MARC AUGÉ LA GUERRA DEI SOGNI ESERCIZI DI ETNO-FICTION elèuthera
MARC AUGÉ
LA GUERRA DEI SOGNI
ESERCIZI DI ETNO-FICTION
elèuthera
Titolo originale: La Guerre des rèves exercices d ’ethno-fiction
Traduzione dal francese di Adriana Soldati © 1997 Édilions du Seuil
Collection La Librairie du XX siècle, dirigée par Maurice Olender
© 1998 Editrice A coop. sezione Elèuthera Copertina: Gruppo Artigiano Ricerche Visive
INDICE
I. All’erta!II. Il punto della situazione: la percezione
dcll’allro oggiIII. La posta in gioco: sogno, mito, finzioneIV. Gli antecedenti: l’immagine e il sogno
colonizzatiV. Il teatro delle operazioni: dall’immaginario
al «completamente finzionale»VI. Ordine del giorno
...sofiemos, alma, sohemos otra vez; pero ha de ser con atención y consejo
de que hemos de despertar de este gusto al mejor tiempo...
...sogniamo, anima mia, sogniamo ancora una volta.
Ma questa volta lo farò con il pensiero e l’avvertenza
che da questo piacere dovrò ridestarmi nel momento migliore...
Pcdro Calderón de la Barca La vita è sogno
[atto terzo, scena terza)
ALL’ERTA!
I
The Invaders era il titolo di una serie televisiva americana dell’epoca della guerra fredda. Il suo eroe, David Vincent, aveva assistito una notte allo sbarco di extraterrestri e scoperto il loro segreto; questo momento fondatore veniva ricordato all’inizio di ogni episodio. Gli invasori intendevano appunto impadronirsi del nostro pianeta grazie ad una strategia di sostituzione: prendevano il posto degli umani che facevano sparire; anche se credo di ricordare che un dettaglio rivelatore permettesse a volte agli esperti, e in primo luogo a David Vincent, di distinguere le copie dagli originali: per un’incomprensibile défaillan ce della tecnica extraterrestre, il mignolo della mano sini stra di questi sostituti umani restava stranamente rigido. Questi cloni venuti da un «altrove» possedevano inoltre ogni informazione necessaria sulla politica e la scienza dei
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terrestri (o comunque su quelle degli Stati Uniti, ma la tesi generale della serie sembrava sottintendere che questi rappresentassero la quintessenza e insieme la totalità delle civiltà umane) e sugli individui di cui rivestivano le sembianze fisiche e riproducevano i tratti del carattere. Questa strategia di sostituzione poneva innumerevoli problemi a David Vincent perché egli si trovava a scontrarsi con il generale scetticismo di tutti quelli cui si rivolgeva per informarli del pericolo imminente, e allo stesso tempo perché non era mai completamente sicuro della loro identità. A volte gli capitava addirittura di smascherare uno dei suoi apparenti amici accorgendosi improvvisamente (sempre il mignolo!) che questi non era altro che un’illusione al servizio dell’invasione.
All’epoca era facile, e probabilmente giustificato, vedere in questa serie l’espressione di certi fantasmi americani e una denuncia metaforica (appena metaforica) della presenza comunista che dietro la maschera di studiosi, di artisti o di cittadini comuni apparentemente sani e patriottici, si pensava minacciasse e sovvertisse la libertà del mondo e la stabilità degli Stati Uniti. Ma la storia era avvincente e la solitudine del suo eroe, accresciuta ogni giorno di più dalla miopia degli uni e dalle bugie degli altri, aveva una dimensione incontestabilmente tragica. Eppure, ogni episodio si concludeva in maniera positiva: bisognava far continuare la serie, dunque David Vincent scampava miracolosamente alle situazioni più pericolose. Quanto agli extraterrestri, si rivelavano per fortuna vulnerabili all’azione delle primitive armi da fuoco umane, liquefacendosi e scomparendo quasi istantaneamente all’impatto con le pallottole. Come è noto, la presenza comunista doveva in seguito dimostrarsi altrettanto inconsistente.
Perché ricordare questa serie? Perché mi sembra possa simbolizzare, paradossalmente, un’altra invasione, generalizzata alla Terra intera, anche se in proporzioni ineguali, inavvertita da molti e sottovalutata da chi ne conosce l’esistenza. I suoi agenti hanno volti familiari, prestigiosio anodini. Crediamo di conoscerli mentre, molto spesso, ci limitiamo a riconoscerli («Non l’ho già vista da qualche
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parte alla TV?»). Questa invasione, come si sarà indovinato, è quella delle immagini; però, su scala molto più ampia, è il nuovo regime di finzione ad affliggere oggi la vita sociale, a contaminarla e a penetrarla al punto da farci dubitare di essa, della sua realtà, del suo senso e delle categorie (l’identità, l’alterità) che la costituiscono e la definiscono.
Senza aspirare alla stessa efficacia del già mitico eroe della serie americana, vorrei cercare anch’io di portare alla luce qualche traccia dell’invasione anonima di cui cominciamo a sentire gli effetti senza percepirne chiaramente le cause. 11 mio libro si propone dunque come un’indagine, e un’indagine antropologica.
Questa non sarà esaustiva. Si tratterà piuttosto di raggruppare alcuni fatti spesso percepiti isolatamente e di cominciare a proporne un significato. Si può deplorare il fatto che i bambini (e non pochi adulti) passino troppo tempo davanti alla televisione, ma si può anche relativizzare la portata di questa constatazione facendo notare che l’abuso alla lunga produce noia o che discutere insieme della trasmissione del giorno prima permette anche di creare socialità. Si può mostrare scetticismo o spaventarsi un po’ all’idea che si possano tessere degli idilli su Internet o che ci si abitui a dialogare con interlocutori senza volto, ma consolarsi all’idea che Internet, come anche il fax, salva il ruolo della scrittura. Si può di volta in volta e contraddittoriamente sorridere o rabbrividire davanti alle possibilità di turismo virtuale che verranno offerte dalle immagini tridim ensionali che presto invaderanno gli schermi dei computer, ma dirsi che in fin dei conti non ci si può sempre lamentare e che la passione per le immagini non ha mai impedito a nessuno di andare a gironzolan' nelle realtà che esse riproducono. Ci si può stupire ili quell’uniformità di paesaggi e di punti di vista che corri sponde allo sviluppo delle grandi catene alberghiere, (li lle grandi reti autostradali o degli aeroporti intemazionali, del carattere artificiale dei parchi di divertimento, circense* ad uso dei nuovi piccolo borghesi del pianeta, ma rilnu'io allo stesso tempo che questi stereotipi sono il prezzo dii
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pagare per aprire il mondo ad un numero sempre maggiore di uomini. Si può... si possono fare m oltissim e cose, insomma, come interrogarsi, per esempio, sulla moda dei talk show televisivi, enunciare e denunciare, con più o meno rabbia, ironia, scetticismo o indulgenza, gli esempi di cattivo gusto soddisfatto e di disastro estetico che costellano la Terra o la crescente insularizzazione delle classi abbienti che si rinchiudono ogni giorno di più nelle loro case sotto sorveglianza elettronica, nelle loro cittadelle riservate, nelle loro spiagge private, roccheforti e torri d’avorio di una «globalizzazione» davvero paradossale. I rispettivi oggetti di queste diverse constatazioni possono suscitare il riso, il sorriso o il disgusto. Ma è solo quando si è identificato il sottile legame che corre d a ll’uno all’altro che può nascere l’inquietudine.
Ora, evidenziare questo legame è compito specifico dell’antropologia. L’antropologia sociale ha sempre avuto per oggetto, attraverso lo studio di diverse istituzioni o rappresentazioni, la relazione reciproca, o più esattamente i diversi tipi di relazioni che ogni cultura autorizza o impone rendendoli pensabili e gestibili, cioè simbolizzandoli e istituendoli. Aggiungiamo che le culture non sono mai piovute dal cielo, che le relazioni fra esseri umani sono sempre state il prodotto di una storia, di lotte, di rapporti di forza. La necessità che esse abbiano senso (senso sociale pensabile e gestibile) non le rende per questo delle necessità di natura, anche quando ne assumono l’aspetto.
Davanti alle apparenti evidenze di oggi e davanti all’evidenza, che le contraddice senza sopprimerle, di una crisi del senso - dei simboli e delle istituzioni - l’antropologia è, oseremmo dire per definizione, qualificata ad interrogarsi. E l’ipotesi da cui muove la ricerca dell’antropologo è che le diverse manifestazioni dell’attuale crisi abbiano qualche cosa in comune, che esse siano proprio dei sintomi, diversi ma associati, di una stessa aggressione.
Per condurre a buon fine la sua inchiesta e quantomeno per precisare la sua ipotesi, l’antropologo dispone di qualche mezzo. La tradizione etnografica occidentale si è interessata alle immagini, a quelle degli altri: ai loro sogni,
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alle loro allucinazioni, ai loro corpi posseduti. Ha osservato e analizzato il modo in cui queste immagini acquistavano tutto il loro senso all’interno di sistemi simbolici condivisi, la maniera in cui esse si riproducevano e a volte si modificavano attraverso l’attività rituale. L’antropologia si è interessata all’immaginario individuale, alla sua negoziazione perpetua con le immagini collettive e anche alla fabbricazione delle immagini o piuttosto degli oggetti (chiamati a volte «feticci») che si presentavano allo stesso tempo come produttori di immagini e di legame sociale. Gli antropologi, inoltre, hanno avuto l’occasione (a dire il vero, non hanno potuto evitarla) di osservare, attraverso situazioni dette pudicamente di «contatto culturale», comelo scontro fra immaginari accompagnasse l ’urto fra i popoli, le conquiste e le colonizzazioni, come le resistenze, i ripiegamenti, le speranze prendessero forma nell’immaginario dei vinti peraltro durevolmente intaccato e, in senso stretto, impressionato da quello dei vincitori.
Su questo terreno, l ’antropologo ha degli alleati, in primo luogo gli storici. Gli storici, e in particolare quelli che si inscrivono più o meno nettamente nella corrente detta dell’«antropologia storica», hanno puntato l’attenzione sull’azione condotta dalla Chiesa - nel corso di un «lungo Medio evo», secondo l’espressione di Jacques Le Goff - per modificare i sogni e rimodellare l’immaginazione di popolazioni impregnate di paganesimo che, peraltro, trovano ancora oggi risorse di senso e ragioni di vita nell’incanto mantenuto del loro mondo. Gli storici hanno avuto altri campi di indagine e gli antropologi devono essere riconoscenti verso coloro che, lavorando sul Messi co, l’America centrale e l’America meridionale, hanno potuto analizzare minuziosamente gli effetti complessi del lungo assalto condotto dalle immagini cristiane contro culture che assegnavano anch’esse un ruolo privilegialo all’immagine.
Nella sfera dell’immagine, della sua produzione, della sua ricezione, della sua influenza, del suo rapporto con il sogno, con la rèverie, con la creazione e la finzione, ò evi dente che anche altre discipline svolgono un ruolo CSNOn
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ziale. La psicanalisi, in ogni caso Freud, e la semiotica, soprattutto quando si presenta come un prolungamento d e ll’indagine psicanalitica , sono le alleate naturali dell’antropologia in questo campo.
Ho già accennato al «nuovo regime di finzione». Di fatto, non è solo l’immagine a essere messa in discussione dalla constatazione del cambiamento che siamo oggi invitati a definire. Più esattamente, sono le condizioni di circolazione fra l’immaginario individuale (per esempio il sogno), l’immaginario collettivo (per esempio il mito) e la finzione (letteraria o artistica, messa in immagine o no) che sono cambiate. È appunto perché le condizioni di circolazione fra questi diversi poli sono cambiate che noi possiam o interrogarci di nuovo sullo statuto attuale deH’immaginario. Possiamo infatti affrontare la questione della minaccia che pesa sull’immaginario a causa della «finzionalizzazione» sistematica di cui il mondo è oggetto, dove questa stessa «messa in finzione» dipende da un rapporto di forze molto concreto, molto percettibile, i cui termini non sono però facili da identificare. Detto in breve, tutti noi abbiamo la sensazione di essere colonizzati, ma senza sapere precisamente da chi; il nemico non è facilmente identificabile. Azzarderemo inoltre l’ipotesi che questa sensazione sia presente oggi dappertutto sulla Terra, anche negli Stati Uniti.
Ciò che ci proponiamo di esprimere è dunque diverso dalla pura e semplice denuncia del cybermondo, che è oggi cosa corrente. Questa denuncia ha infatti i suoi profeti e i suoi critici, o i suoi scettici. Fra i «profeti», Paul Virilio ha insistito in più libri su diversi aspetti inquietanti delle tecnologie moderne che pongono la relazione con il mondo sotto il segno dell’istantaneità e dell’ubiquità, ma che provocano allo stesso tempo l’apparire di corpi umani solitari, immobili e irti di protesi, di città disurbanizzate e di società destoricizzate. Altri hanno fatto invece notare (penso ad un articolo di F rancis Archer su «Libération» del 22 maggio 1996) che non ci si è mai spostati tanto quanto oggi, che la socialità degli strati sociali medi si sviluppa, che i musei, i luoghi storici, i parchi di divertimen
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to conoscono un successo senza precedenti, che, in breve, bisogna diffidare delle previsioni apocalittiche dei profeti del virtuale.
Non entreremo qui in questo dibattito. In ogni caso non attraverso la stessa porta. Ogni profezia generalizzata a partire da un solo settore del sociale, anche quando si tratta di un settore sviluppatosi in modo tanto spettacolare quanto quello delle tecnologie della comunicazione, è evidentemente imprudente, perché necessariamente sottovaluta la pluralità e la complessità sociologiche dell’innovazione in un insieme planetario ancora ampiamente diversificato. All’opposto, la pacifica constatazione del fatto che «la vita continua», e che anzi è più attivamente culturale di ieri, è parziale e allo stesso tempo insufficiente: le realtà sociali sulle quali poggia questa constatazione vengono individuate nei Paesi o nelle classi più favorite, e devono essere analizzate in quanto tali. Forse sono proprio i modi di viaggiare, di guardare o di incontrarsi che sono cambiati, confermando così l’ipotesi secondo la quale il rapporto globale degli esseri umani con il reale si modifica per effetto delle rappresentazioni associate allo sviluppo delle tecnologie, alla planetarizzazione di certi obiettivi e all’accelerazione della storia. Ci accontenteremo in questa sede di richiamare una constatazione generale per ricordare una questione particolare. La constatazione generale è che tutte le società hanno vissuto dentro e attraverso un immaginario. Diciamo che ogni realtà sarebbe «allucinata» (oggetto di allucinazione per individui o gruppi) se non fosse simbolizzata, cioè collettivamente rappresentata. La questione particolare consiste nel sapere che cosa avviene del nostro rapporto con il reale quando cambiano le condizioni della simbolizzazione. Era il problema di David Vin cent ma, per sua sfortuna, nessuno dei suoi interlocutori gli dava atto della premessa, cioè del cambiamento di sim bologia o, se si vuole, di cosmologia. Lo si giudicava aliti cinato (vedeva extraterrestri dappertutto), mentre in renila stava assistendo all’instaurazione dell’ordine nuovo. I v i t i allucinati erano in effetti i suoi detrattori i quali, coni mi dendo realtà e apparenza, prendevano gli extraterrrsii i (tri
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buoni americani, lucciole per lanterne. Cercheremo a nostra volta di dare valore di sintomo ad un fenomeno paradossale: l’impotenza della simbolizzazione nello stesso momento in cui la planetarizzazione potrebbe darci al contrario l’impressione di aver fatto un «check up» delle cose, del mondo e degli esseri e di poter finalmente apprezzare le nostre interrelazioni in tutto il loro senso. Se la metafora medica si ricongiunge qui alla metafora guerriera, è perché il nemico è in noi, è già dentro, intra piuttosto che extra-terrestre; e perché le perversioni della nostra percezione, la difficoltà a stabilire e a pensare le relazioni (quello che a volte chiamiamo la crisi), provengono più da un’irregolarità del nostro sistema immunitario che da un’aggressione esterna. La nostra malattia è autoimmune, la nostra guerra è civile.
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II
IL PUNTO DELLA SITUAZIONE: LA PERCEZIONE DELL’ALTRO OGGI
L’epoca attuale vede amplificarsi un paradosso davvero notevole. Da un lato, sulla Terra agiscono potenti fattori di unificazione o di omogeneizzazione: l’economia, la tecnologia, sono ogni giorno più planetarie; accorpamenti aziendali vengono effettuati su scala mondiale; nuove forme di cooperazione economica e politica avvicinano gli Stati; le immagini e l’informazione circolano alla velocità della luce; alcuni tipi di consumo si diffondono sulla Terra intera. Dall'altro lato, vediamo invece imperi o federazio ni sfasciarsi, particolarismi imporsi, nazioni e culture rivendicare la propria esistenza singolare, differenze reli giose o etniche affermarsi con forza fino a un punto di mi tura che può condurre alla violenza omicida.
A questa constatazione se ne aggiungono almeno allic due: l’importanza dei movimenti migratori, che spicca
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l’ineguale situazione economica, demografica e politica dei diversi Paesi, e il dilagare del tessuto urbano, notevole in tutti i continenti. Così, il paradosso constatato sul piano globale (ovvero il coesistere dell’omogeneizzazione e dei particolarismi) si ritrova sul piano locale: i centri dello sviluppo economico e tecnologico che hanno per campo d’azione il pianeta nel suo insieme (un pianeta in questo senso uniformizzato, considerato come un mercato, una zona di espansione, un luogo di concorrenza o di partnership) sono in genere quelli in cui coesistono in modo più o meno spettacolare origini, lingue e culture diverse.
Questo miscuglio di unità e diversità appare tanto più sconcertante in quanto viene riprodotto e moltiplicato dai media che ne sono l’espressione e allo stesso tempo uno degli agenti. L’uso che siamo indotti a fare, a tal proposito, dei termini «spettacolo» e «sguardo» non ha niente di metaforico. È proprio il nostro sguardo, infatti, che si inquieta allo spettacolo di una cultura che si dissolve nelle citazioni, nelle copie e nei plagi, di un’identità che si perde nelle immagini e nei riflessi, di una storia che viene inghiottita dall’attualità e di un’attualità essa stessa indefinibile (moderna, postmoderna?) perché noi la percepiamo soltanto attraverso delle briciole, senza che alcun principio organizzatore ci permetta di dare un senso a quei flash, cliché e commenti sparsi che per noi rim piazzano la realtà.
Quale conseguenza può trame l’antropologo rispetto ai suoi oggetti empirici di investigazione e, più ancora, rispetto alla costruzione intellettuale del suo oggetto? La questione dell’alterità è qui centrale, lo è sempre stata per l’antropologia, quantunque oggi si lasci sdoppiare più nettamente: l’antropologo deve infatti identificare gli altri (quelli che studia) e interrogarsi sul loro rapporto con l’alterità, sulla maniera in cui essi stessi concepiscono il loro rapporto con gli altri, vicini e lontani. I termini di questo doppio modo di procedere sono cam biati: né l’identificazione degli «altri» da studiare né le concezioni dell’altro operanti nelle società contemporanee sono le stesse di inizio secolo. Ora, la questione dell’alterità rara
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mente viene posta come tale. Essa rappresenta piuttosto il nocciolo problem atico di nozioni apparentem ente più sociologiche e di uso molto più divulgativo quali le nozioni di identità, di cultura e di modernità. È sempre rispetto all’«altro» che si pone la questione dell’identità. Forse è proprio questa la ragione per la quale, all’inizio dei viaggi di avanscoperta, delle esplorazioni e dell’etnologia, non si è posta la questione dell’identificazione degli altri da studiare o da colonizzare. Per un Occidente che, sotto questo aspetto, non si interrogava sulle proprie alterità interne, erano «altri» tutti quelli che scopriva, che colonizzava e che osservava. Le potenze coloniali erano rivali e si scontravano a volte duramente. Ma avevano in comune di riconoscere l’alterità radicale di coloro a proposito dei quali si scontravano. Da questo punto di vista si potrebbe affermare che l’impresa coloniale nel suo insieme è stata per i Paesi europei l’occasione di una presa di coscienza identitaria: rivali fra loro, ma diversi dai Paesi che cercavano di asservire e convertire. Un filosofo come Leibniz li aveva peraltro invitati a fare pace fra loro e a dirigere l’offensiva verso gli altri continenti1. Venne ascoltato solo sul secondo punto.
Su scala etnologica, sarebbe possibile dimostrare che ogni attività rituale ha lo scopo di produrre identità attraverso il riconoscimento di alterità. I rituali della nascita, i rituali di iniziazione, i rituali funerari, mettono tutti in scena un «altro» (un antenato, delle generazioni, un dio o uno stregone) con il quale bisogna stabilire o ristabilire una relazione adeguata per assicurare lo statuto e l’esistenza dell’individuo o del gruppo. In un’ottica forse abusivamente funzionalista e durkheimiana alcuni etnologi si sono spinti fino a dire che la finalità esplicita del rito non è la sua vera finalità. Ma forse non è necessario negare il valore «performativo» del rito per riconoscere il suo vaio re «identificante». Anche in materia di rito, l’unione, e più ancora la coscienza dell’unione, fa la forza. Quelli clu\ attraverso la celebrazione di un rito, vogliono guarire un individuo o scongiurare un flagello, lo vogliono vera inni te, ma hanno bisogno, per farlo, di costruire un’islan/a <li
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riferimento esterna (altra) rispetto alla quale essi si identificano come uguali (interni e identici). Inoltre, una specializzazione rituale costituisce un fattore di identificazione e di riconoscimento per chi non vi è associato.
Si può dunque sostenere che l ’attiv ità rituale crea l’identità e non ne è soltanto la traduzione. Ho cominciato la mia carriera di etnologo in Costa d’Avorio presso un gruppo di una decina di migliaia di individui. La Costa d ’Avorio è famosa per il numero rilevante di etnie che la compongono e di lingue che vi sono parlate. Questi gruppi etnici sono spesso il risultato di mescolanze di popolazioni; alcuni osservatori hanno addirittura sostenuto che l’intervento coloniale in Costa d’Avorio ne abbia inaspritoi contorni e modificato la natura imponendo uno stesso nome e un’unica amministrazione ad insiemi eterogenei.
Il gruppo che studiavo aveva un nome (Alladian); parlava una stessa lingua e comprendeva quella di alcuni gruppi vicini, ma non di tutti. Le storie di fondazione dei villaggi e dell’installazione dei sotto-gruppi non dissimulavano l’eterogeneità del popolamento, anche se alle diverse migrazioni era assegnato un punto di partenza comune, come istanza storica esterna e in qualche modo condivisa; non era riconosciuta alcuna autorità politica comune prima che le autorità coloniali creassero un capo cantone, la cui giurisdizione coincideva pressappoco con quella dei villaggi «alladian», e prima che le autorità nazionali, alla fine degli anni Sessanta, creassero un capo supremo degli Alladian, senza alcun precedente storico, ma zio di una personalità politica importante.
A questa diversità si aggiungeva quella che si potrebbe chiamare una diversità etnica interna. Gli Alladian vivevano in effetti fra mare e laguna ad un centinaio di chilometri da Abidjan. A partire dal XV I secolo avevano monopolizzato il commercio con gli europei. I grandi lignaggi mercantili assicuravano la vendita agli europei di numerosi prodotti interni (in particolare, nella seconda metà del X IX secolo, l’olio di palma) e, in senso inverso, vendevano all’interno il sale marino e i manufatti europei. La loro ricchezza si era tradotta nell’acquisto di molti schiavi origi
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nari del centro e del nord. In questa società matrilineare l’acquisizione massiccia di donne comprate o aventi dote assicurava ai notabili alladian una discendenza agnatica sulla quale avevano gli stessi diritti che sulla discendenza uterina. Questo movimento di integrazione e di riproduzione si è accentuato nel XIX secolo, al punto che nessun lignaggio alladian può oggi pretendere a una qualsiasi «purezza» etnica.
L’unità alladian era dunque linguistica (senza traduzione politica), ma si esprimeva prima di tutto sul piano rituale: per esempio uno dei villaggi costieri di un importante lignaggio mercantile aveva il monopolio del culto dedicalo ad alcune divinità del mare. In occasione di certe feste, tutti i villaggi e i lignaggi alladian si facevano rappresentare, e questa riunione - il cui oggetto immediato era di propiziarsi le potenze marine per favorire la pesca e il commercio - forniva in modo evidente l’occasione per rinforzare le alleanze matrimoniali, per armonizzare le politiche commerciali, per scambiarsi le notizie, in breve per affermare ad intervalli regolari l’esigenza di una certa identità. A queste feste venivano a volte associati quelli che erano chiamati i «popoli dell’acqua», cioè quei gruppi etnolinguistici diversi che occupavano lo spazio lagunare e costiero vicino agli Alladian e che condividevano con loro alcuni interessi, a volte in modo antagonistico. Lo spazio rituale superava dunque le frontiere linguistiche. Oggi, in un contesto diverso, quello della Costa d ’Avorio presidenziale e indipendente, tende a manifestarsi una certa coscienza politica lagunare nei confronti di altri gruppi; e questa può favorire quell’integrazione nazionale che le pretese dei gruppi demograficamente molto più potenti potrebbero al contrario minacciare.
Non si dovrebbe però insistere troppo sull'importanza dell’attività rituale nell’elaborazione di identità relative (in questo caso particolare lignaggere, di villaggio, etniche <> regionali). Infatti essa funziona altrettanto bene nei rituali di integrazione degli schiavi di origine esterna, o nei l ilua li condivisi dai sotto-gruppi alladian e, a volte, da nini gruppi. Il legame sociale creato dal rito deve essere pensii
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bile (simbolizzato) e gestibile (istituito); in questo senso il rito è mediatore, creatore di mediazioni simboliche e istituzionali che permettono agli attori sociali di identificarsi ad altri e di distinguersene, insomma di stabilire mutual- mente dei legami di senso (di senso sociale).
Due osservazioni a questo riguardo: quando si produce un blocco rituale, un deficit simbolico, un indebolimento delle mediazioni - delle cosmologie o dei «corpi intermediari» di cui parlava Durkheim - cioè un’interruzione o un rallentamento della dialettica identità/alterità, appaiono i segni della violenza. Seconda osservazione: le nuove tecniche della comunicazione e dell’immagine rendono il rapporto con l’altro sempre più astratto. Ci si abitua a vedere di tutto, ma non è certo che si sappia ancora guardare. Aver sostituito i media alle mediazioni contiene in sé la possibilità di violenza. Ma lo sviluppo dei media e i cambiamenti che interessano la comunicazione e l’immagine sono cambiamenti quasi sempre presentati come culturali; è quindi normale interrogarsi sul ruolo della culturao dell’idea che si ha di essa nella storia più recente.
L’attualità più scottante è in effetti caratterizzata dal fatto che sono balzate in primo piano nozioni quali quelle di cultura e di religione. Direi che è sulla capacità dei movimenti detti «culturali» o «religiosi» di elaborare riti, cioè di rilanciare la dialettica identità/alterità, che è possibile misurare la loro capacità di influire sull’avvenire. È nota, per esempio, l’importanza dei movimenti religiosi che si sviluppano oggi in America centrale e in America del Sud. Alcuni fanno espressam ente allusione a una dimensione etnico-culturale, come la nuova «religione maya» del Guatemala. A proposito di movimenti di questo genere, l’importante, mi sembra, non è di interessarsi all’aspetto più o meno mitizzato o idealizzato del passato al quale si riferiscono, ma di misurare, nel presente, la loro capacità di creazione e di apertura. Il passato ricreato, è il grande Altro storico rispetto al quale può affermarsi una identità presente: la difficoltà, di ordine allo stesso tempo rituale e politico, risiede nella doppia e necessaria negoziazione con gli altri, prima di tutto quelli vicini
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(quelli che possono dirsi allo stesso titolo «maya»), ma anche con quelli più lontani (quelli che non rivendicano alcun passato indio). La difficoltà è reale, ed infatti abbiamo molti esempi di movimenti di resistenza etnico-cultu- rale che non sono riusciti a superare l’ambito della loro iniziale affermazione di singolarità.
Prima di proseguire, vorrei ricordare rapidamente due attuali conflitti detti «etnici», per sottolineare l’importanza della capacità rituale o simbolica di cui ho appena parlato. In un’intervista concessa al giornale «Le Monde», lo scrittore Yachar Kemal, di nazionalità turca, ha dichiarato: «Non penso che i Curdi pretenderebbero l’indipendenza, se ottenessero i loro diritti culturali»2.Yachar Kemal ha origini curde e turcomanne; nella sua infanzia ha ascoltato leggende curde e racconti di trovatori turcomanni. Si trova dunque in una situazione paradossale, poiché è stato condannato diverse volte dalla giustizia del suo Paese, benché neghi di essere un nazionalista curdo, e allo stesso tempo è lo scrittore più popolare della Turchia. Per Yachar Kemal c’è incompatibilità fra il feudalesimo, ancora presente fra i Curdi, e il nazionalismo; il nazionalismo è stato indotto dagli eccessi della politica repressiva dello Stato turco. L’identità curda potrebbe dunque conservarsi, secondo lui, all’interno di una Turchia veramente democratica: «Ci sono mille modi per aiutare la Turchia a diventare democratica, tramite discussioni, mediazioni, pressioni politiche». Yachar Kemal vede venire le pressioni politiche in particolare dall’Europa, e ciò che egli ci indica, attraverso il triplice riferimento all’esistenza di un’identità curda, alla necessità di un’apertura interna e al richiamo ad una dimensione europea, è proprio il carattere necessario e allo stesso tempo relativo della coppia identità/alterità. A proposito della cultura, che lo scrittore ha personalmente appreso nelle sue forme più letterarie e popolari, aggiunge: «[...] c ’è sempre un’interazione delle culture. Lévi-Strauss mi ha aiutato a capirlo». Probabilmente l ’autore fa qui allusione in modo particolare a Razza e storia, quel testo nel quale Lévi-Strauss spiega lo straordinario sviluppo dell’Europa rinascimentale con
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l’accoglienza che essa ha sapulo riservare alle tradizioni culturali più diverse e distanti.
Ricordiamo che l’ottimismo molto relativo di Yachar Kemal dipende dalla speranza di credere ancora possibile in Turchia l’instaurazione di un sistema di mediazione (parlerei volentieri, in questo caso, di ritualità democratica). Di un pessimismo ben più radicale dà invece prova l’antropologo e storico Georges Charachidzé a proposito dei Ceceni. In un intervento apparso sullo stesso numero di «Le Monde» constata che il rifiuto da parte del potere russo di negoziare con un popolo che intende eliminare è ben radicato nel tempo: «Già nel 1834 un funzionario della Russia imperiale scriveva: ‘La sola cosa da fare con questo popolo m alin tenzionato è di e lim inarlo fino all’ultimo uomo’. Boris Eltsin dichiarava recentemente: ‘Sono dei cani rabbiosi, bisogna abbatterli come cani rabbiosi’». Quanto al popolo ceceno, ci dice Charachidzé, si trova con le spalle al muro: «La sopravvivenza, per esso, si pone oggi in termini di nazione. Restare nella Russia, significa la certezza di sparire in quanto popolo». La Cecenia è proprio l’impossibile mediazione, la violenza obbligata3.
Qual è dunque il posto della cultura in questa storia fatta di negoziazioni o di violenze? Innanzi tutto, è evidente che la cultura non implica in sé alcun rifiuto e alcuna incompatibilità fino a che resta cultura, cioè creazione. Una cultura che si riproduce sempre tale e quale (una cultura da ghetto o da riserva) è un cancro sociologico, una condanna a morte, proprio come una lingua che non si parla più, che non mutua più elementi da altre lingue, che non inventa più, è una lingua morta. E dunque sempre abbastanza pericoloso voler difendere o proteggere le culture, e illusorio ricercarne la purezza perduta. Esse non hanno mai vissuto in altro modo che trasformandosi.
Detto ciò, ci si può interrogare sulle condizioni della loro trasformazione. Le culture vive sono ricettive alle influenze esterne; in un certo senso, tutte le culture sono state culture di contatto. Ma è quello che fanno di queste influenze che è interessante. A volte tendiamo a conside
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rare cultura ed etnia come riflessi l’una dell’altra, facendo dell’intangibilità della prima la condizione di esistenza della seconda. In questa prospettiva, ogni penetrazione dall’esterno è considerata come de-culturazione e ogni de- culturazione come de-socializzazione, perdita di identità. Se consideriamo al contrario che ogni cultura è viva, il contatto, lo sperimentare l’altro, sono piuttosto l’occasione di una verifica: quali sono le reazioni della cultura in contatto? Dà segni di vita o segni di debolezza? La risposta è spesso ambigua.
Ho avuto la fortuna di poter soggiornare a più riprese presso un gruppo pumé-yaruro del Venezuela, non lontano dalla frontiera colombiana. Una delle mie studentesse, Gemma Orobitg, soggiornava e lavorava con gli indios, collaborando con alcuni colleghi venezuelani. I Pumé sono interessanti sotto diversi aspetti, ma qui citerò soltanto due caratteristiche della loro attuale esistenza. Conducono una vita miserabile relegati come sono, sotto la pressione degli allevatori criollos, in settori della pianura poco fertili e poveri di selvaggina. Scarsamente assistiti, vivono in un grande isolamento. Hanno sempre resistito alla predicazione cristiana e ancora oggi svolgono una intensa attività rituale ed onirica, in particolare in occasione di una cerimonia celebrata diverse notti alla settimana, il tóhe, che li raduna intorno ad uno sciamano-cantore, in spagnolo cantador. Per i Pumé, uno stesso individuo può riunire diverse personalità distinte, dette pumetho. A possedere diversi pumetho sono ovviamente gli individui più potenti e prestigiosi. Lo sciamano, il cui corpo insieme a uno dei pumetho, una delle personalità, restano presenti durante tutta la cerimonia, nello stesso tempo compie un viaggio nel m ondo degli dei con un altro dei suoi pumetho, un’altra delle sue personalità, per recuperarvi dei Pumé malati, incontrare degli antenati o parlare agli dei. Mentre viaggia, nel villaggio si svolge il tòhe e, verso mezzanotte, uno degli dei scende, si avvicina al cantador e, si dice, canta al suo posto (quando la voce dello sciamano-cantore diventa più bella e più forte, si dice che sono gli dei che cantano). Questa quasi-possessione, questa
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possessione vocale, fa da pendant al viaggio, al sogno da svegli dello sciamano. Ma se la possessione deve essere dimenticata, il sogno va invece ricordato; Gemma Orobitg ha raccolto infatti molti racconti (qualcuno in mia presenza) di viaggi sciamanici o di sogni nel senso corrente del termine. Ecco il fatto straordinario: i Pumé hanno sempre una buona conoscenza della loro mitologia, fanno ritratti molto vividi dei loro dei, e i loro sogni sono ricchi; tuttavia, nei loro racconti ciò che impressiona è l’influenza dell’estemo, delle immagini dell’estemo. Il mondo degli dei viene descritto come una città ipermodema nella quale circolano automobili o aereoplani silenziosi, automatizzati; i beni di consumo sono sovrabbondanti, le strade larghe e ben illuminate, gli edifici alti e luminosi. Il mondo degli dei è insomma una visione trasfigurata di Caracas. Ma al villaggio, soltanto due Pumé hanno visto rapidamente Caracas in occasione di uno spostamento dovuto a motivi di salute; per gli altri, qualche foto di giornale, qualche eco di una radio a transistor, il passaggio, di quando in quando, di un’automobile o di un canotto a motore, la traccia di un aereoplano nel cielo sono bastati a nutrire i sogni e l’immaginario. Mi sembra però che sia proprio per questa ragione che si può definire viva la loro mitologia. Le mitologie parlano certamente delle origini, ma vengono citate, utilizzate, esplorate e re-immaginate per rispondere alle questioni del presente. La capacità della mitologia pumé di integrare tutto ciò che i Pumé possono immaginare di un mondo che paradossalmente sfugge loro quanto più lo sentono ogni giorno meno lontano (per esempio al momento delle tournée elettorali del candidato governatore), è un segno di vitalità, di sensibilità verso l’ambiente globale.
La mitologia non è che una parte della cultura. Ma quella parte resiste bene. Ciò non toglie che i Pumé stiano per scomparire come gruppo. Eppure essi definiscono la loro identità come sociale e culturale, e sembrano non attribuire alcuna importanza al fatto che molti di loro sono meticci (molti Pumé sono stati uccisi e molte donne pumé violentate nel corso del secolo). In un certo senso è il tòhe
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che fa il Pumé. Ma la demografia dei Pumé è fragile; alcuni se ne sono andati nei sobborghi urbani dove hanno scoperto un’altra miseria. Quelli che restano sono coscienti di questa minaccia di estinzione e la esprimono a modo loro, nel linguaggio della mitologia, constatando che gli dei si allontanano e scendono a visitarli meno frequentemente. Si potrebbe dunque dire simultaneamente che la loro cultura è viva (almeno sotto l’aspetto del mito e del rituale) ma che la loro identità si sfalda. Perché se hanno sempre meno interlocutori sul piano culturale, non ne hanno del tutto sul piano sociale.
Forse assistiamo in questo caso a un processo in qualche misura inverso a quello che si è prodotto in Messico con la predicazione e la colonizzazione cattoliche. Serge Gruzinski ha analizzato bene le condizioni nelle quali gli ordini mendicanti prima e poi i gesuiti hanno cercato di colonizzare fin dal XV I secolo l’immaginario indio proprio sul terreno delle visioni. Le visioni indie riproducevano i codici pittografici. La visione cristiana era anch’essa legata alla pittura, ma ad una pittura molto diversa, antropomorfa e fondata sulla rassomiglianza. Venne così organizzata una strategia dell’immagine e della visione. Gruzinski4 fa notare come l’insegnamento della pittura, dell’incisione, della scultura agli indios e la diffusione di un teatro ispirato ai misteri medievali mostrino il ruolo accordato all’immagine dagli ordini mendicanti nelle campagne di evangelizzazione, preparando in questo modo le condizioni dell’esperienza visionaria condotta dai gesuiti in epoca barocca. Il cattolicesimo che si è sviluppato vicino al Messico, come quello delle Ande, è stato una creazione in larga misura originale e, sotto questo aspetto, una riaffermazione d’identità. Naturalmente, il tipo di colonizzazione, i dati demografici, in breve il contesto storico in senso lato svolgono qui un ruolo importante. Ma si può quantomeno dire che modificazioni culturali rilevanti non sono incompatibili con una forte affermazione identitaria.
È ciò che Georges Balandier aveva fatto notare già tanto tempo fa commentando le analisi di S.F. SundklcrV Quest’ultimo, fra le Chiese nere che si erano costituite in
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reazione alla presenza bianca e cristiana nella parte 'meridionale dell’Africa, aveva distinto due tipi: il tipo che chiamava «sionista» cercava di mantenere ò di resuscitare le pratiche tradizionali, in particolare terapeutiche, e affermava la specificità delle forme africane di religione. Le Chiese di tipo «etiope», notava l’autore, erano invece molto più segnate dal cristianesimo e limitavano i riferimenti alla tradizione. Allo stesso tempo erano meglio tollerate dalle autorità ufficiali, ma proprio per questo, osservava Balandier, hanno anche fornito il luogo di formazione ideale per i futuri leader del nazionalism o bantu. Un’affermazione identitaria potente si è dunque appoggiata in questo contesto proprio su un considerevole cambiamento culturale.
Ma se non c ’è una correlazione necessaria fra cambiamento culturale e affermazione identitaria, bisogna però ricordare che entrambe sono delle costruzioni, dei processi, e questo contro una rappresentazione sostanziali sta e rigida dell’identità e della cultura che sarebbe la sola a poterle mettere totalmente in controluce. Non esiste affermazione identitaria senza ridefinizione dei rapporti di alterità, e non c ’è cultura che viva senza creazione culturale. Lo stesso riferimento al passato è un atto di creazione e, se vogliamo, di mobilitazione.
Il carattere affascinante di quello che chiameremo, in modo un po’ sbrigativo, la colonizzazione gesuita, è che questa passa per l’immagine. Due potenti immaginari si affrontano e scendono a patti. Ma si affrontano sul terreno della pratica. Le immagini cattoliche non vengono semplicemente accolte dagli indios: diventano oggetto di adattamento, creazione e ri-creazione attraverso la pittura e la scultura. Appare una nuova arte india che non si confonde con quella degli spagnoli. Oggi la circolazione delle immagini è prodigiosa, ma è improbabile che autorizzi rielaborazioni comparabili a quelle dell’epoca barocca, perché esse vengono recepite attraverso schermi, in modo più passivo e più solitario.
Il xix secolo europeo, che prolunga il secolo dei Lumi e il suo ideale di modernità, è quello in cui si è visto fiori
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re in modo non contraddittorio l ’idea di individuo, il rispetto del colore locale caro ai romantici e i nazionalismi. La liberazione dei popoli e quella degli individui non venivano pensate contraddittoriamente, non più che il rispetto delle tradizioni o delle culture locali e l’idea di progresso. Nella prima poesia dei suoi Tableaux parisiens, Baudelaire ricorda il coesistere nel paesaggio parigino di ciminiere di fabbriche e di campanili di chiese, del mondo di domani e di quello di ieri che fanno, insieme, quello di oggi. Il mondo moderno è quello dell’accumulazione.
Tutto ciò non è privo di contraddizioni; non è così semplice voler promuovere un individuo sovrano e autonomo in un mondo «disincantato» e contemporaneamente il rispetto delle diversità nazionali e regionali. La contraddizione esplode sia nella politica coloniale del xix e X X secolo, che per esempio esalta le culture africane, anche quando le riduce a folklore, ma poi non considera gli africani cittadini a pieno diritto, sia nelle politiche nazionali, che per esempio in Francia riconoscono ad ognuno i suoi diritti di cittadino, ma si oppongono aU’affermazionc troppo pronunciata del particolarismo (come per le lingue regionali). La contraddizione verrà sciolta soltanto, ma in modo mostruoso, neU’apocalisse nazista che inventa contemporaneamente una razza pura e una razza da eliminare, e che mitizza l’idea di individuo proiettandola sulla figura del duce, del fiihrer.
Nessuna delle difficoltà, nessuna delle vertigini della prima metà del X X secolo sono oggi totalmente assenti dal nostro orizzonte. Ma, mentre in alcune parti del mondo si sta ancora faticosamente costruendo la modernità, essa viene superata su tutta la superficie del pianeta da potenti movimenti di accelerazione e di eccesso. Lo sviluppo senza precedenti dei mezzi di informazione ci dà la sensazione che la storia acceleri. Lo sviluppo dei mezzi di trasporto e di comunicazione ci dà la sensazione che il pianeta si restringa. E nella misura in cui ognuno è direttamente interpellato da ll’informazione e da ll’immagine, nella misura in cui i media si sostituiscono alle mediazioni, i riferimenti si individualizzano o si singolarizzano: ad
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ognuno la sua cosmologia ma, anche, ad ognuno la sua solitudine. Questo movimento, che ho proposto di chiamare surmodemo perché mi è sembrato derivare dall’imbal- larsi dei processi costitutivi della modernità6, è presente ovunque, anche se in modo ineguale, anche se i settori della surmodernità sono rappresentati in modo ineguale nei diversi Paesi del mondo. Bisognerebbe inoltre aggiungere (ed è ciò che alimenta i timori di Paul Virilio) che l’idea stessa di frontiera di Stato viene messa in discussione dall’accelerazione surmoderna. La logica di alcune imprese e di qualche megalopoli nel mondo non ha più niente a che vedere con l’ambito nazionale.
Che cosa potremmo concluderne per quanto riguarda il nostro discorso?
Alcuni, seguendo McLuhan, hanno voluto vedere nell’evoluzione accelerata in corso la prefigurazione di un villaggio globale, progressivamente uniformizzato sul modello degli Stati Uniti. Altri, come i colleghi americani della corrente detta «postmoderna», hanno insistito, al contrario, sull’ampiezza delle rivendicazioni culturali particolari, sulla polifonia culturale che si fa intendere oggi. In un certo senso hanno tutti ragione, mi sembra. Ma non si può misurare l’ampiezza di ognuno di questi movimenti se non considerando che fanno parte di uno stesso fenomeno (da qui l’importanza del terzo criterio di surmodernità: l’individualità, la singolarità).
Lo sviluppo tecnologico e la mondializzazione dell’economia possono addirittura ostacolare il movimento di modernizzazione all’opera in certi Paesi, cortocircuitando la modernità e facilitando la comparsa di un settore sovra- sviluppato isolato da altre componenti della locale realtà nazionale (di conseguenza escluse o almeno emarginate) e in relazione diretta con i suoi omologhi in altri Paesi; possono insomma creare nuove frontiere e cancellarne altre. Possono inoltre favorire la circolazione di immagini da consumare passivamente, cosa che rappresenta un potente fattore di disgregazione collettiva e di alienazione individuale. Suggerirò qui, calcando un po’, che una delle grandi divisioni del mondo attuale, identificabile nello spazio
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urbano, è quella che contrappone, in alcune città, i quartieri poveri irti di antenne della televisione ai quartieri ricchi dove fioriscono le antenne paraboliche: non sono diverse temporalità che si mescolano, come nel paesaggio ritratto da Baudelaire, ma disparità economiche che si manifestano. L’uniformizzazione non impedisce l’ineguaglianza.
Lo sviluppo accelerato della surmodemità non può che accentuare queste differenze. Parallelamente, ci abituiamo all’immagine delle catastrofi mondiali, del terrorismo, degli esodi, dei cadaveri: spettacolo astratto a forza di essere familiare. Eppure capita che un’abile strategia mediale serva la causa di coloro che al contrario sarebbe facile immaginare come sue vittime. Per esempio la guerriglia del Chiapas, in Messico, che nessuno ha definito come la prima guerriglia postmoderna, è riuscita a farsi conoscere su scala internazionale e allo stesso tempo a svolgere un ruolo importante grazie alle «tecniche di comunicazione» del suo animatore.
L’immagine può servire a tutto. Può anche costituire il veicolo di tutte le reazioni estremiste alla surmodernità. Conosciamo il soprannome che gli integralisti algerini hanno dato alle antenne paraboliche, che permettono ai loro compatrioti di gettare un’occhiata sul mondo esterno: le chiamano antenne «paradiaboliche». Ma questa demonizzazione non impedisce ai movimenti islamici, come ad altri, di acquisire canali televisivi o siti su Internet per rivendicare altre forme di universalizzazione. La surmodemità può avere l’effetto di dissolvere o di rendere astratta la figura dell’altro (cosa che costituisce il modo migliore per rompere la dinamica della coppia identità/alterità), ma anche le reazioni che essa suscita e ritrasmette possono essere totalizzanti, escludenti e alienanti. I particolarismi da una parte, gli integralismi e i fondamentalismi dall’altra, partecipano allo stesso titolo di ciò che Georges Devereux chiamava le identità di «sostegno» o di «classe», nel senso logico, non sociologico, del termine. Deve- reux vedeva nello sviluppo di queste identità collettive ed esclusive il segno di un crollo imminente dell’identità individuale7.
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Ci viene così fornito un elemento di riflessione: fino a quando la dialettica identità/alterità funziona, un’affermazione di appartenenza a una collettività non può essere concepita né come esclusiva di altre appartenenze né come esclusiva dell’affermazione di identità individuale. Ma questa dialettica può incepparsi tanto per gli effetti di dissoluzione imputabili alle tecnologie surmodeme quanto per gli effetti di indurimento e di glaciazione indotti dal ripiegamento sulle appartenenze esclusive. Che la relazione con il mondo si irrigidisca o si virtualizzi, essa sottrae l’identità alla prova dell’alterità. Crea così le condizioni della solitudine e rischia di generare un io tanto fittizio quanto l’immagine che esso si fa degli altri.
Note al capitolo
1. Cfr. P. Hazard, La crisi della coscienza europea, 1680- 1715, Il Saggiatore, Milano, 1968: «Leibniz, vedendo che non si può impedire agli europei di battersi, propone di rivolgere il loro furore guerriero all’esterno...» (p.409).
2. «Le Monde», 9 marzo 1994.3. G. Charaehidze aveva sviluppalo in modo più ampio il suo
punto di vista ncll’articolo Les Tchétchènes, un peuple en sursis, «Le Gcnrc humain», n. 29, 1995.
4. In J.-M. Sallmann (a cura di), Visions indiennes, visions baroques: les métissages de l ’inconscienl, PUF, Parigi, 1992.
5. S.F. Sundklcr, Bantu Prophets in South Africa (1948), Oxford University Press, Londra, 1961.
6. M. Auge, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano, 1993.
7. G. Devereux, Saggi di etnopsicanalisi complementarista, Bompiani, Milano, 1975.
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Ili
LA POSTA IN GIOCO: SOGNO, MITO, FINZIONE
Le ambiguità del sogno
Gli individui hanno sempre esitato a identificarsi soltanto con il corpo, sempre tentati al contrario di pensarlo come limite da superare o da difendere. Questa concezione del corpo come frontiera più o meno porosa non implica tuttavia necessariamente una concezione dualistica che opporrebbe il corpo allo spirito. In Africa, per esempio, l’elemento della personalità che evade dal corpo durante il sogno del sonno notturno è considerato come qualcosa che ne fa parte integrante, quasi sempre a titolo di principio vitale; principio che può essere distinto da quello che riproduce e trasmette l’immagine del corpo, o anche da quello che contiene e trattiene la parte più individuale dell’individuo. Un esempio fra tanti: Nadel1 isola presso i
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Nupe il rayi, il principio vitale, life soul, anima in latino, presente in tutti gli esseri viventi, ma in certa misura individualizzato poiché è questo, al momento del sogno, che si affranca dai limiti del corpo e vagabonda: quello che un individuo vede in sogno, è ciò che il rayi vede nel corso della sua peregrinazione. Ma il rayi non può viaggiare da solo, e viene accompagnato dal fifingi, doppio e immagine del corpo individuale: è il fifingi di un individuo che viene visto, tramite il loro rayi, da quanti sognano. Il doppio è legato al corpo vivente: è la sua ombra. Sopravvive alla morte e continua a manifestarsi nei sogni dei vivi, anche se l’identità individuale, del morto come del vivo, corrisponde ad un’altra entità: il kuci. È al kuci di un morto recente o di un antenato che si compiono sacrifici per scongiurare quello che secondo la chiave dei sogni nupe è considerato un brutto sogno.
Ciò che tutti i sistemi di rappresentazione africani mettono in scena attraverso casi evidentemente molto diversi fra loro - penso in particolare ai Dogon, Bambara, Mossi, Tallensi, Ashanti, Agni o lagunari ivoriani, Ewe, Ibo, Yoruba, per i quali disponiamo di una vasta letteratura - è la realtà del sogno (più esattamente la continuità fra la vita di veglia e la vita di sogno), la pluralità dell’io (malgrado la presenza di un elemento, per sua natura inafferrabile, nel quale si esprime la parte più individuale dell’individuo) e ciò che si potrebbe chiamare l’intimità sostanziale fra il corpo e gli elementi che lo abitano, lo abbandonano e vi ritornano. Il corpo, al risveglio, risente di tutte le fatiche del viaggio effettuato dal suo doppio. Il corpo del neonato porta il segno dell’elemento ancestrale che vi si reincarna.
Come si vede, il sogno implica un doppio movimento, di uscita e di ritorno, di uno o di diversi elementi costitutivi della personalità. In mancanza di questo ritorno, è in gioco la vita del sognatore ed è in discussione tutto il processo del sogno. Anche attenendosi alle loro definizioni più correnti, il sogno e la possessione sarebbero dunque dei fenomeni inversi più che logicamente contrari.
Tuttavia, lo sciamanismo e la possessione sono stati
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spesso contrapposti l’uno all’altro come dei contrari. Viene allora evocato « l’orientam ento della relazione fra l’uomo e il mondo degli spiriti» poiché «lo sciamanismo è una risalita dell’uomo verso gli dei», ricorda Jean Pouil- lon2, mentre, ci dice Lue de Heusch3, «la possessione è una ‘discesa’ degli dei e una incarnazione». Sono ben visibili i movimenti di senso contrario che vengono così designati. Ma si può anche notare, se ci si riferisce al corpo dello sciamano o del posseduto, che i due fenomeni si definiscono attraverso una stessa assenza: 1’«assenza al corpo» propria dello sciamano viaggiatore che lo abbandona e del posseduto spossessato che ne viene escluso.
Resta da interrogarsi sulla natura di questa partenza e di questa esclusione. È vero che il sogno (e non soltanto il sogno sciamanico) viene descritto e concepito il più delle volte come un viaggio, ma allo-stesso tempo esiste soltanto attraverso il racconto di cui è oggetto (il racconto del sogno è il primo racconto di viaggio). Il sogno narrato, il racconto del sogno, definisce una relazione a tre termini: il sognatore-narratore da una parte, l’ascoltatore dall’altra, mentre lo statuto del terzo termine resta incerto, per gli effetti di spostamento e di condensazione propri dell’attività onirica (sogno di me, ma sono io? Di Un altro, ma quale? Ed è poi un altro?). Il sognatore è l’autore del suo sogno, ma quest’ultimo gli impone di sé e della sua relazione con l’altro un’immagine che forse rifiuterebbe in stato di veglia. Il sogno instaura un rapporto problematico di sé con sé. Il terzo termine del sogno (il suo soggetto) è enigmatico e questo enigma può essere sottoposto a specialisti dell’interpretazione.
La possessione non è il racconto di un evento, ma è essa stessa evento e avvento. E oggetto di una messa in scena e viene recitata. La recitazione del posseduto è perfettamente contemporanea all’avvento della potenza chelo possiede. Tuttavia il posseduto è spossessato di se stesso. Attraverso la sua bocca - ma non attraverso la sua voce, trasformata, irriconoscibile - è un altro che si esprime e si rivolge ad altri, anche se quest’ultimi costituiscono una collettività di cui egli fa parte: davanti a loro, il suo
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corpo posseduto non è più che una m ediazione o un medium. Il ruolo che interpreta, il personaggio che mima, si affermano, nell’istante della possessione, come la verità di un’apparenza modellata con più o meno insistenza sullo stereotipo della potenza incarnata. L’importante non è più allora la memoria e il rapporto problematico di sé con sé. Al contrario, il posseduto, non appena non lo è più, deve dimenticare non che lo è stato (le possessioni sono spesso programmate come delle rappresentazioni teatrali o delle feste), ma in quali condizioni Io è stato. Il ritorno a sé (dopo la partenza della potenza che possiede e che cavalca) è spesso recitato in modo marcato. Per esempio, nelle sedute de\V Umbanda brasiliano si possono vedere giovani donne stropicciarsi gli occhi, scrollare la testa e stirarsi per sottolineare che il caboclo che le possedeva è andato via e che esse fanno fatica a ritornare in sé, cioè a capire dove si trovano e come stanno, mentre la loro prestazione, nel momento in cui il caboclo imponeva loro le figure e il ritmo della sua possessione, veniva salutata da calorosi applausi. La qualità della performance viene dunque riconosciuta, ma viene riconosciuta per quello che è: il segno di una piena e autentica possessione, di cui colui o colei che lo emette non deve essere cosciente.
La fortuna del sogno si gioca al risveglio, quando viene sottoposto alla triplice sollecitazione della memoria, del racconto e dell’interpretazione. E quest’ultima concerne quasi sempre il sognatore stesso, anche quando mette in discussione il suo entourage4. Fra chi sogna e chi interpreta si stringe una relazione intima e singolare. La fortuna della possessione si gioca nell’istante stesso dell’avvento- evento, attraverso la parola di una potenza che si rivolge ad altre (eventualmente per ammonirle o incoraggiarle), ma di cui il posseduto non deve essere stato cosciente e a fortiori ricordarsi quando, letteralmente, ritorna in sé. La possessione incosciente, ma recitata, definisce dunque anch’essa una relazione a tre termini: la potenza che possiede, gli spettatori o testimoni e il posseduto. Questi, spossessato di se stesso o, più esattamente, del suo corpo, non è enigmatico, ma assente. Più precisamente, potrem
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mo contrapporre un enigma della presenza (del sognatore al suo sogno) a un enigma dell 'assenza (del posseduto alla possessione di cui è oggetto).
In ognuna delle relazioni che vengono definite, in un caso dal sogno, nell’altro dalla possessione, il terzo termine resta dunque sempre problematico.
Il sognatore-narratore è in qualche misura lo spettatore di un sogno ricostituito: il suo rapporto con gli «eventi» del sogno è apparentemente passivo (gli attribuiamo il segno - nella T A B E L L A I), anche se sappiam o che, neH’intrigo del sogno, qualche cosa di lui, qualcuno che egli identifica con se stesso, sembra svolgere un ruolo importante (correggeremo dunque il segno - con un segno + che gli subordineremo: +). Quanto al posseduto, si tratta di un attore. Nel suo comportamento apparente tutto testimonia un’attività che può arrivare fino alla violenza e che si rivolge allo sguardo dello spettatore (+). Ma questa attività, ci dicono, non è la sua. Egli è assente (-) e la possessione, nel complesso, dal punto di vista del ruolo del posseduto, si presenta come una combinazione dell’iperatti- vità di un corpo con la presunta assenza di colui che lo abita (±). Rispetto al copione del sogno e allo spettacolo della possessione, il sognatore e il posseduto sono allo stesso tempo attivi e passivi, autori e non autori, ma le loro posizioni rispettive, da questo punto di vista, possono essere considerate sim m etriche e inverse; il sogno si impone a colui che ne è l’autore, e la possessione viene recitata da colui che la subisce.
L’ascoltatore privilegiato del sogno è lo specialista della sua interpretazione (indovino, augure, psicanalista). Preso a testimone, questo specialista gioca un ruolo attivo (+) attraverso il suo contributo al chiarimento di un enigma individuale. Gli spettatori della possessione, invece, non vi svolgono alcun ruolo (-), anche se il posseduto può eventualmente essere attorniato da assistenti che controllano la sua performance. Per esempio, le possessioni alle quali ho assistito in Togo, nelle aree guin e mina della regione di Anfouin, erano spesso violente e le donne in trance venivano dopo un certo tempo allontanate e calmate
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dagli assistenti del capo del culto. In alcuni casi, gli spettatori sono tutt’al più i destinatari del messaggio consegnato dalla potenza che possiede per bocca del posseduto.
Quanto ai personaggi sognati o incarnati, bisogna parlarne in termini di identità e non più di ruolo, perché il loro ruolo dipende dal riconoscimento della loro identità. Anche quando presentano volti familiari, i personaggi del sogno hanno un’identità per lo meno fluttuante e sfuggente, e il sognatore, al risveglio, se cerca di ricordare, si trova confrontato all’enigma della sua immagine (-). Sulla scena della possessione, la simbologia è esplicitamente sociale: le potenze che possiedono vengono classificate e descritte (+). Nel caso del Togo e della regione del golfo del Benin in generale, le si evoca come personaggi caratteristici della scena mitica, parti integranti di un vero e proprio pantheon. Nessun enigma in questo caso: per gli spettatori di un evento socialmente codificato si tratta soltanto di riconoscere la potenza incarnata in un corpo maschile o femminile. In alcuni culti una maschera può servire allo scopo, e la parola che si fa intendere attraverso di essa è normativa o prescrittiva. Non interroga l’ordine sociale, come l’indovino interroga il sogno individuale, ma lo declina per mantenerlo o restaurarlo.
T A B E L L A I
Categorie Sogno PossessioneAgentiAutori + +Testimoni + -Personaggi - +
A partire da queste due figure simmetriche e inverse possiamo ora individuare e riformulare l’enigma del terzo termine. Esso risulta in effetti dalla pressione esercitata sui termini di una relazione duale (sognatore/ascoltatore in un
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caso, posseduto/possessore nell’altro) per suggerire l’esistenza di un terzo termine e di una relazione ternaria. Il racconto del sognatore suggerisce all’ascoltatore l’esistenza di un soggetto sognato (ma pur sempre soggetto nella misura in cui agisce nel sogno); e lo spettacolo del corpo posseduto suggerisce agli spettatori l’esistenza di un soggetto possedente. Ciò che è in discussione nel primo caso, è il rapporto del sognatore con il sognato, cioè un rapporto del sé con sé in cui il secondo «sé» è tinto di alterità, e ciò che è in discussione nel secondo, è il rapporto del posseduto con il possessore, cioè un rapporto del sé con un altro, ma con un altro tinto di identità. E questo perché il soggetto sognato che agisce nel sogno non è perfettamente identico al sognatore (al soggetto sognante) e la potenza possedente non è completamente estranea alla persona posseduta (torneremo su questo punto). Non è nemmeno completamente estranea allo spettatore nella misura in cui, nei sistemi in cui le potenze possedenti sono ben differenziate, egli la riconosce e la situa in rapporto ad altre figure della possessione.
Sognato Possessore
Sognatore Ascoltatore
Detto questo, 1’«enigma del terzo termine», che può prendere svariate forme, non è necessariamente legato ad una contrapposizione fra il sogno e la possessione del tipo di quella rappresentata nella TABELLA 1. Questa non è che un caso possibile all’interno di una combinazione i cui termini possono permutare se appena si sostituiscono ai concetti abusivamente generalizzanti di «sogno» e «possessione» dei
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concetti locali che non ne sono mai l’equivalente preciso. «Sogno» e «possessione» si lasciano così scomporre in un certo numero di figure intermedie che, lungi dal contrapporsi, rientrano piuttosto in una serie di trasformazioni5.
Torniamo all’esempio dei Pumé-Yaruro e del loro sciamano-cantore. Gemma Orobitg6 mostra che le loro categorie oniriche sono tre. Handikia designa tutte le forme di «sogno» (tanto il sogno da svegli del cantador che il sogno del sonno) che permettono al sognatore-viaggiatore di andare lontano, nel mondo degli dei o dei morti; questa categoria distingue dunque essenzialmente il mondo delle potenze lontane dal mondo terrestre vicino, un paesaggio da un altro. Kanéhe designa il sogno del sonno, escludendo tutte le forme di visione da svegli. Handivaga si distingue dalle due prime categorie e si applica alle forme di visione da svegli, ma vicina (allucinazione, fantasma). In occasione della cerimonia del tòhe vengono attivate tutte queste diverse forme. Si è visto che lo sciamano, o piuttosto uno dei suoi pumetho, percorre il mondo lontano degli dei e dei morti, ma non dorme: lo si vede cantare e fumare grossi sigari mentre un altro dei suoi pumetho accoglie una certa potenza divina, un certo antenato o un morto più recente in visita presso i vivi. Il pubblico, che accompagna il canto dello sciamano per tutta la notte e che come lui fuma tabacco e inala yopo, un preparato allucinogeno diffuso in tutti i gruppi indi della regione, cerca di restare il più possibile sveglio, ma non sono rare le forme di alluci- nazione (handivaga) legate alla stanchezza o a un momento di sonnolenza.
Quanto al «viaggio» dello sciamano, potrebbe essere definito, almeno in due sensi, come un «fra-due-sogni»*.
* La comprensione dell’espressione fra-due-sogni (come anche fra-duc-miti, v. capitolo seguente) viene facilitata in francese dal preesistere di sostantivi quali entre-deux (la via di mezzo) e entre-deux-guerres (il periodo fra due guerre). Trattandosi comunque di un nuovo conio, abbiamo preferito mantenerlo tale e quale anche nella traduzione italiana [N.d.T.).
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Il grande sciamano di Riecito, il villaggio dove lavorava Gemma Orobitg, le confidava che accettava di dirigere il tòhe, di esserne il cantore-viaggiatore, soltanto dopo esservi stato invitato dalle potenze divine nel corso di un sogno, nel sonno. Questo sciamano, inoltre, spesso preferiva dormire prima di raccontare il suo viaggio (cioè il suo «sogno» da svegli). Questo nuovo sogno del sonno (che rientrava allo stesso tempo nelle categorie di handikia e kanèhe) gli permetteva di confermare e di precisare - grazie agli incontri che effettuava - le sue visioni e le avventure sopraggiunte al momento del sogno da svegli il quale, di per sé, rientrava solo nella categoria handikia. C ’è di più: la venuta degli dei fra gli uomini nel corso della cerimonia del tòhe (la forma di «possessione vocale» ricordata un po’ prima) viene a volte presentata come un sogno degli dei (handikia), come se l’unione fra gli dei e gli uomini dipendesse dal fatto che si «sognano» reciprocamente. Il tòhe, che si colloca per lo sciamano fra un sogno di annuncio e un sogno di conferma, può dunque anche essere concepito come il luogo in cui il sogno degli uomini e il sogno degli dei si intersecano.
Aggiungiamo che, in questo esempio, il «sogno» (o, più esattamente, le diverse categorie oniriche pumé) e la «possessione», lungi dal contrapporsi, sono condizione l’uno dell’altra, poiché si dice che è nel momento in cui lo sciamano «viaggia» (cioè nel momento in cui uno dei pumetho, com ponente essenziale della sua persona, esce dall’involucro corporeo) che la potenza divina gli si avvicina. Ci sono inoltre almeno due forme di «possessione». La possessione propriamente detta, intesa come l’essere completamente investiti nel corpo e nella persona, tanto da tradursi in particolare nel cambiamento totale della voce, è rara. Più spesso si dice che la potenza divina staziona al di sopra della testa dello sciamano e gli comunica un’energia che si riflette sulla qualità del suo canto, cioè sul timbro della voce, sul ritmo della frase musicale e sulla forza del suo discorso. Perché lo sciamano improvvisa sempre il suo canto, anche se questo esiste in forme musicali fìsse e anche se il testo tratta sempre dell’avvici
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narsi e dell’arrivo degli dei. L’affermazione secondo la quale nel cuore della notte, quando tutto procede senza intoppi, sono gli dei che si mettono a cantare, evoca non tanto una sostituzione quanto piuttosto una realizzazione e una forma di perfezione, una momentanea trasformazione del canto umano.
Se riprendiamo la t a b e l l a I e sostituiamo alle categorie indifferenziate «sogno» e «possessione» le categorie pumé, vediamo delinearsi una nuova configurazione. Il «sognatore» (se pensiamo al sogno da svegli dello sciamano, a volte indotto da un allucinogeno e interpretato dal sogno del sonno) viene presentato in modo molto evidente come attivo (+): discute infatti con gli dei e si scontra con loro per liberare il pumetho dei malati e dei moribondi che per qualche ragione essi hanno sottratto. Dal canto suo, il «posseduto» è tale solo a metà: accoglie la venuta degli dei senza essere totalm ente investito da loro, ma nel momento cruciale è la voce degli dei che si crede di sentire. Il ruolo più attivo è dunque quello del pumetho viaggiatore (peraltro considerato il più importante), mentre quello del pumetho presente al tòhe è più passivo (-). Non si può tuttavia restare insensibili alla qualità della performance del cantador, ancora più spettacolare in certe forme di tòhe che impongono allo sciamano di correre in tondo per una parte della notte, accompagnato dai suoi assistenti, al fine di rappresentare il viaggio del suo primo pumetho. Ma è proprio perché in questa forma di tòhe lo sciamano interpreta anche il ruolo di sognatore che la sua motilità appare più attiva. In complesso, nella concezione che ci si fa dello sciamano sognatore-viaggiatore e cantore-posseduto, il ruolo del cantore-posseduto non può essere considerato semplicemente passivo (+).
Per quanto riguarda gli ascoltatori e gli spettatori, la relazione si modifica allo stesso modo. Fra i Pumé non esiste una funzione specializzata di interprete del sogno (-) e lo sciamano-viaggiatore, se ne avverte il bisogno, racconta e interpreta lui stesso le peripezie del suo viaggio, il cui risultato interessa persone diverse da lui, visto che egli parte alla ricerca del pumetho di individui malati.
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I partecipanti al tòhe, da parte loro, svolgono un ruolo importante poiché il cantador ha bisogno delle loro risposte e in particolare del coro costituito dalle donne e dalle loro figlie, che stanno ai lati degli uomini. Ma questo ruolo resta secondario (+) rispetto a quello dello sciamano, di cui abbiamo appena sottolineato come sia più attivo in quanto sognatore (lontano dalla scena del tòhe) che in quanto virtualmente posseduto.
Quanto ai personaggi del «sogno» e della «possessione», dei o morti, pongono un problema particolare. Da una parte vengono identificati molto precisamente, e la simbologia collettiva sembra avere impressionato in modo così potente l ’immaginario pumé che nei racconti del sogno del sonno si trovano spesso menzionate delle divinità pumé. Il sopraggiungere degli dei, come dei morti, durante il sonno come durante il tòhe, non pone problemi di identità (+ in entrambi i casi). Ma se ci si pone sul piano storico e si rivolge l’attenzione alla situazione attuale, si percepirà un importante mutamento: nel loro linguaggio figurato e topografico, i Pumé dicono che gli dei più antichi si sono allontanati, che i settori più accessibili del loro mondo oggi non sono frequentati che da nuovi dei. Dicono anche, a proposito della cerimonia del tòhe, che gli dei «scendono» sempre meno frequentemente; l’ultimo dio a scendere ogni tanto è Ishi Ai, una sorta di M ercurio locale, specialista della mediazione, che in quanto tale è comprensibile resti uno dei più fedeli alla relazione uomini/dei. Forse è la minaccia della propria estinzione che i Pumé evocano quando parlano dell’allontanamento degli dei. La classica difficoltà del sogno (chi è colui di cui sogno?) si trova così trasposta nella possessione (colui che scende verso di me è veramente qui?). La storia del secolo sposta l’enigma della presenza dal sogno alla possessione.
Distingueremo dunque nella T A B E L L A II, a proposito dei «personaggi», il punto di vista antropologico (a), sempre riaffermato a livello locale, per il quale non ci sono dubbi sull’identità dei personaggi incontrati sulla scena del sogno e del tòhe, e il punto di vista storico (b), che deve tener
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conto del fatto che questi personaggi sono cambiati da una cinquantina o sessantina d’anni a questa parte, come testimonia la letteratura degli anni 1930-40, e che alcuni dei più prestigiosi fra loro sono oggi inaccessibili, lontani come dei ricordi che le giovani generazioni hanno già perduto.
T A B E L L A II
Categorie
Agenti
llandikiaKanèhe
Tòhe
Autori + +Testimoni - +
Personaggi(a) + +
(b) - -
Ciò che lo schema pumé aggiunge allo schema generale dell’opposizione formale fra sogno e possessione, e che dipende dalla definizione dello sciamano come cantore- compositore-improvvisatore, è la figura dell’ispirazione, nel senso letterario e artistico del termine. Nell’ispirazione, il ruolo dell’autore è allo stesso tempo passivo e attivo (+)• Tutto proviene da un altrove (da un dio, da una Musa), ma al prezzo di un intenso lavoro (l’ispirazione si cerca). Quanto all’ascoltatore, è vero che può interpretare l’opera, reagire ad essa, ma ne è prima di tutto il ricettore (+).
Ogni tentativo etnologico per comprendere che cosa siano il «sogno» e la «possessione» in diverse popolazioni muove necessariamente dalla constatazione della pluralità interna della persona (dell’«io») di cui le concezioni locali dei fenomeni onirici o allucinatori, nella loro diversità, non sono che delle illustrazioni particolari. Ricordiamo qui che nelle rappresentazioni pagane, su diversi punti, esistono delle convergenze (convergenze che, appunto, giustificherebbero la loro sussunzione sotto un concetto
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come quello di paganesimo). Queste non sono semplice- mente formali, ma hanno un contenuto: corrispondono a proposizioni o ipotesi che meritano di essere discusse e che ci interessano, per un verso, allo stesso titolo di ogni proposizione di ordine filosofico e, per l’altro, perché sono costitutive dei legami simbolici che uniscono gli individui in società. Naturalmente, non intendiamo stabilire qui la ripartizione fra la verità e l’errore. La Chiesa fu indotta a farlo quando intraprese l’estirpazione del paganesim o, distinguendo per esem pio le due «porte del sogno»: il sogno illusione e il sogno premonizione. Ma il fatto di prendere in considerazione questo insieme di proposizioni e di ipotesi, nella misura in cui risponde a una necessità che Jacques Le Goff ha messo in evidenza sottolineando la parte immaginaria di ogni vita sociale, può fornirci chiarimenti sul funzionamento dell’attività simbolica, cioè su ogni attività di formalizzazione dei legami necessari fra il medesimo e l’altro, fra identità e alterità.
Su almeno tre punti (la pluralità dell’io, la concezione non dualistica della realtà, l’interpretazione dell’evento come segno e accessoriamente del sogno come evento) le cosmologie africane, amerindic, oceaniane e altre ci fanno riflettere nell’esatta misura in cui, essendo tanto antropologie quanto cosmologie, corrispondono ad ipotesi convergenti sulla natura della realtà individuale e delle relazioni fra individui.
Il tema della pluralità dell’io, che abbiamo affrontato fin dall’inizio, si lascia scomporre e merita un esame particolare. Ma i temi del non-dualismo e dell’evento-segno costituiscono una premessa a questo esame. Le concezioni plurali dell’io non contrappongono il fisico al mentale, il materiale allo spirituale, o il corporeo allo psichico. Per immaginare il tipo di rappresentazione che viene associato loro basta cercare di prendere alla lettera delle espressioni che noi usiamo correntemente come «perdere la testa», «essere fuori di sé», avere o non avere «fegato».
Nessun dualismo nemmeno nella concezione dei rapporti fra gli uomini e gli dei. Nel sogno come nella possessione gli uomini hanno a che fare con potenze che sono
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di un altro ordine, ma non di un’altra natura rispetto a loro. A partire dal momento in cui essi vengono individualizzati e singolarizzati (oggetti, in qualche modo, di un lavoro di sim bolizzazione supplementare rispetto alle forze o alle energie pure, diffuse, che sono identificate con un ricettacolo simultaneamente particolare e riproducibile, con un «feticcio», e che tuttavia non hanno la forma e lo statuto di una persona), quelli che noi chiamiamo per comodità gli «dei» vengono molto spesso presentati dalle mitologie come antichi uomini o, almeno, come esseri che hanno anticamente vissuto sulla Terra. In un pantheon tanto elaborato quanto quello dell’antico Dahomey, l’origine umana delle grandi figure divine è indubbia. Presso un profeta-guaritore ivoriano, Koudou Jeannot, il cui ritorno al paganesimo, in questi ultimi anni, ha costituito un fatto di grande rilievo (nella misura in cui corrispondeva ad una dichiarata opposizione politica alle autorità ivoria- ne), Jean-Pierre Dozon e io abbiamo visto compiere un culto di fecondità. Il fratello del profeta, morto all’inizio degli anni Ottanta, era stato sepolto vicino al villaggio; è allora diventato, con il nome di Gbahié, il principio motore del culto, oggi molto frequentato. È stato edificato un altare ai piedi di un albero le cui radici sembravano nascere nella tomba. Il rituale elaborato dal profeta, il quale oggi elimina dal suo messaggio ogni riferimento cristiano, non sarebbe distinguibile per un osservatore non avvertito da quelli ai quali si può assistere nei Paesi in cui si è mantenuta la tradizione pagana come il Togo o il Benin. Presso Koudou Jeannot, abbiamo proprio assistito alla nascita di un dio7.
Al momento del viaggio del suo pumetho, lo sciamano pumé incontra degli dei e i pumetho di uomini di cui alcuni sono morti, altri semplicemente malati sulla terra (proprio per il fatto che il loro pumetho è stato trasferito presso gli dei). Al momento del tòhe, possono manifestarsi degli dei del pantheon ma anche degli antenati o dei morti recenti. Per esempio, uno dei miei interlocutori era stato felice di ricevere durante il tdhe, «in diretta», notizie di un
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suo zio morto qualche settimana prima. Le potenze della mitologia vengono designate dal termine nibé, letteralmente «quelli di fuori», termine che si applica più in generale a tutti coloro che vengono dall’esterno e in particolare ai bianchi. La terminologia, lo statuto dei morti, i racconti cosmogonici e l’intrico dei diversi mondi che la cerimonia del tdhe attiva nell’immaginario individuale e collettivo, postulano un’identità di natura fra uomini e dei. Gli uomini sono il passato degli dei, gli dei l’avvenire degli uomini, in un mondo terrestre di cui si può temere, in effetti, che sia senza avvenire per coloro che la durezza dei tempi condanna più che mai alla morte e al sogno.
Presso gli Alladian, fra i quali mi trovavo negli anni Sessanta, gli informatori mi parlavano volentieri di «vita in doppio» per farmi capire cosa potevano essere le deambulazioni notturne di uno dei principi costitutivi della persona, il wawi: questi viveva in modo relativamente autonomo delle avventure di cui il sogno, per il poco che se ne può ricordare al risveglio, costituiva la traccia incerta e problematica. Lo stesso wawi, nella sua forma aggressiva (àwrt), veniva coinvolto nell’interpretazione di ogni evento sfortunato. E questa stessa interpretazione prescindeva naturalmente dalla distinzione veglia/sonno, non pertinente riguardo a ciò che si potrebbe chiamare una episteme deM’immanenza. Sotto l’influenza dei missionari cattolici, delle diverse chiese protestanti e, alla fine, dei profeti locali, che intelligentemente si sforzavano di modificare lo spirito della cosa sovvertendone la lettera, gli Alladian parlavano anche di «vita in diavolo»*. Si potrebbe ricordare a questo proposito la straordinaria intuizione etnografica di cui ha dato prova Maupassant nel racconto L ’Horla: questi evoca, in senso opposto, le allucinazioni, conseguenti al passaggio di una nave brasiliana carica di potenze esotiche, di un eroe-narratore perseguitato dalla presenza invadente di una forza di cui ignora l’identità, ma verso cui ha il pre
* Con un gioco di parole fra vie en doublé (vita in doppio) c vie en diable [N.d.T.).
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sentimento che essa intenda penetrarlo e sostituirsi a lui.Se il racconto e l’analisi del sogno sono così importanti,
non è tanto, il più delle volte, perché il sogno è la chiave, l’espressione o la proiezione della vita vigile, quanto perché esso è allo stesso tempo il precedente e il seguito di un’avventura che si vive anche allo stato di veglia. Le peripezie del sogno e quelle dello stato di veglia sono da interpretare in continuità. Per esempio, un giovane ivoriano, accusato e portato davanti a un profeta-guaritore della regione lagunare, ha confessato di aver consumato carne umana prima di precisare di aver obbedito in sogno al suggerimento di uno sconosciuto che gli offriva un pezzo di carne di cui ignorava la vera natura; una giovane donna pumé ha confidato a Gemma Orobitg, con cui ha un rapporto di fiducia, il timore di essere incinta di un uomo che non è suo marito, perché ha sognato il suo adulterio. Le peripezie del sogno servono certamente all’interpretazione di un’osservazione fatta allo stato di veglia (una pancia gonfia, l’assenza di mestruazioni), ma sono non tanto dei segni quanto degli antecedenti o delle cause. Paradossalmente, è più l’evento dello stato di veglia (per esempio una malattia) che ha valore di segno, ma unicamente perché rinvia ad un evento anteriore. Questo, sognato o no, mette molto spesso in discussione (a titolo di vittima o di aggressore) una delle componenti di un individuo umano.
L’ambiguità dei sogni studiati dagli etnologi dipende dunque da diversi fattori complementari. Dalla continuità fra veglia e sonno. Dalla molteplicità delle forme oniriche, che non si riduce all’opposizione veglia/sonno. Dalla pluralità dell’io: colui che è ritenuto responsabile di un crimine commesso «in doppio» non è né completamente colpevole (è una parte di lui che agisce «in doppio»), né completamente innocente (è proprio «lui» che ha agito). È responsabile ma non colpevole: questa formula mi era sembrata potersi applicare, ormai trent’anni fa, alla maniera in cui venivano considerati gli accusati di stregoneria delle società lignaggere africane nel corso dei processi di cui erano oggetto. La pluralità dell’io, inoltre, dà forma all’ambivalenza dei sentimenti. Se gli accusati di strego
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neria sono così spesso convinti della realtà dei loro crimini, è perché all’origine dei loro sogni ci sono veramente dei dissensi e delle tensioni reali. Forse è anche perché non esiste un ordine individuale che possa prescindere da un ordine più collettivo e perché, per molti, è meglio essere condannati (ma in un certo senso reintegrati) che esclusi. Il sogno è rivelatore (delle discordanze del legame sociale e della vertigine dell’ordine) ed è per questo che può così facilmente iscriversi nella continuità logica e vissuta dell’esistenza.
Ritorno sulla pluralità dell 'io
Abbiamo visto come il criterio che permette di caratterizzare la possessione e le forme che vi si ricollegano sia l’oblio di cui queste devono essere oggetto, di cui non possono che essere oggetto, mentre il sogno non esiste che attraverso il ricordo che ne è serbato. Non è dunque sorprendente che sogno e possessione, nelle culture in cui coesistono, interessino diverse istanze della persona umana; nel caso pumé, per esempio, il pumetho che viaggia in sogno non è quello che nello stesso momento accoglie le potenze divine nel tòhe.
Ma, al di là di una contrapposizione fra possessione e sogno, oblio e memoria, o inconscio e conscio, vengono messe in gioco due concezioni distinte della pluralità dell’io. Una prima concezione è alternativa, e può essere accostata al tema della personalità multipla, attualmente in voga negli Stali Uniti. Spinto agli estremi, questo modello ci propone una serie di personalità diverse che possono sostituirsi una all’altra, in funzione delle circostanze in un sistema fortemente simbolizzato, o in funzione di un arbitrio incontrollabile quando si tratta di patologia individuale; questa sostituzione è possibile perché ognuna di queste parti costituisce una personalità completa e peraltro denominata. Una seconda concezione è invece aggregativa. È attestata in modo particolare nei sistemi africani per i quali l’individuo non è che la riunione effimera di elemen
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ti di origini diverse, di cui alcuni preesistono alla sua nascita e sopravviveranno alla sua morte nelle combinazioni diverse che definiranno altre individualità. Una parte dei rituali celebrati alla nascita ha lo scopo di identificarli in modo più chiaro collegandoli a dimensioni sociali e simbologie precise, o ad elementi più aleatori (giorno e circostanze della nascita o ancora segno primordiale stabilito attraverso il lancio di noci di cola o di cauri). L’individuazione di questi elementi è evidentemente ancora più accurata (e a volte addirittura manipolata) nel caso dei regni in cui la filiazione, l’ereditarietà, l’eredità e la successione devono significare la sostanziale unità di una dinastia. Così per esempio nell’antico regno fon del Daho- mey gli specialisti riconoscevano nella persona di ogni sovrano il principio sostanziale (detto joto) che, molto letteralmente, lo identificava parzialmente con la persona di uno dei suoi predecessori ed antenati. La catena dinastica si definiva dunque non solo attraverso la successione in linea agnatica di individui imparentati, ma anche per l’intrecciarsi di tre o quattro linee identitarie intorno all’albero genealogico.
E chiaro cosa renda la prima concezione più compatibile con il modello della possessione. La personalità che si esprime attraverso il corpo posseduto è evidentemente diversa dal suo abitante abituale. O almeno è ciò che viene postulato: nelle sedute di Umbanda alle quali ho potuto assistere a Belem, in Brasile, era normale, una volta passato il momento delle danze e della trance, sentire le possedute, non ancora ufficialmente liberate dalla loro identità in prestito, parlare di sé, con il tono di una conversazione anodina e mondana, ma alla terza persona: «Il mio cavallo ha dei problemi con sua figlia che va male a scuola...». E noto invece che in Africa come in America non sta bene svegliare qualcuno di soprassalto: se l’istanza sognante non ha raggiunto il suo posto accanto alle altre, l’intera persona può essere colpita dalla follia o morire. Gli Alladian esprimevano chiaramente la necessità di una perfetta coerenza fra le due istanze principali della personalità (il wawi viaggiatore e relazionale e lo eè, elemento stabile e
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vitale), spiegando che una delle malefatte più frequenti degli stregoni era di tirare una di queste istanze: il risultato del leggero sfasamento così prodotto era un capogiro, una vertigine che poteva arrivare fino alla perdita di coscienza e alla morte. La pluralità dell’io, in questa concezione, è intesa come pienamente controllata e integrata.
Paradossalmente, il modo aggregativo è certamente il più rappresentato in Africa, nelle società in cui la possessione svolge un ruolo istituzionale, e il modo alternativolo è presso gli amerindi, che attribuiscono un’importanza fondamentale al sogno. Il fatto è che, a dire il vero, la tensione fra concezione alternativa (o sostitutiva) e cumulativa (integrativa) dell’io entra in tutte le concezioni della persona. Più esattamente, la stessa preoccupazione di definire l’individuo come uno, che viene espressa riguardo al sogno quando si ricorda l’assoluta necessità del ritorno dell’istanza vagabonda nel corpo del sognatore (anche lo sciamano pumé insiste su questa necessità e riconosce il ruolo preponderante del pumetho viaggiatore, ma allo stesso tempo dà un senso e attribuisce una personalità ad ognuno degli altri pumetho), si ritrova, riguardo alla possessione, quando si insiste sul legame particolare che unisce la potenza che possiede all’individuo posseduto. E come se, lungi dall’alienarlo ad una personalità esterna, la possessione conferisse un supplemento di identità a chi ne è preda.
Come viene operato questo apparente rovesciamento? Le analisi e le descrizioni di Michel Leiris in La possessione e i suoi aspetti teatrali presso gli etiopi di Gondat* ce ne danno un’idea piuttosto precisa. Ricordiamo innanzi tutto che, secondo Leiris, erano una malattia, un incidente o un disturbo della personalità a far nascere, fra gli etiopi di Gondar, l’ipotesi di un attacco da parte di uno spirito zar, e ad avviare quel percorso che, al termine dell’iniziazione, doveva rendere l’iniziale paziente e malato un posseduto regolare e riconosciuto. Alcuni zar (in particolare quelli del guaritore) si trasmettevano per linea ereditaria. Senza addentrarci nei dettagli di una descrizione molto ricca e sfumata, aggiungiamo che la possessione a Gondar
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si presentava proprio come una serie di incarnazioni di potenze molto tipizzate che obbligavano il posseduto a interpretare diversi personaggi. Ricordiamo infine che, in accordo con lo schema classico, la crisi di possessione doveva essere dimenticata: «Quando una qualsiasi persona, guaritore o adepto, dopo essere stata posseduta da uno zar toma al suo stato normale, oppure viene posseduta da un altro zar, si comporta di norma come se non avesse alcun ricordo della fase ormai chiusa, e cioè della crisi, di cui si ritiene non sia stato neppure cosciente»9.
La questione che si è innestata ormai da Junga data su questo tipo di descrizione riguarda la buona o cattiva fede dei posseduti. Un abbozzo di risposta le viene fornito proprio da Leiris o piuttosto da due adagi riportati dall’autore, effettivamente molto interessanti: «Lo zar somiglia al suo cavallo», o ancora: «Tale il cavallo, tale lo zar»10. Questi detti rovesciano l’ordine delle somiglianze: non è più il posseduto che riproduce il profilo e il carattere della potenza che lo possiede, ma è piuttosto quest’ultima che somiglia al posseduto. Leiris fa osservare inoltre che, fra i numerosi spiriti che possono possedere uno stesso individuo, contano veramente soltanto quelli che gli sono stati assegnati in modo conforme alla regola, e prioritariamente quello che gli è stato attribuito per primo, con cui avrà sempre un legame stretto. Lo zar che somiglia al suo cavallo più che sostituirsi al posseduto ne rafforza dunque la personalità; si comprende dunque meglio perché il nome dello zar intelligentemente attribuito al «paziente» al momento della sua iniziazione costituirà per lui, più tardi, una sorta di stato civile o di passaporto. La questione della buona o malafede viene così superata. E nella consuetudine della vita quotidiana (al di fuori dei momenti rituali) ci si appella al rapporto particolare con un determinato zar per giustificare uno sbalzo d’umore o una decisione: lo zar diventa l’equivalente di un tratto caratteriale personale che colui che ne è afflitto può deplorare e al tempo stesso evocare, per scusarsi.
Ci troviamo qui più che mai nell’episteme dell’immanenza. Leiris fa infatti notare che alcuni zar vengono con
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siderati «di stirpe umana, esseri storicamente definiti»11 e che gli zar in genere intervengono costantemente nella vita quotidiana; si ritiene di conseguenza che essi siano «causa di avvenimenti umani di cui diventano i protagonisti e che alla fine si integreranno nei loro miti»'2. Questa sorta di spettacolare «rinvio al mittente» rivela in modo evidente l’intimità delle relazioni fra uomini e zar e la maniera in cui il mito si nutre della storia degli uomini.
Leiris solleva un ultimo punto che mi sembra molto legato alla questione della personalità. Si tratta di sapere se la possessione in senso stretto sia concepita come il risultato di un’azione che viene operata dall’esterno, di una dominazione, o non piuttosto come una penetrazione, un’occupazione interna. Dopo aver esaminato il vocabolario della possessione, l’etnologo è incline a pensare che sia giusta la prima ipotesi. Si spinge ancora oltre domandandosi se il posseduto sia realmente immerso nell’incoscienza al momento della possessione. La questione non avrebbe che un interesse relativo se non riguardasse anche la personalità del posseduto, la sua identità, non la sua sincerità. Tant’è che a proposito della confessione fatta a Leiris da un professionista della possessione, l’importante per noi non è tanto di scoprirvi delle contraddizioni (per esempio questi riconosce il carattere quantomeno progressivo della perdita di coscienza e confessa, parlando alla prima persona, il piacere procuratogli dal fatto di trasformarsi in zar quando lo zar si trasforma in uomo, in Amha- ra) quanto piuttosto di individuarvi quella tensione identitaria che rende impossibile ogni concezione totalmente alternativa della personalità.
È proprio questa impossibilità, come ho ricordato in Le Dieu objet, che veniva sottolineata da un informatore di Bernard Maupoil quando gli confidava, parlando della possessione nella regione fon, che i vodu non cadono sui loro adepti, ma «salgono loro alla testa»: «[...] il tuo vodu si trova nel tuo rene. La vita non bisbiglia all’orecchio della gente: è nel tuo stesso rene che parla»13. 11 fatto che ci sia dcU’altro nell’identico (che la personalità sia sempre minacciata da un’esplosione delle sue diverse
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com ponen ti) v iene in qualche m isura com pensato dall’evidenza di senso opposto, cioè che vi è dell’identico nell’altro, e che le potenze che investono il «posseduto» gli assomigliano o erano già presenti in lui come virtualità.
/ tre poli dell'immaginario
Nelle notti buie o chiare del territorio pumé, sotto il fragile riparo di un tetto di foglie, a volte di lamiera, o all’aperto, sotto il cielo stellato che lentamente si muove da est a ovest, ognuno può vivere il suo sogno personale dormendo, o ascoltare con altri fino all’alba lo sciamano che improvvisa il suo canto e evoca la mitologia condivisa, il mito sempre ricominciato. Il sogno individuale, carico di residui diurni, di fantasmi e di immagini mitiche, il mito, che riorganizza e arricchisce il sogno da svegli di colui che frequenta abitualmente altri mondi, e il canto, che attira gli dei, li seduce e li cattura un istante, come se questi obbedissero all’ingiunzione degli uomini, sono i tre poli di un immaginario differenziato che circola di uomo in uomo e che trova nuove risorse in ognuno di loro. Gli uomini hanno bisogno del canto e dello sciamano per sentire gli dei e credere ai loro sogni, lo sciamano ha bisogno di sognare per credere al suo canto e al suo viaggio.
Nella nostra tradizione, il sottile legame che corre dal sogno al mito e all’opera letteraria o artistica è stato uno degli oggetti delle ricerche di Freud. Questi si interessa in primo luogo ai rapporti fra «sogno diurno» e «creazione letteraria», che afferma essere entrambi «la continuazione e il sostituto del gioco infantile di un tempo». Le parole hanno qui la loro importanza, e si pone dunque il problema della loro traduzione. L’affermazione precedente è estratta da un articolo, Il poeta e la fantasia, il cui originale è stato pubblicato nel 1908 nella «Neue Revue» di Berlino con il titolo Der Dichter und das Phantasieren^4. Il sogno diurno o da svegli è la «fantasia», ciò che la psicanalisi traduce per lo più con «fantasma». L’espressione
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tedesca, phantasieren, che sostantiva il verbo, rende meglio l’azione di fantasticare, di produrre fantasie. Quanto all’espressione «creatore letterario», essa vuole rendere l’accezione di Dichter che non designa soltanto il poeta nel senso tecnico del termine, ma il creatore in senso lato*. Il bambino che gioca, ci dice Freud, si comporta come un poeta, costruisce un proprio mondo o, meglio, trasforma il mondo a suo piacimento, ma distingue chiaramente il suo mondo ludico dalla realtà «e appoggia volentieri gli oggetti e le situazioni da lui immaginati alle cose visibili e tangibili del mondo reale»15. L’opposto del gioco è la realtà, ma il gioco, che se ne distingue, non se ne distacca mai completamente. Il creatore letterario, in un certo senso, fa la stessa cosa del bambino che gioca: prende sul serio il suo mondo di fantasia mai lo separa nettamente dalla realtà. Ne risulta che «molte cose, che, in quanto reali non potrebbero procurare godimento, possono invece farlo nel gioco della fantasia; e spesso un eccitamento per se stesso propriamente penoso può divenire, per l’uditore o lo spettatore del poeta, fonte di piacere»16.
Invece di giocare, l’adolescente si lascia andare alla sua fantasia. Abbandona «l’appoggio a oggetti reali» che era specifico del gioco. Diventa sognatore: «[...] costruisce quelli che si dicono sogni a occhi aperti»17. La fantasia è una «correzione della realtà»18; non gioca con essa, se ne sottrae; trova nel presente un’occasione per risvegliare i desideri dell’invisibile, per rianimare dei ricordi e proiettare nell’avvenire una situazione sognata. Se le fantasie diventano preponderanti, creano «le condizioni per la caduta nella nevrosi o nella psicosi»19. Ma tutti si abbandonano qualche volta ai propri fantasmi, e i sogni diurni come i sogni notturni sono prima di tutto l’appagamento
* Per le citazioni dal testo, ci riferiremo alle Opere complete di Freud curate da Cesare Musatti (Boringhicri, Torino, 1970), dove der Dichter viene reso solo con poeta. Noi utilizzeremo qui i termini poeta c creatore letterario come equivalenti [N.d.T.|.
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di desideri.Il gioco del bambino è dunque all’origine del fantasma
che vi si sostituisce e della creazione che lo continua.Ma la creazione è in se stessa un mistero. Mistero per
l’autore, o almeno per lo scrittore di romanzi di avventure al quale pensa Freud nel suo saggio, che tende a «scindere il proprio Io, mediante autosservazione, in Io parziali, personificando in più eroi i conflitti che agitano la propria vita interiore»20 (verrebbe così ad abbozzarsi una somiglianza supplementare fra lo sciamano creatore di canti e l’autore dalle personalità multiple). Mistero ancor più peril lettore perché, ci dice Freud, mentre di solito i fantasmi degli altri ci lasciano indifferenti, quando vengono presentate in forma letteraria possono procurarci un vivissimo piacere. Freud cerca spiegazioni a questo paradosso. Attraverso le tecniche ad essa peculiari, pensa Freud, Yars poetica permette all’autore di infrangere «le barriere che si elevano fra ogni singolo Io e gli altri»21, attenuando il carattere «egoistico» del sogno notturno e procurando al lettore un «profitto di piacere», liberando in lui una forma di piacere che emana dalle fonti psichiche più profonde. Freud chiama questo aumento di piacere anche «piacere preliminare» e ne collega l’esistenza alla «liberazione di tensioni nella nostra psiche», pur suggerendo in conclusione che l’esempio dell’autore, come risultato di una vera
, e propria complicità o di una sorta di mimetismo, ci mette, mette noi lettori in grado «di gustare d’ora in poi le nostre proprie fantasie senza alcun rimprovero e senza vergogna»22.
Non si potrebbe aggiungere, appoggiandosi sulla distinzione stabilita da Freud stesso fra il fantasma (o anche sogno diurno o da svegli) e la creazione letteraria, che questa conservi, pur differenziandosene, un legame con la realtà e in particolare con il sociale che relativizza il suo «egoismo»? In questo senso, probabilmente, essa prolunga il gioco infantile ma si adatta meno bene di questo alla solitudine. In ogni opera vi è, inscritta in essa e percepibile dagli altri, la presenza di una dimensione sociale minimale, un richiamo a testimoniare che la distingue da ogni
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fantasma irrevocabilmente insalare.Riguardo a ll’infanzia, Freud istituisce dunque una
prima relazione fra il gioco, il fantasma e la creazione letteraria. Quest’ultima condivide con il fantasma un certo rapporto con l’infanzia. Ma ci sono diversi tipi di opera e Freud, per quanto non si dilunghi su questo soggetto nella sua breve conferenza, ne segnala due da non confondere con il romanzo «psicologico» al quale pensa prioritariamente: i romanzi in cui l’eroe è più spettatore che attore e le opere la cui materia appartiene al repertorio collettivo e condiviso dei miti, delle leggende e dei racconti. In alcuni romanzi di Zola «il personaggio introdotto come eroe ha una minima parte come attore e invece contempla come osservatore le azioni e le sofferenze altrui»23. Questo tipo di romanzo sembrerebbe contrastare nettamente con il sogno diurno o da svegli, ma Freud fa notare di avere incontrato delle varianti di sogni diurni, di fantasticherie «in cui l’io si limita alla parte di osservatore»24.
Quanto alle opere che non sono, in realtà, delle creazioni libere, ma «elaborazioni di un materiale già dato e noto [...] derivati dal patrimonio popolare di miti, leggende e favole», esse pongono un altro problema che Freud prontamente risolve trasponendo sul piano collettivo le analisi condotte sul piano individuale: «L’indagine su queste formazioni delia psicologia dei popoli non è affatto esaurita; tuttavia, ad esempio per i miti, è assolutamente probabile che essi corrispondano ai residui deformati di fantasie di desiderio di intere nazioni, e cioè ai sogni secolari [continuati per secoli] della giovane umanità»25. L’ontogenesi riepiloga davvero la filogenesi. Lo schema tratteggiato a proposito di quest’ultimo tipo di opera situail sogno all’origine del mito, il quale ispira la creazione letteraria.
Detto altrimenti, il sogno (diurno o notturno) e la creazione letteraria hanno per Freud la stessa materia prima, l’infanzia, definita come un miscuglio di memoria e di repressione che lo psicanalista individua e il creatore letterario esprime. Un anno prima del saggio su II poeta e la fantasia, Freud aveva pubblicato Delirio e sogni nella
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«Gradiva» di W. Jensen*, testo nel quale affermava che il romanziere e lo psicoterapeuta adepto del metodo analitico attingevano alla stessa fonte e lavoravano sullo stesso oggetto: «11 nostro procedimento consiste nell’osservazione cosciente di processi psichici abnormi in altre persone, allo scopo di poter individuare e formulare le loro leggi. Il poeta certo procede in modo diverso: rivolge la propria attenzione all’inconscio nella propria psiche, spia le sue possibilità di sviluppo e ne dà un’espressione artistica, in luogo di reprimerle con la critica cosciente»26. L’opera letteraria e l ’analisi procederebbero così dallo stesso oggetto di cui il sogno fa parte.
Ma non ci attarderemo qui sulla teoria freudiana della letteratura. In effetti possiamo supporre, con Pontalis, che Freud ci dia una definizione un po’ spiccia della creazione letteraria quando cerca di ritrovare nei dati reali dell’infanzia la causa prima e il nocciolo di verità di ogni elaborazione immaginaria27. Ciò che mi propongo sarà allo stesso tempo più modesto e più generale. Vorrei suggerire che fra il sogno, il mito e la creazione letteraria, questi tre poli dell’immaginario, si opera una circolazione di immagini, a doppio senso, attraverso la quale i tre poli si irrigano reciprocamente. Da un punto di vista antropologico, possiamo probabilmente supporre, inoltre, che queste immagini abbiano a che vedere più con la morte che con l’infanzia, e che il loro rapporto con l’infanzia sia anche un rapporto con la morte. Nelle società di cui l’etnologia classica ha privilegiato lo studio, la prima infanzia era uno stato ambiguo, perché la mortalità infantile o nconatale vi era rilevante (si è spesso considerato che un bambino non fosse veramente nato che dopo qualche mese di esistenza) e allo stesso tempo perché il neonato si identificava in parte con un essere scomparso di cui il suo corpo portava la traccia o il segno. Più in generale, i ricordi d’infanzia
* L’utilizzazione del termine poeta nell’accczione più ampia di creatore letterario, di autore, è qui provata dal fatto che la stessa Gradiva non è una poesia, ma una novella (N.d.T.).
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sono associati al volto di esseri scomparsi. L’immagine di sé bambino non ritorna che accompagnata dal corteo dei suoi testimoni: tutti coloro che un tempo lo circondavano, fantasmi già lontani o vecchi, irriconoscibili agli occhi dell'adulto che sogna o ricorda.
Anche la strana prossimità attestata dappertutto fra dei, antenati e morti più recenti deve essere presa in considerazione se ci si vuole interrogare sulla natura degli esseri inventati che popolano i sogni e i miti. In Africa e in America si è spesso operata la distinzione fra bravo e cattivo sognatore. Il bravo sognatore è colui che vede chiaro e sa identificare gli interlocutori che incontra durante il suo sonno o, nel caso dello sciamano, nel corso del suo lungo sogno da sveglio. Non si può escludere che i racconti di questi bravi sognatori e le nuove azioni degli eroi mitici in un sogno individuale vadano ad arricchire il capitale mitico. In questo senso, la bella formula di Freud sui «sogni secolari della giovane umanità» potrebbe essere precisata ed attualizzata: il sogno individuale, nelle sue diverse forme, forse è sempre una delle fonti alle quali si alimentail mito collettivo. E ciò che, come abbiamo visto, suggeriva Michel Leiris, quando sottolineava che il mito degli zar si arricchisce del racconto degli eventi terrestri di cui si attribuisce loro la paternità. È ciò che afferma anche Georges Dèvereux in Saggi di etnopsicanalisi complementari- sta quando scrive, a proposito degli indiani mohave, che il mito è efficace perché prima è stato sognato.
La maniera nella quale gli etnologi «raccolgono» i miti e le loro diverse «versioni» corrisponde raram ente ad un’occorrenza sociologica pertinente. L’etnologo è probabilmente l’unico a pretendere di raccogliere un racconto mitico esaustivo. È evidente invece, grazie a riti contingenti, come dei frammenti di mito, dei pezzi di racconto vengano utilizzati, ma anche commentati, sviluppati ed eventualmente arricchiti. E quello che avveniva, per esempio, nelle sedute di terapia divinatoria alle quali ho potuto assistere negli anni Settanta nelle regioni guin e mina, quando il bokond era una personalità riconosciuta e prestigiosa. Episodi mitici che conoscevo dalla lettura di Maupoil, il quale
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li aveva annotati prima della guerra (ma il bokonò non sapeva leggere), riapparivano nella sua bocca con dettagli e commenti supplementari: il mito conosceva nuovi sviluppi. Forse si vedeva addirittura accennarsi, in modo virtuale, la possibile nascita di un’epopea, di una rapsodia a più autori. Gli eroi mitici dei pantheon ben differenziati sono molto tipizzati; sono dei caratteri più che delle persone, così come è un personaggio identico e facilmente riconoscibile quello che si ritrova nei diversi episodi del mito, anche quelli di cui l’indovino che tratta un caso particolare propone una nuova variante. Così la strada della finzione, del racconto affrancato da ogni liturgia, può passare per il sogno e condurre dal mito alla «creazione-finzione» (creazione letteraria, creazione artistica) che rimette in scena i suoi personaggi.
L’immaginario e la memoria collettivi ( I M C ) costituiscono una totalità simbolica in riferimento alla quale un gruppo si definisce, e attraverso la quale esso si riproduce lungo le generazioni con modalità immaginarie. 11 complesso I M C informa evidentemente gli immaginari e le memorie individuali.
IM C(immaginario c memoria collcttivi)
(immaginario c memoria individuali) (creazione-finzione)
Esso è anche una fonte delle elaborazioni narrative (commenti di rituali, racconti sciamanici, epopee) abbozzate da creatori più o meno autonomi. Il complesso IMI
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(immaginario e memoria individuali) può influenzare ed arricchire il complesso collettivo, come abbiamo appena visto con Leiris, Devereux e il bokond togolese, ed è una fonte diretta della creazione letteraria. Ogni creazione, che prenda una forma sociologica più o meno collettiva, come in caso di colonizzazione o di ri-creazione culturale, o una forma artistico-letteraria più o meno individuale, può a sua volta ripercuotersi sugli immaginari individuali come sulla simbologia collettiva.
Avanzeremo l’ipotesi che, di conseguenza, ogni inaridimento di una di queste fonti può avere effetti anche sulle altre due. Questo è il rischio che ci fa correre oggi la guerra dei sogni.
Note al capitolo
1. B.G.M. Nadcl, Nupe religion, Routlcdgc and Kcgan Paul, Londra, 1954.
2. J. Pouillon, Malade et médecin: le mèrne el/ou l ’autre, in Fétiche sans fétichisme, Maspcro, Parigi, 1975.
3. L. de Hcusch, Pourquoi l ’épouser? et autres essais, Gallimard, Parigi, 1971.
4. Naturalmente esistono esempi di sogni «di interesse generale» (in particolare, politico). Caroline Humphrey cita esempi in Mongolia in cui si può «sognare per qualcun’altro, e addirittura sognare per una quantità di altre persone» (C. Humphrey e A. Hiirclbaatar, Rèver pour soi et pour les autres, «Tcrrain», n.26, 1996).
5. Si troverà una buona descrizione delle diverse forme di «sogno» analizzate dalla letteratura in relazione alla nozione di persona in G. Charuty, Destins anthropologique du rive, «Tcrrain», n. 26, 1996.
6. G. Orobitg, Les Pumé et leurs rèves, Editions des Archives contemporaincs, Parigi, 1998.
7. J.-P. Dozofi, La Cause des prophètes. Politique et religion en Afrique contemporaine, seguito da M. Augé, La Lepori des
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prophètes, Seuil, Parigi, 1995.8. M. Leiris, La possessione e i suoi aspetti teatrali presso gli
etiopi di Gondar, Ubulibri, Milano, 1988.9. ibid., p.55.10. ibid., p. 16 c p.76, noia 7.11. ibid., p. 13.12. ibid., p.49.13. M. Auge, Le Dieu objet, Flammarion, Parigi, 1988, p.23.
Oltre all’osservazione citata, Maupoil dà diverse indicazioni in questo senso. Cfr. B. Maupoil, La Géomancie à l ’ancienne còte des Ésclaves (1943), Institut d’ethnologie, Parigi, 1992, pp.59- 60.
14. Per le indicazioni e osservazioni che seguono utilizzo le note di Bertrand Féron, che ha tradotto per Gallimard (L'Inquietante Etrangeté et Autres Essais, Parigi, 1985) i saggi precedentemente raccolti e tradotti da Marie Bonaparte e Ed. Marty con il titolo Essais de psychanalyse appliquée (Gallimard, Parigi, 1933).
15. S. Freud, Il poeta e la fantasia, in Opere, Boringhieri, Torino, 1970, voi. V, p.376.
16. ibid., p.376.17. ibid., p.377.18. ibid., p.378.19. ibid., p.379.20. ibid., p.381.21. ibid., p.383.22. ibid., p.383.23. ibid., p.381.24. ibid., p.381.25. ibid., p.382.26. S. Freud, op. cit., voi. V, p.333.27. J.-B. Pontalis, prefazione a Le Délire et les Rèves dans la
Gradiva de W. Jensen, Gallimard, Parigi, 1986, p.21.
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IV
GLI ANTECEDENTI: L’IMMAGINE E IL SOGNO COLONIZZATI
La storia ci offre numerosi esempi di lotte per il controllo delle immagini e dell'interpretazione dei sogni. Queste lotte non hanno niente di metaforico, anche se corrispondono ora a un conflitto interno, come nel corso del M edio evo europeo che vede la C hiesa com battere l’immaginazione pagana, ora a un conflitto di tipo coloniale, come nel Messico e nelle Ande del XVI secolo in cui gli ordini mendicanti e poi i gesuiti ingaggiano, di fronte a degli amerindi non totalmente sguarniti in materia, quella che Serge Gruzinski ha chiamato «la guerra delle immagini»1. Guerra dunque, vera e propria guerra, tanto lungo il corso di tutto il Medio evo europeo che nei momenti più incandescenti del barocco americano, guerra di lunga durata i cui complessi scenari richiedono l’utilizzazione di termini quali offensiva, controffensiva, strategia, scontro,
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mobilitazione, colonizzazione ecc.Tanto in campo europeo quanto in quello americano gli
storici ci propongono analisi di una grande ricchezza. Ci soffermeremo qui in modo particolare su tre fra le prospettive da esse aperte, perché ognuna di queste mette in evidenza uno dei vertici del triangolo deH’immaginario che abbiamo appena tratteggiato. Nella prima prospettiva, quella di Jacques Le GofF e di Jean-Claude Schmitt3, si inscrive la filiazione fra sogno, racconto e formazione dell’io. La seconda prospettiva, con Carlo Ginzburg4, prolunga, per così dire, la prima, sposta indietro il suo orizzonte e mette l’esperienza della morte all’origine di ogni racconto. Nella terza prospettiva si profilano i rapporti fra sogno e potere e, con Serge Gruzinski, le diverse forme di scontro fra immaginari collettivi che permettono di interrogarsi di nuovo su nozioni come quelle di sincretismo, di resistenza o di ri-creazione culturale.
Sogni, visioni, racconti
Per la Chiesa, il dibattito che precede ogni interrogazione sull’immagine ha sempre riguardato la natura dei sogni e delle visioni. Nei diversi contesti e nei diversi momenti in cui la vediamo affrontare le immagini oniriche degli altri, la Chiesa oscilla fra due atteggiamenti, a rigore ben poco conciliabili: o le immagini non sono niente, solo dei residui diurni, delle tracce corporee, come se di fronte alle cosmologie esterne il cristianesimo non potesse essere che materialista; oppure sono delle illusioni, dei sogni fallaci ma che, proprio per questo, possono integrarsi, a diverso titolo, nel sistema di interpretazione cristiano. La prima posizione viene adottata dalla C hiesa m essicana in un contesto in cui l’opposizione sogno vero/vani sogni è di uso troppo delicato, dato il carattere tradizionalm ente molto elaborato dell’interpretazione dei sogni presso gli indios. La Chiesa m essicana agisce senza tanti riguardi, osserva Serge Gruzinski5; «proclama nella sua predicazione agli indios la rottura fra lo stato di veglia e il sonno, e
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insegna che le sensazioni visive che popolano il sogno o producono la visione non possono essere che reminiscenze di impressioni raccolte sulla terra»6, anche se, naturalmente, non è mai completamente escluso che Dio o il Diavolo possano in qualche modo entrarci. L’Uomo, Dio o il Diavolo (le tre fonti del sogno esplorate e analizzate da Gregorio Magno nel Vi secolo) vengono evocati e utilizzati in diversa misura secondo i contesti e le epoche. Gli storici sono d ’accordo n e ll’afferm are che durante tutto il primo millennio l’atteggiamento ufficiale della Chiesa nei riguardi del sogno era il sospetto, anche se essa riconosceva ad alcuni «sognatori d ’élite» (l’espressione è di Jacques Le Goff), essenzialmente i re e i santi, la capacità di fare sogni visionari ispirati da Dio. Per il resto, annota Jean-Claude Schmitt, il comune mortale passava piuttosto, soprattutto durante il sonno, per facile preda delle «illusioni diaboliche»7. Lungo tutto l’alto Medio evo e fino al XII secolo, la distinzione fra sogni «veri» e sogni «falsi» veniva messa in rapporto con quella della loro origine divina (che garantiva la verità dell'apparizione o della profezia) o diabolica (il sogno diabolico, reale quanto l’altro, suscita illusioni ingannatrici che conducono il cristiano alla perdizione)8.
È tutto sommato normale che, per un’istituzione come la Chiesa, il sogno sia oggetto di estrema diffidenza: esso sfugge infatti per definizione al controllo del sognatore e a fo rtio ri a coloro che sono ufficialmente responsabili delle anime, gli ecclesiastici, la cui esperienza onirica rivela loro le vertigini e le seduzioni incontrollabili che il sogno può suscitare, gli abissi che esso spalanca all’immaginazione. Le visioni da svegli, apparentem ente frequenti, venivano giudicate meno inquietanti perché si producevano davanti a testimoni e, allo stesso tempo, perché venivano immediatamente sottoposte alla valutazione e all’interpretazione delle autorità religiose. Alla notte incontrollabile degli individui, «esposta ai raggiri del diavolo e alle compiacenze colpevoli» del corpo, si contrappone il pieno giorno delle visioni da svegli, filtrate e garantite dalla «testimonianza di mediatori autorizzati che formano una
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difesa contro le tentazioni diaboliche»9.E perché gli uomini sono m ortali, e lo sanno, che il
sogno e la visione sono l ’occasione per la Chiesa di far provare ad ognuno la singolarità di un percorso personale sancito dopo la m orte da un g iudizio ind iv iduale. La morte svolge qui un ruolo essenziale perché si identifica con l’idea angosciante di questo giudizio senza appello, e al contem po perché, a questo tito lo , essa è oggetto di numerose testimonianze che possono prendere la forma di veri e propri racconti. Jacques Le Goff ricorda che il genere dell’autobiografia onirica è nato durante.la tarda antichità e che il tema dominante dei sogni riportati è quello del viaggio nell’aldilà. In modo più sistematico e a partire dall’esame dei «racconti autobiografici di spiriti e fantasmi», Jean-Claude Schmitt mostra il legame che si stabilisce progressivamente fra rappresentazione della morte e dei morti, sogno o visione, racconto e costituzione di un soggetto autonomo. Con «racconto autobiografico di spiriti e fantasmi» bisogna intendere il racconto che un individuo, m onaco o sacerdote, ma anche, a partire dal XIII secolo, laico letterato, fa del suo incontro con un morto (al quale eventualmente dà la parola). Le esperienze che forniscono l’occasione di questo incontro e l’origine del racconto sono di tre tipi: la sensazione di una presenza vicina (una sen saz io n e ana loga a q u ella del «pertu rban te» , dell’ Unheimlich, alla quale si interesserà Freud), la visione da svegli di un m orto in un m om ento di estasi e il sogno del sonno. Gli storici evidenziano il fatto che i racconti alla prima persona costituiscono una delle vie attraverso le quali si è affermato l ’individuo. In effetti questi si diffondono dopo l’anno mille, nel momento di un rinnovamento generale dello scritto autobiografico e dello sviluppo «di ciò che Michel Zink ha chiamato la ‘soggettività letteraria’» 10.
La scrittura, il sogno personale e l’elaborazione del lutto sono dunque strettam ente associati in un’im presa tanto più originale, secondo Jean-Claude Schmitt, in quanto segue a un’epoca (il primo millennio) nel corso della quale pesava la stessa diffidenza sull’affermazione di un
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ego autonom o e sul sogno: «[...] 1’ ‘io ’ si pensava e si esprim eva attraverso modelli di com portam ento e attraverso una concezione dell’identità, il cui riferimento era esterno al soggetto individuale»11. Per esempio alcuni cristiani, invitati a declinare la propria identità, dichiaravano semplicemente di chiamarsi «Cristiano», non rivendicando altra identità che quella che condividevano con i loro correligionari.
L’insieme di queste osservazioni è del più alto interesse. Ci invita prima di tutto a considerare che l’idea di unio autonom o non segue l ’apparizione del cristianesim o come la sua ombra. L’idea di comunità o di comunione le è altrettanto essenziale. Affinché l’accento sia messo sulla sua dim ensione singolarizzante ed individualizzante ci vuole, dunque, un incontro di elementi, una congiuntura. D ’altra parte, il sogno non può costituire da solo l’esperienza fondamentale de ll’individuazione. Esso non presenta alla coscienza del dorm iente una serie di identità discrete e definitivamente stabilite. Quanto all’io del dormiente, ci sono sogni o momenti del sogno in cui egli non svolge alcun ruo lo12. Affinché il racconto del sogno (o della visione) si apparenti ad una manifestazione evidente della coscienza di sé, ci vuole altro: un gioco di relazioni attraverso il quale viene definito indirettamente il posto di un soggetto il cui vuoto la narrazione ha proprio la vocazione di riempire.
Una prim a relazione istituisce il faccia a faccia fra il sognatore o il visionario e quanti sollecitano la sua testim onianza (individui privati o l’istituzione re lig iosa in quanto tale), che danno forma a un’esigenza di narrazione e concorrono alla costituzione di un genere letterario. Da questo punto di vista, la visione da svegli si distingue dal sogno. La visione è innanzi tutto oggetto di una trasmissione orale, poi di una trascrizione scritta. Così il racconto diventa un vero e proprio «oggetto sociale», qualità che dipende anche dallo «spazio sociale nel quale è destinato a circolare». Il racconto autobiografico di sogni si distingue da questo primo tipo di narrazione nella misura in cui il suo significato e i suoi usi «rim angono frequentem ente
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confinati nella cerchia ristretta dei congiunti e dei parenti che circondano il sognatore-scrittore» .
Il sognatore o il visionario, in questo contesto, è un po’ come il viaggiatore al quale si domanda di raccontare la sua avven tu ra. M a si sa da dove viene (ha viaggiato nell’aldilà) e chi ha incontrato (dei morti apparentemente preoccupati di m antenere un contatto con il mondo dei vivi). L’esperienza dei sognatori-mediatori del Medio evo non è dunque così d istan te da quella dello sciam ano pumé: la relazione con i morti guida la loro ispirazione letteraria e singolarizza la loro personalità. La posizione del narratore si situa all’incrocio fra una domanda sociale am piam ente in fo rm ata d a l l’im m aginario co lle ttiv o e un’esperienza immaginaria guidata in parte dalla memoria individuale e da una relazione personale con la morte.
Il sognatore-narratore è così, più di altri, in condizione di «fare il punto» e di calcolare la sua posizione, fra i vivi che vogliono sentire parlare dei morti e sollecitano la sua testimonianza, e i morti ai quali lo lega un legame particolare, fra i morti e i suoi morti o, se si vuole (perché la morte dei familiari è per ognuno proiezione ed anticipazione), fra la morte e la propria morte.
C arlo G inzburg è p robab ilm en te uno deg li sto rici dell’Europa premodem a che si è soffermato più a lungo sul problema del rapporto fra sogno, mito e racconto attraverso il loro riferimento comune alla morte. Ma lo affronta a partire da due problem atiche d istin te che non si confondono, anche se nel libro Storia notturna cerca di conciliarle. La prima problematica è retta da un’ipotesi di tipo diffusionistico. Un certo numero di temi letterari (il viaggio dell’eroe nel ciclo di Arturo come il viaggio nel m ondo dei m orti) e di credenze (la credenza nel lupom annaro nei paesi Baltici alla fine del XVH secolo, nei benandanti nel Friuli fra il XVII e il XVlll secolo) apparterrebbero ad un substrato culturale di cui lo sciamanismo siberiano costituirebbe l’archetipo e l ’origine. B isogna aggiungere che, per Ginzburg, questa ipotesi non dispensa d all’interrogarsi sulle regole formali che permettono la rielaborazione del mito e del rito trasmessi da intermediari
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storici. Il problema, aggiunge l’autore (e questa posizione mi sembra tradurre un’evoluzione della sua teoria, in origine più decisam ente diffusionista), sta nel sapere se, e fino a che punto, le forme e le regole interne individuate «siano in grado di generare riti e m iti isom orfi anche all’interno di culture non connesse storicamente»14.
Su scala europea, la somiglianza fra i miti che confluiscono nel tema del sabba delle streghe trattiene in modo particolare la sua attenzione, e al di là di questa somiglianza la persistenza nei millenni di ciò che l’autore chiama un «nucleo narrativo elementare». Ma l’organizzazione di questo nucleo narrativo non dipende più dalla casualità della trasmissione storica. Rientra nella seconda problem atica , c ioè in una n ecess ità fo rm ale n e lla quale la m etafora (lo spostam ento m etaforico) svolge un ruolo essenziale che spiega la parentela fra sogno, mito e poesia. Da ciò deriva l’ipotesi formulata dall’autore e la cui arditezza sembra spaventare lui stesso. «La risposta è forse semplicissima», scrive: «Raccontare significa parlare qui e ora con un’autorità che deriva dall’esser stati (letteralmente o metaforicamente) là e allora. Nella partecipazione al mondo dei vivi e a quello dei morti, alla sfera del visibile e a quella dell’invisibile, abbiamo già riconosciuto un tratto distintivo della specie umana. Ciò che si è cercato di analizzare qui non è un racconto fra i tanti, m a la matrice di tutti i racconti possibili»15.
Fare dell’esperienza della morte «la matrice di tutti i racconti possibili» significa situarsi decisam ente al di fuori di ogni problem atica cu lturalista o diffusionista. Significa formulare l’ipotesi antropologica di un legame necessario fra l’immaginario della morte ed ogni immaginario narrativo. Significa dunque anche porre il problema del rapporto fra il mito, inteso come racconto delle origini, e il rito che se ne ispira ma lo riproduce e lo arricchisce, che disegna lo spazio in cui i morti ritornano e in cui ì racconti vengono elaborati. Se un legame di questo tipo esiste veramente, ciò significa che nelle situazioni di conquista e di colonizzazione i racconti e i morti degli uni si m isurano con i racconti e i morti degli altri. La «guerra
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delle immagini» di cui ha parlato Serge Gruzinski mette in scena questo doppio scontro: alle statue e alle immagini del cristianesimo, che lancia i propri antenati alla conquista dell’im maginario indio, corrispondono le esegesi e i racconti che ne riportano la vita e i miracoli. Se l’esperienza della morte è la matrice di ogni racconto, le nuove immagini della morte e dei morti sono la fonte di nuovi racconti. Difatti, il culto della Santa Morte si diffonderà rapidamente fra gli indios e i meticci, ed è nota l’influenza che eserciteranno su di loro le immagini della Passione di Cristo a partire dall’epoca barocca.
Fin qui abbiam o visto svilupparsi, con gli storici del M edio evo europeo, le am bivalenze e le am biguità del sogno cristiano. Attraverso l ’evoluzione di un fenomeno di cui una serie di opposizioni binarie (sogno-rivelazione/sogno-illusione, sogno del sonno/visione da svegli, sogno individuale/sogno collettivo) traduce l’incertezza in qualche m odo costitutiva, si fa progressivam ente strada una constatazione: riguarda l ’importanza sempre accordata alle im m agini oniriche, la stretta relazione che esse mantengono con lo statuto della persona e dell’individuo, egli stesso inseparabile dallo statuto riconosciuto ai morti e agli antenati, e infine la loro dimensione essenzialmente narrativa poiché esse non esistono, per i testimoni esterni ma anche per colui che le ha «viste», che attraverso il racconto di cui sono oggetto.
I dibattiti sulla natura del sogno, dal canto loro, ne rivelano immediatamente il carattere letteralmente polemico. I conflitti di cui il sogno è oggetto sono conflitti di interpretazione e non riguardano soltanto gli individui. Jacques Le Goff, in Im m aginario m edievale, fa notare che il sogno interessa lo storico come fenomeno collettivo che si inscrive negli ambiti sociali e culturali di una società, e che il XVII secolo ha addirittura conosciuto delle «epidemie di sogno». Questa dimensione collettiva può farsi contestataria e, a questo titolo, preoccupare le autorità. Anche dopo la grande ondata di liberazione del sogno seguita al primo millennio, la presenza del diavolo viene sempre sospettata, e d ietro questa p resenza quella d e lla con testazione e
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dell’eresia, in particolare quando i sogni sembrano costituirsi come «contro-si sterna culturale» e la contestazione onirica legarsi alla costituzione eretica. Jacques Le G off cita a questo proposito il caso del primo eretico «popolare» dopo l ’anno mille, la cui azione trovò origine nella visione che ebbe da addormentato, in un campo; egli m enziona anche i Catari di Montaillou sui quali Emmanuel Le Roy Ladurie ha mostrato quale fascino esercitassero i sogni. Inversamente, Jean-Claude Schmitt fa notare che, sempre dopo l’anno mille, i racconti di spiriti e fantasmi, in particolare quando riportano una visione da svegli, sono stati mobilitati al servizio della riforma della Chiesa.
La guerra delle immagini
Nel contesto della colonizzazione propriamente detta, l ’urto delle immagini sarà ancora più assordante, ma le sue conseguenze, evidentemente enormi, sono tanto più diffìcili da valutare in quanto all’ambiguità fondamentale del fenom eno si aggiunge la com plessità delle reazioni che esso provoca, sempre oscillanti fra resistenza e seduzione. Serge Gruzinski, in diversi libri ma più sistematica- mente nel libro La guerra delle im m agini, parlando del Messico coloniale mette bene in evidenza il gioco incrociato delle am bivalenze che presiede allo scontro degli immaginari. Succederà in effetti che la Chiesa si preoccuperà del successo che, grazie in particolare all’azione dei gesuiti, le verrà procurato dalla sollecitazione permanente e spettacolare dell’immaginazione amerindia, e si sforzerà di controllarne o riorientarne gli effetti. D ’altra parte, la conversione degli indios alle immagini cristiane solleva qualche questione: si può tanto sottolineare la loro capacità di reinterpretare queste immagini, privilegiando così l’ipotesi di una resistenza effettiva e di un’identità mantenuta, quanto far notare che, in fin dei conti, il fervore indio è il segno di un’adesione globale e totale alla religione dei vincitori.
Da quest’ultim o punto di vista, si potrebbe fare un
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resoconto in termini militari e trionfalistici della guerra delle immagini scatenata dalla Chiesa nel XVI secolo. Prep arata dagli ordini m endicanti che sensib ilizzano gli indios ai canoni dell’arte europea (la rassom iglianza, la prospettiva, le pareti di immagini dei monasteri francescani, il teatro e i suoi trucchi), l’offensiva si scatena verso la m età del secolo; la C om pagnia di G esù ne è la forza d ’assalto; in particolare essa irreggim enta l ’esperienza visionaria degli indios, nella quale le figure della pittura cristiana europea si sono sostituite alle pittografie locali. Il dispositivo barocco, «con i suoi squadroni di pittori, di scultori, di teologi e di inquisitori»1”, mirerà fino al XVIII secolo a completare l’integrazione degli indios e l’adesione di tutto un popolo, in uno stato a volte vicino all’allucinazione, a ll’evidenza della prossim ità di Dio e dei suoi santi. È allora l ’insieme della società che sarà messo in discussione, spagnoli, indios, neri e meticci mescolati, in un primo abbozzo di identità nazionale. L’immagine investe il corpo attraverso il tatuaggio e le pitture: «Sulle pelli bianche, brune o nere degli abitanti della Nuova Spagna, viene abolita ogni distanza fra l’essere e l'im m agine» .
M a questo percorso a senso unico (dall’arte degli uni a ll’im m aginazione degli altri) è troppo sem plificativo, anche se nettamente attestato; e, nel rapporto con l’immagine stessa, in realtà è l’ambivalenza a prevalere, sia fra i fedeli indi sia all’intemo della Chiesa o fra i responsabili politici. Prendiam o l ’esempio del culto della Vergine di Guadalupe, che resta oggi, in Messico, un potente simbolo nazionale.
Questo culto risale al XVI secolo. Intorno al 1530, un eremo viene edificato dai primi evangelizzatori al posto di un santuario preispanico, Tepeyac. Apparentem ente gli indios frequentano la cappella con il sentimento di perpetuare in questo modo l’antico culto della Madre degli dei, Toci («Nostra Madre»), divinità ctonia. Nel 1555, probabilm ente su iniziativa dell’arcivescovo M ontufar, un’opera realizzata da un pittore indigeno, Marcos, ispirata a un modello europeo ma dipinta su un supporto di fattura indigena, viene segretamente sostituita all’immagine pri
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mitiva. Malgrado le proteste dei francescani, è proprio in questo luogo, che diventa quello dell’«apparizione» della vergine, che si sviluppa il culto. Il termine di apparizione si applica allora alla vergine o alla sua immagine? Gruzinski fa notare che, dal punto di vista indio, la questione è irrilevante: infatti, «a ben guardare, l’apparizione del 1555 non equivale forse alla produzione di un ixiptla, intesa in senso antico, ove la manifestazione di una presenza divina scaturisce dalla manifattura e dall’esposizione dell’oggetto di cu lto?»18. L’arcivescovo M ontufar, se è a lui che bisogna attribuire la paternità del m iracolo, ha dunque vinto su tutti i fronti: ha ancorato lo sviluppo del culto mariano in un territorio preciso, l’antico santuario di Toci- Tonantzin. Ha cortocircu itato l ’influenza francescana, sedotto gli indios e associato indios e spagnoli in uno stesso culto.
Sotto questo aspetto, la politica dell’immagine viene denunciata dai francescani che si preoccupano, più in generale, del fatto che un certo numero di culti di santi si situino sull’area di culti preispanici, e temono che, sotto l ’apparenza di un pellegrinaggio cristiano, molti indios rendano omaggio alle loro antiche divinità. Alle posizioni ambivalenti della Chiesa, nella loro diversità, farebbe pendant l’ambiguità, o addirittura la doppiezza delle pratiche indie. Fino alla fine del xvill secolo, il culto della Vergine di G uadalupe e il cu lto dei santi in generale saranno oggetto, a periodi alterni, di uno sguardo entusiasta o di un certo sospetto da parte della Chiesa. La pietà barocca raggiunge il suo apogeo nella prima metà del XVIII secolo, quando si m oltiplicano le Vergini locali e le im m agini miracolose; poi, di fronte all’assalto dell’Illum inism o e del pensiero razionalista, la Chiesa si fa più severa contro la pietà popolare. La Compagnia di Gesù, che aveva assicurato il successo dell’immagine barocca, viene espulsa dalla Nuova Spagna nel 1767. La distinzione adesso verrà operata fra veri e falsi miracoli. È importante non dare ai libertini delle occasioni per ridicolizzare la vera religione. La valorizzazione della pietà interiorizzata si accompagna al declino della grande pittura messicana, a ll’abbandono
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ufficiale del barocco, e al ridursi dei temi religiosi. Ma Gruzinski, che analizza questo disincanto programmato, sottolinea in contrasto la straordinaria vitalità della produzione popolare che caratterizzerà ancora tutto il XIX secolo. Questa produzione, che a volte è opera di artisti indigeni, «riproduce instancabilmente le anime del purgatorio, la vita dei santi, le Vergini m iraco lose , in prim o luogo Nostra Signora di Guadalupe»19. Il monopolio dell’imma- gine si è spostato.
Q uesta am bivalenza si ritrova sul piano politico. Al momento della guerra di Indipendenza, si dice che nei due campi avversi siano state identificate due grandi immagini mariane: quella di Guadalupe per gli insorti e la Vergine de Los Remedios per i lealisti: «Gli spagnoli avrebbero preso in odio la Vergine di Tepeyac al punto di fucilare una delle sue effigi e di profanarne qualcun’altra»20. Con l’Indipendenza, tanto i liberali quanto i conservatori fanno di N ostra Signora di Guadalupe un sim bolo nazionale. Patrona dell’impero messicano, sedurrà anche gli ambienti della massoneria. La situazione ufficiale si modifica, dopo la caduta dell’impero con Massimiliano, con la separazione fra Chiesa e Stato e la riforma costituzionale del 1873, ma il culto di Nostra Signora di Guadalupe e in generale il culto dei santi vengono di nuovo incoraggiati dalla Chiesa. E se i liberali vedono nel cattolicesimo messicano una sorta di idolatria, non possono però ignorare l ’ascendente esercitato dal culto della Guadalupe. Il liberale Altamira- no osserva che alla festa ad essa consacrata «prendono parte allo stesso modo gli indiani e gente di intelletto»21. D avanti ad essa vengono annullate le d iverse origini sociali ed etniche, e il pensiero liberale politico della fine del secolo, diviso fra razionalismo e nazionalism o, non può che riconoscerv i u n ’esp ressio n e d e lla cosc ienza nazionale. E insomma piuttosto sorprendente che a proposito di Nostra Signora di Guadalupe l’esitazione liberale e laica (che vi vede allo stesso tempo un simbolo nazionale e un segno di oscurantismo) sembri fare eco ai dubbi della Chiesa che a volte teme il fervore eccessivo e l’adesione completa dei suoi fedeli all’immagine, come se essa fosse
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costretta, oltre quattro secoli dopo la Conquista, ad interrogarsi ancora sul senso della loro conversione.
Gli interrogativi legati a ll’interpenetrazione e al confronto degli im m aginari sono in effetti riconducibili a registri diversi, anche se capita che un’epoca o un gruppo ne privilegi uno in particolare. Il primo è quello della rappresentazione: un’iconografia si sostituisce piuttosto rapidam ente ad un’altra o le si sovrappone sui luoghi della sostituzione dei culti. Questa sostituzione-sovrimpressione illustra un rapporto di forze (le immagini non rappresentano più le stesse potenze o le stesse entità), ma diventa abbastanza rapidamente (il tempo di una generazione) lo sfondo naturale della vita, il riferim ento al passato più prossim o di cui possano ricordarsi gli individui della seconda generazione: diventa una seconda cultura, allo stesso modo in cui si dice seconda natura, e anche l’unica cultura, dal momento che, lungo le generazioni, la forza dei racconti e dei riferim enti anteriori alla nuova storia collettiva si sfuma. Il secondo registro è quello della cosa stessa, di cui ci si sbarazza troppo facilmente attribuendo l’idolatria soltanto alle religioni preispaniche. C iò che viene effettivam ente m esso in d iscussione nei dibattiti orchestrati dalla Chiesa ad uso interno ed esterno è il rapporto con l’immagine e con l’oggetto, con la natura della loro presenza. Ogni immagine può provocare un fenomeno di appropriazione e di identificazione che di rimando le conferisce una sorta di esistenza autonoma e di vita propria: ciò è vero dell’immagine materiale, più vero dell’im- magine del sogno e ancora più vero quando queste due si confondono, quando cioè il sogno si nutre delle immagini diurne e queste a loro volta appaiono come ricordi o prolungamenti del sogno che ha dato loro corpo. Fare di ogni adesione feticista alle immagini cristiane la traccia inconscia di una idolatria perduta o la forma indiretta di una resistenza tenace, sign ifica ragionare com e la C hiesa, entrare nelle sue ragioni: significa, in ogni caso, impedirsi di interrogarsi dall’intcmo sulla natura del rapporto che gli uomini hanno Con la loro immaginazione e il loro immaginario. Il terzo registro è quello della relazione o del sim bo
l i
lico . Non appena le im m agini vengono m aterializzate, diventano strumenti di relazione: bisogna riconoscervisi (riconoscervi l’identità che si condivide con altri attraverso di loro) per riconoscerle come potenze effettive o come rappresentanti di una potenza effettiva. Storicamente, le question i che riguardano il rapporto con l ’im m agine riguardano simultaneamente i rapporti che coloro che vi aderiscono hanno fra loro. Nel caso della devozione detta popolare, il problema consiste nel sapere (è un problema di interpretazione e in definitiva un problem a politico) qual è l’ampiezza dell’effetto di riconoscimento che essa suscita. Ridotto alla sola persona individuale del praticante, questo effetto alla fine conduce soltanto a un’interpretazione in termini di superstizione anodina. Proiettato a livello nazionale, esso conferisce alla devozione, qualunque sia lo sguardo che si posa su essa, un valore di integrazione. Lim itato a un gruppo minoritario, l ’effetto di riconoscimento è facilmente avvertito dalle autorità ufficiali, religiose o politiche, come virtualmente sovversivo. Sotto agli interrogativi che riguardano la natura dell’adesione alle immagini, la verità della conversione o i paradossi dell’oscurantismo, in effetti trapela un’inquietudine sotterranea che si manifesta più esplicitamente in occasione di qualche emozione popolare. Che la dimensione identitaria del culto metta in scena l’individuo o la collettività nazionale è, in fin dei conti, a ltam ente augurabile. E abbiamo numerosi esempi della politica seguita in materia dalla Chiesa. Ma ciò che i rappresentanti dell’autorità religiosa o politica temono, spesso senza formularlo esplicitamente, è che la presa di coscienza identitaria nata dalla pratica del culto si fermi alle frontiere del o dei gruppi dominati, abbozzando l’inizio di una coscienza di classe e di una volontà di resistenza.
Questo timore e questo dubbio sono significativi. Esprim ono in fondo la stessa incertezza dei m ovim enti dei quali si preoccupano, che non sono mai di adesione completa o di opposizione totale. Esiste una ricca letteratura su questi movimenti, generalmente detti sincretistici, nati in tutti i continenti in contesti di colonizzazione. Questi stes
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si contesti sono diversi, m a hanno in comune il fatto di sollecitare l’im m aginazione degli uni e degli altri, e di modificare i loro rispettivi immaginari. Le differenze contestuali non sono per questo trascurabili. Per esempio, i modelli di rappresentazione e di interpretazione dell’Europa e dell’America del XVI secolo, al momento della Conquista, non erano così distanti l ’uno dall’altro com e si potrebbe credere22. M a questa «contem poraneità» del colonizzatore e dei colonizzati è stata m assima nel XIX secolo, al momento della penetrazione militare europea in Africa. Probabilmente in questo caso bisogna accordare una rilevanza particolare al secolo dei Lumi e alla modernità, che pretende di modificare sia il suo entourage più prossimo sia le terre lontane in cui l’ha condotta il movimento di espansione europeo. Diversi esempi invitano a considerare come la storia dell’America coloniale sia una storia a due tempi: quello della Conquista (e della «contemporaneità» relativa di cui abbiamo appena parlato) e quello della formazione dello Stato e della nazione, nel corso del quale un’élite di origine europea em erge e si riproduce condannando la parte india, nera o m eticcia della popolazione, demograficamente maggioritaria, a una sorta di m inoranza politica ed ideologica che per lungo tempo non arriverà a esprimersi se non sul piano religioso. L’adesione dell’élite ai modelli religiosi in questione può essere dal canto suo sincera e spettacolare, confondendo il quadro per uno sguardo esterno, ma essa si «distingue» più o m eno nettam ente o so ttilm ente dalla devozione popolare o da quei movimenti compositi, come la Santeria cubana, l'Um banda brasiliana, Maria Lionza in Venezuela, che prolifereranno nel XX secolo nelle periferie urbane.
Fra-due-m ili
Il sospetto che pesa sulla devozione popolare, espresso dalle élite cristiane, è dunque talvolta di essere «sincreti- stica» (di adorare un dio attraverso un altro e, per esempio, un dio messicano attraverso un santo cattolico), talal
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tra di essere «feticista» (di confondere il rappresentato e il rappresentante), insomma di giocare con l’immagine o di alienarvisi. Questo sospetto di diversità è in sé stranamente ambivalente. Proviene da un’élite che condanna gli altri alla differenza e che tuttavia non riconosce loro il diritto di volersi diversi. Q uanto a coloro che si vedono così paradossalm ente assegnati a una differenza sim ultaneamente negata, esprimono qualcosa di questo statuto intermediario e contraddittorio nel loro rapporto con l’immagine. La devozione particolare all’una o all’altra Vergine, a questo o a quel santo, non è essenzialmente diversa, sotto questo aspetto, dalla partecipazione ai movimenti eterodossi della tradizione cattolica di cui l’America del Sud e l’Africa sono due dei teatri principali. In tutti i casi, questi culti hanno una storia, m a è una sto ria re la tivam ente recente. N e ll’am bito del ca tto licesim o essa risa le ad un’apparizione della Vergine o alla manifestazione particolare di un santo, e la localizzazione di questa apparizione o di questa m anifestazione aggiunge il suo peso di realtà sensibile alla formalizzazione dell’evento e alla sua trasformazione in immagine. Al di fuori, ma spesso a lato, della tradizione cattolica c ’è una leggenda o l’iniziativa di una certa personalità che costituisce l’episodio fondatore. Per questo rimando al passato la storia del culto somiglia a un mito di fondazione, a un mito di origine, ma l’origine può essere recente e la fondazione incerta, nella misura in cui il gruppo di cui essa promuove l’esistenza ha, sociologicamente, delle frontiere mal definite. Ognuno dei fedeli del culto ha piuttosto un rapporto personale con esso. D ’altro canto, la storia del culto non costituisce nemmeno un mito escatologico. Concerne prioritariamente l’individuo, ma anche il presente. L’immagine (la statua, il ritratto, l’oggetto) è in qualche modo doppiam ente presente: c ’è (si discuterà eventualmente per sapere se la Vergine è presente nell’immagine, se l’immagine è la sua presenza o se, semplicemente, essa la rappresenta) e c ’è costantemente, in un presente perpetuo di cui la sua presenza assicura l ’incessante riproduzione.
Il culto dell’immagine si situa così al cuore di una sto
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ria che si potrebbe definire com e un «fra-due-m iti». È noto che gli analisti della modernità hanno in effetti contrapposto due tipi di miti: i miti dell’origine, che situano in un passato remoto la genesi dei gruppi umani e delle cosmologie nelle quali si sono sviluppati, e i miti del futuro, i miti escatologici corrispondenti al momento moderno che fa dell’avvenire il principio del senso. In questa prospettiva23, il passaggio alla modernità corrisponde simultaneam ente ad una autonom izzazione dell’individuo, al «disincanto» del mondo (che comporta una ridefinizione del senso attribuito alle relazioni sociali24) e all’apparizio- ne di nuovi miti, i miti del progresso, i grands récits che a loro volta scom pariranno, secondo Lyotard, con la fine della modernità e l ’era della condizione postmoderna.
Se rimaniamo nella prospettiva della modernità (quella che ha prevalso tanto nel corso delle guerre di indipendenza americane e poi dei tentativi di edificazione nazionale quanto nel corso degli episodi coloniali del XIX secolo), le pratiche religiose dei dominati o dei colonizzati si situano proprio in quel fra-due-miti che abbiamo appena ricordato: fra un passato mutilato e un avvenire oscuro. Ovviamente, si può avere una lettura più ottimista del fenomeno. Per esempio Georges Balandier impiegava l’espressione «riprese d ’iniziativa» per caratterizzare i movimenti religiosi africani («profetismo», «messianesimo») conseguenti alla colonizzazione25. Ma se la ripresa d ’iniziativa era incontestabile, se certe forme di resistenza o di adattamento alla nuova situazione hanno potuto trovare un veicolo o un’espressione in questi movimenti, ciò che colpisce nel complesso è piuttosto l’incapacità storica di questi a creare delle vere e proprie Chiese nazionali o a costituire una forza politica decisiva. La dom anda è allora la seguente: il rinchiudersi in una neocosmologia di reazione e l ’aderire senza riserve alla religione dei vincitori o dei dominanti, non sono forse fenomeni dello stesso ordine? A questa si abbina una seconda domanda che la prolunga e la precisa: il ruolo assegnato all’immagine in tutte queste forme religiose non è ciò che nello stesso tem po le isola dal passato e dall’avvenire, ciò che le rinchiude nel
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presente e in quelle che si potrebbero chiam are nuove bolle di immanenza?
Quali sarebbero dunque le caratteristiche com uni di questo «fermo-immagine»? Innanzi tutto, malgrado le sue pretese rifondatrici, esso non segna una rottura radicale con il passato. È il senso del ripetuto interrogarsi della Chiesa sull’affidabilità della fede di coloro che essa non smette di considerare dei neofiti. Ma essa ha mantenuto questo dubbio attraverso i procedimenti di sostituzione- sovrimpressione che le impongono di utilizzare, a proposito dell'im m agine, quello che somiglia molto a un doppio linguaggio. E anche il senso dei riferimenti vaghi e al contempo insistenti fatti dalle religioni dette «afro-brasiliane» e, più generalmente, da tutti i culti di sintesi che proliferano in America del Sud, a un passato indio o africano in gran parte inventato. È inoltre il senso del doppio movim ento attraverso il quale i profeti africani tentano di mitizzare la propria storia (da infaticabili rifondatori di una tradizione profetica che non sm ette d a ll’inizio del secolo di annunciare l ’avvento dei tempi nuovi), pur preservando fram m enti di cosm ologia e, più in generale, modalità diagnostiche che li ricollegano incontestabilmente a un territorio. Questi passati intravisti o ridisegnati con mano più o meno ferma costituiscono certamente un riferimento condiviso da molti, ma soprattutto garantiscono un modo di interpretazione della realtà e dell’evento nel quale le relazioni fra uomini svolgono sempre un ruolo decisivo. In modo che il Cristo di Sacromonte, le Vergini di Guadalupe e di Los Remedios in Messico, di Copaca- bana in Bolivia, e i loro emuli su tutto il continente - in un Paese come il Venezuela il XX secolo ha visto apparire un numero impressionante di Vergini ben localizzate di cui la più celebre, la Vergine di Coromoto, dichiarata nel 1952 patrona del Paese, ha trovato il suo posto sugli altari del culto a forti connotazioni pagane di Maria Lionza - come anche i caboclos dell’Umbanda o i profeti africani, lungi dal fare totalm ente scherm o al passato che pretendono scongiurare, istituiscono o rianimano un rapporto incantato con un mondo che del passato è la più viva espressione.
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Il secondo tratto comune a questi diversi culti è la loro dimensione individuale. Non si tratta qui di una salvezza individuale o del processo psicologico di individuazione. Una religione della salvezza come il cattolicesimo possiede anche una d im en sio n e g estio n a le e q u o tid ian a , e l ’im m agine accentua questa dim ensione, non foss’altfo perché essa si riproduce e si moltiplica. È una delle caratteristiche della devozione popolare trasformare i segni in presenze: le im magini pie, le m edagliette, i rosari non sono in linea di principio (per l’esegesi erudita) che dei rappresentanti dei santi e di Dio, dei promemoria, eventualmente dei richiami all’ordine, ma è noto che il possesso e l’utilizzazione di questi segni possono suscitare nel devoto la sensazione della presenza e dell’incorporazione, come nel caso dei tatuaggi e delle pitture che sovraccaricano il «corpo barocco». Sotto questo aspetto e nei limiti entro cui si può pretendere di restituire l ’atteggiam ento soggettivo dei praticanti, questi segni-presenze non sono fondamentalmente diversi dagli oggetti di cui-si carica il corpo pagano per proteggersi dai rischi dell’esistenza e dalle cattive intenzioni di chi lo circonda. Limitandosi al sem plice livello descrittivo, non sarebbe difficile dim os tra re che l ’ in siem e d e lle p ro tes i sac re in co rp o ra te a ll’individuo esercitano, in contesti m olto diversi, una funzione simultaneamente identitaria (nel senso che, nella possessione, dalla perturbata relazione fra possessore e posseduto può nascere una personalità rafforzata) e strumentale. Questa singolarizzazione dell’im magine o dell’oggetto che conforta e protegge l’individuo lo rinchiude nell’evidenza sempre incombente di un presente perpetuo.
La situazione fra-due-m iti offre sem pre un ruolo di primo piano all’immagine, ma apre due vie all’immaginazione. Il profeta, il visionario o il ribelle nutre i snoi sogni dell’immagine che lo affascina e cerca attraverso il sogno una nuova rivelazione. Sogna la sua infanzia, allucina il suo p resen te e ce rca di im m aginare il suo avven ire : l’attenzione che alla fine suscita in altri lo incoraggia a perseverare e a costruire un luogo di predicazione che prende per lui valore di segno e di presenza. I profeti pres
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so cui ho lavorato in Costa d ’Avorio erano esemplari di questo m ovim ento circolare. Avevano tutti avuto a che fare, in un modo o nell’altro, con rappresentanti del cristianesimo; poi, per mettersi, in qualche modo, per conto proprio si erano com posti un m ito personale, avevano reinventato la loro infanzia, elaborato una cosmologia di seconda mano (a partire da prestiti vari mutuati dal cristianesimo, o anche dall’islam, e da riferimenti culturali locali) e alla fine si erano installati, malgrado la pretesa universalistica del loro messaggio, nella loro regione d ’origine. 11 luogo della loro installazione (la «nuova Gerusalemme», come la chiamano alcuni di loro) diventa allora allo stesso tempo una dimora, un ospedale, un luogo di asilo, un tempio e il centro di un territorio al quale si applica ciò che si potrebbe chiamare una cosmologia privata: delimitazione spaziale e mentale che segna l’esito di un percorso e la contraddizione di un procedim ento. La dim ora del profeta, qualunque sia la storia che vi si gioca, vi si esprime o vi si ripete, è prima di tutto il suo immaginario realizzato o, per meglio dire, una realizzazione immaginaria.
La seconda via aperta a ll’im m aginazione in questa situazione fra-due-miti è quella dell’arte. Le due vie possono peraltro interferire. Presso alcuni profeti africani è difficile rimanere insensibili all’originalità della messa in scena, allo splendore dei costumi o alla bellezza dei canti. In Am erica del Sud o in America centrale ho più volte notato gli sforzi compiuti da personalità un po’ marginali di culti locali, più o meno simili e più o meno distanti dal cristianesimo, per elaborare un’opera pittorica, plastica o letteraria. Questi autodidatti della religione, de ll’arte e della letteratura non avevano sempre una vita personale molto facile né m olto equilibrata, quasi fossero presi a loro insaputa nelle correnti e contro-correnti che complicano la navigazione da un polo all’altro dell’immaginario. Ma nel caso del Messico (e, più in generale, dell’America centrale) la creazione artistica è stata la risposta naturale degli indios all’ondata di immagini che li sommergeva e, come si è visto, questo desiderio di creazione è sopravvissuto ai cambiamenti di strategia della Chiesa. L’arte india
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che imprime il proprio stile alle opere ispirate dalla tradizione cristiana è forse una fortuna per l’arte dell’America iberica, ma questo successo non porta soluzione immediata a una situazione di im prigionam ento di cui essa è al contrario una delle traduzioni.
Bisogna osservare che, tanto per gli inventori del religioso quanto per i creatori di immagini, la situazione fra- due-m iti condanna alla ripetizione e alla copia. Queste possono essere effettuate con più o meno talento, più o meno personalità, ma sono prima di tutto i prodotti - il riflesso e l’eco - di una fascinazione che nessuna delle opere che ne deriva è capace di dissipare. Una volta che la nuova religione o la nuova visione del mondo si è sostituita brutalmente all’antica cosmologia, la riproduzione affascinata privilegia, nel triangolo deH’im m aginario, una relazione a senso unico fra i nuovi stereotipi collettivi e l’immaginario individuale: è il caso del profeta africano la cui cosmologia non è che un pallido riflesso di quelle che10 ispirano senza effetto di ritorno. O una relazione fra questi stessi stereotipi e il polo della creazione-finzione: è11 caso degli artisti indi, tutto il talento dei quali si esaurisce nel riprodurre l’immagine prodotta da altri senza creare un nuovo genere. Si potrebbe addirittura affermare che la lotta estetica ingaggiata in epoca barocca rovescia il movimento che conduce dal sogno all’opera. La strategia della conversione può essere intesa anche come una strategia di inversione e di deviazione che intende modellare l’immaginario del sogno indio sull’immaginario di un’arte es te rn a , a ttrav e rso un p ro cesso di e s ten u az io n e che potrebbe prima o poi prosciugare la fonte viva della creazione. Gli elementi indotti dall’esterno nelle cosmologie amerindie o africane provocano, sia sul piano religioso sia sul piano artistico, l’apparire di una coscienza affascinata che fa una grande fatica a ricreare un universo di senso originale. Queste difficoltà lasciano per lo meno intravve- dere il luogo in cui possono essere elaborate a lungo termine delle strategie di ricomposizione e di ri-creazione: nel contesto coloniale e post-coloniale, la creazione, plastica e letteraria, mischia a quelle del cristianesimo altre
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immagini e altri riferimenti. Esiste così la possibilità di nuove sintesi individuali testimoniata per esem pio dallo sviluppo della pittura e del romanzo sudamericani. Ma la strada è stretta e, forse, da ora in poi interrotta.
Oggi infatti all’immaginazione si offrono deviazioni e cortocircuiti. Nel caso del Messico, Gruzinski fa osservare il parallelo che si potrebbe stabilire, per quanto riguarda le immagini, fra il XVI e il XX secolo. Il muralismo messicano (una delle grandi esperienze pittoriche dell’inizio del secolo, illustrata da pittori com e O rozco e R ivera) gli appare com e una «lontana risonanza, in versione laica, dell’immagine francescana», che mira a celebrare gli eroi dell’indipendenza e della rivoluzione26. Oggi, e con un successo ancor più incontestabile, «il favoloso sviluppo della televisione com m erciale m essicana, sotto l ’egida della compagnia Televisa, non può non ricordare un ritorno in massa dell’immagine miracolosa e invadente dell’epoca barocca»27.
Così posto, il rapporto fra il passato barocco e il presente «postmoderno» - rapporto di anticipazione - potrebbe essere oggetto di uno sguardo relativam ente ottim ista. L’esperienza americana del miscuglio delle etnie e delle lingue, del m étissage degli im m aginari, delle m em orie incrociate de ll’Europa, deH’Africa e dcH 'Am erica, racchiuderebbe, per riprendere la formula finale de La guerra delle immagini, «quanto di meglio per far fronte al mondo postmoderno, dove noi ci riversiamo»28. Senza mettere in discussione questa constatazione, né ignorare il carattere specifico ed esemplare dell’esperienza americana dell’immagine, se ne possono proporre due chiarimenti complementari. Si può innanzi tutto pensare che la situazione fra- due-miti sia caratteristica di tutte le situazioni coloniali, e che essa blocchi, in qualche modo per definizione, ogni accesso ad una m odern ità e ffe ttiv a , d e f in ita in base all’insieme di criteri dell’autonomia individuale, del disincanto del legame sociale e dell’inscrizione in un progresso storico di cui la democrazia è una tappa e una condizione. Ma bisogna ammettere che, per alcuni aspetti, essa invece anticipa una situazione oggi generalizzata alla Terra inte
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ra. Mi ero per esempio domandato, a proposito dei profeti africani di inizio secolo, se questi non fossero particolarmente sensibili all’accelerazione della storia, al restringimento dello spazio e a ll’individualizzazione dei destini attraverso i quali potrebbero essere definite ora la situazione coloniale ora la situazione contemporanea di «surmo- dernità» planetaria. Il problema sarebbe allora sapere che cosa rappresenta sociologicamente e storicamente questo cortocircuito, questa impasse in cui si trova la modernità. Ci si può anche interrogare sul presente delle società tecn o lo g icam en te più a v a n za te , sul lo ro ra p p o rto con l ’immagine, sulle forme contemporanee di confusione fra realtà e finzione, e domandarsi se non siamo entrati (noi, l ’umanità) in una nuova fase fra-due-miti che oscura le nostre prospettive per l’avvenire. La questione può formularsi in modo diverso: che cos’è il nostro im m aginario oggi? Siamo ancora capaci di immaginazione? Non assistiam o forse a una generalizzazione del fenom eno di fascinazione della coscienza che ci è sembrato caratteristico della situazione coloniale e delle sue diverse trasformazioni?
Note al capitolo
1. S. Gruzinski, La guerra delle immagini. Da Cristoforo Colombo a Biade Runner, Sugarco, Milano, 1991.
2. J. Le Goff, L ’immaginario medievale, Laterza, Bari, 1988.3. J.-C. Schmitt, Spiriti e fantasmi nella società medievale,
Laterza, Roma-Bari, 1995.4. C. Ginzburg, Storia Notturna. Una decifrazione del sabba,
Einaudi, Torino, 1989.5. S. Gruzinski, in J.-M. Sallmann, op. cit.6. ibid., p. 129.7. J.-C. Schmitt, op. cit., p.59.8. ibid., p.59. Questa stessa necessità di ripetizione viene
espressa dal capo del Servizio della Selezione nel Palazzo dei
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sogni che Ismaì'l Kadarc utilizza come archetipo della polizia delle coscienze nel romanzo II Palazzo dei sogni, pubblicato in Albania nel 1981: «Dapprima i sogni di carattere personale, senza alcun rapporto con lo Stato. Poi i sogni generati dalla fame o dalla sazietà, dal freddo o dal caldo, dalle malattie e via discorrendo; insomma tutti i sogni che hanno rapporti con la carne. Infine i sogni inventati, vale a dire quelli che nessuno ha veramente fatto ma che sono stati creati a bella posta da qualcuno nella speranza di far carriera, oppure architettati da fanatici dell’affabulazione o da provocatori. Queste tre categorie di sogni devono essere eliminate dai nostri fascicoli. Ma non è cosa facile! Scovarli, infatti, non è impresa da poco. Un sogno può sembrare di carattere puramente intimo, o suscitato da motivi triviali, come la fame o qualche reumatismo, e invece è in rapporto diretto con questioni di Stato...» (trad. it.: Longanesi, Milano, 1991, p.27).
9. J.-C. Schmitt, op.cit., p.60.10. ibid., p.49.11. ibid., p.58.12. Alcune indicazioni sull’io spettatore sono presenti in Sar
tre, altre sugli individui composti in Freud.Sartre: «La presenza dell’io nel sogno e frequente e quasi
necessaria quando si tratta dei sogni ‘profondi’, ma si posson citare numerosi sogni immediatamente posteriori all’assopimento, nei quali l’io del dormiente non compie ancora alcuna funzione. Eccone uno, per es., comunicatomi dalla signorina B.„: anzitutto, appariva l’incisione di un libro, rappresentante uno schiavo ai piedi della sua padrona; poi, questo schiavo andava a cercare del pus per guarire dalla lebbra contratta dalla sua padrona; doveva essere il pus di una donna che lo amasse. Per tutto il corso del sogno, la dormiente aveva l’impressione di leggere il racconto delle avventure dello schiavo. Non ha in nessun momento avuto parte negli avvenimenti. Accade, del resto, di frequente (per es. a me) che i sogni si presentino dapprima come una storia che leggo o che mi vicn raccontata. E poi, di colpo, m’identifico con uno dei personaggi della storia, che diviene la mia storia... (Immagine e coscienza. Psicologia fenomenologica dell’immaginazione, Einaudi, Torino, 1948, pp.257-258).
Freud (a proposito del lavoro di condensazione): «Posso
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comporre una persona, dandole i tratti di due persone, oppure dandole la figura di una persona e pensando in sogno al nome di un’altra, trasferendola però in una situazione che .si è verificata con un’altra» (Il sogno, in Opere, cit., voi. IV, p.21).
13. J.-C. Schmitt, op.cit., p.65.14. C. Ginzburg, op.cit., p.251.15. ibid., p.289.16. S. Gruzinski, op.cit., p. 189.17. ibid., p.195.18. ibid., p. 121.19. ibid., p.248.20. ibid., p.249.21. ibid., p.254.22. Cfr. J.-M. Sallmann, op.cit., introduzione.23. J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli,
Milano, 1981.24. M. Auge, Storie del presente. Per un 'antropologia dei
mondi contemporanei, Il Saggiatore, Milano, 1997.25. G. Balandier, Sociologie actuelle de l ’Afrique noire,
PUF, Parigi, 1955.26. S. Gruzinski, op.cit., p.256.27. ibid., p.257.28. ibid., p.262.
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IL TEATRO DELLE OPERAZIONI: DALL’IMMAGINARIO AL «COMPLETAMENTE FINZIONALE»
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Il triangolo dell 'immaginario: sostituzione-sovrim pressione
Esaminando le concezioni della persona messe in gioco nei fenomeni i cui archetipi sono, secondo gli etnologi, il sogno e la possessione, ci è sembrato di distinguerne due: la concezione aggregativa e la concezione alternativa. A nche se queste due concezioni più che contrapporsi costituiscono due modalità estreme di una serie di configurazioni intermedie, la loro esistenza e il loro ruolo nella costruzione del rapporto di sé con sé e di sé con gli altri, che d efin isce ogni tra ie tto ria in d iv id u a le , so tto lin ea l’importanza della relazione fra «immaginario e memoria dell’individuo»* (imi) e «immaginario e memoria della colle ttiv ità» (IMC), due dei vertic i del n o stro trian g o lo
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dell’im m aginario. I lavori degli storici, dal canto loro, m ettono in evidenza la relazione fra l ’esperienza della morte (nella quale intervengono i due primi immaginari) e la finzione, sotto l’aspetto del racconto letterario soggettivo. Freud, che pone l’immaginario e la memoria dell’individuo a ll’origine d e ll’opera di pura finzione, evidenzia anche un certo numero di generi letterari (racconti, leggende, epopee) nell’elaborazione dei quali l ’immaginario e la m em oria della co lle ttiv ità (ciò che egli chiam a i «sogni secolari della giovane umanità») svolgono manifestamente un ruolo preponderante. Abbiamo inoltre rilevato che anche il polo IMI, essenziale alla nascita della letteratura di finzione, svolge un ruolo nell’arricchim ento e nell’evoluzione del polo IMC, tramite le interpretazioni del sogno o il commento delle sequenze rituali.
Per tentare di valutare meglio la dimensione immaginaria dei fenomeni di contatto e di conquista culturale, prescinderemo provvisoriamente dagli effetti di ritorno legati alle iniziative individuali. Cercheremo così di precisare in che cosa consiste il fenomeno di sovrimpressione ricordato nel capitolo precedente e, più in generale, la situazione fra-due-m iti. N ella situazione di partenza (per esempio preispanica) e, ancora una volta, indipendentemente dagli effetti di ritorno del polo imi verso il polo IMC e il polo della finzione, il ruolo centrale viene assegnato al polo IMC che informa l’immaginario individuale e allo stesso tempo le opere d ’arte o di letteratura.
IMC
IMI CF
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La situazione di contatto viene innanzi tutto percepita com e l ’arrivo di nuove finzioni - di nuovi racconti e di nuove immagini. C ’è sempre un intervallo, per quanto breve, fra il primo contatto o il passaggio alPatto di conquista e lo scatenamento d e ll’impresa ideologica. Gli strumenti del nuovo messaggio costituiscono innanzi tutto una nuova finzione che eserciterà le sue proprie seduzioni sull’lMC e Timi.
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Ovviamente, l’impresa di colonizzazione dell’immaginario non si accontenta di questo statuto di «curiosità». Anzi, essa accorda proprio questo statuto all’immaginario degli altri, quando addirittura non lo trasforma nel lato oscuro della propria verità (la prova dell’esistenza del diavolo). I suoi racconti e le sue immagini devono occupare il posto dell’lMC precedente, rimodellare l ’iMI e ricreare una nuova arte. Uno spostamento di senso inverso assegna all’lMC precedente il posto della finzione (del folklore, nel caso specifico). N e risulta allora uno schema strettamente om ologo del precedente, tranne che quella che prima era finzione ora diventa il nuovo 1MC che informa a sua volta i poli IMI e CF; ma lo stesso polo CF accoglie il vecchio IMC che, quando la permutazione è completa, esercita la sua influenza sull’lMC e l’IMI soltanto com e finzione.
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IMC
Fase d i conversione
Stiam o m ostrando soltanto due situazioni lim ite. La permutazione non è mai totale né completamente evidente: le inquietudini della Chiesa, i suoi disaccordi interni sulla strategia dell'im m agine ne sono una testimonianza sufficiente. Ma essa è proprio una delle sfide che vediamo apparire chiaramente nel fenomeno della colonizzazione dell'im m aginario : una sorta di braccio di ferro, in 'cu i l’astuzia a volte rivaleggia con la forza, per controllare le immagini dell’altro. L’interessante è che in nessun caso si a rriva davvero a una sov rapposiz ione to ta le o a una sovrim pressione esatta, perché l’im m aginario degli uni non può costituirsi in immaginario collettivo degli altri se non esportando il proprio immaginario sulla finzione. La sovrim pressione si accom pagna dunque sempre ad uno scarto che ne complica la lettura e l ’interpretazione.
Capita la stessa cosa quando appaiono i grands récits, le grandi narrazioni della modernità. Il discorso m oderno intende occupare il posto dell'immaginario collettivo, ricostruire una memoria a partire da un evento fondatore (per esempio la Rivoluzione francese) per aprire l’immaginazione all’avvenire. Nel caso dei Paesi de ll’America del Sud, questo evento è l ’indipendenza nazionale, a ll’im magine della quale vengono associate delle figure eroiche (Bolfvar, il generale San Martin). Questa nuova fondazione provoca a volte un rimaneggiamento di quella che l’ha preceduta. La conquista spagnola non viene più celebrata
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come tale, ma al contrario messa in relazione con i fenomeni di resistenza che essa ha provocato da parte degli indios. Per esem pio, nel culto degli eroi che sarà per qualche tempo una delle espressioni ufficiali dell’ideologia nazionalista del Venezuela nel XX secolo, le figure dei caciques indi, simboli di una resistenza in gran parte reimmaginata da artisti e intellettuali, si ricongiungeranno a quelle di Bolivar, del suo com pagno nero (Negro Prim ero) e del capo delle rivolte di schiavi contro gli spagnoli (Negro M iguel)1. Il m étissage è la dottrina ufficiale dello Stato e lo strumento intellettuale di un’affermazione nazionale.
Naturalm ente, anche in questo caso la perm utazione non è totale. Lo Stato laico scende a patti con la Chiesa. Questa intende peraltro svolgere un ruolo nell'edificazione della nazione, e il culto degli eroi, anche nelle sue varianti popolari (come il culto di M aria Lionza), non si sostituisce veramente al cattolicesimo, e ancora meno ai riferim enti anteriori che al contrario può riv italizzare. Conosciamo, inoltre, le difficoltà incontrate dalla Francia rivoluzionaria e, più tardi, dall’URSS per simbolizzare in modo efficace la loro ideologia laica o atea. Resta il fatto che l’ideale della modernità, in nome del progresso, tende a relegare l’insieme delle adesioni religiose al polo della finzione, attraverso un movimento analogo a quello che ha diretto lo scontro fra religioni.
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Tuttavia, soltanto una considerazione simultanea delle diverse figure permette di cogliere la situazione sociologica reale, che in effetti combina due situazioni fra-due-miti esse stesse instabili: nella prima si esprime una tensione legata all’impresa di conversione, nella seconda la tensione fra l’immaginario moderno e gli immaginari religiosi. L’incanto del mondo, di per sé, in particolare nella forma dell’incanto del legame sociale che ne costituisce la forma perenne, è una delle poste messe in gioco dalla lotta religiosa, che non trova posto nell’immaginario moderno. È noto che le nozioni di miracolo, di esorcismo, di guarigione attraverso la preghiera sono temi di volta in volta cancellati e riattualizzati dalla tradizione cristiana in funzione delle sue strategie di conversione.
Si pone evidentem ente il problem a di sapere qual è oggi il rapporto fra i tre poli dell'im m ag inario , in un momento in cui viene annunciata un po ’ ovunque la morte dei miti della modernità, i quali a loro volta diventerebbero dunque semplici elementi di finzione. Ma affrontare questa q uestione p resuppone una d opp ia riflessione: sull'imm agine, l’immagine materiale alla quale gli uomini sono ancora più esposti e sensibili oggi che non all’epoca barocca, e che ha cambiato natura a partire da quando è stata riprodotta in movimento; e sulla finzione stessa, di cui ci si può chiedere se non abbia anch’essa cambiato natura o statuto a partire dal momento in cui non sembra più costituire un genere particolare, ma sposare la realtà al punto da confondersi con essa.
Lo stadio dello sch ern o
A questo riguardo l’autore di riferim ento è Christian Metz, nella m isura in cui, a proposito del cinem a, ha riflettuto sull’immagine e allo stesso tempo sulla finzione da un’angolazione psicanalitica. Ci interesseremo alle prospettive aperte dall’autore in tre direzioni: lo statuto del personaggio, il processo dell’identificazione e il confronto fra «stato filmico» e «stato onirico».
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Si è tradizionalmente stabilita una distinzione fra il teatro di finzione, che si basa essenzialmente sull’attore, e il cinem a, che invece dirige l ’attenzione dello spettatore verso il personaggio: priorità al «rappresentante» in un caso, al «rappresentato» nell’altro. Questa differenza, rilevata dalla teoria del cinema, era stata osservata anche in campo psicanalitico, in particolare da Octave M annoni3 per il quale, ci dice Metz, «anche quando lo spettatore di cinema si identifica con l’attore piuttosto che col ruolo (un p o ’ com e a teatro) lo fa con l ’attore in quanto ‘s ta r’, vedette, personaggio ancora, e favoloso, anch’esso di finzione: nel migliore dei suoi ruoli»4. Il punto che interessa qui riguarda l’esistenza di due gradi di finzione nel cinema, che peraltro possono combinarsi senza contraddizione immediata. Jean Gabin è Jean Gabin (con la sua storia, la sua leggenda, i suoi amori, e più ancora la sua silhouette, la sua aria di scherno e i suoi tic), ma è anche il consumato gangster di cui seguiam o con interesse l ’avventura, come se le due finzioni si nutrissero l’una delPaltra. Si sa che, soprattutto nel cinem a di seconda categoria, nei film detti di serie B, gli attori possono finire con l’interpretare sempre lo stesso personaggio, che allora si confonde con l’attore, o almeno con l’attore nel secondo senso ricordato da Mannoni, cioè la vedette che è essa stessa personaggio.I due personaggi fanno tutt’uno. Si è rimproverato ad attori a fine carriera (Jean Gabin, John Wayne) di non interpretare più che il loro personaggio. Ma questa identificazione ha il suo fascino, la sua virtù nell’accezione di efficacia. Si sentono spesso riassumere trame di film come se gli attori ne fossero effettivamente i protagonisti («Allora Gabin dice a Delon: prendi la grana!»). Viene così predisposto quel sistema all’interno del quale possiamo essere condotti a credere di conoscere gli individui perché riconosciamo i personaggi.
Questa confusione avvicina il cinema al mito: gli episodi mitici, per quanto diversi possano essere, ci presentano sempre dei personaggi identici a loro stessi, facilm ente ca rica tu rab ili (gli dei d e ll’O lim po per esem pio sono diventati senza fatica personaggi da commedia). E avvici
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na al mito anche le serie televisive; sarebbe addirittura meglio dire che queste hanno una dimensione mitica. Il successo delle grandi serie americane (che si presentino come sequel - ma in questo caso ogni episodio ha comunque la sua coerenza e la sua autonomia relativa - o come una serie di piccoli racconti indipendenti, in un commissariato di polizia, in uno studio legale o in un transatlantico da c ro c ie ra , am b ien taz io n e im m u tab ile che ra ffo rza l’effetto di riconoscimento) dipende dal carattere prevedibile, senza sorprese, dei loro diversi eroi. Si è contenti di ritrovare chi si ha l’impressione di avere sempre conosciuto, contenti di riconoscerlo, dunque. Sotto questo aspetto, il cinema tanto si allontana dal teatro quanto si avvicina al mito e alle serie televisive. Il fascino del teatro classico, per esempio, dipende da un effetto perfettamente inverso a quello che definisce in modo omologo il cinema popolare, le serie televisive e il mito. Una nuova interpretazione produce una riscoperta del personaggio. Tartufo, l’Avaro oil M isantropo sono tanto diversi quanto gli attori che li incarnano; il Tartufo di Jouvet non era quello di Ledoux: si pensava di conoscerlo e non lo si riconosceva. U n’opera teatrale non può vivere a lungo se non attraverso le «riprese» di cui è oggetto nel tempo.
Christian Metz ritiene di poter generalizzare la distinzione e, pensando evidentem ente ai grandi ruoli che il nome di qualche attore leggendario personifica per sempre per i cinefili, precisa, riferendosi ai due gradi di finzione di M annoni: «Se il ruolo cinem atografico è inscindibilmente e per sempre legato al suo interprete è perché la sua rappresentazione interessa il riflesso d e ll’attore e non l’attore, e il riflesso (il significante) è registrato, e quindi non può cam biare»5. È però interessante osservare che sempre più spesso oggi l’industria cinematografica americana attenta a quel legame fra il ruolo cinematografico e il suo interprete di cui, con Metz e Mannoni, veniva postulato il carattere necessario. Questo attacco mette forse in discussione la differenza teatro/cinema o ha altre implicazioni?
Partiamo dai fatti. È un dato di fatto che alcuni produt
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tori americani acquistino film europei non per diffonderli nelle sale d ’oltre-A tlantico, ma per girarli di nuovo. Li acquistano un po’ come si acquistano i brevetti, il diritto di riprodurre. Così questi film (per esempio, negli anni scorsi, le commedie francesi Tre uomini e una culla e II vizietto) vengono in seguito girati in ambientazione americana con attori americani6. Il problema non è la sceneggiatura: in generale viene ripresa in modo identico, fino alla m inim a battuta. La ragione invocata per sostenere questa immersione in una tintura americana è il «gusto del pubblico» che bisognerebbe dunque immaginare allergico ad ogni colore locale troppo deciso. È che in realtà si tratta di tutt’altro che di semplice colore locale. Il colore locale può trovare il suo posto a Disneyworld, nei ristoranti esotici o nei dipartimenti di «Cultural Studies» - come colore locale, appunto, con tutto ciò che di stereotipato, di limitato, o di potenzialmente finzionale il termine comporta. I film, come creazioni, non sono pure finzioni: hanno, per così dire, una pretesa di evidenza quotidiana, di esistenza. Suggeriscono uno spazio, una storia, un linguaggio, uno sguardo sul mondo, un’aspirazione particolare all’universale. Si può anche pensare che non siano gli attori europei in quanto tali ad essere presi di m ira dalle allusioni al «gusto del pubblico», ma ciò che Christian Metz chiama il loro «riflesso», come se non si dovesse lasciare supporre agli americani che esistono altre mitologie, altre storie, altri sguardi diversi dai loro, come se, al di là della molteplicità delle culture-finzioni, non potesse esserci che un solo vero immaginario collettivo.
Prova ne sia che questi film, una volta rifatti per il pubblico americano, vengono riesportali, in particolare verso i Paesi che ne hanno venduto la sceneggiatura: come confessare più ingenuamente, o in modo più imperialistico, che il «gusto» del pubblico americano prefigura quello di ogni pubblico possibile? Tra l ’altro oggi è già in parte così, tanto il «grande pubblico» del mondo intero si sta abituando a paesaggi, a ritmi, a discorsi e a espressioni che traducono e costruiscono, con un’efficacia peraltro notevole, una visione globale e inglobante; una visione,
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dagli occhi, niente dal corpo». Questa passività facilita l’identificazione con l’obbiettivo della macchina da presa e allo stesso tempo con il proiettore o, per meglio dire, con l’insieme del procedimento di proiezione che costituisce il film. L’importante non è tanto l’identificazione con i personaggi del film, che è già secondaria, ma è ciò che la precede, l’identificazione preliminare «con l’istanza della visione (invisibile) che è il film stesso com e discorso, come istanza che mette avanti la storia e che la dà a vedere»9. In sé, la questione della sotto-motricità introduce allo studio del rapporto fra il film, più precisamente la percezione del film, e gli stati come l’allucinazione e il sogno.
La combinazione di una sotto-motricità e di una sovra- percezione era già stata associata da Lacan allo stadio dello specchio. Christian Metz, che rifiuta di accostare il rapporto con lo schermo e lo stadio dello specchio, si propone di studiare più sistematicamente i rapporti fra quello che chiama lo «stato filmico» e lo «stato onirico». Per fare ciò, parte da qualche osservazione em pirica. A volte il pubblico partecipa con la voce e i gesti all’azione del film. La forza e la frequenza di queste irruzioni motorie dipendono o dalla natura del pubblico, oppure da quella dello spettacolo (la partecipazione del pubblico fa per esempio parte integrante dello spettacolo sportivo). All’opposto di questi momenti molto particolari, e molto rari per gli spettatori europei di cinema, occorre citare gli stati di «squilibrio mentale» in occasione dei quali lo spettatore ha la sensazione di risvegliarsi, come se per un breve istante avesse visto in sogno un pezzo di film. Christian Metz definisce questo istante come «un passo verso l ’illusione vera»10. Infine, si è constatato comunemente che, quando non si è dormito abbastanza, si rischia di assopirsi più durante che prim a o dopo la proiezione. La sotto-m otricità può così essere causa di una «allucinazione paradossale»11.
L’allucinazione è paradossale nel senso che il soggetto allucina ciò che c ’è veramente. La sua esistenza è legata allo stato deflo spettatore immobile e muto che spinge la «traslazione percettiva» un po’ più lontano di quanto non faccia lo spettatore agitato e «interventista», perché inve
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ste nella percezione l ’energia con la quale quest’ultim o alimenta i suoi atti. Si tratta dunque veramente di un’allucinazione «dovuta alla tendenza a confondere livelli di realtà distinti, dovuta a un temporaneo fluttuare nel gioco della prova di realtà in quanto funzione dell’io»; m a è un’allucinazione paradossale «perché le manca quel carattere tipico dell’allucinazione vera e propria, di produzione psichica integralmente endogena»12. È nelle loro «brecce» che stato filmico e stato onirico si avvicinano: avviene che si creda di aver sognato o allucinato ciò che si è realmente visto, ma avviene anche, nel sogno, che si sappia che si sta sognando.
C hristian M etz riprende da Freud le nozioni di «via progressiva» e di «via regressiva». Gli servono a stabilire che il grado di vigilanza e il grado di illusione di realtà sono inversamente proporzionali. Nello stato di veglia il tragitto degli impulsi psichici parte dal mondo esterno, passa per il sistema percezione/coscienza e termina nelle tracce mnestiche localizzate nel preconscio o inconscio. La via regressiva, al contrario, parte, come nel sogno del sonno, dal sistem a preconscio o inconscio, e ha com e punto di arrivo l ’illusione di percezione che può andare fino alla psicosi allucinatoria. La meditazione, l ’evocazione di ricordi seguono la via regressiva, ma non fino al suo termine. Lo stato filmico realizza anch’esso alcune condizioni dello stato onirico. Anche se la logica del principio di realtà (per il realism o delle im magini e forse anche dell’ambiente circostante lo spettatore) è più accentuata nel film che nel sogno (che obbedisce a processi quali lo spostam ento e la condensazione), il film è «solcato da emergenze primarie». Christian M etz può concludere che andare al cinem a vuol dire «abbassare di un gradino le difese dell’io»13.
Questo abbassamento delle difese corrisponde al rapporto specifico che il film mantiene con la «finzione», definita non come la capacità di inventare finzioni, ma com e « l’esistenza storicam ente costitu ita, e m olto più generalizzata, di un regim e di funzionam ento psichico socialmente regolato, che si chiama propriamente finzio
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ne»14. La finzione è un fatto prim a di essere un’arte o prima che alcune forme d ’arte se ne impossessino. Possiamo dunque interrogarci sulla maniera in cui degli individui si «ritrovano» in una finzione, per esempio un film, soltanto se teniamo conto del regime di finzione che le corrisponde.
Se, infatti, la finzione può definirsi come un regime di percezione socialmente regolato, ne consegue da una parte che essa ha un’esistenza storica che si traduce in istituzioni, tecniche e pratiche, e dall’altra che essa costituisce un fatto socioculturale che mette in gioco relazioni di alterità, rapporti di vario tipo con gli altri. Christian Metz affronta questi due punti a proposito del cinema. Al cinema come arte corrispondono un’industria, delle professioni, delle tecnologie, un mercato, ecc. Dal punto di vista del rapporto del pubblico con il film, l’importante è che lo sviluppo di questa industria retroagisca su ll’effetto psichico che fyia resa inizialm ente possibile e rem unerativa. Si può dunque supporre che il «regime di finzione» possa evolversi simultaneamente ai generi e alle opere di cui ha permesso la nascita. Le tecniche proprie del cinema introducevano sin dal loro apparire uno sconvolgimento del regime di finzione: «[...] la natura del significante cinematografico, con le sue immagini fotografiche particolarmente ‘somiglianti’, con la presenza reale del movimento e del suono ecc., produce l’effetto di sospingere il fenomeno- finzione, pure molto antico, verso forme storicamente più recenti e socialmente specifiche»15. Non si ha difficoltà a capire che l ’evoluzione accelerata delle tecnologie dell’immagine, a partire dall’età d ’oro del cinema, in particolare con l’apparizione della televisione, non può non aver influenzato profondamente il nostro regime di finzione.
Ma limitiamoci per il momento all’esempio del cinema per esaminare il secondo punto in questione: la finzione come fatto socioculturale che mette in gioco delle relazioni di alterità. Se il piacere provato davanti allo spettacolo del film passa per un abbassamento delle difese dell’io, per un isolamento narcisistico e per la realizzazione fanta- smatica, un paradosso supplementare della percezione fil
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mica permette invece di definirla come un’apertura eccezionale all’altro - eccezionale in due sensi: perché è rara e perché è di una notevole intensità. Per un effetto che si d is tin g u e allo s tesso tem po d a l l’id en tificaz io n e con «l’istanza della visione», con il film come dispositivo, e dall’identificazione secondaria con i personaggi, il soggetto percepente riconosce l’esistenza di un Altro (l’autore) analogo a se stesso, analogo all’io soggetto della percezione. Si potrebbe forse affermare che, in questi rari momenti, lo «stadio dello scherm o» inverte l ’effetto specifico dello stadio dello specchio: l’Altro è un Io.
Certamente ogni opera, se appena porta il marchio di un autore, può ad un certo momento produrre un effetto di riconoscim ento o di simpatia. Ma, nel caso di un’opera non visuale, questo effetto passa per le immagini mentali che colui che la legge o l ’ascolta produce. Ciò che per prima cosa apprezza è la capacità dell’opera di sollecitare la sua immaginazione, e non, in realtà, la coincidenza fra le sue proprie im magini e quelle, che gli sfuggono per definizione, che poteva «avere in testa» l’autore quando elaborava l ’opera. Si potrebbe anche dire che in questo caso la singolarità dell’immaginario liberato dall’opera dà la misura della simpatia che essa può far provare. Al contrario, è esperienza com une che un ’opera visuale, per esempio un film, ci sembri inferiore ai sogni di cui serbiamo il ricordo o alle rèveries che ci fabbrichiamo. Ciò succede perché siamo messi di fronte alle immagini prodotte da un altro.
Se i fantasmi sono realizzazioni di desiderio, saranno sempre superiori, da questo punto di vista, alle immagini prodotte da altri, che dopo tutto non sono che la realizzazione di altri fantasmi. Già Freud, abbiamo visto, si stupiva del miracolo della letteratura che permette di identificarsi, più o m eno, con il fantasm a altru i. M a quando l’opera stessa è immagine, i fantasmi dell’autore e dello spettatore si scontrano in pieno, e Christian Metz, d ’accordo con Freud nel qualificare il fantasma altrui come «cosa raramente simpatica», fa giustamente notare che, quando va al cinema, «il lettore del romanzo non sempre ritrova il
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suo film, perché quello che ha davanti a sé, il vero film, è ora il fantasma di un altro»16.
Questa analisi si colloca in un regime di finzione molto particolare. Nel caso delle statue, delle immagini pie e d eg li sp e ttaco li ai quali abb iam o fa tto a llu s io n e , le «opere» si situano a distanza variabile, secondo le epoche e gli individui, dal polo dell’immaginario collettivo e dal polo della finzione. L’autore viene spesso fatto sparire: la statua di N ostra Signora di Guadalupe «appare» un bel giorno come la Vergine in persona, ed è probabile che per molti la seconda non si distingua dalla prima, come il rappresentato dal suo rappresentante. Il rapporto con l’immagine è dunque diretto, personale; può venire letteralmente «incorporato». È anche «sim bolico», nel senso che fra tutti coloro che si riconoscono nella stessa immagine si stabilisce un legame. Questa, inoltre, viene caricata di esegesi ufficiali e conosciute; i fantasmi personali che convergono verso l ’immagine - m a che non si riconoscono come tali - si adattano bene a questa dimensione comunitaria e a questa retorica condivisa in quanto queste servono loro come sostegno nel reale.
È com pletam ente diverso nel caso del rapporto con l ’opera riconosciuta come finzionale. Ovviamente, il fatto che un’opera sia un’opera di finzione tanto per il suo autore che per il pubblico non la definisce per questo estraneao opposta al reale, non soltanto perché questo ne costituisce, sotto diversi aspetti, la materia prima, ma anche perché, intorno e a proposito de ll’opera, possono nascere fenomeni sociali collettivi, se non religiosi. Esistono per esempio dei cult m ovies e delle complicità fra cinefili.
M a la d im en s io n e so c ia le e lem e n ta re e p rim aria dell’opera di finzione passa attraverso il rapporto virtuale dell’autore con il suo pubblico (un libro viene scritto per essere letto, un film girato per essere visto) e attraverso il rapporto reciproco del pubblico con l ’autore, rapporto attuale perché evidentemente suppone il compimento e la ricezione d e ll’opera. In tu tti i casi questo rapporto è immaginario ed è proprio questo che ne costituisce l’interesse: mette in contatto degli immaginari singoli. Nel caso
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del film, è vero, questo rapporto con l’autore è meno evidente, come abbiamo visto, perché impone allo spettatore le sue immagini, e l ’illusione cinematografica si accontenta di solito dell’identificazione con il dispositivo filmico e con i personaggi. Diciamo che lo «stadio dello schermo» non è la tappa obbligata dell’accesso al piacere cinematografico. L’affinità fra le immagini filmiche e il fantasma dello spettatore non è in effetti mai garantita. Ma «quandoil caso la concede a un livello sufficiente, la soddisfazione - o la sensazione di un piccolo miracolo, come nella condizione della passione am orosa quando è ricam biata - deriva da una sorta di effetto, raro per natura, che può definirsi come la rottura provvisoria di una comune solitudine. È la gioia specifica che si prova nel ricevere dall’e- stemo immagini abitualmente interiori, immagini familiario che non ne sono troppo dissimili, nel vederle iscritte in un luogo fisico (lo schermo), nello scoprire in esse qualcosa di quasi realizzabile che era inatteso, nel sentire per un momento che non sono forse inseparabili dalla tonalità che spesso le circonda, da quell’impressione di impossibile, comune e accettato, che è tuttavia una piccola disperazione»17.
C ’è qualcosa di proustiano nel «piccolo miracolo» qui evocato. Solo che, se l’incidente fortuito che risveglia la m em oria corporea del narratore di Proust le apporta la prova della propria esistenza, ciò che è dato allo spettatore di Metz, grazie ad una coincidenza di immagini, è piuttosto la prova dell’esistenza delPAltro, o almeno di un altro; è una prova sensibile di realtà e allo stesso tem po una prova m inim a di socialità - la fine del fantasm a com e solitudine e della solitudine come destino.
La finzione può dunque essere per l’immaginazione e la m em oria dell’individuo l ’occasione di provare l’esistenza di altre immaginazioni e di altri immaginari. Ma questa esperienza riposa allo stesso tempo sull’esistenza di una finzione riconosciuta come tale (di un osservatorio sul reale che non si confonde con questo e che non si confonde nemmeno con gli immaginari collettivi che lo interpretano) e su ll’esistenza di un autore riconosciuto
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come tale, con i suoi caratteri specifici, che quindi istituisce con ciascuno di quelli che costituiscono il suo pubblico un legame virtuale di socializzazione.
Racconto e libertà
Lo statuto della finzione e la posizione dell’autore sono insomma i due criteri rispetto a cui può essere definito un regime di finzione. Ciò non significa che ogni opera di finzione sia «firmata» (singolarizzata e individualizzata) come può esserlo un film o un romanzo nella tradizione moderna occidentale, ma che vi è sempre significato uno scarto, caratteristico dell’opera in quanto tale, fra la finzione e la realtà che le corrisponde, come anche fra colui che l’ha concepita e quelli da essa coinvolti. L’arte di significare questo scarto è forse la chiave dell'aro poetica e la condizione del «piacere preliminare» di cui parla Freud. M a non è legata ad un genere particolare. Pensiamo per esempio alla Légende de la mort. Si tratta di un insieme di racconti che Anatole Le B raz18 ha tradotto e ordinato dopo averli raccolti in Bretagna presso diversi narratori o, più semplicemente, presso vari interlocutori («informatori», direbbero gli etnologi). Il carattere vissuto e relativamente anonimo di questi racconti viene corretto da due effetti specifici. Un racconto viene spesso presentato come il racconto di un racconto (si pensi al romanzo picaresco). Questo procedimento instaura una distanza fra colui che racconta e ciò che racconta, e a fortio ri fra ciò che racconta e chi l’ascolta. Questi racconti, queste avventure «vissute», che per alcuni aspetti ricordano le autobiografie di cui ci parlano gli storici medievalisti, venivano narrati nelle veglie, m a spesso è proprio una veglia ad essere il punto di partenza dell’intrigo. Si tratta di un altro procedimento di distanziamento, in certo qual modo per analogia, o, come direbbe Freud, di «gioco»: il racconto gioca con la realtà circostante, se ne avvicina, vi scivola accanto un istante e se ne allontana. Il narratore gioca con i suoi ascoltatori, che giocano a farsi paura. Il narratore è
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davvero in posizione di autore (poco im porta che sia o meno l’inventore del racconto: è identificabile e identifica la finzione) ed ognuno degli ascoltatori, in questo momento particolare e culturalm ente definito (si tratta di una veglia), è libero di lasciar vagabondare la sua immaginazione. 11 rapporto «incantato» con il mondo non esclude il piacere che si può provare a fame l ’oggetto di un racconto (in qualità di narratore o di ascoltatore) e dunque a prenderne le distanze, per quanto poco sia, mentre fra il narratore e gli ascoltatori e fra gli ascoltatori stessi si stringe una complicità che attesta anch’essa il carattere «finziona- le» del racconto. Da questo punto di vista, e indipendentemente dal suo contenuto, ogni «finzionalizzazione» identificabile è un inizio di «libero-pensiero» rispetto alle rappresentazioni dell’im maginario collettivo. E, se concordiamo con Ginzburg nel rintracciare nell’esperienza della morte la matrice di ogni racconto, possiamo anche aggiungere che ogni racconto è allo stesso tempo l’atto iniziale attraverso il quale gli uomini si liberano dall’ossessione della morte. In questo senso la finzione riconosciuta come tale è essenzialm ente liberatoria, ma la libertà che essa instaura resta in tensione con i rispettivi imperativi dei due immaginari che la stimolano e allo stesso tempo la limitano.
Jean-Pierre Vernant affronta la questione del rapporto fra credenza e finzione in Forme di credenza e di razionalità in G recia19. Dopo essersi interrogato sui rituali e sulla raffigurazione degli dei, osserva che in Grecia l ’oggetto della credenza è ciò che viene narrato attraverso il racconto dei miti. Trasmessi per lungo tempo oralmente, alcuni sono stati fissati per iscritto «con Omero, Esiodo e tutto ciò che viene chiamato la tradizione epica». Questi testi, questi racconti, sono caratterizzati da un’estrema diversità: esistono per esempio molti altri racconti oltre a quello della Teogonia di Esiodo per raccontare la genesi degli dei. La credenza, in questa «religione» aperta e non dogmatica, era «del tipo di quella che si accorda a un racconto di cui si sa che non è che un racconto». Detto altrimenti, il racconto del poeta greco, dell’aedo ispirato, è allo stesso
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tempo lo sviluppo di una memoria collettiva, l’espressione di un sapere «che costituisce il cemento sociale del gruppo», e... una storia. I due poli così evidenziati, il polo della credenza e il polo della finzione (della chiara coscienza del carattere in parte immaginato e fittizio del racconto), non sono mai totalmente separati. Ci si può domandare selo scarto così indicato da Vemant fra credenza e finzione non sia, più in generale, costitutivo dell’adesione, attraverso il piacere letterario, ai modelli religiosi politeisti o agli aspetti politeisti delle religioni monoteiste. Mi sembra di percep ire in ogni caso uno scarto della stessa natura nell’attenzione che gli indios pumé rivolgono ai racconti dello sciamano che evoca i loro dei e i loro morti, o in ciò che Anatole Le Braz ci riferisce delle antiche veglie bretoni. In tutti i casi, un distanziamento estetico (il grado di libertà simultaneamente riconosciuto all’autore o al narratore e a colui che lo legge o l’ascolta) instaura un leggero dislivello (un «gioco» nel duplice significato del termine) fra i vincoli del sistem a sim bolico e l ’im m aginazione dell’individuo. Questa esperienza del «gioco» letterario è forse la condizione obbligata per ogni sviluppo del pensiero filosofico e per la libertà intellettuale che essa istituisce rispetto alle cosmologie stabilite; libertà che suppone inoltre l’esistenza della scrittura come garante della memoria e supporto dell’argomentazione.
D al narrativo a l «com pletam ente finzionale»
Ora, questa esperienza della libertà vincolata viene oggi forse messa in discussione dal nuovo regime della finzione. Lo statuto della finzione e il posto dell’autore ne vengono infatti sconvolti: la finzione invade tutto e l’autore scom pare. Il m ondo è penetrato da una finzione senza autore. Tutto ciò che incoraggia lo sviluppo di una nuova oralità rischia di apparire presto o tardi come lo strumento della regressione filosofica e del ripiegamento del pensiero critico.
Riprendiamo per un momento lo schema attraverso il
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quale abbiamo cercato di raffigurare gli effetti di sovrim- pressione propri dei periodi di conversione e di disincanto. Innanzi tutto vi vedevam o i racconti del cristianesim o impadronirsi del polo dell’immaginario collettivo precedentem ente occupato daH’im m aginario pagano, e quest’ultimo scivolare verso il polo della finzione. Nella fase di disincanto, vedevamo apparire, dapprima a titolo di finzione, le grandi narrazioni della modernità che si sostituivano progressivamente al cristianesimo, relegandolo al polo della finzione per occupare a loro volta il polo deH’immaginario collettivo. Ci troviam o adesso in un momento in cui le grandi narrazioni della modernità sono anch’esse catturate dal polo della finzione. Ma niente le sostituisce nel polo IMC e si ritrovano in posizione di finzione allo stesso titolo degli immaginari collettivi precedenti. Siamo passati al «com pletam ente finzionale» nello stesso senso in cui si parla di «completamente elettrificato».
IMC IMC
Passaggio al «completamente finzionale»
Tutti i passati immaginari collettivi hanno adesso statuto di finzione. M a dal momento in cui il polo dell’immaginario collettivo è vuoto, la relazione de ll’im m aginario individuale con il polo IMC, relazione di ritorno dalla quale abbiam o provvisoriam ente optato di prescindere nello schema, non ha più ragion d ’essere. L’immaginario individuale di fronte a sé non ha più che la finzione. Ma anche la finzione è cambiata dal momento che essa non ha
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più scambi con il polo IMC, vuoto. Lo schema si semplifica. La nuova finzione, che chiameremo finzione-immagine, si situa a una distanza intermedia dai vecchi poli IMC e CF, come se entrambi fossero scivolati verso una nuova posizione di equilibrio. Il polo IMI, direttamente collegato al nuovo punto di equilibrio, ha relazioni esclusivamente con questo. Informato dalla sola finzione-immagine, l’io che occupa il vecchio polo d e ll’im m aginario e della memoria individuali (IMI) può essere detto «finzionale».
IMC
A Finzione-immagine..............
Io finzionale
CF
L’io finzionale è incessantemente minacciato di assorbimento da parte della finzione-immagine che si presenta come im m aginario collettivo e allo stesso tem po come finzione, mentre la finzione-immagine deve la sua esistenza alla loro eliminazione, alla scomparsa simultanea della storia e dell’autore.
Forse è necessario ricordare a questo punto, ancora una volta, che ognuno degli schemi qui tratteggiati rappresenta un caso limite. Le sovrimpressioni di immaginari, nella situazione em pirica, presuppongono la coesistenza dei vecchi schemi e dei più recenti, ognuno con i suoi propri effetti di sovrimpressione e di scarto. Non è dunque affatto vero, per esem pio, che la storia sia finita e che non ci siano più autori. E proprio l’ideologia dom inante che decreta la fine della storia e assimila le opere a prodotti come gli altri, perché, come ogni ideologia, essa privilegia e generalizza un aspetto della realtà. Ma è vero che, spinta
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all’estremo, la logica della situazione surmodema supponeo postula questa doppia scomparsa. Probabilmente bisogna anche precisare che non intendiam o presentare qui una teoria evo luzion ista d e ll’im m aginario in cui ogni situazione succederebbe ad un ’altra come una stagione alla precedente, anche se a proposito di ognuna di queste abbiamo potuto dare una tale impressione al lettore. Piuttosto, la storia fa apparire delle nuove possibilità. Esse coesistono, anche se ognuna di loro è a suo modo l’espressione di certe forme di potere e, globalmente, del gioco dei rapporti di forza. L’immaginario ha la sua propria efficacia, si sa, ma, dal punto di vista delle lotte storiche, ci si può domandare se non sia più uno strumento che una finalità o, più esattamente, se non si confonda con gli obiettivi che gli vengono associati. L’ideologia della modernità ha equivocato su questo punto assegnando destini necessariam ente solidali alle forme dell’economia, della società e dell’immaginario.
Si tratterebbe piuttosto di sapere se lo sviluppo delle tecnologie non abbia prodotto, essenzialmente & causa di coloro che la utilizzano a fini economici e politici, una forma fuorviata di immaginario (la «finzionalizzazione») e con essa un’energia nociva di cui non hanno più il controllo totale e della cui esistenza, in verità, non hanno preso piena coscienza. Sarebbe catastrofico se ci rendessimo conto troppo tardi che la realtà è diventata finzione, che dunque non ci sono più finzioni (non è fittizio che ciò che si distingue dal reale) e ancora meno autori. L’esplosione «finzionale» è analoga alla catastrofe nucleare: forse non è fatale, ma è diventata possibile. La cosa più drammatica è che, in caso di esplosione o di implosione finzio- nale, i sopravvissu ti sarebbero poco num erosi. Com e David Vincent, cercherebbero invano di risvegliare le vittime incoscienti e tranquille, gli io finzionali, per esortarli a ritrovare il loro immaginario e la loro memoria perduti.
Non è dunque vano fare l’inventario dei primi segni del d isastro e individuare il futuro teatro delle operazioni. Innanzi tutto l’immagine, l’immagine televisiva. E giocoforza riconoscere che vi sono grandi differenze fra lo
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«stato film ico» e lo «stato televisivo». Inizialm ente si potrebbe addirittura pensare che le difese dell’io siano più minacciate dal primo che dal secondo. Il dispositivo televisivo è diverso dal dispositivo filmico. Lo sguardo degli spettatori non si identifica in questo caso con l ’«istanza vedente» come in una sala di proiezione. L’ambiente quotidiano rimane identico, la luce resta quasi sempre accesa, lo scambio di opinioni con l’entourage è sempre possibile. Lo schermo è piccolo, all’altezza dello sguardo, almeno fino ad oggi. Per questo insieme di ragioni, quando dei film o dei telefilm passano sul «piccolo schermo» l’identificazione con i personaggi è meno immediata. La possibilità di cambiare canale, di «fare zapping», sembrerebbe conferire al telespettatore un potere di scelta e di decisione che non trova equivalenti nello spettatore di film al cinema.
Ma tutto ciò che distingue la televisione dal cinem a apre allo stesso tempo altre possibilità di identificazione e di allucinazione, più insidiose. Innanzi tutto la televisione è quotidiana e familiare. Per molti è il principio organizzatore del tempo, ogni giorno, ogni settimana, ogni anno. Come un tempo le campane cattoliche, essa scandisce le ore del giorno. Com e ogni liturgia, annuncia gli offici della settimana. Come ogni religione, si modella sul ritmo stagionale dell’anno. Introduce così in ogni famiglia dei volti tanto più familiari in quanto li si attende ad ore fisse, e si può avere la sensazione di averli scelti cam biando canale ogni m om ento, se necessario. La casa si popola così di dei lari, di piccole divinità domestiche, amabili, di umore sempre uguale, rassicuranti. Le silhouette maschilio femminili che animano i giochi, illustrano le previsioni del tempo o commentano l’attualità diventano alla lunga indispensabili alla fam iglia tanto quanto coloro che vi vivono realmente. Cristallizzano simpatie, a volte antipatie. Raramente restano indifferenti. Sono delle star senza essere atton, come se il piccolo schermo assicurasse subito a chi vi si ir>anifesta regolarmente uno statuto di personaggio finziom le analogo a quello degli attori che l’hanno conquistata a viva forza sotto la luce dei proiettori.
In secondo . uogo, lo statuto stesso della finzione è
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meno evidente alla televisione che al cinema, lo scarto fra finzione e realtà vi diventa meno percettibile. È ciò che capita oggi con quelle «star» del quotidiano che abbiamo appena ricordato. Alcune di queste ci presentano gli aspetti più tangibili della realtà che ci circonda (il tempo che fa,i fatti di cronaca, l’attualità politica, i risaltati sportivi), ma è a titolo di «star», di personaggio g ià finzionale, che esse penetrano la nostra intimità quotidiana. La scelta di una rete per il telegiornale è spesso guidata dall’immagine del presentatore. Questa leggera sfocatura nella distinzione realtà/finzione si estende ad altri aspetti della percezione televisiva. C itiam oli alla rinfusa: gli ercfrdelle serie televisive americane hanno una tale presenza sullo schermo che il personaggio, nel loro caso, assorbe tutto ciò che riguarda l’attore. Certo, Peter Falk può essere intervistato, ma egli è prima di tutto, per sempre e per tutti, il tenente Colombo. Certo, alcuni attori arrivano a cambiare ruolo e a volte addirittura a passare dal piccolo al grande schermo. M a 1 ’indissociabilità del personaggio e d e ll’attore rim ane l’elem ento chiave delle serie televisive. Q uesta indissociabilità, che conferisce loro una dimensione mitica, ha per corollario l’estremo realismo dell’am biente e delle situazioni. I commissariati di polizia, gli studi legali,i tribunali delle serie americane sono delle copie conformi d ella realtà . Le finzion i che m ettono in scena hanno l’aspetto di reportage. Mi ricordo che arrivando un giorno a New York in una camera d ’albergo e accendendo la televisione, per qualche minuto credetti di guardare una serie di cui avevo già visto degli episodi e che raccontava le prodezze di un avvocato ab ile a conv incere le g iurie smontando gli argomenti dell’accusa, fino al momento in cui mi resi conto che stavo assistendo in diretta al processo del giudice Thom as. Questo processo appassionava peraltro i miei colleghi e amici newyorkesi a un punto tale che, m algrado la loro coscienziosità e gentilezza, ogni giorno rientravano a casa il più presto possibile per conoscere il seguito del feuilleton.
Bisognerebbe citare in terzo luogo tutti i casi di «finzio- nalizzazione», di messa in finzione della realtà, di cui la
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televisione è uno strumento essenziale, e che corrispondono a una vera e propria rivoluzione, dato che non è più la finzione che imita la realtà, ma la realtà che riproduce la finzione. Questa «finzionalizzazione» è innanzi tutto legata alla sovrabbondanza di immagini e all’astrazione dello sguardo che ne deriva. L’immagine televisiva livella gli ev en ti senza p o te r g io ca re , com e la s tam p a sc ritta , sull’impaginazione e la differenza dei caratteri. Qualunque sia l’ordine di presentazione degli eventi e quali che siano le inflessioni di voce del presentatore, le immagini si susseguono senza soluzione di continuità: m igliaia di morti in un’inondazione lontana, un colpo di Stato in Africa, la rip resa del cam pionato di ca lc io , un incidente su ll’autostrada. Siam o presi a testim oni, divisi fra una dubbia innocenza (quella del bombardiere che sgancia le sue bombe dal cielo) e una vaga colpevolezza, quella sensazione di un debito verso le vittime di catastrofi o di epidemie che ci spinge a versare il nostro obolo al telethon o ad un altro dispositivo caritativo, forse per scongiurare la minaccia della disgrazia. La moltiplicazione dei disastri si combina nel nostro sguardo evidentemente passivo con la varietà dei paesaggi lontani e allo stesso tem po vicini: cangiante riflesso planetario sottomesso al capriccio del telecomando.
A volte sparisce ogni riferimento a una qualsiasi realtà. La pubblicità per esempio si serve dei presunti effetti della sua passata insistenza e procede per allusione, per citazioni autoreferenziali: l’inizio di un ritornello, l’abbozzo di u n ’im m agine che dovrebbe ricordarci delle sequenze complete e, attraverso queste, l’eccellente qualità di un caffè o le eccezionali prestazioni di un ’autom obile. La televisione stessa si prende volentieri per oggetto e racconta le ore gloriose della sua breve storia come se fosse anche la nostra, ed in effetti lo è nella misura in cui abbiamo vissuto per e attraverso l’immagine.
L’effetto di livellamento non gioca soltanto sulle situazioni, ma anche sulle persone e sui personaggi: nell’Olimpo televisivo si ritrovano fianco a fianco le vedette della politica, dello spettacolo, dello sport, ma anche le mario
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nette che le imitano, i personaggi che le replicano e i giornalisti che le presentano, tutte star e «personaggi finziona- li» nel senso di Christian Metz che sono inoltre obbligati ad esistere come personaggi politici, artistici, addirittura scientifici. L’importante non è ciò che queste personalità pensano del loro passaggio per la finzione, m a l ’effetto prodotto da questo livellamento finzionale su coloro che accedono al mondo esterno principalmente attraverso la televisione.
Gli effetti di livellam ento possono essere imputati in buona parte alle immagini stesse, visto che i media sono condannati a moltiplicarle, a produrre e riprodurre immagini senza interruzione. Ma non è più solo l’immagine ad essere in discussione quando l’attualità intende utilizzarla e, in q u a lch e m odo, d e f in irs i a ttra v e rso di essa . Al momento della guerra del Golfo e, più tardi, al momento dello sbarco in Somalia, venivamo praticamente convocati davanti alle nostre televisioni per assistere alla detta ora, in diretta, all’inizio delle operazioni. L’incerta distinzione fra realtà e finzione era chiaramente imputabile ad una vera e propria messa in scena. In queste circostanze, lo spettacolo non è stalo affatto all’altezza dell’annuncio e dell’aspettativa, ma ha rafforzato la dimensione finzionale dell’evento: per gli spettatori, pretesi testimoni di una guerra di cui non hanno visto niente, la guerra del Golfo ha assunto l’aspetto di un video-gioco a tema guerriero che dimostrava il carattere preciso e «pulito» dell’azione occidentale. Ricordiamoci della necessità per l’evento politico-militare di esistere come spettacolo e dell’obbligo fatto al cittadino di essere testimone di un evento finzionale.
Ci siamo fino a qui limitati all’immagine percepita, alle m odalità di ricezione de ll’im magine. In qualche modo, non siamo ancora molto lontani dalla posizione dello spettatore al cinema. C onstatiam o sem plicem ente, ed è già tanto, che la frontiera fra realtà e finzione si fa meno netta e che l’autore, anche se esiste, è assente dalla coscienza del telespettatore. Ma altri segni indicano che la «finzio- nalizzazione» del mondo si è messa in moto e che essa non passa solo attraverso l’immagine.
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In modo abbastanza sorprendente, non contenti di percepire immagini, gli esseri umani in generale (ma i maschi in particolare, come se la cinepresa fosse loro tanto indispensabile quanto il volante dell’automobile), i dilettanti, i turisti si mettono a produrne. Certo non per farne un’opera, per fare deH’arte (anche se certi riferimenti tecnici ed estetici possono abbigliare la pratica di massa - l’«arte popolare» - e drappeggiarla nell’eleganza un po’ passata di m oda di un linguaggio elitario oggi popolarizzato o «democratizzato», come si dice di certi sport20), quanto piuttosto per accumulare testimonianze del loro passaggio nei luoghi che hanno appena avuto il tempo di vedere. «Il mondo è fatto per finire in un bel libro», ha scritto M allarmé. «Il mondo è fatto per finire in un video», rispondono in coro i turisti di tutti i Paesi che effettivamente percorrono il mondo (il mondo vicino o lontano, a seconda dei loro mezzi e del cambio della loro moneta), ma lo percorrono con l’occhio inchiodato alla cinepresa, come se questo percorso al futuro anteriore non avesse senso che al ritorno, nelle serate trascorse a guardare il film di una peregrinazione finalm ente term inata, in com pagnia di parenti o amici rassegnati a interpretare questo ruolo di testimoni.
Si completa allora il movimento al termine del quale la verità di ciò che il soggetto ha vissuto (o non ha vissuto) e del soggetto stesso (perché alcuni artifici o la cortesia di un vicino gli permettono di figurare sulla diapositiva o nel film) si trova trasportata nell’immagine e nello schermo che le serve da supporto. Se riprendiamo a questo proposito l ’espressione «stadio dello scherm o», adesso non si tratta più di ricordare l’effetto di brusca simpatia che fa di un altro l’equivalente di un io - nell’istante miracoloso descritto da Christian Metz - ma di un faccia a faccia sfasato nel tempo, attraverso il quale il soggetto si identifica con un’immagine passata di se stesso. Io è un altro, forse, ma quest’altro non c ’è più.
Il m ondo, dal canto suo, ogni giorno viene disposto meglio per essere visitato, ma ancor più filmato e alla fine proiettato su schermo. Ogni notte i centri del mondo si
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illuminano e ci viene proposto sempre più lo spettacolo di ciò che noi stessi veniamo a cercarci: delle immagini. Chi si in e rp ica sul M o n t-S a in t-M ich e l p er acced ere a lla «meraviglia», al «merletto di pietra», viene assalito non solo dai mercanti del Tempio (quelli esistevano ben prima di provocare l’esecrazione del Cristo), ma anche dai mercanti di immagini che propongono spettacoli in cui viene messo in scena il Monte: filmato da tutte le parti, accarezzato da cineprese aeree, immerso nel buio e poi illuminato, emergente dalle acque in una gloria ritrovata. Nel frattempo la voce di artisti famosi ci racconta la sua leggenda. Le registrazioni in stereofonia delle orchestre più prestigiose fanno correre un brivido sulla schiena nuda dei visitatori estivi. Che cosa si può osare vedere e soprattutto filmare dopo? I turisti vengono troppo tardi in un mondo troppo visto. Eppure filmano, tenaci. Se occorre, filmanoil film: ecco che nella sala scura spuntano dei flash. Come se, con quest’ultim o riflesso, apportassero la prova che esistono ancora. Finissimi conoscitori del loro pubblico, i responsabili di certe agenzie di viaggio prevedono di fargli ben presto visitare in anticipo i siti che lo interessano, in tre dimensioni su Internet. Questo antipasto turistico non sarà dopo tutto più virtuale del turismo al futuro anteriore, dietro alla cinepresa. E il turista del futuro non verrà probabilmente scoraggiato, ma anzi stimolato dalla perfezione tecnica dell’avanspettacolo che gli verrà così presentato, perché dovrà com unque sempre partire verso il sito di sua scelta per riportarne delle immagini che avrà fatto «lui stesso».
L’impresa di finzionalizzazione, che viene incoraggiata da questi primi successi, si fa allora più ambiziosa: crea in aperta campagna degli universi nuovi, dei parchi di divertimento. Disneyland ne è l’archetipo: una via di un paese americano finta, un finto saloon, un finto Mississippi, dei personaggi di Disney che corrono in tutti questi luoghi finti, un finto castello e la sua Bella addorm entata nel bosco com pongono la scena di una finzione di terzo grado. La finzione (in particolare quella delle fiabe europee) era stata portata sullo schermo ed ecco che ritorna
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sulla Terra per farsi v isitare - im m agine d ’im m agine d ’immagine. Che cosa faranno i visitatori? Certamente filmeranno, rimetteranno nella loro scatola nera tutti i personaggi che non avrebbero dovuto uscirne, approfittando dell’occasione per raggiungerli, o almeno per aggiungere a loro la presenza dei familiari: moglie, figli, nonni che tutti insieme potranno ben presto vedersi sullo schermo (sullo scherm o della televisione, in più) con Topolino, Paperino e il Principe azzurro.
I parchi di divertimento, i club di vacanze, le aree comei Center Parcs*, ma anche le ville private che spuntano in America e ancora le residenze fortificate e protette che si ergono nelle città del Terzo mondo come tante roccheforti, costitu iscono ciò che potrem m o chiam are delle bolle d ’im m anenza. E sistono altre bolle d ’im m anenza, per esempio le grandi catene alberghiere o commerciali che riproducono più o meno lo stesso ambiente, distillano lo stesso tipo di musica attraverso i reparti o negli ascensori e propongono gli stessi prodotti, facilmente identificabili, da un capo all’altro del pianeta. Le bolle d ’immanenza sono l ’equ ivalen te finzionale delle cosm ologie: sono costituite da una serie di riferimenti (plastici, architettonici, m usicali, testuali) che permettono di riconoscervisi, disegnano e marcano una frontiera al di là della quale non rispondono più di niente. Sono più materiali e allo stesso tempo più leggibili delle cosmologie, che sono delle visioni simbolizzate del mondo; il loro apprendistato è più facile; ma ev identem ente m anca loro una sim bologia, un modo prescritto di relazione con gli altri (ridotto nel loro caso a un codice di buona condotta fra utenti) e un sistema di interpretazione d e ll’evento (anche se si sforzano di costituire dei mondi in miniatura, microcosmi del macrocosmo in cui viene proclamata la dignità del consumatore che li frequenta). Restano delle parentesi che si possono aprire e chiudere a discrezione, in cambio di soldi e cono
* Si tratta di luoghi di svago nei quali vengono riprodotti l’ambiente e il clima esotici [N.d.T.].
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scendo qualche codice elementare.Il cerchio, la ripetizione, l ’eco sono oggi caratteri domi
nanti su scale estremam ente variabili. I satelliti fanno il giro della Terra per osservarla o fotografarla. Fissi, servono a rimandare su una faccia del globo le immagini emesse dall’altra. Le catene commerciali, come indica il loro nome, cingono la Terra. L’ambiente ricorda l’ambiente, la pubblicità la pubblicità, la copia vuole essere copia, tutto si fa riconoscibile, tutto funziona bene.
La finzione, quindi, diventa ancora più ardita: non contenta di creare nuove parentesi, combatte la realtà stessa per sovvertirla e trasformarla. Impresa relativamente facile quando si accontenta di diffondere una musica di sottofondo in un supermercato o nei corridoi della metropoli- tana di Barcellona (dando così a volte al passante la sensazione di cam m inare a grandi' passi su non si sa quale scherm o, verso il lieto fine di un film in Technicolor), impresa che diventa più ambiziosa quando cerca di rimodellare secondo i suoi criteri le forme della città. Qualche tempo fa, la stampa ha segnalato che lo studio Arquitecto- nica come realizzatore e la Disney Corporation come promotore avevano vinto un concorso organizzato dal Com une e dallo Stato di New York per l’edificazione di un hotel e di un centro commerciale e ricreativo a Times Square, e per il restauro del quasi centenario hotel New Amsterdam nella Q uarantaduesim a strada a M anhattan. La Disney Corporation sembrava anche dover ottenere l ’incarico di sviluppare un program m a ricreativo (en terta in m en t) a Central Park e di creare un grande magazzino in cui potessero trovarsi tutti i sotto-prodotti dei suoi film al 711 della Fifth Avenue. Il progetto colpisce per il suo carattere spettacolare: il nuovo hotel avrà quarantasette piani e 680 camere; presenterà una fenditura nella quale passerà un «raggio galattico»; quanto al D isney Vacation Club, si presenterà come una sorta di immenso container che comprenderà cento appartam enti e sarà ricoperto da dieci schermi televisivi giganti, uno per piano, e da una moltitudine di insegne luminose. Ma la cosa straordinaria in questo progetto è che esso colloca nel centro della città, come
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una sua componente normale, il mondo di Superman, cioè un m ondo inizialm ente concepito com e u n ’im itazione della città, una finzione nella città fittizia. I due architetti vincenti hanno optato per un’estetica del caos, che però è molto deliberatam ente un caos da fumetto e da cartone anim ato. Com e hanno osservato alcuni g iornalisti21, il progetto in corso a Times Square è fedele all’estetica dei centri ricreativi già installati negli Stati Uniti, un’estetica che si tiene lontana da ogni dibattito sul senso dell’opera. L’effetto Disney si prende sul serio e si prende esso stesso per riferimento, si costituisce in autoriferimento per l’avvenire. La finzione imita la finzione.
L’esempio di Disney, che alla fine è soltanto l’impresa più com piuta di «messa in finzione o in spettacolo» del mondo caratteristica della nostra epoca, ci dà un’idea di ciò che sarebbe un mondo di pura finzione. Ma siamo già per gran parte in un mondo così. E i «nonluoghi» che ho avuto modo di ricordare altrove si misurano prima di tutto con la loro capacità finzionale, la loro capacità di «finzio- nalizzazione». Non si è mai tanto lontani da Disneyland in un aeroporto o in un grande albergo, ed è molto raro che non vi si incontrino tracce della sua presenza su un manifesto o in una vetrina. Le orecchie di Topolino sono dappertutto all’ascolto del mondo.
Per misurare l’ampiezza del fenomeno di «finzionaliz- zazione», si può partire da una constatazione di base: se la finzione si adatta così bene alla tecnologia (al punto da farne uno dei temi dominanti nei parchi di divertimento) è perché la tecnologia, dal canto suo, si adatta molto bene alla finzione, a tutte le finzioni. La surm odernità, per come viene vissuta, procede da un m iglioram ento della tecnologia che in sé non è che un precipitato della scienza; l’am biente che essa crea ha l ’apparenza di una seconda natura e non vieta di per sé nessuna opzione ideologica. Si può addirittura supporre che, dato l’isolam ento relativo prodotto oggi dal rapporto con l ’im m agine, l’am biente tecnologico si riveli propizio alle evasioni solitarie, che passino per la consultazione di un oroscopo, per l’ascolto ininterrotto della musica o per lo sforzo di raggiungere su
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un sito Internet degli interlocutori senza voce né volto, ma dotati, anch’essi, della parola. Negli Stati Uniti, alcuni esponenti relig iosi m olto d iversi (catto lici, anglicani, musulmani, ebrei, mormoni e addirittura fedeli del culto zen) hanno aperto dei siti su Internet22. Hanno trovato incoraggianti i primi risultati, soprattutto per le grandi religioni, cattolicesimo in testa. Per esempio oltre trecentomi- la persone si sono connesse con il sito riservato al Vaticano nei due giorni successivi alla sua apertura (a Natale 1995). Il direttore dello spazio riservato alla Santa Sede, Jim McDonnel, ha dichiarato al «Financial Times» che per le persone è più facile utilizzare il computer che andare in biblioteca a leggere le encicliche. Il sito riservato all’islam ha già attirato settem ila persone. M a la prova migliore della compatibilità fra Internet e la religione è stata fornita d a ll’accog lienza riserv a ta a ll’in iz ia tiva del C entro di com unicazione ebraica di New York che ha m esso su Internet un documento sulla storia e i costumi del popolo ebraico, e che viene contattato da duecentomila utenti al mese. I suoi responsabili non escludono di trasformare il sito in una vera e propria impresa commerciale che cederebbe alcuni spazi per gli annunci. Ma (ed è ciò su cui fisserem o m aggiorm ente la nostra attenzione) secondo il direttore del Centro, Larry Yudelson, ciò che incoraggia le Chiese ad andare alla conquista di questa nuova tribuna è innanzi tutto il carattere privato della relazione che si stabilisce fra l’utente e la rete. L’esperienza religiosa, ne conclude qualcuno, verrebbe completamente trasformata se su Internet potessero essere celebrate messe ed effettuate confessioni. Si può anche immaginare, davanti a queste innum erevoli possibilità di religione à la carte , che alcuni siano tentati di praticare per conto proprio un incessante bricolage mistico e di ricreare a loro uso esclusivo degli spazi «fra-due-miti» analoghi a quelli che abbiamo creduto di individuare nelle situazioni di tipo coloniale. Ad ognuno, provvisoriamente, la sua cosmologia.
In definitiva ci si può domandare se tutte le relazioni che si stabiliscono attraverso i media, qualunque sia la loro eventuale originalità, non dipendano prima di tutto da
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un deficit simbolico, da una difficoltà a creare del legame sociale in situ. L’io finzionale, colmo di una fascinazione che spunta in ogni relazione esclusiva con l’immagine, è un io senza relazioni e allo stesso tempo senza supporto iden tita rio , su sce ttib ile di asso rb im en to da parte del mondo delle immagini in cui crede di potersi ritrovare e riconoscere. Per qualche tem po ho avuto occasione di lavorare con un giovane di una trentina d ’anni, vivace e sim patico, che ogni mattina mi com m entava l ’attualità. Non facevo fatica a seguire il suo commento, avendolo già ascoltato (senz’altro come lui), parola per parola, alla radio qualche m inuto prima. Eppure quest’uomo era in completa buona fede e si identificava con ciò che diceva. Mi sono qualche volta sorpreso a immaginare che un giorno mi avrebbe raccontato il suo ultimo sogno e io vi avrei riconosciuto il mio perché entrambi l ’avremmo già visto alla televisione.
Note al capitolo
1. F. Fcrrandiz, Dimensions o f Nationalism in a Venezuelian Possession Cult, «Krocbcr Anthropological Society (KAS) Papers», n. 75-76, 1992, pp.28-47; Daisy Barrcto, Plasticità et résistance. Le mythe et le culte de Maria Lionza au Venezuela, «Gradhiva», n. 15, 1994.
2. C. Metz, Cinema e psicanalisi. Il significante immaginario, Marsilio, Venezia, 1980.
3. O. Mannoni, L ’illusion comique ou le théàtre du point de vue de l ’imaginaire, in Clefs pour l ’imaginaire ou l ’Autre Scène, Seuil, Parigi, 1969.
4. C. Metz, op.cit., p.71.5. ibid.6. A volte degli attori europei figurano in film americani o
anche fanno carriera negli Stati Uniti. Ma questi fenomeni di assimilazione momentanea o permanente non toccano quello che cerchiamo di analizzare.
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7. C. Metz, op.cit., p.76.8. ibid., p.90.9. ibid., p.89.10. ibid., p.95.11. ibid.12. ibid.13. ibid., p.l 18.14. ibid., p.109.15. ibid., p.l 10.16. ibid., p.103.17. ibid., p. 125.18. Ultima edizione: A. Le Braz, Legende de la mort, Coop.
Breizh, Jeanne Laffitte, Parigi, 1994.19. J.-P. Vernant, Entre mylhe et politique, Seuil, Parigi,
1996, pp.237-252.20. P. Bourdieu, L. Boltanski, R. Castel, J.-C. Chamboredon,
Un art moyen. Essai sur les usages sociaux de la photographie, Minuit, Parigi, 1965.
21. Penso in particolare a un articolo di Viccnte Verdu apparso nel giornale «E1 Nacional» di Caracas, Venezuela, il 19 dicembre 1995.
22. La stampa sudamericana e molto attenta alle manifestazioni più spettacolari della tecnologia nordamericana, forse perche la maggior parte dei Paesi sudamericani esemplificano una situazione in cui la tecnologia surmodcrna coesiste con il sottosviluppo sociale, dato che l ’ideale di modernità collegato all’ideale di indipendenza resta sempre un ideale. Alcune delle informazioni utilizzate in questo paragrafo provengono dal giornale «E1 Nacional» di Caracas.
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VI
ORDINE DEL GIORNO
Ho proposto «esercizi di etno-fiction» come sottotitolo per questo saggio avendo in mente due espressioni e due preoccupazioni corollarie. Le «etno-scienze» si assegnano sempre due obiettivi. Come prefisso, «etno» relativizza il termine che lo segue e lo fa dipendere dall’«etnia» o dalla «cultura» che si suppone abbiano pratiche analoghe a quelle che noi chiam iam o «scienze»: medicina, botanica, zoologia ecc. Da questo punto di vista, l’etno-scienza cerca di ricostruire ciò che serve agli altri da scienza, la loro pratica terapeutica e corporale, le loro conoscenze botaniche, ma anche il loro modo di classificare, di istituire relazioni, ecc. Ovviamente, non appena si generalizza, l ’etno-scienza cam bia punto di vista: tenta allora di formulare un apprezzam ento sui modelli locali, indigeni, ed eventualmente di compararli ad altri e, attraverso ciò,
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di proporre un’analisi delle procedure cognitive attive in un certo numero di sistemi. A volte, in questo caso prende il nome di antropologia: si parla per esempio di antropologia medica o cognitiva.
L’etno-finzione potrebbe definirsi a partire da questi due punti di vista: da una parte, come tentativo di analizzare lo statu to della finzione o le condizioni del suo apparire in una società o in un momento storico particolare; d a ll’altra , com e ten tativo di analizzare i d iversi generi finzionali, il loro rapporto con le forme dell’im- m aginario individuale o collettivo, le rappresentazioni della morte, ecc., in diverse società e in diverse congiunture.
Sono cosciente di avere solo abbozzato questo doppio percorso. Ma, per quanto imperfettamente, mi interessava in ugual misura fare opera di etno-finzione, di etno- fic tion nel senso in cui si parla di science-fiction. Perché è vero che la guerra dei sogni è cominciata (e che dobbiamo tentare di im maginare i suoi sviluppi futuri e le sue conseguenze possibili), ma è anche vero che noi non ne vediamo sempre chiaramente tutte le implicazioni.
Q uesta incertezza sulla nostra situazione esatta non deve impedirci di agire, di cercare di definire una morale dell’azione, un po’ come Sigismondo, l’eroe di Calderón ne La vita è sogno che, forte di una prima e crudele esperienza, decide per ogni evenienza di comportarsi come se sognasse e dovesse un giorno risvegliarsi.
Se la «finzionalizzazione» del presente si sostituisce (o si aggiunge) oggi alla m itizzazione della storia, al primo incanto (m itizzazione delle origini) e al secondo (mitizzazione dell’avvenire), se è nella sua logica di produrre un io altrettanto «finzionale», incapace di inscrivere la sua realtà e la sua identità in una relazione effettiva con gli altri, allora ci occorre definire non soltanto, come l ’eroe di C alderón , una m orale di attesa , «in caso di risveglio», ma anche una morale di resistenza.
Questa poggerebbe su qualche semplice constatazione. In prim o luogo, non bisogna confondere i modelli e la rea ltà . C om e possiam o raccog lie re pala te di esem pi
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molto concreti di incanto del mondo, perfino nei settori più tecnologizzati delle società «più avanzate», così dobbiam o anche sapere che le nozioni di disincanto, di fine delle grandi narrazioni, di post o sur-modernità, di «fin- zionalizzazione», rinviano a modelli che sono punti di vista parziali su una realtà che li autorizza, ma che non si confonde con nessuno di loro. In secondo luogo, l’im m agine è l ’immagine. Qualunque sia la sua potenza, essa ha soltanto le virtù che le si prestano. Può sedurre senza alienare, almeno fino a che non si impieghi tutto un sistem a per renderla uno strum ento di decereb raz ione . Il destino dell’immagine non le appartiene. Il nostro neanche.
Chi saranno domani i resistenti? Tutti coloro che, non rinunciando né alla storia passata né alla storia futura, denunceranno l’ideologia del presente di cui l’immagine può essere un veicolo potente. Tutti i creatori che, m antenendo bene o male la circolazione fra immaginario individuale, immaginario collettivo e finzione, non rinunceranno a provocare il m iracolo dell’incontro. Infine tutti i sognatori sufficientemente abili a coltivare i propri fantasmi da farsi intimamente beffe del prèt-à-porter immaginario degli illusionisti del «completamente finzionale».
Insom m a, tutti coloro che si preoccuperanno di co struire la modernità più che di cortocircuitarla.
In mancanza di una tale vigilanza, una parte dell’um anità rischia di restare presa nel gioco di specchi che le si allestisce affinché essa vi si cerchi e vi si perda incessantem ente. Il to ta lita rism o libera le non ha bisogno del Grande Fratello o del Tabir Sarrail, il Palazzo dei sogni di Ismaì'l Kadaré.
Ricordiam oci ciò che dice Sartre del sogno definito com e finzione, finzione «am m aliante», del sogno della coscienza che si è determ inata da sé a trasform are in immaginario tutto quel che coglie, come «il re M ida trasformava in oro quanto toccava»: «Il sogno non è la finzione scambiata per realtà; è l ’odissea di una coscienza votata da sé, e a suo malgrado, a costituire esclusivam ente un mondo irreale. 11 sogno è un’esperienza privilegiata
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che può a iu ta rc i a c o n c ep ire qu el che sa reb b e una coscienza che avesse perduto il suo ‘essere-nel-m ondo’ e che rimanesse priva, nell’atto stesso, della categoria del reale»1.
Stiamo al l’erta.
Note al capitolo
1. J.-P. Sartre, op.cit., p.273.
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