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La politica alla fine della storia: la nozione di autorità in Alexandre Kojève
Facoltà di Lettere e Filosofia
Corso di laurea in Filosofia
Cattedra di Filosofie e problemi dell’intersoggettività
Candidato
Lorenzo Di Maria
n° matricola 1460585
Relatore
Luciano De Fiore
A/A 2014/2015
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SOMMARIO
CAPITOLO PRIMO – LA FINE DELLA STORIA ............................................................................ 2
1.1 Kojève e la Fenomenologia dello spirito ........................................................................ 2
1.2 Kojève alla fine della storia ............................................................................................ 6
1.3 Kojève e la post-storia ................................................................................................. 13
1.3.1 Kojève…a margine ................................................................................................. 13
1.3.2 Kojève e la dialettica Signore-Servo ...................................................................... 16
1.3.3 Kojève e l’accontentarsi ........................................................................................ 24
1.3.4 Kojève e l’allineamento delle province .................................................................. 30
1.3.5 Kojève e…il Giappone ............................................................................................ 34
CAPITOLO SECONDO – LA FINE DEL POLITICO ...................................................................... 39
2.1 Kojève e Schmitt ........................................................................................................... 39
2.1.1 Appropriazione, divisione, produzione .................................................................. 39
2.1.2 La crisi dello Stato alla fine della storia ................................................................. 41
2.1.3 L’appeasement ...................................................................................................... 45
2.1.4 La risposta di Schmitt ............................................................................................ 48
2.2 Gli Imperi ...................................................................................................................... 51
2.3 Il filosofo e il potere ..................................................................................................... 59
2.3.1 Il negoziatore ......................................................................................................... 59
2.3.2 Il tiranno ................................................................................................................ 62
2.4 La nozione di autorità .................................................................................................. 67
2.4.1 La definizione ........................................................................................................ 67
2.4.2 Le quattro teorie .................................................................................................... 70
2.4.3 Genesi, conservazione, trasmissione ..................................................................... 73
2.4.4 Autorità, tempo ed essere ..................................................................................... 78
2.4.5 Le applicazioni politiche ........................................................................................ 82
2.4.6 Le appendici........................................................................................................... 88
CONCLUSIONI ........................................................................................................................ 91
BIBLIOGRAFIA ........................................................................................................................ 95
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CAPITOLO PRIMO – LA FINE DELLA STORIA
[…] ma il sig. Kojève è umano,
come tutti noi.
(Harry Burrows Acton, su “Philosophy”, XXIV, 1949)
1.1 Kojève e la Fenomenologia dello spirito
Benché sia piuttosto una pubblicazione dell’umorista francese Raymond Queneau
che non solo lo ha curato ma lo ha anche “scritto” (si tratta infatti,
fondamentalmente, dei suoi appunti), il più celebre e importante libro di Alexandre
Kojève resta Introduction à la lecture de Hegel edito da Gallimard per la prima volta
nel 1947. Ogni approccio a Kojève, anche quello che non si interessa specificamente
di Hegel, non può che fare i conti, in qualche modo, con questo testo. Non si tratta,
infatti, di semplici lezioni sulla Phänomenologie des Geistes, ma di un manifesto del
modo di riflettere di Kojève, importante per comprendere i tratti essenziali del suo
originale pensiero. Ciò che vi è di rilevante, ancor prima dei suoi contenuti specifici
ed “accademici”, è la strumentalizzazione del libro pubblicato nel 1807 dal filosofo
di Stoccarda, utilizzato come “chiave di lettura” del mondo contemporaneo a Kojève,
quello Novecentesco sospeso tra due Guerre mondiali. Carlo Altini lo dice
chiaramente:
Agli occhi di Kojève, la Fenomenologia hegeliana non è una “semplice” opera
filosofica, bensì lo strumento per la comprensione del proprio tempo, inteso come
esito dell’intera storia umana determinata da una specifica forma di desiderio,
quella antropogena del riconoscimento (universale).1
Infatti, se per un altro amante di Hegel come Carl Schmitt la Fenomenologia dello
spirito è uno dei classici della filosofia, per Kojève si tratta del libro filosofico per
eccellenza. Non un libro da leggere, da studiare, da interpretare, e poi riporre in
libreria, ma un libro da sfruttare, da applicare e continuare ad applicare, una specie di
manuale attraverso cui solamente possiamo capire il nostro tempo. In questo senso
diventa importante il genio e la spregiudicatezza di un Kojève che afferma:
1 Carlo Altini, Fino alla fine del mondo moderno. La crisi della politica nelle lettere di Carl Schmitt e
Alexandre Kojève, in “Filosofia politica”, 2003 n. 2, p. 214.
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L’unica verità è che ho cercato (e continuo tuttora a cercare) di portare a termine
una mise à jour di Hegel.2
Ma, come nota Valentini, «i funzionari di Hegel pensano forse di “applicare” la
filosofia di Hegel, ma, volenti o nolenti, fanno qualcosa di nuovo»3. Questo metterci
del proprio è, del resto, una costante in Kojève: ogni volta che ha modo di toccare,
all’interno dei suoi scritti e delle sue conversazioni, i Grandi della storia della
filosofia, come Platone, Aristotele, Hobbes, Kant, ecc., non ne fa mai un’analisi
precisa, non li tratta mai come “classici” intoccabili, bensì utilizza quello che è il
nocciolo essenziale del loro pensiero per dire la sua circa i grandi temi della filosofia
e, ancor più spesso, la situazione culturale, sociale e politica del suo tempo.
Questo diventa possibile solo se ci si pone, come fa lui, dal punto di vista del
Sapere Assoluto, atto conclusivo (capitolo ottavo) del percorso fenomenologico
descritto da G.W.F. Hegel. La sua assolutezza non è indice di onniscienza divina,
non è il “sapere tutto”, ma è piuttosto il “sapere tutto in quanto Spirito”, in quanto
Cultura, la definitiva e consapevole coincidenza di essere e sapere, realtà e
razionalità. Una consapevolezza, però, storicamente conquistata, non immediata ma
determinata, risultato finale di quel percorso in cui l’Umanità ha divorato e
assimilato il Mondo in quanto Altro da sé. Nella Prefazione della Fenomenologia,
Hegel spiega quella che sarà la conclusione del suo testo in questi termini:
Il vero è l’intiero. Ma l’intiero è solo l’essenza che si completa mediante il suo
sviluppo. Dell’Assoluto devesi dire che esso è essenzialmente risultato, che solo
alla fine è ciò che è in verità […].4
Con ciò si conclude la fenomenologia dello spirito. Ciò che lo spirito si viene in
essa preparando, è l’elemento del sapere. In quest’elemento si espandono ormai
momenti dello spirito nella forma della semplicità, forma che sa il proprio oggetto
come se stessa. Essi non cadon più l’un fuori dell’altro nell’opposizione dell’essere
e sapere, anzi permangono nella semplicità del sapere, sono il vero nella forma del
2 Lettera di Kojève a Schmitt del 16.5.1955, da Der Briefwechsel Kojève-Schmitt, in “Schmittiana.
Beiträge zu Leben und Werk Carl Schmitts”, hrsg. von Piet Tommissen, Berlin, Duncker & Humblot,
1998, Band VI, pp. 100-124; trad. it. Carteggio Alexandre Kojève-Carl Schmitt, a cura di C. Altini, in
“Filosofia politica”, 2003 n. 2, p. 188. 3 Francesco Valentini, Soluzioni hegeliane, Guerini editore, Milano 2001, p. 327.
4 G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, bei Joseph Anton Goebhardt, Bamberg und Würzburg
1807; trad. it. Fenomenologia dello spirito, a cura di Enrico De Negri, ed. originale La Nuova Italia,
Firenze 1933; nuova ed. Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2008, tomo I, p. 15.
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vero, e la loro diversità è solo diversità del contenuto. Il loro movimento che in tale
elemento si organizza in un intiero, è la logica o filosofia speculativa.5
L’assolutezza del Sapere hegeliano è quindi da intendere come Libertà, ovvero
come incondizionatezza (ab-solutus=“sciolto da”) del giudizio: l’uomo può
interpretare tutto ciò che ha fatto e tutto ciò che lo circonda perché la Storia che egli
stesso è gli ha fornito ormai gli strumenti concettuali per farlo. Quei concetti non
rappresentano altro che il passaggio dello Spirito umano nel Mondo, passaggio
attraverso il quale l’Uomo ha divorato l’Altro da sé e lo ha digerito, lo ha
metabolizzato, lo ha astratto in una Logica puramente formale, nel senso che può fare
a meno di ogni contenuto culturale storicamente determinato, di ogni figura
fenomenologica, di ogni momento che ha contribuito a costituirla: Slavoj Žižek parla
del compimento di questo processo nei termini poco ortodossi quanto efficaci di
“evacuazione”. L’Absolute Wissen è, quindi, il punto di contatto tra la
Phänomenologie des Geistes e la Wissenschaft der Logik, il che lo rende
paradossalmente (e contraddittoriamente, ma solo per gli ingenui avversari del
filosofo di Stoccarda) qualcosa di insieme “storico” e “a-storico”. Esso è il Sapere
concettivo, l’insieme di quelle categorie astratte e universali del pensiero che, per
loro stessa definizione, sono sovra-temporali, applicabili cioè al di là delle
contingenze storiche. Ciò che Hegel scopre (ponendosi in questo modo al di là di
tutta una tradizione filosofica “riflessiva” che va da Platone a Kant, e che rende le
idee qualcosa di innato, aprioristico e trascendentale, benché in forme diverse, anche
contrastanti tra loro) è, però, il suo risultare da un percorso temporale, la Storia
umana appunto: si tratta sì di concetti “astratti”, ma l’astrazione è sempre un
“astrarre da”; e la loro “universalità” risiede solo nel fatto di esser stati “prodotti”
dalla, nella e per mezzo della Storia, ovvero da quel Tutto – appunto – universale che
è lo Spirito nel suo movimento storico.6
È da questo punto di vista che si pone Kojève, quello che lui chiama Saggezza.
Una Sophía senza phileîn, proprio perché non c’è più quell’”amore per la sapienza”
da intendere (quasi platonicamente) come mancanza: non c’è più una tensione attiva
verso il Senso poiché esso è stato raggiunto, e chi lo ha raggiunto è proprio Hegel nel
momento in cui ha visto Napoleone a cavallo.
5 Ivi, p. 30.
6 Avremo più in là modo di analizzare come questo movimento sia quello dialettico-conflittuale
governato «da una specifica forma di desiderio, quella antropogena del riconoscimento (universale)»,
per tornare alla prima citazione tratta dall’articolo di Carlo Altini.
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In quell’avvenimento – l’ingresso dell’imperatore francese a Jena – Hegel legge il
Senso di tutta la Storia Occidentale nel momento della sua finale realizzazione.
Arrivato a tale conclusione (in tutti i sensi), Hegel, fino ad allora Filosofo come tanti
altri, mette mano al libro della Saggezza – la Fenomenologia dello spirito – e può
comprendere l’intera Storia servendosi di quelle categorie concettuali – il Sapere
Assoluto – che la Filosofia ha cercato per millenni risultando sempre parziale nei
suoi tentativi7, e che solo lui – il Saggio – ha afferrato in quanto ha potuto vedere la
Storia che gli passava, trionfante, sotto casa. In Napoleone c’è l’universalizzazione
(l’estensione al di là di ogni confine – ancora una volta – “parziale”, nel caso
specifico quello della Francia8) della più grande conquista dell’Umanità: la sua
Libertà. Ma Napoleone è solo lo strumento effettuale dello Spirito. E il problema
finale di Hegel – che non a caso dopo Napoleone, ricomincerà dalla rappresentazione
(Vor-stellung, naturale, artistica, religiosa) il suo percorso – è superare (Aufheben) la
rappresentazione e giungere a quel Sapere Assoluto che altro non è se non
comprendersi come Spirito: l’Uomo non ha più un Oggetto a lui esteriore, Altro, ma
la Realtà è stata “superata” in quanto Razionale, compresa in quanto interpretabile9.
In tal senso si potrebbe dire che il Sapere Assoluto, da intendere come Spirito che
comprende se stesso in quanto Spirito, è la comprensione (nel pensiero) di
Napoleone (a cavallo): esso, quindi, non può che esplicarsi in un Libro, chiuso il
quale la storia che esso stesso racconta, ovvero la Storia dell’Occidente, può
considerarsi conclusa.
La fine della storia è un tema centrale nell’interpretazione che dà di Hegel
Alexandre Kojève, ma, soprattutto, è fondamentale per la comprensione di tutto il
suo pensiero. Ne parleremo a breve. Per ora ritengo opportuno tornare un attimo sulla
spregiudicatezza ermeneutica del filosofo russo-francese. Il suo scarso timore
reverenziale nei confronti dei “classici”, il metterci sempre del proprio (anche in
7 Si tratta della parzialità del prendere, ontologicamente, posizione. E si prende posizione solo
fintantoché c’è “conflitto”. La storia della filosofia può essere riletta come storia del conflitto di
opinioni autenticamente contrastanti, e dunque in una logica schmittiana “amico-nemico”. Questo
punto si capisce se si pensa, ancora una volta, all’etimologia di “Filosofia”: quando si è davvero
innamorati di qualcuno, si osserva l’Amato sempre secondo una determinata prospettiva. In tal senso
la “totalità amorosa” che ne deriva diventa una pretesa dell’Amante che ha davvero poco a che fare
con una Totalità autenticamente oggettiva.
Come e comunque, i momenti “parziali” che si avvicendano nel corso della storia della Filosofia, sono
– hegelianamente – necessariamente parziali. Il Sapere Assoluto, per non essere una mera astrazione,
ha dovuto fare riferimento ad ognuno di quei momenti essenziali, si è nutrito della loro necessaria
particolarità, è costituito cioè dalla loro Totalità dialettica. 8 È in Francia che lo Spirito “approda” alla sua conclusiva Libertà Assoluta: si tratta degli ideali che si
sono affermati nella Rivoluzione del 1789. 9 Cfr. Luciano De Fiore, La città deserta. Leggendo il Sapere assoluto nella Fenomenologia dello
spirito di Hegel, Lithos Editrice, Roma 2012.
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Hegel, se lo si considera un classico della Filo-sofia) non è arroganza o sintomo di
poca serietà (come afferma chi lo critica) ma qualcosa di perfettamente conforme al
suo pensiero. Nel momento in cui ci si pone dal punto di vista della Saggezza, le
varie filosofie che si sono avvicendate nel corso della storia non sono più
considerabili come Teorie universali, in grado di esaurire, ognuna per sé, tutto il
Senso, ma sono riconosciute nella loro particolarità essenziale e comprese come
momenti necessari dello Spirito. È proprio il loro esser parte di una Totalità
compresa, il loro essere scritte nel Libro della Saggezza, che le rende attualizzabili e
“sfruttabili” alla fine della storia.
1.2 Kojève alla fine della storia
Per quanto riguarda, invece, la mise à jour di Hegel il discorso è diverso. Non è un
forzarlo entro un discorso che lo ha già ri-compreso, ma è solo continuare ad aprire
quel Libro già scritto che, afferma Kojève, ha già detto tutto. La capacità, per
Kojève, che ha la Fenomenologia dello spirito hegeliana di fungere da chiave di
lettura (quasi un dizionario, o meglio una “Enciclopedia”) del mondo a lui coevo,
risiede proprio nel fatto che, dopo la fine della storia, non c’è più nulla da dire.
Prima di andare avanti, però, è opportuno chiedersi se Hegel la pensasse
effettivamente allo stesso modo sulla fine della storia.
Quando Hegel parla di questa “fine”, non sta parlando della Fine della Storia. Se
in quel 1806 Hegel mette un punto, chiude il Libro e tira un sospiro di sollievo, è
solo perché, in quel momento, lui, Filosofo, ha avuto modo di comprendere
speculativamente ciò che proprio allora Napoleone aveva realizzato concretamente,
accedendo così alla Saggezza. Il sapersi come Spirito dello Spirito è la definitiva
conquista della Libertà, ma ciò non significa – per Hegel – che dopo tale conquista
l’uomo non abbia più niente da fare. In sostanza, ciò che “finisce” in Hegel con la
Fine della Storia è la storia dell’Occidente da intendere come storia della Libertà, è
una storia. Dopodiché, l’Umanità inizierà un nuovo corso, necessariamente diverso,
che solo un Filosofo Venturo (direbbe Heidegger) potrà comprendere (divenendo
Saggio, diversamente Saggio). La Storia dunque ricomincerà ed Hegel, nel finale
della sua Fenomenologia, lo dice chiaramente:
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[…] e questo tolto esserci, – quello di prima, ma rinato or ora dal sapere [il Sapere
Assoluto come «Città deserta»10
, una città cioè in cui restano edifici, scheletri
“logici” di cemento armato, ma in cui nessuno, nessun personaggio, nessuna
“figura” corre a lavoro, né si passeggia più, perché la Città stessa ha potuto far a
meno dei suoi abitanti], – è il nuovo esserci, un mondo nuovo e una nuova figura
spirituale. In essa e con la sua immediatezza, lo spirito ha da ricominciare da
principio [corsivo mio], in modo altrettanto fresco, e da farsi grande partendo da
essa, come se tutto ciò che precede fosse per lui perduto, ed esso non avesse
imparato nulla dall’esperienza degli spiriti antecedenti. […] Se dunque questo
spirito ricomincia da principio la sua cultura sembrando prender le mosse soltanto
da sé, tuttavia esso comincia in pari tempo da un grado più alto.11
Per Hegel, dunque, la Storia è un percorso circolare che procede dialetticamente e,
arrivato alla “fine” (=conchiuso il cerchio), utilizza questa (la “fine”) come punto di
partenza per una nuova avventura storica dalle imprevedibili caratteristiche12
, la
quale disegnerà un nuovo cerchio ad un livello più alto (e non è necessario che essa
10
Cfr. L. De Fiore, La città deserta, pp. 149-157. 11
G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, pp. 304-305. 12
Hegel è un pensatore rivolto al passato, o meglio pensa al suo presente come risultato del passato.
La Profezia filosofica, lo sguardo del pensiero rivolto (chissà come) al futuro, è ciò che di meno
“hegeliano” ci possa essere. In termini teologici potremmo dire che Hegel è un pensatore certamente
apocalittico (nel senso letterale di “rivelativo”) ma non in un senso escatologico, perché la fine (per lo
meno quella fine) non è a-venire, ma è già realizzata e compresa.
In Karl Marx, al contrario, sussiste un forte dispositivo escatologico. La protensione di Marx verso un
futuro comunista che davvero realizzerà la Storia dell’Umanità, però, non è profetica ma “scientifica”,
non è teorica ma pratica. Questo risulta evidente dalle sue Tesi su Feuerbach, e in particolar modo
dalla XI Tesi in cui si afferma che fino ad allora i filosofi avevano solo diversamente interpretato il
mondo (un po’ ciò che Hegel intendeva quando parlava dei momenti particolari della storia della
filosofia) e che ora si trattava di cambiarlo. L’obiettivo è dunque la realizzazione di una futura società
comunista, realizzazione che però non può avvenire “filosoficamente”. La filosofia ha, in Marx stesso,
il ruolo di interprete del mondo: ciò di cui necessariamente si occupa è la comprensione del presente
come risultato di un percorso storico. Non è essa che si rivolge al futuro. La filosofia ha una funzione
ermeneutica, mentre l’aspirazione di Marx è quella di fondare una vera e propria Scienza che individui
una legge in grado di “prevedere” le sorti dell’umanità. Questa legge sarà quella del materialismo
storico, quella dei modi e dei rapporti di produzione, quella per cui la classe proletaria, alla fine della
Storia, rovescerà la società borghese instaurando quella comunista. Da sola, però, la legge non basta.
La realizzazione – appunto escatologica – di tale “destino” è rimessa a chi è concretamente in grado di
trasformare il mondo. Tale cambiamento, tale Rivoluzione, non può essere affrontata attraverso teorie
filosofiche “universali”, ma nella prassi, attraverso l’Azione, la quale è specificamente politica. E la
Politica, già per Hegel, è un “decidersi comunque alla finitezza”, alla particolarità, all’esserci che fa
autenticamente la storia.
In tal senso, dunque, Marx ha un “atteggiamento” sicuramente diverso (propositivo) rispetto al
filosofo di Stoccarda, ma non vi si distacca poi così tanto da un punto di vista più strettamente
filosofico: se diciamo – con Hegel – che il Sapere Assoluto rappresenta la fine di questa storia, stiamo
dicendo – anche con Marx – che dopo di esso inizierà una nuova storia fatta di nuove conquiste
(diverse dalla già conquistata Libertà. Conoscendo il marxismo si potrebbe parlare, forse, di conquista
dei valori “meno fortunati” della Rivoluzione francese, l’Uguaglianza e la Fraternità, o, più
semplicemente, della Giustizia sociale) e rimessa necessariamente alla prassi politica. Insomma, la
Città è deserta perché i figli dei suoi vecchi abitanti “moderni” l’hanno abbandonata per poter assalire
e conquistare una nuova Città in cui vivere più felicemente.
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proceda dialetticamente, sarà un nuovo Saggio a scoprirne il meccanismo segreto e
da lei immanentemente prodotto). È una sorta di spirale.
Nel momento in cui, però, Alexandre Kojève decide di utilizzare la
Fenomenologia dello spirito come un manuale di istruzioni (ermeneutiche) valide
per il mondo a lui coevo, lo può fare – come già visto – solo ponendosi (ancora) dal
punto di vista della Saggezza, vale a dire nella fine della storia. Da questo punto di
vista in Kojève c’è stata un’evoluzione. Dice Kojève:
All’epoca del mio corso (cioè prima della guerra), dentro di me ho sempre letto
«Stalin» al posto di «Napoleone», e così ho interpretato la Fenomenologia dello
spirito – per usare la Sua [di Schmitt] terminologia: Stalin = «Alessandro del nostro
mondo» = «Napoleone industrializzato» = impero mondiale (= «terreno»).13
All’epoca della Introduction, il filosofo russo-francese vedeva, dunque, in Hegel
un ingenuo errore di valutazione, quell’affrettare il giudizio che il filosofo di
Stoccarda aveva tante volte rimproverato ad altri. L’errore consisteva nel fatto che la
realizzazione della Storia non era avvenuta con Napoleone bensì stava avvenendo,
proprio in quegli anni, con Stalin e – marxianamente – con la concretizzazione dello
Stato socialista.
Dopo la guerra, all’epoca della sua attività diplomatica o del carteggio con
Schmitt, però, Kojève si accorge che in realtà da Napoleone al secondo dopoguerra
non era accaduto granché:
Ora, io credo che Hegel avesse pienamente ragione e che la Storia [Geschichte] sia
giunta alla fine proprio dopo il Napoleone storico. In conclusione, e in ultima
analisi, Hitler è stato solo una «riedizione ampliata e corretta» di Napoleone («La
République une et indivisible» = «Ein Land, ein Volk, ein Führer»). […] ora, tutto
ciò è stato superfluo, visto che Napoleone aveva fatto, nella sua epoca, proprio
come Hitler. Ma purtroppo Hitler ci ha di nuovo pensato, con 150 anni di ritardo!
Così la Seconda guerra mondiale non ha portato nulla di sostanzialmente nuovo. E
la Prima è stata soltanto un intermezzo.14
13
Lettera di Kojève a Schmitt del 16.5.1955, p. 189. 14
Ibidem. È importante riportare come anche Carl Schmitt sia della stessa opinione circa Hitler. In
Die weltgeschichtliche Struktur des heutigen Weltgegensetzen von Ost und West (p. 166) afferma: «è
questo il pericolo: ritenendo di essere storici e attenendosi a ciò che è stato vero in passato, gli uomini
dimenticano che una verità storica è vera una volta sola».
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Sostanzialmente, quindi, da Napoleone all’oggi in cui pensa e scrive Kojève, non
è successo nulla di Nuovo. La Storia umana, intesa come storia di un’Attività politica
di Senso, è finita, senza lasciare spazio ad alcuna novità autenticamente storica. E se
qualcosa è pur successo, il punto è che non si tratta di una sostanziale Novità, ma
semplicemente della progressiva universalizzazione (che oggi potremmo chiamare
anche “Globalizzazione”) della Libertà Assoluta iniziata con Napoleone15
. Kojève,
metodologicamente fedele a Hegel, non ha pretese “profetiche”, non può dire che la
Storia non ricomincerà mai, non può immaginare quello che sarà il “paradigma
desiderante” dell’Uomo del futuro. Ciò che, però, l’Uomo ha desiderato finora, è
stato (almeno potenzialmente) realizzato. Di conseguenza la storia è finita, o sarebbe
meglio dire che inizia la post-storia come epoca della fine della storia, come epoca di
una epoché.16
La differenze con Hegel sono dunque evidenti, e questo dà ragione a Francesco
Valentini quando afferma che chi applica Hegel fa inevitabilmente qualcosa di
nuovo17
. Il punto sta proprio in quell’“applicazione”: l’originalità di Kojève deriva
dal fatto che, pur venendo cronologicamente dopo Hegel, continua a porsi nella
Saggezza e quindi nella fine della storia hegeliana. Il filosofo russo-francese non fa
15
Si rimanda la discussione circa il kojèviano “allineamento delle province” ai paragrafi successivi. 16
Possiamo in tal senso considerare Kojève un pensatore escatologico. La fine della storia, per lui,
non è un punto fermo e immobile ma va, a sua volta, inserita in un divenire – appunto – post-storico.
Si tratta di una pura Potenzialità (in senso aristotelico), una Potenza che resta tale, che inizia con la
chiusura del Libro della Saggezza e giungerà al suo Atto puro solo nel momento in cui non ci sarà più,
nell’istante in cui anche la Fine finisce. Potrebbe essere questo il significato delle parole che Kojève
riprende dalla sua Introduction citandole nella lettera a Schmitt del 16.5.1955: «Nel mio corso, ho
parlato di un antropo-teismo di Hegel sottolineando, tuttavia, che non si tratta solo di un Dio mortale,
ma proprio di un Dio che muore (e forse già morto)». Viene immediatamente in mente il «Dio è
morto» nietzscheano, soprattutto se si considerano le tante riflessioni che Kojève compie circa il
problema “Dio”. In un saggio intitolato L’ateismo (manoscritto in russo, stampato in italiano da
Quodlibet nel 2008), il filosofo russo-francese instaura una relazione interessantissima tra il teista e
l’ateo. Come ben sintetizza Marco Filoni in Il filosofo della domenica. La vita e il pensiero di
Alexandre Kojève (Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 192) «[…] il teista è colui per il quale, al di
fuori dell’insieme che lui stesso forma con il mondo nel quale vive, vi è ancora un qualcosa; mentre
per l’ateo non vi è rigorosamente nulla al di fuori di questo insieme». Si potrebbe dire che per Kojève
la fine della storia è proprio questo Nulla che persiste al di là (= dopo) di quell’Insieme di particolare e
universale, di quel Tutto, che è lo Spirito, il Senso, Dio appunto. Ciò che scompare nella post-storia è
un quid di essenziale, di Umano, di autenticamente Storico, ma quell’“al di là” permane come epoca
pur nella sua Nullità, nel suo Vuoto.
È quasi automatica la connessione con Martin Heidegger, non solo autore di Sein und zeit (1927,
importante influenza per l’Introduction à la lecture de Hegel) ma anche interprete nietzscheano
centrale per tutto il Novecento. Se si intende la fine della storia come epoca dell’epoché del Senso, ci
ritroviamo proprio in ciò che il filosofo della Foresta nera definiva “tempo di povertà” o “notte del
mondo”, un tempo – appunto – “sospeso” (escatologicamente) tra la morte di Dio e il passar via
dell’Ultimo Dio, il tempo del non più e non ancora, del nichilismo incompiuto (quello dei mercanti
nietzscheani, il quale è in fondo quello dei Mercati), del trionfo della tecnica come esito della Storia
(della Metafisica) e dell’immagine del mondo, il tempo in cui ogni angosciante Alterità è stata negata
e ciò che resta è un Sé totalizzante, autoreferenziale, che non fa altro che riaffermare la sua
Autonomia senza porsi alcun compito essenziale (storico-politico). 17
Ved. p. 2.
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altro che strumentalizzare le conclusioni hegeliane per esporre la sua visione del
mondo post-storico:
[…] la mia opera non aveva il carattere di uno studio storico; mi importava
relativamente poco sapere ciò che Hegel stesso avevo voluto dire nel suo libro; io
ho fatto un corso di antropologia fenomenologica servendomi dei testi hegeliani,
ma dicendo soltanto ciò che consideravo esser la verità, e lasciando cadere ciò che
mi sembrava essere, in Hegel, un errore. Così, per esempio, rinunciando al
monismo hegeliano, mi sono coscientemente allontanato da questo grande filosofo.
D’altra parte, il mio corso era essenzialmente un’opera di propaganda destinata a
scuotere gli spiriti. È per questo che ho volontariamente rinforzato il ruolo della
dialettica del Signore e del Servo18
e, in maniera generale, schematizzato il
contenuto della fenomenologia.19
Questa citazione, tratta dall’epistolario che Kojève intrattiene con il filosofo
vietnamita Tran-Duc-Thao, ci conduce anche a capire ciò che, più o meno
esplicitamente, l’autore dell’Introduction critica a Hegel, il che diventa essenziale
per addentrarci nel suo pensiero filosofico-politico. Affermare di aver abbandonato il
monismo di Hegel non significa rinunciare al discorso “totalizzante” del filosofo di
Stoccarda: sarebbe in contraddizione con tutto ciò che è stato detto fin qui circa la
Saggezza (alias Sapere Assoluto) come fulcro del pensiero di Kojève. Si tratta
piuttosto di una critica all’unidirezionalità della visione di Hegel circa l’essere
umano. Per Hegel l’Uomo ha indiscutibilmente una duplice natura, storica e
biologica, temporale e spaziale. Il punto è che l’una non sussiste senza l’altra e il
cammino fenomenologico è solo la comprensione della loro inscindibilità dialettica
(= monismo). Per Hegel, quindi, Storia e Natura «sono due modi di leggere il Libro,
il primo dal lato dell’azione del soggetto sulla natura, trasformata così in mondo
umanizzato, il secondo dal lato di quella natura che solo esiste nel rapporto con il
soggetto»20
. Detto altrimenti, l’Uomo è sicuramente un animale ma è anche ciò che
rappresenta la consapevolezza di quell’animalità: la Natura senza l’Uomo non
esisterebbe, perché, tolto l’uomo, non c’è niente che possa avere consapevolezza
della sua [la Natura] esistenza, definirla, nominarla, accorgersi di lei. Hegel lo dice
chiaramente:
18
Avremo modo di parlare in seguito della “propaganda” kojèviana, nonché del ruolo, nel suo
pensiero, della dialettica Signore-Servo. 19
Lettera di Kojève a Tran-Duc-Thao del 7.10.1948, in G. Jarczyk – P.-J. Labarrière, De Kojève à
Hegel. 150 ans de pensée hégélienne en France, Albin Michel, Paris 1996, p. 64. 20
L. De Fiore, La città deserta, p. 145.
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11
Quest’ultimo farsi dello spirito, la natura, è il suo vitale e immediato farsi; essa, lo
spirito alienato, nel proprio esserci non è se non questa eterna alienazione del
proprio sussistere, e il movimento che istituisce il soggetto.
Ma l’altro lato del farsi dello spirito, la storia, è il farsi che si attua nel sapere e
media se stesso, – è lo spirito alienato nel tempo; ma questa alienazione è altrettanto
l’alienazione di se stessa; il negativo è il negativo di se stesso.21
Come spiega Luciano De Fiore,
Schematizzando, l’essere è Spazio […]. Il soggetto invece è Tempo. E in quanto
Tempo è non-spazio, non-essere [= l’alienazione di se stessa, il negativo di se
stesso]. Quindi Nulla. Il soggetto umano è Nulla, è cioè azione negatrice del dato
oggettivo, naturale, statico.22
Di conseguenza, l’Absolute Wissen è il punto d’approdo di una Storia che si è
sforzata di liberarsi dal condizionamento dell’esteriorità, della trascendenza.
L’angoscia che per secoli l’uomo ha provato verso il dato naturale (divinizzato) è
ormai solo un “ricordo”. Lo Spirito ha compreso se stesso come Totalità, sintesi di
soggettività ed essere, autocoscienza e sostanza, Storia e Natura.
In Kojève, se questi due estremi si legano attraverso la e alla fine della Storia
umana, dopo di essa (o meglio, nell’epoca della sua epoché, nell’epoca
dell’inessenzialità) torna a trionfare quel “dualismo” che è da intendere non come il
“resuscitare” l’inquietante Altro-da-sé, bensì come quell’esaurirsi della Storia che ha
portato l’Uomo a tornare Homo Sapiens. L’Uomo (con la U maiuscola), però, non
scompare del tutto. Al di là del fatto che permane come e comunque una possibilità –
per Kojève estremamente remota – di Storia, lo Spirito resta come conservato (ma
superato) nel Libro. L’avventura fenomenologica dell’Uomo non viene ripudiata, il
Libro non viene bruciato da uomini che tornano ad impugnare clave in un
hobbesiano stato di natura23
. Essa permane come ultimo atto di una Storia oltre la
quale l’Uomo che ha conquistato tutto è appagato, non ha più Desideri (“di Senso”) e
21
G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, p. 304. 22
L. De Fiore, La città deserta, p. 144. 23
Lo stato di natura hobbesiano non si colloca alla fine della storia ma solo all’inizio. Esso è
l’Originale, l’Essenza stessa della Storia. Schmitt (e con lui Kojève) vede, come motore della Storia,
quel conflitto (amico-nemico) che è perfettamente (ed esplicitamente) riconducibile, su un piano
primitivo, all’homo homini lupus e allo stato di bellum omnium contra omnes hobbesiani: essi sono
ciò che c’è il pactum, le istituzioni, le leggi, le norme morali, lo “Stato di diritto” (= liberale) hanno
cercato costantemente, secondo Schmitt, di occultare o almeno mitigare.
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si limita a soddisfare i suoi bisogni – appunto – naturali24
in un modo che però non
ha più nulla di essenziale. Del resto, come vedremo, Kojève non parla di un “ritorno”
dell’uomo alla sua origine animale, ma di un comportarsi dell’uomo come animale:
se tutto è stato fatto e conquistato, l’Azione umana essenziale, quella storico-politica,
non esiste più. La differenza con Hegel sta proprio nel fatto che, dopo tale “fine”, a
restare è quella Natura che per il filosofo di Stoccarda non può esistere senza l’Uomo
storico. Infatti, scrive Kojève (commentando il passo citato della Fenomenologia
dello spirito):
La Natura è indipendente dall’Uomo. Essendo eterna, essa sussiste prima e dopo di
lui. In essa l’uomo nasce, come abbiamo appena visto. E come vedremo subito,
l’Uomo che è Tempo altresì scompare nella Natura spaziale. Infatti, questa
sopravvive al Tempo.
Il Sein o Raum è la Natura eterna, cioè non-temporale. Quanto all’entità opposta,
che è Selbst (cioè Uomo) o Zeit, essa non è nient’altro [corsivo mio] che la Storia.25
Se non c’è più Tempo (= Storia, Spirito), resta pur sempre l’Essere, la Natura, e
l’Uomo viene ridotto al suo supporto biologico. Torna il Due. E se torna il Due,
Hegel «si suicida, e torna Kant»26
. Non è un tornare indietro ma piuttosto un andare
oltre: la fine della storia rappresenta l’esaurirsi del processo di Uni-ficazione che ha
condotto ad essa (come epoca); dopo tale conquista non c’è più movimento,
dialettica, spiritualizzazione, e quell’Uno che è la Storia non può che arrendersi alla
Staticità del suo “opposto”, l’inessenzialità della Biologia. Non si tratta del ritorno di
una nuova Alterità da espugnare, ma solo della sopravvivenza del contenitore
naturale al di là del contenuto spirituale che con esso aveva formato un’Unità. Quel
contenuto fa ormai parte semplicemente di un Libro a cui è stato messo un punto.
Quel punto è la fine della Scrittura, dello scriversi di quel Libro attraverso la Storia.
Se però non c’è più Azione, Movimento, una storia da raccontare e comprendere,
quel Libro si concluderà davvero lì, resterà senza “sequel” o appendici e sarà riposto
in uno scaffale. Al di fuori di quello scaffale, gli uomini continuano a vivere ma
24
Analizzeremo meglio la questione dell’“animalità” dell’uomo post-storico nel prossimo paragrafo. 25
Alexandre Kojève, Introduction à la lecture de Hegel, a cura di R. Queneau, Gallimard, Paris 1947
(ed. citata e tradotta: Paris 1968); trad. it. Introduzione alla lettura di Hegel – tenute dal 1933 al 1939
all’École Pratique des Hautes Études raccolte e…, a cura di G. Frigo, Adelphi, Milano 1996, pp. 541-
542. 26
L. De Fiore, La città deserta, p. 145. È qui doveroso chiarire che non si tratta di un passo indietro,
di un tornare ad una “filosofia riflessiva”. Kojève si pone nella Saggezza hegelianamente intesa ed è
proprio questo che gli permette di utilizzare categorie appartenenti ai vari momenti particolari della
storia della filosofia per comporre il suo pensiero originale.
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senza più una mèta, un Senso, un contenuto culturale, perché non hanno più un Altro
di cui cibarsi (in cui riconoscersi), e – paradossalmente – non possono far altro che
vagare e affaccendarsi come stomaci (animali, appunto) Vuoti.
1.3 Kojève e la post-storia
1.3.1 Kojève…a margine
Questo discorso, che ho voluto tenere finora su di un piano quasi puramente
teorico, trova una sua formalizzazione e soprattutto una sua esplicazione concreta in
una celebre Nota che Kojève scrive nel 1946 di suo pugno (legandola proprio alla
citazione che ho riportato a p. 11) in occasione della prima edizione del 1947
dell’Introduction, e nell’Aggiunta a quella stessa Nota attraverso cui Kojève,
nell’edizione del 1968, ritratta quanto da lui detto in precedenza.
Innanzitutto, come nota Antonio Lucci27
, è importante osservare come ciò
attraverso cui Kojève dice la sua, senza la mediazione del suo allievo, è proprio
quella Nota. In questo non si può omettere il riferimento a Jacques Derrida. Se si
pensa al suo Circonfession (1991), testo scritto “in nota” alla biografia intellettuale
che Geoffrey Bennington aveva tentato di scrivere sul filosofo franco-algerino
(invano perché lui gliela “decostruisce” punto per punto), si capisce come Derrida sia
stato il filosofo del margine. Allo stesso modo, se Kojève non pubblica quasi nulla
(nonostante la mole immensa della sua opera) è proprio perché capisce come la
“serietà” del compito filosofico si sia effettivamente esaurita. Non può esistere, alla
fine della Storia, un Libro, non può essere scritto poiché non c’è nulla di nuovo da
dire, ed ogni tentativo in tal senso non può che restare incompiuto e rivelarsi vano28
.
È quindi un pensiero che si sviluppa sul bordo rappresentato dalla post-storia,
appunto sul margine di un Libro, perché si tratta di una mera “aggiunta” ad un
discorso già concluso.
Questo è anche il motivo per cui Kojève accusa Georges Bataille di “misticismo”.
In una lettera del ’42 a quello che fu un suo illustre allievo all’École Pratique des
27
Cfr. A. Lucci, Prolegomeni alla fine della storia: Kojève sul desiderio, da
“desiderioefilosofia.com”, 2009. 28
Kojève, fin da giovane, alimentava una pretenziosa velleità, quella di scrivere un Système du Savoir.
Questo, però, non fu mai pubblicato, né concluso, né ordinato. Rimangono brevi capitoli, fogli sparsi e
schemi propedeutici, ma nulla di sistematico. Secondo Marco Filoni questo tentativo, pur vano,
rappresenta l’aspirazione kojèviana ad essere Filo-sofo. Secondo me, invece, quell’incompiutezza va
preservata come tale: se ci si pone nella fine della storia e dunque nella Saggezza, ogni tentativo di
sistematizzare nuovamente (ex novo) è vano. L’unica possibilità è prendere appunti, aggiungere note,
correggere e ampliare, perché in fondo l’epoca della fine della storia altro non è se non l’epoca
dell’ampliamento di questa stessa fine. Un’epoca, insomma, in cui succede pur qualcosa, ma questo
qualcosa non è abbastanza essenziale, Umano, per metter capo ad un nuovo Libro.
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Hautes Études, Kojève scrive di aver letto L’expérience intérieure e di averlo
trovato, fondamentalmente, un libro “mistico”, in nulla diverso dalla triplice vita di
san Bonaventura o dalla regola di san Benedetto (testi che lesse in contemporanea). Il
“misticismo” di quel testo, secondo il russo-francese, stava nel voler «esprimere
verbalmente (!) il silenzio, parlare (!) dell’ineffabile, rivelare con parole (!) ciò che è
oscuro. Orbene, riuscire a esprimere il silenzio (verbalmente!) significa parlare senza
dire niente»29
. Ciò che rende “mistico” il parlare di Bataille, secondo Kojève, non è il
Nulla che cerca di esprimere: su quel Nulla (post-storico) di Senso, i due si trovano,
fondamentalmente, d’accordo. Il problema è il tentativo di esprimerlo, di renderlo
Parola, e dunque di compiere un’Azione (discorsiva, e in tal senso Filo-sofica): il
“misticismo” è nel Dire il Nulla e dar voce a quel Silenzio fatto di versi animali
senza più Parole essenziali. Mi piace pensare (e non so quanto mi distacchi in questo
modo dal pensiero di Kojève) il Silenzio come caratteristica fondamentale dell’epoca
della fine della Storia essenzialmente umana. Un Silenzio fatto di rumori assordanti,
quelli delle grandi città: clacson che suonano, cellulari che squillano, onnipresente
brusìo. Anch’essi sono il risultato (heideggerianamente “tecnico”) della Storia dello
Spirito Occidentale, che trova la sua massima esemplificazione nella Pienezza delle
grandi metropoli moderne. Una Pienezza che è il Concetto, il Senso, ma che,
soffocando nel cemento ogni “spazio verde”, preclude la possibilità di qualsiasi Altro
Senso da conquistare. La Parola Storica si tace lasciando il posto alla Naturalità di un
cemento da lei stessa impastato, ma che, da solo, è muto. È nel Silenzio post-storico
che si colloca il Saggio-Kojève: qualsiasi tentativo di scrivere un libro (vedi
L’esperienza interiore) per descriverlo [il Silenzio], parlarne, sistematizzarlo, scade
nel “misticismo”, ovvero non fa altro che ricadere nel mero non dir (più) niente;
l’unico atteggiamento possibile diventa il restare a margine del Libro,
salvaguardandolo da ogni tentativo di “sequel”, difendendolo da tutti quei furbetti
che vorrebbero trasformare quel punto in una virgola, e in questo ponendosi al di là
della “serietà” filo-sofica. Questo spiega la celebre “ironia” kojèviana: l’unico
comportamento possibile al Saggio (se non si vuole cadere nell’animalità propria, in
fondo, dello stesso “misticismo” batailleano) è il non prendersi troppo sul serio, è
osservare il Mondo salvaguardando il Silenzio post-storico, lanciando solo
occasionali parole in grado di fungere da Note al Libro, rispecchiando quella che è la
29
Lettera di Kojève a Georges Bataille del 28.7.1942, da Lettere a Georges Bataille, in Il silenzio
della tirannide, a cura di A. Gnoli, Adelphi, Milano 2004, p. 224.
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Naturale “frammentarietà” del mondo post-moderno. Queste poche parole non
sfuggono al Silenzio, ma lo accettano con estrema virilità: ci scherzano su.
Ma leggiamo la Nota del 1947.
La scomparsa dell’Uomo alla fine della Storia non è dunque una catastrofe cosmica:
il Mondo naturale resta quello che è da tutta l’eternità. E non è nemmeno una
catastrofe biologica: l’Uomo resta in vita come [corsivo mio] animale che è in
accordo con la Natura o con l’Essere-dato.30
Innanzitutto, viene ribadita l’ontologia “dualista” (che ha una sfumatura di
significato diversa rispetto al dualismo ontologico) di Kojève: se l’apocalisse della
storia non è una catastrofe, ovvero se l’essere umano non scompare con essa, ciò
deriva solo dal fatto che la Natura resta intatta, è un “già” rispetto alla Storia. In una
celebre immagine delle lezioni kojèviane su Hegel, questo punto viene esposto
attraverso la celebre metafora dell’anello: l’oro che lo costituisce è la Natura, il buco
(il Nulla, la Negazione) è l’Uomo, l’anello è lo Spirito come Sintesi di entrambi. Il
punto è che, dopo aver forgiato l’anello, il buco non esisterà senza l’oro, mentre l’oro
continuerà ad esistere a prescindere dall’anello. Alla fine della storia, dunque, è la
Natura, nella sua eternità, a restare. L’Uomo, di conseguenza, per restare a sua volta,
non può che costituire la sua esistenza nell’accordo con la Natura. Non essendoci più
i presupposti per essere Uomini essenzialmente Storici, l’uomo o svanisce o resta in
vita come31
animale. A tal proposito può essere rilevante ciò che fa notare Roberto
Esposito:
Che il divenire animale dell’uomo sia situato alla fine della storia lascia intendere
che esso non è puro ritorno a una condizione primitiva, ma il raggiungimento di uno
stato mai prima sperimentato: non una semplice rianimalizzazione dell’uomo ormai
umanizzato [corsivo mio], ma un modo di essere uomo che non si definisca più
nell’alterità [bensì nell’accordo] alla sua origine animale.32
Andando avanti con la Nota, Kojève chiarisce questo punto,
30
A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, p. 541. 31
È molto importante, a mio parere, mettere in corsivo quel «come». Non bisogna pensare – come già
si è avuto modo di dire – che, alla fine della Storia, l’Uomo torna ad essere animale, in un primitivo
stato di natura. Si tratta piuttosto di un Uomo che ha raggiunto la Saggezza sapendosi come Spirito
(=Storia+Mondo) in Totalità, e che ora, avendo concluso questo percorso, non può far altro che
soddisfare i suoi bisogni naturali. Egli si comporta come un Animale perché non ha più niente di
Umano da fare. 32
R. Esposito, Terza persona, Einaudi, Torino 2007, p. 140.
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16
Ciò che scompare è l’Uomo propriamente detto, cioè l’Azione negatrice del dato e
l’Errore, o in generale il Soggetto opposto all’Oggetto. Infatti, la fine del Tempo
umano o della Storia, cioè l’annientamento definitivo [secondo Kojève] dell’Uomo
propriamente detto o dell’Individuo libero e storico, significa molto semplicemente
la cessazione dell’Azione nel senso forte del termine. Il che praticamente vuol dire:
la scomparsa delle guerre e delle rivoluzioni cruente.33
L’animale è ciò che resta al di là de «l’Uomo propriamente detto», quello con la U
maiuscola, il cui compito si esaurisce con la fine della Storia: egli è, essenzialmente,
«l’Azione negatrice del dato», ovvero quell’Agire storico-politico che si decide alla
finitezza e rappresenta, di conseguenza, sempre un Errore (in relazione
all’Universalità pretesa dalla Verità)34
. E se tale «Azione nel senso forte del termine»
si esaurisce con la fine della storia e cessa, è solo perché l’Oggetto non è più
qualcosa di opposto al Soggetto. Ritorna, cioè, il discorso propriamente hegeliano sul
Sapere Assoluto come comprensione “finale” della Libertà: l’Uomo scopre di essere
Libero perché si scopre incondizionato da un Altro-da-sé “naturale” in cui si
riconosce. Come nota Antonio Lucci, questa “opposizione” non va intesa come «il
mero rapportarsi di ciascuno di noi alle oggettualità che incontriamo nel mondo, ma
[come] il rapportarsi del Soggetto storico all’Oggetto del proprio desiderio, vale a
dire il riconoscimento. È l’Oggetto-riconoscimento che viene meno, alla fine della
Storia. Infatti vengono meno le azioni politiche propriamente storiche: guerre e
rivoluzioni cruente»35
(il che rende la fine della storia “poco catastrofica”).
1.3.2 Kojève e la dialettica Signore-Servo
Il riferimento a guerre e rivoluzioni ci obbliga ad aprire una parentesi su quello
che, in fondo, è il filo conduttore dell’interpretazione che Kojève dà di Hegel nella
sua Introduction. Essa – come abbiamo avuto modo di leggere nella citazione tratta
dalla lettera che Kojève invia a Tran-Duc-Thao36
– non è una fedele adesione alla
littera hegeliana, bensì un forzarla tutta entro un’unica categoria-momento del
33
A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, p. 541. 34
È ciò di cui Hegel parla nel capitolo sesto della Fenomenologia dello spirito nella sezione che
Enrico De Negri chiama Il male e il suo perdono: ogni volta che l’Uomo agisce autenticamente
commette il male poiché la sua Azione segue sempre una visione particolare, anzi è propriamente una
parzializzazione, una frattura nell’ordine delle cose, appunto il bene. È la dialettica che Hegel rileva
tra la coscienza agente e quella giudicante, tra il politico riformatore e l’anima bella che lo contesta,
tra il Robespierre attivista della Rivoluzione francese e il Robespierre che, fondando un nuovo ordine,
in virtù di quel nuovo bene taglierà la testa a chiunque, anche involontariamente, rischierà di scalfirlo
con le sue parole e azioni. 35
A. Lucci, Prolegomeni alla fine della storia: Kojève sul desiderio. 36
Ved. pp. 8-9.
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percorso fenomenologico: la dialettica Signore-Servo. Non è questo il luogo per
dilungarci sull’esposizione di ciò che Hegel dice al riguardo quando, all’inizio del
capitolo quarto dedicato all’Autocoscienza, presenta il conflitto tra queste due
importanti figure. E non è questo il luogo neanche per analizzare, in maniera
dettagliata, in che modo Marx faccia proprie questa dialettica per ricondurla
direttamente alla lotta di classe. Ma Alexandre Kojève è un hegelo-marxista, e
quando, nella sopracitata lettera al filosofo vietnamita, parla delle sue lezioni sulla
Fenomenologia dello spirito come di un’opera di “propaganda”, lo fa in un senso
fortemente politico e dichiaratamente comunista. Come abbiamo già avuto modo di
vedere, il pensiero di Kojève si evolve nel tempo (e quale pensatore poteva rimanere
filosoficamente “impassibile” di fronte alle trasformazioni del mondo successive alla
Seconda guerra mondiale?!), e al tempo del corso che tenne a Parigi credeva ancora
nella possibilità di un’Azione essenzialmente politica (e dunque nell’importanza di
una propaganda). Negli anni successivi alla guerra – ma soprattutto a partire dalla
metà degli anni ’50, anni del suo scambio epistolare con Schmitt – la penserà
diversamente su tale prospettiva, ovvero sul compiersi ancora a-venire della Storia
con la realizzazione della società comunista. Di conseguenza, Kojève stesso, in
quella lettera, ci informa implicitamente che la sua Introduction à la lecture de Hegel
va letta anche attraverso la filosofia di Karl Marx. Se si unisce questa adesione
all’influenza che in quegli anni ebbe su di lui Essere e tempo di Martin Heidegger, si
riesce a capire in che senso, nelle sue lezioni, Kojève parlasse della filosofia di Hegel
come di un’antropologia. Ed è proprio nel contesto filosofico-antropologico che va
inserita l’attenzione che il russo-francese sviluppa per la dialettica Signore-Servo.
Essi, infatti, vanno interpretati come due «figure archetipiche della storia
dell’umanità»37
, paradigmatiche di ogni epoca, di ogni società e finanche di ogni
soggetto umano.
Innanzitutto, è da evidenziare come esse siano le prime figure che Hegel presenta
nel capitolo quarto: rappresentano, cioè, il passaggio dalla coscienza all’auto-
coscienza. I primi tre capitoli della Fenomenologia sono dedicati alla Coscienza: essa
è sempre coscienza di qualcosa e questo fa sì che il Mondo le si presenti sempre
come una irriducibile Oggettività. L’Uomo, però, inizia comunque a divorare il suo
Oggetto, ovvero è fin da subito “negatività”, ma è solo nel capitolo quarto che scopre
se stesso come divoratore, come Soggetto che osserva l’Oggetto e, in tal senso,
l’Oggetto stesso come tale solo in relazione a quel Soggetto, cioè come sua 37
A. Lucci, Prolegomeni alla fine della storia: Kojève sul desiderio.
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rappresentazione (Vorstellung). È il momento fenomenologico cruciale
dell’Autocoscienza, del salto decisivo dall’Homo Sapiens, che si stava emancipando
dalla sua naturalità negandola, all’Uomo propriamente detto.
Se tale “salto” è rimesso alla dialettica Signore-Servo è perché – secondo Hegel,
letto da Kojève – c’è qui, per la prima volta, la comparsa di ciò che contraddistingue
maggiormente l’Uomo in quanto tale: il Desiderio. Spiega Kojève:
Il Desiderio animale – la fame, per esempio – e l’Azione che ne deriva negano,
distruggono il dato naturale. Nutrendolo, modificandolo, facendolo suo, l’animale si
eleva al di sopra di questo dato. […] Ma nutrendosi di piante, l’animale dipende da
esse e dunque non perviene a superarle veramente. In generale, il vuoto avido, o
l’Io, che si rivela mediante il Desiderio biologico, si riempie, mediante l’azione
biologica che ne deriva, solo di un contenuto naturale, biologico. […] L’Animale
non si innalza al di sopra della Natura, negata nel suo Desiderio animale, se non per
ricadervi immediatamente con la soddisfazione di questo Desiderio. Perciò
l’Animale arriva soltanto al Selbst-gefühl, al Sentimento-di-sé, ma non al Selbst-
bewußtsein, all’Auto-coscienza [Coscienza-di-sé]; esso cioè non può parlare di sé,
dire: «Io…». E questo perché non trascende realmente se stesso in quanto dato, cioè
in quanto corpo; non si eleva al di sopra di sé per poter ritornare a sé; non ha
distacco da sé, per poter contemplarsi. […] E questo è possibile, secondo Hegel,
solo nel caso in cui il Desiderio si diriga non verso un essere dato, bensì verso un
non-essere38
. Desiderare l’Essere è riempirsi di quest’essere dato, è asservirsi ad
esso. Desiderare il non-Essere è liberarsi dall’Essere, realizzare la propria
autonomia, la propria Libertà. Per essere antropogeno, il Desiderio deve dunque
dirigersi verso un non-essere, cioè verso un altro Desiderio, verso un altro vuoto
avido, verso un altro Io.39
Ciò che fa Kojève è «distinguere il desiderio umano sulla base di un superamento
(che non significa rimozione) di quella logica oggettuale del bisogno che è comune al
vivente in generale. Se infatti il bisogno ha come oggetto la negazione della presenza
immediata delle cose, il desiderio è invece specificatamente umano solo nella misura
in cui»40
desidera il desiderio dell’altro. L’Uomo in quanto tale è Negazione, ovvero
38
Risuona qui una tematica appartenente non solo alla filosofia esistenzialista novecentesca, ma anche
ad un giovanissimo Kojève (al tempo Aleksandr Kožévnikov) che, in fuga dalla sua Russia, appunta i
suoi pensieri in quello che diventerà Diario di un filosofo. Si tratta di quella che l’allora
diciannovenne Kojève chiamava “filosofia dell’In-esistente”, laddove l’in-esistenza rappresenta
proprio la peculiarità Umana in relazione al mondo animale. 39
A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, pp. 209-210. 40
Vegetti Matteo, Il sapere del servo. Desiderio, riconoscimento e comunismo tra Kojève e Lacan, da
D. Cosenza – P. D’Alessandro (a cura di), L’inconscio dopo Lacan. Il problema del soggetto
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è un Soggetto che vive l’Oggettualità, l’Alterità, come una opposizione da “superare”
(Aufheben). Ma l’Altro-da-sé non è solo il mero dato naturale immediato, quello di
cui anche l’animale-uomo si ciba, ma è anche un’altra Negazione vivente, un altro
Uomo, un altro Io, e questo complica notevolmente le cose: l’Oggetto è qui un altro
Soggetto41
. Di conseguenza, nel desiderare quella Soggettività, il mio Desiderio sarà
rivolto verso un Oggetto che ha la peculiarità di condividere lo stesso Desiderio, ma
nei miei confronti. Un Desiderio derivante dall’umana tendenza a negare (nel senso
di mediare) la trascendenza dell’Altro e che, in un contesto inter-soggettivo come
quello che si delinea all’inizio del capitolo quarto, è alla base della socializzazione
umana. Un Desiderio (e non, appunto, un Impulso naturale) inestricabilmente legato
ad un Altro Desiderio che è il Desiderio di un Altro (Soggetto). Questo concetto è
stato ripreso da quello che fu un allievo di Kojève all’École Pratique des Hautes
Études: Jacques Lacan. Questi non nomina mai il maestro nei suoi celebri seminari
ma, come nota Matteo Vegetti, ne è in più punti evidente l’influenza. E proprio a tal
proposito afferma Vegetti:
[…] Lacan può allora già intuire il legame primitivo che vincola Innenwelt e
Umwelt, il soggetto (l’io) a «situazioni socialmente elaborate». […] la coscienza
scopre di essere non solo dipendente da un altrove, ma di essere essa stessa l’altrove
di un altro […].
In ogni caso, si potrebbero già trarre da queste premesse due generali considerazioni
di tenore politico verso le quali Lacan e Kojève, muovendo dalle rispettive
posizioni ermeneutiche, sembrano convergere. La prima è che ogni spiegazione
liberale e contrattualistica dei rapporti sociali è una finzione, dato che presuppone
soggetti già costituiti che si associano per vivere nella sicurezza, al riparo
dell’ineguale catastrofe del desiderio. Inoltre, ogni progetto politico basato sulla
soddisfazione dei «bisogni sociali e materiali» manca il suo scopo per un difetto di
comprensione circa la natura del desiderio.42
contemporaneo tra psicoanalisi e filosofia, Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, Milano
2012, p. 261. 41
Non si tratta ancora di un Soggetto umano già costituito, di un Cogito cartesiano o dell’Io
trascendentale kantiano. Ho qui utilizzato una terminologia che, se non scorretta, è perlomeno
imprecisa. Utilizzo fin da subito il termine “Soggetto” per una pura questione di comodità, ma, a
questo punto della Fenomenologia dello spirito e dell’interpretazione che ne dà Kojève, non è ancora
apparso un Soggetto Umano propriamente detto. Egli è ancora un animale della specie Homo Sapiens,
ma col Desiderio di poter dire «Io…», e in questo è ostacolato da un altro esemplare della stessa
specie, con le stesse caratteristiche. Di conseguenza, quando dico “Soggetto” intendo dire
semplicemente “Desiderio”. L’Impulso ha di fronte a sé un oggetto inerme, il Desiderio ha di fronte a
sé un oggetto che parla, un Volto direbbe Emmanuel Lévinas, un Altro Desiderio di poter dire «Io…». 42
M. Vegetti, Il sapere del servo, pp. 261-262.
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L’Umano desiderare è quindi sempre il Desiderio di un Desiderio. E questo
diventa fondativo tanto della Società, o meglio dei rapporti socio-politici, quanto
della Soggettività stessa come Selbstbewußtsein: l’Auto-coscienza deriva dal
rapporto con un’Alterità che – potremmo dire – de-finisce il Soggetto. La grande
lezione hegeliana ha quindi, come ben sintetizza lo stesso Vegetti, il merito di
mostrare che «qualcosa di autenticamente umano può nascere solo nel contesto di
una esistenza plurale intrecciata da una tensione conflittuale che determina la
differenza specifica [corsivo mio] dell’uomo proprio in quanto “animale politico”.
“Politica”, in questo senso assolutamente irriducibile ai singoli contesti concreti,
storicamente determinati, è dunque la situazione in cui l’altro sorge come la
possibilità reale della negazione dell’io, a sua volta chiamato alla decisione di
rischiare la vita per imporsi al suo avversario e ottenere il valore politico “più
proprio”, quello di indipendenza e autodeterminazione. Ogni campo in cui
l’interazione interpreta lo schema del riconoscimento [l’Anerkennung hegeliana, il
riconoscer-Si nell’Altro come Soggetto], dove cioè l’indipendenza dell’uno esclude o
è esclusa dall’indipendenza dell’altro, in modo tale che i fenomeni di guerra e
rivoluzione [corsivo mio] detengano un indubbio primato fenomenologico, diviene
perciò stesso manifestazione del tratto originale della politicità»43
. Si tratta dunque
del Desiderio specificamente Umano, quello che ha per oggetto il Riconoscimento:
ognuno dei due Soggetti desidera che l’altro lo riconosca come Uomo, come
Soggetto appunto, e non come mero dato naturale44
. In tal senso, questo incontro si
trasforma immediatamente in uno scontro (da cui «guerra e rivoluzione»), un
conflitto45
per il puro prestigio:
L’Uomo realizza (= crea) e “manifesta” la propria umanità (= libertà) rischiando la
propria vita, o, per lo meno, potendo e volendo rischiarla, unicamente “per la
gloria” o solo in funzione della sua “vanità” (la quale, con questo rischio, cessa di
essere “vana” o “inesistente” e diviene il valore specificatamente umano
dell’onore).46
43
M. Vegetti, Hegel e i confini dell’Occidente. La fenomenologia nelle interpretazioni di Heidegger,
Marcuse, Löwith, Kojève, Schmitt, Bibliopolis, Napoli 2005, p. 264. 44
Come nota Matteo Vegetti (Il sapere del servo, p. 262), qui accade il paradosso per cui
«desiderando essere l’oggetto del desiderio dell’altro la coscienza si trova rinviata nel polo
dell’oggettualità proprio mentre mira ad affermare la propria soggettività autonoma e indipendente». 45
È interessante vedere come, con le dovute differenze e le diverse mediazioni filosofiche, Kojève e
Schmitt arrivino nello stesso periodo alle stesse conclusioni. 46
A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, p. 617.
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In ballo non c’è dunque un oggetto materiale ma il prestigio, l’essere stimato
come essere umano, e questo non può che entrare in collisione con l’attitudine umana
a divorare l’altro-da-sé. Ciononostante, nessuna delle due parti cede sul proprio
Desiderio di riconoscimento, e l’unica soluzione è una lotta a morte. È questo ciò che
Kojève intende quando dice a Schmitt:
La storia del mondo è la storia dell’ostilità tra gli uomini (essa non esiste certo tra
gli animali: essi infatti «lottano» per qualcosa, mai per ostilità).47
Ciò a cui porta questa ostilità è: o la morte effettiva di uno dei due contendenti (o
di entrambi), ma in tal caso non se ne fa nulla del riconoscimento; o la vittoria di uno
dei due sull’altro, il che vuol dire che quest’ultimo si è sottomesso al primo e ne ha
riconosciuto la supremazia. Lo sconfitto, il sottomesso, è il Servo (Knecht: servo e
non schiavo, laddove il servo è tale per un libero atto decisionale, lo schiavo ha perso
la libertà per un atto di costrizione altrui), il vittorioso è il Signore (Herr) che, in
questo modo, diventa il primo Uomo propriamente detto, quello con la U maiuscola,
perché non è più un animale coi suoi impulsi, «bensì un essere che è in grado di
emanciparsi dalla propria contingenza biologica per un fine del tutto astratto, non-
naturale»48
, per il puro prestigio appunto, per il Desiderio di Riconoscimento. Come
questo avvenga è ben spiegato da Antonio Lucci:
[…] quando uno dei due si sottomette, e diventa Servo, lo fa perché, di fronte alla
minaccia, al desiderio devastante dell’altro, ha paura. Trema. Teme per la propria
vita. E considera la propria vita il valore più grande, da anteporre a tutto. Anche al
proprio desiderio di essere riconosciuto. Ed in questo, per Hegel, non è ancora del
tutto degno di essere riconosciuto umano. Perché troppo legato alla propria
biologia. Mentre l’altro uomo, quello che ferocemente ha messo davanti a tutto il
proprio desiderio, anche di fronte alla possibilità di perdere per questo la propria
vita, è divenuto il Signore.49
Quindi, il Signore opera, in questa lotta, fino in fondo «secondo una logica binaria
(o io o l’altro)»50
, mostrandosi impavido e divenendo così padrone di un Servo che si
47
Lettera di Kojève a Schmitt del 4.1.1956, p. 199. 48
A. Lucci, Prolegomeni alla fine della storia: Kojève sul desiderio. 49
Ibidem. 50
M. Vegetti, Il sapere del servo, p. 266.
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22
mette al suo servizio ed «elabora il lutto attraverso il lavoro»51
. Se il Signore non
uccide il Servo è solo perché quest’ultimo deve lavorare per lui, soddisfare i suoi
bisogni biologici, naturali, le sue necessità. Qui si insedia la sostanziale differenza
che Kojève, in una lettera a Leo Strauss, individua tra le sociogenesi di Hegel e
Hobbes. La critica che Hegel-Kojève rivolge a Thomas Hobbes è fondamentalmente
quella per cui «da sola, la paura della morte non può portare ad altro che alla
religione (= infelicità)»52
. La coscienza infelice, devota, hegeliana è emblema
dell’immobilità. Essa nasce dalla paura della morte, l’Angoscia, ma questo punto
bassissimo del percorso umano diventa necessario per la sua rinascita:
Non basta aver avuto paura rendendosi conto si è avuto paura della morte. Occorre
vivere in funzione dell’angoscia. Ora, vivere così significa servire qualcuno
che si teme, qualcuno che ispira o incarna l’angoscia; servire un Signore
(reale, cioè umano, ovvero il Signore «sublimato», Dio [coscienza
infelice]). E servire un Signore è obbedire alle sue leggi. [Ma] senza
questo servizio, l’angoscia non potrà trasformare l’esistenza; e dunque
l’esistenza non potrà mai superare il suo stato di angoscia iniziale.53
Quindi, l’angoscia è un momento necessario ma non può permanere, «da sola»
non basta, non può fungere da motore della Storia (socio-politica). Lo Stato, infatti,
non è frutto solo del “sapere”, ovvero della consapevolezza della propria paura di
fronte allo stato di natura in cui homo homini lupus, ma anche del “fare”, dell’attività
negatrice dell’Uomo, quella in grado di plasmare il mondo. C’è di sicuro in conto
anche la filosofia, la storia delle idee, «ma questo sapere è un sapere del fare,
attraverso il fare»54
, ovvero un sapere che si genera proprio col fare, attraverso
l’Azione, e non è “rivelativamente” a monte di essa, all’inizio della Storia o della
società, come lascerebbero intendere le teorie contrattualiste. Concretamente quindi,
la differenza sta nel fatto che «Hobbes non riconosce il valore [storico] del lavoro.
La paura della morte non basta a portare l’uomo “alla ragione”. Lo schiavo impaurito
perviene alla scienza […] solo se in più (nella e attraverso [corsivo mio] la paura)
51
Ibidem. 52
Lettera di Kojève a Leo Strauss del 2.11.1936, da L’epistolario fra Strauss e Kojève, in L. Strauss-
A. Kojève, On Tyranny, a cura di V. Gourevitch – M.S. Roth, ed. it. L. Strauss-A. Kojève, Sulla
tirannide, a cura di G. Frigo, trad. it a cura di D. De Pretto – A. Gnoli, Adelphi, Milano 2010, p. 255. 53
A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, p. 41. 54
Lettera di Kojève a Leo Strauss del 2.11.1936, p. 254.
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lavora, e lavora per il signore, vale a dire solo se serve»55
. Servendo il padrone, il
servo imparerà a “creare”, a negare il mondo, ovvero a trasformarlo, a plasmarlo, a
“spiritualizzarlo”, attraverso il Lavoro. Dal suo sapere in quanto “saper-fare”, il
Servo deriva così una conoscenza del mondo che conduce alla nascita delle Idee, la
quale confluirà nella Rivoluzione (per Kojève, pseudo-)Scientifica del Seicento. La
scienza naturale galileiano-newtoniana, rappresenta infatti il sapere di chi ha
imparato «nella e attraverso la paura» a plasmare il mondo, di chi ha a che fare ogni
giorno con la Natura al fine di servire il Signore e procurargli ciò di cui ha bisogno
per vivere e che lui non è in grado di produrre: «il Servo rovescerà il Signore,
incapace di fare più nulla per affermare quell’umanità che gli aveva dato una
posizione iniziale di preminenza»56
. Attraverso il Lavoro è dunque il Servo a fare la
Storia. Una Storia da intendere proprio come la Storia dell’Idea di Libertà (=
incondizionatezza). Nel momento in cui (tra Seicento e Settecento) questa Idea viene
alla luce, il Servo capisce di dover Lottare per essa contro i Signori, e si arriva alla
Rivoluzione francese:
Questa è la sintesi finale (del Signore e del Servo): la lotta di un lavoratore porta al
lavoro di colui che lotta (servizio militare generale come conseguenza principale
della Rivoluzione francese secondo Hegel! [si tratta del “diffondere” la Rivoluzione
con le armi = Napoleone]). Questo è l’«operare di tutti e di ciascuno» = Stato ideale
in cui ognuno è cittadino, cioè impiegato (militare e civile), e così attraverso il
proprio fare produce e conserva lo Stato.
In summa: […] Secondo Hegel lo schiavo lavoratore arriva 1) all’idea di libertà, 2)
alla realizzazione dell’idea nella lotta. Quindi: anzitutto l’«uomo» è sempre Signore
oppure Servo [paradigma archetipico della dialettica storica tanto per Hegel quanto
per Marx]; l’«uomo completo» è – alla «fine» della storia – Signore e Servo (cioè
entrambi e nessuno dei due) […], in quanto è riconosciuto da colore che riconosce,
e anche lui comprende se stesso come tale (nella filosofia [di Hegel]).57
Come nota Lucci58
, la sconfitta del Signore deriva dal fatto che questi, pur nella
sua immutabile impavidità, non si è saputo svincolare dai suoi bisogni naturali, pur
rimettendoli ai suoi servitori. Il Servo, invece, proprio attraverso la paura della
morte, ha continuato sommessamente ad alimentare la propria fame “Umana” di
55
Ibidem. 56
A. Lucci, Prolegomeni alla fine della storia: Kojève sul desiderio. 57
Lettera di Kojève a Leo Strauss del 2.11.1936, p. 255. 58
Cfr. A. Lucci, Prolegomeni alla fine della storia: Kojève sul desiderio.
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24
Mondo, e in lui è sopravvissuto quello che Kojève definisce il Desiderio
antropogeno: se si desidera la Libertà, si desidera qualcosa di astratto, non-
oggettuale, non meramente biologico. Quello che accadeva ab origine col “puro
prestigio”, ora accade, ad un livello più alto, con la Libertà.
Realizzata – e universalizzata – quest’ultima, secondo Kojève il Desiderio
antropogeno si esaurisce e la Storia propriamente Umana finisce. L’Anerkennen è
ormai universale, non c’è più un Altro, un Nemico schmittiano, ma tutti sono
cittadini. Questo perché il Servo che ha trionfato nella Rivoluzione francese si è reso
anche Signore (di nient’altro che se stesso) accettando coraggiosamente il suo limite
e riuscendo, solo in questo modo, a fondare quello Stato universale e omogeneo (di
cui parleremo in seguito) costituito da particolarità che fanno tutt’uno con
un’universalità. E questo è possibile solo se (in fondo heideggerianamente) si
rinuncia all’autoreferenzialità, all’ipertrofia del Sé. Signore e Servo, quindi,
spariscono perché non è più necessario imporre il proprio dominio sull’altro per farsi
riconoscere come Uomo. L’esito paradossale, ovvero la fine della Storia per Kojève,
è quello per cui, però, se si esaurisce la Lotta, l’ostilità, si esaurisce anche «l’Azione
nel senso forte del termine. Il che praticamente vuol dire: la scomparsa delle guerre e
delle rivoluzioni cruente». E l’Uomo, compresosi come tale, torna Animale.
1.3.3 Kojève e l’accontentarsi
Possiamo quindi tornare all’analisi della Nota che Kojève scrive nel 1946.
E anche la scomparsa della Filosofia; infatti, l’Uomo, non cambiando più se stesso
in maniera essenziale, non ha più ragione di cambiare i princìpi (veri) che stanno
alla base della sua conoscenza del Mondo e di sé.59
Non è più necessario continuare a comprendere il Mondo: come nota Lucci, «il
Mondo, inteso come risultato umano dell’Agire storico [socio-politico, quindi anche
del Lavoro, secondo il “marxista” Kojève], è finito»60
. Questo ci riporta all’inizio del
presente capitolo: laddove è già stato detto tutto, laddove tutto è già stato fatto e non
permane nient’altro da “umanizzare”, lì non può più esserci Filo-sofia, intesa
appunto come sforzo amoroso verso il Sapere, poiché questo – nella Saggezza – è già
stato raggiunto. I «princìpi (veri)» che la costituiscono sono quelle categorie logiche
59
A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, p. 541. 60
A. Lucci, Prolegomeni alla fine della storia: Kojève sul desiderio.
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di cui finalmente disponiamo pienamente. E se possiamo applicarle alla Realtà è solo
perché la Realtà è ormai Razionale. Il circolo ermeneutico è chiuso, le interpretazioni
filosofiche, che, fino ad Hegel stesso, “hanno appreso il proprio tempo col pensiero”,
non hanno più ragion d’essere (perché è lo stesso Tempo Storico a non esistere più) e
lasciano il posto all’Interpretazione scientifica, logica, del Mondo (che pur attraverso
quella Storia del pensiero si è prodotta): l’Absolute Wissen, il Libro della Fine della
Storia. Dunque, viene meno la Lotta, il Lavoro, l’Azione politica, la Filosofia, in una
parola la Storia.
Tutto il resto può mantenersi indefinitamente: l’arte, l’amore, il gioco, ecc.;
insomma, tutto ciò che rende l’Uomo felice.61
Ciò che innanzitutto salta all’occhio è – nota sempre Antonio Lucci62
-
quell’«Uomo» scritto ancora con la U maiuscola. Le azioni (queste con la A
minuscola) che gli restano, l’arte, l’amore, il gioco, sono, per il Kojève che scrive nel
1946, azioni “animali”, post-Storiche e quindi post-Umane. Ma Kojève stesso si
renderà conto dell’ambiguità e dell’errore e lo correggerà pochi mesi prima di morire
nell’Aggiunta che apporrà nel 1968 alla Nota in questione. Ma è comunque
interessante, a questo punto, introdurre la discussione (epistolare) che scaturì a
proposito della concezione esposta in queste righe tra il pensatore russo-francese e un
altro dei suoi illustri allievi all’École Pratique des Hautes Études, Georges Bataille.
Ciò che Bataille non poteva accettare «era che “l’arte, l’amore, il gioco”, come
anche il riso, l’estasi, il lusso (che, rivestiti di un’aura di eccezionalità, erano al
centro delle preoccupazioni di “Acéphale” e, due anni dopo, del Collège de
Sociologie [supporti di indagine filosofica fondati da Bataille]), cessassero di essere
sovrumani, negativi e sacri per essere semplicemente restituiti alla prassi animale»63
.
Per questo, in una lettera indirizzata nel ’37 al maestro, Bataille scrive:
Se l’azione (il «fare») è – come dice Hegel – la negatività, il punto è sapere se la
negatività di chi non ha «più nulla da fare»64
venga meno o se invece sussista allo
61
A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, p. 541. 62
Cfr. A. Lucci, Prolegomeni alla fine della storia: Kojève sul desiderio. 63
Giorgio Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. 13-14. 64
Per chiarire cosa intenda Bataille, è utile citare lo stesso testo (cfr. supra, ivi p. 14) di Agamben, nel
punto in cui il filosofo italiano riesce mirabilmente a spiegare il pensiero di Bataille e l’humus
culturale da lui stesso generato e in cui era immerso: «Per il piccolo gruppo di iniziati quarantenni che
non temevano di sfidare il ridicolo praticando la “gioia davanti alla morte” nei boschetti alla periferia
di Parigi, né di giocare più tardi, in piena crisi europea, agli “apprendisti stregoni”, predicando il
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stato di «negatività senza impiego» […] (né potrei definirmi con maggiore
precisione). Riconosco che Hegel ha previsto siffatta possibilità; tuttavia egli non
l’ha posta alla fine del processo che ha descritto. Immagino che […] la ferita aperta
che è la mia vita – costituisca di per sé la confutazione del sistema chiuso di
Hegel.65
Quindi, per Bataille, alla fine della storia, resta ancora un’Azione essenziale,
negatrice, ma che in sé non ha nulla di Umano (= Storico), ma nemmeno di Animale
(e tantomeno di Divino). È il corpo senza testa di chi ha consapevolmente scelto
l’“inoperosità”, la «negatività senza impiego», l’erotismo, la gioia di fronte alla
morte, il riso, ecc., tutte le azioni che Kojève-Saggio riferiva all’uomo ri-
animalizzato. Tale concezione però, nota Agamben, si rivelerà fragile:
Nel 1939, quando la guerra era ormai inevitabile, una dichiarazione del Collège de
Sociologie, tradisce la sua impotenza denunciando la passività e l’assenza di
reazioni davanti alla guerra, come una forma di massiccia «svirilizzazione», in cui
gli uomini si trasformano in una specie di «pecore coscienti e rassegnate al
macello» [cit. Collège de Sociologie (1937-1939), pp. 58-59]. Anche se in un senso
diverso da quello che aveva in mente Kojève, gli uomini erano ormai veramente
ridiventati animali.66
Kojève, certamente, mantiene le distanze dal “misticismo” di Bataille. Ma la
questione della “negatività senza impiego” – e forse anche il volersi contrapporre
totalmente ad essa – ci aiuteranno, a breve, a capire come, nell’Aggiunta del ’68,
Kojève si “ritratti” proprio a proposito de «l’arte, l’amore, il gioco, ecc.». Ma
concludiamo l’analisi della Nota.
Ricordiamo che questo tema hegeliano, tra molti altri, è stato ripreso da Marx. La
Storia propriamente detta in cui gli uomini (le «classi») lottano tra loro per il
riconoscimento e lottano contro la Natura mediante il lavoro, si chiama, in Marx,
«Regno della necessità» (Reich der Notwendigkeit); al di là (jenseits) c’è il «Regno
della libertà» (Reich der Freiheit), in cui gli uomini (riconoscendosi reciprocamente
ritorno dei popoli europei alla “vecchia casa del mito”, l’essere acefalo [su Documents Bataille tratta
spesso dell’”essere acefalo” come emblema del particolare materialismo da lui professato] intravisto
per un istante nelle loro esperienze privilegiate poteva, forse, non essere né umano né divino – ma
animale non doveva esserlo in nessun caso». 65
Lettera di Bataille a Kojève del 6.12.1937, pubblicata in G. Bataille, Collège de Sociologie (1937-
1939), a cura di D. Hollier, Gallimard, Paris 1979; trad. it. Il Collegio di Sociologia (1937-1939), a
cura di M. Galletti, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 111. 66
G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, p. 15.
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27
senza riserve), non lottano più e lavorano il meno possibile (dato che la Natura è
stata definitivamente domata, cioè armonizzata con l’Uomo). Cfr. Il Capitale, libro
terzo, capitolo XLVIII, fine del secondo capoverso del par. 3.67
La conclusione della Nota è, ancora una volta, una forzatura. Ci aiuta sicuramente
a capire quanto appena detto sulla fine della storia, ma si tratta di uno stravolgimento
delle parole di Karl Marx che, se in alcuni punti de L’Ideologia tedesca o dello stesso
Capitale parla di “felicità”, lo fa solo in relazione a due requisiti da tenere insieme:
l’a-teismo e il lavoro.68
Nella visione di Marx, quindi, la felicità non è rimandata
escatologicamente alla realizzazione della società comunista ma è interna alla Storia
stessa, allo stesso Reich der Notwendigkeit.
Ma Kojève si rende conto di aver detto delle insensatezze e nel 1968, pochi mesi
prima di morire, in occasione della seconda edizione delle sue celebri lezioni sul
filosofo di Stoccarda, scrive una lunga Aggiunta. Siamo nel margine del margine.
Il testo di questa Nota è ambiguo, per non dire contraddittorio. Se s’ammette «la
scomparsa dell’Uomo alla fine della Storia», se s’afferma che «l’Uomo resta in vita
in quanto animale», precisando che «ciò che scompare, è l’Uomo propriamente
detto», non si può dire che «tutto il resto può mantenersi indefinitamente: l’arte,
l’amore, il gioco, ecc.». Se l’Uomo ri-diventa un animale, anche le sue arti, i suoi
amori e i suoi giochi devono ri-diventare puramente «naturali». Bisognerebbe
dunque ammettere che, dopo la fine della Storia, gli uomini costruiranno i loro
edifici e le loro opere d’arte come gli uccelli costruiscono i propri nidi e i ragni
tessono le proprie tele, eseguiranno concerti musicali alla maniera delle rane e delle
cicale, giocheranno come giocano i giovani animali e si daranno all’amore come
fanno le bestie adulte.69
Ora i conti tornano. Kojève, innanzitutto, si rende conto che l’Uomo nella post-
storia non può più essere scritto con la U maiuscola, proprio perché non è più il
Soggetto Storico, lo Spirito, che ha conquistato la Libertà Assoluta, ma è tornato
Animale. Quel “resto” di Umanità che poteva «mantenersi indefinitamente» in realtà
non esiste. Parlare di arte, amore e gioco era, per il primo Kojève, parlare di una
Umanità che poteva restare intatta perché “inessenziale” a fini storici. Ora però,
Kojève si rende conto che parlare di un “resto” di Umanità nella post-storia è
67
A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, p. 541. 68
Cfr. L. De Fiore, La città deserta, pp. 146-147. 69
A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, p. 541.
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«ambiguo, per non dire contraddittorio»: dire “Umano” significa dire Negativo e,
dunque, Storico. Nessuna attività “Umana” può dirsi estranea a questa logica
“dialettico-appropriativa”, tantomeno l’arte, l’amore, il gioco che pur posseggono
una carica “storico-negativa”. Se dunque queste e altre attività umane permangono
nella post-storia, esse «devono ri-diventare puramente “naturali”», tornano ad essere
semplici istinti animali: l’uomo dipinge quadri? anche il ragno tesse le tele; l’uomo
costruisce palazzi? anche l’uccello costruisce i nidi; l’uomo gioca o fa l’amore?
anche le bestie compiono queste azioni; l’uomo (Heather Parisi) canta Le cicale?
anche le cicale cantano! Dietro queste azioni non c’è più un Desiderio di
riconoscimento, non c’è più una mancanza da guadagnare, un vuoto da riempire, una
differenza da superare, un altro da conquistare. E questo rende l’azione, con la a
minuscola, necessariamente animale. Dopodiché continua Kojève:
Ma allora non si può dire che tutto questo «rende l’Uomo felice». Bisognerebbe dire
che gli animali post-storici della specie Homo sapiens (che vivranno
nell’abbondanza e in piena sicurezza) saranno contenti in funzione del loro
comportamento artistico, erotico e ludico, visto che, per definizione, essi se ne
accontenteranno [corsivo mio].70
L’animale non può essere felice. Abbiamo già visto come in Marx la felicità
assuma connotati diversi da quelli evidenziati da Kojève nella Nota del ’46. Ora, nel
1968, il pensatore russo-francese capisce che la felicità è inscrivibile solo in una
dimensione Storica, non al suo esterno. E già in Hegel, come nota De Fiore, la
felicità sta nel Fare, «e chi agisce, fa e agisce comunque in una dimensione
intersoggettiva, universalistica [e quindi Storica]»71
. Questa dimensione
universalistica, la Totalità di Senso, è stata raggiunta e compresa. Ora essa permane
come uno scheletro logico, come Libro, e non si muove più nessuno, perché ciò che
spingeva all’Azione, ovvero il Desiderio di Riconoscimento, si è esaurito e la Storia
è finita72
. Se viene meno il Desiderio, viene meno l’Azione Storica. Se viene meno
l’Azione, viene meno la Felicità. Se l’Uomo è ridotto ad Animale, la Felicità si
riduce al Godimento. Il Godimento Animale è il soddisfacimento dei bisogni propri
70
A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, pp. 541-542. 71
L. De Fiore, La città deserta, p. 68. 72
Per lo meno finché il paradigma (in senso kuhniano) desiderante che ha dominato questa Storia e
che, in fondo, ha determinato questa post-storia, sarà sostituito da qualche altro (inimmaginabile per
l’uomo-d’oggi) paradigma.
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della specie (comunque evoluta) Homo sapiens, si tratta cioè – dice Kojève, in ultima
analisi – di un Accontentarsi. E a questo punto, Kojève è costretto a dire:
Ma c’è di più. «L’annientamento definitivo dell’Uomo propriamente detto»
significa anche la scomparsa definitiva del Discorso (Logos) umano in senso
proprio. Gli animali della specie Homo sapiens reagirebbero con riflessi
condizionati a segnali acustici o mimici e così i loro cosiddetti «discorsi» sarebbero
simili al presunto «linguaggio» delle api. Ciò che allora scomparirebbe non sarebbe
soltanto la Filosofia e la ricerca della Saggezza discorsiva, ma anche questa stessa
Saggezza. Infatti, non si avrebbe più in questi animali post-storici, «conoscenza
[discorsiva] del Mondo e di sé».73
Colpo di scena. Ci dice ora Kojève che, con la fine della Storia, non finisce solo
l’Azione, intendendo con essa non solo il Lavoro, la Lotta, la Politica, ecc. ma anche
l’attività intellettuale, l’attivo sforzo verso la comprensione del Mondo e di sé, la
Filo-sofia. Ma finisce anche la stessa Saggezza: «il volto del saggio che, al limitare
del tempo, contempla soddisfatto questa fine sfuma necessariamente […] in un muso
animale»74
. Il Filosofo ha a lungo corteggiato Sofia, ma quando, alla fine, l’ha
conquistata, si è reso conto che il Senso stava proprio nelle sofferenze d’amore.
L’amore per Sofia si è rivelato essere un amore verso la totalità di coloro che hanno
cercato (intellettualmente i filosofi, incoscientemente i politici) di conquistarla. Una
volta finita la Tensione d’amore, la Gioia della conquista diventa quasi banale,
insignificante. Tutta la Storia d’amore è stata scritta nel Libro. Ora, non c’è più
niente da scrivere, da dire, da fare. Ci si trascina quasi per abitudine, l’amore viene
meno e Sofia la si inizia a trascurare, fino a dimenticarla.
Ma dimenticare Sofia significa dimenticare la nostra Storia e noi stessi come suo
risultato. E, se ci guardiamo attorno, più che di una semplice dimenticanza si tratta di
un completo disinteresse. Antonio Lucci sintetizza perfettamente questo punto:
La Storia muore nell’oblio di chi vive i suoi risultati. […] Sia la ricerca che la
custodia della Storia, del Sapere, sono obliati. Continuiamo ad abitare il gigantesco
edificio della Storia, senza saperne l’origine, senza capirne le iscrizioni, senza
volerne imparare alcunché.
Le piante della giungla felice della post-storia riavvolgono i pilastri di quello che fu
lo sforzo dell’umanità per emanciparsi dal dato naturale, gli uomini continuano a
73
A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, p. 542. 74
G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, p. 14.
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30
vivere, come scimmie nei templi dei brahamini indiani, architetture nelle foreste,
riconquistate dalla Natura a sé.75
1.3.4 Kojève e l’allineamento delle province
Ma la parte più interessante dell’Aggiunta redatta da Alexandre Kojève nel 1968
inizia solo ora. Infatti, la grandezza di Kojève non sta tanto nella speculazione teorica
da armchair philosophy, quanto piuttosto nell’enorme capacità (a volte tanto fredda
quanto originale) di osservare un mondo in tumulto. Sono le applicazioni delle sue
idee (riguardo la fine della Storia) alla politica a rappresentare il vero grande lascito
kojèviano al pensiero del Novecento (e nostro). Continuiamo la lettura.
All’epoca in cui redassi la Nota precedente (1946), il ritorno dell’Uomo
all’animalità non mi sembrava impensabile come prospettiva futura (del resto, più o
meno prossima). Ma, poco dopo (1948), ho compreso che la fine hegelo-marxista
della Storia, lungi dall’essere ancora di là da venire, era già un presente.76
Dunque, è Kojève stesso ad indicare nel 1948 il passaggio da una prima fase del
suo pensiero ad un “secondo Kojève”. E continua:
Osservando ciò che succedeva attorno a me [corsivo mio] e riflettendo su quanto
successe nel mondo dopo la battaglia di Jena, ho compreso che Hegel aveva ragione
a considerarla la fine della Storia propriamente detta. In e con quella battaglia,
l’avanguardia dell’umanità ha virtualmente [corsivo mio] raggiunto il suo scopo,
cioè la fine dell’evoluzione storica dell’Uomo. Ciò che si è prodotto dopo non è
stato che un’estensione nello spazio della potenza rivoluzionaria universale
attualizzata in Francia da Robespierre-Napoleone.77
Si tratta di ciò che abbiamo già detto tante volte: per il secondo Kojève, la Storia è
davvero finita con la Rivoluzione francese e la vittoria a Jena di Napoleone. Ma il
punto sta in quel «virtualmente»: si tratta della effettiva fine della Storia ma questa
fine è solo l’“inizio della fine”, l’inizio dell’epoca della fine della Storia, di
un’epoca, però, atipica perché senza evoluzione storica, senza Senso. In quest’epoca,
che si protrae quindi dal 1806, non accade nulla di concretamente Nuovo e gli
avvenimenti che si susseguono sono semplicemente funzionali alla diffusione globale
75
A. Lucci, Prolegomeni alla fine della storia: Kojève sul desiderio. 76
A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, p. 542. 77
Ibidem.
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delle conquiste robespierriano-napoleoniche. Si tratta di quello che Kojève chiama
“allineamento delle province”, l’Universalizzazione di un’Idea realizzata e compresa
– quella di Libertà – che è per sua stessa definizione, appunto, Universale. Infatti,
Dal punto di vista autenticamente storico, le due guerre mondiali, col loro seguito di
piccole e grandi rivoluzioni, hanno avuto solo l’effetto di allineare, sulle posizioni
storiche europee (reali o virtuali) più avanzate, le civiltà arretrate delle province
periferiche.78
È interessante notare come un pensatore novecentesco che ha vissuto sulla propria
pelle le due Guerre mondiali (partecipando attivamente alla Seconda, tra le linee
della Resistenza francese), le liquidi semplicemente come effetto del processo post-
storico di allineamento de «le civiltà arretrate delle province periferiche». Si nota qui
il grande acume di Kojève che già aveva intuìto che il Novecento si sarebbe
presentato come secolo della Globalizzazione, dell’esportazione della democrazia, di
quei Paesi arretrati costretti ad adeguarsi (e rincorrere) l’ideale occidentale79
.
Se la sovietizzazione della Russia e la comunistizzazione della Cina sono più e altro
che la democratizzazione della Germania imperiale (tramite l’hitlerismo) o
l’accesso del Togo all’indipendenza, o addirittura l’autodeterminazione dei
Papuani, è unicamente perché l’attualizzazione cino-sovietica del bonapartismo
robespierriano costringe l’Europa post-napoleonica ad accelerare l’eliminazione dei
numerosi postumi, più o meno anacronistici, del suo passato pre-rivoluzionario.
Comunque, fin d’ora, questo processo d’eliminazione è più avanzato nei
prolungamenti nord-americani dell’Europa che non nell’Europa stessa.80
L’importanza delle Rivoluzioni comuniste in Russia e Cina e soprattutto, come
vedremo, dell’affermarsi mondiale degli Stati Uniti non risiede nella Storia ma
proprio in quel post-storico allineamento delle province al «bonapartismo
robespierriano». Il loro ruolo è stato quello di «accelerare l’eliminazione dei
78
Ibidem. 79
Un filosofo, ancora in attività, che si è largamente occupato del fenomeno della globalizzazione è
Peter Sloterdijk. Sebbene il suo discorso sia molto più articolato e complesso di quello di Kojève, è
individuabile anche in lui una concezione di “allineamento delle province”. Sloterdijk parla a riguardo
di una “perdita delle periferie”: nel processo (diremmo noi, post-storico) della Globalizzazione, le
province periferiche non esisteranno più, non possono più esser mantenute e contemplate nella loro
Alterità geo-politica e socio-culturale, e per questo, progressivamente, tutto diventa centro. È un po’
ciò che porta Schmitt, nella lettera del 26.5.1955, ad affermare: «io rifuggo nel mio rifugio dal
sovraffollamento delle strade». 80
A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, p. 542.
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numerosi postumi» di un passato «pre-rivoluzionario», le Lotte per la Libertà che
ancora permangono alle periferie delle Città e del Mondo. Per spiegare meglio questo
punto, si può immaginare un paragone col mondo della medicina: poniamo il caso di
una terribile malattia che ha sterminato milioni di persone. La medicina è
inizialmente impotente di fronte ad essa ma inizia comunque a lottare per cercare di
curarla con ogni mezzo. Così, pian piano, nel corso della sua “Storia”, si
susseguiranno tentativi di sintetizzare farmaci sempre più efficaci, finché non si
troverà una cura definitiva a quel male. La fine della (di quella) Storia sta in quella
scoperta. La distribuzione del farmaco, le campagne mondiali di vaccinazione, ecc.
appartengono ad una post-storia in cui non c’è nulla di realmente Nuovo, tutto è
“ordinaria amministrazione”: essa è sicuramente importante, ma solo al fine di
salvare vite umane, un fine, dunque, animale, estremamente biologico, legato alla
sopravvivenza.
Ora inizia la parte più spregiudicata, ironica e destabilizzante dell’Aggiunta.
Si può anzi dire, da un certo punto di vista, che gli Stati Uniti hanno già raggiunto
lo stadio finale del «comunismo» marxista, visto che, praticamente, tutti i membri
di una «società senza classi» possono appropriarsi fin d’ora di tutto ciò che
desiderano, senza per questo lavorare più di quanto gli piace.
Ora, in parecchi viaggi comparativi compiuti (tra il 1948 e il 1958) negli Stati Uniti
e nell’U.R.S.S. mi sono formato l’opinione che, se gli Americani fanno la figura di
cino-sovietici arricchiti, è perché i Russi e i Cinesi non sono che degli Americani
ancora poveri, anche se in via di rapido arricchimento. Sono stato indotto a
concluderne che l’American way of life era il genere di vita proprio del periodo
post-storico, dal momento che l’attuale presenza degli Stati Uniti nel Mondo
prefigura il futuro «eterno presente» dell’umanità tutt’intera. Così, il ritorno
dell’Uomo all’animalità appariva non più come una possibilità ancora di là da
venire, bensì come una certezza già presente.81
In veste di diplomatico al servizio dei ministri francesi del secondo dopoguerra,
Kojève ha modo di viaggiare molto e di conoscere il Mondo a lui contemporaneo.
Sono gli anni del carteggio con Carl Schmitt e gli anni in cui si rende conto
dell’inessenzialità storica della Globalizzazione che ha modo di osservare nei
processi politici (con la p minuscola) a lui contemporanei. La “propaganda”
marxista-stalinista si trasforma così in un’amara consapevolezza: lo stadio finale del
81
Ivi, pp. 542-543.
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comunismo è stato raggiunto negli Stati Uniti! La patria del capitalismo si rivela
essere la prima società al mondo ad aver eliminato la distinzione (e la Lotta) tra le
classi, ovvero i residui di una Storia (necessariamente) pre-rivoluzionaria. Gli operai
lavorano non per un altro ma per se stessi, per soddisfare i propri bisogni naturali ed
essere contenti. Del resto, Marx affermava come motto del comunismo compiuto «da
ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni», che è un po’
come dire, appunto, che in America gli uomini «possono appropriarsi fin d’ora di
tutto ciò che desiderano, senza per questo lavorare più di quanto gli piace». Non c’è
più Lotta di classe per la Libertà o i Diritti, ma un immobilismo a-storico fatto di
automobili, crociere, villette a schiera, shopping, ecc. L’American way of life è
dunque «il modo di vita propriamente post-storico. Agisce per ondate di imitazione,
per diffusione economica, e non per motivi eminentemente Storici»82
. Gli uomini
lottano semplicemente per i loro bisogni biologici, «per qualcosa», e in questo
tornano ad essere Animali. L’imposizione globale del modello americano
rappresenta quindi il trionfo di un capitalismo che, esaurendo la sua “carica
negativa”, il suo Desiderio di appropriazione, la sua voluttà del Fare e del Progredire,
si assesta in una immobilità naturalistica che lo trasforma, paradossalmente, in
comunismo. L’American way of life è la vita animale nella post-storia, a cui il
Mondo globalizzato si adeguerà fino all’entropia cosmica: il Movimento scomparirà
del tutto, non ci saranno più passato o futuro ma solo un «eterno presente».
Proprio su questo «eterno presente» come destino “capitalista-comunista”
dell’umanità, Kojève aveva già scritto. Si tratta ancora una volta di una Nota, scritta
peraltro nel 1942 e dunque inscritta in quell’insieme di considerazioni sulla fine della
Storia appartenenti al primo Kojève. Pur non parlando esplicitamente di fine della
Storia, Kojève parla comunque della fine del Movimento Storico e la colloca, questa
volta, nei moti rivoluzionari francesi del 1848. Infatti, nota il pensatore russo-
francese, il periodo che va dalla Rivoluzione francese del 1789 al 1848 può essere
definito come periodo della “rivoluzione borghese”; ma l’“epoca” che inizia in quel
1848 è il periodo della “dominazione borghese”. Il cardine della rivoluzione era il
“progetto” borghese rivolto verso l’Avvenire e contro il Passato; quello della
dominazione è la negazione di un altro “progetto”83
e dunque l’avversare l’Avvenire
stesso. Così, Kojève può dire:
82
A. Lucci, Prolegomeni alla fine della storia: Kojève sul desiderio. 83
È un Kojève ancora “propagandista”: osserva l’innegabile stasi (bellica) che lo circonda, osserva il
trionfo del capitalismo e come sia questo a condurre alla ri-animalizzazione, ma è ancora convinto
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Poiché solo il presente è reale, la Borghesia si realizza in quanto tale: è il periodo
della sua dominazione. Ma un Presente senza Avvenire né Passato non è che un
Presente «naturale» [corsivo mio], non umano, non storico, non politico. La
dominazione della Borghesia, quindi, non è altro che una progressiva scomparsa
della realtà politica in quanto tale, cioè del Potere o dell’Autorità dello Stato84
: la
vita è dominata dal suo aspetto animale, dalle questioni di alimentazione e di
sessualità.85
1.3.5 Kojève e…il Giappone
Tornando alla nostra Aggiunta del ‘68, quando sembra che l’argomentazione di
Kojève possa tirare le somme e concludersi lì, ecco che ancora una volta Kojève si
ritratta. E su questo punto è davvero difficile individuare la linea sottile che separa
serietà e ironia.
In seguito ad un recente viaggio in Giappone (1959) ho cambiato radicalmente
opinione su questo punto. Là ho potuto osservare una Società unica nel suo genere,
perché è la sola ad aver fatto un’esperienza di vita lunga quasi tre secoli in epoca di
«fine della Storia», cioè in assenza di ogni guerra civile o esterna (in seguito alla
liquidazione del «feudalesimo» a opera del plebeo Hideyoshi e all’isolamento
artificiale del paese concepito e realizzato dal suo nobile successore Yiyeasu). Ora,
l’esistenza dei nobili giapponesi, che smisero di rischiare la vita (anche in duello)
senza per questo mettersi a lavorare, fu tutt’altro che animale.86
Kojève parla del Giappone. E si accinge a parlare della sua “particolare” post-
storia, una post-storia senza ri-animalizzazione.87
dell’esistenza di un altro “progetto” e dell’eventualità di una sua realizzazione escatologicamente a-
venire. È ancora – potremmo dire – un marxista convinto. 84
Parleremo in seguito della concezione kojèviana dell’Autorità e chiariremo il punto relativo alla
riduzione della Politica Storica alla pura e semplice Amministrazione. 85
Alexandre Kojève, La notion de l’autorité, Gallimard, Paris 2004; trad. it. La nozione di autorità, a
cura di Marco Filoni, Adelphi, Milano 2011, p. 82. 86
A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, p. 543. 87
Si potrebbe obiettare a Kojève una forzatura che, tolta l’ironia che pervade tutta la sua opera,
sarebbe quantomeno discutibile. Come si può, infatti, “applicare” la categoria di fine della Storia ad
un paese come il Giappone che ha vissuto eventi storici essenziali necessariamente diversi da quelli
europei? L’isolamento del Giappone era proprio un programmatico preservarsi da ogni eventuale
imbastardimento proveniente dal “Sol ponente”, e il feudalesimo nipponico è chiamato così per una
questione di pura comodità, di semplice quanto inesatta proiezione sul mondo di categorie occidentali,
ma per il resto presenta caratteristiche totalmente peculiari e diverse dal nostro feudalesimo (del resto,
Kojève si dimostra consapevole di tutto ciò ad esempio mettendo tra virgolette la parola
“feudalesimo” o – subito dopo nel testo – le parole “europeo” e “storico”, a testimoniare che termini
come “religione”, “politica” e “morale” sono specifici di una cultura diversa da quella del paese del
sol levante). Certo, anche in quel caso le guerre sono finite e, con esse, i conflitti socio-politici che
fanno a tutti gli effetti la Storia. Ma si può definire “Storia”, la Storia del Giappone? Non si tratta di
una svalutazione delle vicende storiche di questa nazione, ma piuttosto di un problema di relativismo
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La civiltà giapponese «post-storica» ha imboccato vie diametralmente opposte alla
«via americana». Senza dubbio, in Giappone non c’è più stata Religione, Morale e
Politica nel senso «europeo» o «storico» di questi termini. Ma lo Snobismo allo
stato puro vi creò delle discipline negatrici del dato «naturale» o «animale» che
superarono, per efficacia, di gran lunga quelle che, in Giappone o altrove,
nascevano dall’Azione «storica», cioè dalle Lotte di guerra e rivoluzionarie o dal
Lavoro forzato.88
In Giappone, i “nobili” (= Signori) giapponesi smisero di rischiare la vita in una
Lotta a morte per il puro prestigio, ma nonostante questa rinuncia alla Lotta e al
rischio di morire, non si fecero neppure “plebei” (= Servi). Essi, però, al contrario
degli europei, seppero conservare una capacità negatrice, un’Azione certamente non-
Storica ma altrettanto certamente Umana. E questo non poteva non attrarre la
curiosità di un Kojève che fino ad allora aveva considerato come inestricabilmente
connessi i termini logici di “Umanità” e “Storicità”. Come si conservò questa
Umanità nella post-storia giapponese? Attraverso lo Snobismo.
Certo, i vertici (in nessun luogo uguagliati) dello snobismo specificamente
giapponese, che sono il Teatro Nô, la cerimonia del tè e l’arte delle composizioni
floreali, furono e restano ancora appannaggio esclusivo delle persone nobili e
ricche. Ma, a dispetto delle persistenti ineguaglianze economiche e sociali, tutti i
Giapponesi, senza eccezione, sono attualmente in grado di vivere in funzione di
valori totalmente formalizzati, cioè completamente privi di qualsiasi contenuto
«umano», nel senso di [corsivo mio] «storico». Così, al limite, ogni Giapponese è,
in linea di principio e per puro snobismo, capace di mettere in atto un suicidio
perfettamente «gratuito» (potendo la classica spada da samurai essere sostituita da
un aereo o da un siluro [i kamikaze]), che non ha niente a che vedere con il rischio
della vita in una Lotta condotta in funzione di valori «storici» dal contenuto sociale
o politico. Ciò sembra autorizzare a credere che l’interazione recentemente avviata
tra il Giappone e il Mondo occidentale sfocerà, in fin dei conti, non in un nuovo
imbarbarimento dei Giapponesi, bensì in una «giapponizzazione» degli Occidentali
(Russi compresi).89
legato al fatto che quando si parla di Geschichte, si sta sottintendendo (hegelianamente) l’aggettivo
qualificativo “Occidentale”. 88
A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, p. 543. 89
Ibidem.
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Tale Snobismo risiede nel vivere «in funzione di valori totalmente formalizzati,
[…] privi di qualsiasi contenuto […] “storico”». Si tratta, come spiega bene Antonio
Lucci, di una “ritualizzazione del Senso”, ovvero di un «mantenimento delle vestigia
esteriori del Senso della Storia, dei riti, delle cerimonie, che, anche in uno stato di
perdita dei contenuti dell’Agire propriamente detto, non respingano questo nella
totale a-significanza, e nell’oblio [come succede nell’American way of life]. Uno
snobismo post-passionale, post-storico nel senso più pieno del termine, ma che
mantiene, proprio nel preservarsi della ritualità, le vestigia dell’umano»90
. I kamikaze
si suicidano quasi per preservare un senso formale di Umanità che sia altro rispetto
alla Storicità della Lotta a morte per il riconoscimento socio-politico (ormai
esaurita), e rispetto all’Animalità di chi ormai pensa solo alla sopravvivenza. E per
questo che Kojève, più che profetizzare (anche se lo stile del linguaggio è quello
della predizione), auspica (con ironia quasi disillusa) «una “giapponizzazione” degli
Occidentali», per poter continuare a fare l’amore naturalmente e non come scimmie
ammaestrate91
.
Possiamo quindi dire che lo Snobismo giapponese «assomiglia a una versione più
elegante (anche se, forse, parodica) di quella “negatività senza impiego” che Bataille
cercava di definire nel suo modo certamente più ingenuo»92
. La differenza sta nel
fatto che la “negatività gratuita” di Kojève è testimonianza di una Umanità post-
storica che – come vedremo – può ergersi, in quanto tale, sopra un irriducibile
“supporto” animalesco, mentre la “negatività senza impiego” di Bataille è quella di
uno stregone, di un essere acefalo che “misticamente” pretende di vivere
autenticamente la post-storia in un senso né animale né divino né umano. La
sfumatura di significato è quasi impalpabile ma potremmo dire che si tratta della
differenza che c’è tra chi guarda la morte (e si suicida) con indifferenza snobistica e
chi semplicemente gioisce (o finge di gioire) di fronte ad essa.
Leggiamo, quindi, la folgorante conclusione di questa lunga Aggiunta:
Ora, visto che nessun animale può essere snob, ogni periodo post-storico
«giapponizzato» sarebbe specificamente umano. Non ci sarebbe dunque un
«annientamento definitivo dell’Uomo propriamente detto» fintanto che ci saranno
animali della specie Homo sapiens che possono fare da supporto [corsivo mio]
90
A. Lucci, Prolegomeni alla fine della storia: Kojève sul desiderio. 91
Cfr. Intervista a Alexandre Kojève di Gilles Lapouge, apparsa in “La Quinzaine littéraire”, 500,
luglio 1968, pp. 2-3; trad. it. in Il silenzio della tirannide, a cura di A. Gnoli, Adelphi, 2004, p. 240. 92
G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, pp. 18-19.
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«naturale» a ciò che vi è di umano negli uomini. Ma, come dicevo sopra, nella
Nota, un «animale che è in accordo con la Natura o con l’Essere dato» è un essere
vivente che non ha niente di umano. Per rimanere umano, l’Uomo deve rimanere un
«Soggetto opposto all’Oggetto», anche se scomparissero «l’Azione negatrice del
dato e l’Errore». Ciò significa che, pur parlando ormai in maniera adeguata di tutto
quanto gli è dato, l’Uomo post-storico deve continuare a staccare le «forme» dai
loro «contenuti», facendolo non più per tras-formare attivamente questi ultimi,
bensì allo scopo di opporre se stesso, come «forma» pura, a sé e agli altri,
considerati come «contenuti» qualsiasi.93
Dunque, la Storia è finita: l’Occidente torna ad essere un regno animale. Ma il
popolo nipponico ha generato, nel suo isolamento plurisecolare rispetto al resto del
mondo civilizzato, la “soluzione” (paradossale, ironica, ma forse anche
tremendamente “seria”) a tale ri-animalizzazione: lo Snobismo. «Nessun animale può
essere snob» e, di conseguenza, lo snob, pur alla fine della Storia, non può che essere
un Uomo. Ma – ci dice Kojève – il restare-Umano dell’uomo suppone la
sopravvivenza di quell’animale della specie Homo sapiens che deve fungere da
“supporto naturale” «a ciò che vi è di umano negli uomini». E, come nota Agamben,
l’uomo, per il Kojève interprete (originale) di Hegel, non è «una specie
biologicamente definita né una sostanza data una volta per tutte: è, piuttosto, un
campo di tensioni dialettiche sempre già tagliato da cesure che separano in esso ogni
volta – almeno virtualmente – l’animalità “antropofora” e l’umanità che in questa si
incarna. L’uomo esiste storicamente [corsivo mio] soltanto in questa tensione:
umano egli può essere solo nella misura in cui trascende e trasforma l’animale
antropoforo che lo sostiene, solo perché, attraverso l’azione negatrice, è capace di
dominare ed, eventualmente, distruggere la sua stessa animalità (è in questo senso
che Kojève può scrivere che l’“uomo è una malattia mortale dell’animale” […])»94
.
Questo vuol dire che, nel momento in cui l’Azione essenzialmente Storica si è
esaurita ed è scomparsa, l’uomo ha un’occasione, una possibilità eventuale di restare
Uomo e non tornare meramente Animale: quella di essere un Soggetto virtualmente
opposto all’Oggetto, lo sforzo di guardare dall’alto la propria animalità. Per farlo,
propone Kojève, occorre «staccare le “forme” dai loro “contenuti”», non
pretendendo ancora di “tras-formare” questi ultimi, di negarli, di superarli
(Aufheben) spiritualizzandoli, facendoli “nostri” (come accadeva nella Storia). Si
93
A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, pp. 543-544. 94
G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, p. 19.
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tratta piuttosto di un crearsi, quasi artificialmente o meglio ancora virtualmente, un
Altro (che sia l’altro soggetto con cui entriamo socialmente in contatto o che sia il
nostro “supporto” animale), ovvero «opporre se stesso, come “forma” pura, a sé e
agli altri, considerati come “contenuti” qualsiasi95
». E in questo possiamo leggere,
più che un ritorno a Kant, una nostalgia di Kant. Concludendo, possiamo ancora
citare Antonio Lucci:
In questo mondo atomizzato, fatto di benessere, di materialità, di consumi resi
naturali dal sistema economico, oscillante tra il rito vuoto [dei giapponesi] e
l’assenza di senso e della memoria [degli americani]»96
, ciò che permette all’uomo
di restare-Umano è lo stabilire un freddo, inautentico, rapporto con gli Altri. «Ma
questi altri sembrano non avere volto, essere una mera astuzia della ragione, un
espediente della nostra soggettività per rimanere tale. Il mondo post-storico è un
mondo di soggettività fredde, di animali-sapiens, o di monaci buddhisti detentori
del Vuoto. C’è poco da divertirsi insomma.97
95
Il finale della lunga nota kojèviana è sicuramente complesso e soggetto a varie interpretazioni.
Personalmente, vorrei soffermarmi un attimo su questi contenuti qualsiasi. Quell’aggettivo, infatti,
indica come i contenuti non siano più essenziali (= Storici), e in esso è possibile leggere proprio
l’atteggiamento dello snob, di chi vuole ergersi al di sopra e creare uno spazio virtuale tra sé e l’Altro,
fingendo di essere un dio. Nel finale dell’intervista rilasciata qualche settimana prima di morire a
Gilles Lapouge (p. 242), Kojève afferma: «È vero che è possibile aderire alla saggezza solo se si crede
alla propria divinità. […] Essere divino, cosa vuol dire? Potrebbe trattarsi della saggezza stoica oppure
del gioco. Chi gioca? Gli dèi non hanno bisogno di reagire [“storicamente”, aggiungerei io] e allora
giocano. Sono dèi fannulloni! […] Sono un fannullone». Se la storia è finita, qualsiasi “serietà”
discorsiva diventa riconducibile ad un “verso” (sia nel senso del verso animale, sia nel senso del verso
musicale che si ripete). La chiave diventa quindi l’Ironia, il “non prendersi sul serio”, l’unico modo
autenticamente efficace di opporsi come forma pura al contenuto oggettuale naturale: se gli animali
non possono essere snob, non possono nemmeno essere ironici. 96
A. Lucci, Prolegomeni alla fine della storia: Kojève sul desiderio. 97
Ibidem.
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39
CAPITOLO SECONDO – LA FINE DEL POLITICO
[…] in tutto il mondo contemporaneo, non riconosco
giudice più competente di Lei, sig. Kojève.
(C. Schmitt, lettera del 9 maggio 1955)
2.1 Kojève e Schmitt
2.1.1 Appropriazione, divisione, produzione
Tutti gli argomenti finora trattati trovano approfondimento, esemplificazione e
chiarificazione nel celebre scambio epistolare che terrà in contatto, per tutta la
seconda metà degli anni Cinquanta, Alexandre Kojève con il giurista e filosofo
tedesco Carl Schmitt, noto anche per il sostegno al regime nazista.
Il pretesto per iniziare il dialogo fu la lettura, da parte di Kojève, di un brevissimo
testo schmittiano, pubblicato nel 1953 su “Gemeinschaft und Politik” col titolo di
Nehmen/Teilen/Weiden. Kojève va dritto al sodo: si pone alla fine della Storia e
risponde a Schmitt dicendo:
1) «in sé» non esiste più (certamente dopo Napoleone) «appropriazione» [Nehmen]
(tutti i tentativi in proposito sono falliti);
2) «per noi» (ossia per il «sapere assoluto») esiste solo la «produzione»
[Produzieren, “produrre” in un senso più originario rispetto a Weiden]!;
3) ma - «per la coscienza in sé» (riguardo a USA/URSS) vale ancora la
«spartizione» [Teilen].98
Quindi, innanzitutto, con Napoleone si conclude l’Appropriazione essenzialmente
Storica: il Desiderio di riconoscimento è stato esaurito, l’idea di Libertà, che ha
animato tutta la Storia, è stata conquistata, realizzata e compresa. Ora – risponde
Schmitt nella lettera successiva (9.5.1955) –, se con “appropriazione” Kojève intende
l’“appropriazione di Dio” di cui parla Hegel, allora Schmitt è in accordo col suo
interlocutore, il quale, nella Introduction, parla di questa Gott-Nahme affermando
che per superare la Vor-stellung teista basta be-greifen, ovvero concettualizzare,
comprendere, afferrare e quindi “appropriarsi” di Dio, cioè «basta dire dell’Uomo
tutto ciò che il cristiano dice del suo Dio»99
. Schmitt non è più d’accordo, però, nel
momento in cui Kojève afferma che quell’“appropriazione” si è conclusa dopo
98
Lettera di Kojève a Schmitt del 2.5.1955, p. 186. 99
A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, p. 268.
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40
Napoleone e che, ad oggi, nell’epoca della Saggezza post-storico-filosofica che tutto
ha compreso e che tutto ha detto, esiste solo la “produzione” (materiale, l’opposto
della negazione spirituale). La critica che, su questo punto, Schmitt rivolge al russo-
francese è ben sintetizzata nell’aggiunta dal titolo “Cinque glosse al termine nomos”
che il giurista tedesco appone tra il 1957 e il 1958 al suo testo sopracitato:
[…] Kojève coniò […] l’espressione «capitalismo distributore». Egli intendeva
così dire che il capitalismo moderno, tendenzialmente illuminato, che è intento
all’aumento della forza di acquisto dei lavoratori e allo sviluppo industriale dei
paesi sottosviluppati, significa ormai qualcosa di sostanzialmente diverso dal
capitalismo solo appropriatore a cui si riferiva Marx.100
Bisogna però ricordare a
Kojève che non può esservi nessun uomo capace di dare ciò che, in un modo o
nell’altro, non abbia preso. Solo un Dio che crei il mondo dal nulla può dare senza
prendere, e anch’egli solo […] a partire da quel nulla.101
Tale critica, però, muove da due modi diversi (ma non inconciliabili) di leggere le
cose. Il giurista Schmitt legge in quell’“appropriazione” la necessità dello Stato di
diritto, da lui aspramente criticato, di appropriarsi, appunto, di tutto ciò di cui ha
bisogno (attraverso imposte dirette e indirette e altri stratagemmi economici) per poi
fornire al popolo servizi e assistenza sociale, secondo la logica del do ut des il cui
fondamento conflittuale è celato sotto un velo di razionalità giuridica. Per Kojève,
invece, non si tratta della mera appropriazione di risorse. La “fine”
dell’Appropriazione, avvenuta con Napoleone, è da intendere come la fine delle
guerre e delle rivoluzioni, di quella Lotta per il riconoscimento che ormai non ha più
ragion d’essere: non esiste più un’Alterità trascendente, il coraggio e
l’intraprendenza del “borghese” moderno hanno abbattuto qualsiasi confine, e questo
processo è culminato in quell’evento che ha permesso ad Hegel di comprendere la
fine della Storia come storia della Libertà. Non c’è più Appropriazione perché l’Altro
100
Siamo perfettamente in linea con quanto pocanzi affermato nella Nota. Il capitalismo di cui parlano
Hegel-Marx, per il Kojève maturo, è il capitalismo “moderno”, immagine dai contorni ormai definiti
del modo di vivere proprio dell’Uomo moderno. Si tratta del capitalismo “Storico”, quello sempre in
Movimento, quello che ha sempre nuove frontiere geografiche, economiche, politiche, sociali,
giuridiche e culturali da abbattere, sempre un nuovo oggetto di cui appropriarsi. Quando tale
appropriazione è finita con la fine della Storia, il capitalismo diventa un capitalismo post-storico, post-
umano, post-moderno. E in un certo senso – come abbiamo visto – assimilabile proprio alla
realizzazione della società comunista prevista da Marx. 101
Carl Schmitt, Nehmen/Teilen/Weiden. Ein Versuch, die Grundfragen jeder Sozial- und
Wirtschaftsordnung vom Nomos her richtig zu stellen, in “Gemeinschaft und Politik”, I, n. 3, 1953;
trad. it. Appropriazione/Divisione/Produzione. Un tentativo di fissare correttamente i fondamenti di
ogni ordinamento economico-sociale, a partire dal «nomos», a cura di P. Schiera, in Le categorie del
«politico», Il Mulino, Bologna 1972, p. 312.
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non è più trascendente ma un risultato dello stesso processo Storico e, dunque, in
qualche modo riconducibile a sé. In tal senso, per Kojève, USA e URSS sono
esattamente due facce della stessa medaglia. Non esiste reale Alterità e non scoppierà
mai tra di loro una vera e propria Guerra di sottomissione, proprio perché con
Napoleone è stato ormai portato “a compimento” lo Stato inteso come unità
territoriale in grado di condurre guerre102
. La “spartizione” (più che “divisione”) del
mondo che – durante la Guerra fredda, quindi all’epoca in cui i due filosofi si
scrivono – stavano attuando, non è una Lotta a morte per il riconoscimento, ma una
semplice corsa post-storica verso lo Stato universale. Gli Accordi russo-cinesi da un
lato e il Piano Marshall dall’altro sono solo due strumenti diversi per una
«spartizione omogenea»103
ovvero teleologicamente uguale. E, in fondo, «che cosa
vogliono gli eventuali russi “anticomunisti”? La stessa cosa dei “comunisti”. cioè
“vivere bene e in pace”. Gli uni, tuttavia, ritengono che gli altri vogliano procedere
troppo velocemente […]»104
. A questo punto, ciò che resta in questo mondo post-
storico è il semplice soddisfacimento di bisogni che abbiamo il diritto di perseguire.
Il modo d’essere della post-modernità è la mera Produzione “naturale”, quello che
Kojève intende con “capitalismo distributivo”. Insomma, siamo nell’epoca
dell’epoché del Senso, della “notte del mondo”, della Globalizzazione e, soprattutto,
del Consumismo sfrenato. E «del resto, con il suo “Regno della libertà” (per fare
cosa?!)105
, anche Marx non intendeva niente di diverso»106
.
2.1.2 La crisi dello Stato alla fine della storia
Continuando nella lettura:
Esistono ancora Stati nel senso proprio della parola, cioè governi che siano qualcosa
di diverso dalle amministrazioni e Politica (= guerra) che sia qualcosa di più della
polizia (Police)? Gli Americani non hanno mai saputo cosa significassero guerra,
politica e Stato (i “boys” non cadono come soldati, ma vengono uccisi come agenti
102
Cfr. lettera di Kojève a Schmitt del 16.5.1955, p. 189. Qui lo Stato non è quello universale e
omogeneo, bensì quella “unità territoriale” che Napoleone ha il merito (Storico) di “superare” in
favore della Società (questa da intendere come sintesi di universale e particolare). 103
Lettera di Kojève a Schmitt del 2.5.1955, p. 186. 104
Lettera di Kojève a Schmitt del 16.5.1955, p. 190. 105
Spiega bene De Fiore (https://politicaesapere.wordpress.com/): «L’inciso tra parentesi è molto
significativo: regno della libertà, ma per fare cosa? La domanda suona retorica perché già in essa c’è
la risposta: se la Storia è finita, tanto che si è nella libertà, allora lo è anche il fare, nell’accezione
appunto storica del termine: la Storia è il cammino che gli uomini hanno fatto nel segno della libertà.
Ma se questo orizzonte è ormai raggiunto, allora ogni fare non ha più senso». 106
Lettera di Kojève a Schmitt del 16.5.1955, p. 189.
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42
di polizia, e naturalmente nessuno vede niente di buono in questo). […] E l’Europa
è in procinto di dimenticarlo. […] Africa, Asia? No, come Lei afferma giustamente,
la Storia non si ripete due volte e per questi paesi è troppo tardi […].107
Assistiamo qui ad una vera e propria diagnosi del mondo contemporaneo ai due
interlocutori. Diagnosi, per giunta, sulla quale i due si ritrovano perfettamente.
Anche in Schmitt (ved. Nehmen/Teilen/Weiden o anche L’epoca delle
neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni) si parla di una vera e propria
“neutralizzazione del politico”, ovvero di una «crisi dello Stato moderno inteso come
unico soggetto della politica»108
. E del resto il giurista tedesco risponderà:
[…] che lo «Stato» sia alla fine, è vero […]; l’attuale, moderno, apparato
amministrativo della «cura-assistenziale» non è «Stato» nel senso di Hegel, non è
«governo» […]; non è più capace di guerra e di condanne a morte; quindi non è più
creatore di storia [geschictsmächtig]. In tutto questo Lei ha ragione.109
Se lo Stato nazionale, nato con l’età moderna, era la «unità territoriale in grado di
condurre guerre», ora Guerre propriamente dette non ci sono più. Infatti, scrive
Kojève, «le rivoluzioni e le guerre non appartengono alla spartizione, ma
all’appropriazione. E […] l’appropriazione è politica solo nella misura in cui ha
luogo intorno a questioni di prestigio e per scopi di prestigio. In caso contrario, ci si
dovrebbe chiedere se anche gli animali possano fare guerra e se la cattura degli
schiavi nell’Africa del XIX secolo debba essere considerata una guerra. D’altro
canto, Atene non avrebbe avuto molto da “prendere” a Sparta (e viceversa) se non
l’“egemonia”, ossia proprio il prestigio»110
.
Perché, dunque, lo “Stato” finisce con la “guerra totale” di Napoleone? Perché
con Napoleone finisce la Storia intesa come Storia della Politica. E la Politica non è
la mera amministrazione giuridico-economica ma l’Azione di Senso, la de-cisione
per la Lotta. Con Napoleone, questa, come Lotta per il riconoscimento, è finita. Ciò
che inizia è l’epoca post-storica dello Stato universale e omogeneo a-venire, quello di
cui, nella fine “napoleonica” della Storia, è stato piantato il seme. La pianta, poi,
crescerà naturalmente. Da un punto di vista escatologico, si tratta della realizzazione
della società comunista prospettata da Marx; da un punto di vista “attuale”, invece, si
107
Ivi, p. 189-190. 108
C. Altini, Fino alla fine del mondo moderno, pp. 217-218. 109
Lettera di Schmitt a Kojève del 7.6.1955, p. 193. 110
Lettera di Kojève a Schmitt del 1.8.1955, p. 196.
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43
tratta di “allineare le province” all’assenza di un’Alterità ormai negata, superata. In
termini schmittiani, il Politico è neutralizzato perché viene a mancare un Nemico.
Non a caso, Schmitt rivolge una domanda a Kojève il quale risponde:
Lei mi chiede «se possa fondamentalmente esistere un nemico in Hegel». Come
sempre: sì è no.
Sì – se e fino a quando esiste lotta per il riconoscimento, cioè Storia. La storia del
mondo è la storia dell’ostilità tra gli uomini (essa non esiste certo tra gli animali:
essi infatti «lottano» per qualcosa, mai per ostilità).
No – se e non appena la Storia (= lotta per il riconoscimento) viene «superata» nel
Sapere assoluto. In ultima analisi, l’ostilità è solo un «momento» della «logica»,
ossia del discorso umano […].111
La Lotta propriamente Umana è dunque quella per il puro prestigio, è quella della
dialettica tra Signore e Servo, “Umana” perché per qualcosa di astratto, per pura
ambizione. Se infatti attualizziamo il discorso kojèviano e guardiamo alle guerre
odierne, ci rendiamo conto perfettamente che si tratta di guerre per qualcosa di
estremamente concreto, animale, come per esempio il petrolio. L’egemonia per cui si
combatte non è più il “puro prestigio”, come nel caso di Atene e Sparta, ma
un’egemonia diversa, quella economica. Dietro le guerre non c’è più un eroismo
“signorile”, non c’è più un Ideale (più o meno conscio), ma una sfrenata rincorsa alla
sopravvivenza naturale, ben rappresentata dal Mercato. Non c’è più un Nemico
contro cui lottare per il riconoscimento (ovvero per se stessi) e il “nemico”
economico è tale solo nel contesto di una lotta non umana (post-umana) per il
proprio benessere:
[…] si potrebbe concludere che l’ideale di un universalismo egualitario viene
sostituito dalla logica borghese tesa a convertire il riconoscimento nello scambio.
L’economico riesce in un certo senso laddove il politico ha fallito: la storia che non
può concludersi nella logica dell’eguaglianza (politica) può invece risolversi in
quella dell’equivalenza (economica). Come però la tendenziale esclusione della
guerra non significa la pace (i conflitti possono proseguire indefinitamente, ma in
altra forma), così questa conclusione non significa affatto un compimento [corsivo
mio] […].112
111
Lettera di Kojève a Schmitt del 4.1.1956, p. 199. 112
Matteo Vegetti, Stato totale, imperialismo, impero. Sul pensiero politico di Alexandre Kojève, in
“Rivista di storia della filosofia”, n. 4, 2008, pp. 646-647.
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Quindi, così come la politica permane in forma puramente amministrativa, così la
guerra permane come competitività economica. E questo Kojève lo dice chiaramente:
Quando, all’indomani della guerra, sono entrato come funzionario (commercio
estero = «politica» estera) nel moderno «Stato» democratico, ritenevo […] che
fondamentalmente non esistesse più alcuno Stato. […] grazie a questa […]
«neutralizzazione» del politico, l’amministrazione ha potuto compiere indisturbata
il proprio lavoro, cioè in primo luogo «amministrare» (= organizzare la «produzione
originale», per usare la Sua terminologia). Certamente esiste ancora un certo tipo di
«politica estera». Ma, al contrario, non esiste più la politica interna: tutti vogliono la
stessa cosa, cioè niente; infatti essi sono fondamentalmente appagati [“contenti”],
anche se non soddisfatti (e l’élite più insoddisfatta è un’élite rivoluzionaria, cioè
potere politico solo se la massa è inappagata). Tuttavia, a questa cosiddetta politica
estera è rimasto solo uno scopo: eliminare la Politica (= guerra) dal mondo.
Apparentemente sembra che tutto sia «come prima»: armamenti, alleanze, ecc.
Eppure tutto è così diverso da esser notato anche dall’«homme de la rue»113
, che
non può più prendere tutto ciò seriamente.114
Ciò che resta nella post-storia è, secondo Kojève, pura e semplice
Amministrazione, quella che Agamben definisce «una legge che vige senza
significare»115
. Ad essa pertiene il momento schmittiano della Produzione ma non
più, ormai, quello dell’Appropriazione. E non essendoci più niente di Altro-da-sé,
ovvero non essendoci più un’Idea da realizzare, non c’è più bisogno di guerre o
rivoluzioni. L’appagamento di chi vive in questa universalità omogenea è
l’accontentarsi biologico tipico dell’odierna società del benessere e del consumismo,
quella in cui lo Stato permane come Welfare State, ovvero come ciò che ci garantisce
quel quid che ci è dovuto. Sparisce lo Stato come soggetto propriamente Politico,
proprio perché la Libertà è ormai conquistata, è divenuta un Diritto, si è realizzata ed
è stata compresa. Nessuno mai potrà privare l’uomo di tale diritto. E se qualcuno ne è
ancora privo, tale privazione viene ormai percepita come tale e si farà di tutto per
colmarla. È l’allineamento delle province che, in termini più attuali, rappresenta il
concetto tipicamente americano dell’“esportazione della democrazia”. Motivo per il
quale la guerra si riduce a semplici interventi di Polizia internazionale atti a rendere
113
Ritorna qui il tema della “serietà” già toccato precedentemente. La serietà è qualcosa di
propriamente Storico. La post-storia non prevede una guerra che possa essere presa sul serio perché
diventano immediatamente evidenti gli interessi materiali che ci sono dietro. 114
Lettera di Kojève a Schmitt del 16.5.1955, p. 190. 115
G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 2005, p. 70.
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il mondo l’hegeliana “realtà razionale”. E se, in quest’opera di adeguazione,
qualcuno muore, non cade più come soldato in una “Guerra per il riconoscimento”,
ma viene semplicemente ucciso. Non c’è più il Desiderio di farsi valere nei confronti
di un Altro, non c’è più il Desiderio di desiderio, ma solo una “missione di pace” che
esclude la possibilità stessa di quell’Altro alzando il vessillo dell’assenza di vessilli,
ovvero costringendo l’Uomo ad accettare la propria fine, ad omologarsi. Come
abbiamo detto più volte, infatti, c’è Uomo solo finché egli è un «Soggetto opposto
all’Oggetto», e questa relazione – per Kojève, propriamente intersoggettiva – è ciò
che rende possibile definire l’Uomo, con la U maiuscola, un “animale politico”.
“Politico”, però, come nota Vegetti, non è da intendere in un senso lato come
qualcosa di contingente o storicamente determinato, ma si tratta piuttosto della
«situazione in cui l’altro sorge come la possibilità reale della negazione dell’io, a sua
volta chiamato alla decisione di rischiare la vita per imporsi al suo avversario e
ottenere il valore politico “più proprio”, quello di indipendenza e
autodeterminazione»116
. Siamo nella dialettica “storica” Signore-Servo, associabile
quindi per molti versi, a partire dal carattere definitorio del “Politico”, alla dialettica
schmittiana Amico-Nemico, entrambe fondate su «la disponibilità alla lotta e la
possibilità pubblica della morte, che devono restare presenti affinché l’inimicizia
conservi significanza politica […]»117
.
Ora però la trascendenza è negata, tutto è per noi, tutto è noi. Non c’è più un
Nemico e l’Amicizia universale (= il pacifismo) è finalizzata – per Schmitt-Kojève –
solo ad una omologazione al non-Senso. Questo è ben sintetizzato dallo stesso
giurista tedesco, il quale afferma, in una filastrocca da lui composta che invia a
Kojève, «il caro Dio si ritrae nel profondo / nel melting pot si fonde l’intero
mondo»118
.
2.1.3 L’appeasement
In sostanza, dunque, la fine della Storia è la fine del Politico inteso come Nehmen
schmittiano. Al di là di esso, per Kojève, resta la tecnica heideggerianamente intesa,
la Produzione, il falso mito del progresso tecnologico, il Consumismo e l’attesa di
una Globalizzazione definitivamente realizzata, quello Stato universale e omogeneo
che si può definire, in termini astrofisici, una forma di “entropia”. La Spartizione del
116
M. Vegetti, Hegel e i confini dell’Occidente, p. 264. 117
Ivi, p. 265. 118
Lettera di Schmitt a Kojève del 31.1.1957, p. 206.
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46
mondo ad opera, in quegli anni, di USA e URSS non è un dualismo “di Senso”,
poiché si tratta dell’opposizione ideologica (nel senso di “apparente”) tra due entità
che vogliono la stessa cosa, cioè il benessere biologico. «Ma – dice Kojève – questo
non è un problema politico e quindi non c’è bisogno di alcuna guerra, né di alcuna
rivoluzione, e nemmeno di Stati, ma solo di un’amministrazione [corsivo mio]»119
.
Non si tratta quindi di un’opposizione reale, politica, di inimicizia, perché il piano
dello scontro, quello su cui si svolge una Guerra (necessariamente) fredda, non è più
quello Umano (= “astratto”) della Lotta a morte per il riconoscimento
“appropriativo”, ma quello Animale di stampo economico-produttivo120
. Il destino
(non realmente futuro ma, nella post-storia, eternamente presente) dell’umanità è, per
il Kojève che scrive a Carl Schmitt nella seconda metà degli anni Cinquanta,
l’American way of life:
Per me, il futuro trova la sua espressione simbolica nel cappello da cowboy di
Molotow.121
Ora, le opinioni di Kojève non sono costruzioni speculative da armchair
philosopher ma derivano da un’azione sul campo: nell’immediato dopoguerra,
infatti, Kojève lavorerà come funzionario ed “eminenza grigia” del Ministero
francese degli Affari economici, alle dipendenze del suo vecchio allievo Robert
Marjolin e dei suoi successori, attivamente impegnati nella costruzione politico-
economica dell’Europa. Un impegno, quello di diplomatico e consigliere segreto, che
gli permetterà di conoscere a fondo gli equilibri mondiali e di far parte, in prima
persona, di quello che definiva “allineamento delle province”. Si trattava dunque di
un profondo conoscitore delle trasformazioni che interessavano la realtà a lui coeva.
Ed è per questo che può operare, nel Carteggio con Schmitt, quella che definisce una
“prognosi mondiale su base hegeliana”:
[…] «pacificazione» [appeasement] – disarmo […] – politica del «Point IV» (in
caso contrario [?] disoccupazione negli USA) - «ripartizione razionale» delle
materie prime e dei prodotti industriali (= «produzione originaria» [Weiden] senza
«distruzione» [Ausweiden, contro ciò che dirà Schmitt]) in Occidente – livellamento
119
Lettera di Kojève a Schmitt del 16.5.1955, p. 191. 120
Cfr. M. Vegetti, Stato totale, imperialismo, impero, p. 647. 121
Lettera di Kojève a Schmitt dell’11.7.1955, p. 195.
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47
del reddito all’interno di ogni paese e tra i diversi paesi («underdeveloped
countries»).
E tra dieci o venti anni anche un «non-hegeliano» dovrà notare che l’Oriente e
l’Occidente non solo vogliono (dopo Napoleone) la stessa cosa, ma addirittura la
fanno. «L’allineamento» diventerà semplicissimo. 122
Ciò che osserva Kojève, in quanto Saggio nella post-storia, è un generale
appeasement che ben si esplica col concetto paradossale del “disarmo”. I decenni
della Guerra fredda vedono, infatti, una crescita degli armamenti in molte nazioni (e
contemporaneamente varie conferenze per il disarmo). Ma, come nota il pensatore
russo-francese, «nessuno ha più il desiderio di diventare un “aggressore”. E là dove
tutti vogliono e possono solo “difendersi”, non esiste più Storia […]»123
. Questo
“difendersi”, vòlto alla sopravvivenza biologica, si accompagna a
quell’Omologazione che fa capo al “capitalismo distributore” e che consiste in un
livellamento socio-economico globale particolarmente evidente, secondo Kojève, nei
Paesi “in via di sviluppo”124
. L’allineamento di cui parla Kojève, quindi, non è da
intendere come una lotta tra due modelli (l’americano e il sovietico) alla fine della
quale ne resterà soltanto uno. Anche perché quei due modelli sono, per Kojève, “la
stessa cosa”, due facce della stessa medaglia. Il vero “allineamento” è visibile
altrove, e Matteo Vegetti ce lo spiega benissimo. Per Kojève, infatti, «è già evidente
che la vera antinomia non passa ormai tra Oriente e Occidente, ma tra il Nord e il
Sud del pianeta, cioè tra le regioni industrializzate e quelle sottosviluppate. Il nuovo
nomos della terra (Kojève lo nota con straordinaria lungimiranza, e Schmitt sarà
costretto a seguirlo su questo punto) si annuncia allora nel programma per la
ricostruzione dei paesi europei e per lo sviluppo dei paesi arretrati sancito
dall’articolo 4 (il Point IV) della dottrina Truman del 1949 (precursore del cosiddetto
piano Marshall). Qui emerge infatti (consapevolmente o meno) il rivoluzionario
principio che […] sostituisce alle tradizionali politiche di conquista e sfruttamento
una nuova strategia, interessata a incorporare i territori coloniali nel mercato di
scambio, dotandoli dei mezzi sufficienti allo sviluppo [la pacificazione, il “dis-
122
Lettera di Kojève a Schmitt del 16.5.1955, p. 191. 123
Ibidem. 124
Proprio i Paesi sottosviluppati saranno il tema della conferenza che Kojève, su invito di Schmitt,
terrà a Düsseldorf. Ed è interessante a tal proposito citare una breve osservazione preliminare che
Kojève riferisce a Schmitt nella lettera del 21.5.1956 (p. 202): «il tema “underdeveloped countries” mi
sembra davvero interessante. In questa occasione, potrei forse presentare anche la mia interpretazione
“hegeliana” di Marx: ciò che era il proletariato del XIX secolo, ora è diventato l’“underdeveloped” nel
XX secolo – con tutto quello che ne consegue, nella teoria e nella prassi».
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48
armo”, la distribuzione di materie prime e prodotti, il livellamento dei redditi,
ecc.]»125
.
2.1.4 La risposta di Schmitt
Come abbiamo visto, circa la “diagnosi” Kojève e Schmitt sono in accordo. È la
prognosi ciò che li distingue. Per Schmitt, infatti, «le cercle n’est pas encore
parcouru»126
, ovvero la Storia non è finita una volta per tutte: «in Schmitt, infatti, la
questione dell’ordine politico mantiene un carattere “aperto” che in Kojève sembra
invece essere dissolto. La questione consiste nel rapporto tra mediazione e
concretezza, che Kojève, al contrario di Schmitt, considera sostanzialmente [corsivo
mio] (anche se non completamente e definitivamente) “chiuso” in favore della
mediazione»127
. Per questo Schmitt parla di una “neutralizzazione” del politico: la
“mediazione” in un’Unità, la razionalizzazione finale, quella dello “Stato di diritto”,
non è da intendere come la fine sostanziale e definitiva della Storia ma solo come
una “strettoia” che contempla la possibilità di un Nuovo inizio, di un’Altra politica,
di una Ulteriore decisione, quella “concretezza” che fa autenticamente la Storia. Per
comprendere fino in fondo quello che è il pensiero di Carl Schmitt, in relazione alle
tematiche di cui contemporaneamente si occupa Kojève, è opportuno riportare una
citazione di Carlo Altini:
La crisi della politica moderna, agli occhi di Schmitt, non rinvia ‘automaticamente’
ad una soluzione, visto che il sistema tradizionale degli Stati non è ancora stato
completamente sostituito – non certamente dal mondo della «soddisfazione
universale», in cui non esisteranno più né lotta né lavoro, né azione né negatività,
che è ancora di là da venire. Da questo punto di vista, l’attuale tendenza [corsivo
mio] alla pacificazione, al livellamento e all’uniformità non indica con certezza ciò
che verrà dopo la «pacificazione»: la politica si trova dunque in una fase di
transizione, «del non più e del non ancora», che insedia la crisi in forma
‘permanente’, chiaramente visibile in diverse forme della politica contemporanea,
in particolare nella struttura dell’attuale Stato sociale e amministrativo, nella
trasformazione dei concetti di guerra e pace e, infine, nella struttura delle alleanze
della Guerra fredda, che disegna l’inizio di una nuova èra degli «imperi» […].128
125
M. Vegetti, Stato totale, imperialismo impero, pp. 647-648. 126
Lettera di Schmitt a Kojève del 7.6.1955, p. 193. 127
C. Altini, Fino alla fine del mondo moderno, p. 213. 128
Ivi, pp. 218-219.
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49
Il primo punto su cui focalizzarsi è il fatto che la “neutralizzazione del politico”,
visibile nella tendenza alla pacificazione e al livellamento, sia una fase di transizione
tra il “non più” della forma classica (“bellica”) dello Stato e il “non ancora” della
Decisione a-venire, della forma-Stato che si affermerà «dopo la “pacificazione”»,
ovvero dopo che tale tendenza si sarà esaurita. In quest’epoca quantomeno di
sospensione, l’umanità è diventata, anche agli occhi di Schmitt «una società unitaria,
sostanzialmente pacificata; nemici non ve ne sono più; essi si trasformano in partners
conflittuali»129
: la guerra non è più contro un Nemico dialetticamente necessario, ma
si riduce a competitività economica e questo la rende, in termini schmittiani, una vera
e propria “guerra civile mondiale”, un conflitto interno cioè a quella società senza
Stato che la Globalizzazione ha generato. Il problema del potere resta ma, in tal
senso, «il vuoto lasciato dal politico viene semplicemente riempito dalla ratio
oeconomica e dal sistema amministrativo, i quali si arrogano di fatto il monopolio
delle decisioni»130
. Tale razionalizzazione economico-costituzionale rappresenta
proprio la crisi di quello Stato-nazione che si afferma nell’età moderna ma che è il
risultato di tutta la precedente storia europea. Esso era l’esplicazione di ciò che
Schmitt chiamava Nomos der Erde, il nomos della terra, espressione
dell’ordinamento politico, giuridico, economico e sociale dei popoli. Come spiega
chiaramente in Nehmen/Teilen/Weiden, il nomos (già filologicamente) si articola in
tre significati che sono appunto l’appropriazione, la spartizione e la produzione: «in
un modo o nell’altro, sempre c’è stata appropriazione, spartizione, produzione: il
problema riguarda il “come”, il “quando” e il “dove”»131
. Al di là quindi delle sue
determinazioni storiche, questo nomos interessava la “terra”: era essenziale
conquistare nuove terre, per poi spartirle, per poi sfruttarle a livello produttivo.
L’inizio dell’età moderna ha portato con sé, però, uno spostamento dell’asse dalla
“terra” al “mare”, con tutto ciò che ne consegue: il mare (e la sua deriva più estrema,
l’aria) spalanca gli orizzonti, annulla le distanze, nega l’alterità. Il libero scambio,
che nasce con l’“imperialismo” anglosassone, e il progresso tecnico che ad esso si
accompagna, rendono l’appropriazione nella sua radicalità, ovvero la conquista tout
court, obsoleta: «l’appropriazione alla fine è non solo immorale, ma anche
irrazionale dal punto di vista economico e quindi insensata»132
. A che pro
conquistare nuove terre, quando il commercio rende immediatamente disponibile una
129
C. Schmitt, Concetto di «politico», in Le categorie del «politico», p. 70. 130
M. Vegetti, Stato totale, imperialismo, impero, p. 646. 131
C. Altini, Fino alla fine del mondo moderno, p. 221. 132
C. Schmitt, Appropriazione/Divisione/Produzione, p. 303.
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50
massa sempre crescente di beni di consumo? Col “mare” nasce il liberalismo,
obiettivo polemico di Schmitt insieme alla socialdemocrazia, elementi per molti versi
in opposizione tra loro ma legati tra loro dal riferimento comune all’economia
politica classica e, soprattutto, dall’attenzione riversata sulla dimensione “sociale”: la
concezione di un Diritto razionale e universale è qualcosa che, secondo Schmitt,
pertiene più che ad una dimensione “statale”, alla sfera – in termini hegeliani – della
“società civile”, quella in cui il “politico” viene, appunto neutralizzato e sostituito
con il Mercato globale. Tale “neutralizzazione”, che conduce comunque ad una
sospensione della Storia, si connette proprio all’assenza del momento, storicamente
essenziale, dell’“appropriazione”: «nello Stato sociale l’elemento prioritario della
questione sociale è la spartizione, o meglio la redistribuzione, mentre per il
liberalismo è la libertà di produzione (e di consumo)»133
.
Ora però, se per Kojève, essendo l’“appropriazione” «politica solo nella misura in
cui ha luogo intorno a questioni di prestigio e per scopi di prestigio», essa è finita con
la fine della Storia, Schmitt “non si arrende”: per lui si tratta di una sorta di
trasformazione, ancora in atto, del Nehmen, il quale non è più la conquista della terra
ma piuttosto, ad esempio, l’appropriazione dei mezzi di produzione, di cui si sono
occupati molti teorici schieratisi – non a caso – contro l’economia politica classica,
primo fra tutti Karl Marx. Ciò che sta cercando, dunque, il giurista tedesco è «il
nuovo Nomos della terra, una geo-nomia; essa non sorge dall’imposizione di un
signore del mondo, nelle cui mani alcuni Premi Nobel hanno riposto il potere [si
tratta di George Marshall]; essa sorge da una immane reciproca “misurazione delle
forze”»134
. La crisi del “politico” ha quindi rappresentato, per Schmitt, certamente
una sospensione della Storia; essa va però intesa come “attesa” di un nuovo nomos,
di una nuova Appropriazione “di Senso”, e anche di un nuovo paradigma
interpretativo della Storia. Un’“attesa”, appunto, riempita dalla “misurazione delle
forze” di quelle che – secondo uno Schmitt che scrive nel pieno della Guerra fredda -
sono destinate a diventare futuri Soggetti di “appropriazione” politica, protagonisti di
una Nuova Storia. Schmitt, infatti, è, come abbiamo già visto, d’accordo
nell’affermare col suo interlocutore la fine dello “Stato”, però poi aggiunge:
Ma io credo che, nel prossimo stadio, i magni homines – ora majores homines –
dovranno confrontarsi sulla questione dei «grandi spazi» (Großräume); «grande
133
C. Altini, Fino alla fine del mondo moderno, p. 221. 134
Lettera di Schmitt a Kojève del 7.6.1955, p. 194.
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51
spazio», ossia uno spazio di pianificazione […]. Sono convinto che, per quanto
piccola essa possa essere diventata, la nostra terra non costituisca ancora un’unità di
pianificazione, e non mi pronuncio sulla possibilità che essa possa diventarlo. Io
non intendo il «grande spazio» come una contrapposizione ad uno spazio
localizzato […], ma piuttosto nel senso di un’opposizione all’unità del mondo –
senso che rende possibile una pluralità, e con ciò un’inimicizia dotata di senso, e
che fonda la capacità della storia – cioè contro l’accettazione che il ciclo del tempo
sia giunto alla fine.135
2.2 Gli Imperi
La dottrina dei Großräume è stata da Schmitt solo abbozzata nella sua opera (ad
esempio compare in Nomos der Erde), ma è centrale per cogliere le differenze tra il
giurista tedesco e il pensatore russo-francese: l’avvento escatologico di uno “Stato”
universale e omogeneo, per Schmitt, non è solo un qualcosa di là da venire ma,
soprattutto, è qualcosa da scongiurare. Eppure, per comprendere tale dottrina fino in
fondo, è utile fare riferimento a ciò che circa un decennio prima sosteneva lo stesso
Kojève. Come però ho già avuto modo di dire analizzando l’Introduction à la lecture
de Hegel in merito alle differenze tra la Nota del 1946 e la sua Aggiunta del 1968, il
pensiero di Alexandre Kojève si evolve negli anni e, in alcuni punti, si presenta
anche rovesciato. Se si leggono, ad esempio, solo le pagine del Carteggio con
Schmitt (che parte nel 1955), mai si potrebbe pensare che dieci anni prima, nel 1945,
alla fine della Seconda guerra mondiale, Kojève sosteneva proprio ciò che Schmitt
gli obietta, ovvero una teoria simile per molti versi a quella dei “grandi spazi”, la
dottrine degli “imperi”. Kojève ne parlava in un breve saggio rimasto a lungo inedito
e pubblicato solo postumo: L’empire latin. E non deve stupire – come vedremo – il
fatto che Kojève, non ne faccia menzione con Schmitt: oramai ha capito che anche la
forma-Impero è superata, o meglio, vana.
Ora, in quel 1945, un “primo” Kojève, ancora “filo-sofo”, ancora proteso verso
quella fine della Storia di cui Hegel aveva indicato erroneamente il termine ultimo in
Napoleone sbagliando di (almeno) 150 anni, scrive:
Non vi è dubbio che oggi stiamo assistendo a una svolta decisiva della storia, simile
a quella verificatasi alla fine del Medioevo. La nascita dell’età moderna è
caratterizzata dall’inarrestabile processo di progressiva eliminazione delle
formazioni politiche «feudali» che frammentavano le unità nazionali a vantaggio
135
Lettera di Schmitt a Kojève del 7.6.1955, p. 193.
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52
delle monarchie, e cioè degli Stati-nazione. Attualmente sono questi Stati-nazione a
cedere inarrestabilmente a poco a poco il passo a formazioni politiche che
fuoriescono dai limiti nazionali e che si potrebbero designare con il nome di
«imperi».136
La premessa è sempre la stessa: lo Stato-nazione, ovvero lo Stato inteso come
«unità territoriale in grado di condurre guerre», sorto assieme all’età moderna,
appartiene ormai al passato, è entrato in una crisi di fronte alla quale qualsiasi
tentativo di farsi da parte, isolarsi, e restare Nazione a sé, risulta una resistenza vana
e anacronistica. E questo – viene da sé – si connette al tema ultra-contemporaneo
della Globalizzazione. E su questo, il primo Kojève, il secondo Kojève e Carl
Schmitt si trovano in sostanziale accordo. Ora però,
Gli Stati-nazione, ancora onnipotenti nell’Ottocento, cessano di essere realtà
politiche, Stati nel senso forte della parola, allo stesso modo in cui cessarono di
essere Stati le baronie, le città e i vescovati medioevali. Lo Stato moderno, la realtà
politica attuale, esige basi più larghe di quelle rappresentate dalle nazioni
propriamente dette. Per essere politicamente efficace lo Stato moderno [da
intendere dunque come “attuale”] deve poggiare su una «vasta unione “imperiale”
di nazioni imparentate». Lo Stato moderno è realmente uno Stato solo se è un
impero.137
Se gli Stati-nazione non sono più politicamente efficaci è proprio perché non sono
più in grado di condurre guerre. E questo deriva da ragioni puramente tecniche: il
progresso ha condotto ad uno sviluppo tecnologico anche in ambito bellico. La
guerra è appannaggio dell’aviazione e di nuovi ordigni (venti giorni prima l’America
sganciava due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki) in grado di distruggere
intere popolazioni. Il singolo Stato-nazione non poteva in alcun modo sostenere
economicamente i costi elevatissimi di un arsenale del genere, ma soprattutto risulta
troppo piccolo per sostenerne il potenziale distruttivo. L’esempio-chiave che
dimostra la crisi della forma-Stato nazionale è proprio il fallimento della Germania
nazista nella Seconda guerra mondiale:
136
A. Kojève, L’empire latin. Esquisse d’une doctrine de la politique française (27 août 1945), in “La
Règle du Jeu”, n. 1, 1990; trad. it. L’impero latino. Progetto di una dottrina della politica francese (27
agosto 1945), su Il silenzio della tirannide, a cura di A. Gnoli, Adelphi, Milano 2004, pp. 164-165. 137
Ivi, p. 165.
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53
Possiamo quindi dire la Germania ha perso questa guerra perché avrebbe voluto
vincerla come Stato-nazione. Anche una nazione di ottanta milioni di cittadini
politicamente «perfetti» è infatti incapace di sostenere lo sforzo di una guerra
moderna e quindi di assicurare l’esistenza politica del suo Stato.
L’esempio tedesco prova chiaramente che, ai nostri giorni, una nazione, quale essa
sia, che si ostini a mantenere la propria esclusività politica nazionale, deve presto o
tardi cessare di esistere politicamente: o nel corso di un processo pacifico, o in
seguito ad annientamento militare. Dissipando le illusioni della guerra del 1914-
1918, il conflitto attuale, condotto da imperi, ha rappresentato l’ultimo atto della
grande tragedia interpretata negli ultimi cinque secoli dagli Stati nazionali.138
Anche qui, come nel Carteggio, Kojève parla del ritardo di Hitler: “Ein Reich, ein
Volk, ein Führer” è solo la traduzione pessima de “La République une et indivisible”
robespierriano-napoleonica. Un motto anacronistico proprio in virtù del fatto che la
Rivoluzione francese aveva ormai realizzato completamente la forma-Stato
nazionale, e dato il via all’universalizzazione della sua conquista. Kojève, quindi,
quasi ridicolizza il “nazional-socialismo” hitleriano e gli contrappone le due
attitudini proprie dell’epoca post-napoleonica: l’“imperial-capitalismo” anglosassone
e l’“imperial-socialismo” sovietico, criticando le loro derive “omogeneizzanti”
(liberalismo e Stato sociale) in pieno accordo con Carl Schmitt:
Da un lato il liberalismo «borghese» proclamava più o meno apertamente la fine
dello Stato in quanto tale, e quindi la fine dell’esistenza politica delle nazioni […].
L’entità essenzialmente politica, e quindi in fin dei conti guerriera, rappresentata
dallo Stato propriamente detto doveva essere sostituita da una semplice
amministrazione economica e sociale, se non di polizia, messa a disposizione e a
servizio della «società», la quale era peraltro concepita come un’aggregazione di
individui, essendo l’individuo [corsivo mio] destinato a incarnare e rivelare, nel suo
stesso isolamento, il supremo valore umano. Così concepita, l’amministrazione
«statale» liberale doveva essere fondamentalmente pacifica e pacifista […].
Dall’altro lato il socialismo «internazionalista» ha creduto di constatare che la
realtà politica stava passando dalle nazioni all’umanità [corsivo mio] in quanto tale.
Se lo Stato doveva ancora avere un senso e una ragion d’essere politici, poteva
averli solo a condizione di darsi come base il «genere umano» […]. Da questa
interpretazione «internazionalista», o meglio «socialista», della situazione storica è
nato il comunismo russo del primo periodo […].139
138
A. Kojève, L’impero latino, p. 168. 139
Ivi, pp. 168-169.
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54
Il liberalismo sbaglia nel ridurre lo Stato alla sua mera funzione amministrativa,
nel non vedere alcuna possibilità autenticamente politica al di là della fine dello
Stato-nazione, e nell’in-formare la società tutta in base all’Individuo, elevato a valore
supremo. Si tratta di ciò che Kojève intende (anche nella Nota dell’Introduction)
quando parla della ri-animalizzazione dell’uomo e della rapida diffusione globale
dell’American way of life.
Dall’altro lato, però, anche una certa attitudine “comunista” (per esempio il
trockijsmo), riconducibile sotto certi aspetti alla socialdemocrazia criticata da
Schmitt, commette un errore di valutazione. Errore tale da farla risultare
completamente utopica: quello di porre, dopo il crollo dello Stato-nazione, lo scettro
del potere politico direttamente nelle mani dell’umanità intera, non comprendendo
come «prima di incarnarsi nell’umanità [lo Stato universale e omogeneo], il
Weltgeist hegeliano, che ha abbandonato le nazioni, risiede negli imperi»140
.
Ragioni politiche, tecniche, belliche ed economiche conducono, quindi, alla
necessità – per questo Kojève, ancora storica – dell’Impero, ovvero di una fusione,
un’asse, un’unità di intenti tra vari Stati accomunati dalle radici storiche,
linguistiche, religiose, culturali141
. È nell’aver compreso questo che risiede il “genio”
storico di Stalin o di Churchill: l’“imperial-socialismo” sovietico trae la sua potenza
e la sua efficacia nell’essersi contrapposto all’utopico socialismo internazionalista
“umanitario”, da un lato, e dall’ altro all’anacronistico “nazional-socialismo”
tedesco; il British Commonwealth era già di per sé un “impero” ma di matrice ancora
troppo “nazionale”. Se l’“imperial-capitalismo” anglosassone ha in mano un potere
politico sconfinato è solo grazie all’asse politico-economica stabilita tra Gran
Bretagna e Stati Uniti d’America142
.
140
Ivi, p. 170. 141
Come spiega Kojève ne L’impero latino a p. 182, «questa “parentela” tra nazioni […] è un fatto
concreto innegabile che nulla ha a che vedere con le idee “razziali” generalmente vaghe e incerte. La
“parentela” delle nazioni è soprattutto e prima di ogni cosa una parentela di lingua, di civiltà. di
“mentalità” generale oppure, come anche si dice, “di clima”. E questa parentela spirituale si traduce,
tra l’altro, nell’identità della religione». 142
Come nota correttamente Matteo Vegetti (cfr. Stato totale, imperialismo, impero, p. 641), bisogna
certamente notare una somiglianza tra il concetto kojèviano di “impero” e la dottrina schmittiana dei
Großräume: quando Schmitt parla di misurazione delle forze e di formazione di spazi di
pianificazione, sta osservando la tendenza storica di (ex-)Stati-nazione ad allargare egemonicamente
la propria influenza economico-politica su altri territori (ex-)statuali e, quindi, su “grandi spazi”. Ma
bisogna notare, al contempo, una differenza di fondo che rende impossibile un’assimilazione completa
tra i due interlocutori: per Schmitt, Churchill e Stalin non sono affatto dei geni! “Imperial-socialismo”
e “imperial-capitalismo” sono, per il giurista tedesco, due facce della stessa medaglia, poiché, al di là
delle differenze, rappresentano quell’attitudine liberal-democratica che Schmitt avversa in quanto
omologante, uni-versalizzante. Contro tale tendenza, Schmitt non prospetta un ritorno impossibile allo
Stato-nazione, ma afferma comunque con forza il carattere identitario-nazionale (o meglio,
“nazionalista”) delle formazioni imperiali: aveva bisogno di una giustificazione per il Reich. In tal
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55
Il “primo” Kojève, dunque, si differenzia dal “secondo” per il fatto di affermare
ancora la possibilità di un’Azione politica, ovvero di un’autentica Lotta per il
riconoscimento. E questo proprio in virtù del fatto che c’è ancora un’Opposizione di
Senso, un Nemico schmittianamente inteso. Il Kojève che esce dalla Seconda guerra
mondiale ha individuato, in una parola, un nuovo nomos.
Ora, i due grandi Imperi che si spartiranno il mondo si stanno già spartendo
l’Europa, facendo leva anche sull’aspetto storico-culturale. Le conferenze di Yalta e
di Potsdam hanno confermato questa tendenza, ma il risultato più interessante che
ebbero fu la frammentazione dello Stato tedesco. Kojève, però, osserva che la
Germania rientrerà presto sotto l’egida di uno solo tra i due grandi Imperi, e tutto
lascia prevedere che si orienterà verso quello anglosassone: la “parentela” (in fondo,
l’Amicizia schmittiana) tra tedeschi e anglosassoni è etnicamente, storicamente,
culturalmente e religiosamente (entrambi “nascono” dalla Riforma) evidente rispetto
a quella che dovrebbe crearsi coi russi, di religione ortodossa e di etnia slava (sempre
ripugnata dai germanici).
Ma ciò che sta a cuore a Kojève sono le sorti di quel Paese che lo aveva accolto,
per cui lavorerà come diplomatico e per la cui liberazione aveva combattuto tra le file
della Resistenza. Cosa succede alla Francia in questo nuovo ordinamento
geopolitico? Innanzitutto, osserva Kojève, si assiste in Francia ad una
“spoliticizzazione”, ad una svolta “liberale” del francese medio che si comporta da
“borghese”, elevando a valore supremo l’Individuo di fronte al peso rappresentato
dall’essere “cittadino”, ovvero dal fare i conti con una sempre più complessa
dimensione universale. Il perché di tale spoliticizzazione ha per Kojève due ragioni:
Da un lato, nel campo dell’ideologia politica, il paese continua a vivere sulla base
delle idee che furono definitivamente elaborate nel corso della Rivoluzione.
L’ideale politico «ufficiale» della Francia e dei francesi è ancora quello dello Stato-
nazione, della «Repubblica una e indivisibile».
Dall’altro lato, nel profondo della sua anima, il paese si rende conto
dell’insufficienza di questo ideale, dell’anacronismo politico dell’idea strettamente
«nazionale». Certo tale sentimento non ha ancora raggiunto il livello di un’idea
chiara e distinta […]. Del resto, proprio a causa dello splendore impareggiabile del
senso, ciò per cui Schmitt si differenzia dal “primo” Kojève, quello dell’Impero latino e della Nota del
’46, lo rende più vicino al “secondo” Kojève, quello del Carteggio e dell’Aggiunta del ’68. Questo
“secondo” Kojève, però, a differenza di Schmitt, si dimostra più maturo nel non sostenere ideologie,
nel non commettere forzature relativamente all’anacronismo del concetto “Nazione” e nell’osservare
in quella tendenza uni-versalizzante il destino ormai in atto dell’umanità.
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suo passato nazionale, è particolarmente difficile per la Francia riconoscere
chiaramente e accettare sinceramente il dato della fine del periodo «nazionale» della
storia […]. Eppure la nuova verità politica sta gradualmente penetrando nella
coscienza collettiva francese […].
Si potrebbe quasi affermare che per il «francese medio» la guerra attuale implicava
sin dall’inizio soltanto due possibilità politiche: la subordinazione politico-
economica della Francia o alla Germania o all’Inghilterra. […] si trattava del
conflitto tra queste due tendenze «collaborazioniste».143
Date queste premesse, «se il francese medio si rifiuta chiaramente di morire […]
affinché la Francia viva, è forse semplicemente perché si rende conto in modo più o
meno cosciente che “la Francia” della tradizione nazionale e nazionalista è oggi un
ideale destituito di valore»144
. La sua svolta liberale è dunque una svolta libertaria e
pacifista, che pensa alla propria pellaccia prima che ad una Nazione dal passato
glorioso ma che – nell’oggi in cui scrive Kojève – ha perso, come tale, qualsiasi
efficacia politica (ovvero economica, bellica, decisionale). Se questa è la situazione,
il destino della Francia e della vecchia Europa è, secondo Kojève, già scritto (e c’è da
ammettere che gli accordi NATO, che di lì a pochi d’anni assorbiranno anche la
Francia nell’orbita politica statunitense, daranno ragione al pensatore russo-
francese): «l’avvenire della Francia isolata è quindi uno “status di dominion”
[dell’Impero anglosassone] più o meno mascherato. E tale sarà anche la sorte delle
altre nazioni dell’Europa occidentale, se si ostineranno a mantenersi nel loro
isolamento politico “nazionale”»145
.
La soluzione è quindi abbandonare una visione “nazionale” dello Stato e aprirsi
alla prospettiva imperiale. E questo per un fine, prima ancora che economico,
essenzialmente politico:
Ebbene, la categoria politica fondamentale è quella dell’indipendenza o
dell’autonomia. In generale si dice che la volontà politica è una volontà di potenza
o di «grandezza». Senza dubbio è così. Ma sarebbe più corretto e più preciso dire
che ogni volontà veramente politica è prima di tutto una volontà autonoma e una
volontà di autonomia. La «potenza» infatti è solo un mezzo per realizzare
143
A. Kojève, L’impero latino, pp. 178-179. 144
Ivi, p. 180. 145
Ivi, p. 174.
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57
l’autonomia, e la «grandezza» è una semplice conseguenza di questa
realizzazione.146
Il bivio che, alla fine della Seconda guerra mondiale, si spalanca di fronte alla
Francia è quello tra la riduzione a mero “dominion” anglosassone e la riaffermazione
di una “sovranità”, di un’autonomia statale ma non più nazionale. Per perseguire
questo fine è dunque necessario che la Francia vada a costituire una nuova
formazione imperiale, contrapposta a quella americana da un lato e a quella sovietica
dall’altro. È così che nasce l’idea dell’Impero latino, costituito dalle nazioni
“imparentate” di Francia, Italia e Spagna, accomunate da una matrice linguistica
comune, dalle radici inequivocabilmente cattoliche (anche nel momento in cui ci si
professa laici e anti-clericali) e dalla stessa mentalità creativa, artisticamente e
intellettualmente, contemplativa, “inattiva” (si veda il Rinascimento cinquecentesco:
mentre il nascente Protestantesimo si occupava di “dar lustro” all’uomo-lavoratore
anglo-germanico, la Chiesa cattolica sceglieva Michelangelo Buonarroti per
affrescare la Cappella Sistina). Tra i tre Stati, il ruolo di primus inter pares sarà
necessariamente svolto dalla Francia, superiore – demograficamente – alla Spagna e
– in relazione allo sviluppo industriale e alla possibilità di accesso a miniere di ferro,
bauxite e carbone – all’Italia.
Naturalmente poi, in tale Impero latino devono essere considerate anche le colonie
africane di Spagna e Francia, in attesa di una necessaria restituzione della Libia
all’Italia. In tal modo, il Maghreb entrerebbe a far parte di quello stesso Impero
latino attraverso la risoluzione del «problema musulmano (e forse anche [de] il
problema “coloniale” in generale). Dal tempo delle crociate, infatti, l’islam arabo e il
cattolicesimo latino sono uniti in un’opposizione da molti punti di vista sintetica
(influenza del pensiero arabo sulla Scolastica, penetrazione dell’arte islamica nei
paesi latini, ecc.). E nulla impedisce che nel seno di un vero impero questa sintesi di
opposti possa essere liberata dalle sue contraddizioni interne, irriducibili solo finché
concernono interessi puramente nazionali»147
; e ottenendo come effetto di una tale
146
Ivi, p. 191. 147
Ivi, p. 188. Si noti come oggi il fondamentalismo islamico ruoti attorno ai movimenti nazionalisti
nordafricani e mediorientali. Si pensi all’Isis. Ridurre questo fenomeno a semplice fanatismo religioso
è un errore di valutazione. Come nota in un brillante articolo Salam Saadi, siamo di fronte ad un vero
e proprio fascismo: le rivendicazioni dello “Stato” islamico sono jihadiste solo “di facciata”. Dietro, vi
è una matrice pesantemente nazionalista. Un dialogo proficuamente politico tra mondo cattolico e
mondo islamico non è quindi impossibilitato dal presunto carattere fanatico della religione di
Maometto: ci sarebbero (e ci sono) senza dubbio differenze e difficoltà di integrazione, ma un dialogo
interculturale e interreligioso con autorità civili, intellettuali e, appunto, religiose è iniziato da tempo e
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58
intesa il rendere «singolarmente precaria la presenza di altre forze imperiali nel
bacino mediterraneo»148
. È il Mediterraneo, il mare nostrum, il punto di forza di
questa eventuale unità politico-economica: «non si tratta di vietare a chiunque
l’accesso al Mediterraneo, bensì solo della possibilità materiale di farlo. Oppure, in
altri termini, si tratta di detenere il diritto e i mezzi di chiedere una contropartita a
coloro che vorranno circolare liberamente in questo mare o di escluderne altri»149
. Il
Mediterraneo, come concetto, ben sintetizza il fine politico di questo Impero. Si tratta
di un mare chiuso, non “aperto” alla possibilità costante di un’aggressione come lo
sono gli oceani, palcoscenico dell’incontro-scontro tra gli Imperi sovietico e
anglosassone. Il suo essere “chiuso”, però, non significa scadere in un isolamento
politico (anacronistico e controproducente), ma significa salvaguardare – ancora per
un po’ di tempo – le sue peculiarità politico-culturali e i suoi interessi economici150
,
per non essere annichilito dall’“imperialismo” (presumibilmente) anglosassone. La
con ottimi risultati. Ciò che lo impedisce e lo rende apparentemente impossibile, come osservava
Kojève fin dal 1945, è il carattere eminentemente nazionale (e dunque nazionalista) degli Stati
islamici. 148
Ibidem. 149
Ivi, p. 195. 150
A proposito degli interessi di quella che è un’unità non solo politica ma anche, e soprattutto,
economica, ciò che Kojève dipinge all’interno della sua argomentazione è la possibilità, relativamente
all’Impero latino, di un’economia “alternativa”. Come si legge in L’impero latino a p. 187, «tutto
porta a credere che i latini dovranno e potranno trovare una formula imperiale inedita […]. E ancor
meno è necessario ricalcare l’organizzazione sociale ed economica dei due imperi rivali. Nulla prova
infatti che il “liberalismo” – fondato su grandi trust autonomi e sulla disoccupazione diffusa – caro al
blocco anglosassone e lo “statalismo” livellatore e in qualche misura “barbarico” dell’Unione
Sovietica esauriscano ogni possibilità di organizzazione economica e sociale razionale». In termini più
pratici, l’unione politico-economica di Francia, Spagna, Italia e relative colonie, col controllo del
Mediterraneo, garantirebbe uno sviluppo economico e un innalzamento del livello di vita in tutti i
Paesi che la compongono e – come si legge a p. 190 – «con il miglioramento delle condizioni
materiali dell’esistenza in queste aree, si assisterebbe senza dubbio a una vertiginosa impennata della
curva demografica nei decenni a venire. E questa estensione continua (e in teoria illimitata) del
mercato interno, favorita da un’offerta sempre maggiore di impiego, permetterebbe all’economia
imperiale di svilupparsi senza incorrere né nelle crisi cicliche inevitabili dell’economia anglosassone a
mercato interno praticamente saturo né nella stabilità rigida e opprimente dell’egemonia sovietica».
È proprio questo l’aspetto su cui si focalizza Giorgio Agamben nel momento in cui, qualche anno fa,
rispolvera (e rende noto a buona parte della cultura europea, scatenando un enorme dibattito)
L’Empire latin di Alexandre Kojève. Al di là delle predizioni azzeccate o meno, al di là delle
biasimevoli considerazioni in merito al colonialismo, al di là dell’effettivo (ovvero che si rivelerà tale)
carattere utopico dell’Impero latino e al di là delle erronee generalizzazioni culturali, la lezione
kojèviana, per Agamben, sta nell’aver mostrato come l’economia europea sia succube di un modello
economico (quello anglo-germanico-capitalista) che non ci appartiene, o per lo meno potrebbe non
appartenerci, motivo per il quale risulta tanto difficile uscire dall’attuale stato di crisi. Un’autentica
Unione Europea ha il compito di rappresentare con determinazione una Alternativa a questo modello,
fondata su ciò che le è più proprio, ovvero la sua creatività, la sua preziosa eterogeneità culturale e di
mentalità, la sua Bellezza. In un intervista del maggio 2013 (http://www.lavoroculturale.org/la-crisi-
perpetua-come-strumento-di-potere-conversazione-con-giorgio-agamben/), Agamben stesso conclude
affermando: «per oltre duecento anni le energie umane europee si sono focalizzate sull’economia.
Molti elementi indicano che per l’homo sapiens è giunto il momento di riorganizzare l’azione umana
al di là di questa dimensione esclusivamente economica. È qui che l’Europa può offrire il suo
contributo al futuro».
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funzione dell’Impero latino non è quella di contrastare aggressivamente USA e
URSS (non arriverebbe mai a disporre dei mezzi necessari), ma è quella di evitare a
tutta l’area mediterranea franco-ispanico-italiano-maghrebina lo schiacciamento
paralizzante tra i due grandi Imperi che, al tempo, stavano per iniziare la loro Guerra
fredda. È una questione di sopravvivenza (della) politica.
2.3 Il filosofo e il potere
2.3.1 Il negoziatore
Per il “primo” Kojève, dunque, la Politica propriamente detta, prima di gettare le
ancore nelle acque placide del porto di una metropoli amministrativa, ha da compiere
un’ultima navigazione, quella di matrice “imperiale”, quella – per dirla con Schmitt –
di una pianificazione su “grandi spazi”. Se quindi la Storia non è ancora finita, anche
la Politica continua ad esistere. È questo il pensiero di un Kojève appena uscito dalla
Seconda guerra mondiale, ma è anche il pensiero di un Kojève che la sta vivendo.
Siamo a Marsiglia, nel maggio del 1942, e dunque nel pieno di quel tragico
conflitto che sconvolse il mondo intero. Lo scenario delle alleanze belliche è diverso
rispetto a quello dell’immediato dopoguerra descritto ne L’empire latin, ma, già
allora (o meglio, allora più che mai!), si assisteva a quella che Schmitt definiva una
“misurazione delle forze”. La prima vittima “illustre” di tale misurazione fu proprio
la Francia, caduta nel ’40 sotto l’attacco-lampo dell’esercito di Hitler e divisa in due:
Parigi e il Nord andarono al Reich, il Sud, con la nuova capitale a Vichy, restò ai
francesi ma venne dichiarato lo stato d’emergenza e affidati i pieni poteri al
Maresciallo Pétain, comunque collaborazionista nei confronti del regime nazista.
In questo contesto, la sopravvivenza futura della Francia dipende da una
pianificazione politica (storicamente) efficace. E questa pianificazione può essere
operata solo da colui (o coloro) che riesca a godere di piena autorità politica. Questo
è il motivo per cui l’ancora-filosofo Kojève sente l’esigenza di scrivere un breve
trattato che analizzi a 360° il concetto di “Autorità”, da un punto di vista
fenomenologico, metafisico e ontologico, per poi trarre, dal discorso teorico,
deduzioni di ordine psicologico, morale e, soprattutto, politico, giungendo così ad
una vera e propria “proposta”151
. Il carattere politico-propositivo di un tale saggio,
però, non si spiega se si pensa che il testo, scritto nel 1942, è stato pubblicato per la
prima volta solo nel 2004, restando celato tra le scartoffie kojèviane per un
151
Parleremo in seguito di questa proposta a dir poco “sconvolgente”. E soprattutto cercheremo di
capire perché Kojève si spinge a tanto.
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60
cinquantennio. Ma attraverso un lavoro di documentazione biografica è stato
scoperto che Kojève non scrisse il trattato in questione per sé, ma spedì il
manoscritto a Moysset, collaboratore di Pétain ritenuto da tutti, al tempo, un politico
“illuminato” (e antitedesco!). Ma perché un Kojève che partecipò anche alla
Resistenza francese contro Pétain e per la liberazione dal nazifascismo, avrebbe
dovuto stabilire uno scambio intellettuale con alti esponenti di un regime che lui
ideologicamente avversava? La risposta che mi sembra più corretta è quella che dà
Marco Filoni nella Postfazione dell’edizione italiana del testo in questione: Kojève
negoziatore! Come abbiamo già visto nel caso del breve saggio inedito sull’impero
latino152
, Kojève «teneva davvero al ruolo che, secondo lui, poteva e doveva avere la
Francia nella costruzione di un futuro europeo […]. E pur di raggiungere questo
scopo […] era pronto a negoziare anche con un funzionario del regime di Vichy. Si
tratta, in fondo, del compito stesso del negoziatore: ottenere il massimo e il meglio
dalla controparte»153
. Del resto, quando nell’ultimo paragrafo de L’empire latin
Kojève parla dei mezzi di realizzazione di un tale progetto politico, accanto al
Generale de Gaulle, al Partito comunista francese, ad una élite di intellettuali e al
sostegno della Chiesa cattolica, egli annovera anche i “migliori” esponenti del
governo di Pétain:
L’aver fatto parte del movimento della Resistenza è senza alcun dubbio un indizio
favorevole del quale bisognerebbe sempre tener conto. Ma non è una condizione
sufficiente per la partecipazione alla nuova élite politica costruttiva. E non si tratta
neppure di una condizione necessaria. Nessuno può affermare, infatti, che un ex
«vichyssois» debba essere scartato a priori. Certamente andranno eliminati tutti
coloro che optarono per Vichy perché reazionari ottusi e incorreggibili, o perché
opportunisti per così dire convinti. Ma sarebbe ingiusto e pericoloso voler fare a
meno di tutti coloro che hanno avuto fede nella «rivoluzione nazionale» e hanno
agito di conseguenza. Dovrebbe infatti essere permesso alle rare persone che
credono e che agiscono di sbagliare ogni tanto, anche se il loro errore è grave; lo
Stato può sempre servirsi utilmente di un uomo capace di arrivare fine in fondo nel
compimento di un dovere, anche se male inteso, non foss’altro che per l’attuale
natura della crisi francese […].154
152
Tra l’altro anch’esso sarà sottoposto nel dopoguerra all’attenzione del già citato Robert Marjolin
che lo respingerà criticando quegli aspetti che a lui sembravano troppo vicini alla propaganda del
governo di Vichy. 153
Marco Filoni, Il libero gioco del negoziatore, in A. Kojève, La nozione di autorità, Adelphi,
Milano 2011, p. 142. 154
A. Kojève, L’impero latino, pp. 203-204.
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61
Kojève ci sta offrendo un grande esempio di realismo politico. Se la Politica ha
ancora un margine di azione, ovvero se non ha ancora esaurito il suo compito
prettamente “storico”, diventa necessario decidersi all’Azione e non restare immobili
specchiandosi nella propria – ideologica – “anima bella”. E a tal fine l’intellettuale
ha il compito di mediazione, negoziazione appunto, tra le parti in conflitto, ovvero il
compito di spronare ad un’Azione politica che tende troppo facilmente ad esaurirsi in
una sterile contrapposizione ideologica. Se tra le file dei “vichyssois” ci sono uomini
che tengono davvero alle sorti della Francia e hanno tutte le capacità politiche ed
intellettuali per collaborare efficacemente alla risoluzione della crisi in cui essa
imperversa, e se hanno capito il loro precedente – e grave! – errore di “valutazione”,
allora ben venga una loro partecipazione alle decisioni essenziali per il futuro della
Francia. Allo stesso modo quindi, nel 1942, cioè in piena guerra, un Kojève che
combatteva nella Resistenza sentiva l’esigenza di doversi rivolgere direttamente agli
esponenti di un governo collaborazionista col nazismo come quello di Pétain, proprio
perché era da loro, che allora detenevano il potere, che dipendevano –
realisticamente – le sorti politiche della Francia. Si potrebbe dire quindi che Kojève,
«se fosse stato necessario recarsi alla corte del tiranno [corsivo mio] in vista di uno
scopo, sarebbe stato pronto a farlo»155
. Non c’è quindi da stupirsi se il russo-francese
invierà questo trattatello a Moysset, e non c’è nulla di sconvolgente nelle sue
Appendici dedicate al Maresciallo e alla “Rivoluzione nazionale”. Ma soprattutto,
per le ragioni finora evidenziate, non deve stupire il fatto che l’argomento di questo
testo – che sarà pubblicato solo nel 2004 col titolo di La notion de l’autorité – sia
l’Autorità: non si tratta di una, magari segreta, svolta filo-totalitaria di Kojève, ma
solo di puro, “hegeliano”, realismo politico. E lo stesso Filoni ci suggerisce di
leggere in tal senso quel passaggio di una lettera a Leo Strauss in cui Kojève afferma:
L’agire storico porta necessariamente a un determinato risultato (quindi:
deduzione), ma le vie che portano a questo risultato sono diverse (tutte le strade
portano a Roma!). La scelta fra queste vie è libera, e questa scelta determina il
contenuto dei discorsi sull’agire e il senso del risultato. In altre parole: materialiter
la storia è unica, ma la storia parlata può essere molto varia, in funzione della libera
scelta di come agire [la Politica è sempre un “decidersi alla finitezza”].156
155
M. Filoni, Il libero gioco del negoziatore, p. 142. 156
Lettera di Kojève a Strauss del 19.9.1950, p. 278.
Page 63
62
2.3.2 Il tiranno
Avvicinandoci alla trattazione de La notion de l’autorité è bene passare
brevemente per un altro importante testo di Kojève comparso in Italia col titolo di
Tirannide e saggezza. Nato come una lunga recensione a La tirannide:
un’interpretazione del Gerone di Senofonte di Leo Strauss, il quale – si legge
nell’epistolario – a lungo ha insistito per una risposta, per così dire “sistematica”, al
suo testo da parte di un Kojève col quale condivideva poche idee ma una grandissima
(e reciproca) stima, il testo in questione e il botta-risposta in cui esso è inserito
meriterebbero una discussione a sé. Questo non è il luogo per intraprendere uno
studio del genere. Mi limiterò a illustrare quei punti che diventeranno essenziali alla
comprensione del saggio kojèviano sull’autorità e, soprattutto, della questione
appena discussa circa l’esigenza avvertita dal pensatore russo-francese di entrare in
contatto con la politica, prima attraverso consigli intellettuali (inviando i suoi trattati
alle istituzioni) poi “passando all’azione” (lavorando per la DREE).
La tirannide era un tema caro ad entrambi gli autori. Il merito di Leo Strauss fu
quello di scoprirne una trattazione profonda nel dialogo di un autore greco spesso
snobbato, Senofonte. Il dialogo si svolge alla corte di Siracusa tra il tiranno Gerone e
il filosofo Simonide che dà al primo consigli (non richiesti) sul modo in cui dovrebbe
esercitare la tirannide. Il fatto, però, che alla fine del dialogo Simonide se ne vada
senza aver ricevuto alcuna risposta da parte di Gerone è emblematico del fatto che il
tiranno siracusano non seguirà i consigli del filosofo157
. Qui Kojève dà ragione a
Strauss: è evidente che la tirannide “ideale” o “illuminata” dipinta dai consigli di
Simonide fosse, al suo tempo, una pura e semplice utopia irrealizzabile. Da questo,
Senofonte e Strauss concludono che sia meglio rinunciare radicalmente alla
tirannide. Ma Kojève su questo punto non è d’accordo: uno studio della tirannide non
deve partire da una concezione “liberal-democratica” di questa ma da una sua
definizione “moralmente neutra”. E ciò comporta innanzitutto «sapere se, in alcuni
casi concreti, rinunciare alla “tirannide” non significhi rinunciare al governo in
generale e non comporti sia la rovina di uno Stato sia l’abbandono della possibilità
reale di ogni progresso in uno Stato determinato o per l’umanità intera (almeno in un
157
Nel “silenzio della tirannide” c’è la volontà di ribadire il suo carattere autonomo rispetto a
costruzioni intellettuali, “poetiche”, utopistiche, riconducibili ad un universo prettamente discorsivo.
Ma – come vedremo a breve – in quel silenzio c’è anche il non essere obbligati a parlare, dare
spiegazioni, rispondere, controbattere, ecc. Il silenzio della tirannide (diverso dal silenziarsi del
Saggio alla fine della Storia, di cui ho avuto modo di parlare nel precedente capitolo) è il suo modo di
crearsi uno spazio per l’esercizio storico-politico della propria Autorità.
Page 64
63
particolare momento storico)»158
. Questo vuol dire che escludere aprioristicamente la
possibilità stessa della tirannide significa, in termini anche schmittiani, escludere
qualsiasi possibilità di progresso storico. Se “sovrano è chi decide sullo stato di
eccezione”159
, escludendo quest’ultimo attraverso un “ordinamento giuridico-
razionale”, si esclude, di conseguenza, anche la sovranità, la decisionalità, e il
Politico viene “neutralizzato”. La possibilità del Politico, e dunque di un effettivo
progresso Storico, è quindi nella de-cisione essenziale, “rivoluzionaria” e risolutiva.
La realtà storica “si fa” attraverso le decisioni, e ogni decisione essenziale è sempre
espressione di un’imposizione “tirannica”.
Questo però – e qui arriviamo al punto che più ci interessa – non significa
immediatamente “dispotismo”: despota è colui che per esercitare la sua volontà su
altri individui ha bisogno di ricorrere alla forza e al terrore. L’insoddisfazione che il
tiranno Gerone confessa a Simonide deriva, infatti, dalla necessità dell’uso della
forza per esercitare il proprio potere. Si tratta del tema della “tragedia” hegeliana del
Signore, oggetto anche di un passaggio del Carteggio con Schmitt: nella Lotta a
morte per il riconoscimento, chi ne esce vincitore viene riconosciuto come tale da
colui che ormai è un semplice Servo, cioè è Signore in virtù della sua forza superiore
e non ancora in virtù della sua dignità Umana. Il suo Desiderio è in tal senso
inesauribile ma altrettanto tragico: non c’è via d’uscita all’insoddisfazione del
tiranno.
Ma il dispotismo, da solo, non basta. La forza è necessaria ma, nota Kojève, ogni
tiranno ha sempre fatto ricorso anche a qualcosa di più per poter governare. Si tratta
dell’Autorità. E, proprio in Tirannide e saggezza, abbiamo una illuminante
anticipazione di ciò che tratteremo più diffusamente a breve. Kojève, infatti, afferma:
Sicché farsi «riconoscere» da qualcuno senza suscitare in lui né paura (in ultima
analisi: paura della morte violenta) né amore significa esercitare ai suoi occhi
l’autorità. Acquistare autorità agli occhi di qualcuno significa fargli riconoscere
questa autorità. Ebbene, l’autorità di un uomo (ossia il suo valore eminentemente
umano, ma non necessariamente la sua superiorità) è riconosciuta da un altro
quando i suoi consigli o i suoi ordini sono accolti o eseguiti da costui non perché
non possa fare altrimenti (fisicamente, o per paura, oppure a causa di una qualunque
158
A. Kojève, L’action politique des philosophes, in “Critique”, VI, 1950; ed. it. Tirannide e
saggezza, in L. Strauss-A. Kojève, Sulla tirannide, a cura di G. Frigo, trad. it a cura di D. De Pretto-A.
Gnoli, Adelphi, Milano 2010, pp. 154-155. 159
Cfr. C. Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Le categorie
del «politico».
Page 65
64
altra «passione»), ma perché egli li considera spontaneamente come degni di
esserlo, e non già perché egli stesso riconosca il loro valore intrinseco, ma solo
perché a darli (come un oracolo) è quella determinata persona, ossia precisamente
perché egli ne riconosce l’«autorità».160
In altri termini, la tragedia del Signore finisce nel momento in cui la Lotta per il
riconoscimento viene sostituita dall’“Autorità”161
. Gerone quindi, probabilmente –
nota Strauss – per dissuadere i concorrenti potenziali, mente nel dire che la tirannide
non porta con sé alcuna soddisfazione. L’autorità che un tiranno (in quanto quel
tiranno) riesce ad esercitare al di là del terrore è sempre motivo di soddisfazione. Il
motore della Storia sta nel fatto che la soddisfazione permane comunque come
“parziale” in quanto ci saranno sempre uomini che non si sottometteranno a
quell’autorità e per cui diventerebbe necessario l’utilizzo della forza. In tal senso, il
tiranno sarà «pienamente “soddisfatto” solo quando sarà alla testa di uno Stato non
soltanto universale, ma anche politicamente e socialmente omogeneo […], cioè di
uno Stato che è il fine e il risultato dell’opera comune di tutti e di ciascuno [= la
piena soddisfazione deriva dall’esaurimento della Lotta per il riconoscimento]»162
.
L’insoddisfazione (“parziale”) muove la Storia e muove il tiranno. Se Simonide
dà a Gerone consigli è solo perché attraverso essi tale insoddisfazione potrebbe
essere colmata (e “tramutata” tutta in autorità). Ma la proposta di Simonide era
utopica, “poetica” (come la definisce il russo-francese). Non esiste, secondo Kojève,
una tirannide “ideale” nel senso di “irrealizzabile”. E ciò è dimostrato dal fatto che i
consigli di Simonide, al suo tempo utopici, risultano ad oggi banali poiché già
politicamente realizzati da tempo. La Politica, il progresso storico e sociale (e, come
vedremo, l’autorità stessa), sono inestricabilmente connessi alla temporalità. Quegli
“intellettuali”– come li definisce Kojève – (diversi dai filosofi) che, come Simonide,
criticano il mondo in cui vivono e chi lo governa «a partire da un “ideale” costruito
nell’universo del discorso»163
, sono stati criticati anche da Hegel stesso che ne parla
in questi termini particolarmente chiarificatori per i nostri fini:
160
A. Kojève, Tirannide e saggezza, p. 160. 161
Cfr. lettera di Kojève a Schmitt del 21.5.1956, p. 202. 162
A. Kojève, Tirannide e saggezza, p. 163. Il riconoscimento può giungere ad una risoluzione solo
all’interno di un mondo di “uomini-servi”. Del resto, è – come si suol dire – solo il Lavoro che dà
dignità all’uomo e, attraverso esso, il Servo, al contrario dell’eroico Signore, può non rinunciare al
godimento, alla soddisfazione. Di conseguenza, è evidente che la realizzazione dello Stato universale
e omogeneo alla fine della Storia, ovvero, appunto, «di uno Stato che è il fine e il risultato dell’opera
comune di tutti e di ciascuno», non è rimessa ai Signori rinchiusi nella loro tragedia, ma ai Servi e al
loro Lavoro. 163
Ivi, p. 154.
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65
L’insofferenza pretende l’impossibile, vale a dire il raggiungimento della meta
senza i mezzi. Da un lato bisogna sopportare la lunghezza di questo itinerario, ché
ciascun momento è necessario; – dall’altro lato occorre soffermarsi presso ciascun
momento, giacché ciascuno di per sé è un’intera figura individuale; […].164
Questo, tradotto in termini kojèviani, significa che il tiranno (e il filosofo) non può
“saltare passaggi”, essere rivoluzionario a tal punto da realizzare un ideale
lontanissimo e utopico, perché, prima che questo possa essere in qualche modo
raggiunto e realizzato, occorre sbrigare gli “affari correnti”165
: «l’uomo ha bisogno
di tempo per pensare e per agire, e […] il tempo di cui dispone è in realtà molto
limitato»166
. Questo è il motivo per cui Gerone è quasi sbrigativo nei confronti dei
consigli di Simonide: “non ha tempo da perdere”. Ma è tempo anche quello che si
dedica al pensiero. Anzi, la Verità a cui i filosofi anelano non è una Verità
immutabile ma – con Hegel – qualcosa di essenzialmente temporale, che si realizza
nella e attraverso la Storia. Motivo per il quale la ricerca della Saggezza non può
avvenire nell’egoistico isolamento contemplativo tipico di quelli che Kojève chiama
“giardini epicurei” ma piuttosto a stretto contatto con l’Azione e dunque col proprio
tempo, frequentando, «come Socrate, non gli “alberi” e le “cicale”, ma i “cittadini
della Città” (cfr. il Fedro)»167
.
Simonide è caduto proprio in quest’errore, quello cioè di tentare di dare consigli
“pratici” a partire da un’osservazione della realtà troppo “contemplativa”. Egli non è
un “epicureo” che non vuole sporcarsi le mani in questioni politiche. Egli è un
“intellettuale” e, in quanto tale, sente la vocazione ad aiutare il tiranno nel governare
i suoi sudditi. Il suo errore, però, non si esaurisce semplicemente nel carattere
utopico della sua proposta ma è soprattutto connesso al fatto di non aver saputo
indicare al suo interlocutore il “primo passo” da compiere nello stato “attuale” delle
cose. E questo proprio perché è caduto nell’errore “epicureo”, ovvero nel teismo: ha
saputo e voluto indicare al tiranno Dio (a prescindere dalla sua relativa lontananza)
ma, astraendosi dal suo mondo (dalla sua epoca, dalla sua società, ecc.), non ha
saputo indicargli come (iniziare a) raggiungerlo. In questo egli non è stato
autenticamente filo-sofo. Solo il vero filosofo è in grado di servire in tal senso al
tiranno in quanto può porsi “oltre” le capacità critiche, cognitive ed ermeneutiche di
164
G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, p. 23. 165
Cfr. A. Kojeve, Tirannide e saggezza, pp. 155-156. 166
Ivi, p. 167. 167
Ivi, p. 169.
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66
qualsiasi non-filosofo, di qualsiasi “profano” (tra cui il tiranno stesso). Proprio a tal
fine, Kojève descrive le tre caratteristiche peculiari del filosofo:
In primo luogo, il filosofo è più esperto nell’arte della dialettica o della discussione
in generale: vede meglio del suo interlocutore «profano» le insufficienze della sua
argomentazione e meglio di lui sa far valere i suoi argomenti e confutare le
obiezioni degli altri. In secondo luogo, l’arte della dialettica consente al filosofo di
liberarsi dei pregiudizi con più facilità del «profano»: è dunque più aperto del
«profano» alla realtà quale essa è, ed è meno dipendente dal modo in cui gli uomini,
in un dato momento storico, si immaginano che essa sia. In terzo luogo, infine,
essendo più aperto al reale [rispetto anche all’intellettuale “epicureo”], si accosta al
concreto meglio del «profano», il quale si rifugia nelle astrazioni, senza rendersi
conto, peraltro, del loro carattere astratto, anzi irreale.168
Questo vuol dire che il vero filosofo ha tutte le carte in regola per governare,
direttamente o attraverso consigli “non-utopici” dati al tiranno. E questo
fondamentalmente perché egli è più avanti rispetto al tiranno e a qualsiasi “profano”
sulla strada che conduce alla Saggezza (da intendere qui proprio come quel
“riconoscimento universale” a cui il tiranno anela). Questo essere “più avanti” vuol
dire “aver compreso il proprio tempo col pensiero”, vuol dire cioè avere un quadro
completo del momento storico in cui si vive e una rappresentazione concreta e
“realistica” della situazione socio-politica. Da ciò deriva che il vero filosofo è l’unico
in grado di smascherare quelle “astrazioni” ideologiche, ovvero quei “pregiudizi”,
che caratterizzano ogni epoca.
Ora, se si tratta semplicemente di conservare uno stato di fatto, l’intervento di un
filosofo al potere è del tutto inutile; ma se ci si trova in un momento di crisi profonda
per cui diventano necessarie riforme strutturali o azioni rivoluzionarie, la capacità
filosofica di combattere discorsivamente le ideologie paralizzanti rivelandole per
quello che sono, ovvero meri e “irreali” pregiudizi, diventa, secondo Kojève,
altrettanto necessaria. Se Gerone diffida di Simonide è, quindi, solo perché vede in
lui un potenziale rivale: il filosofo non solo può ma dovrebbe (in certi casi)
governare o fornire al tiranno consigli “concreti”. Il punto è capire se voglia farlo,
dato che il suo tempo è limitato e, dedicandosi alla politica, rischia di non avere più
tempo per dedicarsi alla ricerca della Saggezza. Questa è la tragedia del filosofo: una
scelta libera che diventa un circolo vizioso. Occorre tempo per riflettere, dialogare,
168
Ivi, p. 165.
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67
speculare, ed è solo grazie ad un impiego del tempo in tal senso che il filosofo è
potenzialmente “un passo avanti” rispetto al tiranno. Se però egli rinuncia a sporcarsi
le mani, rinuncia a collaborare con il tiranno (non nel senso del “collaborazionismo”
ma nel senso di direzione dell’azione politica), cade nell’egoismo e nella paralisi
filosofica tipica dell’“epicureo”, servitore di una Verità falsa, “fuori dal mondo”.
Dall’altro lato (quello dell’impegno politico) però, rischia ugualmente di non
progredire più nel sapere e di risultare inefficace (e privo di autorità) nel momento in
cui lo “spazio” tra sé e il “profano” sarà politicamente colmato169
.
Lascio aperte tutte le argomentazioni kojèviane in merito. I pochi punti che mi
interessa mettere in evidenza in questo testo sono, innanzitutto il fatto che la
tirannide sia da intendere non solo come coercizione dispotica ma anche come
esercizio di un’Autorità in grado di fare autenticamente la Storia; e poi la questione
relativa all’efficacia politica, e dunque all’Autorità, del filosofo, punto quest’ultimo
da tenere sempre presente durante la trattazione de La notion de l’autoritè.
2.4 La nozione di autorità
2.4.1 La definizione
Dopo aver cercato di capire perché durante (e dopo) la Seconda guerra mondiale
Kojève si occupi del concetto di Autorità, vediamo come effettivamente ne parla
all’interno di quel saggio tanto breve quanto denso che è La notion de l’autorité.
Non essendo destinato alla pubblicazione, non si tratta di un saggio dalle elevate
pretese filosofiche: Kojève afferma chiaramente fin dall’inizio di non voler
«formulare una teoria definitiva e completa dell’Autorità»170
, ma solo di
“abbozzarla”, con l’intento di indicare la direzione per la risoluzione di un problema
troppo poco dibattuto. Il fatto che pochi, nel corso della storia della filosofia, si siano
occupati della questione relativa all’“essenza” dell’Autorità, non ha permesso,
secondo il russo-francese, una trattazione corretta e completa «del potere politico e
della struttura stessa dello Stato»171
. I tentativi che si sono susseguiti nei secoli,
169
Anche Kojève si trova davanti ad una scelta del genere ed opta per l’impegno politico, tanto da
affermare di non poter dedicare tempo alla filosofia: solo la domenica! Se collochiamo però
quest’affermazione nell’immediato dopoguerra, essa assume un tono quasi di rimpianto (il rimpianto
che sempre produce, checché se ne dica, una scelta importante). Ma nel corso degli anni Cinquanta,
Kojève cambia opinione sul mondo e un’affermazione del genere trova immediatamente una
giustificazione di fronte alla fine della Storia e, quindi, della Filosofia. Il suo “impegno”, di
conseguenza, non sarà più né filosofico né propriamente politico. Ma torneremo su questo punto nelle
conclusioni. 170
A. Kojève, La nozione di autorità, p. 17. 171
Ivi, p. 13.
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68
raccolti nelle quattro grandi teorie che illustreremo a breve, risultano infatti, di per se
stessi, incompleti: l’uno non riesce, da solo, nella sua esclusività, a dar conto di tutti i
fenomeni autoritari, riscontrando anzi in tutti gli altri «soltanto una manifestazione
della pura e semplice forza»172
. L’obiettivo che si propone Kojève è così quello di
dimostrare che, tenute insieme e non in opposizione tra loro, le quattro teorie
riescono a spiegare ogni manifestazione dell’Autorità. Ma per dimostrare ciò occorre
innanzitutto «redigere un elenco completo di tutti i fenomeni che possono essere
classificati sotto la voce “Autorità” e vedere se questi fenomeni corrispondono (tutti
o in parte) a una (o più di una) delle teorie proposte»173
, occorre cioè un’analisi
fenomenologica (oggetto del primo capitolo del testo). Essa,
[…] deve rispondere alla domanda «che cos’è» applicata a tutti i fenomeni che
definiamo, per così dire «istintivamente», autoritari […] (prescindendo dalle
varianti «accidentali», varianti dovute alle semplici diversità delle condizioni locali
e temporali della realizzazione dell’Autorità in quanto tale).174
Si tratta cioè di individuare i fenomeni “puri”, cioè irriducibili, e controllare se le
quattro teorie ne rendono conto oppure se è necessario elaborarne di nuove.
L’efficacia di una tale analisi dipende però dalla sua completezza, e «ciò è possibile
solo se l’analisi è sistematica»175
, ovvero se oltrepassa il piano fenomenologico e si
riversa in un’analisi metafisica (secondo capitolo). Questa ha il compito di «vedere
se i fenomeni descritti corrispondono a tutte le possibilità offerte dal Mondo»176
, cioè
se da un punto di vista logico-metafisico la realtà possa presupporre altri tipi “puri”
di Autorità. Infine, le connessioni metafisiche dovranno essere spiegate attraverso
un’analisi ontologica (terzo capitolo).
La seconda parte (Deduzioni) tratta invece delle applicazioni pratiche di quanto,
su di un piano assolutamente generale, dirà Kojève nella prima parte (Analisi). Qui il
discorso di Kojève si articola in: applicazioni politiche, atte a dedurre una teoria
dello Stato; applicazioni morali, finalizzate a dedurre «una morale specificamente
politica, essenzialmente diversa dalla morale “privata”»177
che critica, a partire da
valori non politici, qualsiasi forma di Stato autoritario; applicazioni psicologiche, che
172
Ivi, p. 14. 173
Ivi, p. 15. 174
Ibidem. 175
Ibidem. 176
Ivi, p. 16. 177
Ivi, p. 17.
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69
si propongono di dedurre il modo in cui si agisce sulla mente umana per generare e
conservare l’Autorità.
Detto ciò, ma prima di addentrarci nelle varie Analisi kojèviane, è necessario dare
una definizione dell’Autorità che sia il più possibile generale, “formale”. Fin da
subito, quindi, Kojève ci dice:
Esiste Autorità soltanto là dove c’è movimento, cambiamento, azione (reale o
almeno possibile): si ha autorità solo su ciò che può «reagire», cioè cambiare in
funzione di ciò o di colui che rappresenta l’Autorità (la «incarna», la realizza, la
esercita).178
L’Autorità ha quindi un carattere essenzialmente attivo, e il suo “supporto” deve
essere un agente libero e cosciente: un dio, un uomo, mai un animale, mai il
fonografo che trasmette il discorso di un capo di Stato. Queste poche righe ci danno
già un’informazione essenziale: l’Autorità si dà solo nel Movimento, e questo,
ricondotto al discorso fatto finora, significa che l’Autorità si dà solo nella Storia, solo
finché c’è un Altro che – almeno potenzialmente – reagisce, un Altro cioè da cui farsi
(ancora) riconoscere, solo finché permane tra gli uomini quella irrefrenabile quanto
fondamentale passione tutta “Umana” che è il Desiderio.
In tal senso, l’Autorità diventa la risoluzione della Lotta per il riconoscimento.
Infatti, «l’atto autoritario si distingue da tutti gli altri per il fatto di non incontrare
opposizione da parte di colui o coloro ai quali è diretto. E questo presuppone, da un
lato, la possibilità di un’opposizione e, dall’altro, la rinuncia cosciente [se ipnotizzo
qualcuno non ho autorità] e volontaria [se butto qualcuno giù dalla finestra non ho
autorità] alla realizzazione di questa possibilità»179
. L’Autorità è quindi un fenomeno
sociale, né individuale («perché vi sia Autorità bisogna essere almeno in due»180
) né
– aggiungerei io – “universale” (nello Stato universale e omogeneo si esaurisce la
possibilità stessa dell’opposizione, motivo per cui l’Autorità propriamente detta non
ha più ragion d’essere). Da ciò, Kojève tira le somme del discorso e ci fornisce tre
modi equivalenti di definire l’Autorità:
[…] l’Autorità è la possibilità che un agente ha di agire sugli altri (o su un altro),
senza che questi altri reagiscano nei suoi confronti, pur essendo in grado di farlo.
178
Ivi, p. 19. 179
Ivi, p. 20. 180
Ibidem.
Page 71
70
O anche: agendo con Autorità, l’agente può cambiare il dato umano esterno senza
subire il contraccolpo, cioè senza cambiare egli stesso in funzione della sua azione
[non c’è Autorità laddove un mio ordine mi costringe a “modificarmi”: se per
esempio qualcuno lo contesta sono costretto a reagire con la forza o a fornendo
spiegazioni, ecc. Questo “dovermi muovere a mia volta” annulla l’Autorità].
Oppure, infine: l’Autorità è la possibilità di agire senza fare compromessi (nel senso
ampio del termine) [e anche la discussione circa un ordine, il “dover convincere”
l’altro ad eseguirlo, è una forma di compromesso].181
Da ciò si può concludere che l’Autorità e qualsiasi tipo di Forza si escludono a
vicenda: «in generale, non bisogna fare nulla per esercitare l’Autorità. Il fatto di
essere obbligato a far intervenire la forza (la violenza) prova che non si tratta di
Autorità»182
. Questo, per un verso, accosta l’Autorità al Diritto (ho “diritto” a fare
qualcosa se posso fare quel qualcosa senza incontrare una pur sempre possibile
opposizione), per altro verso, invece, li distingue: se l’Autorità si annulla nel
momento della reazione, questa stessa reazione è perfettamente contemplata dal
Diritto. Ne consegue che se l’Autorità esclude la forza, il Diritto non può non
presupporla (non vi è Tribunale senza Polizia) senza però rinunciare, per questo, al
suo carattere propriamente “autoritario”.
Si potrebbe dire, quindi, che ciò che più di ogni altra cosa caratterizza l’Autorità è
il perenne rischio, il rischio di una reazione che presupporrebbe la forza183
.
2.4.2 Le quattro teorie
Ma perché coloro che potrebbero reagire si astengono dal farlo? Porsi questa
domanda è come porsi la domanda sull’essenza dell’Autorità, ovvero su ciò che
rende l’Autorità tale. L’analisi fenomenologica ha proprio il compito di rispondere a
questa domanda e Kojève, attraverso essa, individua quattro tipi “puri” di Autorità, i
suoi quattro modi d’essere che ne rappresentano appunto, nel complesso, l’essenza.
181
Ivi, pp. 20-21. 182
Ivi, p. 22. 183
Da tutto ciò si può osservare che il carattere “sacrale” assunto dalle autorità nel corso della storia
dell’umanità deriva dal fatto di attribuire il summum di Autorità a Dio. Questa attribuzione però –
osserva Kojève – va fatta con le dovute precauzioni: l’Autorità in quanto tale presuppone l’assenza di
reazioni ma queste devono permanere nella loro potenzialità. Al contrario, l’Autorità di un Dio
trascendente non può esser messa in discussione neanche potenzialmente perché la sua trascendenza
rende ogni reazione letteralmente impossibile. Si potrebbe concludere che quella dei Sovrani
divinizzati delle antiche civiltà umane (per esempio i faraoni egiziani) è – per così dire – una “semi-
autorità”.
Page 72
71
Il primo tipo “puro” di Autorità è quello del Padre sul Figlio, le cui “varianti”
omologhe sono l’Autorità della vecchiaia, quella della tradizione, quella del
testamento (che però, rendendo impossibile la reazione, è piuttosto un tipo
particolare di autorità “divina”), quella dell’autore (sulla sua opera), ecc. La teoria
che ha spiegato questo genere di Autorità è quella teologica (o meglio, teocratica)
della Scolastica. Come abbiamo già accennato, Dio rappresenta il summum
dell’Autorità, in quanto ingloba in sé tutti i tipi “puri” di Autorità. Ma prima di ogni
altra cosa Dio è il Creatore degli uomini, il loro Padre. Ed è in tal senso che, dice
Kojève, questo tipo di Autorità si fonda sul concetto di causa184
, ovvero sul
riconoscersi come “effetto” e rinunciare coscientemente e liberamente a reagire
contro ciò che ci ha determinati. Per questo non reagiamo contro nostro padre o
contro gli anziani, ed è per questo che una “variante” importantissima di questa
Autorità è quella della Tradizione: i suoi detentori sono i nostri “padri spirituali” i
quali incarnano la “causa” che ci ha resi ciò che siamo. Per questo reagire contro di
essa «sarebbe una reazione contro se stessi, una sorta di suicidio»185
.
Il secondo tipo “puro” è quello dell’Autorità del Signore sul Servo, che è anche
l’Autorità del nobile sul plebeo, del militare sul civile, dell’uomo sulla donna, del
vincitore sul vinto (che “riconosce” la sconfitta), ecc. È l’Autorità propriamente
fondata sul rischio e – viene da sé – è spiegata dalla teoria di Hegel. Il Signore
diviene tale alla fine di una Lotta per il Riconoscimento contro colui che,
arrendendosi alla paura della morte, diventerà Servo. Kojève ci spiega questo punto
in maniera sintetica e chiarissima, facendo riferimento al discorso che ho affrontato
nel primo capitolo:
Quindi, il Signore domina l’animale che è in lui (e che si manifesta con l’istinto di
conservazione) e lo subordina a ciò che vi è di specificamente umano in lui (questo
elemento umano si manifesta infatti con il desiderio di «riconoscimento», con la
«vanità», che è priva di ogni valore biologico, «vitale»). Il Servo, invece, subordina
l’umano al naturale, all’animale. Si può dire, perciò, che l’Autorità del Signore sul
Servo è analoga all’Autorità dell’uomo sulla bestia e sulla Natura in generale – con
questa differenza: che l’«animale» è cosciente della sua inferiorità e l’accetta
liberamente. Ed è proprio per questo che qui vi è Autorità: il Servo rinuncia
coscientemente e volontariamente alla sua possibilità di reagire contro l’azione del
184
L’elaborazione teologica di questo tipo di Autorità porta anche e soprattutto all’“investitura divina”
delle autorità politiche nel corso della storia. Se la causa di ogni potere umano è Dio, allora si
giustifica di conseguenza anche il carattere ereditario di tale Autorità. 185
A. Kojève, La nozione di autorità, p. 41.
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72
Signore; lo fa perché sa che questa reazione mette a rischio la sua vita e perché non
vuole accettare questo rischio.186
Ma Hegel, che riesce a dare una spiegazione dell’Autorità del Signore e delle sue
“varianti”, non riesce a spiegare gli altri tipi “puri” di Autorità (per esempio, non può
spiegare come tra i Signori qualcuno riesca ad assumere un altro genere di Autorità –
quella del Capo – sugli altri). Ma questo è dovuto al fatto che ciascuna di queste
quattro teorie “parziali” «è, agli occhi del suo autore, una teoria dell’Autorità in
generale [corsivo mio]»187
.
Abbiamo poi l’Autorità del Capo188
sulla Banda che ha le sue “varianti” nelle
Autorità del maestro (sull’allievo), del dotto, del tecnico, dell’indovino, del profeta
(vedremo dopo perché) e del superiore (direttore, ufficiale, ecc.) sull’inferiore
(impiegato, soldato, ecc.). Questo genere di Autorità è spiegata dalla teoria, esclusiva
come tutte le altre, di Aristotele, fondata su un concetto di prescienza che bene riesce
a spiegare l’Autorità dei superiori sugli inferiori, del maestro sugli allievi, o degli
oracoli: tutte queste figure hanno Autorità nella misura in cui sono “più avanti”,
riescono a vedere “più lontano”189
. Il Capo si distingue per la sua capacità di
prevedere, mentre il resto della Banda si limita a constatare i bisogni immediati.
Come spiega Kojève:
La persona che si rende conto di vedere meno bene e meno lontano di un altro si
lascia facilmente condurre o guidare da costui. Quindi rinuncia coscientemente [e
liberamente] alle reazioni possibili; […] segue l’altro «ciecamente».190
In una parola, ciò che distingue il Capo, ciò che gli fa assumere Autorità presso
altri uomini e ciò che fa sì che attorno a lui si crei una Banda sempre più grande e
sempre più organizzata (fino alla creazione di uno Stato), è il progetto.
Infine, il quarto tipo “puro” di Autorità è quello del Giudice a cui vanno accostate
le Autorità dell’arbitro, del controllore, del censore, del confessore e dell’uomo
giusto o onesto (che – nota Kojève – è, in realtà, a monte della stessa Autorità del
Giudice). Quest’ultimo tipo “puro” ha le sua fondamenta nella teoria dell’Autorità di
186
Ivi, p. 30. 187
Ivi, pp. 28-29. 188
Non va sottovalutato il fatto che qui (p. 28) Kojève scriva tra parentesi «dux, Duce, Führer, leader,
ecc.». 189
Si potrebbe quindi già concludere che il “filosofo al potere”, di cui ho trattato nel precedente
paragrafo dedicato a Tirannide e saggezza, gode (o godrebbe) dell’Autorità del Capo. 190
A. Kojève, La nozione di autorità, p. 31.
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73
Platone, base della visione moralizzante dell’Autorità, ma che riesce a spiegare un
tipo d’Autorità che non riesce ad essere ugualmente spiegata dalle altre tre teorie.
Non bisogna pensare che si tratta dell’Autorità del giudice inteso come figura
istituzionale, procuratore. Esso non è un caso “puro”, “spontaneo”, di Autorità in
quanto si tratta pur sempre di «un funzionario che dipende da un potere politico, cioè
da uno Stato, e che lo presuppone (cfr. la leggenda di Erodoto che abbiamo citato191
).
Per essere veramente un Giudice, deve essere assistito dalla forza [la Polizia] e
fondarsi sulle leggi riconosciute da uno Stato»192
. Il vero caso “puro” di questo
genere di Autorità fondata su Giustizia ed Equità è piuttosto l’Arbitro o, ancor prima,
l’Onesto: la loro indiscutibile Autorità deriva dalla potentia “psicologica”
dell’oggettività, del disinteresse, dell’imparzialità.
Ora, naturalmente i quattro “tipi” puri di Autorità non hanno un riscontro, per così
dire, fedele nel mondo umano, ma si presentano sempre sotto forma di combinazioni
di due o più tipi, tra i quali comunque permane una gerarchia. È naturale, inoltre, che
i detentori dell’Autorità ambiscano ad un potere assoluto (in grado di non portare a
scatenare alcun genere di reazione da parte di nessuno, ma questa Autorità appartiene
– e anche in un modo “particolare” – solo a Dio) e totale (che riunisca in sé tutti e
quattro i tipi “puri” di Autorità), ma è altrettanto naturale che le loro autorità siano
sempre “parziali”, selettive e, conseguenzialmente, relative in quanto l’assenza di un
tipo “puro” di Autorità, se non annulla, perlomeno indebolisce l’Autorità di un altro
tipo («per esempio: constatando che un Capo è “nullo” come Giudice, se non
“ingiusto”, si ha la tendenza a non riconoscergli nemmeno l’Autorità di Capo,
ecc.»193
).
2.4.3 Genesi, conservazione, trasmissione
Un’altra importante tematica connessa alla nozione di Autorità è quella della
genesi di quest’ultima. Essa può essere sia spontanea che condizionata. Se però la
191
Si tratta della (interessante) leggenda della nascita della monarchia presso i Medi raccontata da
Erodoto e così riportata da Kojève nelle pp. 34-35: «I Medi vivevano nell’anarchia (nello Stato di
Natura, si dirà più tardi) in cui regnava l’ingiustizia assoluta (il bellum omnium contra omnes di
Hobbes). Uno di essi (che per ambizione aspirava al potere) si mise a praticare la giustizia. Gli altri
andavano a sottoporgli le loro controversie, che lui giudicava da arbitro rispettato. Dato che i clienti
diventavano numerosi, rifiutava di riceverli tutti dicendo di doversi occupare anche dei propri affari.
Allora i Medi, per sgravarlo dalle preoccupazioni personali lo scelsero come Re. Dopo essere
diventato re, domandò “guardie per rafforzare il suo potere”. Una volta che le ottenne, “continuò a
osservare la giustizia, ma vi aggiunse la severità”, perseguendo i colpevoli anche se nessuno glielo
chiedeva. (In altri termini, da arbitro che era diventò giudice e procuratore». 192
A. Kojève, La nozione di autorità, p. 35. 193
Ivi, p. 43.
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74
genesi spontanea è interna alla dimensione “personale” e non presuppone nessun tipo
di atto “esterno”, quella condizionata «nasce a seguito di atti differenti da quelli
compiuti da colui che la deterrà, e generalmente presuppone l’esistenza di un’altra
Autorità, dalla quale dipende»194
. È questo il caso di quella “ipotesi di lavoro” che è
la teoria del “contratto sociale”: secondo tale teoria, «la “prima” Autorità (politica) è
nata da una decisione (collettiva), cioè da un atto non di colui che eserciterà
l’Autorità, ma di coloro che la subiranno. In questo caso, perciò, l’Autorità è
condizionata da altro rispetto a se stessa, da altri atti che non sono quelli di chi la
incarnerà. E lo stesso succede quando l’uomo che deve incarnare l’Autorità è tirato a
sorte o designato da qualcosa che non ha nulla a che vedere con i suoi propri atti
(“meriti”) o con la sua “personalità” in generale (il caso del Dalai Lama, ad
esempio)»195
. L’analisi fenomenologica testimonia infatti che sono i quattro tipi
“puri” di Autorità a generarsi spontaneamente, ma nessuna Autorità può “essere
generata”. Da ciò deriva che la genesi condizionata non è un vero e proprio tipo di
genesi dell’Autorità, ma si connette piuttosto alla trasmissione della stessa: l’Autorità
esiste già (è già nata spontaneamente, è già stata “riconosciuta”), «si tratta solo di
cambiare il suo “supporto” materiale (umano)»196
.
Da ciò deriva la concezione kojèviana per cui le elezioni democratiche non
rappresentano, di per se stesse, la “genesi” (appunto condizionata) di un’Autorità, ma
piuttosto la manifestazione “esteriore” di una genesi spontanea (l’unica autentica) già
avvenuta («per esempio: durante un’assemblea qualcuno propone un “progetto” e
perciò viene “eletto” Capo; è il suo progetto che ha generato l’Autorità del Capo, e
non l’“elezione” degli altri […]»197
). L’errore del contrattualismo è quindi, secondo
Kojève, quello di credere l’Autorità trasmessa nell’elezione un caso di Autorità sui
generis rispetto ai quattro tipi “puri” e alle loro “combinazioni”. Il punto è capire se è
possibile fondare un’Autorità sull’aspetto puramente quantitativo: in democrazia
governa chi ha la maggioranza per il semplice fatto di essere la Maggioranza, e non
per considerazioni qualitative (che ci riporterebbero ancora ai quattro tipi “puri”).
Ma essa non gode, in quanto tale, di Autorità, e questo è dimostrato dalla presenza
stessa della Minoranza, la quale è per definizione un “opporsi” alla Maggioranza. Il
potere di quest’ultima, quindi, non deriverà dalla sua presunta Autorità sui generis
ma dalla sua Forza. E se la Minoranza, in fin dei conti, si adegua e rinuncia ad una
194
Ivi, p. 44. 195
Ivi, pp. 45-46. 196
Ivi, p. 46. 197
Ivi, p. 47.
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75
effettiva reazione è solo perché impaurita dalla necessariamente maggiore forza
(fisica) della Maggioranza. Si tratta di una rinuncia sicuramente cosciente ma non
volontaria198
.
Ora però, nota Kojève, le teorie democratiche/maggioritarie sono solo distorsioni
della teoria contrattualistica originaria che ammette l’Autorità sui generis del Tutto
sulle Parti. Si tratta della teoria della “volontà generale” di Jean-Jacques Rousseau.
Ma anche in questo caso non si tratta di un’Autorità sui generis. Di certo essa non
possiede l’Autorità del Signore dato che il Tutto non “rischierebbe” nulla di fronte
alle parti. E non possiede neanche l’Autorità del Capo dato che il progetto
rivoluzionario, il cambiamento, la riforme e le innovazioni, possono essere realizzati
solo dall’Individuo, la figura rousseauviana del “Legislatore”, solo cioè grazie
all’opposizione di una Parte rispetto al Tutto. La caratteristica fondamentale del
Tutto, di un Tutto “organico” cioè superiore alla somma della Parti, è infatti quella
della continuità e dell’armonia. E le Autorità che rappresentano essenzialmente
queste componenti sono quelle del Padre (l’Autorità della Tradizione, della Causa
finale che in-forma la comunità) e quella del Giudice (l’Autorità dell’Equilibrio tra le
Parti). L’Autorità della “volontà generale” non è quindi un’Autorità sui generis ma
un’Autorità del tipo Padre-Giudice. Se invece torniamo ad analizzare l’Autorità della
Maggioranza, pur volendo escludere la questione della Forza, ci rendiamo conto che
in essa l’Autorità del Giudice scompare perché la Minoranza è prova di una mancata
armonia, mentre l’unica Autorità che le si può attribuire è l’Autorità del Padre
visibile nel Senato, della continuità, dell’opinione pubblica, del “cosa dirà la gente”,
del Conformismo199
. Di conseguenza, Kojève conclude:
Così tutti coloro che volontariamente e coscientemente propongono cose nuove se
ne infischiano della Maggioranza. E allo stesso modo la Maggioranza perde ogni
prestigio durante le epoche «rivoluzionarie», nelle quali la società sa di essere e
vuole essere in cambiamento.200
198
Questo punto è spiegato da Kojève con un esempio geniale ed estremamente ironico (p. 51): «se un
campione di pugilato mi dice di uscire da un bar, lo faccio senza “reagire”, ma certo non perché ai
miei occhi possiede un’Autorità». 199
La stessa cosa si può dire dell’Autorità che, agli occhi di alcuni, possiede la Minoranza. Si tratta
dell’Autorità dell’originale sul banale. Ma anche questi – come li definisce Kojève – “snob” sono
vittime dell’Autorità tipicamente maggioritaria, quella del conformistico “cosa dirà la gente”, con la
semplice differenza che, in questo caso, il riferimento “autoritario-paterno” è quello ad una “élite”
appunto minoritaria. 200
A. Kojève, La nozione di autorità, p. 56.
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76
Finora abbiamo visto ciò che riguarda l’analisi fenomenologica della genesi
dell’Autorità e i suoi casi, per così dire, particolari. Ora però, prima di passare a
parlare della trasmissione dell’Autorità, è utile discutere brevemente della
conservazione della stessa, cioè del suo esercizio. Per farlo, però, occorre fare un
salto di una cinquantina di pagine e leggere ciò che Kojève ci dice a proposito delle
applicazioni morali e psicologiche.
Per quanto riguarda le prime, è essenziale per Kojève capire «ciò che bisogna fare
per acquisire o mantenere (cioè esercitare) un’Autorità di un determinato tipo»201
,
occorre cioè studiare le “morali autoritarie”. Kojève non ha abbastanza tempo per
affrontare un simile studio ma reputa comunque necessario chiarire che esso avrà il
compito di stabilire un determinato tipo di “morale” per ogni tipo “puro” di Autorità.
Infatti, non si può giudicare l’Autorità solo attraverso quella che Nietzsche chiamava
“la morale degli schiavi”, quella di stampo “servile-cristiano-borghese”, la quale può
essere impiegata solo nel caso dell’Autorità del Giudice. Gli altri tipi “puri” di
Autorità devono rispondere a morali differenti, e se nel caso dell’Autorità del
Signore uno studio del genere è già stato affrontato parzialmente, ad esempio
nell’Antichità, nel Medioevo giapponese o nel Cortegiano di Baldassarre
Castiglione, manca completamente uno studio anche semplicemente parziale delle
Autorità del Padre e del Capo. E si tratta di una lacuna che è essenziale colmare.
Per quanto riguarda invece la psicologia dell’Autorità, non si tratta di studiare la
psiche di chi la esercita (benché ci siano “luoghi” nella Germania nazista o nelle
grandi università inglesi in cui si forma chi è destinato a governare), ma piuttosto
quella di chi la subisce. Anche in questo caso Kojève non ha tempo per affrontare
uno studio simile, ma esso è essenziale all’esercizio dell’Autorità e deve sussistere in
stretta connessione con lo studio delle morali autoritarie, anch’esso considerando
separatamente i quattro tipi “puri” di Autorità. Kojève però introduce comunque un
tale studio:
In effetti, è la conoscenza di questa psicologia che deve costituire la base di ogni
«propaganda» o «demagogia» razionale, cioè veramente efficace. (Per
«demagogia» intendiamo l’educazione politica del popolo, cioè un’attività
pedagogica che si serve dei mezzi forniti da ciò che oggi chiamiamo
«propaganda»). Sapendo che cosa prova l’uomo comune che subisce un’Autorità –
ovvero, per ciò stesso, quello che si aspetta da chi la esercita –, gli si può far vedere
201
Ivi, p. 108.
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77
che egli ha effettivamente a che fare con un’Autorità, e con un’Autorità esercitata
«come si conviene»; o, almeno, fargli credere che sia così. E si possono – e si
devono – anche correggere le sue reazioni [corsivo mio] psicologiche, facendogli
effettivamente provare ciò che si prova nel caso «normale» (se non «morale»)
dell’Autorità «correttamente» esercitata e subita.202
Tornando al discorso che stava facendo Kojève cinquanta pagine prima, un altro
problema che va affrontato è quello della trasmissione dell’Autorità. Innanzitutto,
dice Kojève, il concetto stesso di trasmissione presuppone una concezione collettiva
dell’Autorità, ovvero non legata all’essere della “persona” che la detiene in qualità di
suo semplice “supporto” materiale, quanto piuttosto ai suoi atti e alle sue qualità.
Il primo modo di trasmissione dell’Autorità è quello che avviene per eredità.
Legata ad una concezione “magico-primitiva” dell’Autorità, secondo questa modalità
«la “virtù” (= possibilità dell’atto) è concepita come una sorta di sostanza
semimateriale (il “mana”), presente (in modo più o meno completo) in tutti i membri
di una stessa famiglia e che si trasmette nel modo più completo di padre in figlio (e
non alla figlia); essa si riduce gradualmente (il figlio minore ne riceve meno del
maggiore, ecc.)»203
. Tale modalità di trasmissione perse però prestigio, fin quasi a
scomparire, dal momento in cui iniziò a venir meno la concezione “materialista” (il
“mana” appunto, o il sangue) dell’Autorità su cui essa si fondava. Essa rimane però
come essenzialmente legata all’Autorità del Padre, inteso sia come padre di famiglia
sia come Tradizione: se infatti – nota Kojève – ad oggi le monarchie costituzionali
possono ancora fondarsi sulla trasmissione ereditaria della carica (senza che
l’opinione pubblica storca il naso) è solo in virtù del loro incarnare semplicemente
l’Autorità della Tradizione.
Il secondo tipo di trasmissione dell’Autorità è quello per elezione, la quale c’è
«quando il candidato è designato da coloro o colui che o non ha alcuna Autorità [il
popolo] oppure ha un’Autorità di un altro tipo (per esempio un Giudice nominato da
un Capo204
)»205
. Come abbiamo già visto, l’elezione è solo la manifestazione
esteriore di un’Autorità già spontaneamente generatasi. Ma il meccanismo elettorale
non riflette efficacemente tale genesi e il suffragio universale finisce per esser
considerabile non diverso da una forma di sorteggio: la scelta di un elettore che ha
202
Ivi, p. 112. 203
Ivi, p. 57. 204
Si tratta – come vedremo – dell’unico caso accettabile di trasmissione dell’Autorità in quanto, in
linea di principio, il Capo, essendo in grado di prevedere il futuro, è in grado di designare i “migliori”. 205
A. Kojève, La nozione di autorità, p. 58.
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78
un’Autorità diversa è la scelta di un incompetente; la scelta di un elettore che non ha
alcuna Autorità è una scelta senza alcun valore, rimessa completamente al caso, e
quindi assimilabile ad un sorteggio206
.
Ma se l’ereditarietà è fondata su una teoria errata e l’elezione sul mero sorteggio,
«l’unico modo di trasmissione ammissibile resta quindi la nomina»207
, e «vi è
trasmissione dell’Autorità per nomina quando il candidato all’Autorità è designato da
colui (o coloro) che detiene egli stesso un’Autorità, e un’Autorità dello stesso tipo
(per esempio un Capo nominato da un Capo)»208
. A proposito di questa modalità di
trasmissione, è interessante ciò che Kojève scrive in nota:
Nel caso della nomina, il nominante può trasmettere al nominato una parte della
sua Autorità senza che questa diminuisca: si può dire che il nominato fa parte del
suo proprio corpo, servendo insieme a lui da «supporto» all’Autorità che resta la
stessa. Così la perdita dell’Autorità del nominato è considerata una perdita di
Autorità del nominante: commettere un qualsiasi errore o nominare qualcuno che lo
commette è quasi la stessa cosa. Nominare un altro al posto di colui che l’ha
commesso significa: correggersi da soli. Ma il nominante può anche trasmettere al
nominato tutta la sua autorità: nominare il suo successore.209
2.4.4 Autorità, tempo ed essere
Tenendo presenti le considerazioni finora svolte, passiamo all’analisi metafisica
dell’Autorità, la quale è così introdotta da Kojève:
Non vi è dubbio che l’Autorità è un fenomeno essenzialmente umano (non naturale)
– il che vuol dire […] sociale e storico: l’Autorità presuppone una società ([…]
qualcosa di diverso da un gregge animale, nel quale non esiste possibilità di
«reazione»), e la società presuppone (e implica) la storia (e non soltanto
un’evoluzione biologica, naturale).
In altri termini, l’Autorità non può che «manifestarsi» (diventare un «fenomeno») in
un Mondo a struttura temporale. Il fondamento metafisico dell’Autorità è quindi
una «modificazione» dell’entità «Tempo» (si intende Tempo «umano» o «storico»
[…], in opposizione ai Tempi «naturali» […]).210
206
Il sorteggio può essere però anche un caso particolare di genesi spontanea: se infatti i Giudici
vengono tirati a sorte, i prescelti sono tenuti all’imparzialità. 207
A. Kojève, La nozione di autorità, p. 60. 208
Ivi, p. 58. 209
Ivi, pp. 59-60. Questa forma di trasmissione funziona, però, solo nel caso in cui il nominante sia un
Capo. Negli altri casi, anche la nomina è rimessa al caso. 210
Ivi, pp. 62-63.
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79
L’Autorità – come anticipato anche nella trattazione di Tirannide e saggezza – è
quindi un fenomeno essenzialmente temporale. In tal senso, i quattro tipi “puri” non
sono altro che “varianti” delle quattro “modalità” del Tempo: Passato, Presente,
Avvenire ed Eternità211
.
Innanzitutto abbiamo l’Autorità dell’Eternità. È l’Autorità dei valori, dei “princìpi
eterni”, e se questi possiedono un’Autorità è proprio in funzione del fatto che essi si
pongono «in opposizione al “temporale”, cioè in rapporto a quest’ultimo»212
. A
questo genere di Autorità corrisponde l’Autorità del Giudice, e a riprova di ciò c’è il
fatto che, «come l’Eternità ha un carattere “autoritario” solo nei e attraverso i suoi
rapporti con il tempo, il Giudice ha vera Autorità solo nella misura in cui si oppone
(all’occorrenza) alle altre tre Autorità. (Se i Padri, Capi e Signori fossero “giusti” per
definizione o per “essenza”, non vi sarebbe Autorità distinta del Giudice […])»213
. Il
Giudice è infatti chiamato ad esprimere giudizi sugli altri tipi di Autorità, ma è fuori
discussione il fatto che egli debba restare autonomo rispetto ad ogni loro eventuale
ingerenza. Esattamente come l’Eternità: “superiore” al Tempo perché “altra” rispetto
ad esso. Questa “alterità” è testimoniata dall’“azione giusta”, la quale, appunto, «è al
di fuori del Tempo perché […] non è una funzione né dell’“interesse” del momento,
né dei “pregiudizi” dettati dal passato, né infine dei “desideri” ancorati all’Avvenire;
ed essa è “per sempre”, perché, essendo giusta, resta giusta “in eterno” […]»214
.
Gli altri tre tipi “puri” di Autorità sono metafisicamente connessi invece al Tempo
propriamente “umano”. Innanzitutto, l’Autorità del Passato:
Un Passato è sempre «venerabile»; denigrarlo è un «sacrilegio»; ignorarlo è
«disumano».215
Ciò che rende, però, il Passato “venerabile” non è la sua semplice età “veneranda”
(in tal senso anche una pietra godrebbe di Autorità), ma il suo carattere
eminentemente “storico-umano”, il fatto che esso sia «il mio passato, cioè il Passato
che è la “causa” del mio Presente e la “base” del mio Avvenire […]»216
. L’Autorità
risiede quindi nella Tradizione e nel suo carattere “causalistico”, elementi che la
211
Questa non va intesa come una dimensione temporale umana concretamente esistente ma piuttosto
come la “modalità” dell’opporsi (tutto Umano) allo scorrere del Tempo e porsi, in tal senso, sia al di
fuori di esso, sia in relazione onnicomprensiva rispetto ad esso. 212
A. Kojève, La nozione di autorità, p. 64. 213
Ivi, p. 65. 214
Ivi, p. 66. 215
Ivi, p. 63. 216
Ivi, p. 67.
Page 81
80
rendono perfettamente accostabile a quell’unico tipo “puro” di Autorità che
legittimamente (e naturalmente) può essere trasmesso per via ereditaria: il Padre.
Per quanto riguarda l’Autorità dell’Avvenire, ancora una volta non si tratta di
attribuire Autorità al futuro che ogni essere ha davanti a sé, ma piuttosto all’Avvenire
storico: essa, infatti, «si “manifesta” sotto forma di progetto (concepito nel presente
in vista dell’avvenire, sulla base delle conoscenze del passato)»217
, e l’Autorità del
“progetto” non può essere che quella sola Autorità a cui si addice la trasmissione per
nomina (che sembra rimandare all’Avvenire, ovvero al futuro comportamento del
nominato): il Capo218
.
Infine consideriamo il Presente. Anche in questo caso non si tratta dell’istante
presente della fisica (t = 0). L’Autorità attribuita al Presente è piuttosto l’Autorità
dell’“up to date”, del non voler essere “in ritardo sui tempi”, è l’Autorità (enorme)
della “moda”, è la centralità assoluta dell’“oggi” «in opposizione all’irrealtà
“poetica” del passato e all’irrealtà “utopica” dell’avvenire»219
. Si tratta, in una
parola, dell’Autorità della “presenza reale” tra le molteplici cose “semplicemente
presenti” (= esistenti). Kojève spiega così questo punto:
[…] la «presenza reale» dello Spirito nella «Materia», di ciò che non esiste (nel
senso forte dell’espressione [in gioventù Kojève diceva che la sue era una “filosofia
dell’in-esistente]) in ciò che rappresenta tutta l’esistenza effettiva.220
Questo significa che l’Autorità di cui gode il Presente gli deriva dal suo astrarsi
rispetto alla caducità delle cose meramente esistenti, quindi dal suo fondamentale
“non-esistere-eppure-esserci”, in una sospensione tra il non più e il non ancora: il
Presente è il momentum essenziale che nasce dal Passato ed è gravido dell’Avvenire.
E Kojève continua:
Ora, un tale Presente (umano o «storico») non è nient’altro che l’azione nel senso
forte del termine […]. Ma l’azione si oppone all’essere [è appunto l’in-esistente]. E
questa opposizione si realizza e si «manifesta» nella e attraverso (o, se si preferisce,
in quanto) trasformazione dell’essere tramite l’azione che, al limite, è una
217
Ivi, p. 68. 218
Il primato temporale dell’Avvenire, afferma Kojève, determina di conseguenza anche il primato
dell’Autorità del Capo. Kojève anticipa a p. 63 quello che sarà l’argomento chiave del prossimo
paragrafo: «l’Autorità per eccellenza è quella del Capo “rivoluzionario” (politico, religioso, ecc.), che
ha un “progetto” universale (Stalin)». 219
A. Kojève, La nozione di autorità, p. 63. 220
Ivi, p. 68.
Page 82
81
distruzione attiva dell’essere [è l’Azione con la A maiuscola, quella propriamente
Umana ed essenzialmente Storico-politica, è ciò che Hegel chiamava negazione].221
Detto ciò, l’Autorità assimilabile a quella del Presente è l’Autorità del Signore, il
quale, con scarse “prudenza” e “ragionevolezza”, accostabili piuttosto al mondo della
mera conservazione animale della propria esistenza, Agisce e «non si ferma
nemmeno davanti al Rischio di una distruzione totale dell’Essere che gli fa da
supporto»222
.
Le analisi fenomenologica e metafisica confermano così l’esistenza di soli quattro
tipi “puri” di Autorità (con le loro “varianti” e “combinazioni”). Quest’analisi del
fenomeno autoritario va però completata attraverso un’analisi ontologica (da Kojève
appena abbozzata) che riconduce i quattro tipi “puri” all’interno delle grandi
riflessioni sull’Essere succedutesi nella storia della filosofia. Così, l’ontologia
scolastica (Dio come causa sui, essenza che implica l’esistenza, ecc.) giustifica solo
l’Autorità del Padre; l’ontologia platonica (l’Uno-Agathon, la struttura dualistica
dell’Essere, ecc.) spiega solo l’Autorità del Giudice; l’ontologia aristotelica (Motore
immobile, Nous, Forma e Materia, ecc.) è alla base dell’Autorità del Capo;
l’ontologia hegeliana, infine, (Negatività, Totalità, Dialettica, ecc.) è ciò che sta
dietro l’Autorità del Signore.
È evidente dunque che le quattro teorie ontologiche dell’Autorità, ognuna
concepita «come una teoria universale, che riconosce solo un tipo di Autorità assunto
come Autorità tout court»223
, non sono altro che teorie in sé «incomplete ed errate.
(Più esattamente, è la scorrettezza delle ontologie degli autori di queste teorie che li
ha portati a fare analisi fenomenologiche incomplete, a vedere nel fenomeno
complesso dell’Autorità solamente l’aspetto che corrispondeva alla loro concezione
unilaterale dell’Essere)»224
. Da buon hegeliano, quindi, Kojève afferma che la
Saggezza, ovvero una teoria ontologica completa, definitiva e assolutamente vera,
può essere conquistata solo come Mediazione dialettica, unità nella differenza, dei
momenti essenziali in cui si è tentato di formulare una tale teoria, ovvero come
Totalità delle varie ontologie che si sono succedute nel tempo, private della loro
221
Ivi, pp. 68-69. 222
Ivi, p. 69. L’Autorità del Presente e del Signore si spiega – afferma Kojève a p. 69 – come
«l’Autorità del “bisogno del momento” opposta a quella del “sogno dell’avvenire” e della
“salvaguardia del passato” [, la quale] è, in fin dei conti, l’Autorità della necessità della guerra o, in
generale, dei rischi vitali che comporta la penetrazione del Passato di una Nazione nel suo Avvenire
attraverso il suo Presente». 223
Ivi, p. 72. 224
Ivi, pp. 72-73.
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82
unilateralità e pretesa di esclusività e riconosciute dunque nella loro parzialità. È
questo il motivo per cui il Kojève che scrive nel 1942 si limita esclusivamente a
gettare le basi per uno studio futuro della nozione di “Autorità”, proprio perché solo
il Saggio che verrà alla fine della Storia potrà essere esaustivo sull’argomento,
avendo, a posteriori, la possibilità di guardare indietro e ricostruire la Storia del
pensiero e quindi una teoria ontologica completa ed esatta dell’Autorità.
2.4.5 Le applicazioni politiche
Ciò che resta da analizzare del saggio kojèviano sono le conseguenza prettamente
politiche del discorso fatto finora. L’obiettivo è quello di arrivare, o perlomeno porne
le basi, ad una teoria dello Stato, laddove è quest’ultimo che, con qualsiasi forma di
governo, dalla monarchia assoluta alla democrazia, incarna il “Potere politico”. Se
tale Potere, poi, rinuncia – almeno in linea di principio – all’uso della forza, allora
esso sarà fondato sull’Autorità. Ora però, lo Stato è un’entità solo “ideale” «che ha
bisogno di un “supporto reale” (“materiale”) per poter esistere nel mondo spazio-
temporale»225
, e tale “supporto” può essere tanto individuale quanto collettivo.
Questo conduce al problema della divisione dell’Autorità (la “Separazione dei
poteri”): l’Autorità è una, ma ciò non significa necessariamente che debba essere
“semplice” e non possa articolarsi in una molteplicità “complessa” di “supporti”.
Anzi, se l’Autorità politica dello Stato riunisce in sé più tipi “puri” di Autorità,
bisognerebbe chiedersi «se tutti questi elementi costitutivi debbano avere un solo e
medesimo “supporto”, oppure se è meglio “realizzare” gli elementi separatamente
[…]»226
. Inoltre, se l’Autorità è, in linea di principio, illimitata, il suo “supporto”
umano è necessariamente finito. Questo conduce (nuovamente) al problema della
trasmissione dell’Autorità: sia di quella autonoma – la trasmissione dell’Autorità
politica di Capo in Capo – sia di quella dipendente – la trasmissione dell’Autorità dal
Capo al suo Funzionario. Se quest’ultima, per rimarcare il suo carattere di
dipendenza, può avvenire solo per nomina, più complesso è il caso della trasmissione
dell’Autorità autonoma. Escludendo il suffragio universale (= sorteggio) e
l’ereditarietà, ciò che resta è, ancora una volta, la nomina. C’è il rischio, però, che
attraverso essa una tale trasmissione si imposti automaticamente su di un piano
eccessivamente “personale” (potremmo dire anche “nepotistico”) col risultato che
l’Autorità del Capo si indebolisca inesorabilmente con lo scorrere del tempo. L’unica
225
Ivi, p. 77. 226
Ivi, p. 78.
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83
soluzione è dunque sempre la genesi spontanea di una tale Autorità, confermata
magari da una particolare forma di elezione che assumerebbe, in tal senso, il carattere
di un “voto di fiducia”227
.
Il discorso relativo alla divisione dell’Autorità va invece affrontato in maniera più
approfondita. Nel Medioevo, innanzitutto, si riteneva che il Capo dello Stato
derivasse, in maniera dipendente, da Dio: possedendo tutti i tipi “puri” di Autorità,
era Lui a nominare i loro “supporti” umani come suoi Funzionari. Ma questa teoria
era complicata dal fatto che Dio nominava due (o più) Funzionari con pretese
universalistiche ed assolutistiche: il Papa della Chiesa e l’Imperatore (o i Re). A
distinguere l’aspetto ecclesiastico dall’Autorità politica ci penserà, in seguito,
l’Assolutismo monarchico. Infine, le tesi costituzionaliste e democratiche
condurranno al principio (problematico) della “separazione dei poteri”, reso
popolare da Montesquieu. Secondo tali teorie, il Potere politico si divide in un potere
legislativo – rappresentante l’Autorità del Capo –, uno esecutivo – ovvero l’Azione
per eccellenza, quella che si esercita nel Presente, quindi l’Autorità del Signore – e
uno giudiziario – incarnato dai Tribunali. Manca l’Autorità del Padre, «e si è tenuti a
dire che l’Autorità politica si scompone o si disgrega (si “divide”) proprio a causa di
quest’amputazione»228
. Quest’assenza di spicco attribuisce allo Stato organizzato
secondo tale teoria costituzionalista, una componente essenzialmente rivoluzionaria
e borghese: è il Borghese che vuole rinnegare il suo passato da Plebeo. Per questo
vuole porsi al posto dell’aristocrazia e, nel farlo, nega incoscientemente l’Autorità
del Padre, riducendo i Poteri a tre. In questo modo, è l’Autorità dell’Avvenire,
ovvero quella del Capo, ad acquisire assoluta centralità, col risultato di vivere o in
uno stato trockijano di “rivoluzione permanente” o sotto una “Dittatura” come quella
napoleonica o nazifascista. L’Autorità del Padre potrebbe restare solo all’interno
dell’istituzione della Famiglia ma, essendo questa in una contrapposizione essenziale
allo Stato (cfr. Antigone), ne deriva che una delle due parti debba soccombere e –
nota Kojève – tutti gli indizi sembrano preannunciare che ad essere distrutta sarà
proprio l’Autorità della Famiglia.
227
Possiamo, al riguardo, pensare a ciò che sta accadendo da qualche anno a questa parte in Italia. Lo
stato di crisi in cui essa imperversa ha infatti portato spesso e volentieri a “saltare” la fase
“parlamentare” della produzione delle leggi sostituendola con la promulgazione di decreti-legge ad
opera di Governi che, appunto, si limitano semplicemente a porre alle Camere il puro e semplice “voto
di fiducia”. 228
A. Kojève, La nozione di autorità, p. 80.
Page 85
84
Nel momento in cui tale Autorità scompare, si presentano tre possibilità: quella
apertamente rivoluzionaria del tipo C→(S, G)229
(il bolscevismo leninista) o C→(G,
S) (il menscevismo socialdemocratico, mai completamente realizzato perché
pretende di inserire una “facoltà di giudizio” tra l’Autorità “progettista” del Capo e
quella “realizzatrice” del Signore), fortemente instabile perché sempre rivolta al
“nuovo” e contraria ad ogni genere di conservazione del Passato; quella fondata sul
rischio e quindi di stampo militarista del tipo S→(C, G) (l’imperialismo hitleriano) o
S→(G, C) (che, con qualche forzatura, Kojève riconduce all’imperialismo
anglosassone capitalista), anch’essa fortemente instabile in virtù delle possibilità
comunque limitate di conquista militare; infine quella fondata sui princìpi della
Giustizia. Essi sono solo apparentemente “eterni”, il che rende tale caso di
costituzione solo apparentemente stabile. In uno Stato che non prevede l’elemento
del Passato, cade anche l’“armonia” sovratemporale che caratterizza l’Autorità
dell’Eternità e, di conseguenza, la Giustizia che vorrà porsi come Autorità “in-
formante” lo Stato non potrà che essere una Giustizia particolarizzata, quella che
Marx chiamava “giustizia di classe”. La costituzione che ne deriva sarà quella,
quindi, di uno Stato essenzialmente “borghese”, o del tipo G→(S, C)
(conservatorismo tory) o del tipo G→(C, S) (radical-socialismo liberale o whig). Un
tale Stato non può che essere instabile proprio in virtù del fatto che la “giustizia di
classe” è, potenzialmente, sempre in conflitto con la “giustizia di un’altra classe”,
ancora a testimonianza della caduta del suo carattere di “eternità”. Anche questo tipo
di costituzione è per Kojève instabile e dunque da evitare. Ciò non toglie, però, che
esista una Giustizia “politica” che sussista nella sua Eternità e, dunque, nella sua
Autorità, nel momento in cui essa si distingue dallo Stato e assume il compito di
giudicare non i meri “individui” secondo le leggi (“civili e penali”) dettate dalla
logica “di classe”, bensì i cittadini tutti e tra questi lo stesso Capo dello Stato.
Abbiamo quindi una prima giustificazione ad una Separazione dei poteri: al
Giudice (“politico”) è necessario assegnare un “supporto” distinto e indipendente
rispetto agli elementi Capo-Signore. Bisognerebbe chiedersi se questi ultimi debbano
essere a loro volta separati, come afferma la teoria costituzionalista. Ma la risposta di
Kojève è negativa:
229
Si tratta semplicemente delle iniziali dei tipi “puri” di Autorità. Attraverso una simile
schematizzazione, Kojève vuole semplicemente indicare la gerarchia in cui possono posizionarsi i tre
tipi “puri” dopo l’amputazione “costituzionalista” dell’Autorità del Padre.
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85
Prendere sul serio la separazione dei «poteri» legislativo ed esecutivo equivarrebbe
a istituire un «potere» tenuto a prevedere tutto senza potere nulla, di fronte a un
altro «potere» tenuto a potere tutto senza prevedere nulla. In caso di conflitto fra i
due (e la «separazione» ha senso soltanto se si ammette la possibilità di un
conflitto), il «potere» legislativo sarebbe immediatamente annientato dal «potere»
esecutivo, e lo Stato cesserebbe di esistere nella forma data.230
Dal punto di vista metafisico, se si isola l’Autorità legislativa del Capo, quella
rivolta costantemente all’Avvenire, da qualsiasi “attualizzazione reale”, ciò che si
ottiene è pura “Utopia” politica; se invece stacchiamo l’Autorità del Signore da
quella del Capo, il Presente si “disumanizza” e il potere esecutivo, così, «degenera in
semplice “amministrazione” [corsivo mio] o “polizia” (il “Governo-Gendarme”):
diventa una pura “tecnica”, che tiene conto soltanto di ciò che “è”, ovvero il dato
“immediato”»231
.
Quest’ultimo caso combacia perfettamente con quanto affermato all’inizio del
presente capitolo. Con l’unica differenza che ciò che nel 1942 era per Kojève ancora
una sorta di pericolo da scongiurare, una “pseudo-profezia” dedotta logicamente a
partire dall’analisi di semplici teorie, sarà per lo stesso, a 232
partire dagli anni
Cinquanta, un dato di fatto innegabile. La fine del Politico coincide con la fine della
Storia: in un’epoca di sospensione del Senso, in cui l’uomo torna ad essere una
(evolutissima) creatura animale, non può più esserci “programmazione” o
“pianificazione”, non esistono più obiettivi propriamente Umani da raggiungere, non
esiste Desiderio. Di conseguenza, l’Avvenire storico non ha più ragion d’essere e,
con esso, viene meno anche la necessità dell’Autorità legislativa del Capo. Ciò che
resta è solo il Presente ma anche questo viene privato della sua Autorità
(essenzialmente “Umana”), proprio perché non esiste più alcun “Riconoscimento” da
conquistare, alcun “Progetto” da realizzare. E laddove non esiste più Autorità, ciò
che resta è la Forza: in tal senso, l’Amministrazione e la Polizia sono solo
espressioni della regolamentazione (giuridica, siamo nel caso della “giustizia di
classe”) coercitiva di quella che si riduce ad essere una semplice “Società”, lo scarto
230
A. Kojève, La nozione di autorità, p. 91. 231
Ivi, p. 92. 232
Questa conclusione è ben sintetizzata da un passo (p. 190) della lettera di Kojève a Schmitt del
16.5.1955: «quando io l’ho vista (e vissuta), ho compreso che l’URSS è solo più “moderna” degli altri
paesi. Da noi si potrebbero eliminare governo e Parlamento senza provocare il benché minimo
cambiamento. E questa abolizione è stata compiuta proprio in URSS dove, al posto del vecchio
governo, la Rivoluzione non ha insediato alcun nuovo governo, bensì una nuova amministrazione».
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86
“costituzionalista” e liberale di una Storia che ha prodotto tutto ciò che si poteva
produrre.
Lo Stato, dunque, esiste solo fintanto che può esistere (“storicamente”)
un’Autorità governativa, composta dalle Autorità necessariamente «riunite del Capo
e del Signore»233
. Queste due Autorità, infatti, possono avere uno stesso “supporto”,
in quanto chi incarna il Capo, il leader, può (e deve) all’occorrenza incarnare anche
il Signore, il generale, per vincere una guerra ad esempio, o, ancor prima, per
imporre la propria Autorità sugli altri candidati suoi oppositori. In questo, gioca un
ruolo fondamentale il Tribunale politico che, è chiamato a decidere imparzialmente
tra contendenti e a distinguere gli “eroi” dello Stato dai suoi “traditori”. E chi è
accusato di “alto tradimento” può essere punito solo con la condanna a morte234
. Un
“rischiare” la morte essenziale affinché il “candidato” al Potere non si dimostri solo
Capo ma anche Signore.
Se a queste considerazioni si aggiunge quella relativa all’innegabilità dell’Autorità
del Padre che permane nell’istituzione familiare, per cui sarebbe opportuno
reintegrare questa Autorità distinguendola da quella propriamente “governativa” e
fondandola in un organo di rappresentanza in cui si riuniscano i “Padri di famiglia”
(un “Senato” che avrebbe le funzioni dei Censori romani235
), allora otteniamo
nuovamente una inedita tripartizione dei Poteri. Essi devono essere “separati”
(ovvero avere “supporti” diversi) ma non “isolati”, cioè devono dialogare ed entrare
in conflitto tra loro, «bisogna che possano agire e reagire le [le Autorità] une sulle
altre: bisogna mantenere la loro unione dinamica nonostante la loro divisione
statica»236
, il che è l’essenza stessa della Politica. La tripartizione kojèviana “C-S, P
e G”, diversa dunque da quella prospettata dalla teoria costituzionale, è così
riassunta:
L’Autorità politica (l’Autorità dello Stato) si divide in: 1) Autorità pura (del Padre),
che ha come «supporto» il Senato-censore dei «rappresentanti» dei «padri di
233
A. Kojève, La nozione di autorità, p. 93. 234
È interessante il commento che Kojève, a p. 96, fa a questa conclusione: «in ogni epoca, i crimini
politici sono stati puniti più severamente degli altri […]. Il fatto che nelle moderne “democrazie” si
tenda alla clemenza politica prova soltanto una cosa: la perdita di qualsiasi senso del “politico” in
generale». 235
La particolarità della carica censoria era quella di avere funzioni economico-amministrative molto
importanti ma alcun imperium. Allo stesso modo, il Senato dei Padri di famiglia, prospettato da
Kojève, non avrebbe alcun tipo di Potere “statale” nel senso forte del termine ma comunque
importanti funzioni all’interno di una dialettica tra Poteri, legate agli interessi delle famiglie, ovvero –
in termini hegeliani – finalizzate a connettere lo Stato con la Società civile. 236
A. Kojève, La nozione di autorità, p. 98.
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87
famiglia»; 2) Autorità del Governo, ovvero l’Autorità «complessa» Capo-Signore o
Signore-Capo, che ha come supporto a) il Capo dello Stato (individuale o collettivo
[corsivo mio]), b) i Funzionari, c) l’Assemblea «manifestante» (nominata o «eletta»
[per sorteggio; si tratta di un’Assemblea parlamentare chiamata semplicemente a
“riconoscere”, tramite il voto di fiducia, l’Autorità del Capo dello Stato]; e 3)
Autorità (pura) del Giudice, che ha come «supporto» il Tribunale politico (reclutato
tramite sorteggio). Lo Stato non è altro che la realtà [l’accento si pone, ancora una
volta, sul realismo politico che caratterizza il pensiero del russo-francese] di questa
triplice Autorità.237
Un’ultima considerazione va fatta sul “supporto” dell’Autorità governativa:
singolo individuo o “collegio”? Innanzitutto va osservato che la classificazione
“classica” che viene tenuta in considerazione in questo contesto, corrispondente alle
tre categorie kantiane di quantità, per cui l’Autorità politica appartiene a uno
(Monarchia), a una parte (Aristocrazia) o a tutti (Democrazia), non è politicamente
corretta. Innanzitutto con “tutti” si intendono tutti i Cittadini (con la difficoltà
dell’individuazione di un tale discrimine: cfr. il problema delle donne, dei bambini,
dei pazzi, ecc.), il che riduce la Democrazia ad un caso di Autorità politica con
“supporto” comunque parziale. La classificazione corretta, invece, sarebbe quella per
cui il “supporto” di una tale Autorità è o individuale o collettivo, quest’ultimo
formato da o una “parte”, che costituisce Minoranza o Maggioranza, o “tutti” i
cittadini (il caso-limite e assolutamente irreale dell’unanimità)238
. Ora, nel caso dello
Stato – per così dire – “autentico” delineato da Kojève, qual è l’opzione migliore?
Kojève ce lo spiega con un esempio:
(Esempio: il «supporto» dell’Autorità S o C [come tipi “puri”] dovrebbe essere
individuale. Ma se si vuole che l’Autorità SC o CS non degeneri in Autorità S o C,
è meglio che il suo «supporto» sia collettivo).239
Laddove la forma autoritaria è “complessa”, affinché uno dei tipi “puri” che la
compongono non si imponga totalmente a discapito degli altri, è necessario che ci sia
un dialogo interno ad un “collegio”. Ma questo, che chiaramente è incarnato da una
Minoranza, non diventa la Maggioranza all’interno di uno Stato con una forte
struttura burocratica e che tenda a “funzionarizzare” più cittadini possibile? Kojève
237
Ivi, p. 96. 238
Cfr. A. Kojève, La nozione di autorità, p. 101. 239
A. Kojève, La nozione di autorità, p. 102.
Page 89
88
lascia aperta la questione e conclude così la parte dedicata alle deduzioni teoriche.
Resta però da analizzare il caso concreto, resta da applicare le sue argomentazioni al
mondo politico all’interno del quale Kojève stava vivendo in quel periodo: la Francia
meridionale in piena Seconda guerra mondiale.
2.4.6 Le appendici
Abbiamo già visto precedentemente come le due “sconcertanti” Appendici che
chiudono il testo inedito de La notion de l’autorité siano spiegabili – per dirla in una
parola – attraverso il realismo politico di Kojève. È comunque interessante, però,
leggerle non solo per capire cosa l’autore pensasse della situazione francese del
1942, ma piuttosto per vedere come il discorso finora delineato nel saggio si possa
applicare alla realtà politica concreta e, soprattutto, per osservare un’altra
testimonianza dell’evoluzione costante (se di “evoluzione” si può parlare) del
pensiero dell’intellettuale russo-francese.
In queste Appendici viene analizzata (come anticipato) l’Autorità del Maresciallo
Pétain e il “topos” della Rivoluzione nazionale. Pétain, alla vigilia degli accadimenti
del 1939-1940, rappresentava per i francesi l’uomo a cui si sarebbero affidati
completamente e a cui avrebbero affidato le sorti della Francia intera. Si tratta di un
caso lampante di genesi spontanea dell’Autorità, e per di più di un’Autorità totale.
Noto a tutti come il “vincitore di Verdun”, godeva di un enorme prestigio in
ambito militare, il che gli conferiva senz’altro l’Autorità del Signore. Chi lo
conosceva, inoltre, sapeva che, in guerra, era un abile stratega non solo bellico ma
anche “politico”, «capace di prevedere gli eventi, di fermare il loro evolversi e
riorganizzare il presente in vista dell’avvenire»240
. La sua esclamazione “Vi guido,
seguitemi!” era dunque testimonianza del suo beneficiare anche dell’Autorità del
Capo. L’età avanzata e il suo carattere nobile e valoroso, lo facevano apparire come
una persona onesta e obbiettiva, ovvero “disinteressata” nel giudizio: “Ho donato la
mia persona alla Francia” – esclamava – e questo gli conferiva anche l’Autorità del
Giudice. Infine, Pétain rappresentava per tutti l’“essenza” stessa del Francese, il
rispetto delle Tradizioni e del Passato glorioso della Francia. Ciò non poteva non
conferirgli anche l’ultima Autorità rimasta, quella del Padre. I problemi
sopraggiungono nel momento in cui, con la nascita del regime di Vichy all’inizio
240
Ivi, pp. 115-116.
Page 90
89
della Guerra, questa (innegabile) Autorità politica totale deve, per così dire,
“alienarsi” nel suo esercizio.
Innanzitutto, una politica essenzialmente pacifica e pacifista tende naturalmente
ad indebolire l’Autorità del Signore fino a distruggerla. Da ciò deriva il fatto che il
Maresciallo abbia dovuto iniziare a dare spiegazioni al popolo. E tutto questo senza
considerare che egli sarebbe stato troppo vecchio per incarnare quell’Autorità in
un’eventuale guerra a venire, motivo per il quale l’Autorità Capo-Signore
necessitava di due “supporti” distinti (benché in linea di principio, come abbiamo
visto, sia sconsigliato) e appunto quella del Signore doveva passare ad un “supporto”
più giovane ma la cui Autorità si fosse, allo stesso modo, spontaneamente generata.
In effetti, in quel periodo l’Esercito era stato affidato all’Ammiraglio Darlan, più
giovane di Pétain e che, soprattutto, godeva di una tale Autorità in virtù del fatto che
non fosse mai stato battuto.
Per quanto riguarda l’Autorità del Giudice, non c’è niente che abbia ridotto il
prestigio personale di cui, in tale ambito, godeva Pétain, ma l’esercizio di una tale
Autorità si è dovuto scontrare con una realtà socio-politica fin troppo complessa,
tanto che si potrebbe affermare che «il Maresciallo è giusto, ma i “Trust” sono più
forti di lui»241
.
Anche l’Autorità del Padre è rimasta intatta e questo è essenziale per ogni politica
che vuole essere programmaticamente “nazionale”242
. Il punto, però, è «che, oggi
come oggi, il “peso specifico” del Passato non può essere molto grande. Il Presente è
a tal punto “miserabile” che la Nazione desidera prima di tutto uscirne, cioè
superarlo, cioè penetrare nell’Avvenire»243
. Questa argomentazione torna ad essere
valida anche nell’immediato dopoguerra, a proposito del governo del Generale
Charles de Gaulle. Kojève, infatti, capisce da subito che, con la situazione politica
mondiale che si era delineata alla fine della guerra nel 1945, spostare il peso politico
sull’Autorità del Padre significava condannare la Francia ad un destino
“nazionale”244
ormai anacronistico rispetto ad una Storia che andava verso la
formazione di Imperi. Tale aspetto è così commentato ne L’empire latin:
241
Ivi, p. 118. 242
“Nazionale” qui nel senso di “finalizzata al soddisfacimento degli interessi del popolo francese”,
interessi ancora “storico-umani”, dunque di autonomia, libertà, indipendenza, “grandezza”. 243
A. Kojève, La nozione di autorità, p. 118. 244
Qui “nazionale” va inteso nel senso che abbiamo già visto ne L’empire latin, ovvero come un
capriccioso radicarsi in un passato “fatto di confini”, ormai divenuto inefficace.
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90
Il fattore positivo decisivo è senza alcun dubbio la presenza del generale de Gaulle.
L’idea latina è soltanto una concretizzazione della volontà francese di autonomia
politica e di «grandezza». Questa volontà si manifesta innegabilmente in ogni
parola e in ogni atto dell’attuale capo del governo. Purtroppo, almeno sino ad ora, la
volontà politica di questo capo, è più rivolta all’esaltazione di un passato [=
Autorità del Padre], peraltro attraente e glorioso, che alla creazione di un avvenire
incerto, forse, ma politicamente efficace. In ultima analisi, l’alta volontà politica
incarnata da de Gaulle è messa al servizio di un’utopia anacronistica […].245
In un tale contesto [per il Kojève di allora, ancora] Storico, tanto quello del
secondo dopoguerra quanto quello del periodo del regime di Vichy, l’Autorità più
importante sarebbe dovuta essere, di conseguenza, l’Autorità del Capo. Il problema è
che, tornando a parlare specificamente del 1942, «l’Autorità del Capo, che dovrebbe
essere la più forte, ha il “supporto” più debole di tutti»246
: Pierre Laval, un fervido
sostenitore di Adolf Hitler. Se Pétain non è più il “supporto” di una tale Autorità è
perché egli è restato un semplice ideale politico e non l’incarnazione di un’idea.
Questo significa che, come abbiamo visto, il Maresciallo, pur godendo, agli occhi dei
francesi, di un’Autorità totale, non ha mai esplicato un programma politico efficace,
condannando la Francia ad una stasi critica. La soluzione – osserva Kojève – sta,
allora, almeno nel fingere di avere un “programma” al semplice scopo di poter
condurre (come Capo) una “Rivoluzione nazionale”. Essa non è nient’altro che il
coinvolgimento dell’intera Nazione francese in una Rivoluzione politica animata da
un’idea rivoluzionaria, che si instauri nel Presente ma in direzione di un’Avvenire
che deve necessariamente prescindere non dal Passato in sé ma dal fatto che esso
determini “automaticamente” quel Presente che ora va cambiato.
245
A. Kojève, L’impero latino, p. 199. 246
A. Kojève, La nozione di autorità, p. 119.
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91
CONCLUSIONI
Sì, ma il fatto è che a quell’epoca avevo letto Hegel, però
non avevo ancora capito davvero che la storia era finita.
Adesso invece…
(Intervista del 1968 a Alexandre Kojève di Gilles Lapouge)
Abbiamo così portato a termine anche l’analisi de La notion de l’autorité, un testo
densissimo e meno noto e dibattuto rispetto ai “classici” kojèviani, che meriterebbe
sicuramente studi più approfonditi. Ora però, è giunto il momento di trarre le
conclusioni del discorso che ho affrontato nei due lunghi capitoli precedenti.
Ciò su cui ho voluto porre l’accento è innanzitutto il parallelismo, in Kojève
interprete hegeliano, tra la Storia e la Politica. Nessuna delle due sussiste senza
l’altra. È la Politica che fa la Storia, il che detto in altri termini significa che la Storia
è la storia delle decisioni importanti, delle guerre di conquista, delle rivoluzioni
sanguinarie, dei grandi ideali. È tutto questo, come abbiamo detto più volte, a dare
all’animale della specie Homo sapiens il suo carattere specificamente Umano, e solo
nel momento in cui possiamo scrivere “Uomo” con la U maiuscola, in quel momento
c’è Storia. L’apocalisse, per Kojève, la fine dell’Uomo, non è una catastrofe naturale,
ma è una catastrofe storica, “spirituale”. Non abbiamo più un Senso da inseguire, non
c’è più alcun tesoro da cercare, un mistero da svelare, un Ideale da realizzare, una
donna da amare. Riadattando una celebre figura nietzscheana (laddove Nietzsche e
Heidegger sono state due influenze centrali nel pensiero del russo-francese), è come
se qualsiasi orizzonte fosse stato cancellato, è come se l’arcobaleno fosse stato
raggiunto e la pentola d’oro che giaceva alla sua base, sogno di mille avventurieri,
fosse diventata semplice mezzo di sostentamento economico. Proprio la celebre
favola della pentola d’oro ci aiuta a capire cosa intendesse Kojève: alla fine della
Storia, la Politica, da sempre alla ricerca di quella pentola d’oro, si trasforma in mera
Amministrazione (“distributiva”) dell’oro in essa trovato.
La Politica e il suo autentico esercizio, quello che prescinde dall’utilizzo della
forza “bruta”, ovvero il fenomeno dell’Autorità, sono il vero motore della Storia, e
non solo per quel che riguarda i grandi eventi ma anche (e soprattutto) in merito alle
relazioni intersoggettive, nei rapporti lavorativi ad esempio, in quello che è (stato?) il
lento lavorìo quotidiano dello Spirito. L’importante, in fondo, è che ci sia
Movimento. E alla fine della Storia, il movimento non sparisce ma si trasforma in
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92
quel traffico congestionato che diventa l’habitat naturale di un uomo ormai solo
“biologico-tecnologicamente” tale.
Ho cercato di mettere in evidenza questi pochi concetti all’interno di testi più o
meno conosciuti di Kojève, ma soprattutto sottolineando come il percorso del suo
pensiero non presenti quasi mai coerenze interpretative. Kojève, in sostanza, cambia
spesso opinione e questo rende qualsiasi studio “sistematico” su di lui, uno studio
estremamente difficile da affrontare e portare a termine. Abbiamo visto, infatti,
come, nel corso degli anni, gli eventi storici e gli avvenimenti che, più
semplicemente, hanno caratterizzato la sua vita, abbiano coinciso con successivi
cambiamenti nel suo modo di vedere le cose. Kojève è dunque un pensatore
“discontinuo” e tale discontinuità è innegabile se si mettono in relazione La notion de
l’autorité, L’empire latin, Tirannide e saggezza e la Nota a Introduction à la lecture
de Hegel del 1946, con l’Aggiunta del 1968 a quella stessa Nota, o con il Carteggio
che, nella seconda metà degli anni Cinquanta, Kojève ha intrattenuto con Carl
Schmitt. Differenze di opinione possono essere riscontrate anche tra gli scritti pre-
bellici e quelli immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, ma è nel
corso degli anni Cinquanta che si assiste ad una vera e propria cesura: un Kojève
ancora in attesa della fine della Storia, ovvero della realizzazione (magari staliniana)
di quello Stato universale e omogeneo che lui assimilava perfettamente alla Società
comunista descritta da Karl Marx, retrodata i fuochi d’artificio che concludono
quella festa che “fu” la Storia al 1806, all’anno dell’ingresso trionfante di Napoleone
a Jena e, di conseguenza, della stesura della Fenomenologia dello spirito di G.W.F.
Hegel. Ciò che è venuto dopo, le lotte di liberazione, le rivoluzioni, persino due
guerre mondiali, non sono state niente di essenzialmente Storico, ma la semplice
uniformazione del mondo intero ad un Concetto già realizzatosi, quello di Libertà.
Fin qui tutto bene. Il problema è che nel momento in cui la Libertà cessa di creare
Movimento, nel momento in cui tutto tace e a parlare sono solo i clacson, nel
momento in cui la Libertà non è più un Ideale da conquistare, non è più una dea
dell’Olimpo, non è più – per intenderci – il Primo motore immobile aristotelico, lì
essa, divenuta qualcosa di “banalmente dovuto”, degenera e assume le sembianze
non più antropomorfe ma animali dell’American way of life.
Ora, dalla Francia, in cui risiedeva Kojève durante e dopo la Guerra, la visione del
mondo non poteva che derivare dall’assunzione di una prospettiva immobile. Ne
consegue che, in quegli anni, il punto di vista di Kojève era il punto di vista di una
Francia in crisi, indebolita prima dal nazismo e poi schiacciata tra due Imperi
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completamente agli antipodi e, per ciò stesso, in costante lotta tra loro. Fu il suo
accesso, come consigliere, alle alte cariche dello Stato a fargli cambiare opinione nel
merito. Fin dal 1945 ottenne un posto di lavoro nell’organo del Ministero degli Esteri
chiamato DREE (Direction des Relations économiques extérieures) al tempo
presieduto dal suo amico, nonché vecchio allievo, Robert Marjolin. Le abilità
dialettiche del russo-francese gli fecero guadagnare subito posizioni all’interno del
gabinetto statale, finché arrivò a ricoprire il ruolo, estraneo ad ogni gerarchia, di
consigliere segreto, ruolo che svolse anche a fianco del successore di Marjolin,
Bernard Clappier. Questo compito lo spinse, sempre più spesso e soprattutto nel
corso degli anni Cinquanta, a viaggiare, a spostarsi dalla Francia, accompagnando le
istituzioni nelle loro molteplici visite diplomatiche in giro per l’Europa e per il
mondo. Il punto di vista di Kojève può essere in questo modo arricchito da punti di
osservazione diversi tra loro, da un’esperienza sul campo. E vedendo da vicino ciò
che accadeva nei vari angoli del mondo, visitando più volte USA e URSS, si rese
conto del fatto che quelli che sembravano “angoli”, in realtà, si sono smussati a
formare un’unica, omogenea, “sfera”. Il modo di vivere, di pensare, di agire, dei
politici sovietici non era in nulla diverso dal modo di vivere, di pensare, di agire, dei
politici statunitensi. In fondo, dice Kojève, al di là della contrapposizione ideologica,
fittizia, “di facciata”, «tutti vogliono la stessa cosa, cioè niente»247
.
Da questa condizione “antropologica” non c’è una via d’uscita, e qualsiasi pratica
ascetica in tale direzione finisce con un risibile buco nell’acqua. La soluzione,
quindi, non è scappare bensì ridere! La “consapevolezza” del Saggio e la “formalità”
del Giapponese, hanno in comune, per Kojève, l’ineguagliabile dono di non
prendersi troppo sul serio, di vivere autenticamente senza più elevate pretese. Oggi,
nel definirsi “uomini” (liberi) non si fa altro che riaffermare la propria “animalità”.
Per cercare di esserlo davvero, infatti, occorre uno sforzo di ironia, un fingersi ancora
“uomini”, lo snobismo. Solo questo lascerebbe aperto uno spiraglio per un futuro
ritorno del Desiderio essenzialmente Umano, in una qualche forma a noi ancora del
tutto ignota e inimmaginabile. Per questo, secondo me, l’impegno di Kojève (e
soprattutto del “secondo” Kojève) nelle istituzioni non è un impegno propriamente
247
Da un punto di vista a posteriori, però, possiamo vedere la sua azione diplomatico-politica di
quegli anni come un tentativo costante di tessere le fila di un’Europa unita, prima intorno all’acciaio e
al carbone, ma in vista della costituzione di un Impero che avrebbe potuto valere come unico
frangiflutti reale ed efficace al confronto-incontro tra i due Imperi già esistenti, l’anglosassone ed il
sino-sovietico. Al di là del discorso sulla fine della Storia, quindi, Kojève continua, volente o nolente,
ad Agire (con la A maiuscola) per la sopravvivenza politica dell’Europa, al fine di salvaguardarne gli
interessi economici e le peculiarità socio-culturali.
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politico, e tantomeno è finalizzato ad una comprensione filosofica: si tratta piuttosto
della volontà di non essere semplicemente parte passiva del processo di
omologazione che lui definiva “allineamento delle province”, ma esserne
protagonista attivo. Il Consumismo, il Conformismo, la Globalizzazione, erano
processi che, al tempo appena iniziati, risultavano evidenti agli occhi di Kojève. Il
fiume in piena che li rappresenta non è un qualcosa da cui è possibile fuggire.
L’Uomo che vuole, però, ancora sentirsi tale non può che (deleuzeanamente)
prendere una tavola da surf e cavalcarne l’onda.
Siamo così giunti alla fine di questo lavoro. Il mio obiettivo non è quello di
difendere la tesi tardo-kojèviana per cui la Storia sarebbe finita con Hegel e
Napoleone. Ma non voglio sostenere neanche la tesi del “primo” Kojève per cui la
fine della Storia sarebbe stata imminente. Nell’affrontare uno studio su Kojève, non
era mia intenzione difenderlo contro tutte le accuse postume, come un cavaliere
difende la sua dama. Rifuggo, personalmente, il fanatismo filosofico. Il motivo che,
dunque, mi ha spinto ad una tale analisi del pensiero kojèviano non è stato cercare di
capire se e quando la Storia fosse finita, ma capire cosa intendesse Kojève con tale
“fine” e tentare di definirla come una originale prospettiva ermeneutica. Il lascito di
Kojève al pensiero del Novecento, secondo me, non sta tanto nei suoi (pochi!) testi o
nelle sue elucubrazioni intellettualistiche, quanto piuttosto nell’averci fornito un
criterio – potremmo dire “metodologico” – per interpretare il mondo e l’uomo. Un
criterio consono all’epoca in cui viviamo e finalizzato non tanto a prevedere come
sarà il mondo del futuro, quanto piuttosto ad avere una corretta consapevolezza del
nostro presente. Una consapevolezza che è in attesa di un Desiderio a venire, una
consapevolezza ironica in grado di vedere come dietro ogni serissima affermazione
della propria “Umanità” c’è il capriccio balbettato di un individuo della specie
animale Homo sapiens a cui tutto è dovuto, poiché quel tutto è ormai inessenziale.
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BIBLIOGRAFIA
Fonti primarie:
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lettura di Hegel – tenute dal 1933 al 1939 all’École Pratique des Hautes Études
raccolte e…, a cura di G. Frigo, Adelphi, Milano 1996.
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(27 août 1945), in “La règle du Jeu”, n. 1, 1990; trad. it. L’impero latino. Progetto di
una dottrina della politica francese (27 agosto 1945), su Il silenzio della tirannide, a
cura di A. Gnoli, Adelphi, Milano 2004.
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di autorità, Adelphi, Milano 2011.
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Vegetti Matteo, Hegel e i confini dell’Occidente. La fenomenologia nelle
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Vegetti Matteo, Il sapere del servo. Desiderio, riconoscimento e comunismo tra
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http://www.desiderioefilosofia.com/, 2009.
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RINGRAZIAMENTI
In conclusione, i ringraziamenti di rito.
Ringrazio Francesca. Per l’amore, la vicinanza nei momenti più belli, gli abbracci
nei momenti più brutti. È grazie alla sua presenza che non mi sono sentito mai solo, è
grazie a lei che ce l’ho fatta. La ringrazio anche perché, senza la sua lettura veloce e
le sue strigliate, oggi avrei ancora da sostenere molti esami.
Ringrazio mia sorella Francesca. Come tutti i fratelli, facciamo finta di starci
antipatici l’un l’altro. In realtà credo che il bene che un fratello maggiore vuole a sua
sorella minore sia uno dei sentimenti più forti e belli del mondo. Non sono sicuro che
per lei sia la stessa cosa! (Scherzo, ogni volta che torno a casa, le brillano gli occhi
dalla gioia…).
Ringrazio tutti i miei nonni. Mi hanno cresciuto, mi hanno aiutato, mi hanno
sempre incoraggiato (con lodi francamente esagerate). A loro devo le mie origini, la
mia educazione, i miei splendidi genitori…e un sacco di soldi.
Ringrazio tutti i miei zii e tutti i miei cugini, i miei padrini e gli amici di famiglia.
Sinceramente sono stato fortunatissimo: nella categoria in questione, non credo esista
un assortimento migliore. Intelligenti, sprint (anche se con acciacchi), simpatici,
amorevoli e sempre disponibili.
Ringrazio gli amici di una vita, perché fanno indissolubilmente parte di questa
stessa vita e non riuscirei ad immaginarmi senza di loro, benché spesso faccia finta di
ignorarli. Ringrazio i miei coinquilini e i nuovi amici, quelli di villa Mirafiori e quelli
della band: siete stati risate, conforto, consiglio e…altre risate.
Ringrazio il prof. De Fiore per l’infinita disponibilità, l’immensa pazienza e i
preziosi spunti di riflessione. Ringrazio tutti gli altri che hanno partecipato a questo
progetto di tesi, tra cui soprattutto Antonio Lucci: malgrado i molti impegni, mi ha
mandato una delle e-mail più lunghe e dettagliate che io abbia mai ricevuto. Lo
scambio di opinioni con lui è il 50% di questa tesi.
Ringrazio tutti, ma questo lavoro lo dedico a mio padre che ha disegnato dall’alto
il mio percorso e a mia madre che mi ci ha accompagnato tenendomi per mano.