ad esempio, il senso del ritmo - in termini di quali­tà innata, patrimonio non assimilabile e già dato nel DNA dell'istinto creatore (<<Registi si nasce. Non si diventa>>; <<E il ritmo non lo si impara. Lo si porta dentro»)''. Egli emerge nel mondo del cinema quando il problema dell' anto­re cinematografico è stato posto (almeno in termini generali di legittimazio­ne artistica), e sa assumersene in modo automatico, quasi scontato, le respon­sabilità. Se il direttore artistico si rappresenta come responsabile dell'opera, d'altra patte non può condividere !'"immagine di autore" che si erano dati per primo Enrico Gnazzoni e subito dopo Emilio Ghione, Ginlio Antamo­ro, Carmine Gallone, Febo Mari. Se da un lato Genina tende ad aumentare il controllo personale, o quanto meno la diretta conoscenza, sulle varie fasi di realizzazione del!' opera (fino appunto ali' assunzione di un ruolo di produt­tore, di supen1sore di opere altrui) e a condi,1dere pratiche comuni ad altri realizzatori dell'epoca (come lo sfruttamento del repertorio teatrale e lettera­rio di sicuro successo, caro al gusto della media borghesia)", dall'altro, è

32. Le memorie di Genina sono state raccolte e pubblicate in "L'Europeo", n. 528 (27 novembre 1955), n. 529 (4 dicetnbre i955}, n. 530 (u dicembre r955) con il titolo Le tnentorie di Genina sono storia del cù1e1na (ora in A. Genina, Ora so che il cinenta era il tnio inondo, in Germani, Martinelli, Il cinetNa di Augusto Genina, cit., p. 44).

33. A testimonianza della sintonia tra Genina e il gusto medio del pubblico basterebbe il clima di stima e diffuso successo che accompagna quasi ogni suo film. Inoltre è facile notare

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estraneo alle formule del cinema regionale, dei forzuti, come allo sfmtta­mento intensivo e continuato del registro sovra-acuto del melodramma.

Un brano delle memorie autobiografiche dettate dal regista a Oriana Fallaci negli anni Cinquanta, illumina lo scarto in atto. In chiusura di un gustoso quanto maligno ritratto di Eleonora Duse e Febo Mari ai tempi di Cenere, Genina chiosa:

Febo Mari era un esteta, come la Duse. Così, a forza di ragionarci sopra per fare un capolavoro, fecero un pessimo film. Non capirono, nessuno dei due, che il cinema è un'arte diretta, fatta di istinto, di sangue, di nervi, e non un calcolo né un ragio­nan1ento estetico. Insomma nel cinema non basta mai la se1nplicità e a loro invece non bastavano mai le complicazioni34.

Il cinema dunque è un'arte. ça va sans dire. Eppure lestetismo contempla­tivo e cerebrale rappresenta la sua rovina. Queste parole piuttosto sbrigati­ve mettono retrospettivamente fuori gioco tutto un mondo: il monumenta­lismo spettacolare, ma non solo, anche lo spirito enciclopedico e lo sforzo di nobilitazione estetica attraverso l'idea dell'opera cinematografica come condensazione massima di passioni fatali, poteri e sentimenti sublimi, com­pendio di spinte provenienti dal teatro, dalla lirica, dall'arte figurativa; insomma, l'idea dell'immagine in movimento come superficie attrattiva, adatta a condensare, illuminare, rilanciare il gesto e la coreografia del corpo divistico, con tutti i richiami che quest'ultimo si porta appresso, dalla pittu­ra preraffaellita alla grafica delle linee liberty, dall'Art Nouveau ai richiami simbolisti e dannunziani".

con1e tale accoglienza si specifichi attraverso un gergo che ricorre a categorie es'tetiche rivela­trici, cioè connotanti medietà, gradevolezza, attraverso giudizi ripetitivi come «grazioso», «ben fatto» ecc. Cfr,, ad esempio, la ricezione di Lucciola (1917): «È una buona, graziosa, sug­gestiva commedia della Casa An1brosio. Non pretende certo di assurgere alla qualità di capo­lavoro; ma è una cosa fatta bene, con un gusto pregevole, e uno squisito senso di n1odestia» ([senza autore, senza titolo], in "Fantasma", n, 21-22, 15 maggio 1917, p. 21); «Tenue, molto tenue, invero, se1nbrruni l'intreccio, epperò perfettamente logico, e di una finezza deliziosa>> (G. Bazzoro [senza titolo], in "La cine fono", n. 351, 15-30 luglio 1917, p. nr), Stona, rispetto a questo quadro retorico e di giudizio, la reazione di Alberto Savinio (di fronte al Corsaro, 1923), con il quale pure Genina collaborerà nel secondo dopoguerra intorno a un progetto per un film su San Francesco: <~Questo Corsaro che dovrebbe essere un film pieno di n1ovimento e di drammaticità, è invece lo spettacolo più balordo e lento e seccante che abbiamo mai visto. [.,,]Il lato suggestivo del film è dato dai soliti torcitnenti d'occhi della prima attrice, dalle soli­te tensioni di mascella e di inuscoli del primo attore, dai soliti "sei tutta mia!" e "son tutto tuo!" che ortnai non comn1uovono nemmeno più le dattilografe. Alle quali virtù si aggiunga il malgusto, la laidezza, l'estetismo da frequentatori di bar milanese, la immensa volgarità delle scene colorate, e si avrà il quadro completo del Corsaro. Se si spera con roba di tal genere di risollevare le sorti del cinematografo italiano, stiamo freschi ragazzi!» ([senza titolo], in "Gal­leria", marzo 1924, ora in Germani, Martinelli, Il cinen1a di Augusto Genù1a, cit., p. 169).

34. Genina, Ora so che il a'ne111a, cit., pp. 58-9. 35. Cfr. Brunetta, Cù1ema rnuto italiano, cit., pp. 46-52.

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2, ASINCRONISMI I: FRANCIA E ITALIA

Questa fitta rete intertestuale non viene smantellata nel cinema di Geni­na, ma man mano marginalizzata in nome di qualità più discrete, del rifiuto della bella immagine disfunzionale. Non a caso il cinema geniniano negli anni Venti non è solo quello che più risolutamente tenta la via di un divismo mino­ritario e "laterale", ma anche quello che meno si confà ai canoni dell"'esteti~ ca del silenzio"; un cinema che, al contrario, da Kalida'a ad Addio giovinez­za' o Scampolo, fino alla liberazione dai vincoli tecnologici rappresentata dalla frettolosa sonorizzazione di Prix de bea11té (con l'ingombrante basso continuo rappresentato dal suono d'ambiente presente in tutta la prima parte), soffre il mutismo, e lo dà a vedere in una successione di riprese in det­taglio di fonti musicali, riproduttori sonori, treni sferraglianti, macchine tipo­grafiche, campanelli ecc. Tant'è che non stupisce il formidabile intuito con cui Genina, al di là dei toni diplomatici adottati in certe circostanze, coglie le potenzialità del sonoro, senza troppi rimpianti per il passato'6•

Intanto sono altri i termini che ricorrono con insistenza già nella critica coeva alla filmografia geniniana: leggerezza, precisione, soavità di tocco, velocità di esecuzione, perizia narrativa. Considerate superiori agli standard dell'epoca e comunque molto apprezzate furono le più o meno impegnative trasposizioni da romanzi e novelle di Grazia Deledda, Edmond Rostand, Marco Praga, e altri, come Lo scaldino (1920) che sancisce l'incontro con Luigi Pirandello; Cirano di Bergerac (1922); le due versioni di Addio giovi­neaa!, da uno dei grandi successi teatrali di Sandro Camasio e Nino Oxilia; La maschera e il volto che, tratto da una commedia di Chiarelli considerata uno dei capostipiti del teatro grottesco italiano, consente un adattamento per lo schermo nel quale l'interazione delle didascalie e di un linguaggio che esa­spera i codici del cinema muto ottiene una trasfigurazione a tratti irrealistica ma specificamente cinematografica della poetica del grottesco".

Genina rimane ancorato ai principi di una narrazione limpida, non con­fusa anche quando si tratta di trasporre soggetti originali, come quello di Pio Vanzi per Kalida' a o quello di Riccardo Cassano per Il przitcipe dell'im­possibile. Se !'eredità dannunziana appare in questo contesto residuale o indiretta, altro peso deve avere avuto la frequentazione con uomini di cul­tura e letterati come Nino Oxilia, il maestro Enrico Guazzoni, Aldo De Benedetti, lo stesso Pirandello, oltre che con Mario Camerini (dagli anni Venti collaboratore del regista) e soprattutto di Lucio D'Ambra. Quest'ul­timo fu produttore, soggettista, regista in proprio, sceneggiatore, scrittore in parte legato a una visione aristocratica del!' artista e in parte perfetto conoscitore del mercato culturale, inserito nei ritmi della produzione seria-

36. A. Genina, Il filtn vutto è tnorto: Viva il /il!!t parlante, in "Corriere dello spettacolo", 18 giugno 1929, ora in Germani, Martinelli, Il cine!lta di Augusto Ge;dna, cit., pp. 208-n, Sui tratti cli una vera e propria poetica della fonte sonora in Genina cfr. ivi, pp. 17-31.

37. Costa, I leoni di Schneider, cit., pp. 101-25.

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le (una bibliografia di una novantina di titoli, senza considerare la critica let­teraria e le collaborazioni con altri media)''· Il "dambrismo" è un marchio di fabbrica, lo stile di un autore. E la collaborazione con Genina non è priva di screzi circa la paternità e i meriti del successo della Signorina Ciclone (1917), un successo che fu internazionale e contribuì, per stessa ammissione del regista, a fare conoscere il nome di Genina anche fuori confine. I due, in ogni caso, collaboreranno ancora per Peccatrice senza peccato nel 1922,

anche se le influenze di D'Ambra su Genina sono rintracciabili, in forme più indirette, in altri episodi. Ad esempio, Antonio Costa ritiene che anche La maschera e il volto debba rientrare tra le regie condotte sotto l'influenza di D'Ambra in virtù di una costitutiva parentela tra il cinema di quest'ulti­mo e il teatro del grottesco''.

Altro tratto che contribuisce alla perizia narrativa è una priorità con­cessa al ritmo, in un sistema di interpunzione che bilancia meccanismi atti a rilanciare la fluidità narrativa e momenti di arresto o discontinuità forma­le. A tale riguardo già l'utilizzo del montaggio parallelo e delle ellissi in Kali­da'a è indicativo. Anche nelle regie degli anni Dieci e Venti, accanto a una struttura piana e tradizionale di conduzione del racconto, si accosta il gusto dell'interruzione ad opera di un segmento dinamico, o narrativamente eccentrico: si pensi al flashback menzognero (in anticipo di decenni su quel­lo ben più noto di Paura in palcoscenico di Hitchcock)'0 presente in La maschera e il volto, o al brusco carrello a retrocedere nella sequenza ambien­tata nella lavanderia in Scampolo, alla soggettiva stilistica sfocata di una donna anziana nel medesimo film. Anche il dinamismo espressivo e narra­tivo in Addio giovinezm! si esprime attraverso varie soluzioni. Nella sequen­za della presentazione dei personaggi nel locale degli studenti un accortissi­mo uso della scala dei piani concede quasi a ogni carattere l'introduzione sulla scena mediante uno stilema diverso (Ippopotamo è presentato trami­te un carrello a precedere, Leda attraverso un'inquadratura feticistica che isola, in dettaglio, le gambe dal resto del corpo, consegnandoci un perso­naggio decapitato, senza volto). Forse proprio pensando a sequenze come questa Blasetti, dopo avere riconosciuto alla pellicola un carattere squisita­mente italiano e la stessa classe delle conunedie americane o germaniche realizzate con mezzi dieci volte maggiori, afferma:

Se a volte, sia nello svolgimento dell'azione in genere, che nello stesso svolgimento di alcwtl singoli momenti, si nota un troppo marcato rifuggir delle pause ed anche una connessione di quadri che sembra succeduta ad uno strappo o ad una mutila-

38. Cfr. A. Meneghelli, Lucio D'il111bra: ipotesi per un'ti1dagine isocronica, e Id., La s1'g110-ri11a Ciclone di Augusto Genina, entrambi in "Fotogenia'', n .. 4-5, 1997-98.

39. Costa, I leoni di Schneider, cit. 40. Ivi, p. 117.

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2. ASINCRONISMI I: FRANCIA E ITALIA

zione, noi pensiamo che sia lo stesso criterio di adattamento superficiale alla nostra frettolosa sensibilità, alla nostra concitata psicologia avida di nuovo e di imprevisto quello che ha consigliato di n1oncare uno svolgimento e di arrestare la manovella troppo presto su un primo piano d'espressione) di accelerare il ritmo delle azione e il succedersi degli episodi41

Anche Francesco Pitassio ha individuato come cifra espressiva dominante del film <<ll conferimento di un dinamismo narrativo alla fonte drammati­ca>>4' mediante la frammentazione delle scene ad opera del décupage, e del racconto mediante le ellissi. Una frammentazione pensata per produrre rapi­dità senza far perdere in chiarezza4l. Tralasciando qui il problema della "fascistizzazione" di alcuni temi nel!' aggiornamento della storia da parte di Luciano Doria e Augusto Genina44, pare evidente che comunque il film del 1927 chiarisce assai bene un altro punto di continuità nella produzione del regista: il lavoro su un'inm1agine della donna alternativa a quella del divismo ufficiale e una messa in scena del corpo poco conciliabile con l'iconografia melodrammatica". Genina utilizza spesso la contrapposizione tra un corpo femminile nuovo e l'icona di una diva tradizionale: lo fa con. Carmen Eoni e

4r. A. Blasetti, Addio giovineaa!, in "Cinematografo'', I, n. 1, 6 n1arzo 1927, p. 10. 42. F. Pitassio, Per chi suona la ctunpana?, in "Fotogenia", n. 4-5, 1997-98, p. 205. 43. L'incongruenza narrativa presente nella storia e relativa alle son1mosse studen'tesche

è dovuta alle lacune nella copia oggi disponibile. 44. Nella gag di Leone che incontra una donna di colore sul treno regionale che lo porta

in città, nonché nelle sequenze sportive al parco, Paola Cristalli ha visto i segni ei.~denti di una progressiva fascistizzazione del paese. Pitassio d'altra parte ha fatto notare che la commedia stessa di Oxilia e Crunasio aveva in nuce elementi suscettibili di una lettura in chiave ideolo­gica,· a cominciare dalla con'tra.pposizione paese/città. Queste osservazioni sono tutte valide. Ma la contrapposizione tra can1pagna e città è qui confinata in un segmento tutto sommato marginale del testo (in effetti è determinante soprattutto nelle prime sequenze rurali e nella scen,a della P<lrtenza dal paese, che Pitassio stesso analizza accuratan1ente), 1nentre nel Poco-­lare spento (1924) essa struttura tutto il testo, come nota anche JeanJili (Il focolare spento di Genina, in "Immagine", II, n. ·4, f. VI, ottobre-dicembre 1983). Inoltre gli anni Venti sono un periodo di forte costruzione discorsiva del tnito della gioventù in termini di identità politica: il nesso tra giovinezza, difesa della patria e formazione virile costituirà un tratto forte del di­scorso generazionale del ventennio. Di tutto ciò, sulla linea di un tradizionale e rassicurante disimpegno spettacolare, nel film di Genina non c'è praticamente traccia .. Sulla determina­zione della categoria "giovani" nella prima parte del 'secolo scorso cfr. P. Sorcinelli, A. Vami (a cura di),Jl secolo dei giovani. Le nuove generazioni e la storia del Novecento, Donzelli, Roma 2004, pp. 21-79, n3-50. Sul rapporto tra regime fascista e cinema, V. Zagarrio, Ci11e111a e /asci­s1no. Filtn, tnodelh; ùn111agi11ari, .i\1arsilio, Venezia 200+ Sul mondo della cultura fascista e il cinema popolare, J. Hay, Popular Fi/111 Culture in Fascist Italy: The Passing o/ the Rex, India­na University Press, Bloomington 1987; J. Reich, P. Garofano (eds.), Re-viewing Fasa"stn: Ita­lrfln Cti1e111a, I922-1943, Indiana University Press, Bloomington 2002.

45. Già nel 1917, a proposito dell'interpretazione di Fernanda Negri Pouget in Lucciola si può leggere: «Consigliamo le innumerevoli dive del contorcimento di vedere come si muove e come interpreta questa Lucciola ideale. Potranno forse, con un esame di coscienza, imparare molte cose>> (Fandor [senza titolo], in "La Cine Gazzetta", 10 aprile 1917, P- 9).

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J,'QMBRA DELL'AUTORE

Rina de Liguoro nel Focolare spento. E lo fa ancora con la Boni ed Elena San­gro in Addio giovinezza! In generale l'utilizzo della Boni (in Addio giovinez­za!, Il focolare spento e Scampolo) si muove su un asse che non ha nulla a che fare con le compostezze/scompostezze emblematiche e sublimi della recita­zione femminile codificata, e che punta al gesto misurato, sdrammatizzato, al limite buffo e scomposto in chiave antiretorica. Sempre in Addio giov1c nezza! del resto, alla contrapposizione minore tra latletismo dimesso di Wal­ter Slezak e la comica fisicità "a perdere" di Augusto Bandini, fa da con­trappunto quella maggiore tra il personaggio di Dorina e il personaggio di Elena. Quest'ultimo ha qualcosa di caricaturale. Troviamo Elena mentre spia indisturbata, per la gioia del proprio desiderio e del successivo ricordo (in rapido flashback sulle scale di casa di Mario), il gesto atletico del giovane. Ma ali' enfasi sul!' ocularizzazione interna e sulla gestione del!' atto di sedu­zione condotto in prima persona non fa seguito alcun comportamento con­seguente. La femmina non sarà affatto fatale. Uscirà agilmente dalla parte, si trasformerà, per solidarietà femminile, in una sorta di zia accondiscendente e ironica, pronta a ricondurre la propria e laltrui libido entro i canoni della rispettabilità borghese: <<Elena Sangro è una donna fatale giunta alla parodia o perlomeno al ripensamento critico di se stessa»<'.

A prescindere dalla misura recitativa e dalla scelta delle attrici o degli attori, che pertiene ancora ali' ambito del profilmico, è il sistema stesso di concatenazione delle immagini a far muovere lattenzione dal corpo come unità significante in proprio al centro del quadro, alla successione delle inquadrature e alla franunentazione del gesto. La messa in scena del corpo come sintomo unitario delle passioni del!' anima e dei movimenti della psi­che tipico dell'iconografia divistica lascia spazio a una destrutturazione delle parti a opera del montaggio. In Prix de beauté questo processo sarà let­terale. Nel contrasto domestico tra Lucienne e André, i corpi, che nello spa­zio della scena quasi si sfiorano, sono inquadrati e messi in serie tramite una sorta di parodia anticipata del montaggio proibito, in campi e controcam­pi, che esclude strategicamente la compresenza di entrambe le figure nella stessa inquadratura. Nella sequenza di maggiore travaglio emotivo della protagonista, quando si tratta di scegliere, di decidere, nel tempo di una notte, se sparire o restare a fianco di André, Genina, riproducendo la matri­ce figurativa offerta dall'immagine di un foglio strappato (un contratto di ingaggio), scompone i corpi in parti: dettagli del volto, del collo, dei piedi di lei, della figura dormiente di André. Lucienne parte, si defila, si sottrae al luogo, un frammento per volta.

Pure alcune sequenze di Addio giovinezza! sono giocate su un uso della fisicità e del movimento degli attori che ottiene una sensazione di distacco

46. P. Cristalli, Addio giovinezza!, in "Cinegrafie", IV, n. 7, 1994, p. 158.

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dal materiale narrativo. Si pensi alla sequenza quasi astratta del ballo, ese­guito su un disco di charleston dagli studenti nell'appartamento di Mario, in cui i corpi funzionano quasi come marionette, richiamando, almeno indi­rettamente, un'idea di Lucio D'Ambra: l'attore come oggetto della messa in scena, pedina scenografica piegabile al motivo formale dell'inquadratura47.

2.2.3. UNA PERSONALITÀ JNTERNAZIONALE

Quando nel 1927 Geuina, terminata la seconda versione di Addio giovinezza!, interrompe la sua attività di regista italiano trasferendosi a lavorare prima in Germania e poi in Francia (per ritornare in Italia solo nel 1936) è già reduce da una serie di successi internazionali. Egli ha sempre curato le relazioni con gli interlocutori europei. Abel Gance aveva ammirato Femmina {!918) e gli aveva proposto una collaborazione. Lucciola fu espottato in Spagna, Svezia e nel resto d'Europa durante il conflitto. Dei successi intemazionali della Signo­rina Ciclone si è già detto. A partire da questo film, in Francia, i consensi sono quasi unanimi (I' eccezione più significativa potrebbe essere rappresentata dal Cirano, che invece in patria ha senza dubbio uno strepitoso successo di criti­ca)4'. Pur assente, il regista scrive resoconti sulla situazione produttiva stra­niera, rimproverando un mancato accordo tra le forze europee, proponendo un modello di cooperazione tra soggetti di diverse nazionalità49. Inoltre incombe come figura di produttore e socio cofondatore dell'ADIA (assieme a Mario Camerini, Gaetano Campanile-Mancini, Aldo De Benedetti, Gabriel­lino D'Annunzio, Luciano Doria, Roberto Robetti, Guglielmo Zorzi) e come esempio di successo internazionale all'estero. I giornali di settore tengono aggiornati i propri lettori attraverso atticoli che informano sulla popolarità tedesca di Carmen Boni e titolano: <~attività e il successo di Augusto Geni­na all' estero>>'0 • Sul finire degli anni Venti alcuni settori della critica descrivo­no minuziosamente lo stato di crisi del cinema italiano, invitano a raccolta «gli onesti, i migliori, i giovani>>. Sul "Tevere" di Telesio Interlandi e sulla blaset-

47. Meneghelli, Ludo D'A1nbra, cit., p. 18r. 48. Gem1ani e Martinelli accreditano l'ipotesi del successo parigino. Invece Emanuelle

Toulet, citata anche da Costa (I leoni di Schneider, cit., p. 105) accrediterebbe l'ipotesi con­traria dell'unica eccezione: E. Toulet, Il cinenta muto italiano e la critica francese, in V. Marti­nelli (a cura di), Cinema italiano in Europa z907-z929, Associazione italiana per le ricerche di storia del cinema, Roma 1992, pp. 11-36. Cfr. anche V. Martinelli, I Gastarbei!er fra le due guer­re, in "Bianco & Nero", n. 3, 1978; Id., Cineasti italiani in Gennania tra le due guerre, in Id. (a cura di), Cinema italiano in Europa, cit.

49. A. Genina, Cù1etnatografia europea, in "L'eco del cinema", V, n. 37-38, dicembre 1926-gennaio 1927. Cfr. anche G. Lega, Am1nonime11ti, in "Il Torchio", II, n. 10, 13 marzo 1927; Id., Artisti che si confessano, in "Il Torchio", II, n. 41, 9 ottobre 1927; G. V, Perché 11011 li dJiamia­nto a noi?, in "Cinematografo", m, n. 3, 3 febbraio 1929.

50. Anonimo [senza titolo], in "Cinematografo", II, n. 4, 18 febbraio 1918.

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tiana "Cinematografo" il clima è di chiamata alle armi, mediante concorsi per autori, direttori, scenografi". Simili reazioni fanno da preludio ai due "film della rinascita": Sole (1929) di Blasetti e Rotaie (1930) di Camerini, entrambi quindi riconducibili ai nomi più rappresentativi degli anni Trenta, soprattut­to in un quadro di rinnovato confronto con la cinematografia internaziona­le". Proprio in un sinùle contesto, legato da un lato a un tentativo di coali­zione delle forze dei singoli paesi per far fronte all'invasione hollywoodiana, dall'altro ali' opzione di uno stile internazionale principalmente basato sul­]' assinùlazione e la divulgazione delle sperimentazioni espressive in parte derivate dalle avanguardie, si colloca Prix de beauté {r930)". Il film patte da un'idea di Pabst per un'altra pellicola con Louise Brooks (già diretta in Lulu e Das Tagebuch einer \1erlorenen), passa in fase di sceneggiatura a René daii; il quale, a sua volta, si trova a rinunciare in favore di Genina. L'opera viene girata con le tecniche del cinema muto, ma pensato, già da Clair, come dop­pio, al contempo sonoro e muto, secondo la pratica produttiva delle due edi­zioni non priva di riscontri a cavallo tra anni Venti e Trenta54.

La presenza della Brooks consente a Genina di proseguire una riflessio­ne sull'immagine della diva non convenzionale e di articolarlo ancora meglio attraverso un registro espressivo che fa del movimento (e del gesto fisico con­tinuamente interrotto e ripreso dal montaggio) una cifra stilistica ricorrente. Il concetto stesso di posa espressiva è reso quasi impossibile, e non solo dalla fisicità antiretorica dell'attrice protagonista. In una delle sequenze iniziali

51. A. Blasetti, Giovani! A noi!, in "Cinematografo", I, n, 7, maggio 1927. Sulle riviste bla­settiane, cfr. L. Albano, Le riviste di B!asetti e la conquista del ci11eJJ1a, in AA.VV., Ji.1ateriali sul cine111a italiano, r929-r943, Quaderno informativo n. 63, Undicesin1a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Pesaro 1975. Cfr. anche P. Pistagnesi, La /onnazione della critica nei tJJagg,iori quotidiani italiani (r929-r93J): «Corriere della sera", "Il popolo d'Italia", "La sta1npa"; \T. Zagar­rio, TYa intervento e tendenza: le riviste culturali e il cinetna del fascisfl10, entrambi in AA.vv., Nuovi 111ateriali sul cù1e1t1a italiano, r929-I943, Quaderno informativo n. 71, Senllnario sul cine­ma italiano 1929-43, Ancona 1976.

52. Gern1ani, 1'.1artinelli, Il cù1e1J1a di Augusto Genù1a, dt., p. 186. Sulla collocabilità in un contesto europeo del cinema di Camerini cfr. S. G. Gern1ani, Mario Ca111eri11i, La Nuova Ita­lia, Firenze 1980 ; A. Farassino, Mario Ca1neri111: au delà du cinétna italien, in Id. (a cura di), Mario Can1erini, Yello\v No\v, Locarno 1992.

53. Sul concetto di stile internazionale cfr. D. Bord,vell, K. Thompson, Fil111 Histol)': An Introduction, l\11cGra\v-Hill, Ne\v York 1994 (trad. it. Storia del cineH1a e deifibn. Dalle origi­ni al Ig45, Il Castoro, Milano 1998, pp. 244-8).

54. Del film quindi, oltre al fino a oggi codex unicus rappresentato dalla copia dell'edi­zione muta reperita presso la cineteca italiana di .i\1ilano nel 1998, esistono versioni multiple dell'edizione sonora. Su questo problen1a rimandiamo a D. Pozzi, "Prix de beauté": un titolo, due edizioni: qua tiro versioni, in A. Antonini (a cura di), Il fibn e i suoi 1n11ltipli, Atti del IX Convegno internazionale di Studi sul Cinetna, Università degli Studi di Udine DAMS/Gorizia, Forum, Udine 2003. Sulle imperfezioni primitive del doppiaggio cfr. A. Boschi, Il passagg,io dal 111uto al sonoro in Europa, in Brunetta, Storia del ci11e1na tnondiale, val. I, EEuropa. Miti, luoghi, divi, cit., pp. 395-427. Per quanto riguarda il rapporto tra Genina, Claire l'avanguar­dia francese, con un'ipotesi di influenze reciproche, cfr. ancora Costa, I leoni, cit., pp. u8-9.

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atnbientata in un ristorante, la n1essa in scena allinea i tre personaggi Su un'u­nica direttrice, e si concentra sui n1ovimenti ne1vosi, secchi delle mani, sulle modificazioni minime della postura. Gli stati d'animo passano attraverso la perlustrazione degli oggetti da parte dello sguardo (si veda la sequenza sul vagone di prin1a classe del treno, in cui Lucienne si trova osservata senza saperlo), mentre la macchina da presa tutto sommato si disinteressa all'in­treccio delle passioni che pure sostanziano il plot per dedicarsi alla velocità di supe1ficie, alla descrizione del dinamismo della vita della protagonista (dove tutto accade e viene fatto in fretta, dall'attività lavorativa ordinaria al raggiungimento del successo), all'accumulo di immagini, gesti, corpi, azioni. Poi, ci accorgiamo, forse troppo tardi, che la storia messa in scena è un dram­ma dell'abbandono e della gelosia omicida in cui il protagonista è André e Lucienne la vittima. Il tema della follia d'amore del resto viene anticipato (e ripreso nel finale) dal testo della canzone, cantata in versione breve dalla pro­tagonista ad André che, nella sequenza iniziale, riesce ancora a gestire la coreografia del corpo della fidanzata, a sottrarlo alla perlustrazione indiscre­ta prima dell'amico e poi dei giovani bagnanti, mentre il seguito sarà tutto nel segno di una perdita di controllo e di esclusività sulla bellezza di quel corpo, ormai esposto ali' anrmirazione mondana, al desiderio di troppi sguardi.

Realismo di ambientazione, notazioni di costume e possibilità lasciata aperta a dinamiche di identificazione più tradizionale convivono in un' ope­ra che consente al regista di precisare meglio il proprio profùo di prudente e "fine virtuoso", e al contempo di intercettare ancora una volta le modifi­cazioni di gusto del pubblico:

[. . .] con questo film s'affermò una ''maniera Genina" abbastanza attraente, abba­stanza eccitante, per l'onesta borghesia di tutti i paesi. Quel che l'italiano ·coglieva nel cinen1a era una tarda ed estenuata variante del bovarisn10: di quel romanticismo, cioè, femminile e borghese, che reagisce anelante contro langustia del suo mondo e ha nella Madan1e Bovary flaubertiana la tragica eroina. Augusto Genina racconta­va particolarmente bene cotesta pressura n1ortificante delle piccole cose sullo spiri­to femminile borghese, e l'inutile rivolta delle povere eroine contro il grigiume e la depressione55.

Una «maniera Genina» che si proietta ben oltre il periodo del passaggio tra anni Venti e Trenta, a testimonianza di una pluralità disomogenea dei per­corsi d'autore che vanno definendosi tra gli anni Venti e Trenta, quantome­no nel cinema italiano.

Una disomogeneità che comunque individua in alcune personalità ruoli dominanti nella cinematografia nazionale, soprattutto a partire dalla ripre-

55. E. Giovanetti [senza titolo], in "Film", 1° novembre 1941, ora in Germani, Martinel­li, Il cine111a di Augusto Genina, cit., p. 270.

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sa dell'industria, con l'inaugurazione dei nuovi stabilimenti della Cines Pit­taluga, con la creazione cli un fermento intellettuale carico di aspettative, nutrito di retorica giovanilistica, verso le nuove leve del cinema italiano'6:

Gli anni Trenta sono anni di formazione professionale, di sfida consapevole a rag­gitmgere gli standard narrativi e spettacolari del cinema europeo e americano e di affennazione dell'io registico. I legami con il passato sono spezzati per sempre e in modo irreversibile, mentre, fin dai primi passi del sonoro, è possibile individuare geni e caratteri destinati a trasmettersi nella media e lunga durata57.

Si formano o maturano qui alcune delle leve (Gallone, poco più tardi Costa) che nel secondo dopoguerra, in un processo in continuità, saranno alla base di una via italiana verso un cinema popolare, cli grande spettacolo e cli gran­di incassi (che spesso sopravanzavano, e cli molte misure, i celebrati capola­vori cli Rossellini, De Sica-Zavattini, Visconti). Emergono qui alcuni dei maestri che sempre dai registi del dopoguerra saranno riconosciuti come tali, anche se irrimediabihnente distanti e appartenenti a una storia passata, dominata da altri ideali estetici (oltre che politici), come appunto Camerini e Blasetti. Questi autori, come Genina, sono prolifici, discontinui, anunira­ti soprattutto per il dominio esercitato su. tutti gli aspetti di realizzazione e produzione, capaci cli piegare a molteplici esigenze un'enciclopedia di­somogenea, duttile, magari disordinata (che per Blasetti, ad esempio, va dalla tradizione pittorica e figurativa italiana alla lezione di montaggio del cinema sovietico)58.

D'altra parte, se forse in quegli anni va affermandosi uno stile interna­zionale, bisognerà sicuramente aspettare qualche anno prima cli poter par­lare di un "autore internazionale". Questo passaggio sarà anticipato, un po' paradossalmente, con il neorealismo. Per quanto la storiografia abbia descritto accuratamente l'impatto, tutto sommato relativo, del movimento neorealista in termini di presa popolare e quindi di consumo culturale effet­tivo, è nel secondo dopoguerra che l'immagine dell'identità del cinema ita­liano si lega, soprattutto sulla scena internazionale, ai nomi propri di alcuni registi i quali, sintomo assai significativo, entrano nel circuito dei media come singolarità inunecliatamente riconoscibili (al punto che alcuni di loro, come Rossellini e De Sica, saranno tra le figure d'appoggio per I' edificazio­ne della politique des auteurs). Paradossalmente, perché l'identità interna­zionale dell'autore neorealista si cristallizza in opposizione ai profili del-

56. Fedele alimentatore-trascrittore di queste aspettative, e della retorica che le accom­pagna, è in questo periodo lo stesso Blasetti, nella sua ricca produzione editoriale. Cfr. A. Bla­setti, Scritti sul cine1J1a, a cura di A. Aprà, Marsilio, Venezia 1982,

57. G. P. Brunetta, Cine1na itaUano dal sonoro a Salò, in Id. (a cura di), Storia del cinet11a 1no11diale, voi. III, t. 1, I:Europa. Le ci11en1atografie nazionali, cit., p. 342.

58. Ibid.

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2. ASINCRONISMI I: FRANCIA E ITALIA

l'autore versatile, duttile, legato a una visone artigianale del mestiere, del­l'autore anni Trenta". La cosa diventa particolarmente evidente con la canonizzazione del movimento neorealista nel periodo della grande batta­glia ideologico-culturale che investe il movimento (o quel che ne resta) tra la fine degli anni Quaranta e i prin1i Cinquanta, e in particolar modo nel caso specifico della polemica su Senso di Visconti. Per Luigi Chiarini infat­ti il tradimento di un "realismo autentico" avveniva nel film di Visconti nel nome dello spettacolo inteso come elemento esteriore al rapporto stabilito, in un'ottica idealista (e specificamente gentiliana), tra l'idea e le cose6°. Data una definizione del realismo come espressione di un'interiorità fatta rap­presentazione di una realtà che parla "di per se sola", l'elemento spettaco­lare è il veicolo di accidenti esterni di puro disturbo: virtuosismo tecnico, composizione formalizzata dell'immagine, efficacia emotiva del soggetto, sensualità dei corpi diventano tratti condannabili. Nella sua risposta a Chia­rini Aristarco propone la celebre tesi del passaggio dal neorealismo al reali­smo, ma, riscattando il film di Visconti, egli tutto sommato condivide con Chiarini una certa immagine del!' autore cinematografico come soggetto caratterizzato da qualità specifiche quali la lucidità analitica nel!' osservazio­ne dei fenomeni della realtà storica o l'onestà intellettuale". Le categorie estetiche sono radicalmente cambiate. E tali categorie presuppongono un superamento del!' autorialità in termini di un operatore di eclettismo, dutti­lità, capacità di ricombinazione sintagmatica di repertori stilistici eteroge­nei, in nome di un cambio di paradigma improntato a ideali di maggiore ascetismo e purificazione formale, in una direzione che manifesta notevoli compatibilità con formulazioni analoghe presenti in altri settori della pro­duzione artistica della modernità novecentesca''·

59. Per una conferma dell'ipotesi di una contrapposizione in termini di immagine d'au­tore tra la generazione degli anni Trenta e i registi neorealisti appaiono significativele seguen­ti parole: <<l limiti di Blasetti e del suo progetto di cinema sono evidenti quando Io si confronti con Rossellini, altro cineasta totale, e suo alter ego: con Rossellini abbiamo di fronte il cinema moderno e un progetto produttivo per il futuro. Ci sono poi registi che a Blasetti non deb­bono nulla: Antoniani, Ferreri, Pasolini. Gli debbono invece molto, sia pure allontanandose­ne per l'istanza d'"autore", i creatori di spettacoli: Visconti, Fellini, Bertolucci. E i figli legit­timi del suo cinema si confondono col cinen1a medio-alto, sono i professionisti coscienti e appassionati: De Santis, Castellani, Germi [., .], Comencini, Lattuada, Monicelli, Risi>> (A. Aprà, Blasetti regista italiano, in Blasetti, Scritti sul cine111a, cit., pp. 8-9).

60. L. Chiarini, Tradisce il neorealisnto, in "Cinema nuovo", n. 55, marzo 1955. Non è forse inutile ricordare che lo stesso Chiarini fu tra i principali oppositori di una lettura in chiave "autenticamente" neorealista del geniniano Cielo sulla palude (1949).

6r. G. Aristarco, È realisnto, in "Cinema nuovo", n. 55, marzo 1955. 62. Per la definizione del modernismo pittorico (soprattutto nordamericano) del se­

condo dopoguerra in termini puristi ovviamente il riferimento più immediato è all'opera di Clement Greenberg. Per una riconsiderazione del problema in relazione agli sviluppi dell'arte successiva cfr. A. Danto, After the End o/ Art. Conte111porary Art and the Pale o/ History, Princeton University Press, Princeton 1997.

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3

L'idea di autore tra classicità e modernità

3-I La politica degli autori: il dassico visto dal moderno

Quando nel febbraio del 1955 François Truffaut pubblica, sul n. 44 dei "Cahiers du cinéma", Ali Baba et la "politique des Auteurs" la presa di pote­re dei Giovani Turchi (anche detti "scuola Schérer") all'interno della rivista è già praticamente compiuta'. Ma in realtà, larticolo, che la storiografia della critica cinematografica indica come luogo programmatico in cui si rende visibile un punto di svolta rispetto alla tradizione, appartiene a una lunga storia di continuità e di fratture graduali all'interno dei discorsi fran­cesi sul cinema'. Ali Baba sancisce la nascita ufficiale della politique. Biso­gna però chiedersi anche quanto essa abbia rappresentato (e abbia rappre­sentato se stessa nei termini di) un reale cambio di paradigma nella cultura cinematografica coeva.

Se infatti è lecito individuare nel modo di fare critica dei Giovani Tur­chi un punto di partenza per l'affermazione di una versione della figura del­!' autore cinematografico destinata a fare scuola, a diventare un modello per la prassi del cinema moderno, a cristallizzarsi nell'in1magine-standard inter­nazionale del!' autore cinematografico del cinema degli anni Sessanta e Set­tanta, è altrettanto innegabile che la politique viene dopo una serie di som­movimenti nella storia del gusto e della pratica della critica cinematografi­ca ben osse1vabile nel corso del secondo dopoguerra fino ai primi anni Cin' quanta. Tant'è che possiamo considerare la politica degli autori, più che un

I, F. Truffaut, Ali Baba et la "politique des Auteurs", in "Cahiers du cinéma", n. 44, février 1955 (trad. it. Alì Babà e la "politica degli autori", in AA.VV., Les Cahiers du cinén1a. La 'pol(tica degli autori. Seconda parte: i testi, n1initnu1n fax, Ron1a 2004).

2. Cfr. A. De Baecque, Cahiers du cinéJna. Histoire d'une revue, val. I, A l'assaut du dné-111a (I95I-1959), val. II, Ciné!na tours détours (1959-1981), Cahiers du Cinén1a, Paris 1991 (trad. it. parziale Assalto al cinetna, Il Saggiatore, !v1ilano 1993); La cinéphilie, invention d'un regard, histoire d'une culture, I944-I968, Fayard, Paris 2003; G. De Vincenti, Il ci11en1a e i fi!tn. I "Cahiers du ci11él11a" I9fI-I9f!), Marsilio, Venezia 1980; M. Citnent,J. Zitmner (éds.), La critique de cti1é111a en France, Ramsay, Paris 1998.

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L'OMBRA DELL'AUTORE

nuovo inizio, il momento di chlusura, di definizione conclusa di una certa immagine di autore venutasi a precisare nel corso di circa un decennio.

Alcuni dei precursori e dei maestri della generazione dei Giovani Tur­chi sono noti (Astruc, Bazin). Altri meno. In ogni caso, quasi ogni aspetto che nei primi anni Cinquanta fa scandalo presso la critica tradizionale in realtà è stato anticipato da una parte consistente della vecchia guardia cine­fila, che si era formata a contatto con lavanguardia storica o nel clima degli anni Trenta e del Fronte Popolare, nelle fila della prima serie della "Revue du cinéma", della seconda serie e della prima fase dei "Cahlers" gialli (dalla fondazione al 1953-54 circa).

A prima vista i "Cahlers" dei primo periodo non assomigliano molto a quelli della seconda parte degli anni Cinquanta. Essi sono l'ideale prosecu­zione della seconda serie della "Revue" voluta da Auriol e Gallimard come ponte tra la generazione cinefila cresciuta tra le due guerre e quella postbel­lica. I "Cahlers" gialli, nei primi due anni di vita, non hanno una linea edi­toriale immediatamente riconoscibile. Nella redazione domina un certo eclettismo. La diversa provenienza dei collaboratori garantisce una pluralità di voci e una discontinuità nei giudizi su certi autori (come, ad esempio, Huston, Mankiewicz, Wilder o Kazan, tutti nomi intorno ai quali non si coagulano formazioni discorsive abbastanza coerenti da innescare un pro­cesso chiaro e univoco di autorializzazione). Hollywood, l'avanguardia, una passione onnivora per il cinema, si mescolano sulle pagine del giornale senza soluzione di continuità. La pubblicazione non presenta ancora i tratti - di settarismo, di polemica interna, di distribuzione delle voci critiche in grup­pi, in correnti contrapposte- tipici dei "Cahiers" di Truffaut, Godard, Rivet­te. Diverso è lo stile di intetvento, il gusto per l'intransigenza nella valuta­zione, insomma laspetto più propriamente legato alla politica culturale.

Ma la formazione estetica che regge le fondan1enta dell'immagine d' au­tore proposta dalla politique si può rintracciare in una serie di anticipazioni.

I criteri di erudizione, di scrupolosa ricerca storica, di compilazione di filmografie e raccolta di materiali sui cineasti amati e "autorializzati" (crite­ri implicitamente affermati da Truffaut nella sua accusa contenuta in Les sept péchés capitaux de la critique)' sono importati dal campo della ricerca accademica, malgrado il fiero antiaccademismo, il gusto per la formazione personale e autodidatta della maggior parte dei Giovani Turchi.

Nei processi di acculturazione della generazione cinefila un ruolo cen­trale viene riconosciuto alla figura di Henri Langlois e alla sua Cinémathè­que. Un ruolo che non può certo essere trascurato, non solo in termini di conoscenza storica, di perlustrazione il più possibile sistematica delle filmo-

3. F. Truffaut, Les sept péchés capitaux de la critique [1955], ora in Id., Le pl.aisir des yeux, Cahiers du Cinén1a, Paris 1987 (trad. it. I sette peccati capitali della critica, in Il piacere degli occhi, 1vfarsilio, Venezia 1988).

Go

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3. L'IDEA DI AUTORE TRA CLASSICITÀ E MODERNITÀ

grafie nazionali (Langlois in verità dimostrava un internazionalismo molto più compiuto di quello dei giovani cinefili), ma anche in termini di punto di transizione tra diverse tradizioni di passione per il cinema. Nell'attività di programmazione di Langlois, ma anche nei suoi scritti degli anni Cinquan­ta e Sessanta, si trova in effetti lo sforzo di tenere insieme la ricostruzione storica del cinema delle origini, con una riflessione sull'evoluzione delle avanguardie e sul loro peso, proprio in termini di costruzione di un'in1ma­gine d'autore. Langlois individua, senz'altro un po' idealisticamente, nel cinema americano delle origini un terreno sul quale levoluzione rapida del linguaggio cinematografico è almeno in parte una funzione dell'estrema libertà concessa a una serie di cineasti capaci, lasciati liberi di esprÌnlersi per almeno una decina d'anni (a seguito dei quali i vincoli produttivi si sareb­bero invece rafforzati)+. Al contempo però l'affermazione di alcune perso­nalità indi,~duali è posta in termiui di prassi, di concreto misurarsi con le possibilità tecnologiche del cinema. Tant'è che la descrizione dell'in1patto che il cinema americano (che è anche il cinema di certi autori americani, particolarmente significativi, come Griffith e DeMille) esercita sull'assetto delle cinematografie nazionali e sugli spettatori europei, in Langlois non ha tanto a che fare con temi ricorrenti, poetiche personali ecc., ma con que­stioni più generali legate al progresso tecnologico del medium stesso.

Dunque Langlois mette a disposizione delle nuove generazioni critiche una visione della storia del cinema che Ìnlpronta se stessa anche in relazio­ne a un criterio autoriale, su un doppio fronte: da un lato, la valutazione del progresso del linguaggio cinematografico soprattutto in termini di contri­buto portato da una serie di talenti individuali; dall'altro, un'idea di autore che si definisce nel ciclo storico delle avanguardie, per poi passare in eredi­tà alle generazioni successive attraverso graduali mediazioni. Apparente­mente l'idea di un legame stretto tra una prima fase di definizione dell'in1-magine d'autore e l'avanguardia storica come movimento capace di pro­lungarsi in un"' onda lunga" con conseguenze durature sembra poco perti­nente per descrivere la nozione di autore in una generazione di spettatori-critici che, al contrario, dimostrerà una diffidenza piuttosto mar­cata verso lavanguardia storica.

Ma il concetto di avanguardia nel corso del secondo dopoguerra su­bisce una serie di modificazioni che lo "urbanizzano" e tentano di renderlo

4. <<ies années 10 sont au cinéma ainéricain et au cinéma mondial ce que fut le miracle grec dans 1' art antique. La magie de ces chefs-d' ceuvre crée un besoin et le cinéma américain, rédamé de partout, va s'imposer partout. Ainsi nalt l'hégémonie d'Holl)'\vood, qui dure trois décades. Holl)'\vood sait ce qu'il doit au génie des grands cinéastes, Holl)'\vood sait qu'il doit sa fortune à leur totale liberté d'expression; durant dix ans, il la leur conserve>> (H. Langlois, Le cinén1a a1Jtéricain. Ecrits, in Id., Trois cents ans de ai1én1a. Ecrits, Cahiers du Cinétna-Ciné­mathèque Française-Fondation Européenne des Métiers de l'Image et du son, Paris 1986).

6r

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L'OMBRA DELL'AUTORE

praticabile anche in nuovi contesti. La stessa idea baziniana (condivisa da Alexandre Astruc e Jacques Doniol-Valcroze) di svincolare l'avanguardia dalla sua natura aristocratica ed estremrunente selettiva, a favore di una nuova avanguardia, popolare, legata alla sperimentazione intorno alle potenzialità estetiche del mezzo (indipendentemente dalla natura più o meno commerciale dell'esperimento) si pone su questa lunghezza d'onda'. Proprio in un simile quadro non bisogna sottovalutare il ruolo esercitato dalla mediazione proposta da Langlois nell'apprezzamento unanime che presso i cinefili ottiene un regista come Renoir, il quale diviene, come vedre­mo, l'autore per eccellenza del cinema francese: figura esemplare di quella continuità (in termini di rapporto di assimilazione e superamento dell' ere­dità delle sperimentazioni degli anni Venti) ipotizzata dal direttore della Cinémathèque, al contempo emblema del collegamento con la tradizione artistica distintiva francese, e capace di smussare le divergenze di gusto tra la critica tradizionale, i nostalgici dell'avanguardia (in declino) e le nuove generazioni cinefile (in ascesa).

I nessi di dipendenza tra la politique e ciò che la precede sono osserva­bili in modo privilegiato quando ci si concentra sull'ambiente ristretto dei collaboratori della seconda serie della "Revue du cinén1a".

Se il ruolo di Bazin, attraverso i saggi pubblicati anche su "Esprit" e "Les temps modernes", è da anni ampiamente noto e indagato nel suo col­locarsi tra elaborazione di una nozione complessa di realismo (estetico, tec­nologico psicologico)6, apporto fenomenologico alla lettura delle immagini in movimento (in un continuo dialogo con Merleau-Ponty, Malraux, Sartre) e in1pegno concreto nell'attività dei cineclub, quasi altrettanto si può dire di Astruc. In Astruc si trova un'idea presente, in altre forme, anche in Langlois:

Il cinema sta semplicemente diventando W1 mezzo d'espressione, come prima di lui lo sono state tutte le arti, in particolare la pittura e il romanzo. Dopo essere stato successivatnente un'attrazione da fiera, W1 divertimento come il teatro boulevardier e un mezzo per conservare le immagini dell'epoca, diventa a poco a poco un lin­guaggio. Un linguaggio, cioè una forma nella quale e per mezzo della quale un arti­sta può esprimere il proprio pensiero per quanto astratto, o tradurre le proprie ossessioni, esattamente come avviene oggi per il saggio e il romanzo. Proprio per­ciò chiamo. questa nuova età del cinetna l'epoca della can1éra-sty/07.

5. A. Bazin, Dé/ense de l'avant-garde, in "Ecran français", 21 déce1nbre 1948. 6. Si deve questa tripartizione a G. Grignaffini (a cura di), La pelle e l'anilna. Intorno alla

Nouvelle Vague, La casa Usher, Firenze 1984. Come noto, i principali scritti baziniani sono rac­colti in A. Bazin, Qu'est-ce que le ctizélna?, Cerf, Paris 1958-62, 4 voll. (trad. it. parziale Che cos'è 11 ci11e11u1, Garzanti, Iv1ilano 1973).

7. A. Astruc, l\1aissance d'une nouvelle avant-garde. La can1éra-stylo, in "L'Ecran fran­çais", n. 1441 1948 (trad. it. 1'1asdta di una nuova avanguardia, in Grignaffini, a cura di, La pelle e l'anùna, dt., p. 49).

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3. L'IDEA DI AUTORE TRA CLASSICITÀ E MODERNITÀ

Si noti che in queste parole la nascita della caméra-stylo, cioè di un accosta­mento tra la dinamica della macchina da presa (oggetto di riproduzione meccanica, regime di scrittura allografico) e la penna stilografica (regime di scrittura autografico)' è l'effetto (non la causa) di una maturazione di un sistema espressivo preso nella sua generalità. Il legame tra stilus, stile e la possibilità dell'espressione del pensiero individuale è una funzione di (nel senso che dipende da) una certa evoluzione del linguaggio cinematografico, del suo avere raggiunto una forma compiuta. E non viceversa. Sono le pos­sibilità offerte da un certo grado di articolazione delle forme a sollevare il mezzo da stmmento impersonale di rappresentazione a qualcosa che rende possibile un evento situato, irripetibile, individuale, una vera scrittura.

· · È possibile sostenere che con questa mossa Astruc compie un gesto il cui carattere di novità è discutibile. Considerare il cinema come luogo di esercizio di una scrittura individuale è il primo passo verso una concezione dell'autore cinematografico nei termini di una soggettività libera da vincoli materiali, mossa da un'ispirazione pura. In poche parole, si tratta di intro­durre sul terreno del cinema una nozione del tutto consolidata nel campo dell'estetica e della storia delle altre arti: quella del genio - inteso come sito dell'incondizionato esercizio dell'originalità e della distinzione espressiva -canonizzata dall'estetica romantica'. I:elemento progressista rispetto alla tradizione è osse1vabile altrove.

Le idee di Astmc hanno un rilievo teorico non solo in relazione a una storia della nozione di autore ma anche in relazione alla sociologia del gusto. Infatti, ciò che c'è di più nuovo rispetto ai canoni estetici della criti­ca tradizionale non è in questo caso l'idea della caméra-stylo in quanto tale, ma il fatto che essa venga esemplificata su Orson \'V'elles, messa alla prova nella difesa incondizionata di Quarto potere. Questa sì una mossa poco comprensibile per alcuni degli stessi collaboratori dell'ala marxista dell"'Ecran Français" su cui il saggio di Astruc compare.

Qui è dato il primo nucleo originario di una riflessione e di tm set di preferenze comuni a personalità come André Bazin, Nino Franlc, Pierre Kast, Roger Leenhardt, Jean George Auriol, Jacques Doniol-Valcroze. E in effetti ognuno di questi nomi ha legato la propria firma a qualche gesto di anticipazione della politique. Franlc, pur essendosi formato nella cultura degli anni Venti e Trenta, si trova subito schierato contro i difensori della qualità francese e contro i critici più progressisti come Sadoul e Daqnin che avevano preferenze per le produzioni del realismo socialista sovietico. Pier-

8. Per la distinzione tra arti allografiche e autografiche cfr. N. Goodman, Languages o/ Art (trad. it. I linguaggi dell'arte. I!esperienza estetià1: rappresentazione e sùnboli, Il Saggiatore, ivlilano 1998}. Per la rilevanza di tale distinzione ai fini della teoria dell'autore: F.Jost, La 111a110 e l'occhio, in A. Boschi, G. ìvlanzoli (a cura di), Oltre l'autore I, in "Fotogenia", n. 2, 1995.

9.J. Caughie (ed.), Theories o/ Authorship, Routledge, London-Ne\v York 1981.

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L'OMBRA DELL'AUTORE

re Kast (braccio destro di Langlois alla Cinémathèque) collabora con Bazin nella difesa di un approccio analitico alle specificità linguistiche del mezzo cinematografico. Auriol e Doniol-Valcroze infoltiscono le truppe dei num~ difensori del cinema americano, considerandolo pressappoco e niente di meno che uno dei pochi doni che la società contemporanea può dare, met­tendo le basi per il futuro apprezzamento del cinema di Hitchcock. Leen­hardt, in un articolo pubblicato poco dopo il manifesto di Astruc, intitola­to significativamente A bas Ford, vive ìVyler, dopo avere considerato il cine­ma americano la chiave di volta del cinema moderno, in\~tava a scegliere tra quelli che venivano definiti due tra i maggiori registi al mondo'".

Ricapitolando quindi: le idee dei Giovani Turchi sono in gran parte maturate in alcuni settori della critica cinematografica francese in un perio­do compreso tra il dopoguerra e i primi anni Cinquanta. Dalle pagine della "Gazzette du cinéma" prende corpo la rivalutazione di Hitchcock. Da Leenhardt, Bazin e Astruc vengono le linee teoriche e l'idea di poterle svi­luppare a partire da un patrimonio di nomi fino a quel momento screditati.

Se queste sono le premesse, il resto della storia è stato raccontato più volte: la polìtique nasce ad opera dell'ala più radicale della redazione dei "Cahiers", raccolta intorno alle personalità di critici che diventeranno quasi tutti registi (Rivette, Truffaut, Rohmer, Chabrol). La presa di potere della corrente hitch­cock-hawksiana fa seguito a una contrapposizione interna alla redazione tra i giovani critici e la generazione dei vecchi redattori (Bazin, Doniol-Valcroze, Kast, Lo Duca). Ed è evidente che tale presa di potere si basa, oltre che sulle convergenze descritte, su una serie di discontinuità di gusto e di metodo.

3.2 L'autore tra dogma, rituale e modernità

Gli elementi di novità della politique sono stati riassunti da De Baecque intorno a tre caratteristiche principali: il concetto di messa in scena, il volon­tarismo del!' amore, il dovere di seguire lopera nel suo farsi.

Si noti da subito che siamo di fronte a tre elementi disomogenei tra loro: il primo riguarda la teorizzazione di un concetto (più o meno chiaro); il secondo e il terzo descrivono norme comportamentali, predisposizioni ideali da assumere di fronte alle opere.

Per i critici della politica degli autori, il soggetto del film è la sua messa in scena, la quale è la materia stessa del film. Per messa in scena si intende, nell'idioletto proprio dei critici dei "Cahiers", <<Un'organizzazione degli esse­ri e delle cose che trova in sé il proprio significato [. .. ] sia morale che esteti-

ro. Cfr. De Baecque, Cahiers du d11év1a. Histoire d'une revue, voi. Ii A l'assaut du ci11é111a, dt., trad. it. pp. 25-47.

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3. L'IDEA DI AUTORE TRA CLASSICITÀ E MODERNITÀ

co»". Questa definizione di Bazin pone l'accento sul fatto che siamo di fron­te a un valore intrinseco del cinema, a una qualità immanente ai fenomeni.

I.: autore che meglio ha proseguito sulla traccia delle indicazioni bazinia­ne, cogliendone appieno le implicazioni spiritualiste e religiose è stato Rivet­te che, nella celebre Lettera su Rossellini, trascurando ogni apporto specifi­co sul piano della costruzione narrativa e della presentazione dei personag­gi, descrive una successione di visioni di corpi che ossessionano una messa in: scena. In realtà il rovescio spirituale dell'ossessione è il mistero dell'incarna­zione (che, in tale ipotesi, è il soggetto profondo del film rosselliniano). Non c'è nulla da dimostrare, ma solo da mostrare, in un'oscillazione continua tra la registrazione delle cose e la rievocazione del loro mistero allegorico:

I dogmi dell'eucarestia[..,] costituiscono la base fondamentale dell'apporto teori­co di Bazin e di Rohmer. L'(ietà classica" del cinema altro non è che un'interpreta­zione cattolica del mondo applicata all'a1nbito della messa in scena: mostrare la carne (il corpo di Cristo), mostrare degli oggetti (l'ostia) e in loro vedere l'wtlversa­lità del mondo e la sua anima (la natura divina)12

Un'altra idea che Rivette prende da Bazin è di considerare la messa in scena come una sorta di koiné cinematografica, una lingua franca internazionale capace di cancellare le differenze specifiche tra culture. Un carrello è un carrello; una gru è una gru, in tutti i paesi del mondo. Esiste una base uni­versale all'espressione cinematografica. Da qui discende un atteggiamento che resterà a lungo una caratteristica della critica cinefila: l'illusione di pote­re completare la comprensione dei testi marginalizzando i tratti specifici delle singole culture che li ospitano e che li hanno visti nascere. A proposi­to di Mizoguchi, Rivette scrive:

[. . .] questi film ci parlano davvero un linguaggio familiare. Quale? L'unico a cui deve tutto sommato aspirare un cineasta: quello della messa in scena. [ ... ] Se la musica è un idioma universale, lo stesso vale per la messa in scena: è questo, e non il giapponese, che è necessario imparare per capire "il Mizoguchi". Linguaggio comune, ma portato qui a un grado di purezza che il nostro cinema occidentale ha conosciuto solo eccezionalmente'3.

Tutto ciò non è privo di conseguenze sul terreno più specifico del rapporto tra messa in scena, stile e pensiero sull'autore. Il concetto di messa in scena

n. A. Bazin, citato in Grignaffini {a cura di), La pelle e l'anùna, cit., p. 148. 12. De Baecque, Cahiers du cinén1a, voi. I, A l'assaut du cinétna, cit., trad. it. p. I59· I3. J. Rivette, Mizoguchi vu d'ia· [1958] {trad. it. Mizoguchi visto da qui, in AA.VV., Les

Cahiers du ci11én1a, cit.). Sul concetto di messa in scena come koù1é ai1ematogra/ica cfr. anche A. Costa, François, Eric, Claude, ]ean-Luc, ]acquese «/es auteurs", in Boschi, Manzoli (a cura di), Oltre l'autore I, cit.

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L'OMBRA DELL'AUTORE

discende in modo non lineare ma inequivocabile dalla teoria baziniana del realismo. La registrazione oggettiva, intesa come valore contrapposto alla composizione-produzione propria dei capricci di una soggettività, è l' ele­mento che struttura non solo quel rapporto proprio del medium-cinema tra potere di riproduzione fenomenologica della realtà e potere di rivelazione di legami spirituali profondi, tra la pelle e I' anima dei fenomeni (per usare i bei termini di Giovanna Grignaffini), ma anche un altro tratto che, ad esem­pio, separa l'immagine dell'autore nella politique da quella della sua divul­gazione sul terreno nordamericano (una divulgazione anche in questo caso non priva di conseguenze pratiche sulla storia del cinema, in quanto ha gio­cato un ruolo di un certo rilievo nella percezione critica e nella f01mazione di cineasti come Cassavetes, Scorsese, De Palma, Coppola, Bogdanovich, Schrader).

Se, infatti, nel!' autorialsimo di Andrew Sarris possiamo individuare una teoria interessata a promuove indiscriminatamente l'idea dell'autore come soggetto che esprime se stesso in modo il più possibile libero da vincoli e condizionamenti oggettivi, e un'idea dello stile come il luogo esatto in cui si esprime questa libertà, questa personalità di un autore, nella critica france­se non si dà isomorfismo tra autorialità e riconoscibilità stilistica. Tant'è che si può giungere fino al punto in cui lo stile diventa un crimine morale, segno di una personalità presente ma appunto disprezzabile, come nella celebre stroncatura rivettiana diKapò, dove un traveling (tratto stilistico) viene letto come segno di eccesso e di protervia, come ele1nento veicolante un'inten~ zione spettacolare semplicemente inconciliabile con la natura dei fenomeni riprodotti (la realtà dei campi di sterminio nazisti)". La natura quindi non è indifferente, la messa in scena gioca un ruolo nell' autorializzazione: un principio che, se estremizzato - per un paradosso familiare a chi conosce le torsioni cui è spesso soggetta l'evoluzione delle idee - porta alla negazione di un altro tema baziniano: l'ambiguità del reale. Ad esempio, nelle posi­zioni radicali della scuola del MacMahon, l'autore non è colui che si mani­festa nella sovrapposizione delle distorsioni dell'intelligenza al disvelamen­to dell'esattezza dell'Essere, ma, come dice Miche!Mourlet, colui che riesce a restituire lequazione A = A, colui per il quale il reale si dà allo sguardo nella folgorazione dell' e\~denza<>: una posizione da alcuni ritenuta degene­rativa, ma da altri (tra i quali De Baecque) una conseguenza strettamente logica degli assiomi della messa in scena e dell'idea - già baziniana - del cinema come "macchina)) che libera il processo della creatività artistica dalla vanità del soggetto vincolandola alla natura meccanica del mezzo.

r4. J. Rivette, De l'abjection [196r] (trad. it. Dell'abiezione, in R TurigliattO, a cura di, Nouvelle \&gue, Festival Internazionale Cinema Giovani, Torino 1985).

15 . .i\'1. Mourlet, Beauté de la connaissance [1960], ora in Id., La 111ise en scène co111111e lan­gage, Henri Veyrier, Paris r987.

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3. L'IDEA DI AUTORE TRA CLASSICITÀ E MODERNITÀ

Una volta che si sia definita una personalità d'autore in relazione alla pratica della messa in scena, resta da rafforzare il culto di questa immagine. In altri termini resta da consolidare la ritualità specifica che questo culto richiede. Una della caratteristica dei culti è proprio quella di prevedere un cerimoniale che regola l'accesso stesso al rito. Il volontarismo dell'amore indica uua di queste procedure rituali. Scrive Truffaut:

Alla prima visione, Ali Baba mi ha deluso, alla seconda annoiato, alla terza appas­sionato e rapito, Lo vedrò ancora, senz'altro, ma so per certo che, superato vitto­riosamente lo scoglio insidioso della cifra tre, ogni film prende il suo posto nel mio museo privato, molto ristretto16•

Dunque, esiste una perseveranza dell'amore che permette di far entrare l'oggetto amato in un circolo ristretto di preferenze. I; esclusività e il rituale si sorreggono l'un l'altra. Bisogna amare Fritz Lang. Non basta amarlo. Bisogna amarlo. È necessario che il gesto d'amore si leghi a una procedura e che questa procedura sia disciplinata da passaggi precisi: una certa pros­semica allo schermo, un tipo di socializzazione e messa in discorso a fine proiezione, un numero ripetuto di visioni ecc,

Se un oggetto ha dimostrato di essere degno di questa ritualità, entra in un circolo vizioso: la sua dignità di oggetto di culto giustifica il rituale, e viceversa, il rituale rafforza indifferenziatamente lo statuto cultuale dell' og­getto stesso. Così Truffaut, di fronte a un film verso il quale avrebbe potu­to provare imbarazzo come Ali Baba di Jacques Backer, un film di cassetta con Fernandel, dichiara: r. di avere imparato ad amare il film a seguito di ripetute \~sioni (potere del rituale), 2. di essere stato comunque nell'inten­zione di difendere il film, anche se non gli fosse piaciuto, in nome della poli, tica degli autori.

Ecco due correlati fondamentali: si amano tutti i film di un autore (ad esempio, si amano tutti i film di Welles). Si amano tutte le opere minori dei grandi autori, e le parti meno difendibili dei loro film maggiori. Il segno del­!' autore è da cercare là dove è meno e\~dente, là dove solo pochi (i pochi che possono accedere alle gioie offerte da un museo ristretto di opere) riescono a vederlo. È il sacrificio della perfezione che permette di leggere un autore nel modo più completo.

La critica tradizionale celebra la qualità omogenea, il "capolavoro". Da questo punto di ~sta la politique si sottrae alla norma estetica della tradi­zione. E fa l'elogio dell'imperfezione. Scrive ancora Truffaut:

Ora, il film riuscito, secondo il vecchio modello critico, è quello in cui tutti gli ele­menti partecipano, allo stesso tnodo, di un tutto che merita ailora l'aggettivo di per-

16. Truffaut,A/i Baba, cit., p. 29.

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fetto. Ora la perfezione, la riuscita, io le definisco abiette, indecenti, immorali e oscene17.

Svalutazione della compiutezza e investimento feticistico sul marginale con­sentono di stabilizzare l'omogeneità del giudizio circa i prodotti autoriali. I;opera di un autore non sottostà alle regole di riuscita o insuccesso che si esercitano sui prodotti ordinari della creatività. Essa è sottratta a questa dinamica anche perché si inserisce in un corpus omogeneo che ne riscatta le singole parti di fronte al rischio di fallimento. Tale riscatto è possibile gra­zie al precetto che impone il dovere di seguire l'opera nel suo farsi. Con­cretamente significa che ogni film di un autore si collega a un insieme più grande di testi e rispetto ad esso va giudicato.

Una volta data una figura di autore, questa sutura le singole parti della sua produzione a un unico corpus intertestuale che garantisce per l'integri­tà estetica della totalità del corpus stesso. r; affermazione per cui non esi­stono opere ma solo autori ha per conseguenza

la negazione dell'assioma [. . .] secondo il quale succede ai film quello che succede alle maionesi: riescono o non riescono. Di argomento in argomento, i nostri prede­cessori, sono arrivati a parlare, senza perdere niente della loro gravità, di invecchia­mento e perdita di creatività oppure di rimbambimento per Abel Gance, Fritz Lang, Hitchcock, Hawks, Rossellini e addirittura per Jean Renoir e il suo periodo hollywoodiano'8•

Se questi sono i maggiori tratti di distinzione della politica degli autori rispetto a ciò che l'ha preceduta, va precisato che l'investimento autoriale può riguardare sia personalità fino a quel momento mai considerate (il carat­tere di novità rappresentato dalla scelta di attribuire uno status privilegiato a nomi come quelli di Hawks, Hitchcock, Welles, Tashlin, Le\vis, Fuller, Ray è senz'altro laspetto più appariscente della politique) sia figure che avevano già da tempo varcato la soglia dell'attenzione estetica. I; esempio più signifi­cativo di questa seconda tipologia è rappresentato daJean Renoir.

Il regista si era già trovato al centro di ampia considerazione negli anni precedenti la seconda guerra mondiale. Egli anzi, pur essendo stato consi­derato uno dei registi più impegnati sul piano politico a sinistra, era sem­brato in grado di affievolire le contrapposizioni più forti nel campo della critica e della teoria del cinema francese degli anni Trenta, contribuendo a rappresentare uno degli spunti principali nella formazione di un paradigma estetico unitario. La critica di sinistra e di destra lo aveva collocato ai verti­ci di una lunga tradizione del realismo francese, individuandone alcune

r7. De Baecque, Cahiers du ciné111a, vol. I, A l'assaut du cinén1a, cit., trad. it. p.105. 18. Ivi, trad. it. p. 100.

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caratteristiche di poetica ricorrenti (capacità pittorica di composizione in profondità) e a volte contraddittorie (capacità di definire la dimensione psi­cologica dei personaggi/talento naturalistico nella resa esteriore dei com­portamenti). In ogni caso, chi aveva separato la visione personale dell'auto­re da certe debolezze strutturali (come incongruenze narrative e impreci­sioni tecniche, che comunque venivano fatte risalire al gusto dell'improvvi­sazione attribuito al cineasta), non aveva escluso la possibilità di un venir meno delle qualità più evidenti del regista'9. Questa generazione critica rea­girà piuttosto male di fronte alle pellicole girate dal regista negli Stati Uniti, consentendo alle nuove leve cinefile di fare valere i propri dogmi.

Renoir è il cineasta per eccellenza che lega la tradizione di riflessione sull'autore in relazione al cinema di qualità dei tardi anui Trenta a quella del dopoguerra. Quando la politique si appropria di Renoir, il regista è già un autore. In questo caso quindi non si tratta di introdurre una discontinuità di gusto, ma di marcare una differenza sul piano dell'operatività stessa della nozione di autore.

Il regista sembra rispondere perfettamente alle due caratteristiche prin­cipali dell'autore secondo i "Cahiers": infallibilità e consapevolezza della propria genialità da parte del genio. Egli conforta i sostenitori incarnando l'ideale del regista-critico, che si concede con generosità a quel vero e pro­prio rito confessionale rappresentato dall' entretien, non si nasconde dietro reticenze e sembra disposto a confermare/rafforzare l'immagine che i suoi esegeti hanno costruito per lui (egli è il cineasta più intervistato e a cui sono dedicate più pagine in assoluto sui "Cahiers" degli anni Cinquanta)"'. Al contempo, leggendo le recensioni di Rohmer ci si accorge che: r. il regista viene assunto come emblema dello sviluppo dell'arte cinema­tografica in relazione ad alcuni procedimenti specifici (ritorno ai valori di ordine e armonia, superamento del realismo ingenuo, semplificazione degli strumenti di espressione ecc.); 2. l'opera complessiva \~ene consegnata all'ingiudicabilità, sottratta alla logica dell'elencazione delle "bellezze" e dei "difetti", invocando da un lato l'idea di capolavoro come luogo in cui viene data una nuova definizione del bello; dall'altro mediante la riproposizione dell'argomento dell'infallibilità: «In realtà, ammettere una possibile decadenza del loro autore [ ... ) equi­varrebbe a riconoscere che anch'egli segue le normali leggi evolutive; e in ve-

19. Cfr. R. Abel, French Fihn Theory and Criticis;n. A Histo1)•!A11thology, vol. II, I929-I9J9, Princeton University Press, Princeton 1988. Per llll inquadramento generale della figura di Jean Renoir cfr. G. De Vmcenti, Jean Renoir. La vita, ifiltn, Marsilio, Venezia 1996.

20. Come sintetizza Godard: <<La bellezza, e nello stesso tempo il segreto di questa bel­lezza. Il cinema, e nello stesso tempo la spiegazione del cinema>> (J.-L. Godard, Eléna et !es honttnes [1957], ora in Id., Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard, Pierre Belfond, Paris 1968, trad. it. Eliana e gli uottlini, in Id., Il cinen;a è il cine111a, Garzanti, Milano 1971, p. 89).

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ce la storia dell'arte [. . .) non ci offre alcun esempio di autentico genio che, alla fine della sua carriera, abbia conosciuto un periodo di vero declino»"; 3. Renoir è considerato "il regista più grande del mondo" perché meglio di altri riesce ad esemplificare una circolarità cara ai "Cahiers", quella che riesce ad affermare allo stesso tempo lo statuto classico del cinema moder­no e la modernità del classico.

I;insistenza su Renoir come autore infallibile indica appieno lo scarto in termini di potenzialità applicative che questa nuova immagine dell'autoria­lità porta con sé, Esiste una differenza rispetto al pensiero sull'autore che ha preceduto la politique, ed essa identifica quello che forse possiamo consi­derare il suo tratto più specifico. Già Bazin lo aveva lucidamente notato: il punto in questione nella politica degli autori non è più solo quello di avere affermato l'esistenza di un fattore individuale che fa da motore della pro­duzione di senso e della creazione artistica (secondo un movimento proprio della legittimazione estetica nel campo delle altre arti, e tipico della teoria romantica del genio), né solo quello di avere individuato questo fattore per­sonale su un terreno tradizionalmente associato all'idea di lavoro di équipe, quanto piuttosto di avere insistito sulla permanenza e il progresso di questo fattore personale da un'opera a quella successiva, all'interno di un medesi-mo corpus autoriale. ·

È l'imposizione di questa persistenza che sfugge alla dimensione del testo preso in se stesso, della singola opera, a permettere il passaggio suc­cessivo: la feticizzazione del marchio d'autore con tutti i suoi correlati già ricordati (svalutazione del capolavoro, del film di qualità ma impersonale, difesa del fihn personale ma minore ecc.).

C'è molto di tendenzioso e dogmatico in tutto ciò. I; accusa di Bazin era stata chiara: culto estetico della personalità (che non è che un altro nome per quel processo feticistico appena descritto)". Ma come nei culti, così nella politica degli autori (sulle cui aporie teoriche esiste un'ampia lettera­tura) più che la qualità organica del pensiero, il contenuto del culto, conta la ritualità stessa, la procedura. Contano gli aspetti rituali. In questo senso Bazin è pienamente parte di uno scenario che a tratti (e solo a tratti) descri­ve con più lucidità dei suoi giovani allievi.

La possibilità dell'errore di valutazione è una caratteristica produttiva di questa formazione discorsiva. È evidente che \Xlelles e Wyler non hanno le caratteristiche di modernità che Bazin attribuiva loro''. Ma ciò che conta

2r. E. Rohmer, Renoir atnéricain h952], ora in Id., Le go!Jt de la beauté, Editions de l'Etoi­le, Paris 1984 (trad. it. Renoir a111ericano, in Il gusto della bellezza, Pratiche, Parma 199r, p. 275).

22. A. Bazin, De I.a politique des auteurs [r957], in "Chaiers du cinéma", n. 70, avril 1957 (trad. it. Sulla po!itin1 degli tlfllori, in Grignaffini, a cura di, Li pelle e l'anùna, dt.).

23. La storia della critica è ricca di smentite fattuali. Si pensi, per fare un solo esempio, a come James Naremore decostruisce convincentemente l'analisi baziniana dello spazio in

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3. L'IDEA DI AUTORE TRA CLASSICITÀ E i\IODERNITA

è che l'abbaglio critico è esattamente una delle modalità che dà forma al processo di trasmissione culturale tra classico e moderno. Nella storia della nozione di autore, questa versione del culto della personalità creatrice, che agisce a svantaggio della considerazione di altri fattori contestuali e cultu­rali determinanti, ha favorito un ampio processo di lettura della classicità cinematografica attraverso il filtro della modernità nascente. Ha rappresen­tato uno strumento di passaggio da un livello di interpretazione tendenzio­sa del classico a una pratica filmica che avrebbe avuto un ruolo determi­nante nella definizione delle poetiche della modernità cinematografica.

Insomma, proprio le caratteristiche tendenziose, visionarie (e rituali), della politique - caratteristiche che noi oggi facciamo fatica a considerare conciliabili con i criteri della buona storiografia (oltre che, in certi casi, con quelli della semplice ragionevolezza) - hanno rappresentato alcune delle linee guida dell'affermazione del moderno cinematografico, oltre ad avere assolto al compito storico che viene loro solitrunente riconosciuto: avere portato a termine il lungo processo di legittimazione estetica del medium.

3.3 Intermezzo: l'autore, lo strutturalismo

e il modernismo politico

Nell'attacco di Truffaut alla critica francese a un certo punto si legge:

I critici giudicano i film dalle "intenzioni" dei loro autori. La loro ignoranza della storia e della tecnica cinematografica, come anche delle condizioni di scrittura dei film e della loro esecuzione, fa sì che essi (i critici) siano incapaci di risalire alle intenzioni, a rrieno che queste non siano evidenti, annunciate sul cartellone, all'in­gresso della sala cinematografica. Incompetenza e pregiudizio formano una bella coppia. Si tratta quindi cli giudicare sulle intenzioni di film di cui non si riesce a ritrovare le intenzioni!24

Va subito detto che qui non è condannata la ricerca delle intenzioni in quanto tale. Ma il fatto che un certo numero di carenze di conoscenza (coin­cidente grosso modo con quelle lacune che le scienze filologiche e storiche tentano di colmare a proposito .del contesto originario di produzione delle opere letterarie e d'arte in generale) venga scambiato per le vere intenzioni. Truffaut non sta dicendo che è sbagliato ricostruire i desideri di un regista attraverso la critica, ma che è sbagliato fermarsi - a causa di incompetenza e pregiudizio - ai segni esteriori di questi desideri. Nei fatti, la politiqtte è una ricerca delle intenzioni e non è difficile notare quanto una simile ricer-

Quarto potere:]. Naremore, The Magie World of Orson \Veli-es, Oxford Universicy Press, Oxford 1979 (trad. it. Orson \Velles, ovvero la 111agia del cine111a, lvfarsilio, Venezia 1993).

2+ Truffaut, Le p!aisir des yeux, cit., trad. it. p. 198.

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ca sia vicina all'idea che accomuna le intenzioni al senso autentico dell' ope­ra, secondo un modello ben radicato nella filologia classica del positivismo e dello storicismo ottocentesco.

In realtà le parole di Truffaut sono un ulteriore segno di un rapporto contraddittorio con la tradizione. La critica cinefila francese degli anni Cin­quanta è ricca dal punto di vista interpretativo. Essa non si limita certo a quel tipo di modestia empirica ben nota ai frequentatori degli studi filolo­gici. Non si ferma al rendere chiare le corrette condizioni di comprensione delle opere. Essa avanza ipotesi interpretative tendenziose, a volte forzate, a volte consapevolmente deliranti, mai ancorate alla certezza delle cose evi­denti. D'altra patte tratta le proprie interpretazioni come il prodotto imme­diato di autentiche scoperte, di verità essenziali.

In altri termini, la politique si fa portatrice di un modo di lettura anco­ra legato a una visione essenzialista dei fenomeni. Come nella tradizione dell'ermeneutica filologica, la critica dei "Cahiers" muove alla ricostruzione del primo significato di un'opera. Ad esempio, per Truffaut il primo signifi­cato della Finestra sul cortile (1954) è l'aspetto riflessivo (un film sul cinema), non la descrizione, più o meno corretta in termini referenziali, di uno spac­cato umano del Greenwich Village (come volevano alcuni recensori ameri­cani). In una simile dinamica, le interpretazioni referenzialiste americane occupano esattamente il posto che le letture allegoriche delle opere d'arte ricoprono per lermeneutica romantica e storicista: quello di una sorta di alienazione dal significato originario. Questa discesa verso lorigine del significato prende le forme peculiari dell'individuazione di un luogo di autenticità, che è il luogo dell'intenzione dell'autore.

Tant'è che una delle caratteristiche dell'autore cinematografico, e del genio, è la sua autoconsapevolezza. Il genio, magari lo nasconde, ma sa di essere un genio, per definizione. La prova della consapevolezza va cercata nella parola dell'autore stesso. Cosl si spiega anche la valenza strategica della forma discorsiva più legata alla politique, cioè I' entretien, l'intervista al regista ainato. Con i "Cahiers", l'intervista, da genere letterario leggero, fri­volo, si trasforma in uno strumento di messa alla prova e verifica dell'inter­pretazione critica. Il successo viene raggiunto quando l'autore si dimostra consapevole di ciò che i suoi interpreti scoprono. Il testo è un luogo dove si depositano significati stratificati, non sempre immediatamente reperibili se non attraverso un accurato lavoro di lettura. Eppure si tratta di siguificati di cui l'autore è a conoscenza, sui quali egli esercita un dominio cosciente, una consapevolezza senza ombre. La parola dell'autore - ciò che i teorici del­l'interpretazione chiamano intentio auctoris - corrobora lesattezza di lettu­ra. Cosl Truffaut non si accontenta di un genio accidentale, vuole un genio presente a se stesso e cerca di persuadere Bazin della consapevolezza di Hitchcock a proposito del proprio talento.

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Dunque, superate le difficoltà accidentali e contingenti, lautorità del­!' autore dovrebbe essere una cosa evidente. Tutto sta nell' adeguatio del­!' occhio alla qualità, più o meno eclatante, più o meno nascosta, della cosa. Il cinema richiede un certo tipo di finezza (quel tipo di finezza che, sempre secondo Truffaut, un cervello che ha dato il meglio di sé nel 1925 non potrebbe più cogliere). Ma le cose da cogliere stanno Il. Non c'è nulla da inventare. Per questo verso siamo vicini ali' ambito di quel genere di letture che sono state anche definite "rispettose", cioè nutrite da un'in­tenzione (non importa quanto reale o tradita) di rispetto del significato originario:

Ecco [. . .] le varie fonne di protezione del senso e del testo: come la parafrasi, ripro­duzione rispettosa di tutto ciò che è palese e riduzione all'esplicito di ciò che è meta­forico; o con1e il riassunto, garanzia dell'interezza del senso anche quando il testo, per un banale calcolo econotnico, deve essere ridotto e co1npresso. Ecco ancora i molti tentativi di trovare lllla parola "piena", magari con1pletando il testo, inte­grando il già scritto; come nel co1111J1ento, spiegazione di ciò che sta nel testo trami­te ciò che ne sta fuori; o come-almeno in parte- nell'esegesi, sforzo di riempire gli interstizi rimasti all'apparenza vuoti, per dotare il testo di una sua ricchezza e insie­me di.una sua unità; o come anche nell'inte1pretazione, quand'essa è semplicemen­te uno sforzo di penetrare nel "segreto dell'opera" per ritrovare il ''senso ultimo" che tutto domini e giustifichi. Ecco infine le diverse forme di attribuzione al testo di un referente "forte", al fine di definirne una volta per tutte l'identità: con1e la ricerca delle fonti, per fissare quanto il prùna sia già determinante; o come l'illu­strazione del contesto, per circostanziare maggiormente il detto; o come il ricono­scimento dell'autore, pet garantire con una vita "vera" l'autenticità di ciò che in fondo è soltanto "parola"2 5.

La politique rientra solo parzialmente in questo insieme di procedure, per le ragioni sopra esposte. Va sottolineata però un'altra coincidenza con i metodi della critica tradizionale. Quando nell'ambito della politica degli autori si trattano (e si spiegano) elementi stilistici e tematici di un fùm come tratti unitari di uno stile di un regista, si fa qualcosa di molto simile a ciò che fa la critica letteraria utilizzando il metodo dei passi paralleli, in base al quale si tende a preferire, per chiarire un passo oscuro di un testo, un altro passo dello stesso autore rispetto a uno di un altro autore. Il metodo dei passi paralleli è uno degli strumenti più usati nell'esegesi letteraria. In esso, come nelle letture tematiche in chiave autoriale, è in gioco un meccanismo di spie­gazione e interpretazione basato su un medesimo processo di trascendenza testuale che «dal singolare, dall'individuale, dall'opera nella sua unicità

25. F. Casetti, Se111iotica, critica, lettura, in "Cinema & Cinema", n. 10, gennaio-marzo, 1977, p. 58.

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apparentemente irriducibile [ .. .] consente di passare al plurale e al seriale, e da n tanto alla diacronia quanto alla sincronia»'6.

Detto ciò, in tetmini generali, possiamo dire che con la politique ci tro­viamo a metà strada tra i difensori della spiegazione del senso come ricerca dell'intenzione d'autore e i seguaci dell'interpretazione come descrizione dei significati dell'opera. In questa oscillazione - che è strategica - stanno anche le ragioni della aporie della polùique tante volte sottolineate.

Ma laspetto di reale importanza è il fatto che nello stesso momento sto­rico In cui la politica degli autori rivisitava e perfezionava il concetto di Intenzione, nel campo degli studi letterari esso era oggetto di severa deco­struzione. L'idea acquisita dalla tradizione critica moderna è che pet descri­vere il significato dell'opera l'Intenzione dell'autore non è pertinente. Su questa linea si era già mosso il formalismo msso, ma nel corso degli anni Cinquanta è soprattutto il New Criticism americano a formulare gli argo­menti più noti (se non i più convincenti). I critici anlerican.i ricorrono alla nozione di inte11tional fallacy (illusione i11tenzionale) per esprlnlere il fatto che lesperienza dell'autore e la sua Intenzione sono nozioni degne di Inte­resse storico ma ininfluenti per la comprensione dell'opera.

Secondo Wlnlsatt e Beardsley, o l'autore ha fallito nel realizzare le sue intenzioni nell'opera, e in questo caso la sua testimonianza sarà relativa­mente priva di lnlportanza In quanto non dfrà nulla sul senso dell'opera e si lliniterà a ricordare quello che Intendeva farle dire; oppure l'autore.è riusci­to a fare coincidere la propria intenzione con il senso dell'opera, ma in que­sto caso la sua testlnlonianza sarebbe ridondante, In quanto non aggiunge­rebbe nulla più a ciò che lopera già compiutamente esprlnle. I: arte è un' at­tività Intenzionale. I: unica cosa che conta è lopera: essa basta a decidere se l'autore ha realizzato la sua Intenzione''·

26, A. Cornpagnon, Le dé1non de la théorie. Litiérature et sens co1111nu11, Seuil, Paris 1998 (trad. it. Il detnone della teoria. Letteratura e senso co1nu11e, Einaudi, Torino 2000, p. 69). Un elemento di tutto rilievo pare il fatto che, anche Barthes, nel cuore di S/Z (Einaudi, Torino 1990), cioè, della sua opera che viene subito dopo la messa a morte dell'autore, l'opera più legata all'idea di close readù1g, in cui l'analisi rin1ane il più possibile indifferente al corpus let­terario con1plessivo di Balzac e alle tentazioni offerte dall'autore-Balzac, come notato da Cornpagnon, ricorre almeno in un caso, isolato ma cruciale, al metodo dei passi paralleli. Si tratta di una giusta constatazione che ha a che fare con un problema assai ingombrante, impossibile da trattare in questa sede, e che riguarda il rapporto tra l'elaborazione teorica e la pratica interpretativa concreta. Nel caso specifico, anche il teorico più anti-intenzionalista ricorre al metodo dei passi paralleli, cioè a qualcqsa che presuppone un'intenzione organiz­zata intorno a un'ipotesi di coerenza. La conclusione di Compagnon è L1pidaria: «L . .] nes­sun critico rinuncia quindi a un'ipotesi minima sull'intenzione d'autore, intesa come còeren­za testuale, o come contraddizione che si risolve a un altro livello (più elevato, più profondo)» (Compagnon, Le dé111011 de !t1 théorie, cit., trad. it. p. 80).

27. \V/. K. \Vimsatt, M. Beardsley, The I11te11tio11al Fallacy [1946], in M. Beardsley, The \!erba! !con. Studies in the Mea11ù1g o/ Poeti)', Universicy of Kentucky Press, Lexington 1954.

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3. L'IDEA DI AUTORE TRA CLASSICITÀ E MODERNITÀ

Qui si tocca un punto di qualche rilievo. Wimsatt e Beardsley si guar­dano bene dal negare in senso assoluto la presenza dell'intenzionalità. Essi si limitano a contestare l'utilità dell'intenzionalità d'autore in relazione a determinati scopi: cioè in relazione all'interpretazione critica del!' opera.

Un conto è quanto viene espresso in questa tesi moderata. Un conto è l'ipotesi elaborata in ambito strutturalista, in Francia alla fine degli anni Ses­santa, che giunge a conclusioni ben più radicali. Il primo passo verso il modernismo teorico degli anni Sessanta e Settanta si compie ancora piena­mente nel nome del!' autore. Non si insiste mai abbastanza snlla repentinità del passaggio che segue a quel primo passo: nel giro di pochi anni molte cose cambiano. Ma andiamo con ordine.

Quando Roland Barthes pubblica I: uomo racù1ia110, nel 1963, il ritorno al testo che si prospetta nel suo lavoro è una forma debole di ritorno ali' au­tore come progetto creativo facente da elemento unificante il corpus lettera­rio di uno scrittore. I:idea di "uomo raciniano" che dà anche il titolo alla tra­duzione italiana del testo è proprio il frutto di una critica tematica che trat­ta l'opera di Racine come un tutt'uno coerente28• Ali' origine di questa coesio­ne testuale si trova comunque la coscienza profonda di un creatore, che non coincide necessariamente con l'autore in carne e ossa e con le sue intenzioni esplicite, ma con una sorta di subconscio o inconscio dell'opera raciniana. È esattamente contro questa idea, che, in una prospettiva positivista, Raymond Picard attacca Barthes, difendendo una nozione più tradizionale del!' inte11-tio auctoris: quella di un'intenzionalità sempre concertata e cosciente29,

Se volessimo stabilire un parallelo con il terreno della politiqttè des auteul'S, diremmo che il Barthes accusato da Picard è ancora un interprete che, a prescindere dal livello più o meno profondo sul quale intende indi­viduare l'intenzionalità, cerca ossessioni d'autore, svolge un lavoro inter­pretativo abbastanza tradizionale, insomma, tratta Racine come Rohmer tratta Hichcock.

Rispondendo a Picard, nel 1966, Barthes compie il primo slittamento radicale. I:uomo (Racine) viene sostituito con il linguaggio. I:autore e l'o­pera non sono che il punto di avvio di un'analisi che mira al linguaggio in quanto tale'0

Come noto, nel 1968 Barthes pubblica un breve saggio dal titolo elo­quente: La morte dell'autore''. Il passaggio a una concezione postautoriale

28. R Barthes, Sur Racine, Seuil, Paris 1963 (trad. it. in Id., Saggi critici, Einaudi, Torino ,985).

29. R Picard, Nouvelle critique ou nouvelle ÙNposture, Pauvert, Paris 1965. 30. R Barthes, Critique et Ven'té, Seui!, Paris 1966 (trad. it. Critica e verità, Einaudi, Tori­

nO 1969). 31. R. Barthes, La tnort de l'auteur [1968], in Id., Le br11isse1nent de la langue, Seuil, Paris

1984 (trad. it.·Lt n1ofte dell'autore, in Il brusio della lingua. Saggi critici, voi. IV, Einaudi, Tori­no 1988).

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L'OMBRA DELL'AUTORE

della letteratura è compiuta. Via Saussure, si afferma lautosufficienza della lingua, cioè del sistema espressivo. Il significato non è più determinato dalle intenzioni ma dalla lingua come sistema di relazioni impersonale.

In questa sconfitta del soggetto a favore del potere anonimo del lin­guaggio giocano un ruolo determinate due fattori. Da un lato l'influenza della linguistica saussuriana, alla base della quale si trovano alcune idee che Derrida arriverà a radicalizzare nella propria rilettura di Saussure''. Dall' al­tro una tematica trasversale a Barthes, Foucault e Derrida, che in ognuno di questi tre pensatori influenti ha una propria riscrittura e declinazione pecu­liare, ma che ha anche a che fare con il debito comune di tutti e tre verso Maurice Blanchot: l'idea della scrittura, della letteratura, dello spazio lette­rario (non più solo della lingua) come luogo dell'anonimia, della cancella­zione delle tracce del sé.

E allora troviamo Foucault che a margine (nell'introduzione) di un libro interamente autoriflessivo come J;archeologia del sapere, dichiara:

Più d'uno, come faccio senz'altro io, scrive per non avere più volto. Non doman­datemi chi sono e non chiedetemi di restare lo stesso: è una morale da stato civile; regna sui nostri documenti. Ci lasci almeno liberi quando si tratta di scrivere33.

E ancora Barthes che, nella Morte dell'autore, commentando Sarrasine di Balzac (che di lì a poco sarebbe stata oggetto di un intero libro) ricorda che è impossibile stabilire la voce narrante, il soggetto dell'enunciazione, il responsabile del commento (e la distinzione tra questi livelli) perché la scrit­tura è la distruzione di ogni voce, di ogni punto di origine: è lo spazio neu­tro e obliquo sul quale il soggetto si perde, il negativo dove ogni identità è smarrita, a partire dal corpo stesso dello scrittore.

In Barthes però - anche in quello considerato in genere assai radicale della morte dell'autore - non si trova una definizione assoluta della comu­nicazione linguistica e letteraria in termini genericamente impersonali. O per meglio dire, Barthes fa a meno della nozione di persona, ma non della nozione di soggetto. Il catéletterario (sulla linea Blanchot-Mallarmé-Valéty­surrealismo) porta il teorico a una negazione dell'autore come figura stori­camente situata. Eppure il riferimento alla linguistica introduce un restrin­gimento, un distinguo in questa negazione. Barthes afferma che dal punto di vista linguistico l'autore non è mai nulla di più che l'istanza che scrive, esattamente come Io non è altro che l'istanza che dice Io. Ma noi potrem­mo dire che in effetti Barthes non dice neppure che si tratta di nulla di

32. Cfr. J. Derrida, De la gra1n111atologie, Les Editions de Ivlinuit, Paris 1967 (trad. it. Della gramtnatologia,Jaca Book, Milano 1967),

33. M. Foucault, I.:archéologie du savoir, Gallimard, Paris 1969 (trad. it. Earcheologia del sapere, Rizzali, Milano 1994, p. 25, 1a ed. 1971).

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meno: nulla di meno di un soggetto vuoto al di fuori dell'atto stesso dell' e­nunciazione (certo non una persona fisica, in carne e ossa), eppure in grado di tenere assien1e il linguaggio, di suturare l'enunciato a un'origine.

In questo preciso contesto, mi sembra legittin10 il sospetto che quando Barthes parla di morte dell'autore, in realtà stia parlando della morte di ciò che la semiotica enunciazionale avrebbe chiamato autore empirico. Ma non del soggetto grammaticale prodotto dall'enunciato e in1manente ali' enun­ciato. Quello che Barthes dice qui non è molto dissimile da ciò che la teo­ria avrebbe ripreso e approfondito in seguito: c'è un soggetto grammatica­le e c'è un lettore che detiene l'ultima parola sul senso e che lo ricostruisce, «è quel qualcuno che tiene uuite in uno stesso campo tutte le tracce di cui uno scritto è costituito>>34.

La forza di rottura della tesi sulla morte dell'autore è dislocata altrove. Ed è di carattere critico non solo teorico: la promozione di un nuovo profi­lo di scrittore modernista e l'emergere della pratica di lettura (entrambi gli aspetti trovano in Brecht una figura di riferimento). Su questo secondo punto lautore come fonte di origine e controllo dei significati viene con­trapposto al testo come spazio multidimensionale, sito di incontro di una moltitudine di scritture (il che è anche una definizione dell'intertestualità).

Il soggetto dell'enunciazione dunque esiste. E, come abbiamo detto, non è questo l'oggetto della decostruzione di Barthes. I: oggetto della deco­struzione di Barthes è almeno duplice: un'in1magine dello scrittore e una funzione dell'autore. Barthes contesta una precisa in1magine (una costru­zione sociale emersa dal Medioevo, dall'empirismo inglese, dal razionalismo francese) dello scrittore come soggetto che esprime se stesso, i propri umori, sentimenti, passioni, a cui va contrapposta quella dell'autore come qualcuno che usa un dizionario da cui evince una scrittura fatta a propria volta di segni impersonali. Il nuovo scrittore modernista non è più qualcu­no che esprime se stesso ma che constata come la propria interiorità sia parte di un vocabolario mondano già formato. In altre parole è qualcuno che assomiglia all'utente del linguaggio secondo Saussure e Jakobson: nella combinazione di tratti distintivi in fonemi il parlante praticamente è privo di libertà; nella combinazione dei fonemi in parole la sua libertà è altamen­te limitata, nella formazione delle frasi è limitato dalle regole sintattiche e grammaticali e così via.

Ma dare un autore a un testo significa anche fare sl che egli eserciti una funzione. La funzione d'autore è quella di porre un limite sul testo. Di dar­gli un segreto, un significato defmitivo. Il che coincide pressappoco con lo scopo della critica. Ecco perché il regno dell'autore è stato anche il regno della critica, secondo Barthes. Il vero posto della scrittura quindi non è la

34. Barthes, La tnort de l'auteur, cit., trad. it. p. 56.

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fonte, la voce originaria, il luogo dell'emissione, ma la lettura: luogo in cui si ricompone l'unità del testo. E questa destinazione è per sua natura imper­sonale: il lettore non ha storia, non ha biografia, è anonimo per definizione. Qui siamo sul piano della critica all'ideologia che la funzione d'autore porta con sé. Il rifiutò dell'autorità dell'autore significa anche la decostruzione di un principio di bloccaggio del senso.

Per questa via si rischia di aprire (e di fatto, storicamente, si apre) una polemica che riguarda la teoria dell'interpretazione e dei suoi limiti, e il ruolo che la figura dell'autore può avere nel processo di legittimazione dei significati. Questa funzione del!' autore in relazione ai significati e alla teoria dell'interpretazione è senz'altro l'aspetto che qui meno ci interessa della questione-autore. E molte sono state le soluzioni ipotizzate, da Hirsch a Eco''. Il punto è che la nascita della figura del lettore si compie al costo della morte di quella del!' autore. Un nuovo soggetto dunque nasce e la morte del soggetto-autore che ha dominato il campo schiude un insieme di nuove possibilità, tra le quali, come vedremo, quella delle interpretazioni di tipo sintomatico.

Prima di passare al campo specifico della teoria del cinema in relazione al problema dell'autore cinematografico, bisogna segnalare un altro contri­buto che ha avuto un peso essenziale nel proseguire sulla stessa linea indi­cata da Barthes quando critica le funzioni ideologiche storicamente rico­perte dall'autore. Nel r969 Miche! Foncault tiene una conferenza che si inti­tola appunto Che cos'è un autore?. Foucault dice in effetti di non volere ana­lizzare la nascita storico-sociologica del personaggio dell'autore (quando lautore è individualizzato? Quando, ad esempio, ci si è messi a fare ricer­che sull'autenticità e sulle attribuzioni ecc.?) e passa ad affermare qualcosa che lo lega ai discorsi coevi di Barthes: uno dei principi etici della scrittura contemporanea è l'indifferenza per il "chi parla". Ben presto però il filoso­fo si concentra sulla funzione-autore, intesa come il modo in cui un nome d'autore non si comporta semplicemente come un elemento qualsiasi di un discorso, ma come una sotta di etichetta in grado di raggruppare assieme certi elementi escludendone altri. Il campo letterario è ad esempio uno dei luoghi in cui la funzione autore meglio si esprime (l' anonin1ato letterario ci è insopportabile, lo accettiamo solo come enigma). Ciò che importa sotto­lineare è che la formazione di una tale funzione non è un atto spontaneo, non dipende dalla volontà dei soggetti ad essere autori. È un effetto deter­minato su almeno due fronti: uno interno al testo e legato ad alcune marche (come pronomi, deittici ecc.) e uno esterno al testo dato dal trattamento che in determinate condizioni sociali si fa subire ai testi, da certe pratiche di

35. E. D. Hirsch Jr., Conte si interpreta un testo, Armando, Roma 1978; U. Eco, I lùniti dell'interpretazione, Bompiani, !vlilimo 1990.

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3, L'IDEA DI AUTORE TRA CLASSICITÀ E MODERNITÀ

autenticazione. Ecco quindi che la funzione autore si inscrive ali' interno di una descrizione estremamente complessa dei discorsi:

[. .. ] la funzione-autore è legata al sistema giuridico e istituzionale che racchiude, determina, articola l'universo dei discorsi; essa non si esercita uniformemente e nella stessa maniera su tutti i discorsi, in tutte le epoche e in tutte le forme di civi­lizzazione; essa non è definita dall'attribuzione spontanea di llll discorso al suo pro­duttore, ma da una serie di operazioni specifiche e con1plesse; non rinvia puramen­te e semplicemente a un individuo reale; può dare luogo simultaneamente a molti ego, a molte posizioni-soggetto che classi diverse di individui possono occupare36.

In tutto ciò il ruolo risetvato tradizionahuente al soggetto, quello che Fou­cault chiama il suo privilegio, si dissolve in una rete di rapporti discorsivi. Non solo la funzione-autore è l'effetto di un insieme di rapporti complessi di discorso, ma bisogna sviluppare una nuova analisi storica dei discorsi stessi che sappia mettere da parte referenze biografiche e psicologiche dei sogget­ti. Se la domanda tradizionale è «come può la libertà di un soggetto inserir­si nello spessore delle cose?» (non è in fondo proprio la questione che anima lo stupore dei rappresentanti della politique des auteurs?), bisogna invertire i termini della questione e chiedersi «a quali condizioni un soggetto può apparire nell'ordine dei discorsi?». Anche in questo caso, il soggetto non è più un fondamento originario, ma appunto una variabile del discorso.

3.4 Struttura, scrittura, sintomo

Ciò che primariamente succede tra la fine degli anni Sessanta e i primi Set­tanta in relazione alla nozione di autore sul campo degli studi cinematogra­fici è apparso a molti ossetvatori come un'impresa momentanea e parzial­mente disperata: un tentativo di dare volume teorico a un insieme di di­scorsi che avevano usato solo lacerti di teoria (la definizione del realismo baziniano, ad esempio), in modo strwnentale, per approntare concetti ope­rativi. La politica degli autori era appunto una politica: sociologicamente parlando, un modo perentorio per produrre una rivoluzione/relativizzazio­ne del gusto cinematografico; praticamente parlando, un modo nuovo di interpretare certi fenomeni della cultura popolare.

Con gli anni Settanta, la diffusione di modelli e standard improntati dalla ricerca scientifica ad opera delle nuove scienze umane influenza anche

36. M. FoucatÙt, Qu'est-ce un auteur? [1969], in Id., Dits et écrits, Gallimard, Paris 1994 (trad. it. Che cos'è un autore?, in Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 1984, p. I4, Ia ed. 1971). Cfr. anche L. Quaresima, Una voce plurale, in A. Boschi, G. Manzoli (a cura di), Oltre l'autore II, in "Fotogenia", n. 3, 1996.

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il campo della teoria del cinema. Il risultato più controverso dell'incontro delle nuove scienze umane e della riflessione sull'autore ha preso il nome effimero di cinestrutturalismo, o di auteur-structuralism.

Il cinestrutturalismo indica una breve fase dell'evoluzione della teoria cinematografica che ha avuto per protagonisti soprattutto alcuni critici inglesi (Peter Wollen, Geoffrey Nowell-Smith, Alan Love!, Jin1 Kitses, Ben Brewster) legati alla rivista "Screen" e alle attività del British Film Institute. È in un simile contesto che si avvia una prima fase di distaccamento da un'inimagine dell'autore di tipo ancora idealistico. In questo breve periodo la riflessione teorica tenta di tenere assieme una certa visione d'autore con le due idee-guida dello strutturalismo ereditate da Saussure: lenfasi sul sistema della lingua, quindi per esteso, l'idea che un atto di parola, un testo audiovisivo ecc. siano comprensibili sono in relazione a un sistema più ampio (il quale a sua volta esiste solo nella moltitudine dei singoli atti di di­scorso). E l'idea che la sistematicità della struttura del linguaggio non abbia una consistenza sua propria ma che sia il prodotto della costruzione dell' a­nalisi, cioè di una precisa pertinenza metodologica''·

Il sistema della lingua così come il film come testo sono costrutti dell' a­nalisi, sono il frutto di scelte di campo, di precise metodologie. È qui in gioco un'altra questione determinante nel campo degli studi cinematografi­ci del periodo. Una questione assai nota e dibattuta che ci interessa relati­vamente in questa sede ma che non manca di determinare qualche conse­guenza anche sul problema dell'autore. Si tratta, per mantenere la termino­logia di Francesco Casetti, ampiamente entrata in uso, del problema del passaggio dalla fase delle teorie ontologiche (entro le quali si colloca anco­ra Bazin e anche, per certi versi, la politique) alle teorie metodologiche'8•

Il problema della scientificità del metodo è un ingrediente fortemente sentito nel dibattito sull' autorialismo tra anni Sessanta e Settanta. Due stu­diosi nei quali si nota questo tentativo di tenere assieme l'interpretazione in prospettiva autoriale e le nuove esigenze introdotte dallo strutturalismo sono Geoffrey Nowell-Smith e Peter Wollen.

Smith è uno dei primi a scrivere una monografia su un cineasta-autore (Visconti) richiamandosi esplicitamente al metodo strntruralista". Egli indivi­dua tre modi di intendere I' autorialismo: come insieme di asserti empirici tesi a dimostrare che ogni aspetto di un film è sotto l'unica e diretta responsabili­tà del suo autore; come un criterio di valutazione secondo il quale ogni film d'autore è un buon film; infine come principio di metodo in grado di fare da base per un nuovo tipo di critica. Smith dichiara anche che la prima e la secon-

37. Per una critica generale al cinestrutturalismo cfr. S. Heath, Conunent 011 the Idea o/ Authorship, in "Screen", XIV, n. 3, r973,

38. F. Casetti, Teorie del cinetna, Ig45-I990, Bompiani, Milano 1993· 39. G. No,vell-Smith, Visconti, Secker & \Xlarburg, London 1973 (t1 ed. 1967).

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da interpretazione della nozione di autore sono l'una assurda, laltra gratuita e sconfinante nel dogmatismo. Non si può non notare che questi rilievi coin­volgono la politique, e che ciò avviene in nome di un principio di metodo e di una fo1ma di critica più scientifica («a more scientifìc form of criticism» )4'.

Il principio di metodo richiede il riconoscimento di un fatto: lautore esiste, l'analisi ne deve tenere conto. Non si tratta di guardare generica­mente a un film o a un gruppo di film attraverso il suo regista-autore, ma di individuare certe caratteristiche testuali a un livello di non immediata apparenza.

Anche il processo di comparazione con altri film non viene fatto in nome dell'identificazione di una visione coerente del mondo, ma in nome dell'intellegihilità della struttura che articola lopera e le dà forma unitaria. Lo scopo del critico è cogliere sotto la superficie testuale un nocciolo strut­turale di motivi e temi ricorrenti. Va registrato lo scarto rispetto alla politi­que: non basta individuare dei temi ricorrenti (mossa autorialista); bisogna che questi risultino articolati in una struttura soggiacente (mossa struttura­lista). !}insieme di questi tratti profondi è ciò che trasforma il lavoro di un autore in qualcosa di strutturato al proprio interno e di distintivo rispetto all'esterno (gli altri testi).

In Signs and Meaning in the Cinema, un libro decisivo nella formazione degli studi teorici nei paesi di lingua inglese tra anni Sessanta e Settanta, Peter Wollen elabora una versione della auteur theo1y improntata a un prin­cipio di mediazione: dare una base materialistica alla nozione d'autore, abo­lendo l'idea del soggetto pieno la cui intenzione informa di sé il testo e il suo valore, mantenendo al contempo l'ipotesi di una riconoscibilità nel corpus (composto da più film) di uno stesso autore. Dunque: fare a meno dell'i­dealismo romantico della creatività, senza consegnarsi a un determinismo eccessivamente meccanicistico4I.

Da qui deriva l'idea di autore come una sorta di catalizzatore. r; autore viene identificato con una funzione dotata anche di un lato empirico, con­sistente nel porsi al crocevia tra spinte eterogenee rappresentate da diversi agenti (l'industria, il cast, la sceneggiatura ecc.) e il ritorno a una cifra uni­taria. Il testo risulta così strutturato intorno a un principio unificante, ma questo principio unificante è descritto nel suo essere composto proprio da una serie molteplice di relazioni di cui lautore è solo uno degli elementi, accanto a relazioni di genere, ideologia, tecnologia ecc.42

.

Il punto è che questa nozione dell'autore come occasione di messa in forma di relazioni complesse che lo includono e allo stesso tempo lo tra-

40. Ibid. 4r. P. \Vollen, Signs and Meaning in the Cinetna, Secker & \Xlarburg, London 1972 (13 ed.

1967). 42. Cfr. Caughie (ed.), Theories o/ Authorship, cit., pp. 124-9.

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scendono è aperta a molteplici interpretazioni. Nel capitolo del suo libro sulla teoria dell'autore, Wollen considera i film di Ford e Hawks attraverso serie sistematiche di opposizioni binarie (giardino/wilderness, drammi d' av­ventura/ commedie ecc.) e non esita a stabilire analogie con il metodo strut­turalista applicato allo studio dei miti e del folklore. Tuttavia, egli afferma letteralmente: «li mio punto di vista è che lopera di Ford è assai più ricca di quella di Hawks e che ciò è rivelato da un'analisi di tipo strutturalista»4'.

Questa maggiore ricchezza e variabilità delle relazioni trasversali al corpus fordiano è determinante nel fare di Ford non semplicemente un autore indubitabile, ma un artista. Un simile ragionamento, oltre a introdurre ele­menti valutativi espliciti, sembra presupporre una serie di elementi che pre­scindono dall'analisi dell'autorità fordiana. È vero che un autore, al contra­rio di una sceneggiatura, esiste a posteriori rispetto al testo che in qualche modo lo designa. Ma in ogni caso lanalisi trova I' autorialità perché essa le pre-esiste. Il che, quanto meno vuol dire che I' autorialità non preesiste al film, ma preesiste al gesto analitico che la scopre.

Nel post scriptum del!' edizione del 1972 dello stesso libro si nota un cambiamento di rotta leggero eppure significativo. I: autore da catalizzato­re diventa catalizzatore i12co12scio. r; analisi autoriale non riporta la struttura alle sue origini, alla sua fonte creativa. Traccia piuttosto i contorni di una struttura nel testo, che, post facto e su basi empiriche, può essere riportata a un agente individuale. La presenza di una struttura è senza dubbio asso­ciabile alla presenza di un autore, alla figura di un singolo regista, ma non perché quest'ultimo debba ricoprire il ruolo dell'artista (fonte di espressio­ne individuale, nel film e che al film dà origine), quanto piuttosto perché attraverso la sua mediazione il film stesso si presenta come un insieme codi­ficato di significati involontari, inconsci. Non bisogna confondere metodo­logicamente i registi "empirici" Hitchcock, Fuller o Hawks con le strutture "ffitchcock", "Fuller" o "Ha,:vks" chiamate così a posteriori.

Dunque nel!' edizione del 1969 Ford è ancora un great artist, in quella di tre anni successiva, una postfactum stmcture. Si passa da un'entità struttu­rante a un'entità strutturata. Con qualche rischio di confusione. I:autore è qualcosa che sta al centro della rete strutturale del testo, la determina, la orienta e la governa, oppure abbiamo a che fare con una presenza intera­mente determinata dal testo, una produzione di significato data dalla rela­zione di parti strutturali eterogenee ed equivalenti? Se la funzione-autore è più una produzione testuale che l'entità che ne regola la genesi, qual è la dif­ferenza tra il soggetto funzionale-Ford delineato dal film (la struttura che Wollen chiama "Ford" con le virgolette) e il soggetto empirico Ford (senza virgolette) realizzatore della pellicola?

43. Citato in ivi, p. 142.

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3. L'IDEA DI AUTORE TRA CLASSICITÀ E MODERNITÀ

Notiamo per inciso che questi problemi si trascinerauno per tutto il decennio dei Settanta fino ad andare a rappresentare uno dei punti con cui si confronterauno la teoria del lettore-autore modello e la semiotica enun­ciazionale: rinunciando a una concezione del testo come oggetto dato in una sincronia artificiale e spostando l'attenzione sulla figura dello spettatore-let­tore testualizzato nella situazione comunicativa, teorici come Eco, Bettetini, Casetti alla domanda circa la natura di principio strntturante-strutturato del­]' autore, risponderanno dicendo che lautore reale produce un testo il quale, a propria volta, rimanda a un'immagine di un enunciatore (o autore implici­to) definibile al contempo come entità strutturata ed entità strutturante44.

Intanto, nei primi anni Settanta, la nozione di catalizzatore inconscio si ricollega a una serie di scritti che, quasi nello stesso periodo in Francia, inaugurano un tipo di lettura sintomale del film. Questo tipo di controin­terpretazione si delinea come pratica collettiva all'interno della redazione dei "Cahiers du cinéma" in una fase in cui la riflessione teorica è completa­mente assorbita dal problema del rapporto tra tecnologia, apparato cine­matografico e ideologia.

Non ripercorriamo ora il dibattito intorno al concetto di ideologia nella teoria cinematografica francese, che è stato ampiamente trattato altrove45. Bisogna però ricordare che la posizione dei "Cahiers" si distingue da quel­la della più radicale "Cinéthique" su più di un punto. Se entrambe le rivi­ste condividono grosso modo l'idea che l'ideologia borghese sia veicolata al cinema più che da questioni di contenuto dall'illusione di realtà, per "Ciné­thique" il legame con l'ideologia dominate può essere spezzato solo imma­ginando una rottura radicale con il metodo di rappresentazione proprio del cinema tradizionale, per i "Cahiers" invece l'analisi di alcuni film classici permette di individuare una categoria di opere che sono calate all'interno del sistema di rappresentazione borghese, ma che, attraverso alcnni ele­menti di scrittura, sanno incrinare la compattezza del sistema stesso.

"Cinéthique" rifiuta la versione usata dai "Cahiers" della nozione di pl'tltica signzficante. Questa nozione pone laccento sulla logica del signifi­cante, cioè sul fatto che le pratiche sociali includono quelle significanti, ma è come se queste ultime godessero di una certa autonomia. Di un' autono­mia relativa, appunto. Invece "Cinéthique" afferma: queste pratiche ideo­logiche sono inscritte completamente in un apparato di Stato che' è di clas­se. Lo spazio di ridefinizione nel linguaggio non esiste. La posizione di chi difende lautonomia del soggetto dalle pratiche significanti ostacola il movi­mento rivoluzionario in quanto ostacola la convergenza di numerosi intel­lettuali sulle posizioni del proletariato. Il punto di disaccordo qui riguarda

44. Cfr. U. Eco, Lector in/abu!t1, Bompiani, 1'1ilano 1979; G. Bettetini, La conversazione audiovisiva, Bompiani, Milano 1984; F. Casetti, Dentro lo sguardo, Bompiani, Milano 1986.

45. Ancora Casetti, Teorie del cinen1a, cit., pp. 205-23.

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il rapporto tra lotta politica e lotta ideologica. Per i "Cahiers" i due campi si costituiscono in un legame che permette un certo grado di autonomia reciproca. Il terreno della critica dell'ideologia è un terreno specifico sul quale si punta alla destrutturazione del predominio della rappresentazione tradizionale in termini di analisi culturale. Un'analisi che ha campi di perti­nenza e applicazioni diversi da quelli del politico. Così, ad esempio, non ha alcun senso accusare il gruppo Dziga Vertov di non fare la rivoluzione. È un'accusa moralistica che riunisce il sinistrismo filoanarchico e l'apoliticità cinefila nell'amore del cinema classico hollywoodiano, che dissimula mala­mente la scissione del critico cùtéphile, il quale vuole godere liberamente dei prodotti dell'ideologia dominate per poi sbarazzarsene.

In questo quadro polemico nasce l'analisi testuale di Alba di gloria (1939) di John Ford46• Il testo collettivo nella prima parte marca la propria diffe­renza di metodo proprio in relazione alle altre pratiche di analisi dell'ideolo­gia della rappresentazione. I; analisi di Alba di gloria (un film che mette in scena la giovinezza di Abraham Lincoln) non sarà un semplice commenta­rio; né sarà un'interpretazione ideologica banalmente decostruttiva. Da que­sto punto di vista infatti il progetto del film sembra chiaro: la riformulazio­ne della figura storica del Presidente all'interno dell'ordine simbolico del mito senza tempo. Ma solo un'analisi ingenuamente demistificante può pen­sare che questo tipo di enunciato ideologico sia separabile da altre determi­nazioni che lo accompagnano e gli danno forma. I;idea dei "Cahiers" è esat­tamente quella di sottrarre questo livello a ogni tentazione di isolamento ana­litico per farlo giocare con altri elementi del film, come i presupposti filoso­fici, le determinazioni politiche, e, nella loro relativa autonomia, i processi estetici (figure, significanti fihnici, moduli narrativi) tra i quali opera un ruolo centrale proprio la scrittura fordiana (écriture fordienne).

Dopo avere considerato in modo molto minuzioso il periodo storico di ambientazione della storia, l'America e il mondo hollywoodiano in cui il film ha visto la luce (si tratta della fine degli anni Trenta), l'analisi procede descrivendo il film come un esempio tipico di un regime di scrittura de­negatrice, in cui il lavoro ideologico viene continuamente rimosso dal lavo­ro del regime narrativo e rappresentativo.

I;analisi mostra come Lincoln sia costruito come figura della legge, garante della verità ed eroe fuori dalla Storia. Le determinazioni politiche sono reinscritte all'interno di un narrazione mitizzante e improntata alla predestinazione. Il cinema classico è descritto come una formidabile mac­china di occultamento: occultamento delle ragioni storiche del personaggio e delle sue scelte. Inoltre il film rafforza sul piano della narrazione i valori tradizionali, come il rispetto della legge, della proprietà privata, del ruolo della famiglia e della vita rurale.

46. AA.VV., "Young Mr. Lincolnn de fohn Ford, in "Cahiers du cinéma", n. 223, 1970.

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3. L'IDEA DI AUTORE TRA CLASSICITÀ E MODER.t'\JITA

Eppure questo lavoro di mitizzazione del personaggio si incrina proprio nel punto in cui vorrebbe essere più sistematico ed efficace. Nella seconda parte del fihn, Lincoln, ormai diventato avvocato, si in1pegna a salvare due fratelli accusati di omicidio davanti a una giuria popolare. La risoluzione del processo coincide con l'esibizione di una prova che porta all'incrinlinazio­ne di Cass, un amico della \~ttima, che è anche il principale testimone del­]' accusa. La prova della sua colpevolezza consiste in un almanacco che smentisce Cass su un punto essenziale: la notte dell'omicidio non c'era la luna piena (come Cass aveva sostenuto nella sua deposizione) e quindi non era possibile vedere in modo preciso la dinamica del delitto. Questo alma­nacco compare in altre scene, nel corso del ftlm, come una sorta di signtfi· cante occultato in attesa di rivestire il ruolo risolutore che avrà solo nella sequenza conclusiva in tribunale.

Dunque, la prova della potenza di Lincoln è legata ali' esibizione di un almanacco. Il modo in cui compare il documento all'interno della scrittura fordiana ha una scansione assai precisa. Esso in realtà compare in modo magico, è prodotto da Lincoln in maniera così inlprevista, che l'effetto più immediato di questa apparizione dovrebbe essere un rafforzamento dei poteri quasi magici di Lincoln. Ma questo effetto ideologico, non importa se ricercato o meno, sembra confermare più che un'esibizione dell'onnipo­tenza del personaggio, una costrizione-limitazione-messa in forma del pote­re del personaggio da parte della stessa scrittura filmica. Apparentemente si tratta di un passaggio familiare al discorso analitico: quello in cui la traspa · renza della storia si incrina a favore della presenza del discorso. In realtà abbiamo a che fare con qualcosa di più complesso e strategico all'intemo del discorso dei "Cahiers".

Vanalisi mostra un insieme di regolarità, di effetti di compattezza ideo­logica. Poi il testo si apre, le sue maglie sia allentano, la serie di inscrizioni ideologiche pe1fettamente concatenate si interrompe in un punto, che è esattamente quello dell'emersione della scrittura, di una scrittura d'autore, dell' écriture fordienne.

Un altro esempio di incrinatura è rappresentato dal modo in cui Lin­coln costringe Cass a confessare. La violenza dell'interrogatorio potreb­be indicare la determinazione del personaggio a fare emergere la verità, ma lanalisi può individuare altri livelli di senso. La dinamica violenta che genera la confessione, a un livello implicito rafforza la connotazione-giu­stizia del personaggio, a livello sintomatico prinlario conferma il suo potere di castrazione, ma a livello sintomatico secondario e controte· stuale può essere letta come una denuncia della natura repressiva del potere di Lincoln.

La scrittura fordiana è quindi richiamata più volte come controscrittu­ra, inscrizione che incrina e complica la natura dei rapporti messi in campo.

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J,'OMBRA DELL'AUTORE

Questo processo di inscrizione, di lavoro della scrittura, è esattamente il luogo in cui emergono le difficoltà di una piena definizione del persopag­gio nelle coordinate ideologiche del testo.

L'analisi non manca di indh~duare anche dei tratti propri dello stile di Ford (l'utilizzo della scala dei piani nella sequenza dell'omicidio, l'uso del fuori-campo nell'immagine di Lincoln che si consegna alla folla invisibile nel finale del film ecc.). Ma questi elementi stilistici possono essere perfet­tamente compresi all'interno di un rapporto di corrispondenza tra l' espres­sione e determinati contenuti funzionali all'ideologia dominante. Lo stile non basta a fare scrittura. Ci sono dei tratti che sono propri di Ford, che sono il suo stile, che fauno la sua riconoscibilità. Ma la scrittura fordiana è un'altra cosa. Ha una funzione del tutto diversa nell'economia formale nar­rativa e ideologica del testo. È qualcosa che emerge sì a partire da uno stile, da un insieme di tratti formali e narrativi, ma che eccede il carattere di intenzionalità di questi. Se gli stilemi d'autore sono il luogo in cui una certa visione consapevole o inconsapevole del mondo si collega a tratti formali riconoscibili, in cui si dà una peculiarità indi,~duale al rapporto necessario tra unità sul piano del contenuto e unità sul piano dell'espressione, la nozio­ne di scrittura rappresenta proprio un punto di intenuzione di tale legame. La scrittura fordiana segna le distanze tra se stessa e i propositi idealistici di Ford, cioè del suo stile, della sua messa in scena. La scrittura è una costru­zione dell'analisi in cui i parametri formali e narrativi significano sotto il lin­guaggio dell'autore, nel senso che significano in modo svincolato dal suo dominio, liberi dal principio di intenzione.

3.5 Aperture. L'autore: testo e contesto

La graduale emersione di un nuovo soggetto, così come laveva profetizza­ta Barthes nella conclusione del suo saggio sulla morte dell'autore, legato alla descrizione delle dinamiche di lettura dello spettatore, è il tratto unifi­cante che attraversa il campo in espansione degli studi cinematografici nel corso della seconda parte degli anni Settanta. Un campo che si alimenta di molteplici linee di ricerca: dalla riflessione sulle dinamiche del testo e le pra­tiche significanti ai contributi della psicoanalisi, dalle questioni connesse alla considerazione del testo come fatto comunicativo, a quelle legate al pro, blema dei suoi possibili usi sociali.

Si possono comunque individuare in breve alcune tendenze maggior­mente significative il relazione al nostro argomento.

In un primo momento, lo sviluppo di interesse per le dinamiche testua­li riscrive il problema del!' autore all'interno di una teoria della testualità: lautore diventa uno dei termini attivi nel processo di lettura del testo. Per

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3, L'IDEA DI AUTORE TRA CLASSICITÀ E MODERNITÀ

questa via si giunge ben presto alla considerazione delle dinamiche autoria­li in stretta connessione con il problema del soggetto dell'enunciazione. Nel clima di forte politicizzazione proprio degli anni Settanta, la ricerca di un soggetto enunciatore, di un insieme di marche testuali che costituiscouo il film come discorso situato, assun1e spesso la forma di contrapposizioni assai nette: da un lato il meccanismo di occultamento visto ali' opera in Ford anche nel!' analisi collettiva di Alba di gloria viene declinato in una nuova variante secondo la quale il cinema classico, illusionista, improntato a un regime di trasparenza, è sempre ed esattamente il luogo di cancellazione della dimensione del discorso a favore della storia. Il film non marcato da elementi in grado di segnalare l'istanza di enunciazione sembra svilupparsi da solo, la produzione ideologica, da discorso situato e storicamente deter­minato, diviene fatto naturale, elemento legato al mondo in modo organico e inm1ediato. Dal!' altro lato invece \~ene collocato quel cinema materialista in cui il film si presenta come discorso esplicito che ammette la propria natura di evento situato anche in relazione a lUl autore.

Proprio a partire dalla constatazione che una simile contrapposizione non regge in termini assoluti, sia in senso teorico (i fthn non sono quasi 1nai immobilizzati sul registro della storia o su quello del discorso, ma muovono continuamente dall'uno all'altro), sia in senso storico (anche nel cinema clas­sico si dà l'eccesso stilistico, l'esibizione dell'enlUlciazione, senza che ciò pro­duca necessariamente le conseguenze indicate dal!' estetica brechtiana), all'in­terno di quelle che sono state chiamate le teorie di campo47, il problema del-1' autore con1incia ad essere studiato non in relazione a una nozione astratta e monolitica (il cinema), ma a specifiche pratiche filmiche (determinati generi classici, il women'sfilm, il cinema d'avanguardia ecc.). La considerazione del testo audiovisivo in termini di una pe1formance situata favorisce la ridefini­zione dell'autore non più solo Come soggetto disincarnato dell' enllllciazione, ma anche Come istanza storicamente1 socialmente, e sessualmente determi­nata (attraverso la dinamica di gender). In questa direzione muoveva già un saggio di Jean-Pierre Oudart su Quattro notti di un sognatore (1971), in cui l'interprete ricostruiva il fuori-campo celato dell'autore della produzione testuale specifica, individuando in un "soggetto-Bresson" le tracce del desi­derio del regista (e della sua soppressione) e la problematica del suo status di soggetto portatore di un discorso rivolto a un pubblico concreto e situato dal punto di vista qualitativo e quantitativo (<<nn ambiente intellettuale tra il sesto e il sedicesimo arrondissement»)'8; ma è soprattutto la riflessione portata dalla nascita e dallo sviluppo della femùtist film theoty a lavorare proprio su problemi specifici di desiderio, sguardo situato, individuazione di genere ses-

47. Cfr. ancora Casetti, Teorie del cine1na, cit. 48. J.-P. Oudart, Il Juoricat11po dell'autore [1972], in AA,VV., Les Cahiers du ciné11u1. La

politica degli autorr: cit., p. 134.

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L'OMBRA DELL'AUTORE

suale. Anche qui la letteratura diventa in breve tempo sterminata. Solo per citare un esempio della prima fase degli studi femministi, uno dei punti essenziali di questo tipo di analisi è senz'altro quello di mantenere le que­stioni dell' autorialità all'interno del più ampio frame delle teorie della sog­gettività e dell'enunciazione, problematizzando però l' autorialità proprio in termini di sguardo del regista come sguardo specificamente maschile!9.

Infine, per la necessità di superare un altro degli elementi problematici delle teorizzazioni degli anni Settanta, cioè il loro eccessivo determinismo testuale (in base al quale sembra che sia assai difficile per lo spettatore sot­trarsi ai meccanismi di costrizione ideologica e di interpellazione simbolica attivati dal testo), anche grazie all'influenza di quel settore dei cultura! stu­dies interessato alle attività concrete di consumo e ricezione di testi della cultura popolare da parte di consumatori in carne e ossa, si è cominciato a pensare lautore non tanto in termini di fonte della produzione testuale, o di simulacro capace di orientare la lettnra del testo in modo vincolante, quanto piuttosto in termini di costrutto discorsivo determinato da una serie di atti variabili di interpretazione.

Autori lo si diventa (se lo si diventa), non solo grazie al discorso che si produce, ma anche grazie ali' orizzonte di ricezione in cui il nostro discorso si colloca. Questo passaggio, che qnalcuno ha sintetizzato nella formula «dal­]' autore della finzione alla finzione dell'autore», fa tesoro delle indicazioni di Foucault, e al contempo si sviluppa, soprattutto a partire dalla seconda parte degli anni Ottanta e per tutto il decennio successivo, intorno ad alcuni studi legati alla teoria della ricezione. In questo quadro alcuni contributi hanno provato a ripercorrere i modi in cui lo status autoriale di certi registi si è costruito non come riflesso di caratteristiche intrinseche alle opere ma come conseguenza della mediazione esercitata da certe pratiche interpretative. Mi sembra che su questa direttrice si muovano gli studi sulla reputati011 building di Charles Maland su Chaplin, di Robert Kapsis su Hitchcock, di Mitsuhiro Yoshimoto su Kurosawa, di Barbara Klinger sulla canonizzazione di Sirk'0 •

49. Cfr., ad esempio, S. Flitterman, Wotnen, Desire, and Look: Fen1inistn and the Enun­ciative Apparatus tit Cinenta, in "Ciné-Tracts", II, n. 1, r978, ora in Caughie (ed.), Theories o/ Authorship, dt.

50. Ch. ]. Maland, Chaplin and Av1erica11 Culture: The Evolution o/ a Star Itnage, Prin­ceton University Press, Princeton 1989; R. E. Kapsis, Hitchcock: The Making o/ a Reputation, Universicy- of Chicago Press, Chicago 1992; M. Yoshimoto, Kurosawa: Filt11 Studies and Japa­nese CinetJta, Duke University Press, Durham 2000; B. Klinger, Melodra111a & Meaning, Iiisto1y, Culture, and the Fiùns o/Dougl.as Sirk, Indiana University Press, Bloomington-India­napolis 1994; D. Tornasi, lvf.odelli di costruzione dell'autòre. Il caso Mizoguchi, in "Fotogenia", n. 2, 1996. Nel campo della letteratura, Carla Benedetti ha insistito sulla necessità di ritorna­re all'autore come figura-chiave dell'attuale comunicazione letteraria. Cfr. C. Benedetti, I: ov1-bra lunga dell'autore. Indagine su una figura cancell.ata, Feltrinelli, !vlilano 1999. Sul rapporto in chiave estetologica tra la nozione di autore e la "funzione di artista" nella Nouvelle Vague cfr. D. Chateau, La f...'ouvel!e \lague entre l'auteur et !'artiste, in "Iris", n. 28, 1999.

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La buona distanza. Analisi di Sentieri selvaggi

4.1 La porta come forma simbolica e culturale

Assieme ali' attraversamento di un'altra soglia - quella di Citizen Kane e della sua Xanadu - ecco uno degli incipit più celebri della storia del cine­ma. La cosa è fin troppo nota: Sentieri selvaggi (!956) si apre su una porta che si apre. E si chiude con una porta che si chiude, lasciando fuori, nella wildemess, leroe in volontario isolamento. Quasi certamente - possiamo immaginarlo - egli riprenderà a "cavalcare lontano". Nel mezzo, l'intero film è attraversato dal motivo ricorrente del confine, del limite spaziale san­cito da un'apertura, da una cornice-pol'ta che scandisce e articola le divi­sioni dello spazio cinematografico.

In questo capitolo ritornerò sull'identità autoriale solo nel finale, al ter­mine di un percorso un po' tortuoso. Partendo dalla questione dei signifi­cati culturali di determinati motivi iconografici, attraverso lo studio della funzione del motivo della soglia-porta in Sentieri selvaggi in relazione all'in­quadratura fordiana, vorrei giungere a riconsiderare il problema del!' auto­re nei termini di un'istanza di organizzazione/mediazione tra elementi testuali specifici e forme della cultura.

In un breve saggio - che sembra quasi un commento indiretto a Sentie­ri selvaggi - Georg Simmel indaga il valore simbolico della forma-porta e della forma-ponte. Nella natura, dice Simmel, la materia esclude altra mate­ria, gli oggetti sono costretti <<nella spietata separatezza dello spazio»', eppu­re la natura stessa rimane un fluire ininterrotto di relazioni e trasformazio­ni di materia. Le cose sono separate ma la natura le lega in un flusso. Di fronte alla natura imperturbabile, siamo noi, la nostra coscienza e il nostro occhio, a compiere una doppia operazione: separare ciò che è collegato e collegare ciò che è separato. Questa attività, eminentemente spirituale, può rimanere su tale piano spirituale (cosa che succede, come vedremo, quando assumiamo una disposizione mentale in grado di trasformare una veduta di

1. G. Sirnmel, Ponte e porta [1909], in Id,, Saggi di estetica, Liviana, Padova 1970, p. 3,

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L'OMBRA DELL'AUTORE

materia naturale in una composizione paesaggistica) o può avere un risvol­to più concreto, cosa che avviene quando costruiamo, vediamo, utilizziamo oggetti sociali come ponti e porte.

Espansione della nostra volontà sopra lo spazio, il ponte funziona come forma sensibile, estesa, oggettivata di una tensione (al centro degli interessi teorici di Simmel) tra processi di unione, separazione, relazione tra unità particolari dei fenomeni e degli enti e il tutto, la totalità dei medesimi. Men­tre il ponte privilegia l'unione sulla separazione, la porta fa il contrario. Si tratta di una forma culturale che mostra come il collegare e il separare fac­ciano parte del medesimo atto. Essa ritaglia nella continuità infinita di uno spazio una porzione di mondo, ne isola una patte, ma al contempo rappre­senta il punto di cerniera tra dentro e fuori. La porta separa, eppure non è muta come una parete. Essa parla. È la forma sensibile della doppia possi­bilità di separare e unire due spazi. Porta dunque come punto limite sul quale l'uomo «resiste o può resistere»\ n1a anche come unità finita su cui w1 frammento ritagliato di spazio si ricollega al tutto, sui cui si dà uno scam­bio continuo tra limite e illimitato.

Qual è dunque il valore simbolico della porta? Il suo movimento rende possibile ciò che la sua identità fisica sembra negare: lo slancio «al di fuori di questo limite, nella libertà>>3. Dunque il valore simbolico della porta è, in senso più generale, quello di rispecchiare e al contempo di rendere possibi­le, visibile, concreta la soddisfazione di un'inclinazione umana: l'imposizio­ne del limite per il suo superamento, la traccia di un confine per il suo attra­versamento.

I valori simbolici individuati da Simmel a proposito della porta, e qual­che anno più tardi a proposito del paesaggio, non sono smentiti dalla ricer­ca storico-iconografica sull'evoluzione di certi motivi figurativi in pittura. Anzi, se si affronta un tema piuttosto simile (e in un certo senso, inverso) a quello che ci impegnerà nel corso di queste pagine, cioè il tema della ricorrenza del motivo dello "sfondamento" sul paesaggio attraverso porte e finestre nella pittura quattrocentesca, si trovano interessanti corrispon­denze.

Bisogna ricordare che sempre Simmel, in un saggio di quattro anni suc­cessivo a Ponte e porta, descrive il paesaggio come un'entità non coinciden­te con il darsi del mondo naturale. Il paesaggio è un'esperienza. È un certo tipo di attività spirituale a ricavare il paesaggio dalla natura4. Vi sono alme­no due condizioni necessarie all'esperienza del paesaggio. In primo luogo il paesaggio non può iniziare nello spazio in cui sono. Solo ciò che è in qual-

2. Ivi, p. 6. 3. lvi, p. 8. 4. Detto ciò, risulterebbe irricevibile una lettura di stampo relativistico. Il ricavo non è

llll'invenzione, un capriccio del soggetto, bensì llll ritaglio da un co11tùtt1t1»1 oggettivo: il pae-

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4. LA BUONA DISTANZA. ANALISI DI SENTIERI SELYAGGI

che modo lontano può diventare paesaggio e con ciò stesso avvicinarsi. La distanza è essenziale (tema sociologico per eccellenza, e di rilievo costituti­vo nel pensiero simmeliano). In secondo luogo, non basta una serie di cose né uno sguardo che le coglie nell'insieme per avere il processo spirituale che porta al paesaggio. Uno sguardo che abbraccia qualcosa all'interno di un orizzonte n1omentaneo non è ancora paesaggio, ma materiale per esso (cosl come i libri accatastati senza criterio in un'abitazione non forn1ano· una biblioteca). C'è bisogno di un principio di limitazione. Di una cornice, la comprensione in un orizzonte tnomentaneo o durevole. Il paesaggio è un ritaglio nell'ininterrotta nascita e distruzione di forme che è la natura. I: at­to spirituale che fa nascere il paesaggio quindi è proprio l'incontro tra que­sto ritaglio e il flusso dell'essere. Quindi: ritaglio in relazione all'unità e buona distanza.

La ricerca di tipo storico-estetologico ha spesso individuato costanti analoghe. La costituzione estetica del motivo paesaggistico nella pittura ita­liana del Quattrocento dipende da un requisito fondamentale: la limitatez­za. La ditnensione paesaggistica si costituisce in pittura attraverso una rete di relazioni dominata dalla tensione spazio aperto/spazio chiuso, e inoltre, in un gioco di "messa a distanza" dell'elen1ento naturale ottenuto tramite una complessa casistica di collocazione dell'osservatore stesso nello spazio rappresentato'. Analogamente, Francaste! individua, nel processo che porta lo spazio cubico chiuso quattrocentesco ad aprirsi includendo paesaggi in lontananza, una contrapposizione presente nella cultnra del Quattrocento tra l'unità irriducibile dello spazio infrnito da una parte e la riducibilità del­l'universo e la possibilità di rappresentarlo dall'altra, cosl come si viene a configurarsi, ad esempio, anche nel pensiero matematico coevo6•

Queste ultime osservazioni introducono uno scarto su cui vale la pena insistere: i motivi iconografici possono essere intesi oltre che come entità testuali dotate di significati genericamente simbolici (secondo l'ottica sim­meliana), anche come connettori di significati sociali più determinati. Se seguiamo l'idea warburghiana di un atlante di motivi ci accorgiamo pre­sto che, ad. esempio, la forma della porta è associata a situazioni cultural­mente connotate (apparizioni divine, possibilità di presenza di un osser­vatore sulla scena ecc.). Questi significati sociali del resto, in una pro-

saggio non è la natura nel senso che non coincide con essa, ciò non di meno rimane "natura­le" (cfr. G. Simmel, Filosofia del paesaggio [1913], in Id., Sag,g/ sul paesaggio, Armando, Ron1a 2006). Anche se non in relazione ai nostri argomenti, una ricca riflessione teorica sulla rap­presentazione del paesaggio al cinen1a si trova in S. Bernardi, Il paesaggio nel cine111a italiano, i\!Iarsilio, \Tenezia 2002.

5. Cfr. R. Assunto, Il paesaggio e l'estetica, Giannini, Napoli 1973. 6. P. Francaste!, Peinture et société. Naissance et destruction d'un espace plastique. De la

Renaissance tltt cubis111e (trad. it. Lo spazio figtawtivo dal Rinascùnento al a1bis1110, Einaudi, Torino 1957).

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spettiva iconografico-iconologica (sulla linea tracciata dalle indicazioni di Panofsky)', potranno essere rintracciati a livelli più o meno profondi nel testo, secondo modalità di rappresentazione più o meno convenzionali, e connesse in modo più o meno organico alla cultura ospitante il testo stes­so e i suoi motivi. Certe forme sensibili e certi motivi ricorrenti quindi funzionano come luoghi in cui sono convocati e rilanciati significati cul­turali non generici8,

Da qui può essere posta una domanda più specifica: qual è il ruolo del motivo della porta-soglia in Sentieri selvaggi e quale il ruolo che essa assu­me in relazione alla cultura cinematografica in cui il film fordiano si inse­risce?

4.2 Sentieri selvaggi e il suo tempo

Una delle cose più eclatanti riguardo a Sentieri selvaggi è senz'altro il rapi­do cambiamento nel tono delle reazioni che l'hanno accolto. La pellicola di Ford diventa in breve tempo uno dei film preferiti di un'intera genera­zione di spettatori illustd come Michael Cimino, Peter Bogdanovich e Martin Scorsese, i quali a loro volta contribuiscono a canonizzarla, a darle l'immagine di ultimo grande western classico che conserverà fino ai nostri giorni.

Eppure la critica di lingua inglese, ali' epoca dell'apparizione del fihn nelle sale, diede pochi segnali di apprezzamento. Come ricorda Andrew Sarris la metà degli anni Cinquanta, in coincidenza con la crisi che investe l'industria hollywoodiana a seguito della diffusione della televisione, è un periodo caratterizzato da un'eruzione di ambizioni stilistiche, da grandi investimenti produttivi in pellicole che sembrano ribadire la propria appar­tenenza alla tradizione con un tono un po' troppo pesante e programmati, co per non cominciare a generare qualche sospetto: Il gigante (G. Stevens,

7. E. Panofsky, Meaning in Visual Art, Oxford University Press, Ne\\' York r955 (trad. it. Il significato delle arti visive, Einaudi, Torino r962).

8. Bisognerebbe co1nunque evitare modelli troppo detenninistici di deduzione dei signi­ficati culturali, modelli che a lungo invece hanno esercitato la loro influenza nello studio di problematiche adiacenti alla nostra, come ad esen1pio l'analisi del rapporto tra supporti tec­nologici/forme simboliche generali e gli effetti ideologici di base. In questo campo, una svol­ta rispetto alle posizioni iconoclaste degli anni Sessanta e Settanta (ben rappresentate dai noti articoli di Comolli e Narboni sui "Cahiers du cinéma") si trova in libri come tL Damisch, I.: o­rigine de la perspective, Flammarion, Paris 1987 (trad. it. I: origine della prospettiva, Guida, Napoli 1992); J. Crary, Technique o/ the Observer. On \'ision and Modernity in the Nineteenth Centtay, 11IT Press, Can1bridge-London 1990. Per una ripresa di questi ten1i in un'ottica sodosemiotica cfr. anche R. Eugeni, Fi!tn, sapere, soa'età, per un'analisi sodosetniotica del testo cinetnatogra/ico, Vita e Pensiero, !vfilano 1999, pp. 35-45.

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4. LA BUONA DISTANZA. ANALISI DI SENTIERI SELVAGGI

1956), Moby Dick (J. Huston, 1956), Il giro del mondo in ottanta giorni (M. Anderson, 1956), Riccardo III (L. Olh~er, 1956) sono solo alcune delle pelli­cole che escono nei mesi in cui compare anche Sentieri selvaggi9.

In questo giro d'anni il genere western fa da terreno per modifìcazioni profonde, anche se non immediatamente visibili. Franco La Polla ha indi­cato le linee principali del cambiamento in atto'°. In primo luogo cambia il tempo del western. l:uso economico del ritmo dell'azione, con la concen­trazione drammatica nel momento topico del duello, il largo uso di seg­menti descrittivi impiegati soprattutto per collocare il personaggio nello scenario naturale, lasciano spazio a soluzioni alternative che troveranno nei freeze frames e nell'uso del ralenti da parte di Peckinpah nel Mucchio sel­vaggio (1969), il punto di maggiore distanza dall'andamento tensivo del western canonico.

In secondo luogo cambia lo spazio. l:epos si teatralizza, si contamina con il genere dominante degli auni Cinquanta, cioè quel melodramma i cui accenti filtrano attraverso la semantica western in film come ]ohnny Guitar (N. Ray, 1954) e Rancho Notorious (F. Lang, 1952). Le vallate, le praterie, il deserto, il grande paesaggio compaiono all'interno di una din1ensione mag­giormente psicologica, lo spazio aperto diviene il terreno di un attraversa­mento compiuto in nome di una ragione non più "storica" in senso alto e collettivo (lavanzata colonizzatrice, lo spostamento della frontiera) ma ristretta, legata quasi sempre al motivo della vendetta, del dramma perso­nale o faniiliare.

È pur vero che Sentieri selvaggi mostra ancora una fiducia piuttosto salda nei ritmi e nell'iconografia del paesaggio del western canonico e che nella storia del film i coloni esprin1ono una fede organica nelle sorti pro­gressive della comunità, cioè riescono a vedere negli insediamenti del Texas non solo larido luogo di confine e resistenza dove si sono spinti a vivere (una terra sulla quale le generazioni sono abituate a resistere nel terrore del­!' agguato e lapidi o cerimonie funebri commemorano i caduti nelle imbo­scate cicliche dei Comanches) ma anche i segni di un avvenire per certo migliore. Eppure il film di Ford mette in scena un eroe che ripete in modo ossessivo un percorso di andata e ritorno, che insegue w1a preda mosso dal desiderio/ dovere della vendetta.

Ethan Edwards è un eroe solitario legato al vecchio Ovest epico, non ancora civilizzatore. La critica fordiana si è concentrata soprattutto sulla descrizione del modo, al contempo esatto e reticente, con cui Ford caratte-

9. A. Sarris, The ]ohn Ford Movie Mystery, Indiana University Press, Bloonllngton-Lon­don 1975.

10. F. La Polla, Co11sum1nat1on West, ovvero: sulla traslazione retorica di un tnito cinen1a­tografico antericano, in Id., Stili a111ericani, auton: generi, filnt nel cinetna hollyu.:oodiano del Novecento, Bononia University Press, Bologn.a 2003.

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rizza i personaggi nelle loro analogie e contrapposizioni reciproche. Ethan si oppone sul piano pragmatico a Scar, ma su quello epistemico al reveren­do Clayton. Quest'ultimo è un uomo di chiesa e di guerra e quindi, dop­piamente legato alla pratica disciplinare, incarna lemblema del soggetto calato nella comunità in un ruolo-guida. Tra i due uomini i rapporti si evol­vono in modo tutt'altro che pacifico.

Viceversa, le analogie con Scar sono state sottolineate da più parti, anche se in modo particolarmente convincente soprattutto da Ted Galla­gher, il quale ha come bersaglio polemico la tesi troppo riduttiva della con­trapposizione tta civiltà e barbarie indiana avanzata in anlbito strutturalista (segnatamente da Peter \1lfollen e Jim Kitses)". Per sfumare l'opposizione binaria è giusto ribadire che Ethan e Scar sono entrambi nomadi, condivi­dono lo stesso sarcasmo (si rinfacciano reciprocamente le stesse battute), collezionano scalpi, vendicano in modo sinille i propri morti, hanno tutti e due lottato in difesa di una causa persa (sudista e indiana):

[., .] rordine delle cose appare turbato: cosa spinge un uomo a vagare? Il protago­nista (Ethan) si diffrange in diverse figure, fratntnenti di se stesso, immagini della sua incompletezza: Clayton, Mose, Martin, Scar. .. , ciascuna di queste figure appa­re a sua volta divisa. Sentieri selvaggi è un'opera il cui centro appare disperso, inces­santemente n1obile12

,

La progressione narrativa inoltre è disturbata di continuo da allusioni ana­lettiche incomplete, forata da ellissi o da buchi non colmati. Ethan viene da un passato speso a combattere dalla parte dei perdenti nella guerra di Seces­sione. D'altra parte i suoi parenti, non avendolo visto tornare a conflitto ter­minato, pensano che egli si sia recato in California, congettura che viene seccamente smentita dal diretto interessato. Il passato dei personaggi emer­ge solo in modo allusivo e indiretto: cosa ha fatto Ethan nei tre anni suc­cessivi alla guerra di Secessione? Da dove vengono quelle monete nuove di zecca con cui si propone di pagare un attonito Aaron che gli stava parlan­do di tutt'altro? Perché Ethan non vuole ricordare i motivi del suo restare e dell'essersene andato tanti anni prima?

n. T. Gallagher, fohn Ford, the Man and His Fibns, The University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1986; P. \Xlollen, Signs and i\:feaning in the Cinenta, Secker & \Xfarburg, London 1972 (ra ed. 1967);]. Kitses, Horizons \\'!est: A11thony Mann, Budd Boetticher, Sa111 Peckinpah. Studies o/ Authorship within the \Vestern, Indiana University Press, Bloomington 1969.

12. J.-L. Leutrat, fohn Ford: La prisonnière du désert. Une tapisserie navajo, Adam Biro, Paris 1990 (trad. it. Sentieri selvaggi di fohn Ford, Le mani, Recco 1995, p. 27). Altri studi monografici degni di interesse sul film di Ford sono: E. Buscombe, The Searchers, British Film Institute, London 2000; A. l\1orsiani, fohn Ford. Sentieri selvagg,i, Lindau, Torino 2002. Cfr. anche il cap. III (Ideologia e storia nazionale. Sentieri selvaggi) in G. J\longe, G. Carluccio, Il a11en1a a1nen'ca110 classico, Laterza, Roma-Bari 2006.

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4. LA BUONA DISTANZA. ANALISI DI SENTIERI SELVAGGI

La ricostruzione dei legami di famiglia risulta tortuosa, affidata a di­scorsi riportati, a mezze frasi: Martin si considera un membro della famiglia di Aaron, e quindi nipote di Ethan, il quale però rifiuta questo legame ben­ché abbia salvato lo stesso Martin da piccolo. Debbie, da parte sua, verrà adottata dagli Jorgensen, la stessa famiglia alla quale si legherà anche Mar­tin sposandosi con Laurie. GliJorgensen del resto avevano perso un figlio ucciso dagli indiani che avrebbe dovuto sposare Lucy, la sorella di Deb­bie ... In questo mosaico etnico-familiare si nasconde un particolare tutt'al­tro che secondario: probabilmente Ethan ama, corrisposto, Martha, la moglie del fratello.

Lo possiamo evincere da alcuni elementi di prossemica, dalle scelte di montaggio nella sequenza della cena iniziale e alla conclusione della splen­dida sequenza di passaggio (un momento di arresto e rilancio dell'azione in relazione all'identificazione di un nuovo programma narrativo) che conclu­de il prologo. I: arrivo in casa di Aaron dei Texas Rangers viene seguita da alcune azioni di preparazione per la partenza. Si tratta dell'ultimo momen­to in tutta la storia in cui Ethan vede la famiglia di Aaron riunita. Ma dal punto di vista figurativo e della messa in serie, la sequenza privilegia la fram­mentazione del significante ed è dominata dal motivo della soglia, della cor­nice interna al quadro che sottodivide gli ambienti della scena e scompone le posizioni dei personaggi attribuendo a ognuna uno spazio specifico, sepa­rato. Prima vediamo Ethan inserirsi nel gruppo dopo essere comparso dalla porta sullo sfondo, poi una porta che si apre svela le tresche amorose di Lucy, infine il reverendo (assieme allo spettatore) rimane solo sulla scena, quindi unico testimone di un'azione che si svolge in una camera laterale, dove Martha, credendosi inosservata, accarezza con gesto inequivocabile il cappotto di Ethan prin1a di riconsegnarglielo.

La cosa non è priva di interesse visto che il desiderio di Ethan per Marta consente di spingere l'interpretazione verso ipotesi di rilievo: la relazione para-incestuosa tra cognati sorregge tutta la ricerca di Debbie, al punto che quando Debbie viene associata al peccato innominabile (e considerata ormai indiana), diviene oggetto dell'impulso omicida del protagonista. Dato che -lo si è detto - esiste un'identità tra gli indiani ed Ethan, La Polla può concludere:

Scar assolve la funzione di un Es datosi a un impulso libidico incestuoso ed Ethan quella di un Supet'Io che intende far giustizia dell'infrazione del tabù. Il film si pre­sta molto bene a tale schematizzazione psicanalitica'J.

13. F. La Polla, Sentieri selvaggi:· ron1anzo fiuniliare, in Id., Stili an1erica11i, auton; generi, cit., p. 277. Il primo a registrare la natura problematica del desiderio e della personalità di Ethan è stato Lindsay Anderson sulle pagine di "Sight and Sound". Sulla questione cfr.

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In ogni caso, come sottolineano Luhr e Lehman'4, resta un fatto piuttosto inconsueto nel sistema narrativo della Hollywood degli anni Cinquanta che l'esposizione di particolari di una certa rilevanza sia interamente circoscrit­ta alla notazione di dettaglio e allo stile visivo.

4.3 Due universi semantici

Malgrado ciò - abbandonato il piano della descrizione psicologica, riemer­si dalle trame incomplete del romanzo familiare alla superficie delle cose sensibili- Sentieri selvaggi rimane, per altri versi, saldamente ancorato all'o­dzzonte ampio della classicità del genere. Oscura nelle premesse, la narra~ zione procede inesorabile attraverso la ripetizione di riti e azioni e giunge al ricongiungimento con loggetto di valore (Debbie): tre viaggi, tre peripli con altrettanti ritorni. Gesti che si ripresentano attraverso il tempo: Ethan all'inizio solleva da terra la piccola Debbie, come farà pure nella ben più celebre ripetizione dello stesso movimento sul finale; il gesto di Martha che si ripara dal sole mentre attende larrivo di Ethan verrà ripetuto più volte dagliJorgensen in attesa del ritorno dei searchers.

Il mondo di Sentieri selvaggi può essere ricondotto a due universi semantici contrapposti: l'isotopia della "comunità" e l'isotopia della wilder­ness. Il "limitato" spazio chiuso della comunità di coloni e l"'illimite", lo spazio sconfinato della Monument Valley sono le due istanze entro cui si divide il protagonista''·

{;universo della comunità è costituito dai pionieri, dagli immigrati (gli Jorgensen sono svedesi) dotati, come si è detto, di una fiducia incrollabile nell'America nascente, pronti al rischio e al sacrificio quotidiano pur di riuscire a creare una comunità nei territori del Texas. Si tratta di persone che

]. !v1cBrite, M. \Xr'ilmington, fohn Ford, Da Capo, Ne\v York 1975; L. Anderson, fohn Ford, Ubulibri, Milano 1985.

14. \YJ. Luhr, P. Lehman, Authorship and Narrative. Issues in Conten1porary Aesthetics, Putnrun, Ne\\r York 1977; degli stessi autori cfr. anche il capitolo dedicato a Sentieri selvaggi in Thù1king About Movies, Watching, Questioning, Enjoying, Blacbvell, Malden-Oxford 2003.

15. Questa polarizzazione degli universi semantici colloca Ethan e Scar sullo stesso lato, nell'universo della wildentess, e quindi non è isomorfa alla contrapposizione di sapore strut­turalista precedentemente rifiutata (il giardino e la civiltà europea/la barbarie indiana e il deserto), ma, rispetto ad essa, trasversale. Va inoltre notato che anche a Scar corrisponde una comunità, quella del villaggio indiano, e dunque il film propone in realtà due spazi comuni­tari, uno dei quali, quello indiano, solamente accennato. E questo prelude già agli esiti del \Vestern dei decenni successivi. Un altro tipo di suddivisione per contrasto dello spazio della rappresentazione è stato accuratamente trattato da Deborah Thomas nell'analisi di Sfida infernale (1946): D. Thomas,Reading Hòllywood, Space and Meanings in A»1erica11 Fibn, \X'all­flo,ver, London-New York 2001.

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4. LA BUONA DISTANZA. ANALISI DI SENTIERI SEL\1AGGI

«seppelliscono i propri morti e sposanò le proprie figlie», e che, come fa la signora Jorgensen, possono affermare: «Un giorno questa regione sarà un luogo meraviglioso per viverci, ma forse noi ci tireremo le cuoia prima che questo succeda».

I valori dell'isotopia della comunità si esprimono nella figura del reve­rendo Clayton, uomo di chiesa e capo dei Texas Rangers. Clayton imperso­na la legge, i doveri della società organizzata, le cerimonie religiose (che Ethan interrompe bruscamente). La comunità è il luogo dei compromessi estranei all'Eroe, ma anche dei riti, delle bevnte, dei corteggiamenti (l' ele­mento commedico della narrazione prende il sopravento sempre nei momenti di pausa della quest: si pensi alla sequenza della rissa tra Martin e Charlie). Lo spazio della comunità è ristretto agli insediamenti preurbani, agli interni delle abitazioni, luoghi che leroe attraversa di passaggio, mosso da una spinta centrifuga: Ethan sembra da subito trovarsi più a proprio agio seduto sul bordo esterno della veranda della casa di Aaron (posizione dalla quale guarda all'interno e vede il fratello doppiamente incorniciato dalle porte poste a dh~sione degli ambienti domestici) che non sulla sedia a don­dolo collocata di fronte al camino.

È uno spazio inoltre connotato da una certa staticità, in cui le dina­miche degli attori che lo occupano sono difensive non esplorative (ci si chiude in casa, labitazione è uno dei pochi ambienti sicuri in contrap­posizione all'incertezza e al pericolo dell'ambiente esterno). È il luogo in cui il tempo della Storia e del progresso scotte lineare, in cui gli anni pas­sano segnati dai ritorni dei searchers mentre quelli che sono rimasti atten­dono (ancora la figura ricorrente del personaggio femminile sulla soglia ad aspettare). Il tempo dell'isotopia della comunità è anche un tempo "disambiguato", nel quale le ellissi impercettibili di cui è disseminato il racconto vengono svelate, il tempo si linearizza e viene condotto a tra­sparenza. Queste operazioni di cucitura e riempimento del tempo del discorso avvengono quasi sempre attraverso lespediente della lettera scritta (già di per sé segno di una cultura della parola più adatta alle dina­miche della civilization): Ethan scrive per informare gli Jorgensen della morte di Brad. Poco dopo riceverà un'altra missiva da parte di Futter­man, che lo riporterà sulla pista di Scar, di nuovo nel deserto. Una terza missiva è spedita da Martin. I tempi di consegna e lettura dei testi scritti consentono di stabilire la durata effettiva delle assenze e dei ritorni dei protagonisti.

L:universo semantico della wi!derness, al contrario, è il mondo delle scelte individuali, della comunione con la Natura, dell'azione, della quest infinita, del coraggio e del gesto crudele (i riti di uccisione e messa in scena della morte cui si concedono tanto Ethan quanto Scar), ed è caratterizzato da un tempo e uno spazio in opposizione a quelli della comunità.

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L'OMBRA DELL'AUTORE

Il tempo diventa quello ciclico dell'alternarsi delle stagioni. I parametri tecnici e referenziali di registrazione della durata si fanno sfuggenti. Sul piano discorsivo, nelle sequenze nel deserto, non si notano dissolvenze incrociate che segnalino il passaggio degli anni. Il tempo mentale dei sear­chers non è sovrapponibile a quello cronologico-referenziale degli eventi storici e alla percezione della durata degli abitanti della comunità. Ethan emerge da subito attraverso un tempo senza Storia: nella prima sequenza domestica si rivolge alla piccola Debbie convinto che si tratti della sorella maggiore (la quale in realtà è già in età di fidanzamento). Nel tempo della wildemess molti anni scorrono come poche settimane.

Un punto nel quale si realizza un contatto e una circolazione tra i due sentimenti del tempo propri dell'isotopia della wilderness e dell'isotopia della comunità è rappresentato dalla sequenza della lettura della lettera spe­dita da Martin a Laude: attraverso un sistema complesso di analessi verba­li accompagnate da flashback e passaggi di parola (all'interno dei quali, per la gioia dei narratologi, si verificano dei casi di mancata corrispondenza tra piano visivo e resoconto verbale) il tempo mitico del racconto dei searchers collassa sul tempo storico dell'attesa'6•

Lo spazio dell'isotipia della wilderness è ovviamente quello della natura, del paesaggio texano e dei suoi dintorni, della possibilità di mille direzioni (non vi sono percorsi già tracciati): l'effetto di grandiosità del paesaggio è ottenuto attraverso la scansione tradizionale della scala dei piani tra campi totali e piani rawicinati, ed è rafforzato dalla composizione in Vista Vision. Ma è anche lo spazio di Una sorta di spostamento immobile, che ripercorre gli stessi luoghi. Gli ambienti naturali ospitano le insidie dei Comanches, i quali si crede siano in un luogo e in realtà sono in un altro, Dice Ethan: «They're like round about>>. Il motivo della circolarità rimanda sia al ritorno di situazioni familiari, sia all'incertezza; al pericolo, alla precarietà.

Il punto rilevante è il seguente: il motivo figurativo della porta che si apre e si chiude, e al contempo apre e chiude il film, è esattamente un con­nettore isotopico, cioè l'elen1ento che mette in comunicazione i due univer­si semantici della comunità e della wilderness. Quando Ethan insegue Deb­bie nel deserto e quest'ultima cade a terra raggiunta dal protagonista sulla soglia di una caverna, l'inquadratura dell'inseguimento è realizzata dall'in­terno del rifugio lasciando i bordi del medesimo ben in vista a incorniciare

16. La lettura materiale della lettera è affidata in un primo 1nomento a Laude stessa, in un secondo motnento è la voce di Martin (interna al flashback) a sostituirla nell'esposizione: «Così come la lettura di Laude riguardava un presente dei due uomini che nel racconto le era contemporaneo, il con1mento di Martin alle· proprie azioni e a quelle di Ethan indica una tem­poralità che deve ancora verificarsi, quella della successiva lettllra di Laude. Preso in questo n1ulinello, lo spettatore è trascinato conten1poraneamente in una circolarità e in un procedi­mento obliquo [. . .J» (Leutrat, fohn Ford: La prisonnière ·du désert, cit.1 trad. it. p. 33). La sequenza è analizzata nel dettaglio anche da Gallagher, ]oh'n Ford, cit.

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4. LA BUONA DISTANZA. ANALISI DI SENTJERI SEL\'1lGGJ

l'inquadratura. Il punto di ripresa, come notano Lehman e Luhr, è eccen­trico e antieconomico rispetto alla dinamica visiva dell'azione (che si svolge per intero ali' esterno della cavità stessaW. Lo spazio del gesto spietato ma necessario nella logica dell'eroe è messo in scena attraverso un'altra inuna­gine di contenimento (una delle tante che ricorrono in questo film aperto sui grandi spazi), che prelude alla risoluzione "civile" del gesto, al salvatag. gio, e al ritorno ai codici di comportamento proprio dell'isotopia della comunità.

La presenza ricorrente della soglia è dunque un simbolo, una/orma sen­sibile di un rito di passaggio, un punto limite, sul quale l'uomo (leroe) può resistere nel!' oscillazione tra lo spazio chiuso, sicuro (ma anche legato alla necessità del compromesso sociale) delle fattorie dei coloni da un lato, e lo spazio aperto, libero (ma al contempo minaccioso) del deserto, della Monu­ment Valley dal!' altro.

In Sentieli selvaggi l'immensità della natura diviene compiutamente paesaggio quando nell'inquadratura si crea un rapporto di grandezze in scala tra ritaglio e totalità naturale; quando si instaura una cornice che in qualche modo misura l'ampiezza del Tutto (ancora ritaglio e messa a distan­za); '~ceversa, l'espansione del paesaggio nello spazio guadagna in profon­dità e grandezza proprio dal confronto con la cornice che ne fa vibrare i bordi, secondo una dinamica simile a quella individuata da Sin1mel quando ricorda che una porta non è solo un confine posto all'infinito ma un' aper­tura sull'illimitato e la libertà. Dunque, la porta fordiana è sicuramente ele­mento tematico, connettore di isotopie, in quanto consente il passaggio, la circolazione tra due universi che mette in rapporto; è anche elemento figu­rativo, motivo iconografico i cui valori simbolici rimandano a una tradizio­ne ben più lontana del cinema stesso, come ho cercato di mostrare alfinizio del capitolo. Tuttavia essa è anche elemento sensibile, che immerge imme­diatamente lo sguardo nella dialettica limitato/illimitato, interno/esterno, libertà/confine. Essa si dà così come enunciabile di enunciati culturali, filo­sofici, sociali''· Enunciabile che, ben lnngi dall'essere materia amorfa, è esso stesso il risultato di una messa in forma o di una disciplina al tempo stesso estetica e cultnrale'9.

17. Luhr, Lehman, Thinkiug About l'vfovies, cit. Sull'immagine della porta in altri film di Ford cfr. anche F. Ballo, fohn Ford. Sfida infernale, Lindau, Torino i991.

18. Sulla nozione di enunciabile cfr. G. Deleuze, I.:ùnage-tetnps, Les Editions de !vlinuit, Paris 1985 {trad. it. J;ù111nagine-tev1po, Ubulibri, Nlilano 1989, pp. 37-43). Per Deleuze l'enun­ciabile è una inateria «non linguisticamente formata>> e tuttavia «semioticamente, estetica­mente, pragmaticamente formata>>.

19. Sul cineina come siste1na disciplinare cfr. F. Casetti, J;occhio del Novecento. Ci11ev1a, esperienza, 1noder11ifà, Bompiani, lvlilano 2005, in particolare il cap. 7. Casetti sottolinea la capacità del cinema di creare e111blenii, ossia <<la capacità di ancorare una serie di sensazioni diffuse a siniboli precisi>> e tale ci senilirala porta in.Sentieri se/.vaggi. Non sembri azzarrlato

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L'OMBRA DELL'AUTORE

Che questa dialettica fatta elemento sensibile, dato incarnato in un motivo estetico, poi possa, da un lato riprodursi su altri piani (come vedre­mo tra breve, ad esempio, sul piano dell'espressione, della costruzione del­l'inquadratura stessa e non solo su quello dei motivi proftlmici), dall'altro rimandare a significati culturali al contempo eccedenti il luogo testuale di manifestazione e più circoscritti rispetto alle connotazioni simboliche gene­rali, è un fatto da verificare attraverso un'indagine comparata tra storia degli stili e storia culturale.

Stabilizzazioni, ritagli, elenchi ... Sentieli selvaggi viene poco prima di tutto questo, ma al contempo già gli appa1tiene, o per meglio dire, sta sul confine che separa tutto questo dall'unità organica dello spazio e dell'azione classici.

4-4 L:inglobante e l'inquadratura fordiana

Per quanto Ethan Edwards giri in tondo per anni, combattuto tra il senti­mento della wildemess e la necessità delle relazioni sociali e di parentela, prima o poi deve scegliere e agire di conseguenza: salvare la giovane nipote rapita, riportarla al vivere sociale o ucciderla purificandola dal contagio del­!' altro, di una naturalità selvaggia a cui egli stesso pure appartiene. Per quanto complessa, articolata e mirabile sia la costruzione fordiana, per quanto doppio, liminare, anfibolico ci appaia il personaggio interpretato da Wayne, il film ci mostra comunque i risultati di una volontà implacabile, di un'azione risoluta. Il duello, lo scontro armato, la morte del colpevole sono altrettanti topoi del culminare di un agire inscritto in ciò che Deleuze chia­n1a "grande forma",

Nella grande forma dell'immagine-azione, come noto, ogni cosa è ben identificata: luogo e tempo della situazione, lazione, i personaggi e le rela­zione tra questi elementi. r; evoluzione avviene secondo la formula della spi­rale organica (SAS'): da una situazione di partenza, per mezzo dell'azione si giunge a una situazione modificata:

In Ford, l'eroe non si accontenta di ristabilire l'ordine episodicamente minacciato. L'organizzazione del film, la rappresentazione organica, non è un cerchio, ma una spirale in cui la situazione d'arrivo differisce dalla situazione di partenza20

il rimando a due autori, Deleuze e Casetti, che per molti versi seguono un percorso diver­gente; su questo punto specifico, ossia la capacità del cinema di costruire immagini emble­matiche, materia visiva che permette di accedere immediatan1ente a un universo di senso, la loro posizione mi sembra ampiamente compatibile, anche se uno accentua la sistematicità di queste immagini (riprendendo in maniera poco ortodossa il sisten1a dei segni peirciani), tnen­tre l'altro ne focalizza il processo di produzione negoziale.

20. G. Deleuze, I.:ùnage-tnouventent, Les Editions de Minuit, Paris r983 (trad. it. L'ùn­v1agine-1novùnento, Ubulibri, Milano 1997, p. 173).

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4. LA BUONA DISTANZA, ANALISI DI SENTlERl SEl.YAGGI

Deleuze descrive un meccanismo del tipo scatole cinesi, nel quale il perso­naggio è legato in modo organico a qualcosa di più grande, la collettività, che lo ingloba e che, a propria volta, è legata in modo organico a qualcosa di più grande che la ingloba, cioè lambiente. Questo fa da livello ultimo, da inglobante generale. llinglobante ultimo, in Ford come in Hawks, è il cielo.

Ci si può dunque chiedere in che modo questo rapporto di determina­zione, di legame organico tra inglobante e personaggio si manifesti nel testo. Sicuramente non si tratta di una relazione narrativa, almeno nel senso più ovvio: non c'è alcuna ragione narrativa immediata che leghi il paesaggio, l'ambiente con lagire concreto di Ethan. Eppure l'analisi di Deleuze appa­re assai convincente proprio perché coglie le ragioni di quel "senso epico", di quella narrazione di ampio respiro che è facile traslare da Ford a molto del 'vestern classico: raccontare una storia le cui motivazioni, i cui principi intenzionanti sembrano confondersi con la materia visiva del!' ambiente e del paesaggio". A posteriori lanalista può anche sostenere, non senza ragio­ne, che tra paesaggio e soggetto si instauri un rapporto di destinazione, ossia che il cielo sia il destinante ultimo dell'agil'e narrativo del soggetto-Ethan, secondo una formula ben nota nel!' ambito degli studi semiotici". Tuttavia questa lettura, pur corretta, se per un verso offre una buona modellizzazio­ne della struttura narrativa del testo, s01vola però sull'intimo legame che nella materia del testo viene a crearsi tra la grande prospettiva paesaggisti­ca del!' ambientazione e l'azione del soggetto. Si tratta dunque di capire in che modo la materia visiva ponga una simile relazione, inscrivendo nelle immagini una forma organizzata che è suscettibile di essere enunciata in una lettura narrativa. Forma organizzata che in Sentieri selvaggi, e più in gene­rale nel western fordiano, trova il suo fulcro, il suo motivo centrale nell'in­quadratura2'.

21, Sulla dialettica tra elementi narrativi e materia sensibile nel testo cinematografico mi permetto di rimandare al mio Il narrativo e il sensibile. Sentiotica e teoria del ci11e1na, Hybris, Bologna 2001.

22. Per una pritna esposizione strutturata dei modelli narrativi nell'ambito della semioti­ca greimasiana cfr. A.-J. Greimas,]. Courtés, Sémiotique. Dictionnaire raisonné de la théorie du langage, Hachette, Paris 1979 (trad. it. Set1tiotica. Dizionario ragionato della teoria del lin­guaggio, La casa Usher, Firenze 1986). Sul rilievo narrativo di elen1enti figurativi del paesag­gio ritnane ancora un riferimento la n1agistrale analisi diA.-J. Greimas, Maupassant. La sé!nio­tique du texte: exercices pratiques, Seuil, Paris 1976 (trad. it. Maupassant. La senliotic.a del testo: eseraZi pratici, Centro scientifico editore, Torino 1995).

23. Con questo non voglio sostenere che si tratti di una soluzione formale peculiare e spe­cifica di Ford. Le fanne in se stesse non sono ascrivibili a un singolo autore, e anzi tendono a circolare, diffondersi, vivere quasi di una vita propria; lesemplificazione fordiana trova una sua ragione per il fatto che in Ford una determinata forma dell'inquadratura trova il suo esito più evidente, semioticamente e anche esteticamente più funzionale. In questo senso possiamo parlare di inquadratura fordiana, attribuendo a Ford non tanto l'invenzione e la "proprietà" di uno stilema, quanto la scoperta e lo sfruttarnento di tutte la in1plicazioni di un modo deter-

IO!

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L'OMBRA DELL'AUTORE

I:inquadratura in Ford funziona da meccanismo di mantenin1ento del legame di trasparenza tra il punto più piccolo e quello più ampio della cate­na, tra il personaggio e l'inglobante. Punto di incontro tra il limite-confine e l'illimitato, tra una visione ritagliata e il sentiniento-flusso della totalità naturale (per usare ancora termini simmeliani), tra l'accadimento nell'ordi­ne dell'azione individuale e l'ordine superiore della Storia, l'inquadratura fordiana è sempre forata sullo sfondo, aperta ali' ambiente, commensurata ali' ampiezza necessaria all'inunagine-azione.

La forza dell'inimagine-azione è di percorrere una strada lunghissima che lega la situazione (la conquista del West, la frontiera in Ombre rosse (1939), il petiodo postbellico in Sentien' selvaggi) agli accadimenti del singo­lo (la storia di Ringo in Ombre rosse, la vendetta di Ethan in Sentieri sel­vaggi), che li mette in contatto, in relazione. Un tratto distintivo del piano fordiano è che contiene sempre una via di fuga, aperta orizzontalmente sullo sfondo (pochissinie sono le inquadrature del personaggio in focale lunga, o strette solo sull'azione isolata dal contesto ambientale).

Si tratta di una logica del piano ben osse1vabile, ad esempio, in Sfida infernale (1946), nella sequenza del duello finale. Qui la macchina da presa mira a mantenere un rapporto tra soggetto e totalità, una relazione compo­sitiva che resta sempre costante. Prinia viene la relazione: la macchina da presa si muove in funzione di questo rapporto. Sentieri selvaggi fa qualcosa di più, raddoppia lelemento tematico-figurativo della porta, del passaggio, del confme, della compenetrazione tra limitato e illimitato nella costruzio­ne significante dell'inquadratura, facendone aderire le implicazioni sin1bo­liche e culturali alla materia dell'inimagine cinematografica. Ciò che Ford realizza è una sorta di "inquadratura-porta" in cui senso e imn1agine collas­sano in un'unica determinazione formale. Un esempio emblematico di ciò che però è proprio della significazione cinematografica in cui senso e mate­ria significante coincidono nella stessa forma percettiva"'. Certo, nel film fordiano l'inquadratura-porta rinrnnda a una coerenza della messa in scena, a una modulazione della materia visiva che con estremo rigore riprende le

minato di costruire l'inquadratura. Ford è dunque in questa prospettiva più un personaggio concettuale, l'attore a cui attribuire convenzionalmente un n1uta1nento nella forma-cinema che non un autore in senso tradizionale. Affronteren10 la questione con maggior dettaglio più avanti, nel CAP. 6.

24. Sulla relazione tra senso e forme sensibili rimando ancora al n1io Il narrativo e il sen­sibile, cit. Del resto nella semiotica di matrke hjelmsleviana il senso inteso co1ne materia del contenuto e la materia dell'espressione coincidono, al punto che in L. Hjelmslev, ProlegotJte­na lo a Theory o/ Language, Universicy of \Vtsconsin Press, Madison 1961 (trad. it. I fonda-1nenti della teoria del linguaggio, Einaudi, Torino 1968) viene utilizzato indifferentemente il tennine inglese p111port (cfr. Greimas, Courtés, cit., p. 209). Su questo punto cfr. anche Deleu­ze, J;ùnage-ten1ps, cit. e a A.-J. Grellnas, Du sens, Seuil, Paris 1970 (trad. it. Del senso, Botn­piani, Milano r974, pp. 7~17).

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4. LA BUONA DISTANZA. ANALISI DI SENTIERI SEL"VAGGI

necessità della narrazione. Ma è indicativo più di una qualità dello stile, di una capacità di "realizzare" cinema che non di un progetto autoriale che esiste fuori dalle immagini del film.

Un simile modo di costruire l'immagine, di sottomettere il posiziona­mento della macchina da presa, del punto di vista, del!' organizzazione del quadro e della messa in serie a una precisa evidenza del reale (il reale inqua­drato deve avere certe caratteristiche), oltre a rappresentare un esempio piuttosto appropriato di ciò che i critici della politique des autezm identifi­cavano con un esempio dei doveri della messa in scena, ha come effetto la cancellazione della presenza della macchina, della traccia della scrittura, a vantaggio di una realtà che sembra darsi da sé (una ricerca della trasparen­za comune al regime classico di rappresentazione).

Sappiamo bene che questa sorta di autoevidenza della realtà delle cose è un effetto discorsivo specificamente determinato. Sappiamo anche però che esso si concatena ad altri effetti. Le storie rappresentate (il duello, la vendetta, il ritorno ecc.) hanno a che fare con ciò che appare in modo evi­dente nel piano, e che nel piano è collegato ali' ambiente in una relazione per cui l'inglobante, la Storia (la Storia americana) sono lessere delle cose e gli accadimenti individuali ne sono l'epifenomeno. Ne consegue che la profondità degli eventi singolari e i grandi av\ienimenti del piano storico sono in un rapporto sempre posto in una costante relazione, e che tale rela­zione si esercita in un regime di assoluta evidenza. I.:inquadratura fordiana punta a una convergenza di apparire ed essere per cui il cinema western diventa il luogo privilegiato nel quale la distanza enorme tra Storia colletti­va e destini individuali si accorcia, si aggiusta; in cui esiste una perfetta tra­sparenza di relazione tra i due termini, in cui le microstorie dei singoli si manifestano in superficie e si sovrappongono al luogo di manifestazione della verità della Storia americana.

Deleuze però aggiunge:

L'eroe, proprio in quanto rappresentante della collettività, diventa capace di Wl'a­zione che lo rende uguale all'ambiente e ne ristabilisce l'ordine accidentalmente o periodicamente compromesso: occorrono le mediazioni della con1wtltà e del land per costituire un capo e rendere Wl individuo capace di un'azione così grande. Si riconosce il mondo di Ford con i motnenti collettivi intensi (matrimonio, festa, danza e canzoni), Ia presenz~ costante del lande 1'imn1anenza del cielo2 5.

Ora, è evidente che in Sentieri selvaggi alcuni di questi elementi non rispon­dono ali' appello. La catena organica nella sua completezza è spezzata alme­no in un punto. Ethan interron1pe le ceritnonie comunitarie o non vi pren­de parte, la sua "grande azione" si realizza appieno fuori da un mandato

25. Ivi, trad. it. p. 172.

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esplicito della comunità, secondo le dinamiche che abbiamo già descritto. Egli comunque non rappresenta che parzialmente i propri familiari e vicini.

I:interruzione della grande transitività del western classico avrà per Ford un punto di sviluppo nel crepuscolare Iéuomo che uccise Liberty Valance (1962). Non a caso in questo film l'orizzonte del rapporto tra Storia e storie è interamente mutato. Assistiamo a due versioni reciprocamente esclusive della dinamica del duello entrato nella leggenda. Inoltre, il gior­nalista che raccoglie la verità degli eventi dal racconto di Ramson Stoddard dichiara che non divulgherà mai ciò di cui è venuto a conoscenza: la realtà nel West conta poco rispetto alla leggenda. Quindi la leggenda, la Storia, il mito del West rimangono intatti e sembrano destinati a soprm'\dvere. Ma la fiducia immediata nelle possibilità dell'individuo di inte1venire e determi­nare la Storia è persa. La stessa storia del West non è più trasparente, espo­sta come si trova al meccanismo delle doppie verità e del segreto.

La distanza rispetto a tutto ciò in Sentieri selvaggi è data da un sempli­ce fatto: se è evidente che il rapporto tra Ethan e la comunità si è ormai incrinato, è pur vero che non si è ancora interrotto il legame tra leroe e il cielo. Ethan salta un passaggio (l'inglobante intermedio, la comunità) e risponde delle proprie azioni solo di fronte all'immanenza del cielo. Un altro modo per dire che Ethan è solo di fronte a Dio e alla Natura è affer­mare che egli è legato all'inglobante ultimo da un legame diretto di coap­partenenza. È dall'inglobante ultimo che riceve un mandato ed è a que­st'ultimo che ritorna nell'inquadratura finale del film, tornando ad essere, come nell' inctpit, un frammento di azione che si stacca dallo sfondo, una tautologia del paesaggio.

Si noti, in conclusione, che nei momenti in cui l'inquadratura si spinge fino all'eccesso nella ricerca di una sussunzione assoluta dell'agire del per­sonaggio nell'inglobante può capitare anche che il sistema di trasparenza del cinema classico si incrini a favore del proprio opposto, una serie di effet­ti irrealistici, tendenti ali' astratto. Si pensi alle contrazioni spaziali e al tempo quasi mentale che regolano la sequenza di awicinamento alla casa di Aaron in fiamme nella prima parte (Martin a piedi giunge quasi assieme a Ethan a cavallo), e della fuga di Debbie subito raggiunta da Ethan nel fina­le. In entrambi i casi l'inquadratura letterahnente respira, si fa elastica, piega lo spazio della scena adeguandolo alla portata del gesto del personaggio: «[ .. .] la qualità principale dell'immagine, qui, è il soffio, il respiro. Essa non solo ispira leroe, ma riunisce le cose in un tutto della rappresentazione organica, e si contrae o si dilata a seconda delle circostanze»'6•

26. Ibid.

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4. LA BUONA DISTANZA. ANALISI DI SENTIERI SELi'AGGJ

4.5 I! autore come istanza negoziale

tra le forme culturali e la materia del fihn

È chiaro che l'inquadratura fordiana funziona come un segno-indice del suo autore. Un segno di riconoscimento ben visibile e quindi reiterabile-fal­sificabile (se seguissimo la lezione di Derrida dovremmo invertire i termini: reiterabile-falsificabile, quindi ben riconoscibile come individuale). Non stupisce che Ford abbia in qualche modo fatto parte della schiera degli autori paradigmatici difesi dai critici della politique. Nella politique in ogni caso, come abbiamo già detto, non è possibile stabilire una perfetta sovrap­posizione tra il problema dello stile e quello della personalità d'autore.

D'altra parte rimane chiaro che l'autore funziona come principio indi­vidualizzante (tra l'altro, anche nell'affermazione provocatoria di Mourlet secondo la quale Fellini ha sposato Giulietta Masina, dunque i suoi film sono grotteschi). Il che non pone grossi problemi. Ma funziona anche come soggetto pieno, forte, che si colloca a monte del testo e in ogni caso ne orienta la ricezione: un fenomeno che Bazin vedeva sinistramente prossimo al culto estetico della personalità. Il che qualche problema lo pone e di fatti lo ha posto.

In ambito strutturalista, nelle letture politico-sintomatiche dei "Cahiers" negli anni Settanta, nel lavoro di Peter Wollen, la nozione di autore si ridefinisce nei termini di una sorta di catalizzatore inconscio delle contraddizioni, dei sintomi, delle tensioni tra elementi variabili (l'ideologia, la tecnologia di base ecc.) che attraversano il testo. In fase post-strutturali­sta la figura dell'autore perde ogni aura romantico-idealistica ereditata dalla politique e si dissolve in finzione ideologica (dall'autore della finzione alla frnzione dell'autore): l'autore come operatore di sintesi arbitrario, effetto della retorica interpretativa ecc.

Se ora partiamo dall'esempio dell'inquadratura fordiana intesa al con­tempo come sintomo culturale e come segno di presenza di un autore, pos­siamo abbozzare una proposta che medi tra le posizioni della politique e le reazioni moderniste successive.

Propongo di considerare l'analisi che ho svolto sul ruolo e lo spessore simbolico dell'inquadratura fordiana come la prova del fatto che è possibi­le immaginare un autore inteso come istanza di negoziazione tra i sintomi generali di una cultura e la conversione di questi ultimi in occorrenze con­crete, testi, precisi elementi di stile'7. I.; autore è uno snodo che dà uno stile al mondo, che traduce in forma puntuale e sensibile un archivio paradig-

27. Sul cinema come campo negoziale e luogo di circuitazione dei discorsi sociali cfr. Casetti, Eocchio del Novecento, cit.

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matico di opzioni culturali. Si tratta di un ruolo di mediazione che ha ogni attore della cultura, ma in questo caso lautore copre il ruolo sul campo spe­cifico del lessico stilistico. Tuttavia il percorso è possibile anche nell'altro senso: possiamo immaginare un autore come un operatore che "riempie" elementi di stile, forme che gli preesistono e che si sono sviluppate in auto­nomia, con elementi simbolici e determinazioni culturali specifiche e situa­te nel contesto sociale in cui opera. In questa continua circolarità tra forme culturali e materia significante lautore ricolloca, disciplina e adatta le une e le altre, modificandone il senso e arrivando alle volte a p!'odurre nuove forme culturali e nuova materia significante. Possiamo dunque pensarlo come un soggetto operatore il cui ruolo però non è quello di depositare il portato delle forme culturali e dei discorsi sociali sulla superficie significan­te del testo"', quanto piuttosto di negoziare nuovi significati e nuove forme.

In questo modo l'autore non è più visto come un soggetto cognitivo pieno che pre-esiste alla produzione testuale. Possiamo rinunciare all'aspet­to rotnantico-prometeico dell'autore come figura estetica in sé vincolante e svincolabile, almeno in linea di principio, da un sistema di continuità con la cultura di appartenenza (cinematografica e non cinematografica), pur man­tenendo della politique il suggerin1ento della reiterabilità-riconoscibilità di uno stile legato a una personalità specifica. D'altra parte, dalla lezione post­strutturalista teniamo il problema dell'ascolto della registrazione di sintomi non necessariamente legati alla consapevolezza individuale dell'operatore della 1nediazione, senza rinunciare all'idea che però l'operatore esiste e resi­ste, e non si dissolve come vorrebbe, a volte, il teorico modernista in un'i­dea della significazione coincidente con un incessante e impersonale gioco di relazioni intertestuali. Il che, in parole povere, equivale a ribadire un' evi­denza a cui John Ford aveva prestato parole spicce ed eloquenti: «Ci sono dei fùm, domani, che non si gireranno da solli>'•.

28. Se così fosse non ci si allontanerebbe poi troppo cL1 una concezione tradizionale del­l'autore: poco itnporta infatti che egli sia concepito come mediatore di wi'istanza collettiva (di una cultura data) o di un'intenzionalità soggettiva autoriale. Si tratterebbe comunque di una mediazione che rimanderebbe a nn'odgine, nn'intenzione e una volontà, sociale o indi­viduale, che preesiste alla sua realizzazione nella materia dell'opera.

29. La frase è parte del discorso tenuto da Ford la domenica del 22 ottobre 1950 davanti al Sindacato dei registi americani, in difesa del suo presidente Joseph Mankiewicz, tnesso sotto accusa da Cedi B. Deìvlille. Riportata in Leutrat, fohn Ford: La prisonnière du désert, cit., trad. it. p. 49.

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Asincronismi II: il falso, la produzione a basso costo e il caso Leone

p Falso e intertestualità

Che vi sia un legame sotterraneo e strutturale, un legame che non si esauri­sce in un rapporto di semplice opposizione e contrasto, tra la nozione d' au­tore e concetti come quello di falso, plagio, citazione, allusione sembra testi­moniato anche a prima vista da una veloce ricognizione sugli studi che hanno affrontato questi fenomeni.

Nel dibattito trentennale intorno all'intertestualità (nozione che tradi­zionalmente funziona da categoria inglobante pratiche diverse tra loro, come plagi, falsi, parodie, remake, citazioni, forme seriali), almeno in una prima fase modernista coincidente con la riscoperta di Bachrin e con la diffusione nel corso della seconda parte degli anni Settanta delle teorie diJulia Kristeva, è osse1vabile il collegamento tra una concezione della significazione come incessante e anonima attività di relazione tra testi e uno de.i demoni più assil­lanti della teoria di quegli anni: l'invalidazione della figura-funzione dell' au­tore'. Al punto che si può dare ragione a chi vede nel concetto stesso di "morte dell'autore" (così come viene proposto, ad esempio, da Barthes)

nient'altro che una provocatoria soluzione intertestuale ai fatti letterari - e non solo - secondo la quale non c'è più bisogno di "autorità''. che nobilitano il testo, bensì va preso atto della necessaria e ineludibile inter-relazione tra testi di ogni genere2

r. A. Con1pagnon, Le dé!non de la théorie. Littérature et sens cot11tnu11, Seuil, Paris 1998 (trad. it. Il de1none della teoria. Letteratura e senso co1nune, Einaudi, Torino 2000, p. 69); NL M. Bachtin, Estetika slovesnogo tvorb:stva, Iskusstvo, Moskva 1979 (trad. it. I.:autore e l'eroe. Teoria lelleraria e scienze tunane, Einaudi, Torino 1988); Id., Voprosy literattay i éstetiki, Chu­dozestvennaja literatura, Moskva 1975 (trad. it. Estetica e rotnanzo, Einaudi, Torino 1997); J. Kristeva, Sen1eiotike. Recherches pour une sén1analyse, Seuil, Paris 1969 (trad. it. Setneiotiké. Ricerche per una seJ11analisi, Felfrinelli, lvlilano 1978); Ead., La révolution du l.angage poétique, Seuil, Paris 1974 (trad. it. La rivoluzione, del linguaggio poetico, 1'1arsilio, Venezia 1979).

2. R. Menarini, La strana copia. Stridi sull'ù1tertestualità e la parodia nel cinetna, Cam_pa­notto, Pasian di Prato 2004, p. 23.

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Ogni enunciato è preso in una rete dialogica, ogni parola trattiene le tracce delle intenzioni che l'attraversano o l'hanno attraversata, ogni testo è assor­bimento, citazione, modificazione di un altro testo: l'intertestualità esprime proprio questa dinamica di incontro tra testi, il processo attraverso il quale la parola passa di mano, si rinnova, da parola altrui diventa parola propria.

Le conseguenze più immediate sono almeno due. Innanzitutto, come si è detto, se il dialogo tra superfici testuali si realizza, per l'appunto, fuori dal testo, esso si dà una piena legalità anche fuori dall' intentio auctoris. Inoltre, se il processo di citazione è diffuso e pressoché incessante, forzando un po' le premesse, si può concludere che la letteratura (e non solo quella) è tutta furto e rapina. O quanto meno: se ha un senso proteggere la proprietà intel­lettuale, ne ha meno pretendere di farlo interpretando in modo rigido il reato di plagio, costringendo gli autori a dire quello che vogliono dire senza ricorrere al saccheggio della tradizione. Fuori dal paradosso, è esattamente la posizione provocatoria (ma non insensata) sostenuta da Almansi e Fink, due autori che hanno dedicato un libro molto citato proprio al concetto di letteratura come falso e parodiai.

Eppure l'enfasi teorica sull'intertesto, sulla trascendenza testuale così come si configura negli studi ormai canonici di Genette, Riffaterre e Iam­polski si sviluppa in modo meno disinvolto rispetto a queste provocazioni, secondo direttrici che spesso richiamano in campo interessi e figure fami­liari•.

Innanzitutto è piuttosto condivisa la necessità di limitare il rischio di genericità. Le pratiche intertestuali hanno vincoli e limiti. Esse non posso­no coincidere con l'indifferenziato e confuso accumulo di influenze. Ad esempio, Iampolski, sostiene l'idea che non ci siano citazioni là dove c'è semplice prelievo (e innesto). Un'influenza diventa citazione se nel testo in cui è innestata muove qualcosa, se in qualche modo trasforma il citato e il citante mettendoli in comunicazione. Non importa che la citazione sia per­cepibile in sé, ma che sia evidente una cesura nella continuità mimetica del rappresentato, che sia attivo un punto di rottura della linearità del testo.

Una concezione della citazione che pare ponga un vincolo di carattere puramente nominalistico. Quando basterebbe dire che esistono citazioni dialogiche facenti esattamente il tipo di operazione prescritto (più che

3. G. Almansi, G. Fink, Quasi conte. Parodia conte letteratura, letteratura co1ne parodia, Bompiani, Milano 1976.

4. G. Genette, Palùnpsestes. La littérature au second degré, Seuil, Paris 1982 (trad. it. Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Einaudi, Torino 1997); M. Riffaterre, LA production du texte, Seuil, Paris 1979 (trad. it. La produzione del testo, il Mulino, Bologna 1989); M. B. Iampolski, The Me111ory o/Tyresias, Tue University of California Press, Berkeley-Los Ange­les-London 1998. Sul rapporto tra copia e originale nel cinema della modernità cfr. G. Tmazzi, La Copia originale: cinen1a, critica, tecnica, Marsilio, Venezia 1982.

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5, ASINCRONISM11I: IL FALSO, LA PRODUZIONE A BASSO COSTO E IL CASO LEONE

descritto) e citazioni puramente allusive che con tutta evidenza si sottraggo­no a questo compito (come accade per altro in molto cinema contempora­neo, di norma riconosciuto come citazionista, che si troverebbe1 secondo Iampolski, privato di questa etichetta), lo studioso insiste nel precisare che non si dovrebbe parlare di citazione nei casi di allusioni per il puro gusto di accwnulo di referenze. Ma che l'intertestualità non sia un problema di sem­plice prelievo e innesto appare un fatto piuttosto indubbio, mentre appare meno indubbio che anche la citazione debba non esserlo per venire consi­derata tale.

Questa concezione della citazione, inoltre, sembra soffrire di un residuo di pregiudizio modernista circa il carattere di rottura del dialogo tra testi e la conseguente emersione delle tracce di semiosi (il testo è un costrutto, il linguaggio non mette in relazione segni e referenti ma segni tra loro), come se le pratiche di evidenziazione della semiosi fossero, di per sé e per neces­sità, segno di interruzione mimetica, di attentato materialista all'illusoria trasparenza o compattezza dell'universo diegetico.

Come vedremo, un simile automatismo rischia di diventare un'indica­zione fuo1viante se applicato al campo di indagine su cui ci sposteremo nel corso del presente capitolo. Il cinema di genere italiano, anche quando dimostra una vocazione citazionista, non lo fa quasi mai nello spirito della riflessh~tà di tipo modernista. Anche in Leone - si può già anticiparlo - uno dei dati più interessanti è il fatto di trovarsi di fronte a un sistema di allu­sioni, a una forma potente, disinibita di riscrittura, che rifiuta una lettura in termini di influenze angoscianti, e al contempo a un dialogismo attivo non riconducibile a intenti necessariamente antimimetici o di rottura della com­pattezza del rappresentato.

5.2 Parodia e autorità

La figura dell'autore rientra in gioco, in altra prospettiva, in tutti gli studi che pongono il problema del rapporto tra testi come atto di emulazione/sfida da parte del testo citante (o falsificante) nei confronti della tradizione citata, del Canone, dei Maestri.

Ovviamente il modello più rndicale di questo tipo di lettura è offerto da Harold Bloom con il concetto di angoscia dell'influenza'. Ma non c'è biso­gno di condividere l'idea bloomiana della grande creazione poetica come mislettura e sintomo prodotto dal potere di condizionamento di una poesia madre o della creatività di un poeta-maestro per accorgersi che molte pra-

5. H. Bloom,The Anxiety o/In/luence. A Theory o/ Poeb)', Oxford Universicy Press, New York 1973 {trad. it. I.:angosda dell'influenza. Una teoria della poesia, Feltrinelli, Milano 1983).

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tiche intertestuali sono studiabili (e di fatto studiate) dalla prospettiva del confronto con un' auctoritas. La dinamica del manierismo rientra in que­st'ambito. Essa è stata spesso descritta come una forma di originalità deri­vata, un processo che porta in alcuni casi a un aunullamento della soggetti­vità del creatore (il quale considera se stesso solo un discepolo, un succes­sore) in altri a un movimento più ambiguo: il soggetto si annulla nel model­lo; in realtà, però, lannullamento nasconde un tentativo di confronto con il Maestro, la sottomissione formale ali' autorità cela ima volontà di autoaffer­mazione.

In un ambito più vicino ai nostri interessi, è soprattutto nello studio della parodia che viene messo in evidenza un processo simile e almeno in parte inverso a quello manierista: la parodia sminuisce, attenta ali' originali­tà del modello che parodizza ma, nel momento stesso in cui lo fa, contem­pla tra i suoi effetti secondari proprio un rafforzamento, una ridefinizione, e quindi un'esposizione reiterata, potenziata del modello stesso6:

Comunque il rapporto con una forma di autorità è quasi sempre posto (anche se non sempre essenziale per la comprensione del valore comico della parodia stessa). La parodia risulta tanto più efficace quanto più sia possibile individuare il movimento nei confronti dell'ipotesto. Nel cinema popolare degli anni Sessanta (periodo di espansione e "metagenerificazio­ne" della parodia cinematografica) il confronto con la tradizione dominan­te è effettuato attraverso gli spunti più disparati, si tratti di repertori mito­logici già strutturati in generi o sottogeneri (come avviene con Totò contro Maciste, di F. Cerchio, 1962, nei confronti del peplum; o con Per qualche dol­laro in meno di M. Mattoli, 1966, nei confronti del western di Sergio Leone); oppure di irrisione nei confronti del cinema moderno d'autore (come nel caso di Totò, Peppino e la dolce vt!a, di S. Corbucci, 196!, o di Ulttino tango a Zagarolo, di N. Cicero, 1973) o anche della commedia stessa (ad esempio, Sedotti e bidonati, di G. Simonelli, 1964, nei confronti di Germi).

5.3 It's nota quote: il problema della citazione

Oltre che come caso di dialogismo e di legame nei confronti di un'autorità, le pratiche intertestuali sono state studiate in relazione al loro porre inces-

6. Il contromovimento cons.acrarite della parodia' è ben evidente soprattutto nei casi recenti di parodia televisiva, in cui il modello parodiato non ha in effetti uno st;:i.tus di auto­rità comunemente riconosciuto. Nel n1omento in cui un persOnaggiO'televisivO trova uh imi­tatore disposto a parodiarlo (non importa quanto tale gesto sia nei modi irrispettoso) ha tro­vato anche uno strumento di penetrazione o persistenza nell'imrnaginario mediale. Questo è anche il ·motivo per il quale, in genere; egli' finge di indispettirsene quaiido in realtà se ne rallegra. ·

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5. ASINCRONISMI 11: IL FALSO, LA PRODUZIONE A BASSO COSTO E IL CASO LEONE

santemente un problema di decodifica-interpretazione, quindi di ruolo del lettore e della sua enciclopedia nel processo di riconoscimento. In questo caso è proprio il rapporto ermeneutico tra testo e interprete a produrre I' ef­fetto testuale, come è sottolineato negli studi, tra gli altri, di Riffaterre e Lynda Hutcheon'. La questione è contemplata anche nella tripartizione proposta da Compagnon a proposito della citazione'.

Per Compagnon la citazione presenta almeno tre aspetti essenziali: è un atto di prelievo (e di innesto) da un testo citato in un testo citante con una fenomenologia vastissima; una forma legata a una semiologia che ne preci­sa il funzionamento in termini di produzione di senso nel testo; e una fun­zione che ne determina la genealogia dal punto di vista dei valori storici. 1: a­spetto impattante in Compagnon è che la citazione, nel momento in cui si attiva, comincia a funzionare come un segno secondo le indicazioni di Peir­ce. La natura ternaria del segno peirciano è data nel caso specifico dalla pre­senza dell'interpretante. È in relazione a questa terza entità che la citazione prende senso. Essa funziona solo quando viene riconosciuta. l:interpretan­te quindi completa la citazione. Al contempo però, come notato da Anto­nio Costa', l'interpretante è plurale, il che può voler dire almeno due cose: che il senso della citazione non è mai dato una volta per tutte, ma anche che la figura stessa dell'interpretante è multipla, quindi non riducibile a un pro­blema di enciclopedia/competenza del singolo interprete, in generale non riconducibile a qualcosa di dato e non potenzialmente espandibile.

Poco sensibile (al contrario di Metz, ad esempio)'° a quest'ultinrn sfu­matura, Iampolski nega una citazione a Godard proprio sulla base di un problema di enciclopedia spettatoriale.

In una celebre sequenza di Fù10 all'ultimo respiro noi vediamo Patricia che cerca di appendere il poster di una riproduzione di un quadro di Renoit; poi lo arrotola, ci guarda attraverso e "inquadra" Michael. Godard ha sostenuto che questo gesto contiene una citazione nascosta da Quaranta pistole (S. Fulle1; t957) e che la citazione ha una funzione di anticipazione: testimonierebbe del fatto che l'uomo diventerà il bersaglio-vittima sacrifi­cale nella relazione con la donna. Abbiamo quindi una citazione nascosta che non sembra turbare in alcun modo la linea narrativa, e che oltretutto

7. L. Hutcheon, Irony's Edge. The Theol)' and Politics o/ Irony, Routledge, Ne\V York 1994· '

8. A. Compagnon, La seconde 1J1aù1 ou le lrava11 de la cita/1011, Seuil, Paris 1979· 9. A.- Costa, Nel corpo dell'itJJtnagùie, la parola: la citazione le//eraria nel cinetna, in I. Per­

niola (a cura di), Cinenta e lelleratura: percorsi di confine, Marsilio, Venezia 2002.

ro. Metz in realtà parla di citazioni letterali propriamente dette, cioè, nei suoi termini, di «incassature semplici>>, ma sen1bra non considerare vincolante l'attività di riconoscimento esaustivo da parte dello spettatore. Ch. Metz, Uénonciation ùnpersonelle ou le site du fi!tn, Klincksieck, Paris 1991 (trad. it. L'enunciazione ùnpersonale o il luogo del fibn, Edizioni Scien­tifiche Italiane, Napoli 1995, pp. 105-28).

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avrebbe una precisa funzione ricostruibile solo ricorrendo alla parola del­!' autore. Per Iampolski non si tratta di una citazione per il fatto che nessu­no spettatore, neppure il più cinefilo ed erudito, potrebbe mettere in rela­zione i due film. Motivazione senz'altro discutibile", che però rende ben conto di un fatto noto ali' esperienza comune: la difficoltà di individuare citazioni in modo certo e stabile, di identificarle ancora prima di poterne ricostruire la funzione. Una difficoltà che sembra comunque riguardare soprattutto quelle citazioni che Alberto Negri chiama citazioni-allusioni in contrapposizione alle citazioni-riporto, nelle quali un brano materiale di un film compare in modo esplicito nel film citante, e rispetto alle quali si pon­gono minori problemi di identificazione".

5.4 Falso e iterabilità

La prospettiva di studio dell'intertestualità come luogo di incontro tra diverse enciclopedie, come occasione che rende indispensabile la conside­razione della «conoscenza dei testi e del mondo»'' per l'attualizzazione delle dinamiche testuali mantiene un ruolo tutto sommato marginale nel presen­te capitolo. Essa è stata comunque richiamata perché ha condizionato anche la riflessione sul falso e sul plagio.

Eco, ad esempio, afferma che il tratto distintivo del plagio sta proprio nel fatto che in esso il riferimento al testo plagiato deve essere inafferra­bile per il fruitore. Quando il riferimento è cosciente all'autore e inattin­gibile per il destinatario, con buone probabilità, ci troviamo di fronte a intenzioni di plagio'4, Pur tralasciando casi che possono ulteriormente

n. Ad essere discutibile è proprio la motivazione dell'affermazione, non l'affermazione in quanto tale («It's not a quote>>) . .Mi sembra che Iampolski abbia ragione per i motivi sba­gliati. La sequenza di Godard non è una citazione. Ma per affermarlo non abbiamo bisogno di considerare decisivo l'argomento dell'impossibilità da parte dello spettatote di adeguare la propria enciclopedia a quella dell'autore (posizione che porta a un aumento e non a una dimi­nuzione del rischio già alto di idiosin_crasia nel riconoscimento). Il problema è che il tratto citato (il gesto del guardare qualcuno attraverso un mirino) pone dei vincoli. Esso non appa­re sufficientemente specifico e distintivo per innescare una citazione ancor prima che per ren­dere possibile il riconoscin1ento stesso~ In altri termini, Godard non sta citando Fuller in quel­l'inquadratura, al di là (ma bisognerebbe dire "al di qua") delle proprie intenzioni e della competenza spettatoriale, per lo stesso motivo per cui, se girassi una sequenza in cui un per­sonaggio guarda attraverso un cannocchiale/binocolo/mirino, non starei citando La finestra sul cortile o JFK (o qualsiasi fùm che contenga questa situazione in termini generici).

12. A. Negri, Lttdici disincanti. Fanne e strategie del cine111a postn1oderno, Bolzoni, Roma 1996.

lJ. U. Eco, I.: innovazione del seriale, in Id., Sugli specchi e altri saggi, Bompiani, :Milano 1998, pp. 135.

4. Ibid.

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5. ASINCRONISMI 11: IL FALSO, LA PRODUZIONE A BASSO COSTO E IL CASO LEONE

complicare il quadro (autoplagi, remake dichiarati, versioni multiple, autocitazioni ecc.) è evidente che non è semplice stabilire il grado di estensione o "gravità" di un calco testuale, inoltre non è neppure sempli­ce individuare in modo univoco il confine che separa il furto dall' allusio­ne per pochi, dal private joke: problemi di identificazione non dissimili da quelli posti dalla citazione.

Del resto il discorso sul plagio e sul falso ha più di un punto di incro­cio con la riflessione intorno ad altre forme di intertestualità e in particolar modo alla parodia, cosa ben evidente se si confrontano i contributi di Fink e Almansi e quello di Dan Harries''· Almansi e Fink partono dall'idea che tutta la scrittura sia connessa al concetto di parodia e che le f01me del falso letterario non facciano altro che esplicitare a diversi gradi tale parentela.

Vengono individuate quattro tipologie di falso: il falso perverso in cui l'i­mitatore munito di cattiveria critica inventa o esagera i difetti del modello; il falso consacrante che si basa sul rispetto e lammirazione per il testo paro· diato appassionatamente; il falso innocente che semplifica, riduce per amore di divulgazione e di comprensibilità, a volte anche in modo inconsapevole, la complessità dell'originale; infine il falso sperimentale che rielabora il modello piegandolo .a nuovi fini e innestando su di esso variazioni a loro volta originali.

In cosa consistono le variazioni? La risposta la dà indirettamente Har­ries quando, dopo avere indicato i livelli della parodia (sintattico, lessicale, stilistico), elenca le operazioni del meccanismo parodico: reiterati011, inver· si'on, tnisdirection, literalization, extraneous inclusion, exaggeration. Queste, in definitiva, sono anche alcune delle operazioni proprie del falso petverso e del falso sperimentale.

Il libero gioco di prelievo e ricombinazione, la disinvoltura rispetto ai parametri formali del linguaggio propri del falso sperimentale hanno trova· to in campo letterario esempi di applicazione alta (dagli esercizi di stile di Queneau, ai testi danteschi riscritti in dialetto dal Porta, fino alle recensio­ni di libri mai pubblicati di Borges) ma sono compatibili con l'orizzonte della produzione di genere nel cinema italiano a basso costo degli anni Ses­santa, come con la rielaborazione della semantica e della sintassi del western nel cinema di Leone. In ogni caso, ciò che è in gioco nel falso sperimentale è il superamento di ogni inibizione nei confronti del modello, il quale può essere rispettato e al contempo serializzato e distorto.

Difficilmente i falsi di genere nascono nel contesto di una riflessione teorica consapevole. Non è però inesatto individuare alla base di queste pratiche un atteggiamento disinibito nei confronti dell'esclusività di espres­sione, una concezione mondana dello stile, in definitiva l'idea che l'origina-

15. D. Harries, F1/111 Parody, BFI, London 2000.

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lità puntuale di una risorsa espressiva è strettamente connessa proprio alla sua stessa imitabilità.

Ciò che \~ene richiamato qui è una delle varianti della questione cono­sciuta in campo filosofico come il problema della "iterabilità del signifìca­to", come noto, una materia affrontata daJacques Derrida'". Per quel che può riguardare il nostro discorso, Derrida si occupa, a suo modo, di cita­zione. Per esattezza il filosofo considera il modo in cui Austin nella propria teoria degli atti linguistici concepisce la possibilità della citazione di enun­ciati performativi in contesti non seri (su un palcoscenico, all'interno di un poema ecc.), per poi, appunto, confinare questi casi di proferimento nel­]' ambito del parassitaggio, dell'eccezione che circonda il funzionamento ordinario del linguaggio. Per Derrida si tratta di affermare, al contrario, che la formulazione di un performativo funziona come evento solo se la sua purezza viene in qualche modo intaccata da un doppio citazionale non serio (falso, potremmo dire noi). La possibilità di proferire performativi in con­dizioni "non felici" (contesti di finzione, ad esempio) non è qualcosa di esterno da cui bisogna preservare la purezza dell'evento performativo, ma una condizione interna e positiva del performativo stesso. Senza iterabilità generale non ci sarebbe performativo.

Analogo discorso vale per il meccanismo discorsivo della firma, mecca­nismo che pretende di funzionare come surrogato della presenza, come inscrizione che connette un enunciato al suo autore, come segno wllco, evento puro. Ma perché sia possibile la singolarità assoluta di un evento di firma è necessaria proprio l'impossibilità della sua rigorosa purezza: per essere leggibile, per funzionare, una firma deve essere ripetibile, quindi in1i­tabile, deve essere staccabile dall'intenzione singolare della sua produzione, dalla presenza che l'ha resa possibile.

La posta in gioco del discorso derridiano è fuori dalla nostra portata (ridefinizione del concetto di contesto, inscrizione degli effetti della comu­nicazione, della produzione/trasmissione del senso, in un regime generale di scrittura disseminata ecc.) ma possiamo trattenere l'idea che un evento -si tratti di un performativo, di una firma, di una marca stilistica e autoria­le - per riuscire deve riprodurre una forma iterabile e che, di conseguenza, è possibile sfumare la contrapposizione tra enunciati-eventi singolari e ori­ginali da un lato ed enunciati citazionali dall'altro.

Una conclusione sorprendente, \~cina a quanto scrive Deleuze chiuden­do il ragionamento sulla presenza del falso in F Far Fake (r964) di O. Welles:

16. J. Derrida, Signature, événetllent, contexte [1972], in Id., Litllited Inc., Galilée, Paris 1990 (trad. it. Pinna, evento, contesto, in Lùnited Inc., Raffaello Cortina, .Milano 1997). Cfr. anche, in relazione a queste questioni e al loro rapporto con la nozione di autore, C. Gandel­man, N. Greene, Fétichistne, Signature, Cinétna, in M. Lagny, M.-C. Ropars, P. Sorlin (éds), L'état d'auteur, in "Hors Cadre", n. 8, 1990.

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Insomma il falsario non può essere ridotto a un semplice copiatore, né a un menti­tore, perché ciò che è falso non è soltanto la copia, ma già il modello. Non bisogna allora dire che anche l'artista, anche Venneer, anche Picasso, sono dei falsari, per­ché fanno un modello con delle apparenze, a rischio che l'artista successivo resti­tuisca il modello alle apparenze per fare un nuovo modello? Dove finisce il "catti~ vo" rapporto Elmer il falsario-Picasso, dove comincia il "buon" rapporto Picasso­Velazquezl''

La coincidenza può risultare fuo1viante. In realtà Deleuze parte da una pro­spettiva del tutto interna al proprio discorso sul cinema (il quale, a sua volta, è del tutto interno al proprio percorso filosofico). Il concetto di falso e il personaggio concettuale ad esso connesso, quello del falsario, emergono in un quadro che coincide con un passaggio dell'immagine cinematografica da un regime organico a un regime cristallino. Per Deleuze la potenza del falso è collegata a una nuova percezione del tempo, alla produzione di un movi­mento decentrato, illusorio, e non riguarda semplicemente il fatto che sul piano narrativo i personaggi mentono. Riguarda anche il fatto che non è più possibile lesistenza di un altro personaggio concettuale (questa volta di derivazione nietzschiana): l'uomo verace, di cui Vargas nell'Infernale Quinlan (1958) è una delle ultime, disturbanti incarnazioni. Il posto dell'uo­mo verace viene preso da un'espansione ontologica del falso che si disloca in modo nebuloso e illimitato, come accade in certi esempi di cinema moderno (Godard, Robbe-Grillet); o prolifera lungo una catena di falsari intradiegetici legati tra loro senza soluzione di continuità, come avviene in F Far Fake di Welles. E in effetti Welles appare a Deleuze come il primo che, più a fondo del neorealismo, anticipando la modernità cinematografi­ca, libera un'immagine tempo-diretta e fa passare l'immagine integralmen­te sotto la potenza del falso (in definitiva, una variante moderna del con­cetto di volontà di potenza).

. . . 5.5 La griffe contraffatta: la dinamica estetica del basso costo

Il falso come possibilità filosofica di un ribaltamento paradossale o come tratto distintivo di un regime dell'immagine caratteristico del cinema moderno visto in prospettiva autoriale: rispetto a queste alternative, le dinamiche di falsificazione osse1vabili nel ·cinema di genere italiano sono di altro tipo.

Dopo una chiusura del decennio dei Cinquanta e un'apertura dei Sessanta nel segno dell'ottimismo produttivo, già dalla stagione del '64 l'in­dustria entra in una crisi destinata a ripresentarsi ciclicamente. Nulla a che

17, Deleuze, !}ifnage-feJJtps, cit., trad. it. p. 164.

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vedere con ciò che sarebbe successo al mercato cinematografico nel decen­nio successivo. Ma queste sono considerazioni che valgono solo con il senno di poi.

Il cinema di genere rimane tanto prolifico quanto caratterizzato da con­fini indefiniti. La distinzione tra un pubblico di provincia e uno urbanizza­to si ridefinisce in relazione al nuovo consumo domestico rappresentato dalla televisione, proprio in un passaggio di tempo in cui l'industria cine­matografica sembra avere conquistato il mercato di profondità. A metà anni Sessanta il paesaggio è apparentemente effervescente, ma l'effervescenza nasconde debolezza e improvvisazione strutturale. Accanto al basso conti­nuo rappresentato dalla commedia, si assiste a una espansione quantitativa graduale del metagenere parodico, una risorsa da tempo familiare all'indu­stria culturale italiana. Altri generi sfruttati sono lo spionistico con ascen­denze bondiane, l'horror, il fantascientifico, e in posizione quantitativa­mente dominante il western all'italiana (nel biennio 1967-68 si contano più di 150 pellicole western distribuite):

In verità, sembra che in questi anni sia all'opera una grande "falsificazione" del­l'immaginario, dove generi di tradizione e soprattutto generi non autoctoni congiu­rano nel costruire uno spazio irreale - artigianale, certo - nel quale tutta la fantasia tenuta a freno dai "realismi" si sviluppi18•

In questo contesto dai segni spesso contraddittori, la professionalità ancora indiscutibile dei quadri e delle maestranze, la qualità dell'aggiornamento tecnologico, il fermento creativo di sceneggiatori e registi convivono al fian­co di soluzioni produttive scarsamente lungimiranti, della tradizionale esi­gua propensione degli investimenti imprenditoriali per il coinvolgimento in progetti di ampio respiro, di una visione da piccola industria del consumo culturale.

I contrasti sono osse1vabili su vari piani. Se si considera, ad esempio, il dibattito che ha circondato la diffusione di determinate tecnologie presso gli addetti ai lavori e lo si osse1va in una prospettiva comparata, si possono raccogliere facili conferme. Nel 1953 viene pubblicato negli Stati Uniti New Screen Techniques, un volume interamente dedicato alla celebrazione della novità e delle potenzialità del CinemaScope'•. Le voci raccolte nel libro sono di registi, direttori della fotografia, tecnici del suono, responsabili della produzione, direttori commerciali:

18. R. l\Jienarini, La parodia nel cinema italiano, Hybris, Bologna 2001, p. 45. 19. Cfr. P. Noto, La confusione dei/armati, in G. Manzoli, G. Pescatore (a cura di), I.:ar­

te del risparmio: stile e tecnologia. Il cine!lta a basso costo in Italia negli anni Sessanta, Caroc­d, Roma 2005.

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5. ASINCRONISMI Il: IL FALSO, LA PRODUZIONE A BASSO COSTO E IL CASO LEONE

[. . .] l'intento è chiaro: l'industria, in questo caso una singola tnajor, si prende cari~ co del processo di aggiornamento tecnologico e spettacolare dovuto al CinemaSco­pe, quindi declina, tramite i suoi rappresentanti di differenti categorie, le opportu­nità offerte dal nuovo mezzo20

.

In Italia nessun soggetto industriale appare in grado di promuovere un'ini­ziativa così ad ampio raggio. Il dibattito sulla tecnica rimane limitato al con­testo delle pubblicazioni di settore. Le voci che intervengono su tali pub­blicazioni si muovono nel segno di difese corporative, di competenze arti­gianali consolidate, di una poca voglia di sperimentazione (la regola è: mini­ma spesa, minimo investimento, massimo effetto)21

Se questo è il quadro di riferimento, non stupisce che in Italia alla di­scussione tecnica non si affianchi quasi mai una riflessione sulle conseguen­ze stilistiche delle nuove tecnologie. E che siano altre istituzioni a doversi fare carico di operazioni di mediazione. Queste dinamiche sono particolar­mente scoperte e quindi osservabili sul piano della produzione di genere improntata al risparmio, a un artigianato che punta ali' effetto di "ultracaro" a bassissimo costo. La questione del basso costo può essere posta su tre distinti livelli: r. Un livello definito dal frame tecnologico. Qui vengono stabilite a un momento dato (per noi gli anni Sessanta) le competenze operative relative alle tecnologie e al loro uso. Si tratta, in altre parole, di definire "ciò che si può fare" dal punto di vista della tecnica, ossia un sistema di scelte operati­ve a disposizione del regista, dei tecnici e della produzione, sistema che tende a costruire una forma paradigmatica. 2. Un livello definito dalle estetiche, dove lestetica non è intesa in senso valutativo, bensì come etichetta di fenomeni riconoscibili: autori, stili, con­venzioni, modalità linguistiche, apporti intertestuali e intermediali. Si tratta ancora di ricostruire un sistema che tende a una forma paradigmatica. 3. Un livello di mediazione e di negoziazione tra i due precedenti. Nel campo che ci interessa, è essenzialmente il genere (inteso in senso ampio) a porsi come spazio di negoziazione tra competenze tecniche e competenze estetiche. Ad esempio, la diffusione del peplum a metà degli anni Cinquan­ta coincide con la diffusione dei primi anamorfici secondo un processo in cui il genere media tra il possibile tecnologico e la visibilità testuale sul piano del risultato estetico. Tale livello si dà nella forma della collezione sin­tagmatica di occorrenze testuali.

Si può quindi rendere più organica la nostra ipotesi di partenza. A que­sti tre livelli, nel cinema popolare italiano assumono particolare importanza alcuni procedimenti che sono di tutto rilievo nella produzione culturale

20. Ivi, p. no. 21. Ibid.

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della modernità: il falso, il plagio, il riciclo. La questione del cinema di basso costo può essere pensata non più in termini economici assoluti, ma con1e relazione a un modello alto (di alto costo) a cui si applicano i procedimen­ti di falsificazione, di plagio e di riciclo, nell'intento di ottenere un prodot­to sostitutivo (almeno rispetto a determinati mercati) a un costo ridotto. Questo modo di porre le cose ci allontana solo in parte dalla linea Derrida­Deleuze a cui ho accennato prima: se, infatti, in quel caso la falsificazione era colta in un ambito estetico-filosofico, qui la questione diviene economi­ca, come del resto è segnalato già dalla definizione di "basso costo". Tutta­via rimane valido il richiamo a relativizzare il rapporto tra originale e copia, nel contesto di un cinema, quello popolare italiano, che proprio attraverso processi di falsificazione riesce a trovare una sua dimensione di "originali­tà", in maniera non dissimile a quanto è accaduto in altri ambiti produttivi, dalla moda alla produzione tecnologica avanzata. Il fatto che questa strada abbia poi degli esiti significativi anche in ambito estetico non fa che raffor­zare l'ipotesi di una linea di contatto tra discorso teorico "alto" e pratiche produttive "basse". Basta solo spostare lo sguardo dal falsario come autore alla falsificazione come pratica produttiva, come discorso sociale e come strategia economica.

Tornando ai tre livelli su cui opera la falsificazione, è lecito isolare alcu­ni effetti concreti:

per quanto riguarda il frame tecnologico, ci si può interessare a tutti quei fenomeni di sviluppo di tecnologie autoctone che si pongono come alternatiV-e a basso costo rispetto all'innovazione tecnologica estera, relativa soprattutto all'industria cinematografica americana (brevetti italiani relativi ai formati, alle tecniche di registrazione del suono, alla stampa della pelli­cola ecc.); ·

per quanto riguarda le estetiche, vanno considerati i fenomeni di falsi­ficazione di etichette (si pensi, ad esempio, all'uso di pseudonimi, spesso simili o assonanti rispetto agli originali americani), il plagio di forme lingui­stiche (rispetto al modello americano o al modello alto, autoriale, del cine­ma italiano), il riciclo di forme estetiche esterne provenienti da altri media (opera, teatro, musica leggera, televisione ecc.) o interne (parodia del cine­ma alto);

per quanto riguarda il genere, ci si rivolge a quei fenomeni di falsifica­zione e plagio (western, spionistico, polizies.co ecc.) o di riciclo (film opera, musicarello, film varietà, comico, parodico ecc.), oltre chè, più in generale, a tutti quegli episodi produttivi che vedono con.cretamente ali' opera i due livelli precedenti. · .. . .

Al fronte delle ipotesi avanzate, ci si può chiedere in cosa consista la specificità del caso italiano di quegli anni, e perché procedimenti come quelli che abbiamo individuato vi abbiano tanto rilievo. Una prima risposta

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può venire dalla constatazione che i tre livelli a cui ho fatto riferimento cor­rispondono ad altrettante mancanze del cinema nazionale di quel periodo: la mancanza di un laboratorio, inteso come luogo unificato di sviluppo tec­nologico funzionale alla produzione industriale; la mancanza di etichette forti, autoriali, produttive e stilistiche che avessero presa sul pubblico popo­lare; la mancanza di una dinan1ica interna ai generi autoctoni che fosse capace di stimolare processi di generificazione ulteriore.

Paradossalmente però, malgrado questi limiti, quel cinema fu in grado di produrre innovazione, tecnologia e soprattutto estetica: basti pensare al caso più eclatante che è quello dello spaghetti western. Questo, a mio avvi­so, non tanto perché con il suo impianto artigianale improntato alle modali­tà del rifacimento, anticipasse in qualche modo le forme della postmoderni­tà, quanto piuttosto perché era solidamente impiantato nel moderno. L' arti­gianato del plagio, del falso, del riciclo appartiene pienamente al moderno e rappresenta in qualche modo il lato oscuro della modernità industriale; e dunque, se il cinema italiano di quegli anni poteva risultare arretrato sul fronte della modernizzazione, aveva nondimeno una sua linea di modernità, non scevra di risultati innovativi. Come il caso Leone pare confern1are.

5.6 Il caso Leone: artigianato, originalità, distinzione

«Signor Leone - ho appena avuto l'occasione di vedere il suo film. È un ottimo film, ma è il mio film. Poiché il Giappone è un firmatario della Con­venzione di Berna sul copyright internazionale, lei deve pagarmi». Firmato: Akira Kurosa,va22

.

Le parole del cineasta nipponico su Per 1111 pugno di dollari (1964) testi­moniano di come la filmografia di Leone, nella sua fase più nota, si apra ali' ombra del sospetto di plagio e dell'estetica del riciclo, e si definisca andando a interessare i livelli precedentemente isolati (in particolare modo: mediazione di genere e processo di falsificazione di etichette). Ma altret­tanto indicativi sono i resoconti sulla reazione al telegraillllla. Risulta che il regista romano si aggirasse per gli studi di produzione sventolando orgo­gliosamente la lettera, fiero che il suo film fosse stato considerato "ottimo" da un maestro di fama internazionale. L'affermazione sul risultato aveva cancellato la pesante accusa sul processo necessario per raggiungerlo.

Leone appartiene al panorama industriale dell'economia di rapina'', dell'adattamento e della griffe contraffatta ma tende a sollevarsene, già nelle

22, Riportato in C. Frayling, Sergio Leone. Danzando con la 111orte, Il Castoro, !vlilano 2002, p. t6I.

23. È un tratto sul quale si è soffermata tutta la principale letteratura critica sul regista: F. Ferrini, L'antt'western e 11 caso Leone, in "Bianco & Nero", n. 9-10, 1971; E Nlininni, Sergio

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prime intenzioni, attraverso l'aspirazione a una maggiore riconoscibilità, se non a una dimensione "di autore" compiuta (che comunque non tarderà ad essergli riconosciuta). In altri termini, le aspettative degli investitori, le vicende produttive e cli lavorazione del primo film della trilogia si dispiega­no secondo una fenomenologia quasi indistinguibile da quella delle copro­duzioni italo-franco-germanico-spagnole cli inizio decennio"! (poco più cli una trentina cli titoli, oggi per la maggior parte scivolati in un oblio non del tutto imprevedibile), ma al contempo cambiano le aspirazioni dei parteci­panti all'impresa, i quali, nelle testimonianze, danno segno cli una volontà cli distinzione rispetto alla produzione di genere più anonima, secondo la logica della copia migliorativa e cli una certa emulazione autoriale.

Come ha ricordato Franco Ferrini, Leone era un regista che finanziava i suoi esegeti, capace cli pagare un appartamento dotato di moviola al criti­co intenzionato a studiare i suoi film. Basta poco per capire che siamo assai lontani dal divertito stupore con cui Hitchcock seguiva le gesta dei giovani critici francesi impegnati nella sua autorializzazione. Leone \~ene in un ciclo della storia della cultura cinematografica in cui la nozione d'autore è già acquisita come fatto sociale condiviso, fa mercato, è entrata nel circuito dei media, praticamente costituisce un genere merceologico a parte. A ben vedere la concezione artigianale di Leone rispecchia piuttosto fedelmente un certo stadio di sviluppo dell'industria culturale coeva.

Fausto Colombo ha mostrato come gli anni Cinquanta abbiano rap­presentato il periodo nel quale si costituisce il trampolino verso l'industria­lizzazione definitiva della cultura nazionale. Malgrado la persistenza cli forti spinte pedagogizzanti nel sistema dei media, la maggior parte dei prodotti dell'industria della cultura nazionale del periodo riguarda l'intrattenimen­to. Il modello industriale ancora dominante è quello del!' artigianato media­le bene osservabile nella tradizione del fumetto. Accanto a una strategia che punta alla nobilitazione della striscia attraverso un'elevazione dei contenuti ottenuta con il richiamo alla letteratura alta (è la via italiana della Disney), già dalla fine degli anni Quaranta si sviluppa un'alternativa che rifiuta la finta preoccupazione pedagogica: si tratta della linea cli Bonelli. In questo editore si trovano anticipati elementi che sono osservabili qualche anno dopo anche nella produzione cinematografica cli genere e in particolar

Leone, L'Unità/Il Castoro, Milano 1995; O. De Fornari, Sergio Leone, Moizzi, Milano 1977; Id., Tutti i /il!n di Sergio Leone, Ubulibri, .Milano 1997; M. Garofalo, Tutto il cinetna di Sergio Leone, Baldini & Castoldi, Milano 1999; C. Frayling, Spaghetti western. Cotoboys and Euro­peans /ron-1 Kart May to Sergio Leone, IB Tauris, London 1981.

24. Finanziamenti stanziati ed elargiti con il contagocce, disorganizzazione sul set, arte di arrangiarsi oltre il limite consentito dal folklore, capacità di portare a casa il risultato: pare che Roberto Cinquini, il montatore di Per 1111 pugno di dollari, abbia usato, nella sequenza del massacro dei Baxter, le stesse inquadrature anche cinque volte, dopo avere fatto stampare anche le inquadrature scartate.

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modo in Leone: il motivo della violenza, la capacità di rielaborazione crea­tiva (dal punto di vista stilistico, narrativo, metalingnistico) del contenuto ideale americano, l'accettazione del linguaggio seriale, il tutto in un conte­sto che punta alla formazione di un mercato, individuando il pubblico sulla base delle storie e della sperimentazione intorno a variabili rappresentative ricorrenti (e non ancora ricorrendo alle analisi di mercato e ai mezzi di mar­keting moderni)".

Insomma, se esiste un lato del falso (estetico) che riguarda la moderni­tà cinematografica nel senso indicato da Deleuze e uno (produttivo) che riguarda il lato oscnro della modernità industriale, Leone appartiene al secondo polo, ma non sul suo versante più profondo'6. In questo senso egli è un falsario perché riproduce deformandolo un immaginario nato altrove, ma eredita anche qualcosa dalla tradizione artigianale alta della cinemato­grafia nazionale, e in questo senso è considerabile una sorta di epigono di alcuni "autori sottili" degli anni Trenta come Genina, Blasetti, Camerini (quella che potremmo chiamare la prima generazione dei falsari del cinema italiano), con i quali condivide l'atteggiamento disinvolto nei confronti dei modelli, gli standard di qualità, ma non l'eclettismo.

Tutto ciò si traduce in un sistema di prestiti, relazioni intertestuali, rap­porti profondi con un immaginario già dato che può essere scandagliato nel dettaglio. I: autore appare qui più che come un consapevole epigono di una tradizione, come una sorta di operatore disinvolto di gerarchizzazione delle influenze, che evita l'accumulo disordinato dei prestiti, dei furti, delle assi­milazioni, negoziando continuamente elementi di originalità autentica con elementi di originalità derivata.

5.7 Citazioni, prestiti, convocazioni nella trilogia del dollaro

(e poco oltre)

Innanzi tutto va chiarito un equivoco. Il cinema di Leone non è citazionista in senso tradizionale. Non si trova nella trilogia del dollaro un sistema di allusioni ben stmtturato. Anzi, le citazioni allusive sono quantitativamente

25. Cfr. Fa. Colombo, La cultura sottile. Media e industria culturale in Italia dall'Ottocen­to agli anni Novanta, Bompiani, Milano 1998, pp. 201-22.

26. Il che spiega almeno in parte l' runpia gamma di reazioni alla sua opera, che su un ver­sante profondo confina con l'aneddoto degli spettatori romani che ai tempi di Per qualche dol­laro in più irrompono nell'ufficio del regista gridando «Dottò, abbiamo visto il film venti volte, abbiamo scommesso un milione. Lei ce lo deve dire: è la figlia o la sorella?»; sul ver­sante alto con l'approccio "Cahiers" di Luc !vloullet che parla di Leone come di un raro caso di avanguardia apprezzata dal pubblico e di una gestione del tempo narrativo simile nei risul­tati a quella osservabile in alcuni esempi di cinema moderno (Duras); L. Moullet, Chi ha tra­dito il ci11e1na italiano?, in De Fornari, Tt1tli i fi/Jn di Sergio Leone, cit.

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esigue. Per un pugno di dollari (in cui Leoue si firma ancora Bob Robertson, concessione alla pratica dello pseudonimo, della falsificazione dell' etichet­ta, e al contempo omaggio al padre e al suo pseudonimo, Roberto Roberti) è suscettibile dell'accusa di plagio nei confronti della Sfida del Samurai (1961) di Kurosawa. Certo, il cambiamento di ambientazione garantisce il processo di variazione di parte del materiale semantico in modo automati­co. Ma l'intreccio, certe sequenze e persino alcuui elementi formali (qual­che movimento di macchina) sono identici ali' originale. Il punto è che è molto più visibile, dinamico e interessante il rapporto con il western classi­co e in particolare con il cinema di Ford. Tratteremo questo aspetto per ulti­mo. Per il momento è essenziale ripercorrere anche le altre risorse convo­cate e rivisitate nell'immaginario leoniano2 7.

Su un livello più superficiale possiamo cogliere una serie di corrispon­denze allusive a sequenze, situazioni, personaggi depositati nell'archivio della storia cinematografica del western e non solo. Questo sistema di cita­zioni apparenti (e spesso oggetto di discussione e disaccordo) è stato per­corso più volte: si va dalle origini indefinite del protagonista di Per un pugno di dollari, che sarebbero simili a quelle del protagonista del Cavaliere della valle solt!aria (G. Stevens, 1953), all'uso della dinamite per stanare i Baxter e ali' esplosione improvvisa della violenza che verrebbero da Rio Bravo (H. Hawks, 1959) e da \Vinchester '73 (A. Mann, 1950); dallo scontro privato tra eroi e fuorilegge (dallo Sperone nudo, A. Mann, 1953, e La valle dei Mohica­ni, B. Boetticber, 1960), fino ai richiami precisi e circoscritti a Sfida inferna­le (schema di montaggio e disposizione dei personaggi nella sequenza della sparatoria tra il Monco e gli uomini di Baby Red Cavanah in Per qualche dol­laro in pizì, 1965, sono ripresi in modo pressoché identico dal film di Ford).

Più strategico, e in genere abbastanza trascurato il rapporto con il cine­ma italiano. È possibile ipotizzare che alcuni degli elementi più distintivi dello stile visivo e della caratterizzazione dei personaggi leoniani siano influenzati dal cinema di genere autoctono. Innanzitutto il western di Leone, nel suo superare le barriere tra il pubblico di James Bond e quello di Ercole (mercato delle prime visioni e mercato di profondità), deve qual­cosa al peplum, del quale è una sorta di trasfigurazione mainstream, sia in chiave di affrancamento dalla rappresentazione natutalista, sia in termini di grande formato e puro intrattenimento. Inoltre il peplum si basa sull'esibi­zione di forza dell'eroe otganizzata in veri e propri numeri spettacolari. E non è difficile constatare che nel cinema di Leone si accumulano cotde e sigari mozzati a colpi di pistola, frutti staccati dagli alberi e cappelli fatti volare o mantenuti in aria a suon di spari, tutti momenti nei quali si misura

27, Le osservazioni che seguono devono molto alle discussioni con Paolo Noto (che voglio ringraziare) durante e dopo la stesura della sua tesi di laurea: Ele111e11ti difalsificazione e inlertestualità nel ci11e111a western di Sergio Leone, mimeo, Bologna 2002.

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leffettiva visibilità della bravura, della forza, della competenza del!' eroe. La teatralità del gesto, il gusto per la dilatazione e la divagazione nel numero di bravura sono connessi alla trasformazione dello spazio del duello iu una sorta di arena, teina figurativo ossessivamente ricorrente e bene esemplifi­cato dal duello finale iu Il buono, il brutto, il cattivo (1966).

Il tema della teatralità richiama quello della violenza, uno dei motivi su cui più si è concentrata la critica degli anni Sessanta. :c.; esibizione della ,10-lenza nei film di Leone raggiunge senz'altro dei livelli impensabili nel western di Ford, ma rientra iu un contesto ordiuario se confrontata alla explotation italiana coeva. Generi come il mondo movie, l'honor gotico (si pensi ai film di Mario Bava) esibiscono torture e punizioni ben più dure di quelle presenti nei film di Leone, i quali comunque risentono, per via iudi­retta, delle licenze che questi generi si sono concesse.

Anche gli accenti carnevaleschi e l'uso dell'ironia, diretta o implicita che sia, sembrano rispettare un codice nascosto mutuato dallo studio dei caratteri nazionali"'. In Per 1111 pugno di dollari troviamo il riciclo di una risorsa parodica completamente riorientata all'iuterno di un contesto di esaltazione del!' eroe: si tratta della celebre trovata della corazza di metallo iudossata da Eastwood durante il duello con Ramon (prelevata quasi sicu­ramente da Fifa e arena, di M. Mattali, 1948).

I frequenti richiami al sistema dei generi non escludono qualche esem­pio di dialogo con la ciuematografia d'autore. Se ci si spinge poi fino a con­siderare C'era una volta il \Vest (1968), si nota come, una volta uscito dalle secche del basso budget, con a disposizione i volti del western classico (Fonda su tutti), Leone non riuunci a mettere a confronto gli attori ameri­cani con attori noti nel circuito nazionale e precedentemente impiegati nel campo del ciuema d'autore (si pensi alla presenza di Claudia Cardiuale e Paolo Stoppa, coppia direttamente prelevata dal Gattopardo ,1scontiano del 1963).

Vi è poi il rapporto con il cosiddetto western di mezzo, quel tipo di pro­duzione collocabile all'iucirca nella prima parte degli anni Cinquanta, iu cui lo scontro diretto tra briganti e giustizieri prende il sopravvento su altre tematiche tradizionali del genere. Le pellicole più affini per situazioni a quelle di Leone sono Notte senza fine (R. Walsh, 1947), Mezzogiorno di fuoco (F. Ziunemann, 1952), Vera Cruz (R. Aldrich, 1954). Inoltre l'eroe eastwoo­diano, iusondabile e privo di apparenti motivazioni, è abbastanza ,1ciuo ai cowboy interpretati da Radolph Scott nei film di Boettiche1; anche se que-

28. Frayling del resto riporta l'opinione di alcuni collaboratori stretti del regista, i quali sostengono una tesi tutt'altro che trascurabilet per quanto poco approfondita e di fatto anche poco dimostrabile: la cifra segreta che orienterebbe la caratterizzazione dei cavalieri solitari leoniani starebbe nell'intuizione-guida di considerare il comportamento dell'eroe western del tutto analogo a quello del trasteverino o del borgataro romano,

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st'ultimo, vedendo alcune pellicole ispirate a Leone, ci teneva a marcare proprio la differenza in termini di consistenza psicologica rispetto ai prota­gonisti dei propri film''·

Nei confronti di tutti questi materiali provenienti da fonti disparate (cinema di genere, cinema d'autore, western di mezzo) il rapporto instau­rato da Leone è disinvolto, quasi irrispettoso. I vari materiali vengono pre­levati da un paradigma ampio e fatti funzionare su una stringa sintagmatica che ne permette in alcuni casi anche un'alterazione radicale. La risorsa viene così reinterpretata in modo libero e non vincolato. Più vincolato, oltre che immensamente più importante nell'economia complessiva dell'intera trilogia, è invece il lavoro di distorsione e riutilizzo dell'immaginario for­diano.

I.: eroe di Ford è spesso un soggetto liminare, qualcuno che condivide alcuni tratti con il proprio nemico. Il prototipo di questo personaggio è, come abbiamo visto, Ethan Edwards in Sentieri selvaggi. Un uomo che si colloca sempre leggermente fuori contesto, ma che agisce risolutamente su questo e, prima di ritornare presumibilmente nel deserto, riporta al mondo civilizzato la nipote, la preda rapita. In Sentieri selvaggi non ci sono guerre sanguinarie, processi di civilizzazione, ma vendette di individui singoli. La grande forma del western è ristretta, eppure rispettata nella contrapposi­zione ordinata degli spazi, nel dispiegarsi di un'azione organica e commen­surata all'ambiente. Anche un film come [}uomo che uccise Liberty Valance ci mostra la definitiva conversione della wilderness in giardino, e lo fa sof­fermandosi su un eroe crepuscolare, che diventa sempre più solo man mano che il selvaggio West si ritira. Eppure la carriera politica e la vita sentimen­tale (pubblico e privato) di Stoddard sono possibili solo a partire dal sacri­ficio e dall'azione di Doniphon, perché è lui l'uomo che, fuori dalla leggen­da, ha sparato a Liberty Valance. Insomma, leroe di Ford non ha un posto fisso, ma ha un ruolo nel futuro che ha contribuito a determinare. Fa parte, suo malgrado, della Storia. Esattamente ciò che non si può dire dei perso­naggi di Leone.

Prendiamo il colonnello Mortimer in Per qualche dollaro in più. Questi è di gran lunga il personaggio più fordiano della trilogia. Egli, come il tenen­te colonnello di Rio Grande (T. Ford, 1950), consetva come unico legame con il passato un carillon; come Doniphon, in [}uomo che uccise Liberty Valance, sa farsi da parte nel momento in cui ha compiuto la sua vendetta; come Ethan, in Sentieri selvaggi, è un ex militare sudista che ha combattu· to la guerra di Secessione; sempre come Ethan, con Scar condivide qualco· sa con il proprio nemico (in questo caso con l'Indio ha in comune persino un flashback, l'ossessione di un ricordo).

29. Frayling, Sergio Leone, cit,, p, 195.

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Eppure questo collage di convocazioni fordiane è un simulacro. Qui è perfettamente '~sibile il processo di falsificazione dell'universo di Ford operante in Leone. Nei film della trilogia, e con Mortimer in particolare, abbiamo sempre di fronte individui completamente privati, tagliati fuori dalla Storia. Essi agiscono in nome di un denaro che una volta ottenuto non viene speso, non hanno un fine definito, né ovviamente una finalità connessa in qualche modo al destino organico di qualche comunità. Essi, in Il buono, il brutto, il cattivo, attraversano la scena della Storia, compa­rendovi brevemente come figuranti, ma muovono verso il congiungimento con un oggetto di valore del tutto disorganico rispetto alle linee di svilup­po di uno dei momenti fondativi della Storia nordamericana. Gli eroi, più che essere inglobati dalla Storia, scivolano accanto ad essa. Mortimer non ha nessuno da portare in alcun posto, o da salvare, nel finale di Per qual­che dollaro in più.

La sensazione di falsificazione dell'originale è rafforzata sul piano filmi­co da una sintassi diventata subito riconoscibile che si richiama, forzandola ulteriormente e in alcuni casi stravolgendola, a quella del western degli anni Cinquanta, a Vera Cruz (per il colore e il taglio dell'inquadratura) e a Mez­zogiorno di fuoco (per il modello di ripresa dal basso); sul piano diegetico dalla ricorrenza insistente del motivo del trucco, della falsificazione, della messa in scena (dalla proliferazione dei falsari, direbbe Deleuze): truccate sono le impiccagioni con cui i protagonisti di Il buono, il bmtto, il cattivo mettono le mani sulle taglie. Truccato il duello finale in Per qualche dollaro tiz più e nel film successivo. Frutto di una messa in scena l'unico evento sto­rico che si incontra in Per un pugno di dollari (la battaglia al fiume tra mili­tari messicani e statunitensi). Falsa è l'esca con cui nello stesso film il pro­tagonista ottiene l'incontro notturno delle famiglie rivali. Arbitrario è il sistema di nomi propri, soprannomi, pseudonimi che i personaggi si danno, come invasivo appare il gusto dei medesimi per il travestimento (Mortimer legge la Bibbia e viene scambiato per un sacerdote, Tuco si benda l'occhio immotivatamente ecc.) e, come abbiamo detto, per leffetto circense della propria performance.

Il massimo di vicinanza apparente al modello rappresentato da Ford per quanto riguarda le componenti semantiche si ha con C'era una volta ti ìVest. Qui a prima vista non c'è più una desertica terra di nessuno, «ma pro­prio l'Arizona ai tempi della nascita di una nazione>>3°. Dovremmo essere di fronte ai requisiti essenziali per poter parlare di Grande Forma Fordiana: un avvenimento connesso con le dinamiche storiche della civilizzazione, sullo sfondo gli scenari naturali della Monument Valley, una situazione ini­ziale che per mezzo di un'azione si modifica in una situazione finale.

30. Garofalo, Tutto il cine1na di Sergio Leone, cit., p. 359.

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In realtà nessun protagonista assomiglia a un personaggio di Ford. Alla fine sono quasi tutti morti e il mondo sembra andare avanti da solo, senza bisogno di sicari disumani, imprenditori biechi ma idealisti, vendicatori ossessionati dal ricordo. Tutto si svolge in nome del passato e si chiude sul­]' orizzonte di esso. Per rimanere ai termini deleuziani, siamo dalle parti della piccola forma: lazione avanza alla cieca e la situazione si svela nel buio o nell'ambiguità. Non c'è più traccia dell'epos fordiano, se non in quella riserva protetta rappresentata dall'uso "epicizzanten della musica proposto da Ennio Morricone.

In questo senso il paesaggio americano è lennesimo falso. Quello spa­zio in realtà è chiuso, non è connesso in modo organico ali' azione del per­sonaggio. Là dove manca tutto ciò che dava vita al western di Ford, Leone realizza il falso convocando i frammenti di quel cinema, gli spazi e i corpi che lo abitavano (si pensi all'utilizzo di Henry Fonda), sottoponendoli a una so1ta di anamorfosi.

È questo il termine che Serge Daney, in una delle sue intuizioni, asso­cia a una definizione non convenzionale del manierismo: cosa sono i manieristi?

Sono coloro che hanno posto la propria firma sul divenire anamorfizzato di ciò che avevano intravisto i moderni. Ma prima di diventare un puro effetto del n1ercato, I"' effetto di firma" in Melville o Leone non risulta del tutto indolore. La firma è come un dettaglio che sostituisce l'insieme che non riesce a ditnenticare. È questo il manierismo31

Quindi manierismo come lavoro di qualcuno che anamorfizza un'inimagi­ne di partenza perfettamente conosciuta. Ci sembra che questa idea del concetto sia preferibile a quella tradizionale della maniera come dinamica di sottomissione erudita a un modello da cui si seleziona il meglio. E di con­seguenza anche alla parafrasi della stessa accezione proposta da Lino Mic­ciché quando parla di Leone nei termini di un «campione senza raffronti di un cinema raffinatamente "alessandrino"»3L.

In conclusione, bisogna aggiungere che il processo anamorfico investe in qualche modo anche la natura riflessiva dello stesso cinema leoniano. Fino dal secondo film della trilogia, Leone non si limita a convocare Ford: convoca anche se stesso nella forma dell'autocitazione. Già quando pensa al seguito di Per 1111 pugno di dollari il regista si trova in mezzo a compagni­rivali (Duccio Tessari, Franco Giraldi, Enzo Barboni, Sergio Corbucci) che

31. S. Daney, Devant la recrudescence des vols de sacs à 1nai11, Aléas, Lyon·199r (trad. it. Cine111a, televisione, infonna:done, Fio, Roma 1999, p. 96).

32. L. Micdché, Presentazione, in A. Prudenzi, S. Tuffetti (a cura di), "Il buono, il brut­to, il cattivo" di Sergio Leone, Quaderni della cineteca- Fondazione Scuola Nazionale di cine­n1a, Roma 2002, p. 7.

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5. ASINCRONISMI II: IL FALSO, LA PRODUZIONE A BASSO COSTO E IL CASO LEONE

si sono lanciati nello sfruttamento del filone. Quindi comincia a pensare a un sistema complesso di ripetizioni/variazioni rispetto a Per 1111 pugno di dollari, cioè rispetto al modello rappresentato da se stesso.

Ma se «Per un pugno di dollari era stato ispirato dalla visione di un film giapponese, Il buono, il brutto, t1 cattivo fu ispirato dalla visione di un film di Sergio Leone>>3'. Già lincipit della pellicola precedente richiamava quel­lo del primo capitolo della trilogial4, L'inquadratura iniziale di Il buono, il bmtto, il cattivo è, in un prin10 momento, identica a quella del secondo epi­sodio: un campo lunghissimo aperto su un paesaggio semidesertico. Ma subito il quadro viene occupato da un volto in primissimo piano. Il repen­tino cambio di scala e di grandezze ha un valore esemplare. Il volto che buca il paesaggio e sfregia la citazione letterale dal secondo episodio fun­ziona come mancata conferma, come segno di un'originalità che si costrui­sce nel doppio movimenta di ripetizione e smentita.

In Cera una volta il West abbiamo esattamente questo duplice mecca­nismo. Da un lato c'è la riproposizione del falso fordiano. Dall'altro un ritorno dello stilema d'autore. Lo sterminio familiare che apre il film è quasi identico a quello posto in apertura di Il buono, il bmtto, il cattivo. La sin­tassi leoniana, intesa come insieme di moduli ritmici, di raccordi sullo sguardo, di gesti rallentati, di inquadrature in profondità di campo, ritorna nella forma del numero isolato, arricchito nella sequenza in cui Claudia Cardinale entra nella taverna dove si svolge il primo incontro tra Cheyenne e Armonica. Un incontro che interrompe una conversazione come una sorta di pausa, di numero da musical di quasi dieci minuti, che sottolinea la pro­pria natura pletorica, la propria funzione di brand ornamentale.

Un elemento nuovo va aggiunto al quadro conclusivo: il cinema di Leone, in una sorta di movimento paradossale attraverso la trilogia, nel momento stesso in cui si serializza, si istituisce quasi come marchio di gene­re a sé, diviene anche oggetto estetico autoriale, sottoposto alla logica della firma e dell'evento singolare.

33. Frayling, Sergio Leone, cit., p. 216. 34. E sarebbe diventato, nella sua riconoscibilità, oggetto di imitazione e parodia, come

avviene in Per qualche dollaro in tneno, il cui inizio si trova analizzato in Menarini, La parodia nel cinetna italiano, cit.

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6

L'autore come personaggio

6.r Il luogo di una presenza:

l'autore come personaggio concettuale nel cinema della modernità

È pratica piuttosto comune e niente affatto ingiustificata che a un'idea dif­fusa di autore come "cosa einpirica", o meglio, come persona fisica, iden­tificabile con un nome e un cognome, storicamente determinata e collo­cata all'interno dei meccanismi produttivi delle varie cinematografie, si contrapponga la nozione più tecnica di soggetto del!' enunciazione, nozio­ne che si riferisce invece a un soggetto astratto, presupposto dal testo e che nel testo è presente in forma quasi fantasmatica, attraverso tracce e indizi indiretti.

Questa contrapposizione si trova almeno in parte indebolita all'inter­no di quelle teorie dell'interpretazione che insistono sulla tendenza quasi istintiva e propria di ogni pratica interpretativa a investire l'oggetto in esame di caratteristiche antropomorfe o para-antropomorfe. David Bordwell, ad esempio, ha sostenuto che la maggior parte dei processi di interpretazione si realizza attraverso l'impiego massiccio di schemi perso­nificanti (person-based schemata), cioè di schemi cognitivi che funzionano in modo simile a quel procedimento linguistico descritto dalla retorica tra­dizionale con il termine di prosopopea: noi tendiamo cognitivamente a investire gli oggetti che abbiamo di fronte (nelle pratiche di interpretazio­ne e lettura, come in altre pratiche dell'esperienza) di tratti personificanti'. In questa prospettiva, che la teoria del cinema o la prassi critica parlino di soggetto empirico, di soggetto del!' enunciazione o di altre istanze non antropomorfe (ad esempio, il concetto di /oyer proposto da Metz)2 non

r. D. Bord\vell, Making Meaning, It1/ere11ce and F.hetoric ùt the Interpretation of Cine1na, Harvard University Press, Cambridge-London 1989.

2, Ch. Metz, J}énondation ùnpersonelle ou le site du fihn, Klincksieck, Paris 1991 (trad. it. I..: enunciazione intpersonale o il luogo del fibn, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995). Per un più ampio panorama sulla questione dell'enunciazione al cinema cfr. anche L, Cuccu,

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L'OMBRA DELL'AUTORE

sposta il problema di molto: tutte le volte che consideriamo entità e nozio­ni come quelle di "stile", "autore", ((enunciatorei', ((macchina da presa" nei termini di soggetti agenti in proprio, stiamo utilizzando schemi perso­nificanti. In altre parole, secondo la teoria cognitivista, si può sfuggire ali' antropomorfizzazione ma non alla personificazione di istanze imperso­nali. Il fatto è indicativo, poiché rispecchia una sorta di tara antropologica insita nel nostro modo di pensare, secondo cui non si riesce a concepire un oggetto comunicativo senza inserirlo in un contesto direttamente o indi­rettamente antropomorfo in cui ci siano dei personaggi.

I teorici della politique des auteurs non nascondevano la loro propen­sione a rintracciare e costruire personalità autoriali, introducendo una sorta di sistema nel!' ambito degli studi sul cinema. Di fatto, come abbiamo visto, la loro lezione comportò l'instaurarsi di un aspetto sistematico della teoria del!' autorialità, conciliabile con le posizioni dell' autor-strutturalismo (autez11cstructuralism) di Geoffrey Nowell-Smith e Peter Wollen', studiosi che mettevano il nome del regista tra virgolette per enfatizzare la loro con­siderazione dell'autore come un costrutto critico) come l'immagine di un individuo intesa essa stessa nel testo, prodotto testuale piuttosto che perso­na reale, biografica, in carne e ossa.

Tra i pensatori del Novecento, Deleuze è forse colui che più si è distin­to per aver minato così fortemente la nozione di soggetto e soggettività. Deleuze precisa, all'inizio dell'Immagine-movimento, che il suo studio «non è una storia del cinema. È una tassonomia, un tentativo di classifica~ zione delle immagini e dei segni»4. La tassonomia deleuziana finisce però inevitabilmente per diventare anche una ricognizione per autori, facendo della nozione di autore un problema a cui Deleuze si àucora, ma che allo stesso tempo rende funzionale, citando uno a uno tutti i personaggi della storia sacra del cinema' e seguendo apparentemente il percorso della sto­ria del cinema autore per autore, da David W. Griffith a Dziga Vertov, da Sergej M. Ejzenstejn a Cari Theodor Dreyer, fino a Orson Welles e Michelangelo Antoniani.

Perché, allora, a fronte della contestazione, precedentemente espressa, della nozione di autore come etichetta di comodo per identificare oggetti che non necessariamente ad esso fanno riferimento (uno stile, un gruppo di testi),

A. Sainati (a cura di), Il discorso del fi!tn: visione, narrazione, enunciazione, Edizioni Scienti­fiche Italiane, Napoli 1987.

3. G, No\vell-Smith, Visconti, Secker & \'{Tarburg, London 1973 (1a ed. 1967); P. \'7ollen, Signs and lvfeaning in the Cine111a, Secker & \\7arburg, London 1972 (1a ed. 1967).

4. G, Deleuze, L'ùJtage-1Jtouven1ent, Les éditions de Minuit, Paris 1983 (trad. it. I.:imtnagine-111ovùJtento, Ubulibri, lvElano 1997, p. n),

5. Sul rilievo delle storie per autori nell'ambito della storiografia cinematografica cfr. M. Lagny, De l'histoire du cinéJna. Méthode historique et histoire du cinétna, Colin, Paris 1992.

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6. L'AUTORE COME PERSONAGGIO

dell'uso strnmentale di un nome che ha mera funzione di indice6, questo rife­rimento a un libro organizzato proprio secondo il principio degli autori?

Perché Deleuze non pensa ali' autore come ali' agente che causa, che ori­gina l'opera, bensl come a un effetto delle forme testuali stesse. Si evidenzia pertanto un'idea di autore che non si identifica con colui che pre-esiste all'opera e di cui il film (o l'opera d'arte in generale) sarebbe espressione. Quello che emerge è, al contrario, un autore che - in analogia con nna con­cezione generale del soggetto come una funzione, «O un reticolo di funzio­ni, uno spazio funzionale del vissuto, che riferisce il vissuto [, . .J»7 -è proie­zione dei mondi dell'opera, effetto dei blocchi spazio-temporali che la com­pongono: l'autore è ciò che nviene dopo".

Ciò detto, è allora possibile operare una ricostituzione a posteriori che individua tratti salienti che identificano, a loro volta, precise prassi autoria­li. Eric von Stroheini, ad esempio, è autore-scopritore di mondi originari che impongono agli ambienti un movimento entropico e discendente e la cui creazione può apparire sotto le forme più diverse, naturali o artificiali.

Ford, a sua volta, è caratterizzato dalla presenza «di momenti collettivi intensi (matrimonio, festa, danze e canzoni), la presenza costante del lande l'immanenza del cielo»8, mentre Antoniani «sembra andare sino al limite di tale concezione geometrica del quadro che preesiste a quanto viene a inscri­versi in esso»', egli è lautore del piano vuoto e disabitato, degli spazi vuoti. Ma l'autore che qui più ci interessa, e di cui ci occuperemo più approfon­ditamente tra breve, è probabilmente Alfred Hitchcock, per il quale ciò che conta «non è lautore dell'azione, quello che Hitchcock chiama con di­sprezzo il whodzmit («chi l'ha compiuto?»), e nemmeno l'azione stessa: è l'insieme delle relazioni in cui sono presi l'azione e il suo autore»'°. Hitch­cock è la forma della relazione, colui che meglio di chiunque altro ha sapu­to concepire la costituzione del film non semplicemente in funzione di due termini (regista e film), «ma in funzione di tre termini, il regista, il film e il pubblico che deve entrare nel film, o le cui reazioni devono far parte inte­grante del film (tale è il senso esplicito della suspense, poiché lo spettatore è il prin10 a "sapere" le relazioni)»u, la forma-relazione.

6. La questione è affrontata nel mio Il paradosso dell'autore. Il discorso sul cine111a nella Francia degli anni \Tenti, in Franceschetti, Quaresima (a cura di), Prùna dell'autore, Atti del III convegno internazionale di studi sul cinev1a, Forum, Udine I997, ora in G. Pescatore, Il nar­rativo e il sensibile. Se11liotica e teoria del cinen1a, Hybris, Bologna 2001.

7. A. Badiou, Deleuze. "La clat11eur de l'Eire'', Hachette Littératures, Paris 1997 (trad. it. Deleuze. "Il clatnore dell'Essere'', Einaudi, Torino 2004, p. 93).

8. Deleuze, Uùnage-111ouvetne11t, cit., trad. it. p. 172. Cfr. anche l'analisi di Sentieri selvaggi presentata infra, CAP. 4.

9. Deleuze, I:itnage-mouvetnent, cit., trad. it. p. 26. Io. Ivi, trad. it. p. 228.

II. Ivi, trad. it. p. 230.

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L'OMBRA DELL'AUTORE

I;autore dipende quindi evidentemente da tracce testuali, ma pone in gioco anche il complesso universo di ciò che sta dietro al testo. A proposi­to del pensiero filosofico, Deleuze ha un'idea estremamente articolata e che riguarda quelli che egli chiama "personaggi concettuali", personaggi cioè che nel corso della storia del pensiero hanno espresso o esprimono momenti di innovazione particolarmente significativi". Inteso in questo senso, ad esempio, il cogito cartesiano sarebbe, per Deleuze, un personag­gio concettuale.

Se quindi, in termini generali di posta in gioco filosofica, il punto è di capire come venga prodotto il senso e al contempo di rispondere a questa domanda pensando il pensiero (e l'identità del pensiero e dell'Essere) al di fuori della categoria del Soggetto, sul piano più specifico che ci interessa in questa sede la domanda da porsi allora potrebbe essere non più «che cos'è che popola il fuori impersonale e vi compone delle forme?»'\ ma «come accade (al cinema e non solo) che qualcosa di nuovo si manifesti, che si interrompa il legame di concatenazione causale e si dia il nuovo?».

Il ragionamento per autore è un modo, piuttosto esauriente, per rispon­dere a questa domanda: ci sono autori che introducono momenti di inno­vazione, i quali a loro volta costruiscono l'ontologia del nuovo. Una solu­zione efficace, ma che non sfugge alle tare della logica autoriale: l'innova­zione è ancora il frutto del gesto prometeico di un'istanza più o meno per­sonalizzata a cui viene delegato lagire in direzione del nuovo. Si tratta dun­que di uno spostamento del problema, che pone lorigine del mutamento in un atto individuato e spesso individuale. La risposta di Deleuze è solo in apparenza assimilabile al ragionamento per autore, ponendosi in realtà come un capovolgimento della stessa. Per il filosofo francese il nuovo è con­sustanziale all' esternità impersonale della durata e alla sua natura divi duale. In questo senso è possibile parlare di un'ontologia della differenza o, senza variare la questione, di un'ontologia del nuovo. E dunque non c'è più biso­gno di un gesto originante: lautore corrisponde sì a un'esigenza di antro­pomorfizzazione, ma si pone come deissi di un altrove delle forme che lo precede o tuttalpiù come scopritore (piuttosto che inventore) di quelle stes­se forme. In questo lautore è accomunabile al filosofo: entrambi sono per­sonaggi, pur se in un ambito diverso:

La differenza tra i personaggi concettuali e le figure estetiche consiste anzitutto nel fatto che gli uni sono potenze di concetti, mentre le altre sono potenze di affetti e di percetti. [ .. .] Le grandi figure estetiche del pensiero e del romanzo, ma anche della pittura, della scultura e della 1nusica, producono degli effetti che eccedono le

12. G. Deleuze, F. Guattari, Qu'est-ce que la philosophie?, Les éditions de :rvlinuit, Paris 1991 (trad. it. Che cos'è la filosofia, Einaudi, Torino 1996).

13. Badiou, Deleuze, cit., trad. it. p. 99.

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6. L'AUTORE COME PERSONAGGIO

affezioni e percezioni ordinarie, così come i concetti olttepassano le opinioni cor­renti14.

Potremmo parlare, in questa accezione, di "personaggi-concetti", ciascuno dei quali è identificabile con un momento cli rinnovamento nella storia del pensiero, con un'idea chiave che modifica il quadro concettuale e interpre­tativo di riferimento:

Può darsi che il personaggio concettuale non si riveli che alquanto di rado, o per allusione. Ciononostante è presente e, anche se innominato o sottetraneo, deve sempre essere ricosttuito dal lettore. Talvolta, quando compare, ha un nome pro­prio: Socrate è il principale personaggio concettuale del platonismo15.

Su questo campo sembra allora giocarsi la partita con l'idea cli autore, enti­tà che può nascondersi o rivelarsi, ma che deve sempre e comunque essere riconosciuta dal fruitore, poiché è con lui che si costruisce il teneno per la cooperazione e la negoziazione cli cui lattività spettatoriale necessita. Parlare di personaggio concettuale è perciò cosa ben diversa dal parlare di soggetto. Il personaggio concettuale non è il luogo del compimento del senso, ma è ancora un enunciabile, è una forma dell'immagine-movimento che ancora si può perfezionare.

Sebbene Deleuze non lo elica espressamente, l'impressione che se ne trae è dunque che il trattamento che egli fa degli autori cinematografici sia assimilabile a quello riservato ai filosofi: a Deleuze non importa cioè il ragio­namento dell'autore, non gli interessa latto cli garanzia che è dato dalla pre­senza di un soggetto dietro a un testo, né tanto meno l'identificazione del responsabile dei valori e delle norme culturali nascosto dietro le quinte; gli interessa piuttosto utilizzare il nome dell'autore per individuare dei perso­naggi. I: autore è l'effetto dell'opera, e pertanto anche dei mondi che l'ope­ra istituisce: i mondi che lopera istituisce si rapportano con lautore - cosl come i temi, i "mondi tematici" che il testo fonda - solo in quanto effetti:

Se esiste una linea tematica che unisce Pascal-Kierkegaard-Dreyer-Bresson-Rohmer questa linea non si trova in una qualche "anteriorità", in una sorta di unità temati­co-psicologica fra autore e tradizione di pensiero, ma deve essere costruita dopo, dalla riflessione teorico-critica che presenta un concetto (ad esempio quello di spa­zio qualsiasi) per pensare un principio compositivo (la frammentazione dello spa­zio) che sviluppa un tema (la scelta) lo attribuisce a un autore (Bresson) e lo associa a un filosofo (Pascal)'6•

14. Deleuze, Guattari, Qu' est-ce que la philosophie?, cit., trad. it. p. 55. 15. Ivi, trad. it. p. 52. 16, R. De Gaetano, Il d11e111a secondo Gilles Deleuze, Bulzoni, Roma 1996, p. 63.

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L'OMBRA DELL'AUTORE

È necessario ora un passo ulteriore: se i personaggi concettuali riguardano la storia dei concetti, delle idee, cioè lorganizzazione del pensiero, ciò con cui abbiamo a che fare, nel cinema è piuttosto lorganizzazione della perce­zione ad acquisire rilevanza. Deleuze si occupa a lungo dei modi in cui si manifesta una nuova percezione, ·il nuovo del percetto, o un nuovo percet­to. Che differenza c'è fra percetto e percezione? La percezione dipende strettamente dal soggetto, di conseguenza in assenza del soggetto non può darsi percezione. Il percetto invece, secondo Deleuze, è la percezione svin­colata dal soggetto, I' oggetth~zzazione della percezione, la percezione che si fa oggetto e prescinde dal soggetto percepiente.

A cosa somiglia questa percezione che non ha bisogno dell'oggetto? In cosa potremmo individuare delle percezioni che esistono anche senza soggetto percettore? Intuitivamente, proprio nei film. Anche se chiudia­mo gli occhi al cinema, le immagini continuano a scorrere: la nostra per­cezione si interrompe, mentre il percetto continua a darsi. Sulla scorta di questo ragionamento, allora, si potrebbe parlare per il cinema di perso­naggi-percettuali, considerando in tale accezione gli autori che Deleuze prende in esame. Ricorrere al concetto di autore non fa che riportare l'oggetto-testo - che è un'occorrenza specifica - all'interno di nn conte­sto virtuale e generale - cioè!' autore - che è la fonte in potenza di quel­la singola occorrenza testuale. Dal lato della tradizione cinematografica, l'autore viene considerato con1e garante: cioè si postula una relazione ermeneutica in cui l'autore è una sorta di "deposito" di tipo cognitivo, ma anche un deposito di competenze, di saper fare. Si dà una totalità che parzialmente si incarna nei vari testi, per cui si rende possibile fare un' o­perazione a posteriori, partendo cioè dai vari testi e ricostruendo questo contenitore di manifestazioni che è l'autore. Se dunque attraverso Deleuze riusciamo a intravedere un modo diverso di porre la questione dell'autore, in grado di liberarci, almeno in parte, dalle aporie insite nella trattazione che tradizionahnente ne ha dato la teoria del cinema (e in un certo senso anche la teoria del!' enunciazione), rimane comunque un pro­blema aperto relativo alla presenza, particolarmente significativa nelle forme postmoderne della produzione cinematografica, del!' autore come marchio, come brand commerciale che qualifica e definisce il prodotto. Assistiamo in questi casi a un doppio movimento, apparentemente anti­tetico: se da un lato l'autore appare come pronominalizzazione del movi­mento delle forme, dal!' altro si manifesta come presenza più o meno esplicita e incombente inscritta nell'universo della rappresentazione, che è sempre più difficile far coincidere con i limiti angusti del testo. Un per­sonaggio concettuale, o meglio percettuale, nella logica deleuziana, ma anche un autore-mondo, figurante e feticcio che si pone narcisisticamen­te al centro di una testualità diffusa.

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6. L'AUTORE COME PERSONAGGIO

Affronterò più avanti questa modalità di costruzione del!' autore, tutta­via è interessante notare che la contraddizione è solo apparente: il movi­mento che porta l'autore ad abitare come presenza e come marchio l'uni­verso testuale è in realtà il prolungamento deviato del movimento che lo costruisce come forma pronominale del divenire delle forme. Un autore che si dà in una funzione di tipo intertestuale e/o paratestuale e che pare appar­tenere più al polo dell'enunciato che al polo dell'euunciazione, attore in senso semiotico (ma anche secondo il senso comune) di questa forma di testualità diHusa. Una figura d'autore che sembra emergere nel cinema con­temporaneo, ma che tuttavia ha una storia e forse anche un inizio che mi sembra di poter rinvenire nel cinema di Hitchcock, o meglio, che trova in Hitchcock il personaggio che le apre la strada.

6.2 Uno sguardo retrospettivo: Hitchcock nel bicchiere

Il cinema di Hitchcock è stato per anni uno degli oggetti privilegiati da que­gli studiosi che si sono dedicati ali' analisi del fihn, a partire da metodologie e punti di vista spesso assai diHerenti. Si può dire anzi che alcuni film hitch­cockiani siano stati un vero e proprio banco di prova per approcci analitici che si ponevano come obiettivo delle risultanze teoriche ben più ampie di quelle relative al singolo film'7. Che senso ha allora riproporre oggi un'en­nesima analisi di un film di Hitchcock? Intanto vale la pena notare che il film di cui intendo occuparmi, Il sospetto (1941), non ha mai goduto di una grande popolarità tra gli interpreti e gli analisti che si sono dedicati al cine­ma del regista inglese. Un film un po' negletto dalla critica, dunque, che però è assai indicativo di una mÒdalità, specificamente hitchcockiana, con cui il testo, oltre a costruire una narrazione, oltre a negoziare una relazione con lo spettatore, si dà anche come rappresentazione implicita di un auto­re e di una "relazione d'autore" proposta allo spettatore. E questo è il secondo motivo per ritornare su un'analisi hitchcockiana: le analisi fin qui proposte, pur nella diHerenza del metodo e dei risultati, davano tutte l'au­tore con1e presupposto, magari implicito, necessario all'analisi, con cui con­frontare la coerenza stilistica, cognitiva, narrativa del testo. Un logos dietro il testo insomma, rispetto al quale commisurare l'efficacia analitica. Vorrei qui procedere in senso inverso, mos.trare cioè come sia il testo a costruire una rappresentazione d'autore e a chiedere allo spettatore di relazionarsi ad essa. Questa non è ovviamente l'unica modalità di presenza del discorso d'autore nel fihn e nel cinema hitchcockiano: se Hitchcock è apparso come

17. Cfr. su tutti R Bellour, I.:analyse du filtn, Albatros, Paris 1979 (trad. it. ];analisi del fibn, Kaplan, Torino 2005), testo quanto mai influente nella stagione teorica degli anni Ottanta e che trova in Hitchcock il suo oggetto privilegiato.

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autore presupposto, necessario ai propri testi, ciò è avvenuto perché nella definizione di un autore giocano elementi di tradizione culturale, interpre­tativa, di gusto e di prassi produttiva che non sono immediatamente rinve­nibili nei testi. La nozione di autore è dunque un po' come una cipolla, a strati. Qui vorrei occuparmi del nucleo più nascosto, quello testuale.

Partirò da un'analisi tutto sommato tradizionale: una ricostruzione del­l'aspetto enunciato del testo. In un secondo momento, però, cercherò di slit­tare verso qualcosa di più complesso, di più profondo: la questione dell' au­tore, o meglio, una modalità del suo divenire. Proverò cioè a mostrare come all'interno di questo film si venga "costruendo" un'idea - molto peculiare -di autore. Nel Sospetto, Hitchcock, con straordinaria intuizione anticipatri­ce, lavora su una modalità di esistenza dell'autore, su una linea di apparizio­ne della sua immagine, che ha a che fare con un'estetica del marchio, del brand, precorrendo appunto dinamiche che diverranno assolutamente signi­fìcative nel cinema contemporaneo (si pensi all'autorialità intesa in termini di "riconoscibilità di etichetta" in registi come Pedro Almod6var o Quentin Tarantino). D'altra parte il divenire dell'autore si intreccia inestricabilmente in Hitchcock con una tendenza narcisista che certamente riguarda, come tutti i suoi interpreti hanno riconosciuto, una so1ta di "narcisismo stilistico" fondato, soprattutto nell'ultimo periodo, su un disoccultamento dell'istanza enunciante in contrapposizione con i canoni della rappresentazione classica. Tuttavia, cosa forse più importante, questa tendenza narcisista si esplicita nella formalizzazione del rapporto autore-spettatore e nella costruzione di un regista demiurgo: personificazione del potere registico da un lato, spetta­torializzazione del personaggio dall'altro''· Potere dello sguardo-autore e insopprimibile minaccia di impotenza di fronte ali' oggettività della macchi­na da presa che rimanda a una consistenza del Reale residuale e sottratta alla messa in forma registica'9. Il sospetto, proprio perché rinuncia alle forme del­!' esibizionismo più diretto (e questa è forse una delle ragioni della scarsa con­siderazione critica), appare particolarmente adatto a mostrare questa ten­denza profonda, che va ben al di là della pura forma stilistica.

La prima sequenza del film, come spesso accade in Hitchcock, ha un valore esemplare. Il contatto tra Lina (foan Fontanine) e Johnnie (Ca1y

18. Questa duplicità è an1piamente indagata nel volume di \V/. Rothman, The Murderous Gaze, Harvard University Press, Cambridge-London 1982, Rothman propone un quadro interpretativo in cui il potere registico si confronta con il riconoscimento spettatoriale del­l'autore del mondo rappresentato, definendo la dialettica dell'autorialità hitchcockiana in maniera non dissimile da quanto si vorrebbe proporre qui, sia pure con metodi e intenti diversi.

19. Cfr. a questo proposito la lettura degli Uccelli proposta da S. ZiZek, Looking Aw1y: An Introduction lo Jacques Lacan through Popular Culture, ;-..rrr Press, Can1bridge 1991, pp. 104-6. Più in generale, cfr. anche Id. (ed.), Everythùzg You alzvays Wanted lo Knozv about Lacan (but \Vere A/raid lo Ask Hitchcock), Verso, London 1992.

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6. L'AUTORE COME PERSONAGGIO

Grant) avviene su un treno che sta attraversando una galleria, in uno scom­partimento di prima classe. Al buio. È un particolare non privo di finezza: prima che la visibilità del mondo si dia al nostro sguardo, con tutte le sue trappole percettive, per qualche secondo assistiamo a un incontro che avviene nella più assoluta oscurità. Il ritorno della luce porta chiarezza solo sul gioco degli equivoci, degli errori di giudizio, delle credenze e dei saperi più transitori. Lina assiste a uno spettacolo poco edificante, probabilmente considera infantile il tentativo diJohnnie di non pagare il biglietto (assenza di responsabilità e infantilismo saranno tratti continuamente associati al carattere del personaggio maschile nel corso del film). Lui non sembra curarsi troppo del!' occhialuta figura femminile che gli siede in fronte.

La seconda sequenza ci presenta il termine di una battuta di caccia in cuiJohnnie rivede Lina in tutt'altra luce, nota il suo sorriso e si stupisce che si tratti della stessa persona incontrata in treno pochi giorni prima. Questa seconda unità testuale è eccentrica rispetto all'economia narrativa comples­siva perché è praticamente l'unico momento (assieme alla sequenza del primo tentativo di seduzione da parte diJohnnie e al breve assolo di que­st'ultimo verso il ritratto del defunto padre di Lina, nella sequenza della let­tura del testamento) in cui il racconto non è focalizzato sulla protagonista femminile. Qui è centrale il cambiamento di stato del credere di J ohnnie. I;universo di credenze del personaggio maschile cambia, e da questo momento rimane pressoché invariato, mentre quello del personaggio fem­minile sostanzierà delle proprie modificazioni tutta la storia.

Ma ritorniamo all'incipit. La prima sequenza introduce i due personag­gi principali, e ci dà subito almeno tre indicazioni fondamentali'0

:

I. I due personaggi si differenziano in maniera sostanziale: quello maschi­le viene subito caratterizzato secondo il fare, come soggetto di un'azione portata avanti in maniera apparentemente irriflessiva (scoperto dal control­lore ferroviario sprovvisto di biglietto, Johnnie trova una soluzione imme­diata al problema, secondo le modalità di un "fare awenturoso"). Quello femminile, invece, è caratterizzato sul piano cognitivo, è cioè un soggetto secondo il sapere (Lina è sorpresa mentre legge un libro di psicologia). Anche nel seguito del film il personaggio diJohnnie sarà caratterizzato per ciò che fa (una serie di azioni sconsiderate, e persino irresponsabili), men­tre quello femminile sarà caratterizzato per ciò che sa, o crede di sapere, o non vuole sapere. 2. Il personaggio femminile è connotato da una caratteristica di tutto rilie­vo: un problema di visione. O per meglio dire, noi sappiamo che ha un pro­blema di visione ma capire quale esso sia innesca un piccolo enigma "ocu-

20. Sulla complessa relazione che si instaura rispetto all'intrecciarsi tra titoli di testa e incipit nei film di Hitchcock cfr. anche M. Tortajada, Le fibn architecturé, in V. Innocenti, V. Re (a cura di), Lùnina. Le soglie del fi!t!l, Forum, Udine 2004, pp. 375-83.

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listico". In linea con un film affastellato di biglietti, cartelli, lettere, inserti scritti (ripresi in dettaglio) da leggere e decifrare, Lina porta occhiali da let­tura in più di un'occasione, a cominciare proprio dalla pritna sequenza. Successivamente, la vediamo sfrecciare alla gwda di un'auto, a tutta veloci­tà e senza occhiali, verso il luogo di un delitto solo immaginato. Ma la vedia­mo anche scrivere (e leggere) la lettera di addio al marito senza fare uso di protesi oculistiche. Il difetto percettivo di Lina è intermittente. O quanto meno, non c'è bisogno di condividere l'idea di Paul Duncan - secondo il quale Il sospetto mette in scena una storia di gente che non può fare a meno di farsi del male (a cominciare da Lina, incapace di credere che qualcuno sano di mente possa amarla)" - per accorgersi che gli occhiali sono una forma di occultamento, di maschera sociale, e al contempo la spia di qual­cosa di più profondo e sintomatico. Quale che sia il suo disturbo visivo, il personaggio non ha una visione chiara: non sempre riesce a inquadrare le cose nella giusta prospettiva, in senso proprio e in senso figurato. Motivo ricorrente in Hitchcock, la riflessione sul rapporto tra il piano dell' atth~tà scopica e quello dell'attività cognitiva, si sostanzia in questo film in una di­scrasia tra vedere e sapere, piani tra i quali c'è un'essenziale non-omologia. 3. Un ulteriore elemento che si evince dall'incipit e che è centrale. nel film, è il problema della duplicità del giudizio, che a sua volta è connesso stret­tamente al problema della duplicità dello sguardo: il giudizio è legato al vedere, ma esistono una lucidità dello sguardo e un giudizio incerto. Lina confronta l'immagine cheJohnnie dà di sé nello scompartimento del treno con l'immagine del gentiluomo che vede riprodotta sulla rh~sta di gossip cittadini tenuta nascosta nel libro di psicologia, e si pone da subito una domanda: chi è l'uomo di fronte a me? Il cialtl'one che si è fatto prestare i soldi in treno o laristocratico signore ritratto nella rivista? Si afferma imme­diatamente una duplicità di giudizio che ha a che fare col giudizio episte­mico (il credere essere/il credere non essere).

Proviamo allora a individuare uno schema basilare di relazioni fra vede­re e sapere, partendo da un soggetto narrativo modalizzato secondo il /poter-vedere/.

poter vedere Libertà della visione poter non vedere

non poter non vedere Controllo dello sguardo non poter vedere

21. P. Duncan, Tutti i/t7n1 diAl/red Hitchcock, Lindau, Torino 2oor.

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6. L'AUTORE COME PERSONAGGIO

Sulla parte alta dello schema, /poter vedere/ e /poter non vedere/ pertengo· no alla sfera della libertà della visione. Si è però detto che esiste una smta di impedimento, poiché il personaggio femminile è caratterizzato da difficoltà percettive. l:impedimento al vedere è marcato esattamente dal /non poter non vedere/ e dal /non poter vedere/: non c'è più libertà (della visione) ma si costituisce uno sguardo controllato e indirizzato secondo i modi della costrizione (non poter non vedere) o dell'impossibilità (non poter vedere).

In realtà il film mette in scena un cambiamento, il passaggio da un ter· mine complesso (libertà della visione) a uno neutro (controllo dello sguar· do). Partiamo apparentemente con un'ipotesi di libertà dello sguardo, ma con il procedere del film le cose si complicano e mutano: predominano il /non poter non vedere/ e il /non poter vedere/. Alcune situazioni, infatti, si inscrivono all'interno di uno di questi due termini. Si pensi, da un lato, al fatto che agli occhi della protagonista si impongono particolari ineludibili e gli indizi sfilano in una sorta di catalogo dei segni della colpevolezza: le sedie d'antiquariato in bella mostra nella vetrina del negozio del paese (la colpa è ancora la menzogna), l'interesse di Johnnie per il veleno che non lascia alcuna traccia nel sangue della vittima, il libro giallo, in grado di for· nire uno schema del delitto perfetto, trovato nella cassettiera del marito (la colpa è diventata la premeditazione dell'omicidio). Si tratta di elementi che non possono sfuggire allo sguardo e alla considerazione della protagonista.

Ma si pensi, dall'altro lato, alla presenza di "buchi" percettivi, di assen· ze significative, di piccole reticenze. Nella sequenza di seduzione in cui Johnnie convince Lina a non recarsi a messa, una forte discontinuità per­cettiva marca il passaggio dalla soglia della chiesa, a un campo lunghissimo dei protagonisti sul!' orlo di una collina. Qualcosa ci è stato sottratto alla visione tramite un'ellissi meccanica leggermente più ampia della norma e marcata da una sorta di raccordo sullo sguardo mancato: le amiche di Lina guardano in direzione della coppia che però è letteralmente sparita. Il ere· scendo musicale sottolinea la possibilità del pericolo, fuori campo proba· bilmente è avvenuto un tentativo di bacio, interpretato dalla protagonista come W1 gesto comunque pericoloso, forse come un 'tentativo di omicidio. Dunque, qualcosa che noi non abbiamo visto, viene letto, da chi sulla scena lo ha visto e vissuto, in modo erroneo. Ancora, quando Lina si convince de]. l'intenzione di Johnnie di assassinare Beaky, letteralmente "vede" l'amici· dio, se lo immagina nei minimi dettagli. Questa visione sarà smentita poco dopo, ma le circostanze della reale morte di Beaky rimarranno inaccessibi­li allo sguardo (dov'è il corpo? Chi era realmente presente a Parigi?).

Oltre alla questione del vedere, si pone una questione più strettamente legata alla duplicità del giudizio epistemico, secondo lopposizione «credo che sia un gentiluomo/ credo che sia un avventuriero». Si innesca così, da subito, un fare interpretativo: bisogna sapere.

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poter vedere voler non sapere

non poter non vedere voler sapere

L'OMBRA DELL'AUTORE

Libertà (della visione)

Co11trollo (dello sguardo)

poter non vedere non voler sapere

non poter vedere non voler non sapere

In corrispondenza del /poter vedere/ e del /poter non vedere/, vengono posti i termioi negativi del sapere: /voler non sapere/, cioè rifiutarsi di sape­re, e /non voler sapere/ che equivale ad un atteggiamento di iodifferenza. C'è, soprattutto nelle prime sequenze del film, un'idea di trasparenza: nel momento io cui si è liberi di vedere, non si ha alcuna necessità di sapere, il rifiuto di sapere è conseguenza del fatto che vedere è di per sé sufficiente. D'altro canto, la possibilità di non vedere (che si dà quando il soggetto deci­de deliberatamente di non vedere), diviene il presupposto per la scelta di non sapere. In qualche modo, la libertà dello sguardo coiocide con la non­volontà, con il rifiuto di sapere. È esattamente l'idea di trasparenza come conoscenza immediata: non è ioteressante sapere poiché è sufficiente guar­dare. Il personaggio femmioile all'ioizio si pone proprio su questo asse: Lioa crede a ciò che vede, all'immediatezza dei dati d'esperienza -1' avve­nenza e la determioazione del suo corteggiatore, il viaggio di nozze, la nuova abitazione, l'immagine da gentiluomo del consorte - uniche cose su cui lo sguardo di Lioa iodugia. Fioché il vedere è trasparente, fioché si dà la possibilità di orientare liberamente lo sguardo, non è necessario sapere. Da subito, però, sorgono dei problemi. Si tratta di problemi di giudizio, di natura epistemica, che alimentano il dubbio sul!' altro, il sospetto che laltro non sia veramente colui che si crede. La visione trasparente diventa allora sguardo orientato dalla necessità dell'ioterpretazione, sguardo opaco io quanto non attioge più all'immediatezza del mondo e della passione. Se lo sguardo diventa strumento cognitivo, di ioterpretazione, allora è a rischio d'errore e il dubbio offnsca la visione. Ma è importante notare che sia la tra­sparenza della visione, sia lopacità dello sguardo si fondano entrambi su una profonda discrasia tra sapere e vedere. Il vedere non equivale mai al sapere: la trasparenza non è affatto il risultato di un'efficacia cognitiva della visione, quanto piuttosto di un'iodifferenza, di un'esclusione del sapere, mentre lopacità è il risultato di una volontà di sapere rispetto a cui lo sguar­do appare parziale o ioefficace.

Il /non poter non vedere/ struttura la logica dell'iodizio, della cosa che non si può fare a meno di notare, come il comportamento ambiguo del marito. La modellizzazione /voler sapere/ si sostanzia nei momenti io cui il dubbio spioge la protagonista verso laccumulazione di prove iocrimioanti:

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la testimonianza del datore di lavoro diJohnnie sul licenziamento o il reso­conto degli agenti di polizia sulla morte di Beaky. Il /non poter vedere/ informa invece la logica della reticenza, delle ellissi, delle parti mancanti. Poiché il film è quasi interamente focalizzato su Lina (con l'eccezione dei segmenti di cui abbiamo detto in precedenza) i vuoti percettivi e narrativi corrispondono a un /non voler non sapere/ che si declina nella forma di un rifiuto: ad esempio, «non voglio essere ignara di cosa accade quando mio marito si allontana con Beaky>>. Si tratta dunque di forme di competenza modale che nel procedere del testo finiscono con il determinare progressi­vamente lagire di Lina.

Ma c'è un altro livello da considerare, si tratta del livello della manipo­lazione, che riguarda il personaggio maschile, soggetto di un fare ma anche di un /far fare/ (e pertanto soggetto propriamente manipolatore). Johnnie, lo abbiamo visto, si caratterizza in questo modo fin dall'incipit, quando in pochi minuti trova un escamotage per pagare il biglietto del treno, no­nostante sia al verde. Il seguito del film ci mostra che non c'è solo una mani­polazione, ma anche una "contromanipolazione". In altri termini, in Il sospetto, è rappresentato un altro attante, una so1ta di "antimanipolatore". Pensiamo alle convenzioni sociali, allo scandalo di un matrimonio non volu­to da parte della famiglia della sposa, alla figura del padre di Lina. Non a caso, uno dei momenti in cuiJoan Fontaine non è presente sulla scena e la narrazione abbandona la focalizzazione interna su di lei, è quando il marito parla al ritratto del padre di Lina, si confronta con lui che, essendo morto, ha già perso la sfida (benché le dinamiche testamentarie e la frase pronun­ciata daJohnnie sembrino suggerire il contrario).

La contrapposizione è evidente. Se, da un lato, da parte di Johnnie, la manipolazione si attua sul piano della seduzione, della tentazione, dall'altro, la contromanipolazione, la norma sociale, agisce su un altro livello, quello della provocazione e dell'intimidazione. Mentre la manipolazione del per­sonaggio maschile consiste nel rendersi desiderabile, affascinante, e quindi si fonda sul potere, la contromanipolazione agisce sul dovere, sul vincolo sociale, sull'etichetta. Si tratta di un aspetto assai presente a vari livelli nel testo, del quale lo stesso Hitchcock era consapevole e dal quale era infasti­dito, alla pari della maggior parte della critica di lingua inglese: Il sospetto propone una rappresentazione della norma sociale al limite del folclore, offre un'immagine dell'Inghilterra corrispondente allo stereotipo diffuso nella percezione del pubblico americano, con i riti della caccia, i salotti ele­ganti, le scalinate monumentali e le camere da letto di lusso". Tuttavia que­sta eccessiva caratterizzazione della norma sociale è sicuramente funzionale alla logica narrativa che organizza il testo.

22. «Gli elementi che costituiscono un film di questo genere non mi sono mai piaciuti, i salotti eleganti, le scale sontuose, le camere da letto di lusso ecc. Ci siamo trovati di fronte allo

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La progressione narrativa produce quindi due ordini di spostamento. Man mano che in Lina si insinua il dubbio sul marito, e man mano che tale dubbio si fa sempre più assillante, si concretizza il passaggio da un'idea di trasparenza a un'idea di opacità, che polta con sé alternativan1ente il rifiu­to di sapere e l'impossibilità di non sapere. Contemporaneamente, un'altra progressione sviluppa un contrasto tra un percorso di seduzione e uno di contromanipolazione secondo il dovere. Da una parte, la fascinazione che corrisponde a un certo tipo di giudizio epistemico: lazione corrisponde a un /far fare/, o meglio, a un /far voler fare/ diJohnnie su Lina (seduzione, tentazione delle passioni, immediatezza emotiva); dall'altra, la contromani­polazione, il richiamo ai doveri, agli obblighi e alle responsabilità di una vita adulta, cioè i tentativi di costruire il soggetto secondo il dovere. Ovviamen­te, a ciò corrispondono due destinanti diversi della manipolazione: da un lato Johnnie, destinante di una manipolazione secondo il volere, dall'altro il Generale (padre di Lina) che in qualche modo incarna l'istituzione sociale, destinante della manipolazione secondo il dovere.

La cosa su cui vale la pena insistere, e che organizza in un certo senso tutto il film, è che nel momento in cui ci si sposta (si tratta di un percorso sintagmatico di natura processuale) dal termine complesso (lato della tra­sparenza, dell'immediatezza) al termine neutro (lato dell'opacità dello sguardo e della conseguente volontà di sapere), si ha, da un lato, una posi­zione cognitiva corrispondente al /non poter non vedere/ e al /voler sape­re/ (voglio sapete cosa accade, voglio sapere cosa c'è sotto). Ad essa corri­sponde un fare propriamente interpretativo. Dall'altro, l'impossibilità di accesso a una visione autoevidente delle cose, le ellissi del film, gli sguardi mancati, che rimandano a un non ignorare, non voler rimanere senza acces­so al sapere, corrispondono a un fare indagativo (una posizione modale cor­rispondente all'indagine, al cercare l'elemento mancante, ciò che è stato assorbito dall'ellissi). Il fare interpretativo e ilfare indagativo costituiscono un soggetto osservatore. Il fatto che il personaggio femminile venga costi­tuito come osse1vatore motiva in maniera forte la relazione che esiste fra la posizione della macchina da presa e Lina. La quasi sovrnpponibilità spazia­le tra visione della macchina da presa, visione spettatoriale e visione del per­sonaggio, si giustifica in termini di omologia di ruoli: losservatore/Lina - la macchina da presa - lo spettatore. Quanto allo statuto epistemico dell' og-

stesso problema di Rebecca, lll1 ambiente inglese ricostruito in America» (F. Truffaut, Le ciné­!lta selon Hitchcock, Laffont, Paris 1966, trad. it. Il cine1J1a secondo Hitchcock, Pratiche, Parma r977, p. u8).

Nella sterminata letteratura critica hitchcockiana, Il sospetto è llllO dei fùm meno analiz­zati. Esemplare dell'atteggiamento poco entusiasta della critica di lingua inglese è la posizio­ne di R Durgnat, The Strange Case of Alfred Hitchcock, Faber, London 1974. In Italia cfr. G. Gosetti, Alfred H1~chcock, Il Castoro, :rvlilano r996.

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6. L'AUTORE COME PERSONAGGIO

getto di valore, esso riguarda una biforcazione tra il I credere essere/ e il I credere non essere/, abbiamo un oggetto (il protagonista maschile) che è "creduto essere" e "creduto non essere". Si tratta, in concreto, della conti­nua oscillazione tra l'emergere del sospetto e la sua transitoria ritnozione, dell' amibuzione di uno statuto variabile al personaggio di J ohnnie (il cre­dedo essere/non essere un dilapidatore incosciente di patrimoni, il creder­lo essere/non essere un potenziale assassino ecc.).

Sarebbe abbastanza facile mostrare come tutto lo svolgimento di super­ficie del film possa essere ricondotto a operazioni sintagmatiche sul quadra­to relativo alle modalità epistemiche (passaggio da un I creder essere/ a un /credere non essere/). Ma forse, è più utile notare che le modalità epistemi­che, a differenza, ad esempio, delle modalità aletiche, che interessano il dover essere, quindi la possibilità o l'impossibilità, riguardano la certezza e la probabilità. Il possibile e l'impossibile sono mutuamente esclusivi, mentre le modalità epistemiche sono sfun1ate, soggette a gradazione: posso credere pitì o tneno a una determinata cosa. Ciò trova conferma nella costruzione narrativa: ciò che vediamo nel film non è tanto una commutazione di ogget­ti di valore e posizioni modali, quanto un farsi, un cambiare. La dimensione del sospetto si regge proprio sul passaggio graduale, sullo slittamento pro­gressivo dei livelli del dubbio, della certezza, del ripensamento''·

A questa osse1vazione ne va aggiunta un'altra: in realtà il giudizio epi­stemico non è semplicemente orientato da un fare interpretativo limitato alla struttura veridittiva, ma riguarda anche una modalità ulteriore, il "voler credere". I: evidenza non basta a generare un giudizio forte. Nel Sospetto abbiamo una volontà passionale, una surdeterminazione secondo il volere del giudizio epistemico. Abbiamo cioè a che fare con la "volontà di crede­re". Non c'è solo un percorso che procede da un fare interpretativo a un fare indagativo, che svela l'impostura della manipolazione dell'altro. C'è anche un /voler credere/, dettato da un investimento patemico. Nel film, questo voler credere arriva alla forma estrema del sacrificio, che per Lina è una tentazione concreta, sia nella celebre scena del bicchiere di latte che nell'ultima corsa in auto conJohnnie"'.

Durante la visione del film, diviene chiaro che le operazioni di manipo­lazione e contromanipolazione non sono attribuibili solamente ai soggetti

23. Aspetto che era già stato registrato dagli ammiratori francesi, i quali, a proposito proprio del tema del sospetto, scrivevano: «L . .] possiamo affermare che siamo in presenza di un motivo cinematografico privilegiato. In ogni caso, è attraverso il suddetto tema che Hitchcock riesce ad esprimere un puro rapporto tra anime, a lacerare la cortina del com­portamento, a passare dall'esterno all'interno, dall'oggettivo al soggettivo» (C. Chabrol, E. Rohn1er, Hitchcock, Editions Universitaires, Paris 1957, trad. it. Hitchcock, Marsilio, Venezia 1986, pp. 71-2).

24. Com'è noto, l'aspetto sacrificale del comportamento di Lina era molto più marcato nel romanzo Be/ore the Fact, da cui il film è tratto. Nel libro, l'uomo è effettivamente colpe-

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narrativi, ossia Johrmie e il Generale (inteso come epitome dell'istituzione sociale), ma anche all'intetvento del soggetto enunciante, cioè a un'orga­nizzazione della materia dovuta a una forma di soggettività esterna al livel­lo della storia.

È vero che il dubbio - il sospetto - è determinato da accadimenti che riguardano lenunciato, il racconto, le cose che noi vediamo, ma solo fino a un certo punto: il sospetto è il nostro sospetto, in relazione a un altro mani­polatore che ha a che fare con il piano dell'enunciazione. Si pensi ancora alla sequenza del prin10 tentativo di seduzione, con la reazione preoccupa­ta della protagonista, ma anche con il dubbio dello spettatore, incrementa­to dall'ellisse e dall'uso della musica. Non è più in gioco solo il sospetto della protagonista: è come se il sospetto "divenisse mondo". Il mondo del filin diventa sempre più <•sospettoso", si fa esso stesso sospetto, lo incarna, in un crescendo travolgente. Non c'è di mezzo semplicemente una questio­ne narrativa, un problema di giudizio epistemico che riguarda Lina. Il giu­dizio epistemico investe anche lo spettatore, poiché ciò che vediamo è la manipolazione del soggetto enunciante, un /far fare/ e un /far credere esse­re/ o /non essere/, attraverso una serie di tracce e di indizi diretti ali' enun­ciatario. Ne è un esempio emblematico il tema della ragnatela, la proiezio­ne della grata che pian piano invade la casa, come una sorta di trappola che arriva a ricoprire labitazione così come la vita di Lina. Ancora, abbiamo una contrapposizione sempre più netta di nero e bianco e un utilizzo cre­scente di inquadrature laterali: tutto congiura a costt'Uire quest'aura di sospetto che pervade l'intero film.

Invece di far ricorso all'ipotesi di una manipolazione del mondo da parte di un operatore soggettivo (soggetto dell'enunciazione), possiamo dire che è il mondo a farsi sospetto esso stesso. Non c'è un'istanza (più o meno antropomotfa) che manipola lordine delle cose. Il sospetto è nelle cose stesse. Ciò che vediamo è il sospetto nel suo farsi: le ombre, la ragna­tela, l'impossibilità di sottrarsi al dubbio che diventa mondo visibile. Ed è questa la forza straordinaria del film: non abbiamo bisogno di ipotizzare un'istanza enunciatrice marcata, resa evidente che manipola le cose in maniera da farcele apparire sotto una certa luce. Le cose sono così, e il sospetto è insito in esse.

vole e la storia finisce con la vittima che consapevolmente accetta la morte, in nome del vin­colo amoroso e matrimoniale. Hitchcock aveva anche ideato un finale che tenesse assien1e la consapevolezza della donna e la punizione dell'assassino: Lina scriveva alla 1nadre denun­ciando il marito, ma dicendo anche che lo atnava troppo per non lasciarsi morire, Johnnie stesso si recava a imbucare la lettera che lo avrebbe condannato. Il finale girato, e apparso a molti conciliatorio, poiché opta per l'assoluzione diJohnnie. lv1a il passaggio dalla situazione una donna scopre che suo 11iarito è 1111 assassino alla situazione una donna crede che suo marito sia un assassino è meno priva di ambiguità di quanto possa apparire a prima vista.

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Se condividiamo questa chiave di lettura, possiamo anche ritornare sul­]' autore ripensandolo in modo diverso rispetto a come siamo abituati: non tanto cioè come soggetto che attraverso le modalità linguistiche del cinema ci manipola, ci fa credere, crea una relazione di comunicazione, quanto piuttosto come un'entità che si costruisce all'interno del testo e si "manife­sta", in qualche modo si rende semievidente. Un "autore di mondo", corri­spondente a una specie di dio, un dio di quel mondo, di quella situazione in cui il mondo si fa sospetto, una sorta di "genio maligno" responsabile del farsi sospetto del mondo, del chiudersi in questa ragnatela, nell'ineluttabili­tà delle cose. Il mondo del quale osserviamo il cambiamento è abitato da una "divinità". Non si tratta dunque di un autore-soggetto che ci fa vedere il mondo fornendoci un punto di \~sta, quanto piuttosto di un autore­mondo che è seminascosto nelle cose stesse. Il cinema di Hitchcock è for­temente caratterizzato dall'essere espressione della volontà di costruire, non solo un mondo in divenire, ma anche una sorta di divinità che in esso sia riscontrabile.

Tutto ciò diviene ancora più evidente se pensiamo al finale del Sospetto, dove si verifica una sorta di inversione di tutto quello si era creduto per l'in­tera durata della vicenda. Improvvisamente, scopriamo che non è Lina a dover morire per mano di J ohnnie, ma J ohnnie stesso a desiderare la morte. L'inversione investe l'essere e l'apparire delle cose e riguarda il meccanismo veridittivo in senso proprio. Abbiamo creduto a lungo che Johnnie fosse il luogo dell'oggetto menzognero (ciò che appare e non è), e che Lina fosse depositaria di un segreto ignoto agli altri. È invece vero il contrario: è Johnnie che ha un segreto (vuole uccidersi) e Lina, con la sua costruzione­spiegazione imn1aginaria, esprime una menzogna. Tutto l'equivoco si basa su una scorretta attribuzione di valori veriditth~.

Per un'ora e mezza il film è andato avanti mostrandoci un mondo che si trasforma e diventa sempre più sospettoso, avvolgendo il personaggio fino quasi a inghiottirlo. Poi, in meno di un minuto, ogni sospetto scompa­re e tutto quello che avevamo creduto fino a un istante prima si ribalta di segno. Ma cos'è che davvero consente il ribaltarsi delle cose? Vunico fatto­re in grado di rendere accettabile un cambiamento così radicale non può che essere una conversione, una conversione in senso religioso, non certo un rinnovato fare interpretativo: si esce fuori dal sistema di valori dato e se ne trova uno nuovo. Il sistema di valori che viene abbandonato è pertanto quello del vedere e del sapere: il matrimonio non riguarda il piano scopico o il piano cognitivo, è la confidenza ciò che consente di essere liberi, poiché né il vedere, né il sapere sono affidabili su questo piano. C'è bisogno di un atto di confidenza, che può fondarsi solamente sul sentire, sulla volontà di credere al di là dei dati di esperienza e della loro difficile interpretazione. Il sospetto appare come una sorta di parabola sul matrimonio e sul suo sacra-

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mento, bizzarramente messa in scena da un regista-dio maligno. È straordi­nario che un regista tacciato di cinismo e misoginia proponga una così bella allegoria del matrimonio'', anche se, trattandosi pur sempre di un dio mali­gno, non sappiamo cosa succeda in realtà quando la macchina di Cary Grant e Joan Fontaine scompare dietro la curva ...

Si tratta, insomma, di llll' operazione straordinaria perché, in un attimo, tutto cambia completamente e assistiamo a una specie di gioco di prestigio del mondo: vediamo il compiersi dell'illusione da parte di un dio maligno­prestigiatore e il mondo diventare un gioco di prestigio di cui noi siamo le vittime. Tutto ciò che sembrava in realtà non è, mentre ciò che sembrava non essere è invece vero (Johnnie è davvero un buon marito, innamorato e premuroso). Chi è dunque il prestigiatore? La costruzione di mondo riman­da a qualcosa: si tratta di ricostruire un soggetto a partire dal mondo, un soggetto come entità, come grande mano che sovrintende alle cose di que­sto n1ondo, non a priori con1e soggetto di comunicazione, bensì a posterio­ri come dio seminascosto.

Noto per il suo forte narcisismo, Hitchcock aveva la nota abitudine di comparire nei film che dirigeva, o quanto meno di costruire un'immagine di se stesso da fare apparire come simulacro nel testo. Ma dov'è Hitchcock nel Sospetto? Benché si tratti di una prassi di natura aneddotica e all'apparenza non così rilevante, è in effetti interessante domandarselo. Se è vero che nel cinema di Hitchcock assistiamo a una strategia di costruzione o rivelazione di un autore non come soggetto della comunicazione, ma come dio nascosto che ordina un mondo, allora le piccole apparizioni hitchcockiane hanno a che fare con l'apparizione in senso proprio: sono i momenti in cui il dio nascosto si rende quasi visibile. In che modo si lascia intravedere tale mani­festazione nel Sospetto? La risposta più ovvia rimanda ancora a uno dei suoi tanti cameo: vediamo Hitchcock attraversare la strada verso la metà del film, mentre Lina sta partendo in automobile. Tuttavia questa manifestazione quasi impercettibile è raddoppiata da una presenza ben più tangibile e orga­nizzata nel mondo rappresentato. Il regista è, evidentemente, ovunque, ma è nel bicchiere di latte che Johnnie porge a Lina che Hitchcock appare. Nella luminescenza del bicchiere di latte, nella sua aura luminosa, si rivela la sua essenza di principio ordinatore del mondo. Truffaut commenta:

Questa volontà feroce di trattenere a qualsiasi costo l'attenzione e, come egli stes­so dice, di creare e poi di preservare I' emozione al fine di mantenere la tensione, rende i suoi film molto particolari e inimitabili perché Hitchcock esercita la sua

25. Per una rilettura dell'idea di amore e di rapporto sentimentale in Hitchcock, in oppo­sizione alle interpretazioni moderniste degli anni Sessanta e Settanta, cfr. L. Brill, The Hitch­cock Rotnance. Love and Irony in Hitchcock's Fibns, Princeton University Press, Princeton 1988.

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6. L'AUTORE COME PERSONAGGIO

influenza e il suo don1inio non soltanto sui momenti forti della storia, ma anche sulle scene di narrazione, le scene di transizione e tutte le scene normalmente inte­grate dei film'6•

l:idea di uu ciuema che in qualche modo costruisce lautore come grande organizzatore di mondo va nella direzione di creare una sorta di relazione e di riconoscimento con lo spettatore. Ciò a cui Hitchcock dà inizio è una peculiare forma di costruzione autoriale, ma anche di costruzione spettato­riale: lautore entra in relazione diretta con lo spettatore, cui chiede di rispecchiarsi e riconoscersi. Lo spettatore stesso trae piacere dallo scoprire di essere stato "truffato", di essere stato vittima di un gioco di prestigio, e dall'invito a svelare il principio ordinatore del tutto. Questa tendenza a costruire il testo non già come opera che rimanda a un'intenzione e una figura d'autore, quanto piuttosto come luogo di presenza irmnanente del-1' autore1 come luogo di auto rappresentazione, si farà progressivamente sempre più consueta, fino a diventare un tratto caratterizzante del cinema contemporaneo. Dunque, è già presente in Hitchcock, benché in modo non ancora sfacciatamente evidente''· Non è azzardato pertanto affermare che l'idea di autore postmoderno, inteso con1e emergenza narcisistica e come luogo di riconoscimento dello spettatore, nasca proprio con Hitchcock.

6.3 Prodotti di genere/prodotti di marca: l'autore come brand

e la logica autoriale del postmoderno

Se il paradigma culturale moderno si sviluppa nel senso di una progressiva differenziazione, caratteristica peculiare di quello postmoderno è la di­sintegrazione cieli' autore e il suo assorbimento all'interno del prodotto cul­turale, come accade ad esempio nei romanzi biografici tipici della fine degli anni Ottanta o nella Performance Art. Il modernismo ha differenziato signi­ficante, significato e referente, mentre il postmodernismo ha «problematiz­za[to] questa distinzione e, in particolare, [ ... ] lo status e la relazione tra significante e referente o, detto in altro modo, tra rappresentazione e real­tà»''· Significante e referente penetrano ognuno nello spazio dell'altro, con-

26. Truffaut, Le cinéJJta se/011 Hitchcock, cit., trad. it. p. 14. 27. Ciò non vuol dire affatto che la figura autoriale hitchcockiana sia immediatamente

assimilabile alle forme del cinema postmoderno. Per un'attenta e convincente analisi dei legami e delle differenze tra l'Hitchcock "modernista" e il postn1oderno cfr. F. Jameson, Signatures o/ Visible, Routledge, Ne\v York 1990 (trad. it. Firtne del visibile: Hitchcock, Kubrick, Antonioni, Donzelli, Roma 2003).

28. S. Lash, Sociology o/ Postt11odernis1J1, Routledge, Ne\v York 1990 (trad. it. Moderni­SJJto e postniodernistno. I 111uta111enti culturali delle sodetà co111p!esse, Armando, Roma 2000,

p. 22).

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taminandone e alterandone la natura. La realtà stessa, accogliendo in sé immagini e rappresentazioni, si fa opaca e illeggibile.

Di cosa parliamo, allora, quando parliamo di cinema ((d'autore'' in epoca di postmoderno? In che modo si costruisce la presenza dell'autore nel cinema dei nostri giorni? I.:impressione forte è che questo tipo di cine­ma da un lato espliciti fortemente un processo di costruzione dell'autore come divinità, e dall'altro costruisca un percorso analogo per lo spettatore. Per molto cinema d'autore postmoderno, quello di Tarantino, ad esempio, ma anche quello di Wes Anderson, Spike Jonze o Miche! Gond1y, la que­stione fondamentale è costruire se stessi all'interno del ftlm. O meglio, la questione che preoccupa maggiormente i registi che lavorano in tale ambi­to è quella di costruire se stessi come autori e come marchi di fabbrica''· Questo marchio di fabbrica, questa forma di comunicazione diretta sopra e attraverso il testo in cui autore e spettatore si ritrovano reciprocamente nella riconoscibilità di certe marche testuali, sembra funzionare come una sorta di antidoto ai rischi di polverizzazione della figura autoriale che il sistema dei media e dei new media contemporanei porta inevitabilmente con sé, sia in termini di pluralità di soggetti coinvolti nelle pratiche di enunciazione (già nell'enunciazione televisiva siamo nel pieno di un effetto di cubismo discorsivo: chi è il soggetto dell'enunciazione di un programma televisivo? È possibile rintracciare una sola fonte-intenzione nella testualità televisi­va?)30, sia sul versante della ricezione, "a valle", del testo.

Infatti, nel nuovo assetto dei media audiovisivi, le caratteristiche di inte­rattività si fanno particolarmente degne di nota, il che rende possibile l' as­sunzione a un eventuale ruolo autoriale di figure che non sono identificabi­li in alcun modo con lautore tradizionale, ma sono invece identificabili in una pluralità di soggetti che interagiscono. Le recenti forme di produzione cooperativa e la proliferazione di opere di tipo derivativo, cioè di rimaneg­giamenti, di riscritture, di riutilizzazioni, si fanno vieppiù rilevanti. Anche nel panorama del cinema, per così dire, tradizionale contemporaneo I' a­spetto derivativo è di tutto interesse, si pensi all'uso sistematico di prassi di riscrittura nel cinema cosiddetto "postmoderno".

Il cinema posttnoderno è, di base, un cinema citazionistico, in cui la ripetizione di situazioni cinematografiche già note diviene parte essenziale del processo narrativo e che comporta il passaggio da una forma di narra­zione più tradizionale a una forma che invece riflette sull'atto stesso del nar­rare. Questo tipo di riflessività ha perso i caratteri didattici e di "durezza" teorica legati all'idea di un cinema materialista, dialettico, capace di svelare

29. Cfr. ad esempio: B. Grespi, Diritti d'autore. I paradossi dell'autorialità nel dnema ame­rià1110 contentporaneo, in "Bianco & Nero", n. 3, maggio-giugno 2000.

30. Sul problema della pluralità delle fonti enunciative nella comunicazione televisiva cfr. G. Bettetini, ]}occhio in vendita, Marsilio, Venezia 199r.

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6. L'AUTORE COME PERSONAGGIO

il lavoro tradizionalmente occultato della sua produzione, tratti fortemente presenti nella riflessività di tipo modernista di certo cinema politico degli anni Sessanta e Settanta, e ha recuperato una dimensione ludica, disimpe­gnata, di "piacere del testo''. Ogni citazione comporta uno sguardo all'in­dietro, rivolto verso forme narrative e modi di usare il linguaggio cinemato­grafico diversi da quelli messi in atto nel film che stiamo guardando. Il cine­ma postmoderno si rivolge inevitabilmente al cinema che lo ha preceduto, al cinema moderno e al cinema classico, da cui trae materiali che reincor­pora al suo interno, tra parodia, omaggio e riflessione. Il cinema di Taranti­no, per citare un caso eclatante, fornisce uno degli esempi più significativi di un cinema che predilige la citazione rispetto ali' originalità. O per meglio dire: di un cinema che costruisce proprio un'originalità derivata, una nuova immagine di autore onnipotente, la cui originalità e onnipotenza dipende quasi per intero dalla capacità creativa di riciclare e riattivare in chiave auto­riale i detriti di un immaginario cinematografico fino a quel momento più o meno inerte (i b movie delle varie cinematografie nazionali).

Prendiamo ad esempio Kill Bill: voi. I (2003) e Kill Bill: val. II (2004): in questo film suddiviso in due puntate, Tarantino lavora esattamente sulla costruzione di se stesso come soggetto di referenza di tutto quell'universo che, altrimenti, privato del suo principio ordinatore, non si terrebbe in alcu­na maniera. Se c'è qualcuno che lo rappresenta nel film, questo è inevita­bilmente Bill, che ricopre esattamente questo ruolo: quello di costruire se stesso come Bill, cioè come colui che ha organizzato tutto e colui a cui tutto ritorna. A sua volta, lo spettatore è chiamato a occupare una posizione ana­loga, è chiamato cioè a un riconoscersi immediato.

È chiaro perciò come l'interesse dello spettatore postmoderno non sia più tanto rivolto verso il racconto, verso la vicenda narrata, quanto piutto­sto a come la \~cenda viene declinata, così che la forma narrativa dominan­te nel cinema postmoderno rende evidenti e identificabili i processi che por­tano alla sua formazione, tenta continuamente di occupare lo spettatore, di toccarlo, riconoscerlo e farsi riconoscere a partire da un set di aspettative sedimentate (anche) intorno al nome proprio del regista, alle caratteristiche di un genere, o al riconoscimento stesso del regista come genere (genere merceologico tra tanti nel mercato audiovisivo delle merci intermediali).

Che questo coinvolgimento dello spettatore poi coincida con lassegna­zione di un ruolo attivo in senso lato nell'attualizzazione dei significati gene­rali del testo, è cosa piuttosto discutibile, o quanto meno da considerare caso per caso. Al contrario, l'impressione generale è che la prima conse­guenza dell'imporsi della juissance registica irrefrenabile del!' autore con­temporaneo, cieli' affacciarsi dell'immagine autoriale che fa sentire su chi guarda in modo diretto la propria onnipotenza verticale, che si impone ali' attenzione sovradeterminando le componenti del testo, sia sì un richia-

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mo diretto allo spettatore, ma - sia detto senza alcun accento di valutazio­ne morale - un richiamo diretto a uno spettatore a cui resta da confermare, nel riconoscimento, la capacità manipolativa a senso unico dell'autore stes* so. Forse, non a caso, il cinema postmoderno è caratterizzato dalla prolife­razione della figura del demiurgo sadico e onnipotente, che tratta i perso­naggi pressappoco come gli spettatori si aspettano di essere riconosciuti e trattati dal regista-manipolatore: si tratti (con le dovute differenze da caso a caso) della potenza ipnotica, costrittiva di certo cinema orientale (si pensi a un film come Oldboy (2003) di Park Chan-Wook e in generale a tutta la sua trilogia della vendetta), o dell'horror autoriflessivo in stile Scream (r996) di Wes Craven, o ancora al gusto per la saturazione narrativa nell' action vzovie contemporaneo (dalla ricercata inversosimiglianza chiaramente autoironica di un John McTiernan, al gusto dell'accumulo, dell'eccesso ritmico nella successione degli eventi che letteralmente piovono a cascata come irrefre­nabili cambiamenti di mondo addosso allo spettatore, nelle produzioni di fiction televisiva o nel cinema diJ. J. Abrarns, dalle serie Alias e Lost al terzo episodio cinematografico di Mfrsion: Impossible, 2006).

L'assorbimento del "ruolo dello spettatore" comporta un parallelo per­corso discendente compiuto dal "ruolo dell'autore". È lautore a decidere quanto spazio concedere al gioco intertestuale con lo spettatore, ma più di tutto è lautore che decide con quale tipo di spettatore giocare e a che livel­lo di conoscenza dello spettatore stabilire le regole del gioco attraverso il ricorso a citazioni cinen1atografiche più o meno "colte", più o meno identi­ficabili all'interno del testo. Dietro gli ammiccamenti allo spettatore, dietro ai rimandi e alle citazioni, si nasconde, sebbene frantumata e assottigliata, un'istanza autoriale che è pur sempre in posizione dominante rispetto allo spettatore. In definitiva, il cinema postmoderno chiede allo spettatore di mettere in gioco la propria enciclopedia di competenze intertestuali e inter­mediali per partecipare al gioco dei rimandi, ma allo stesso tempo lo invita a sospendere l'incredulità e a lasciarsi essere protagonista dello spettacolo di cui sta fruendo.

Il rifiuto del!' autorità precostituita, la frammentazione che pone ogni unità narrativa sullo stesso piano di importanza, la molteplicità che si rag­giunge attraverso il riferimento e il richiamo ad altri ambienti della cultura di massa, la rivitalizzazione e ibridazione tipiche del cinema di genere, assie­me all'invito al coinvolgimento e alla partecipazione rivolto allo spettatore, si rivelano le caratteristiche portanti di un cinema in cui il gioco di spiazza­menti è parte integrante della stessa posta in gioco narrativa, che si svolge a più livelli proprio perché viene a mancare la figura di narratore unico e compatto, in grado di guidare la partita senza tentennamenti''·

31. Cfr. A. Negri, Ludici disincanti. Fanne e strategie del cine1J1a posttnoderno, Bulzoni, Ron1a 1996.

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6. L'AUTORE COME PERSONAGGIO

Questi elementi, la combinazione di generi e il relativo ibridismo che ne deriva, il passaggio con le dovute modifiche di generi da un mezzo espres­sivo ali' altro, la nascita di veri e proprio cicli di film cui sottendono generi esistenti e che dà vita a nuovi approcci e nuo\~ materiali sono anche ele­menti di base per un'altra pratica diffusa tra i produttori e che trova rispon­denza nel comportamento del pubblico: l'utilizzo del marchio. Fondamen­talmente, studiose produttori:

Hanno utilizzato qualsiasi prodotto prin1ario - qualunque film - per creare un pro­dotto derivato ancora più redditizio: una caratteristica come quella del marchio, che può essere inserita nei film successivi, rappresentava cosl una garanzia di fedeltà da parte del pubblico e un reddito continuo''.

Ma c'è di più. Il film contemporaneo, e in particolare il blockbuster ameri­cano, si caratterizza per essere un high concept movie, prodotto dalla grande vendibilità, adatto ad essere esperito su diversi supporti e venduto su tutti i mercati interni e stranieri''. Wyatt suggerisce che sia prop1io la strnttura modulabile del high concept movie a far sl che esso possa essere frammenta­to e riproposto in differenti contesti ludici o di intrattenimento. Questa tipo­logia di film è caratterizzata da una storia molto semplice e lineare, con per­sonaggi altrettanto chiari e assegnabili a categorie valoriali ben riconoscibili, tanto stilizzati da poter essere riassunti in poche parole e diventare presto dei claim efficaci nelle campagne pubblicitarie: ogni film deve avere un look riconoscibile, ben definito, di in1patto. «The reduced narrative and empha­sis upon style, which often has a potent visual representation, permit, even encourage, the existence reproduction of these key images from the film in mass marketing>>34. Il film si costruisce in sostanza per pacchetti modulari, congegnati in virtù di un futuro ampliamento del prodotto in altri contesti di consumo. Devono emergere elementi identificatori che permettano allo spettatore di riconoscere il film nel panorama dell'offerta cinematografica. Naturalmente, lautore risulta parte di questa strategia, conquista una sua riconoscibilità costruita attraverso una convergenza che è sì di tipo tecnolo­gico (l'uso di tutti gli strumenti della comunicazione di massa per promuo­vete llll prodotto, l'integrazione tra industria cinematografica, televisiva, telefonica ecc.), ma anche e soprattutto di tipo culturale. Una sinergia, cioè, che fa leva sulle pratiche di consumo, sulla disponibilità e capacità dei con­sumatori di prodotti culturali di utilizzare svariati media''.

32. R Altman, Filtn/Genre, BFI, London 1999 (trad. it. Fi/Jn/Genere, Vita e Pensiero, Milano 2004, p. 179).

33. ]. \Xlyatt, High Coucept. 1'A.ovies and Marketing in Ho!lyu)ood, University of Texas Press, Austin 1994.

34· lvi, pp. 17-8. 35. Cfr. in merito gli studi cli H. Jenkins, Textual Poachers. Television Fans and Participa-

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I; idea che i mezzi di comunicazione tracimino dai loro confini, sbordi­no dentro altre forme comunicative è qui di tutto rilievo. È negli spazi, negli interstizi tra un medium e l'altro che i prodotti dell'industria culturale tro­vano spazio confortevole, è in tali spazi che si posizionano, che si radicano, cohnandoli e permettendo un'integrazione tra media che va al di là delle possibilità tecnologiche, ma si basa piuttosto sull'estensione di un marchio ad altri prodotti, ad altri spazi.

Di fronte ai nuovi modi di produzione e di circolazione dell'audiovisi­vo, lautore diventa quindi - in controtendenza rispetto alle istanze di nar­cisismo autoriale, autofondativo descritte a proposito di registi come Tarantino - una sorta di tara ingombrante, come anche il diritto d'autore. Il riscatto può forse venire dai pirati informatici e da Internet, perché attra­verso questi riusciremmo a far circolare qualcosa al di fuori del diritto d' au­tore, che invece mantiene stabili i limiti di proprietà, tiene ferme le cosel6,

Come gli altri prodotti dell'industria culturale, il film è il prodotto di un'attività industriale, è destinato al mercato, e si trova quindi in regime di concorrenza con prodotti analoghi. Si rende quindi necessario lo sfrutta­mento di un marchio, di un'etichetta identificativa che presuppone già una buona dose di aspettative nei confronti delle situazioni e dei personaggi che si incontreranno nel film. Questo sfruttamento passa, quindi, attraverso il cinema e gli altri mezzi di comunicazione facendo leva sul recupero di una memoria mediatica condivisa, riscoprendo il modernariato e la tendenza vintage che colonizzano vari campi della cultura contemporanea, dalla moda alla realizzazione di prodotti TV, e sollecitando nello spettatore il pia­cere di "ritrovare".

La presenza di un carattere fisso, di un elemento a cui riferirsi che eti­chetti il prodotto e lo renda disponibile al consumatore motiva quindi il ricorso alla logica del brand. A garantire un certo grado di sicurezza allo spettatore resta l'universo creativo di riferimento, il fatto che si faccia leva su una marca nota, un regista noto, un autore "noto per", il cui lavoro pre­cedente viene fatto oggetto di una sorta di remake, di riadattamento, di riscrittura. La continuità e la coerenza nella concatenazione intermediale sono garantite dalla figura dell'autore, che funge da cfaim e al tempo stesso da testimonial per il suo stesso lavoro.

to1y Culture, Routledge, London 1992; Id., «Strangers no More», We Sing: Filking and the Socia! Construction o/ the Science Fiction Fan Cont!ltunity, in L. Lewis (ed.), The Adoring Audience. Fan Culture and Popular Media, Routledge, London-Ne\v York 1992.

36. SWia questione del diritto d'autore nel contesto delle nuove tecnologie cfr. L. Lessig, Free Culture, The Penguin Press, Ne\v York 2004 (trad. it. Cultura libera, Apogeo, 1viilano 2005); F. Latrive, Sul buon uso della pirateria: proprietà tiuellettuale e libero accesso nell'ecosi­ste1na della conoscenza, DeriveApprodi, Roma 2005.

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6. L'AUTORE COME PERSONAGGIO

The idea of separating one product from another \v:ith the aid of trademarks \Vas a good one. And it \Vorked far a \vhile. That was until it came up against busi­ness' o\vn necrotizingfasciitis or flesh-eating disease: commodification. [ ... ]

As \Ve \vatch television, open the mail, or go far a stroll, we no\v live in a \vorld ofbrands37.

E r autore cinen1atografico in epoca contemporanea non fa certo eccezione.

37. K. Roberts, I.oven1arks. The Future beyond Brands, Po\verHouse Books, Ne\v York 2004, pp. 29, 31.

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In conclusione: oltre l'autore

7.r N arei so nella rete

Nei capitoli precedenti abbiamo \~sto come la funzione e il ruolo del!' auto­re si siano modificati nel corso di più di cent'anni di cinema e come a que­ste mutazioni cortispondesse anche una diversa relazione autore-spettatore. Cosl, se nei primi decenni del Novecento si trattava di accreditare la figura stessa di autore e di posizionarlo rispetto allo spettatore sia come istanza di certificazione del!' artisticità del cinema, sia come referente della sua signifi­cazione, nel cinema postmoderno abbiamo 0sto lautore dissolversi nella logica del marchio: da auctoritas a bra11d.

In conclusione di questo lungo percorso mi piacerebbe riuscire a forni­re qualche indicazione su ciò che sta accadendo nel panorama attuale, tenu­to conto che il cinen1a contetnporaneo, il cine111a due, con1e lo definisce Casetti, è caratterizzato da <<Un'immagine digitale non più tributaria del reale; un consun10 che si ti volge a un'audience, aggregando individui in modo solo \~rtuale; e un dialogo con gli altri media che ne allarga il campo d'azione ma ne annacqua anche l'identità»'. Casetti ci dice cioè che il cine­ma, profondamente modificato nelle sue tecnologie, nel suo ruolo sociale e nella sua identità linguistica, ha perso quel ruolo centrale nell'universo dei media e nell'esperienza della modernità che gli ha assegnato il secolo pas­sato. Ma allora è lecito chiedersi che fine faccia lautore in questo nuovo contesto e soprattutto: ha ancora senso parlare di autore cinematografico?

Una domanda a cui è difficile dare una risposta univoca, anche perché se è vero che \~0amo in un mondo che vede una proliferazione parossisti­ca delle in1magini, e delle immagini in mO\~ento, nel contempo il cinema risulta sempre più marginale rispetto ad altre forme mediali, dalla televisio­ne ai dispositivi palmari fino alla rete. Dovremmo allora interrogarci sullo statuto di nuove figure d'autore legate ai nuo0 media digitali? Non credo

1. F. Casetti, Eocchio del i\1ovecento. Cine1na, esperienza, tnodernità, Bompiani, Milano 2005, p. 297.

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sia così, e se c'è un senso per il percorso che ho provato a tracciare inse­guendo l'ombra dell'autore in un secolo di cinema, credo sia proprio nella profonda interconnessione tra l' anfiboli ca, paradossale, e per certi versi inafferrabile natura dell' autorialità cinematografica e l'identità del medium stesso. In altre parole, la querelle dell'autore è anche il sintomo di una dif. ferenza che oppone il cinema alle altre f01me mediali e di espressione este­tica del Novecento. Finita questa, finita anche quella.

Tuttavia è lo stesso Casetti a indicarci una sorta di preveggenza del cine­ma2. E allora forse possiamo ancora cercare nel cinema, nella sua storia e nella sua contemporaneità, le nuove articolazioni che stanno sostituendo o sostituiranno la relazione autore-spettatore. Un primo livello su cui interro­garsi è quello delle mutazioni linguistiche: più che di singoli elementi del linguaggio si tratta della mutazione della forma-film nel suo complesso. Come ho cercato di mostrare nel capitolo precedente, sebbene abbiamo ancora a che fare con un formato-film, esso non può più essere identificato pacificamente come testo o come opera. Si pone, da ultimo, la questione dell'indecidibilità dei limiti del testo o dell'opera: dove finisce il testo? Dove finisce l'opera?

Da un'idea di testo si è passati ad un'idea di testualità diffusa: non un oggetto dai contorni definiti, ma un qualcosa che si allarga con contorni sfu­mati e non facilmente mappabili. I confini del testo si perdono per espan­sione o per frammentazione. Si pensi alle varie forme di serialità, implicita o esplicita, vera ossatura del cinema e dell'audiovisivo contemporanei (dalla pratica dei sequel e dei remake, ai cicli intermediali come Matrix, dai mec­canismi di dilatazione e riuso di risorse narrative presenti in generi da TV "generalista" orn1ai tradizionali come le soap, a quelli, apparentemente inversi per compressione e andan1ento tensivo, eppure ugualmente seriali, presenti in molti casi di nuova fiction per il piccolo schermo come Alias, Lost, 24), ma che troviamo amplificate in tutte le forme dell'intrattenimen­to televisivo (non solo di fiction) e che diventano paradossali nella poten­ziale illimitatezza delle immagini delle webcam. E di contro alla frammen­tazione dei prelievi e delle citazioni che trovano forma autonoma nei blob, negli infiniti frammenti di cinema ritagliati e ricombinati in rete.

Si noti inoltre che le pratiche di espansione e frammentazione della testualità tradizionale investono un piano intertestuale come un piano pro­priamente intermediale. Esse cioè sono osservabili sia nelle nuove forme della serialità, nei modelli di ripetizione modulare che soggiacciono a block­buster prototipici come Matrix', sia sul piano della contaminazione dei sup­porti, dell'attraversamento mediale cui i prodotti cinematografici sono sem-

2. Ivi, p. 298. 3. Su Matrix come forma prototipale cfr. la mia Introduzione in G. Pescatore (a cura di),

Matn:-.:. Uno studio di caso, Hybris, Bologna 2006.

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7, IN CONCLUSIONE; OLTRE L'AUTORE

pre più sottoposti. In questo senso si può dire che già lassunzione del cine­ma e del prodotto-film all'interno del palinsesto televisivo genera una muta­zione genetica della testualità cinematografica nel passaggio da un medium di opere, come il cinema, a un medium di flusso, come la televisione. Ma il discorso ovviamente è sempre più attuale all'interno del quadro della frui­zione cinematografica nel sistema integrato dei nuovi media4.

A questo punto, forse, lautore sembra darsi piuttosto in una funzione di tipo intertestuale e/o paratestuale, si sposta dal polo dell'enunciazione al polo dell'enunciato. {;autore, l'abbiamo visto, può divenire a vario titolo personaggio, e questo processo, se da un lato lo porta a palesarsi narcisisti­camente nel corpo del film, dall'altro crea un formidabile effetto-alone che si spande su infinite manifestazioni, dai contenuti speciali alle versioni direc­tor's cut, ai vari making, interviste, documentari, gossip, siti che popolano il video e la rete. In un testo allargato, lautore sarebbe dunque confrontabile a uno dei personaggi, al pari dei protagonisti che si muovono nello spazio del testo. E non è forse cosl che molta critica vede oggi lautore? Non è forse vero che il personaggio-Welles ci è apparso in svariate occasioni come il vero protagonista, l'"eroe" dei suoi film?

Nelle nuove forme della comunicazione mediale lautore è un marchio, ma come tale è costretto a confrontarsi con altri marchi. E non è detto che in questo confronto non soccomba. Basta guardare alla televisione, dove il marchio d'autore ha perso quasi tutto il suo appeal. Ciò che invece ancora rimane e che forse ha un futuro è lautore-personaggio: dissolti i confini del testo-film, nel nuovo assetto dei media il cinema rin1ane come straordinario contenitore di narrazioni e immagini. L'autore qui non fa eccezione. Diventa il personaggio di una delle tante narrazioni che il cinema può rac­contare. E questo forse spiega un apparente paradosso: il cinema vede sem­pre più eroso il suo ruolo e la sua identità, ma rappresenta forse il contenu­to più presente nella rete.

Queste brevi considerazioni conducono a qualcosa che abbiamo già incontrato e che in qualche modo ci dà una conferma della capacità di pre­veggenza del cinema: nel capitolo precedente ho cercato di mostrare come, a partire da un film di Hitchcock, fosse possibile individuare una linea di tendenza che dalla forma classica sembra traghettarci verso gli esiti post­moderni di cui ci stiamo occupando. In particolare abbiamo intravisto, sep­pure in parte offuscate dalla forma classica in cui ancora quel cinema si muove, due modalità di manifestazione dell'autore: da un lato una presen­za narcisistica dell'autore, il quale cerca una relazione diretta con lo spetta­tore non più basata sulla auctoritas, sul proprio potere discorsivo, ma sulla

4. Sulla distinzione tra medium di opere e medium di flusso cfr. M. \V/. Bruno, Neotele­visione: dalle con1unicazio11i di tnassa alla 1nassa di cotnunicazioni, Rubbettino, Saveria Man­nelli ( cz) 1994.

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capacità di operare a proprio piacimento nei confronti del mondo della nar­razione, sul poter fare più che sul poter dire, impersonando una sorta di divinità più o meno nascosta. Dall'altro un autore la cui presenza si inscri­ve negli oggetti e nelle forme del narrato, in qualche modo abitandoli e costituendoli come segni e manifestazioni di sé. Autore di mondo e nel con­tempo autore-mondo, dunque.

I.: abbiamo visto, la pulsione narcisistica dell'autore si dissolve nella logi­ca del brando diventa funzionale alla creazione di personaggi-autori che animano nuove narrazioni nell'universo del cinema piuttosto che in quello del fihn. È uno dei modi in cui si dà oggi quello che appare sempre più come un processo di "sparizione" dell'autore. In questo caso assistiamo a una sparizione per eccesso di presenza: nel suo esibirsi, nel suo cercare un contatto diretto e un rispecchiamento con lo spettatore, l'autore perde la sua funzione di garante di una relazione discorsiva. Autore e spettatore diventano l'uno l'immagine dell'altro in un gioco di specchi e di riconosci­n1enti reciproci, in un cinema in cui la narrazione è funzionale innanzitutto a marcare un'identità empatica tra due soggetti. Un cinema in cui il già visto, la citazione, il prelievo, l'omaggio, il falso, il pasti che sono funzionali al riconoscimento. Un processo in cui lo spettatore riconosce se stesso rico~ noscendosi in un altro. Narcisismo del!' autore, dunque, ma anche narcisi­smo dello spettatore; esibizione di potenza e di controllo dell'uno raddop­piato dal desiderio del!' altro. Non che questo sia nuovo al cinema: Francesco Casetti ha indagato nel cinema classico il regime di sguardo pro­prio dell'oggettiva irreale, una figura in cui «l'agire dell'enunciatore e del-1' enunciatario viene in primo piano, pronto ali' evidenza anche se non ali' e­sibizione[. .. ] in altre parole, l'enunciatore e l'enunciatario arrivano a van­tare la loro complicitiÌ»'. Anche in questo il cinema dimostra la sua preveg­genza, ma ciò che è cambiato è che, mentre nella figura individuata da Casetti avevamo a che fare con una costruzione locale e localizzata, funzio­nale all'articolazione di una strategia testuale, oggi ci confrontiamo con una relazione globale di cui il testo è per certi versi solo il supporto strumenta­le. E, cosa ancora più importante, mentre nell'oggettiva irreale avevamo a che fare con una figura dello sguardo «in cui l' enunciatario rinuncia alla propria competenza per calarsi in quella del!' altro, o meglio in cui si riduce a pura facoltà di vedere, a sguardo senza collocazione»6, qui non è più lo sguardo, il vedere ad essere in causa, quanto piuttosto la definizione com­plessiva del soggetto. Non più una rinuncia alla propria competenza, ma il riconoscimento di un'identità condi,~sa. I.:autore è diventato lo specchio dello spettatore.

5. F. Casetti, Dentro lo sguardo, Bompiani, Milano 1986, p. 63. 6. h,, p. 64.

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7. IN CONCLUSIONE: OLTRE L'AUTORE

Accanto all'eccesso di presenza, nel cinema contemporaneo e più anco­ra nelle forme attuali dei media audim"sivi assistiamo a un'altra modalità di sparizione dell'autore, questa volta più diretta e immediatamente '"sibile. È la sparizione per sottrazione che si registra nell'effetto "immersivo" che caratterizza oggi molta parte della produzione audio'"siva. La ricerca della polisensorialità, dell'immersione dello spettatore nell'ambientazione diege­tica ha anch'essa una storia lunga e che accompagna buona parte del seco­lo del cinema. Non la ripercorreremo qui7, ci interessa invece capire quan­to del vecchio sogno di un cinema che si dia come forma di esperienza tota­le per lo spettatore sia oggi operativo nelle forme audiovisive contempora­nee. Piuttosto che stabilire confini precisi tra le attrazioni dei parchi tema­tici, i ride-film, gli !MAX, le varie forme di videogioco e poi il cinema e la tele­visione, è opportuno fermarsi su quali siano i cambiamenti complessivi del­l'esperienza spettatoriale e quanto essi riguardino la relazione autore-spet­tatore.

Ancora una volta Casetti ci fornisce indicazioni precise sulle frontiere, oltrepassate le quali si assiste a una mutazione complessiva dell'identità spettatoriale: «Se è vero che il cinema regola locchio, non regola nella stes­sa maniera i empi. [. .. ]Nella platea i corpi obbediscono ad alcune regole di base, ma nello stesso tempo sono messi in libertiì>>8• Ora, certe forme dello spettacolo audiovisivo fanno esattamente questo: impongono ai corpi una rigida disciplina costrittiva. Si pensi a quelli che sono veri e propri appara­ti di contenzione nelle attrazioni dei parchi tematici, alla necessità di un rigi­do posizionamento dello spettatore nelle forme immersive (!MAX, 3D ecc.) e soprattutto ai percorsi predeterminati che lo spettatore è chiamato fisica­mente a compiere nei ride-film.

In ogni caso, a ben guardare, si tratta di un fenomeno che non investe soltanto aspetti peculiari, e tutto sommato di nicchia, dell' entertainment audiovisivo. Nell'ambito dei videogiochi la presenza fisica del corpo spet­tatoriale (anche se a questo punto sarebbe bene parlare di corpo attoriale) diventa sempre più evidente e dà luogo a una pletora di sensori, dispositivi e interfacce che tracciano e disciplinano il complesso delle sensazioni e dei movimenti del giocatore, al punto che possiamo oggi usare una consolle per imparare a ballare, per fare ginnastica o simulare una corsa in auto.

7. Sulla storia e il senso delle sperimentazioni e delle realizzazioni di forme cinemato­grafiche polisensoriali cfr. L. Rabinovitz, More than the Movies. A Histo1)' o/ So1J1atic Visual Culture through "Hale's Tours", bnax and Motion Sùnulation Rides, in L. Rabinovitz, A. Geil (eds.), 1\1.en101y Bytes. HistOJ)~ Technology and Digitai Culture, Duke University Press, Dur­ha1n-London 2004. Preziose indicazioni anche in L. Jullier, Uecran post-1noderne. Un cinétna de l'a!lusion et du feti d'arti/ice, L'Harmattan, Paris-Montréal 1997, e in A. Autelitano, V. Innocenti, V. Re (a cura di), I dnque sensi del cine111a/The Pive Senses o/ Cine1J1a, Forum, Udine 200~.

8. Casetti, I.: occhio del l\1ovecento, cit., p. 283.

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Tuttavia è anche il cinema (e per certi versi la televisione) a muoversi in direzione di una convergenza con le forme spettacolari immersive. Difatti sempre più il cinema contemporaneo sembra ritornare a una logica delle attrazioni in cui lo stimolo sensoriale, la mimesi di un coinvolgimento diretto dello spettatore nell'azione si fanno elemento qualificante sia del­!' esperienza della visione, sia del marketing del prodotto. Ad esempio, il moderno blockbuster si caratterizza per una struttura modulare punteg­giata ritmicamente da shock sonori e visivi, da effetti speciali, da una mobi­lità accelerata di punti di vista anomali e miranti a una percezione sineste­tica, euforizzata del rappresentato.

Certo, l'esperienza sensibile è ancora mediata dallo sguardo, dalla per­cezione visiva dello spettatore (anche se non va dimenticato il fondamen­tale apporto del sonoro). Tuttavia, se l'esperienza del cinema è stata quel­la di una percezione liberata dal corpo dello spettatore, le nuove tecnolo­gie della visione fanno appello oggi a uno sguardo situato, dotato di un corpo proprio che ha introiettato quelle stesse tecnologie. Non si tratta più dunque del corpo proprio che abita il mondo descritto dalla fenomenolo­gia, ma di una sorta di "ultracorpo", potenziato nei movimenti, nelle per­cezioni, nella capacità d'azione, che abita i media'. E non a caso chi si occupa di cinema contemporaneo riconosce una presenza fisica, infradie­getica dello spettatore, che però non è assimilabile alla visione soggettiva a cui ci ha abituato il cinema classico: si parla allora di soggettiva paradossa­le, soggettiva vuota'", soggettiva irreale". Ma anche in questo caso il pas­saggio è dalla valenza locale e testuale dello sguardo soggettivo alla rela­zione globale di inclusione dello spettatore. Se, infatti, nel cinema lo spet­tatore ha un proprio posizionamento in relazione alle strategie testuali che attualizza attraverso un'attività di cooperazione interpretativa, uno dei modi della presenza dello spettatore nel cinema due è l'inclusione sensibi­le e propriocettiva. La produzione di senso ha allora ha che fare con il con-

9. Sulla crisi dello sguardo nel cinema contemporaneo cfr. G. Canova, I.:alie110 e il pipi­strello. La crisi delle /onne nel cine1na conte1nporaneo, Bompiani, Nlilano 2000. Canova sotto­linea assai bene quanto la percezione spettatoriale sia legata a forme che fanno appello al corpo più ancora che allo sguardo: «Nella tensione di uno sguardo che vuole tenere aperti gli occhi ma che al contempo è anche disposto a chiuderli e a fare a meno di loro, si delinea cioè la fisionomia di uno spettatore che è disposto a tutto - anche a guardare con le dita - pur di non perdere il contatto con un cinema che magari non ha più rapporti con un possibile refe­rente "reale'', ma proprio per questo continua tuttavia a relazionarsi in modo tutt'altro che ·virtuale proprio con lo spettatore, e a fornirgli- se non un'immagine o un'identità- almeno una possibilità di percezione di sé» {ivi, p. 153).

10. Cfr. V. Buccheri, Vent'anni dopo. Fanne dello sguardo nel dnema conte111poraneo. Conte con1unicano ifilnt oggi: dal contratto al contatto, dal credere al sentire, in "Segnodne­n1a", n. 82, 1996.

n. Cfr. A. Negri, Ludici disincanti. Fanne e strategie del cinetna post1noder110, Bulzoni, Roma 1996, pp. 105-10.

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tatto o con il contagio" più che con la produzione discorsiva. Ciò che viene a mancare è dunque la necessità di un autore inteso come altro, come polo della relazione discorsiva. Lo spettatore basta a se stesso in quanto è egli stesso presente, attore e responsabile dell'universo rappresentato. Anche in questo caso, come in quello dell'esibizione dell'autore, siamo di fronte a un gioco di rispecchiamento: qui lo spettatore si specchia nel testo non già per ritrovare l'itnmagine di un altro, r autore, identico a sé, quanto per rice­vere una nuova immagine di sé, potenziata e accresciuta. Del resto se il rimbaudiano «lo è un altro» poteva essere lo slogan novecentesco del cine­ma della modernità, le nuove forme mediali sembrano trasformarlo in <<lo è un altro me stesso».

7.2 Dalla cattedrale al bazar: nuove forme della creazione

Questo breve excursus nel panorama contemporaneo ci ha permesso di cogliere le modificazioni della relazione autore-spettatore inscritte nei nuovi formati e nelle nuove forme linguistiche dell'audiovisivo e del cinema. Tuttm~a appare chiaro che esiste una relazione forte tra le mutazioui della discorsività audiovisiva, le tecnologie digitali dell'immagine e il ruolo socia­le dei media audiovisivi. Non potremmo infatti pensare a una sorta di "deli­rio d'onnipotenza" e di "volontà di controllo" dell'autore e dello spettato­re, i cui ruoli sono sempre più indistinti e reversibili, se non nel contesto di una plasmabilità dell'immagine che non incontra più la resistenza del reale. E d'altra parte è proprio questa perdita di contatto con il reale a giustifica­re la perdita di potere negoziale dei media tradizionali che da sistemi di disciplina dei corpi sociali divengono sempre più sistemi di disciplina dei corpi individuali. Rinunciando alla possibilità di mettere in forma il reale essi divengono sempre più luoghi di rispecchiamento narcisistico di imma­gini singolari; più che certificare l'alterità del reale autorizzano il prolifera­re di identità simulacrali. Ma non è il caso qui di affrontare un discorso sulle conseguenze complessive determinate dall'affermarsi dell'immagine di sin­tesi; ci porterebbe lontano dalla questione che ci interessa e probabilmente ci costringerebbe a trascurare altri aspetti dell'innovazione tecnologica che forse sono più direttamente legati al tema dell'autore. Preferisco invece dedicare le ultimissime pagine di questo volume alle nuove forme della creatività che, sfruttando le tecnologie digitali, il contesto gioca!'', le forme di intelligenza (e di autorialità) distribuita e cooperativa, i sostanziali .slitta-

12. Cfr. E. Lando,vski, Al di qua o al di là delle strategie: la presenza contagiosa, in G. Manetti, L. Barcellona, C. Rampoldi (a cura di), Il contagio e i suoi sit11bo!i. Saggi senliotici, ETS, Pisa 2003.

13. Sull'affermazione di paradigmi giocali cfr. R Robertson, G!obalization, Socia! Theory

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menti della questione della proprietà intellettuale attribuibili ai media in rete, finiscono con il decostruire l'idea stessa di autorialità, portando un attacco forse definitivo a quello che è stato uno dei cardini della storia mediale dello scorso secolo.

Esiste un fihn, intitolato Revelations'4, che ha una caratteristica partico­lare e interessante: si tratta infatti di un episodio apocrifo di Star ìVars, rea­lizzato a titolo gratuito dai fan della saga, anziché dagli autori: un

non-profit Star ìVars fan film that was shot within the Northern Virginia, Matyland and Washington DC Metro Area [ ... ] made possible through a combined effort of artists, fans and the local film indust1y. Eve1yone \vho has \vorked on "Revelations" is a volunteer. No one is paid to tnake this filrn15.

Non solo, in uno spazio a cavallo tra fan-fiction, fan-art e puro plagio, esi­ste, reperibile on line, Star ìVars Episode I.I: The Phantom Edit, versione rieditata e non autorizzata da Lucas di Guerre Stellari Episodio r: La minac­cia fantasma (G. Lucas, 1998). In questo caso, la presa di posizione è parti­colarmente forte: i fan che hanno lavorato sul film ne hanno tagliato appros­sfil1ativamente 20 tninuti, non perché non piacessero al montatore, n1a piut­tosto perché ritenevano questa nuova versione più fluida. A finire sotto le forbici degli zelanti fan è stato in particolare il personaggio di J ar J ar Binks, per nulla gradito a una buona fetta di appassionati. Di fatto, quindi, esiste un'altra versione del film di Lucas, circolata clandestinamente in VHS e DVD ma che, ovviamente, non è legale né legalmente distribuita.

Nel nostro sistema di produzione di oggetti autoriali in senso proprio, assistiamo in realtà alla proliferazione di oggetti apocrifi, che non rimanda­no necessariamente a un autore. La cosa diventa tanto più evidente, quan­to più ci spostiamo dal cinema alla televisione: è facile infatti dire che Quentin Tarantino è l'autore di Pulp Fiction, ma chi è l'autore di Alias o di una qualsiasi altra fiction televisiva? Una categoria come quella dell'autore, ampiamente utilizzata quando si parla di testi cinematografici, nel momen­to in cui ci si sposta verso produzioni che non appartengono al canone isti­tuzionale cinetnatografico, inizia vistosatnente a scivolare di mano.

La metafora del bazar è la riuscita espressione utilizzata da Eric S. Raymond'6 per definire la complessità, ma allo stesso tempo l'efficacia, delle

and Global Culture, Sage, London 1992 (trad. it. Globalizzazione. Teoria socùde e cultura glo­bale, Asterios, Trieste 1999).

14. Il film, assien1e a molte altre infonnazioni sulla sua produzione e sul cast, è scarica­bile dal sito Internet \V\V\v.panicstruckpro.com/revelations/revelations.html

15. Note sulla produzione del film disponibili su \V\\'\V.panicstruckpro.com/revela­tions/revelations.htnù

16. E. S. R1.ymond, The Cathednd and the Bazaar. lvfusings 011 Linux m1d Open Source by an Accidental Revolutionary, O'Reilly and Associates, Sebastopol (CA) 2001.

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modalità di diffusione e di accesso ai prodotti culturali nell'ambito dei num~ media. Lo stile di sviluppo e di diffusione che caratterizza certi pro­dotti informatici con1e i so/ttoare open source è, in un certo senso, sorpren­dente. Il prodotto è infatti il risultato di un continuo processo di delega da parte di un ideatore iniziale, nei confronti di una comunità di sviluppatori, appassionati, amatori, hacker ed esperti che, con il loro costante lavoro, contribuiscono a migliorare, integrare e perfezionare un prodotto, in un work in progress dai confini indefiniti.

Si tratta, evidentemente, di prodotti che possiedono una struttura modulare, che rende possibile questo tipo di gestione delle risorse intellet­tuali. La metafora di Raymond è semplice, ma di certo pertinente. Il pro­dotto culturale, in questo caso il software informatico, non è l'equivalente della cattedrale, monumento grandioso elaborato con fatica e sudore da sin­goli geni o piccole bande di maghi che lavoravano in splendido e silenzioso isolamento, ma piuttosto è il frutto del lavoro, dei commenti, degli sforzi, di llll'intera con1unità e assomiglia perciò a <<ll11 grande e confusionario bazar, pullulante di progetti e approcci tra loro diversi>>. La cosa forse più sor­prendente, per Raymond come per noi, è che questo stile bazar non solo funzioni, ma funzioni anche molto bene, offrendo una modalità di lavoro alternativa alle tradizionali gerarchie. Questo tipo di sviluppo reticolare, inoltre, non solo non cade nella confusione e nel caos, ma al contrario si va rafforzando e consolidando a una velocità inimmaginabile.

Secondo Raymond, allora, la differenza fondamentale tra lo stile a cat­tedrale e quello a bazar sta nel fatto che, nel primo caso, la distribuzione e laccesso a un determinato prodotto sono subordinati alla realizzazione di una versione il più possibile pulita, priva di errori tecnici e di contenuti ina­deguati, mentre nel secondo, posta l'attenzione e la disponibilità di un gruppo di volonterosi coautori, la rapidità di diffusione delle varie versioni, per ottenere maggiori correzioni, diventa un positivo effetto collaterale.

La riflessione che si sviluppa all'interno di una comunità di fruitori-5'~­luppatori, intorno ai problemi di w1 determinato software, e cbe porta a una sua costante revisione, a un ripensamento e a una continua rielaborazione tecnica, è particolarmente rilevante, poiché le modalità di circolazione delle idee e dei prodotti culturali risultano veramente innovative. Innanzi tutto, il perno dell'intero meccanismo è costituito dall'idea di comunità, che a sua volta veicola una logica che è quella della cooperazione: <<Esiste un senti­mento comunitario nella cultura hacker, fondato sull'appartenenza attiva a una comunità, strutturata intorno alle consuetudini e ai principi di un' or­ganizzazione sociale informale»''· La logica che governa tali modalità di cir-

17, M. Castells, The Internet Galaxy. Reflections on the Internet, Business and Sodety, Oxford Universit}' Press, Ne\v York 2001 (trad. it. Galassia Internet, Feltrinelli, Milano 2001,

p. 55).

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colazione delle idee presuppone quindi un approccio antiautoriale, colla­borativo e caratterizzato da una moltiplicazione delle entità creatrici.

Il processo creativo, così con1e quello tecnico, si basa pe1tanto su un dialogo costante, su una verifica pressoché quotidiana e su un ripensamen­to collettivo che permette un lavoro intenso da parte della comunità che, testando i nuovi prodotti, contribllisce ali' eliminazione dei problemi e, parallelamente, sviluppa progetti collaterali. Sebbene, in un certo senso, il processo creativo e ideativo del software informatico, resti un'attività indi­viduale o in parte solitaria, la questione che si pone come centrale è quella relativa alla capacità di sfruttare I' attenzione e la potenza dell'intera comu­nità. Gerald Weinberg ha parlato di «programmazione senza ego» riferen­dosi alle modalità di elaborazione di certi prodotti informatici''. Questa idea suscita qualche perplessità. Se vogliamo, in questo tipo di approccio non viene anestetizzata l'individualità creativa, quanto piuttosto incentivata l'usanza cooperativa che non si basa su relazioni di potere gerarchicamente e autoritariamente determinate, bensì sullo sforzo convogliato e condiviso di volontà diverse. Volendo adottare una concezione meno antropocentri­ca, si può avanzare l'ipotesi che un gran numero di individui (come accade ad esempio in un alveare) possano cooperare tanto strettamente da diveni­re indistinguibili da un singolo organismo, raggiungendo livelli e standard adeg_uati e precisi.

E possibile allora parlare di una forma di intelligenza collettiva, cioè di un modo di funzionamento dell'intelligenza che supera tanto il pensiero di gruppo, quanto la cognizione individuale, permettendo a una comunità di cooperare in un compito mantenendo prestazioni intellettuali affidabili, «un'intelligenza distribuita ovunque, continuamente valorizzata, coordinata tit tempo reale, che porta a una mobilitazione effettiva delle competenze»'9•

Non solo, Lévy sottolinea anche che

le distinzioni stabilite tra autori e lettori, produttori e spettatori, creatori e interpre­ti si confondono a favore di lll1 continuum di lettura-scrittura che va dagli ideatori di macchine e reti fino ai recettori finali, ciascllllo dei quali contribuisce ad alimen­tare di riflesso l'azione degli altri20

.

John Fiske ha opportunamente suggerito un'analogia tra la cultura di massa e il supermarket. I frllitori del prodotto culturale, infatti, possono accedere al consumo di elementi di cultura di massa dal supermarket culturale, ma quando poi "cucinano", cioè producono significati, mischiano questi beni

18. G. \Veinberg, The Psychology o/ Co1nputer Progra!!1!l1ùtg, van Nostrand Reinhold, Ne\v York 1971.

19, P. Lévy, Vintel/igence collective, La Découverte, Paris 1994 (trad. it. Vintelligenza col­lettiva, Feltrinelli, Niilano 1996, p. 34, corsivo dell'autore).

20. lvi, trad. it. p. 128.

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acquistati al supermercato con qualunque cosa sia già presente nella loro "dispensa", individualizzando e trasformando il prodotto finale". Sono l'in­telligenza e la capacità cognitiva di ogni singolo membro della comunità che fanno la differenza e che rappresentano un valore inestimabile. Su questo principio si articola quindi uno degli elementi cardine della nuova tenden­za, poiché è attraverso il processo di cooperazione, fondato sullo spazio lasciato alle competenze e alle specificità dei singoli, che si sviluppano idee, si produce cultura e si diffondono oggetti culturali.

In questo contesto, allora, un'idea tradizionale di creazione del prodot­to culturale, legata alla presenza di un genio creativo singolo e romantica­mente isolato, risulta asfittica e poco utile a rendere conto della molteplice sfaccettatura dei fenomeni della contemporaneità. Ci troviamo infatti davanti a modalità creative e di fruizione che, benché nate in contesti molto specifici e delimitati (la produzione di software informatici open source), non tardano a valicare i loro confini, imponendosi come modello creativo e produttivo, se non dominante, di certo alternativo a quello tradizionalmen­te tramandato.

Le nuove tecnologie della comunicazione favoriscono infatti la rapidità del linking, del richiamo e del rimando ad altri ambiti, campi e concetti che permettono di arricchire lesperienza di ognuno. La diffusione delle idee si manifesta allora in una forma, per così dire, virale: il contagio è rapido, velo­ce e preciso. Non sono solo le notizie e le opinioni a circolare in questo modo, sono anche le pratiche e le idee. Nel settembre 2003, è partita da un blog l'idea del bookshi/ting, atto antagonista di cambiare posto ai volumi nelle librerie per dare a un autore lo stesso risalto di altri. A partire dalla media degli ottanta accessi giornalieri al blog, in poche settin1ane il book­shi/ting è diventato un movimento, ne ha parlato la stampa tradizionale e le catene di librerie hanno dato il loro benvenuto a questa nuova pratica".

Due aspetti di questo nuovo, e per certi versi entusiasmante, meccaniM smo sono significativi: la creazione e produzione di matel'iali e contenuti a livello comunitario e l'influenza di questo modello sull'industria culturale tradizionale. Da una parte, è evidente come le nuove tecnologie siano diven­tate, . oltre che terreno di sperimentazione per nuove modalità creative, anche il luogo designato alla diffusione delle idee. È possibile parlare di un forte impulso alla convergenza tra i media, intesa non solo nel senso di una convergenza tecnologica, o meglio di un'integrazione e di un'interoperabi­lità tra mezzi di comunicazione, ma anche nel senso di una convergenza cul­turale, associata evidentemente a nuove pratiche di consumo che prevedo­no l'utilizzo di una pluralità di media, che a loro volta mettono a disposi-

2r. J. Fiske, Understandù1g Popular Culture, Un\vin Hyman, Boston 1989. 22. Cfr. G. Granieri, Blog Generation, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 65-86.

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zione dell'utente una vastissima gamma di prodotti. La convergenza tecno­logica definisce le forme di un'interattività strutturata, che implica precise strategie di marketing, mentre la convergenza culturale delinea i confini e l'orizzonte di una comunità partecipativa. Si instaura pertanto un processo creativo che chiama in causa tutte le competenze e le conoscenze pregresse dello spettatore, tutta la sua enciclopedia di riferimento e che si organizza intorno ali' abbondanza di materiali messi a disposizione dai media.

Si pone, a questo punto, un problema tra la convergenza prodotta dal proprietario del marchio e quella che invece si determina come un prodot­to dell' inte1vento dei fan e che non è quindi motivata da una logica di sfrut­tamento commerciale. Infatti, da un lato i creatori e i produttori di un film o di uno show televisivo costruiscono le modalità dello sfruttamento in senso commerciale del loro prodotto (marchio) su media diversi, ma allo stesso tempo i fan determinano una diffusione simile di materiali non moti­vata, però, dallo scopo di lucro. Si va affermando, oggi, un nuovo meccani­smo di condivisione delle informazioni e delle proprie produzioni che passa attraverso Internet, straordinario acceleratore di processi, e che, prima della sua affermazione, ha impiegato anni per arrivare a compimento. Il pubbli­co, considerato per lungo tempo semplicemente come un gruppo di fre­quentatori di un determinato ambiente della comunicazione di massa che avidamente consumavano e accettavano in n1aniera passiva qualsiasi pro­dotto venisse loro offerto, '~ene oggi rivalutato. In realtà, infatti, i fan adot­tano frequentemente un approccio attivo nei confronti dei testi massme­diatici'', dimostrando di essere spettatori dinamici, che consumano, ma che discutono e riflettono' su quanto consu1nano e che sono attivi nella com­prensione dei prodotti/testi mediatici, anche costruendosi un ruolo dina­mico nella creazione di nuovi materiali correlati: «Media fans are consu­mers who also produce, readers who also write, spectators who also parti­cipate»24.

D'altro canto, la modalità collaborativa e anti-autoriale non è preroga­tiva di territori poco battuti o di prodotti di nicchia, poiché questa meto­dologia di lavoro influenza anche la realizzazione di prodotti più tradizio­nali. Il blockbuster americano contemporaneo, ad esempio, o high concept movie, è delineato come un prodotto dalla grande vendibilità, adatto ad essere esperito su diversi supp61ti e venduto su tutti i mercati interni e stra­nieri. Anche il blockbuster, secondo J ustin Wyatt è un prodotto dalla strut­tura modulare, poiché frammentabile e riproponibile nei più diversi conte-

23. Cfr. H. Jenkins, Textual Poachers, Television Fans and Participato1y Culture, Rout­ledge, London 1992.

24. H. Jenkins, «Strangers no More»., We Sing: Ftlking and the Socia! Construction o/ the Science Fiction Fan Co111111unity, in L. Le,vis (ed.), The Adorù1g Audience. Fan Culture and Popular Media, Routledge, London-Ne\v York 1992, p. 208.

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sti ludici o di intrattenimento". Questa modularità, assieme a storie sempli­ci e lineari, con personaggi tanto stilizzati da poter essere riassunti in poche parole diventando claim efficaci nelle campagne pubblicitarie, rende il film pensato in virtù di un futuro ampliamento e sfruttamento in altri contesti di consumo. I:immaginario legato a un determinato film inizia a vivere dopo e durante l'uscita nelle sale, si ripropone e si rigenera in altri contesti media­tici: TV, videogame, riviste, giochi, gadget e parchi tematici, che propongo­no veri e propri spin off di film di largo consumo. Il film diventa allora frui­bile in modi e contesti diversi, con formati narrativi adeguati alla specifici­tà della situazione di fruizione e del medium utilizzato. Le forme di narra­zione senza un centro vanno costantemente aumentando, anche e soprat­tutto grazie al progresso tecnologico e il prodotto cinematografico si carat­terizza per una sempre crescente interattività rispetto alla narrazione. L'autore viene messo da patte, o meglio, framn1entato, in una n1olteplicità di entità che lavorano ai singoli anelli della catena (il videogioco, il sito Internet, i gadget, le versioni DVD ecc.) e che lasciano sempre più spazio e autorità a una nuova tipologia di fruitore. È in base alle caratteristiche del consumatore/spettatore e al medium utilizzato per la visione, infatti, che il film e i suoi prodotti collaterali vengono personalizzati e ritagliati su misu­ra. La tendenza cross-mediatica prevede perciò una narrazione in gran parte condotta dal fruitore, e non più da un'entità autoriale. Nella strenua lotta per la conquista dell'audience (e di consumatori), la creazione di nuove forme narrative e la personalizzazione del prodotto, dal punto di vista narrativo così come da quello delle modalità di fruizione, diventano una necessità primaria.

Ciò che sta radicalmente cambiando è dunque non solo la figura del­l'autore, sempre più diffusa o addirittura superata dalle nuove forme della creazione, ma anche, e radicalmente, la nozione stessa di opera.

Ho cominciato questo lavoro cercando di mostrare, alla fine del primo capitolo, come la costruzione dell'autore come soggetto discorsivo fosse, nell'ambito dell'audiovisivo, fortemente collegata alla nozione di proprietà intellettuale. Ciò che avviene nei primi decenni del cinema è esattamente il passaggio da un'idea di proprietà materiale dell'opera ad una forma di pro­prietà immateriale, ed è da imputarsi in molta parte al carattere di riprodu­cibilità dell'opera cinematografica. La proprietà intellettuale non è dunque soltanto l'ambito in cui si applica il diritto d'autore, ma è il nucleo fondati­vo del rapporto autore-opera ed è dunque il risultato di un processo tecno­logico, culturale e sociale prima ancora che legislativo. Ciò che mi sembra si vada delineando alla fine del nostro percorso è una sorta di dissoluzione

25. J. \X'yatt, High Concept . .J\1.ovies and 1\1.arketùtg in Hollyu:ood, Universicy of Texas Press, Austin 1994.

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in parallelo della forma autore e della forma opera. Non stupisce dunque che oggi la vera questione verta intorno alla proprietà intellettuale. Secondo un'opinione che trovo condivisibile'6, lattuale assetto del diritto d'autore e l'idea stessa di proprietà intellettuale, come ci è stata trasmessa dal secolo passato, rappresentano l'ultimo baluardo, funzionale ormai ad interessi par­ticolari, che si oppone a un profondo cambiamento della produzione cul­turale. Ma seguire questa traccia ci porterebbe ben oltre i confini della que­stione dell'autore.

Tornando al cinema, è difficile dire se e come la forma film avrà un futu­ro e di certo, per riprendere Ford, i film non si faranno da soli. Potranno farsi però senza bisogno di autori.

26. Cfr. L. Lessig, Free Culture, The Penguin Press, Ne\v York 2004.

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Spettacolo

A tutti noi è capitato e capita di considerare l'autore come criterio di scelta e di valutazione, come una garanzia di qualità e di corrispondenza ai nostri gusti cinematografici. Tutto questo ci appare naturale, parte integrante del modo con cui andiamo a vedere un film. Tuttavia, se volgessimo lo sguardo alla storia del cinema, alla critica e al dibattito teorico troveremmo ben presto indizi significativi pronti a indicarci quanto di costruito, di culturalmente determinato ci sia dietro la nozione di autore e quanto essa stessa sia suscettibile di analisi storica, critica e teorica. È quanto il volume si propone di fare, ricostruendo un percorso tutt'altro che lineare in un secolo di cinema. Soffermandosi su alcuni snodi che ne hanno segnato la definizione e le modificazioni, analizzandone alcuni (asi esemplari (Ford, Hitchcock, Leone), l'autore cinematografico viene indagato per mostrarne lo statuto mutevole, contraddittorio e alle volte paradossale. Il libro fa dunque scoprire come alla fine, nel panorama contemporaneo, questo alter ego, che dietro le immagini ha accompagnato la nostra esperienza di spettatori cinematografici, forse ha irrimediabilmente perso il suo ruolo e la sua posizione.

Guglielmo Pescatore insegna Semiotica del cinema e dei media presso l'Università di Bologna. Si è occupato a più riprese dei vari aspetti della comunicazione cinematografica e audiovisiva. Tra le sue pubblicazioni La voce e il corpo. L'opera Lirica al cinema (Campanotto, Udine 2001),

IL narrativo e il sensibile. Semiotica e teoria del cinema (Hybris, Bologna 2002). Per i nostri tipi ha curato nel 2005, con Giacomo Manzoli, il volume L'arte del risparmio: stile e tecnologia.

ISBN 88- 430- 3947- 4

€ 17.30 911~ !I~~ !l~ll~lj~l!IJ ~Il