Francesco Lamendola LA BAMBINA DEI SOGNI Questo racconto è compreso nel volume “La bambina dei sogni e altri racconti” Ragazza con trecce di Amedeo Modigliani Editore Lalli Poggibonsi (Siena) 1984
Francesco Lamendola
LA BAMBINA DEI SOGNI
Questo racconto è compreso nel volume
“La bambina dei sogni e altri racconti”
Ragazza con trecce di Amedeo Modigliani
Editore Lalli
Poggibonsi (Siena)
1984
E-book “La bambina dei sogni”
Pag. 2 di 41
CINQUE RACCONTI DI FRANCESCO LAMENDOLA
1 - LA BAMBINA DEI SOGNI
2 - LO STUDENTE SPAGNOLO
3 - LA VOLATA
4 - ELISA E IL POETA
5 - O CANGACEIRO
N.B.: il libro cartaceo è da tempo esaurito. Nel presente e-book sono raccolti 5 racconti su 10 del libro originale.
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LA BAMBINA DEI SOGNI
I
Mentre sto seduta davanti a questo tavolo, posso vedere attraverso i vetri della finestra il blu cupo
dell’oceano e l’azzurro del cielo percorso da innumerevoli cirri in corsa veloce: immensi l’uno e l’altro, il
mare e il cielo. Questo è il paesaggio che ho visto fin dai miei primi anni e che ha costantemente
stimolato la mia indole fantastica. Mi piace essere davanti a questo azzurro infinito mentre mi accingo a
raccontare a me stessa, mettendola per iscritto, la mia storia. Certo non potrebbe interessare a nessun altro
che a me; mi basta che faccia un po’ di compagnia ai miei pensieri, nella solitudine di questo lungo
inverno australe, fino al ritorno della primavera.
Mi chiamo Regina Wilson e abito in una fattoria nei pressi di Invercargill, sulla punta più meridionale
della Nuova Zelanda. Sono nata qui quattordici anni fa. Mio padre Ronald fa il taglialegna, mia madre
Alice è casalinga. Abbiamo un cane spinone, Tom, che è il mio migliore amico. Con lui ho esplorato a
palmo a palmo i grandi boschi di faggi antartici che coprono le colline e le valli dietro la mia casa. La mia
famiglia è tutta qui.
Della mia infanzia ho pochi e confusi ricordi, e tutti alquanto tardivi. I più antichi risalgono a quando
aveva già almeno cinque anni. Da che cosa ciò dipenda, non saprei, forse dal fatto che non ebbi
un'infanzia felice. Già allora mia madre aveva contratto il vizio del bere e andava soggetta a quelle crisi
depressive che l'affliggono ancora adesso. Io allora credevo che fosse ammalata, e quando giaceva
abbandonata sul letto per ore ed ore, pregavo il Signore perché la guarisse dal suo male misterioso. Mio
padre l'ho sempre visto poco. Lui lavora nel bosco tutto il giorno; parte all'alba e rientra soltanto per
mangiare, talvolta solo per cena. Che non andassero molto d'accordo, cominciai a capirlo abbastanza
presto.
Quando andai a scuola cominciò un periodo un po' più sereno. Stavo fuori casa metà giornata ed ero
felice di giocare con le compagne e i compagni. Ma la scuola era troppo lontana da casa e le mie amicizie
finivano irrevocabilmente quando suonava la campanella annunciante il termine delle lezioni. Inoltre,
anche durante le vacanze ero quasi sempre sola. Presi perciò l'abitudine di fare delle lunghe escursioni
nella foresta, e questa abitudine diventò presto un bisogno e una passione. Il labirinto dei faggi, gli alberi
secolari coperti di muschio e avvolti da festoni di piante rampicanti, i tronchi abbattuti e marciti, le felci
specchiantisi nelle pozzanghere erano il mio regno incantato. Talvolta mi spingevo fino alla sommità
della collina battuta dal vento e col cuore che mi pulsava per la gioia contemplavo le acque smeraldine
dello stretto di Foveaux e la sagoma verde-azzurra dell'isola Stewart, perduta nell'immensità antartica.
Senza quasi accorgermene e senza volerlo cominciai a diventare una solitaria. Avevo vissuto per anni
in una casetta isolata, passando giornate intere senza vedere altri che i miei genitori, eppure ero stata una
bambina naturalmente socievole. Ora non era più così. Se nel bosco incontravo qualcuno, mi infastidivo e
cambiavo strada. A scuola non ero molto brava, però mi piaceva molto leggere per conto mio. Quando fui
ammessa al prestito della biblioteca di Invercargill fui veramente felice. Potevo portarmi a casa tutti i libri
che volevo e li divoravo con una specie di autentica voluttà. Ma più di tutto mi piaceva andare nel bosco.
Lì mi sentivo rasserenata e quasi felice, signora assoluta di un regno proibito a chiunque altro: il regno dei
sogni e della fantasia. Gli alberi e le nuvole delle radure erano i miei grandi amici.
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Però sentivo il bisogno di un amico di genere un po' più comunicativo. All'età di dodici anni il papà
mi regalò Tom, lo spinone, facendomi letteralmente impazzire dalla gioia. Tom ed io diventammo
inseparabili. Eravamo sempre sui sentieri del bosco. Una volta che fui malata per diversi giorni, Tom non
si mosse dalla mia stanza se non per le sue immediate necessità e rimase lì finchè non fui guarita e potei
alzarmi. La vita all'aria aperta aveva molto irrobustito il mio fisico. Potevo camminare e correre per
miglia e miglia senza stancarmi, prendere violenti acquazzoni senza buscarmi un raffreddore,
arrampicarmi sugli alberi fino in cima a forza di braccia. Ero sempre vestita come un ragazzo e solo alla
domenica, con fatica, mia madre mi convinceva a indossare la gonna e qualche cosa di più femminile. Mi
diceva, quando stava bene, che era un peccato che una così bella ragazzina se ne andasse in giro tanto
trasandata. Io la obbedivo soprattutto per non farle dispiacere e perché ero felice di sentila dolce e serena
come una mamma "normale". Purtroppo sapevo che la cosa sarebbe durata qualche ora o qualche giorno
al massimo. Quando "non stava bene" ero io che badavo alla casa, facevo da magiare e glielo portavo a
letto. Lei qualche volta si girava dall'altra parte e mi mandava via. Io soffrivo e me ne andavo a piangere
dove nessuno, tranne Tom, poteva vedermi o sentirmi. Solo lentamente imparai a non piangere più. Ma
altre volte la mamma era contenta che le portassi qualcosa, mi sorrideva con occhi pieni di riconoscenza e
si sforzava di assaggiare il cibo anche se non ne aveva voglia. Una volta mi abbracciò forte e si mise a
piangere. Da quella volta sentii che l'amavo moltissimo e deposi ogni segreto rancore per la sua
debolezza. Forse non ero capace di farle capire quanto le volessi bene: ero molto chiusa e scontrosa,
parlavo pochissimo. Spero che i miei gesti glie l'abbiano manifestato più delle mie parole.
Con mio padre andavo abbastanza d'accordo, ma lo vedevo realmente troppo poco. Comunque, col
passar degli anni notai che il suo atteggiamento verso la mamma diveniva più comprensivo e affettuoso.
Ritengo che lo facesse soprattutto per me, e glie ne ero grata, però avrei voluto che l'amasse per se stessa.
In realtà, anche lui era un solitario, e non era quindi l'uomo adatto per farla uscire dalla sua depressione.
Qualche volta ci provava, scherzava e mostrava un ottimismo che non era nel suo carattere. Succedeva
che per qualche ora la nostra casa tornasse ad essere meravigliosamente serena. Mio padre era un uomo
sicuro di sé, e lo invidiavo per la sua sicurezza. Avevo preso da lui l'amore per la natura e la riservatezza
dei sentimenti, ma non la fiducia in me stessa. Le giornate più belle trascorse con lui erano quelle,
purtroppo rare, in cui mi portava in barca con sé all'isola Stewart. Lui era un appassionato pescatore e io e
Tom eravamo assolutamente felici di quelle escursioni laggiù fra mare e cielo, in compagnia del vento e
dei gabbiani. Nella stagione invernale i pinguini venivano a svernare in una valle rocciosa sulla costa
dell'isola e l'aria risuonava dei loro piccoli gridi. Io mi inebriavo gli occhi e le narici di quella vista e di
quegli odori e sognavo orizzonti ancor più vasti, sconfinati, lontano lontano verso il Sud.
La presenza di mio padre sulla barca, che pescava silenzioso fumando la pipa, m'infondeva un
meraviglioso senso di sicurezza. Mi sentivo protetta e felice anche se scambiavamo appena poche parole.
Una volta però si scatenò una violenta tempesta. Ci sorprese a metà dello stretto, mentre si tornava a
casa, e fu sul punto di affondare la barca. Il cielo si era fatto nero come la notte e le raffiche di vento
sollevavano ondate di tre, quattro metri. Non credevo che ne saremmo usciti vivi. Invece ce la facemmo.
Quando tornammo a casa, fradici e un po' ebbri per lo scampato pericolo, papà disse alla mamma una
cosa che non mi sarei mai aspettata. Non mi aveva mai fatto dei complimenti e anche allora lo sentii per
caso, mentre stavo asciugando Tom nella stanza accanto. Disse: "Dovresti essere fiera di tua figlia, Alice.
Stavamo per affondare e non ha pianto, non ha gridato. È stata forte e coraggiosa come un uomo."
Abbracciai Tom per la felicità.
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II
Che avessi delle facoltà divinatorie fuori del comune non lo sospettai minimamente fino all'età di
undici anni. Allora, una notte, sognai un incendio spaventoso nel bosco. Mi svegliai molto scossa per la
vividezza delle immagini, quasi aspettandomi di udir crepitare le fiamme, e corsi alla finestra. Tutto era
buio e silenzio. Allora, un po' tranquillizzata, tornai a letto. Il giorno dopo dissi casualmente, facendo
colazione: "Sai, mamma, ho fatto un sogno terribile questa notte. La foresta era in fiamme." Ma io stessa
non ci pensavo quasi più. Tornando da scuola, nel pomeriggio, notai una densa nuvola di fumo scuro che
saliva lontano, dalle colline. Mio padre era già tornato a casa, cosa insolita a quell'ora; vidi che era
preoccupato. Mi chiese: "Reg, è vero che stamani hai detto alla mamma di aver sognato un incendio nella
foresta?". Annuii, un po' impaurita. Mio padre scosse il capo, pensieroso. "Non so come diavolo tu abbia
fatto - riprese - ma il fatto è che stamattina è scoppiato veramente un incendio, su verso i pascoli del
vecchio Martensen. Io stesso ne sono stato testimone".
Dopo di quella volta, non parlammo più del mio sogno. Ma in un'altra occasione - era passato forse un
anno e mezzo - la cosa si ripetè. Una sera andai a dormire col mal di capo e con uno strano senso di
oppressione e di malessere. Credevo di avere qualche disturbo di stomaco. Invece feci ancora un sogno
premonitore, vivido e angoscioso come la volta precedente. Sognai che mio padre si rompeva una gamba
mentre era nel bosco. Mi misi a piangere così forte che la mamma mi sentì e venne a vedere che cosa
avessi. Allora le raccontai il sogno e le chiesi di raccomandare al papà di non andare al lavoro l'indomani
mattina. Ella mi tranquillizzò e io mi riaddormentai, con Tom che faceva la guardia ai piedi del letto.
L'indomani mattina mi alzai più tardi del solito; era estate e non c'era la scuola. Papà era già andato
via, e io corsi allarmata dalla mamma a chiederle se lo avesse avvertito del mio sogno. "Ma certo che
gliel'ho detto - rispose, cercando di rassicurarmi - ha risposto che sarà prudente, come e più del solito. -
Io ero preoccupatissima. "Ma per una volta non poteva non andarci?", insistevo. "Rifletti, Reg: che cosa
avrebbe raccontato al signor Morris? Che non andava al lavoro perché la sua bambina aveva fatto un
brutto sogno? Te lo immagini se tutti facessero così, che cosa succederebbe?". Dovetti convenirne.
Ciononostante, non mi rasserenai e attesi preoccupata il suo ritorno. Non andai nel bosco.
Prima di mezzogiorno arrivò l'automobile di Jim Purcell, un compagno di lavoro di mio padre. Disse a
me e a mia madre di non preoccuparci, che papà aveva avuto un incidente e che lo avevano accompagnato
in città, all'ospedale, ma che non c'era nessun pericolo. Alle domande insistenti della mamma finì per
raccontare l'intera storia. Papà stava segando un albero quando la sega elettrica da cinquanta chili gli era
sfuggita di mano, cadendogli sulla gamba destra. Gli aveva spezzato la tibia.
Mio padre fu ingessato e guarì quasi perfettamente in meno di due mesi, però da quella volta io mi
convinsi definitivamente che non ero come tutti gli altri ragazzi della mia età, ma avevo qualcosa di
diverso. I miei sogni ad occhi aperti, le mie fantasie di esploratrice solitaria ricevevano come una
conferma potente e inaspettata da questa misteriosa capacità premonitrice. Dapprincipio ne ebbi paura, e
per un certo tempo non potevo fare a meno di coricarmi la sera con un senso di apprensione e di timore. A
poco a poco però mi abituai a convivere con la mia "diversità" e finii per considerarla una qualità come
un'altra, come altri hanno una prodigiosa memoria oppure un olfatto finissimo. Io potevo, talvolta,
prevedere il futuro. Non ero una strega. Ero una ragazzina dal carattere chiuso e sognatore, che però
diversi compagni di scuola trovavano interessante e perfino simpatica.
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Quando andai alla middle school mi accorsi, non senza stupore, che non solo gli altri non evitavano la
mia compagnia, ma che spesso la ricercavano. Non capivo perché. Avevo sempre immaginato di essere
scostante e una compagnia poco gradevole. Poiché riuscivo bene in ogni genere di sport e avevo un
carattere spiccatamente indipendente, ero piuttosto popolare tra i ragazzi, che m trattavano quasi alla pari.
Anche a me piaceva stare con loro, perché spesso i discorsi delle compagne mi annoiavano. Però non
sopportavo certi discorsi che facevano con la più grande naturalezza. Mi indignava soprattutto la loro
arroganza nei confronti del nostro sesso, e il fatto che in una ragazza non sembrassero mai vedere la
persona, ma solo un corpo. Questo mi umiliava e mi riempiva di amarezza. Veramente ce n'era uno,
Frank Oates, che sotto questo rispetto pareva distinguersi dai suoi compagni. Frank aveva due anni più di
me, un carattere allegro ma non frivolo ed era l'unico che, oltre a trattarmi su un piano di parità, mi
ispirasse un senso di fiducia e di vera simpatia. Credo che me ne innamorai un poco.
Frank suonava molto bene la chitarra e io gli chiesi di insegnarlo anche a me. Ero felice di poter creare
della musica, anche se i miei gusti erano lontani da quelli della maggior parte dei miei coetanei. La
musica moderna per la maggior parte non mi interessava. Frank da parte sua sembrava capirmi quando
talvolta gli aprivo i miei pensieri e veniva spesso, non solo per insegnarmi a suonare. Ma un brutto
giorno, inaspettatamente, tentò di prendersi delle libertà e lo fece in modo prepotente. Questo segnò la
fine della nostra amicizia. Lo respinsi con uno schiaffo ed egli si arrabbiò, ma non reagì perché si rese
conto che ero in grado di rendergli la pariglia. Se ne andò senza dir nulla.
Tornò a cercarmi un paio di volte, ma io non mi feci mai trovare. Ero disgustata. Aveva tradito la mia
fiducia e questo non avrei potuto mai perdonarglielo. Anche lui era come tutti gli altri. Per colpa sua la
mia anima, che timidamente cominciava ad aprirsi verso l'esterno, tornò a chiudersi come un riccio. Non
volevo far vedere a nessuno la mia delusione e la mia insicurezza ed esteriormente continuai la mia vita
come se nulla fosse stato. Ma soffrivo. A scuola strinsi maggiormente i miei rapporti con le ragazze, ma
sempre con poca soddisfazione. Erano diverse, e lo capivamo sia io che loro. I loro interessi non erano i
miei. Soprattutto mi deprimevano i loro discorsi di vestiti, di festini e di ragazzi con la motocicletta.
Alcune interpretavano come superbia la mia indifferenza per tali argomenti di conversazione e mi
ripagavano con freddezza. Ma in genere mi stimavano, anche se non mi capivano. Parevano invidiare la
mia indipendenza e la mia apparente sicurezza.
Per fortuna prima di rompere ogni rapporto con Frank avevo potuto impadronirmi dei rudimenti
fondamentali della chitarra. Continuai da sola, caparbiamente, e finii per diventare abbastanza brava. La
chitarra, oltre a Tom, mi teneva compagnia quand'ero giù di corda, per esempio quando tornavo a casa la
sera e trovavo la mamma a letto, il che succedeva piuttosto di frequente. La mia passione per la lettura
invece si era molto affievolita.
III
Il professor Michel Ross venne da noi al principio dell'estate, da Auckland. Io avevo tredici anni e mezzo
ed erano passati diversi mesi dalla faccenda di Frank Oates. Infatti per il mio tredicesimo compleanno il
papà mi aveva regalato la chitarra, ed io già me la cavavo abbastanza bene. La venuta di un professore del
Nord nella nostra casa solitaria era già di per sé un fatto piuttosto straordinario. Già altre volte in passato
avevamo affittato una stanza della casa a turisti nella bella stagione, dato che il luogo era pittoresco e
salubre e spazio per noi ve n'era più che a sufficienza. Questo ci permetteva di arrotondare le entrate
familiari e consentiva al papà di prendersi un mese o due di ferie, anziché spostarsi nei paesi vicini in
cerca di altro lavoro. E per me era sempre una festa, dato che il disagio di avere estranei per casa era
compensato dalla presenza di papà, finalmente libero di dedicarmi un po' del suo tempo e di portarmi in
barca nello stretto.
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Il nostro ospite questa volta era diverso dai soliti turisti e mi fece una strana impressione sapere che
era professore. Professori così giovani erano piuttosto rari nella mia scuola, poiché non doveva avere più
di venticinque o ventisei anni. Era un tipo dall'aspetto gradevole e dai modi garbati e riflessivi ed era
venuto quaggiù in cerca di un clima più fresco per rimettersi da una malattia. Se il tempo era buono se ne
stava tutto il giorno fuori casa. Usciva con un libro o un quaderno sotto il braccio e si avviava con passo
tranquillo verso la collina. Capii subito che era, come me, un grande amante della natura. Più d'una volta
lo sorpresi a contemplare il paesaggio di boschi e vallate e soprattutto il cielo percorso dalle rosse nuvole
galoppanti. E parve molto contento quando gli feci vedere i nostri animali: i conigli, le galline, i piccioni.
Mi piaceva perché mostrava interesse per tutte quelle cose che di solito i miei coetanei d'ambo i sessi non
vedevano neppure, e perché sapeva ascoltare il silenzio, e capirlo. Non era di quelli che hanno paura del
silenzio e cercano di riempirlo a tutti i costi, magari con i discorsi più banali. Però al tempo stesso la sua
presenza era sempre di compagnia. Per questo, mentre all'inizio lo evitavo ed ero piuttosto diffidente,
poco alla volta presi confidenza e diventammo amici.
Nelle sere di pioggia ci raccontava qualcosa delle sue esperienze e dei paesi che aveva visitato. Era
stato in Europa e mi piaceva soprattutto sentire quel che raccontava di Parigi e dell'Italia. Anche la
mamma in quel periodo pareva un po' migliorata e sin tratteneva volentieri ad ascoltarlo. Micheal - ormai
ci chiamavamo per nome - aveva una maniera garbata di narrare, evitando sempre di mettersi al centro del
racconto e cercando di farci visualizzare quanto meglio poteva luoghi e persone. Si doveva essere accorto
che a me e alla mamma quei racconti di terre famose e lontane interessavano moltissimo ed era molto
gentile da parte sua accontentarci pur non essendo di carattere molto chiacchierone. In realtà, credo che
talvolta facesse uno sforzo su sé stesso per farci piacere.
Un giorno mi trovò in casa che leggevo un libro e venne a sapere della mia vecchia passione per la
letteratura. Gli confidai i miei interessi e confessai che un tempo avevo nutrito l’ambizione di diventare
celebre come Katherine Mansfield, la grande scrittrice neozelandese. Egli fu entusiasta dell’idea e mi
esortò a non lasciar cadere quella mia passione letteraria. Mi prestò anche alcuni dei suoi libri e me ne
consigliò altri, offrendosi di andarmeli a prendere alla biblioteca cittadina. ”Regina – mi disse (lui era
l’unico che continuasse sempre a chiamarmi col mio nome tutto intero) – chissà che un giorno tu non
diventi realmente una scrittrice.” Tom lo ascoltava e sembrava approvare con le orecchie ed egli lo
carezzò. Si era affezionato presto al mio Tom, e ne era stato ricambiato. Questo era molto significativo
per me. Io e Tom siamo sempre stati istintivamente solidali nelle nostre amicizie e nelle nostre antipatie.
Da parte sua, Michael sembrava apprezzare in me particolarmente due cose: quando suonavo la
chitarra e quando gli raccontavo le antiche leggende dei Maori, che a mia volta avevo ascoltato dal papà.
Quando suonavo stava ad ascoltare in silenzio senza dir nulla, guardando davanti a sé con un sorriso. La
prima volta che mi udì suonare mi chiese se la sua presenza mi disturbasse; dissi di no e da quella volta si
fermò ad ascoltarmi spesso. Le leggende degli antichi Maori invece sembravano interessarlo più di
qualunque altra cosa, perché mi interrompeva di frequente con domande di chiarimenti o chiedendomi di
ripetere storie già narrate. Questo all’inizio mi parve strano, finchè non capii che anche lui, come me,
apparteneva al genere dei sognatori. Certo era buffo che un professore di filosofia si entusiasmasse ai mei
racconti come un bambino, o almeno a me pareva buffo. Conoscendolo meglio compresi che questo era
uno degli aspetti vitali del suo carattere apparentemente così calmo e posato. Micheal era un vulcano
addormentato, ma non spento, sotto una calotta di ghiaccio.
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La leggenda che più lo affascinava era quella relativa alla Tribù Perduta, e su di essa voleva conoscere
sempre nuovi particolari. Io allora tornavo a narrargliela, così come l’avevo appresa dal papà, mentre
stavamo seduti sull’uscio contemplando le vette lontane delle maestose Alpi Neozelandesi che perdevano
nella nebbia azzurrina e rosata del tramonto. Ma non potevo soddisfare mai completamente la sua
curiosità.
Intorno al 1780, dopo la visita del capitano Cook al Dusky Sound, era scoppiata una delle tante faide
tra due tribù maori. Gli Awea avevano ucciso un capo di una tribù più grande, non si sapeva bene quale, e
poi, temendo la vendetta di essa, erano fuggiti verso l’interno della Fiordland, la Regione dei Fiordi sulla
costa sud-occidentale. La tribù dell’ucciso però li aveva inseguiti e li aveva raggiunti presso le rive del
lago Te Anau. Vi era stata una sanguinosa battaglia, e gli Hawea erano stati completamente sbaragliati.
Circa la metà di essi erano rimasti uccisi sul posto. Ma, e qui si affacciava il mistero, che ne era stato
dell'altra metà? Si diceva ch’essa fosse riuscita a mettersi in salvo fuggendo sulle alte montagne che
circondano il lago glaciale. Per il momento non si parlò più della cosa. Gli Hawea erano stati come
risucchiati dalle profondità della terra, facendo smarrire ogni traccia di sé. Ma dopo vari anni, i primi
colonizzatori bianchi dell’Isola del Sud stabilitisi nella regione avevano cominciato a vociferare di
“indigeni selvaggi” che si aggiravano per le montagne. Poi non se ne era saputo mai più nulla.
Ma questa era solo una delle tante storie che si narravano intorno alla Regione dei Fiordi, l’angolo più
misterioso e romantico della Nuova Zelanda. Fiordi profondi e bellissimi, impervie montagne scintillanti
di neve, vallate immerse nel verde di foreste millenarie e impenetrabili, laghi d’un blu cobalto e nebbie
improvvise facevano da cornice a segreti ancora forse inviolati. Soltanto un paio d’anni prima, come mi
aveva detto papà e come era stato pubblicato dai giornali un cacciatore di nome Geoffrey Orbell aveva
riscoperto vivo e vegeto, in una valle solitaria, il takahe, uccello dal piumaggio viola e dalle ali marrone-
rossiccio e incapace di volare, creduto da tempo estinto. Alcuni pensavano che perfino qualche specie
minore del famosa moa, scomparso da almeno 400 anni a causa della spietata caccia dei Maori, poteva
forse vivere ancora laggiù.
Quando chiesi a Michael perché s’interessasse tanto alla leggenda della Tribù Perduta, egli dapprima
cercò di schermirsi. Ma davanti alla mia decisione dovette confessare che gli sarebbe piaciuto visitare la
Regione dei Fiordi per raccogliere ulteriori informazioni. “Tanto più – disse – che questa storia della
Tribù Perduta mi fa venire in mente un’altra leggenda indigena piuttosto interessante. Anticamente il
navigatore Hui-Te-Rangi-Ora, trascinato dalle correnti e dai venti o forse salpando volontariamente alla
ricerca di nuove sedi per la sua gente, si sarebbe spinto fino all’Antartide. Con una piroga dell’epoca,
capisci? Il viaggio è narrato dalla tradizione orale, e non se ne sa null’altro.”
“E tu pensi – gli chiesi – che possa esistere una relazione fra le due leggende?”.
Egli si strinse nelle spalle e tornò a guardare affascinato le alte vette ormai quasi dileguate nella
penombra violacea. La notte estiva si spandeva attraverso il cielo da oriente. Rientrammo in casa
silenziosi.
IV
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Michael si era reso perfettamente conto della reale natura della “malattia” della mamma. Accadeva
spesso che lei non si facesse vedere ed ero io a preparare la cena, come meglio potevo. Egli dimostrò una
sensibilità squisita e non mi disse mai nulla, limitandosi ad informarsi se la mamma stesse meglio. E
quando ciò accadeva e mangiavamo tutti insieme, si comportava con lei come se non avesse intuito nulla.
Gli ero profondamente grata di questo tatto.
Un giorno papà mi disse che l’indomani sarebbe uscito in barca e mi chiese se volevo invitare anche
Michael. Lo feci subito ed egli ne fu entusiasta. Così il giorno dopo, alle prime luci dell’alba, partimmo
tutti e quattro – papà, Michael, Tom ed io, diretti all’isola Stewart. Non ci ero più stata dalla volta della
tempesta, e desideravo tanto vedere se c’erano ancora i pinguini. La traversata è di quasi 25 miglia e
sfruttando il lungo chiarore estivo si poteva trascorrervi almeno tre ore, ripartendo per giungere in vista
della terraferma prima del tramonto. Le ultime volte non ci eravamo mai spinti oltre l’isola Waikiwi e la
prospettiva di una intera giornata sull’oceano mi riempiva di gioia.
Quel mattino cielo e mare erano di un azzurro purissimo, quale raramente è dato vedere anche
quaggiù. Si annunciava una giornata d’una trasparenza meravigliosa, tanto che l’isola era visibile dalla
costa ancor prima che salpassimo: ed è un fenomeno raro a quell’ora, dato che il Monte Anglem, la sua
vetta maggiore, non supera i 1.000 metri ed è lontano almeno 50 chilometri in linea d’aria. Quando
fummo in mezzo allo stretto il sole si levò completamente e illuminò la vetta dell’isola di una vivida luce.
Stormi innumerevoli di uccelli marini solcavano il cielo stridendo e descrivevano magici arabeschi e
volute eleganti. Alcuni si perdevano lontano lontano all’orizzonte, quasi correndo incontro alla cavalcata
dei cirri dai bordi dorati, e sembravano misurare per l gioia della nostra fantasia gli spazi immensi che si
aprivano tutto intorno a noi. Michael, pur essendo abitante di una grande città, si trovava perfettamente a
suo agio, come se fosse vissuto da sempre in questi luoghi e ammirava senza parlare il magnifico
spettacolo della natura. Io lo capivo benissimo e quel silenzio ci univa tutti quanti, come se ci stessimo
scambiati ad alta voce quelle impressioni che tutti allo stesso modo sentivamo esultarci in petto.
Quando raggiungemmo l’isola, io e Tom corremmo felici su per la collina, mentre Michael e papà
restavano a chiacchierare presso la riva. Speravo di veder di lontano i pinguini, che d’inverno nidificano
su una spiaggia sottovento dietro una lingua di terra a nord-ovest. Ma non ne scorsi nemmeno uno.
Evidentemente in quella stagione soggiornavano nelle isole più a Sud. Quando tornai giù verso la barca,
papà e Michael stavano ancora parlando.
“Allora, trovati i pinguini?” chiese Michael di lontano, e io scossi la testa, poi riprese il discorso
interrotto. Avvicinatami, sentii che chiedeva a papà: “Secondo lei, signor Wilson, una barca come la sua
sarebbe in grado, dico teoricamente, di raggiungere l’Antartide?”.
Mio padre lo guardò perplesso. “L’Antartide? Intende dire una barchetta a vela così, a un solo
albero?”.
“Be’, veramente stavo cercando di capire se in passato gli indigeni avrebbero potuto farlo. Con le loro
piroghe.”
Papà scosse il capo, dubbioso. “È molto difficile dirlo. I Maori avevano delle piroghe gigantesche ed
erano dei grandi navigatori. Lo prova il fatto che fossero di origine polinesiana, dunque avevano già
dovuto percorrere decine di migliaia di chilometri per raggiungere le nostre isole. Posso dirle un fatto
accaduto a un mio conoscente, Eddy Slater, un pescatore di Bluff. Era diretto a Obart con una barca
appena più grande della mia, e fu còlto da una tempesta. Accadde circa quattro anni fa. Perse
completamente il controllo dell’imbarcazione e fu trascinato verso Sud a una velocità sbalorditiva.
Quando la tempesta, per sua fortuna, si fu alquanto calmata, era giunto nientemeno che in vista dell’isola
Campbell. Qualcosa come 800 chilometri a Sud di qui: era andato alla deriva per tre giorni.”
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“Senbra incredibile - osservò pensieroso Michael - in soli tre giorni. Non potrebbe essersi sbagliato?
Non avrebbe potuto essere una delle isole Auckland? Come poteva essere certo che fosse proprio
Campbell?”.
“Su questo non vi sono dubbi. Eddy riferì di aver visto sulle rocce dell’isola una colonia immensa di
pinguini, milioni e milioni d’individui. E solo a Campbell vi è una colonia del genere.”
“Allora questo è un elemento a sostegno dell’ipotesi che le ponevo. Da Campbell alle isole Balleny vi
è un altro balzo di circa 1.600 chilometri di oceano aperto; poi la costa dell’Antartide non è
lontana…icebergs permettendo. Hui-Te-Rangi-Ora può esservi arrivato in dieci o quindici giorni
solamente, partendo all’incirca da qui. È straordinario.”
Era già mezzogiorno e bisognava cominciare a pensare al ritorno. Mangiammo qualcosa sulla
spiaggia e poi ripartimmo. La corrente al centro dello stretto è piuttosto forte da superare, e inoltre papà
voleva dedicarsi ancora un poco alla pesca, prima di rientrare. Michael si era fatto pensoso. Non era triste,
soltanto pareva completamente assorbito da un’idea. Lo presi in giro per costringerlo a riscuotersi.
“A che cosa stai pensando di tanto affascinante? Alla tua fidanzata?”.
“No – sorrise lui – e poi non ho alcuna fidanzata. Stavo pensando di fare una proposta a tuo padre.”
“Che genere di proposta?”, domandai incuriosita.
“Signor Wilson – riprese volgendosi direttamente a papà – lei sarebbe disposto ad accompagnarmi
con la barca fin sulla costa occidentale?”.
Papà non era tipo da mostrare turbamento, fosse pure per la richiesta più inattesa. Ciononostante, mi
aspettavo che scuotesse il capo come faceva talvolta alle mie preghiere di portarmi con sé; e sapevo che
in quei casi era irremovibile. Invece domandò semplicemente: “E dove precisamente, sulla costa
occidentale?”.
“Non lontano. Diciamo fino al Dusky Sound.”
Mio padre si tolse la pipa di bocca e rimase a riflettere. “Vediamo: a occhio e croce saranno 250
miglia: due giorni e mezzo di navigazione. Ma con questa barchetta non sarà facile.”
“Vedrà che per il suo compenso ci metteremo d’accordo.”
“Non è questo. Si tratta della sicurezza del viaggio. Dicono che fra il Capo Providence e la Punta
Puysegur vi siano delle correnti molto forti. E dai Monti Cameron, che scendono a picco nel mare,
soffiano dei venti continui. Scusi, ma perché vuole andare laggiù? Non c’è nulla al Dusky Sound, che io
sappia. Né un villaggio, né una casa. Solo mare e rocce.”
“Vorrei visitare la Fiordland. Dal Dusky Sound potrei spingermi verso il lago Manapouri e magari
fino al lago Te Anau. Ho delle particolari ricerche da fare laggiù.”
“Allora le converrebbe andare a Te Anau per via di terra. È una strada molto lunga e piuttosto
scomoda, perché bisogna attraversare le montagne. Ma è senz’altro conveniente.”
“Non è la stessa cosa. I fiordi vanno visti dal mare. E poi da Te Anau come farei per raggiungere la
costa? Lei è un marinaio abbastanza esperto. Potrebbe lasciarmi al Dusky Sound e tornare a prendermi,
diciamo dopo un dieci giorni. Mi porterò viveri e una tenda, in modo da essere del tutto indipendente.”
“Ci penserò – concluse mio padre. – Domani o dopodomani le saprò dire.”
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Non so perché, ma dopo quella conversazione anch’io diventai pensierosa. E non dissi quasi più nulla
finché la barca scivolò nella piccola baia vicino a casa nella luce rossastra del tramonto.
V
Quella notte feci un sogno. Aveva tutte le caratteristiche dei miei vecchi sogni premonitori, sebbene
non si fossero più ripetuti da tanto tempo. Sognai che Michael era partito per la Fiordland e io ne provavo
una tristezza immensa. Non solo tristezza, ma anche preoccupazione ed ansia. Non avrei saputo dire
perché, era come un oscuro presentimento. Poi, vedevo papà che tornava con la barca, dopo essere andato
fin laggiù per riprenderlo e riportarlo indietro. Ma era solo. Il suo volto esprimeva fatica e dolore. Io ero
corsa alla riva con Tom per vederli arrivare, e compresi subito, senza bisogno di chiedere nulla, che
doveva essere accaduto qualcosa. Mio padre scuoteva il capo e mi diceva affettuosamente, cingendomi le
spalle con il braccio: “Niente da fare. Ho atteso tre giorni, e Michael non s’è visto. Avrebbe dovuto essere
là ad aspettarmi. Avevo quasi finito le provviste e non potevo trattenermi ancora. Mi dispiace, non devi
essere triste.” Ma io avevo voglia di mettermi a piangere e scappavo via, mentre lui mi chiamava.
Mi svegliai oppressa e angosciata. Il sogno mi era sembrato così vero che stentavo a tornare nella
dimensione del reale, a convincermi che non era successo nulla. Poi mi ricordai che Michael voleva
andare veramente al Dusky Sound, sulla costa occidentale. Rimuginavo mille pensieri fra il sonno e la
veglia. Non distinguevo più il confine tra l’uno e l’altra. Finalmente mi riaddormentai.
Al mattino ero stranamente preoccupata e triste, ma solo dopo un poco mi ricordai del sogno. E
mentre mi stavo vestendo ebbi la folgorazione di quanto mi stava accadendo: non volevo che Michael
partisse perché la sua presenza era importante per me. Era l’unica persona al mondo dalla quale mi
sentissi capita e apprezzata e non sopportavo l’idea che potesse capitargli qualcosa. Non avevo mai
provato alcunché di simile per alcuno, neppure per Frank Oates. C’era una persona, una persona al mondo
alla quale tenevo e non volevo perderla. Più tardi, quando lo vidi, gli dissi senza mezzi termini che non
doveva andare nella Fiordland: che era una zona troppo deserta e selvaggia e che era troppo imprudente
penetrarvi da solo. Potevano capitare tante cose, e nessuno lo avrebbe soccorso. Inoltre, come cittadino
non era abbastanza pratico della natura, non conosceva tutti i suoi segreti. Queste cose le dissi in maniera
confusa e un po’ concitata, con forza. Ma lui non capì. Mi guardava piuttosto stupito e sorrideva per
tranquillizzarmi. Poi disse: “Mi dispiace, ma è deciso: non lo sai? Mezz’ora fa tuo padre mi ha detto che
ci ha pensato, e che per lui va bene. Partiremo fra due giorni, il tempo di fare provviste e di procurarmi
delle buone carte topografiche giù in città.”
Duramente colpita da questa notizia, decisi di rivelargli le mie facoltà premonitrici. Gli raccontai dei
miei sogni, quello dell’incendio e quello dell’incidente di papà, che si erano avverati entrambi, e infine
quello che avevo fatto quella notte. Mi costò fatica parlare di queste cose, perché mi facevano apparire
“diversa” ai miei stessi occhi e tanto più temevo la reazione di Michael nei miei confronti. Egli fu invece
molto delicato anche in questa circostanza: disse che credeva a tutto quanto gli avevo detto dei primi due
sogni, ma mise in dubbio che anche l’ultimo avrebbe dovuto fatalmente avverarsi. Era molto tranquillo e
sicuro di sé: “Ripensa a tutti i sogni che hai fatto, Regina, anche in quest’ultimo periodo; e poi dimmi: si
sono avverati tutti? Naturalmente no. Nei sogni si verificano tante situazioni fantastiche, associazioni di
fantasia che nulla hanno a che vedere con la preveggenza. Tu ieri sera eri un po’ preoccupata e il tuo
subconscio ti ha giocato uno scherzo.”
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Io improvvisamente scoppiai a piangere. Ho ripensato spesso a quell’episodio e cerco ancora di
darmene una spiegazione soddisfacente. Non volevo perdere il mio unico amico, e questo timore mi
causava una tensione notevole. Però era moltissimo tempo che non piangevo e addirittura anni che non lo
facevo davanti ad estranei. Solamente Tom era stato testimone delle mie crisi di scoraggiamento. E non
avevo l’intenzione di lasciarmi andare nemmeno con Michael, anzi con lui meno che con chiunque altro.
Semplicemente, era stato più forte di me, e troppo improvviso perché potessi resistervi.
Egli ne restò colpito. Rimase lì pazientemente ad aspettare che mi fossi un po’ calmata. Mi sentivo
ridicola e sciocca e sarei volentieri scappata via, ma ero troppo orgogliosa e non volevo comportarmi
come una bambina ancor più di quanto stessi già facendo. Allora Michael mi prese le mani e stringendole
con forza, come per infondermi fiducia e coraggio, sorrise: “Regina, ma cosa ti succede?”.
“Perché vuoi andartene laggiù?”, risposi, senza osare guardarlo. “Sai che è pericoloso e ci vai lo
stesso. Vedi che io sto male e non te ne importa. Sei un egoista. Ti sei mai preoccupato di qualcun altro,
tu, oltre che ti te stesso e dei tuoi libri di filosofia?”. Avevo parlato d’impulso, senza riflettere, decisa a
ferirlo pur di scuoterlo dalla sua decisione. Ma subito me ne vergognai e lo guardai arrossendo; però non
feci marcia indietro.
Michael ebbe un sorriso mesto, quale non gli avevo mai visto, come se realmente lo avessi colpito
sulla carne viva, e rimase qualche minuto a guardare nel vuoto, perduto in un lontano pensiero. Di nuovo
avrei voluto scappare, ma questa volta era la vergogna a trattenermi. Finalmente si volse a guardarmi e
fissandomi intensamente, con voce pacata, disse: “Sì, Regina: a qualcuno ho voluto bene. È stato molto
tempo fa. No, non mi piace rivangare il passato. Ma nessuno è del tutto arido, nessuno è del tutto incapace
di voler bene: questo non devi crederlo. E anche adesso, tu non immagini quanto sono felice di aver
trovato quaggiù un’amica: una vera amica. Tu sei una ragazzina, ma mi capisci meglio di tutti gli adulti
che ho conosciuto. Sei preoccupata per la mia partenza? Ma tornerò: e intanto voglio spiegarti perché sia
così importante per me andare laggiù." Fece una lunga pausa e si volse a guardare le cime maestose dei
monti, oltre il ballatoio di tronchi della veranda. Io avevo deposto ogni animosità ed ero assetata di
sentirlo ancora parlare: i taciturni conquistano un doppio rispetto in chi li ascolta, quando si decidono a
rompere il loro silenzio. E io sentivo che solo per me Michael si era deciso a deporre la sua abituale
riservatezza e a parlarmi di sé, delle sue aspirazioni. Davvero, non poteva essere un arido.
"La vita non può fare a meno della poesia, Regina. Invano l'uomo moderno lotta con sé stesso per
soffocarla, invano uccide la natura e scaccia lontano le cose belle. Il bisogno di poesia vive dentro di noi,
ed è immortale. Ho fatto un viaggio di oltre mille chilometri per venire qui perché proprio quaggiù,
all'estremità del mondo, avevo appuntamento con la poesia.
Questo oceano sconfinato, che si perde nell'azzurro del cielo; la consapevolezza che fra questa spiaggia e
il lontanissimo continente di ghiaccio non v'è nulla in mezzo, suggeriscono all'animo dei voli immensi.
Lassù ad Auckland ho fatto un po' di tutto: il pittore, lo scrittore, il poeta. Ma viene il momento in cui la
poesia che è in te rischia davvero di morire, se le neghi ogni alimento. La uccidono lentamente la morsa
dello squallore cittadino, del conformismo borghese, dei calcoli di convenienza economica. È per questo
che ci tengo tanto a visitare la Fiordland. La leggenda della Tribù Perduta forse è solo un pretesto. Fra
quelle montagne e quei fiordi blu cobalto spero di ritrovare qualcosa di me. Ora come ora sono una
fontana disseccata."
"Perché dici queste cose? " protestai. "Tu sei vivo; sei l'unica persona viva che ho conosciuto finora."
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Di nuovo sorrise con mestizia, come improvvisamente invecchiato. "Cara Regina: le ferite che non si
vedono sono quelle che non guariscono. Però ti ringrazio di cuore per queste parole. Basta così: andiamo.
Scendiamo alla spiaggia e vediamo chi scaglia i ciottoli più lontano!".
Corremmo giù verso il mare ridendo, con Tom che ci abbaiava gioiosamente fra le gambe.
VI
La vigilia della partenza di Michael, la sera dopo cena, uscimmo a sederci sulla veranda. Faceva
piacevolmente fresco e giungeva dall'oscurità il rumore ovattato dell'onda lunga del Pacifico che si
frangeva sulla spiaggia. Restammo lungamente a contemplare il vivissimo tremolìo delle costellazioni
alte nel cielo del Sud. Fui io a rompere il silenzio. Ero in uno stato d'animo inesprimibile, sospeso tra la
felicità e l'angoscia. Gli dissi: "Perché non mi parli un poco di te? Non so nulla di te, della tua famiglia.
Tu invece sai tante cose di me, o perché le hai viste o perché te le ho raccontate. Non riesco a
immaginarmi la tua storia, la tua esistenza lassù al Nord, nella grande città."
Non vedevo il suo viso. Era in parte girato verso le colline e la notte era senza luna. La sua voce mi
giungeva come da strane lontananze, eppure era lì seduto accanto a me. "Io non sono nato in città. La mia
famiglia è originaria di un piccolo paese, come la tua. Ad Auckland abito da cinque anni, ci son venuto
per insegnare. E ci sto male.
"La nostra famiglia era composta dai miei genitori e da tre fratelli. Io sono il più piccolo. Poi una
sorella maggiore di quattro anni, e un fratello di dieci. Mio padre era pastore presbiteriano e l'atmosfera
domestica era quindi molto religiosa. Era un uomo all'antica, tutto d'un pezzo, ma non cattivo. Ci voleva
bene ed io gli ero affezionato. Mia madre era molto ammalata e morì quando io avevo quattordici anni,
poco più della tua età. Di lei ho dei ricordi molto belli: era dolce e paziente, sempre sollecita dei problemi
altrui. Papà è morto cinque anni fa, dopo di che mi sono trasferito in città.
Mio fratello maggiore era sposato e aveva una bambina piccola quando scoppiò la guerra e fu
richiamato. Non aveva la stoffa del soldato, faceva il commerciante. Rimase ucciso a Jiwo Jima poco
prima della fine della guerra. Anch’io ero stato da poco richiamato, interrompendo gli studi. Ma quando
la guerra finì, ero appena arrivato a Singapore e non avevo mai combattuto. Mio fratello aveva un
carattere aperto e cordiale, molto diverso dal mio. Gli volevano bene tutti. Fu colpito su una spiaggia,
mentre prendeva terra, e morì subito. Sua moglie si risposò meno di un anno dopo.
So che è ingiusto, e forse stupido, ma non ho mai potuto perdonarglielo. Capisci, Regina? Vivere
degli anni con una persona, avere un figlio da lei, e poi sostituirla non appena muore, come si cambia un
vestito vecchio. So che non ho il diritto di giudicare: il cuore umano è un mistero, e forse ella ha sofferto
molto più di quanto io creda. Ma ugualmente non posso pensare a lei senza rancore. Del resto, non so
nemmeno dove sia adesso.”
Michael si interruppe, le ultime frasi gli erano uscite sempre più faticosamente, strappate con dolore e
quasi a forza dalla pena dei ricordi. Lo sentii sorridere piano nel buio.
“È strano, Regina. La vita è così strana. Io non amo parlare di me, di ciò che è stato. Avevo sepolto il
passato in fondo al mio cuore. Ed ora, dopo tanti anni, eccomi qui in una notte stellata d’estate, seduto ai
confini del mondo con una ragazzina che fino a un mese fa non sapevo neppure che esistesse. E le
racconto queste cose, mentre guardo la Croce del Sud che pulsa e tremola come volesse dirci qualcosa.
Che strana cosa.”
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Restammo un poco in silenzio. Il richiamo d’un uccello notturno giungeva a tratti dal bosco, nella
valle dietro la casa. La massa scura dei faggi giaceva sui fianchi delle colline come una vasta nuvola
addormentata. Stavo zitta: avrei voluto dire tante cose…! Troppe. Finalmente mi decisi: “Sono contenta
che tu ti confidi un po’ con me. Vuol dire che in me hai fiducia. Non ho mai avuto la fiducia di nessuno,
finora.”
“Tu meriti molto dalla vita, Regina. Abbi fede; stringi i denti; non arrenderti mai. Verrà certamente la
tua ora di essere felice.”
“Non mi hai detto nulla di tua sorella.”
“Linda. Cara Linda. Adesso ha ventinove anni compiuti. È sempre stata una ragazza sensibile, ma
forte nello stesso tempo. Da bambina piangeva quando vedeva un uccellino in gabbia. C’è tutta l’anima di
una persona in questi piccoli episodi dell’infanzia, non credi? Linda adesso è molto lontana da qui. È
missionaria, da tre anni lavora come infermiera in Perù. Io e lei eravamo molto legati. Quando partì ne
soffrii molto, anche se in fondo l’avevo sempre saputo. Quella di andarsene missionaria era una sua
vecchissima aspirazione: l’aveva tenacemente coltivata per tutta la giovinezza, a dispetto di ogni
difficoltà. Linda è il tipo che con la sola forza della fede smuove le montagne. È piena di coraggio, porta
con sé la speranza e la forza come altri si portano dietro la valigia, o i vestiti. Assomiglia molto a com’era
la mamma, a parte la salute. Ecco, ora ti ho detto proprio tutto. Mi sembra.”
“Ti sbagli. Aspetto ancora di sentire la storia più interessante: la tua.”
Veramente a questo punto lo sentii ridere sommessamente nell’oscurità. “Interessante?”.
“Interessante per me, certamente.”
“Mah, non so cosa dirti… Avevo anch’io una vaga idea di fare il missionario. Non ne ho fatto nulla
perché sentivo contemporaneamente un’altra vocazione, che alla fine soverchiò tutte le altre: quella di
scrivere. Anzi, cominciai come pittore. Poi scrissi poesie, e infine saggi di filosofia. Un idealista,
specialmente se è giovane, sogna di poter cambiare il mondo coi suoi libri. Nessuna mèta gli appare
impossibile. Quando si è giovani e idealisti non si ha alcuna indulgenza per le debolezze umane: né le
proprie, né le altrui. È per questo, credo, che sono vissuto sempre solo. Insofferenza per ogni forma di
compromesso. Questa è una coerenza che si paga cara, ma da giovani si hanno le spalle forti per
sopportare le peggiori delusioni.”
“Lo avevo capito subito”, commentai quasi tra me.
“Che cosa?”.
“Che non sei quello che sembri. Si direbbe tu voglia fare di tutto per apparire indifferente. In realtà
sei di un’altra stoffa, completamente diversa.”
“Bene, si è fatto tardi. Domattina devo partire all’alba.” Si alzò in piedi. “Buona notte, Regina.” Le
parole non dette gemevano nel vento fresco della notte d’estate.
“Buona notte, Michael.”
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VII
I giorni che seguirono furono azzurri come la speranza e interminabili come il timore. Ero come
sospesa fra due abissi, l’abisso della felicità e quello della disperazione. Volevo che i giorni passassero in
fretta, perché papà, che era tornato sei giorni dopo essere partito con Michael, tornasse a riprenderlo. Ma
in fondo al cuore avevo paura del giorno in cui finalmente la barca di papà sarebbe tornata: paura di
vederla arrivare con un solo passeggero, come nel sogno. Avevo tutte le lunghe giornate d’estate per
affondare in questi pensieri. Non c’era la scuola, e al mio passatempo abituale in città – giocavo in una
squadra di pallavolo – avevo rinunciato da tempo, per non incontrare Frank. Così ero sola tutto il giorno.
Andavo nel bosco con Tom e mi spingevo sempre più lontano. Fermarmi in qualche luogo era un
fastidio e una sofferenza. E incontrare estranei sul mio cammino era la cosa peggiore. Tornavo a casa la
sera, e il più delle volte trovavo la mamma a letto. Allora preparavo la cena e ne portavo anche a lei.
Dopo di che dovevo affrontare la notte, l’ora più attesa e più temuta della giornata. Addormentarmi
significava uscire dalla vita, allontanarmi per qualche ora dalla mia infelicità, una liberazione almeno
provvisoria. Ma giacere lì al buio senza riuscire a prender sonno, rigirarmi penosamente per ore, ben desta
e lucida nonostante la stanchezza della giornata, e ripensare alla realtà in cui vivevo senza veder altro che
un grigiore infinito, questa era una prova assai dura. Cercavo di farmi forza pensando a quando Michael
sarebbe ritornato. Certo, lui sarebbe dovuto ben presto tornare a casa sua, lassù al Nord; ma l’essenziale
era che avevo trovato al mondo un amico. La prossima estate avrebbe cercato di tornare: me l’aveva
promesso. Solo da quel lato le nubi del domani si aprivano un poco e lasciavano filtrare qualche debole
raggio di luce. Dovevo aver fede, come lui mi aveva detto, e non arrendermi.
Finalmente venne il giorno per papà di ripartire alla volta del Dusky Sound, ove si erano dati
appuntamento per il ritorno. Ma fu proprio quella notte che feci il sogno. Vedevo Michael arrampicarsi su
per una montagna ripida e liscia a strapiombo sul fiordo. Il sole mattutino scendeva giù dalle rocce
obliquamente e lasciava ancora in ombra le acque del mare, qualche centinaio di metri più in basso. Il
sentiero, o meglio il canalone lungo il quale Michael avanzava diagonalmente, impacciato dal pesante
zaino sulle spalle, era estremamente stretto e malsicuro. A un tratto mise il piede in fallo e cadde. Io
vedevo la scena da un punto d’osservazione situato alle sue spalle e molto più in alto, come al cinema.
Quando lo vidi precipitare dal sentiero, annaspai come se cadessi a mia volta e protese le mani in avanti
nel gesto di chi cerca un appiglio. Mi trovai sveglia e agitatissima, levata sul mio letto, con Tom che
uggiolava piano e mi guardava senza capire.
Quando mi resi conto che ero lì nella mia camera e che avevo sognato, fui percorsa da un brivido in
tutta la persona. Non era vero, non poteva essere vero. Mi sentivo quasi come se fossi stata io a stessa a
spingere Michael giù per la parete di roccia. In preda alla disperazione, un pensiero venne in mio
soccorso: che dopotutto era stato solo un sogno, e non dovevo entrare nell’ordine d’idee che la cosa fosse
già realmente accaduta. Pure, la mia mente finiva per tornare sempre là, e rivedevo come al rallentatore la
scena della caduta. Ma il sogno non era giunto a mostrarmela tutta: mi ero svegliata troppo presto. Allora
pensavo che se anche il mio sogno era stato veridico, non si poteva escludere che Michael fosse riuscito a
fermare la caduta, aggrappandosi a qualche sporgenza. Ma poi mi tornava in mente l’altro sogno, quello
di papà che tornava con la barca da solo: collegavo le due premonizioni e non avevo più scampo.
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Assediata da tali angosce, trascorsi così la notte più lunga della mia vita. Mi aspettavano ancora
quattro o cinque giorni di attesa: il tempo per papà di andare alla costa occidentale e tornare, se tutto
andava bene. E non avevo nessuno con cui confidarmi. Non dissi niente alla mamma neanche quando
stava abbastanza bene, perché mi sembrava che il parlare della cosa avrebbe finito per conferirle una
realtà concreta, irrimediabile, che per adesso si poteva ancora scongiurare se io ero abbastanza forte da
reprimere nel silenzio le mie paure. E così feci, a prezzo di un sacrificio terribile. Vagabondavo tutto il
giorno per il bosco e mi sfogavo un po’ con Tom, che stava ad ascoltarmi con occhi umani e soffriva
palesemente della mia sofferenza. Certe volte, dopo essermi appunto un po’ così alleggerita del mio
opprimente fardello, mi pareva che il mio animo tornasse ad aprirsi insperatamente alla speranza. In quei
momenti, pensando a quel che sarebbe accaduto dopo il ritorno di Michael, finivo per trovarmi alle prese
con un altro genere di problema. Mi ero innamorata di Michael. Ma questo era assurdo, dovevo scacciare
un simile pensiero. Senza quasi che lo volessi, però, ricordando gli ultimi giorni passati insieme, mi si
faceva strada l’idea che forse qualcosa di simile era capitato anche a lui. Possibile? Non sapevo cosa
pensare. Che cosa poteva saperne una ragazzina scontrosa e solitaria, abituata ad avere un cane, gli alberi
e il vento del Sud come unici compagni e confidenti?
L’attesa non durò cinque o sei giorni, ma undici. Non posso riandare a quel periodo senza provare un
fremito di orrore. Fu come una buia galleria che sembrava non dover mai finire, e dentro di essa io ero
schiacciata come se tutto il peso della montagna gravasse sulle mie spalle. Ogni mattino mi svegliavo
dicendomi: “Sarà oggi”; ma non accadeva nulla; e la notte mi coricavo reprimendo l’angoscia e pensando:
“Allora sarà per domani. Sì, certamente sarà così.” Ma l’indomani era uguale a ieri. Alla fine anche la
mamma cominciò a preoccuparsi.
Un giorno, tornando dal bosco, vidi giù all’ancora la barca che dondolava sulle onde. Corsi in casa
come una furia. Papà era in ingresso e stava parlando con la mamma, solo. Il suo viso appariva stanco e
preoccupato. Quando mi vide, si volse e mi guardò con infinita tenerezza, senza dir nulla. Rimasi lì come
fulminata. Poi, senza dir parola, mi precipitai fra le sue braccia.
Son passati sette mesi, e fra non molto tornerà la primavera. Mentre sto scrivendo, l’orizzonte del Sud
si sta rannuvolando e le onde assalgono con violenza la scogliera, cingendola di spuma bianca dopo ogni
attacco. L’intelaiatura della finestra geme debolmente nella stretta del vento, e gli alberi lontani, sulla
punta in direzione di Bluff, si piegano come fedeli che s’inginocchino davanti all’altare. Ma fra un mese o
poco più tornerà la primavera.
Col passare del tempo, anche le ultime speranze sono cadute. Abbiamo avvertito la polizia e la
guardia costiera, ma senza alcun risultato. Michael è sparito come la Tribù Perduta di cui andava alla
ricerca. Da Auckland non si è fatto vivo nessuno. Siamo riusciti a rintracciare la sorella e a scriverle, dopo
che la polizia aveva già provveduto ad avvertirla. Dalla sua lettera di risposta, breve e profonda, è balzato
fuori il ritratto di un’anima giovane e bellissima, così come lui me l’aveva descritta quella sera: dolce e
forte al tempo stesso, e piena di fede. Ci chiedeva, fra l’altro, se suo fratello avesse lasciato
involontariamente qualche debito. Non ne aveva lasciati, perché, come sono venuta a sapere poi, prima di
partire aveva insistito per pagare il soggiorno nella nostra casa.
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Presentimento o semplice prudenza? Non lo sapremo mai. Di lui mi sono rimasti i libri che aveva
portato qui con sé e due quaderni di appunti. Gli uni e gli altri trattano di filosofia e non li capisco, ma mi
sono ugualmente cari. Dal momento che nessuno li ha richiesti, per adesso li tengo. Essi mi ricordano che
non è stato tutto soltanto un sogno, come talvolta mi scopro a fantasticare. Davvero, senza quei libri e
senza la lettera di Linda finirei per convincermi di avere sognato.
Ma se non è stato un sogno, un’illusione, che cosa è stato? Che senso ha avuto? Un baleno di felicità
nella vita di una ragazzina solitaria e scontrosa, i cui unici amici sono un cane spinone, i faggi della
foresta, e il vento che soffia dagli azzurri infiniti orizzonti del Sud.
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LO STUDENTE SPAGNOLO
Quando fu cacciato dall'Università di Salamanca, il baccelliere Alfonso Narvàez giurò a se stesso che ben
presto si sarebbe presa la rivincita. Partì dall'antica città spagnola dirigendosi a piedi verso i Pirenei,
deciso a raddoppiare i suoi sforzi per impadronirsi delle fonti del supremo sapere. L'Inquisizione non
aveva potuto fare altro che interrogarlo, ammonirlo, bruciare i suoi manoscritti e farlo espellere dalla
celebre Università, troncandogli per sempre la meta del dottorato. Ma lui non era mai stato assetato di
riconoscimenti umani: tutto ciò gli appariva semplice frivolezza. Ben altra era la sete che lo divorava.
Arrivò al punto di rallegrarsi d'essere stato espulso dall'Università, perché altri aveva preso per lui la
decisione, che da tempo accarezzava, di farla finita con quel sapere ottuso, libresco, generico, che lo
angustiava e gli accendeva più viva la nostalgia per le vette eccelse della conoscenza. Le categorie
aristoteliche gli parevano un gioco per bambini e le dimostrazioni della teologia lo facevano sorridere
beffardamente. Perché egli non bramava di sapere ma bramava il sapere, tutto, illimitatamente. Bramava
di penetrare alle remote regioni dell'Essere e di strappar loro il segreto del dominio sulla natura.
Un unico pensiero lo angustiava, quando lasciò Salamanca diretto alla frontiera. Quel giovane
orgoglioso, che disprezzava i suoi pavidi insegnanti e si faceva beffe dei suoi giudici bigotti, nutriva un
amore. La bellissima Francisca de Toledo, fiera come una imperatrice e giovane come una vergine della
mitologia greca, era l'unico essere al mondo capace di strappare al suo cuore superbo dei battiti più rapidi,
di diffondere sul suo volto altero il pallore della più totale ammirazione. Il pensiero che ella, alla notizia
della sua cacciata dall'Università, avrebbe scrollato le spalle con la sufficienza di chi ben sapeva ogni
cosa prima che accadesse, lo riempì di rabbia e umiliazione. Ma subito si riprese e giurò a se stesso che
egli sarebbe tornato non solo per trionfare di quei boriosi pedanti e di quei fanatici bacchettoni che lo
avevano condannato, ma anche del cuore inaccessibile di lei. Lo avrebbe preso d'assalto come una
fortezza e, d'impeto, lo avrebbe conquistato. E al ricordo dei bellissimi occhi scuri di doña Francisca la
terribile tempesta del suo animo si placava e sulla sua fronte corrucciata tornava a spuntare un raggio di
fede rasserenatrice.
Procedeva lento e tenace alla volta di Parigi, povero e smagrito, macinando polvere e fango, pioggia e
sole. Lo attirava irresistibilmente il fascino della città antichissima ove si assommavano tutte le scienze,
tutte le arti, tutte le menti eccelse ed intrepide, menti che non indietreggiavano davanti al mistero del bene
e del male, che non si smarrivano quando si trattava di squarciare i veli delle umane prudenze e
debolezze. I più ricercato maestri, i più oscuri alchimisti, i più tenebrosi negromanti lo attendevano
laggiù, insieme ai libri più antichi e alle formule più terribili. E di tutti gli ostacoli incontrati lungo il
cammino riuscì sempre a trionfare, grazie alla sua ferrea volontà e alla smisurata ambizione che lo
trascinavano avanti, avanti, a dispetto di tutto e di tutti.
Non lo fermarono i Pirenei coperti di neve, né la Garonna spumeggiante d'acque limacciose. Quando era
ormai avviato verso Orléans seppe che era scoppiata nuovamente la guerra tra la Francia e la Spagna e,
nel fatto di aver potuto attraversare in tempo la frontiera, vide uno speciale intervento del destino.
La sua stella lo guidava verso la conquista di confini sovrumani, tutta la scienza e tutta la potenza del
mondo avrebbero dovuto inchinarsi davanti alla sua forza e alla sua audacia e avrebbero dovuto rivelare i
tesori tenebrosi che ai vili e ai mediocri sono fatalmente preclusi.
E-book “La bambina dei sogni”
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Giunse a Parigi dopo aver consumati tre paia di calzature, senza più una moneta nella borsa e il mantello
logoro e scucito. Era il mese di gennaio e la città gli apparve, nella rossa nebbia del tramonto, come una
bizzarra fortezza irta di tetti e di camini protesi verso il cielo livido.
Penetrandovi, si stupì dello squallore e della desolazione che imperavano nelle vecchie strade, dei volti
scuri e inquietanti dei cittadini, del silenzio che dominava irreale nei sobborghi. E quando venne a sapere
che era scoppiata una epidemia di peste e che le autorità municipali avevano deciso la chiusura delle porte
cittadine per la mezzanotte di quello stesso giorno, di nuovo ebbe la rivelazione che una potenza oscura
ed a lui amica lo favoriva. Al pericolo che sovrastava lui pure non pensò nemmeno. Per una questione di
poche ore aveva fatto in tempo a entrare in città e questo solo contava, questo era il prodigio.
Trovò alloggio in una miserabile locanda del quartiere di Les Halles, le cui strade col cattivo tempo si
trasformavano in torrenti di fango e le cui case grandi e distanziate parevano le avanguardie smarrite della
campagna. La notte nessun lume rompeva la tenebra spessa, e solo raramente il passo della ronda
ricordava che anche quella era, dopo tutto, un'appendice della grande città. Lo studente spagnolo
alloggiava in una stanza umida e tetra sotto il tetto, ove il tamburellare notturno della pioggia aveva un
qualche cosa di singolarmente gelido e sinistro, come le urla raccapriccianti dei gatti in amore giù nel
vicolo fetido e buio.
Ma a tutto questo egli non badava. Aveva trovato lavoro come scrivano comunale, e tutto il suo tempo
libero lo trascorreva nelle antiche e polverose biblioteche di Parigi. Curvo su quelle carte ingiallite,
circondato da altissimi scaffali di libri arcani e paurosi e da statue che gettavano ombre inquietanti,
passava ore ed ore alla ricerca di segreti inesplorati. Simile ad un livido fantasma egli stesso, circondato
dalla sapienza tenebrosa di epoche morte, si addentrava ogni giorno di più lungo i bui sentieri della
conoscenza proibita.
Nel volger di alcuni mesi era già divenuto un esperto di alchimia, di occultismo, di magia nera. E già tutto
questo sapere smisurato e fantastico cominciava ad apparirgli limitato e insufficiente a soddisfare le sue
ambizioni immense, allorché fece un giorno, casualmente, l'incontro decisivo della sua vita.
Stava uscendo a sera, nell'infuriare di un violento temporale, dalla vasta biblioteca deserta, allorché venne
fermato, sullo scalone di marmo, dal Cavaliere.
Gli si gelò il sangue nelle vene quando, alla luce repentina di un lampo, la sua alta e sinistra figura emerse
dall'oscurità. Ma più di tutto lo colpì il viso del Cavaliere, incorniciato dall'enorme collare di seta, un
volto così magro e allungato, dalla fronte così smisurata e dalle sopracciglia così bizzarramente arcuate,
che pareva uscito da quegli stessi libri di magia, per incanto, o da quelle statue di marmo inanimate. Una
luce rossa e implacabile brillava in quegli occhi profondamente incavati.
Lo studente ebbe un moto istintivo di ribrezzo e di paura, ma il Cavaliere, facendo un passo avanti, si
presentò risolutamente. Disse che da tempo lo aveva notato in quel luogo, intento a interrogare i libri alla
ricerca di una saggezza che essi, povera carta muta logorata dal tempo, non potevano dare. Abbandonasse
dunque quella strada fallace e polverosa, si rimettesse con audacia alla guida di chi era già addentro nei
misteri più profondi dell'Essere: solo con un volo d'intrepidezza avrebbe potuto estinguere la sua sete di
potenza e di sapienza.
Queste cose le disse con voce grave e profonda, come salisse da un nero pozzo dalle profondità
imperscrutabili, e strinse il braccio dello studente con la sua gelida mano per comunicargli la sua fiducia
sacrilega nei poteri infami della scienza occulta.
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Quella notte stessa lo studente accompagnò il Cavaliere alla sua antica dimora, e ne divenne l'amico e il
discepolo inseparabile. Per alcune settimane fu iniziato ai segreti della filosofia esoterica, riservati a pochi
eletti che non avevano paura d'aver paura, che non fuggivano inorriditi davanti all'orrore da essi stessi
evocato. Poi, poco alla volta, fu introdotto nei misteri abominevoli della magia nera, non come sono
descritti, in forma involontariamente caricaturale, dai libri, ma nella terribile concretezza degli
esperimenti.
Nei profondi scantinati della casa secolare il Cavaliere gl'insegnò ad evocare coloro che è pazzia
richiamare fra gli umani, ad ascoltare il ruggito di ciò che è saggezza lasciare incatenato sul fondo dei neri
abissi di là dallo spazio e dal tempo.
La prima volta che ciò accadde, per poco lo studente non morì dal terrore.
Stava in piedi in mezzo al cerchio magico e d'un tratto un soffio pestifero si levò dal nulla e spense il
massiccio candelabro posto alle sue spalle. La cantina cadde nel buio più totale, e in quel buio egli sentì
entrare una presenza sozza e inqualificabile, che rimase ferma a ringhiargli sulla faccia con rossi occhi di
brace. Ma la voce ferma e profonda del Cavaliere presso di lui gli restituì il coraggio perduto, e gli mostrò
che perfino a quella presenza immonda e terribile era possibile comandare ed essere obbediti. Da allora,
sempre più spesso lo studente scese nella buia cantina, e alla fine cominciò a farlo anche da solo.
Di giorno dormiva e non usciva quasi mai dal vetusto palazzo, indugiando dietro i finestroni dai riquadri
multicolori e ripensando al momento in cui sarebbe tornato in patria per trionfare dei suoi nemici e per
diventare il signore assoluto dei regni insondabili delle tenebre. Ma in genere era talmente preso
dall'ebbrezza della sua nuova tremenda potenza, che volgeva le spalle al passato come a cosa del tutto
trascurabile e vuota.
Solo l'immagine stupenda di doña Francisca, di tanto in tanto, visitava i suoi sogni allucinati e allontanava
per qualche attimo l'innominabile corteo di mostri che li popolavano. Allora quell'immagine bianchissima
e meravigliosa, un tempo tanto cara, riconquistava l'incanto struggente che nella veglia aveva ormai
perduto, sopraffatta da altri insaziabili desideri. Ma poi nuovamente sfumava e si dissolveva, e il ritorno
della coscienza portava seco una rinnovata, incontenibile brama di sapienza e di occulta potenza.
Divenuto ministro della magia del Cavaliere, lo studente finì per essere anche complice dei suoi atroci
delitti. Le potenze inenarrabili ch'essi evocavano esigevano sempre più spesso un compenso per le loro
apparizioni e i loro servigi, ed esso non poteva essere che un sacrificio umano.
Di notte, quando il buio e l'inquietudine scendevano come nere ali di pipistrello giù dai tetti spioventi
degli antichi palazzi, i due negromanti uscivano intabarrati nei loro mantelli alla ricerca di vittime. E
poiché le potenze dell'abisso esigevano l'empio banchetto dell'innocenza per soddisfare la loro sete di
abominevole sapienza, bimbi e giovinette erano l'obiettivo preferito di quelle criminali sortite notturne.
Per lo studente che, a differenza del suo empio maestro, era nuovo a tali atrocità e il cui animo non era
naturalmente malvagio, ciò all'inizio costituì un duro scotto da pagare. Per molti giorni gli rimase nelle
orecchie l'urlo disperato di quella fanciulla che essi ghermirono, latrando e ansimando nella nera oscurità
del sotterraneo. La sua coscienza fu in lotta mortale e per un momento lo studente fu sul punto di fuggire
a precipizio da quella casa di perdizione, rinunciando per sempre ai suoi malsani sogni di potenza. Ma poi
la visione dei volti beffardi dei professori di Salamanca, dei volti arcigni degli inquisitori, del volto altero
e sdegnoso di doña Francisca lo trattennero ancora una volta.
E rimase.
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Col passare dei mesi, i neri orizzonti della magia diabolica sempre più si allargavano dinanzi al suo
sguardo allucinato. Ma un pensiero sempre più spesso lo tormentava, che nulla aveva a che fare coi
ricordi o col rimorso e che gli appariva ormai come l'ultimo ostacolo al suo trionfale ritorno. Era il
pensiero dell'ultimo gradino sulla via della morta conoscenza, del più fondo abisso degli arcani
innominabili, oltre il quale non esiste più limite a nulla sulla china del male. Pure, fremeva a quel
pensiero spaventoso e ogni qualvolta lo accarezzava con insano compiacimento, sempre finiva per
allontanarlo da sé come pazzescamente audace e pericoloso.
Ma un giorno, raccolto tutto il suo coraggio, si decise a compiere il gran passo e afferrato per un braccio il
Cavaliere, lo pregò di fare per lui un'ultima cosa: presentarlo al Maestro. Scolorò a quella richiesta
inconcepibile il volto già esangue del Cavaliere, e un lampo di timore attraversò il suo sguardo. Pure,
vedendo che lo studente non recedeva e che nulla sarebbe valso a dissuaderlo, piegò impercettibilmente il
capo in un riluttante cenno d'assenso.
Quella notte stessa, armati di torce, i due uomini si avviarono con passo esitante giù per la tetra scala a
chiocciola, che li risucchiò gradino dopo gradino fino al termine d'un pozzo incredibilmente profondo e
silenzioso. Spingendo porte chiuse da secoli e cancelli cigolanti, essi si spinsero ancora più in basso del
solito e gettarono i loro cerchi di luce tremolante lungo corridoi che da tempi immemorabili non avevano
conosciuto più impronta di piede umano. Eserciti di grossi topi dall'aria selvatica e feroce fuggivano
innanzi a loro, digrignando i denti e lanciando urla lamentose. Finalmente giunsero nella cella ottagonale,
l'estremo locale dell'immenso sotterraneo, posto a diverse centinaia di piedi sotto il livello del suolo.
Un brivido gelido corse lungo le vertebre dello studente, stringendole una ad una nella sua morsa
intollerabile, quando il Cavaliere con gesti esitanti e con voce tremante incominciò la formula della
evocazione. Poi, vedendo il sudore scorrere sulle tempie della sua spaventosa guida, e i minuti trascorrere
senza che nulla accadesse, lo studente cominciò a sperare che l'enormità stessa della chiamata l'avrebbe
resa assolutamente inefficace.
Ma ecco, d'un tratto un soffio possente, nauseabondo, uscito da qualche angolo morto investire e spegnere
i due candelabri, piombando ogni cosa nell'oscurità più totale. Ecco tacere ogni squittio di topi, ogni
tramestio lontano lungo a scalinata, perfino ogni sgocciolio d'acqua dalla volta circolare e gonfia
d'umidità del sotterraneo. Un silenzio spaventoso, rombante, era sceso nell'antro profondissimo.
Lo studente aveva appena registrato nella coscienza confusa e atterrita tali fenomeni, allorché lui venne,
come se di colpo qualche cosa o qualcuno di immani proporzioni fosse penetrato nella cella ottagonale,
qualcosa o qualcuno talmente selvaggio e smisurato da eccedere di molto le dimensioni del locale stesso.
Lo studente ebbe quindi la fantastica impressione che nella cella fosse entrato qualcuno che la cella stessa
non poteva in alcun modo contenere, ma che al contrario inglobava nella sua malvagia enormità la cella
medesima e forse l'intero labirinto sotterraneo.
Le orecchie gli rombavano con violenza inconcepibile, come se qualcuno stesse urlando e latrando nel
buio sino a far rimbombare le più lontane pietre; eppure era certo che nessun suono, nessun rumore
turbava realmente lo spaventoso silenzio.
Alla luce della sua coscienza sconvolta udì con le orecchie della mente una domanda che gli veniva
rivolta con inaudita malvagità, ma che nessuna voce o suono umano poteva realmente aver formulato. Il
Maestro, in un parossismo d'ira per quella chiamata follemente audace, gli chiedeva come pensasse di
placare la sua sete di distruzione e di vendetta. Voleva da lui la cosa più cara, la più preziosa, la più sacra:
solo a tal patto non lo avrebbe squarciato coi suoi artigli smisurati.
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E subito al pensiero dello studente apparve, quasi inconsapevolmente, l'immagine dell'unica persona da
lui amata con trasporto e fedeltà assoluti: l'immagine nivea e purissima della giovinetta di Salamanca,
doña Francisca.
Alitandogli in viso una nuova spaventosa zaffata di bestiale fetore, "lui" gli significò che quel sacrificio
sarebbe valso, per allora, a risparmiargli la vita, e ne richiese il consenso. La vita di lei in cambio della
vita di lui.
Tremò in ogni fibra lo studente spagnolo, e arretrò come folgorato mentre la fronte gli s'imperlava di
sudore freddo. Il suo tremito era così convulso che per poco non inciampò e cadde. Allora il Cavaliere,
che fino a quel momento gli era rimasto accanto ugualmente atterrito e silenzioso, e che aveva
misteriosamente udita lui pure la richiesta non detta, lo afferrò per una spalla e lo scosse con rabbia
convulsa. Gli artigli del Cavaliere gli affondavano nella carne mentre una supplica feroce, un ordine
disperato lottavano nel buio totale per trovare, invano, un aperto sfogo.
Doveva acconsentire, doveva cedere la vita di doña Francisca, con un assenso del cuore: questo
supplicava, questo ordinava nella frenesia del terrore il Cavaliere, senza poter aprire la bocca né emettere
suono.
La presenza immane, inconcepibilmente adirata, era lì su di loro e incombeva con urgenza terrificante.
Allora dalla gola dello studente, serrata dall'angoscia e da un terrore incontenibile, la voce tornò
improvvisamente e un urlo rimbombò disperatamente per le volte e le scalinate immense; un urlo
convulso, assordante, lunghissimo: un "no" che si perdette negli abissi di quell'allucinante regno
sotterraneo...
& & & & &
Quella notte stessa, a più di mille chilometri di distanza, doña Francisca si destò atterrita e madida di
sudore nel mezzo di un incubo spaventoso.
Ma già l'indomani ella aveva quasi scordato i terrori notturni e, dopo qualche settimana, li seppellì per
sempre nei recessi insondabili della coscienza. Allo studente continuò a pensare, di tanto in tanto, ancora
per qualche mese, finché lo dimenticò del tutto.
Del Cavaliere e del suo giovane aiutante non si seppe più nulla. La servitù del palazzo non fu in grado di
dir nulla circa la loro repentina e inspiegabile partenza.
Solo molti anni dopo un lontano parente del Cavaliere, un nipote di terzo grado che aveva ereditato la
casa quale unico familiare vivente, ebbe un giorno l'idea di scendere a esplorare, per pura curiosità, i
profondi sotterranei. Percorse non senza meraviglia e apprensione le interminabili rampe di scalini
consunti dal tempo, oltrepassò porte infradicite dall'umidità e cancelli arrugginiti, scendendo sempre più
in basso, a profondità fantastiche.
Un piccolo locale ottagonale era sul fondo, chiuso d'ogni parte.
Il nuovo padrone della casa se ne ritrasse inorridito e risalì a precipizio le scale da cui era disceso. Perché
sul pavimento della cella ottagonale, accanto a due candelabri rovesciati, erano sparse tutt'attorno le
povere ossa frantumate e le vesti già lacerate e semidisfatte di quelli che erano stati, molti anni prima, due
esseri umani.
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LA VOLATA
Il gruppo dei corridori imboccò compatto il largo viale alberato, lanciato a quarantacinque chilometri
l'ora, come un torrente primaverile che irrompe dai monti travolgendo ogni cosa innanzi a sé. Entrò nella
curva inclinandosi paurosamente sulla destra, sfiorò come un turbine le transenne oltre le quali si
sbracciava la folla, perdendo appena pochi colpi di pedale. Quindi uscì sparatissimo sul breve rettilineo
finale, 250 metri appena, guizzando con una impennata tumultuosa tutto sul lato sinistro della strada.
Visto dal palco sovrastante il traguardo, il gruppo apparve come una massa paurosamente oscillante e
vorticosa, un mulinare di gomiti, un affondare di teste entro le spalle, un forsennato sbandare ritmico di
ruote e di manubri, ora su un altro ora sull'altro. Da quel turbine che faceva tremare la vista balzarono
fuori prima uno, poi un altro, quindi un terzo corridore, solo per imprimere un nuovo violento strattone al
gruppo già sgranato e per farsi riassorbire e inghiottire un istante dopo.
Mario sentiva, nell'imboccare l'ultima curva, che nemmeno quel giorno ce l'avrebbe fatta. Era teso al
massimo, sprofondato dentro il manubrio e lanciatissimo dietro la ruota di Ramirez. Ma proprio perché
vincere era adesso troppo importante per lui, una fatale intuizione gli diceva che non avrebbe vinto. In
effetti, era stato poco bene fin dalla partenza, al mattino, e anche se il fresco inaspettato della tappa
l'aveva ristabilito, non era ancora nella sua forma migliore. Per giunta, c'era stato quello sbandamento del
gruppo all'ultimo chilometro, che gli aveva fatto perdere dei metri preziosi nella fase criticissima della
conquista delle ruote. Metri forse irrecuperabili, aveva subito pensato con rabbia, mentre con uno scarto
superava Van Dooren che aveva tirato i freni per paura. Quell'idiota! Non sapeva che tirare i freni è
l'unica cosa che un velocista non deve fare mai, assolutamente mai, a qualunque costo? Lanciato come un
dèmone della vendetta, coi capelli scarmigliati impastati di sudore, Mario aveva letteralmente spostato
Paluzzi dalla ruota del veloce Ramirez, e l'aveva presa. Pensava che Ramirez l'avrebbe pilotato
ottimamente fino a ridosso del traguardo, perché il massiccio spagnolo era un velocista potente, dunque
un eccellente battistrada per uno sprinter dell'ultimo centimetro, quale lui era.
Ma quel giorno pareva che anche il diavolo gli fosse contro, sulla curva Ramirez era rimasto chiuso e
aveva dato una toccata leggerissima ai freni, scostandosi bruscamente sulla sinistra. Allora Mario, evitato
per un pelo di toccare la ruota di Ramirez, s'era detto con una smorfia: "O la va o la spacca", e rischiando
letteralmente la pelle era venuto fuori come una palla di fucile nel ridottissimo spazio rimasto libero fra
Ramirez e la transenne sulla destra, là dove solo un fantasma sarebbe riuscito a passare. Aveva così
riguadagnato una posizione favorevole, ma all'uscita della curva si era già trovato allo scoperto: e 250
metri di volata controvento erano realmente troppi per uno sprinter puro come lui, dopo una tappa di 200
chilometri tirata quasi sempre sul filo dei quaranta all'ora. Ma ormai era troppo tardi per improvvisare una
diversa strategia: Mario s'era riempiti d'aria i polmoni (1) e si era gettato disperatamente nella volata al
centro della strada, piegato sulla bicicletta sino a formare con essa un tutto unico e indivisibile. Sulla sua
sinistra, al riparo dal vento, i corridori di testa si erano slanciati verso il traguardo come pigliando il volo
dal piano inclinato della pista d'un velodromo.
Il primo ad appaiare Mario era stato Carstens, l'olandese, il suo peggiore avversario; e lui, lanciato
come una furia verso quel traguardo che già sentiva nuovamente sfuggirgli di mano, con evidente
scorrettezza lo aveva stretto cercando di tagliargli la traiettoria. Avevano proceduto per cinquanta metri
appaiati, sgomitando e rischiando mille volte di arrotarsi coi pedali e di capitombolare entrambi: disuniti
ormai per lo sforzo spasmodico, sbatacchiando il manubrio a destra e a sinistra con tutta la forza delle
spalle.
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Ma già a 70 metri dal traguardo Mario con la coda dell'occhio da sotto il braccio aveva visto Van Katwijk
schizzar fuori dal gruppo a velocità doppia e infilarli sulla sinistra con una progressione irresistibile. Ai
venti metri Van Katwaijk era già nettamente primo e poteva rialzarsi dal manubrio per tagliare la linea
bianca a braccia alzate, stravolto ed esultante. E per Mario al danno si era aggiunta la beffa, perché negli
ultimissimi metri anche Carstens aveva preso decisamente il sopravvento e a nulla era valso il suo
disperato colpo di reni per conquistare almeno il secondo posto: era andato a morirgli appena sul mozzo,
irrimediabilmente battuto…
1) Normalmente una volata si fa senza respirare.
Quel che accadde dopo aver tagliato il traguardo fu per Mario come un sogno, un tremolìo confuso di
suoni e di colori che la sua coscienza appannata registrava appena. Mentre i suoi meccanici lo
sorreggevano e lo aiutavano a scendere dalla bicicletta, pallido come uno straccio per l'asfissia della
volata, gli giungeva come da un altro mondo la voce rintronante dell'altoparlante che scandiva l'ordine
d'arrivo. Primo Van Katwijk, secondo Carstens, terzo lui, quarto Ramirez…
Sotto il palco della giuria, nella confusione indescrivibile che segue una volata al Giro d'Italia,
l'agitazione aveva raggiunto il massimo. Carstens gli veniva incontro imprecando e agitando i pugni, ma i
suoi compagni di squadra mettendosi in mezzo avevano evitato il peggio. A Mario giunsero, pur nel
frastuono di voci incrociantisi d'ogni parte, gl'improperi irriferibili dell'olandese, che non comprese,
conclusi da una perentoria minaccia in italiano: "Farò ricorso alla giuria". E infatti, nemmeno cinque
minuti dopo, prima che Mario avesse potuto districarsi dall'ingorgo e dirigersi in macchina verso
l'albergo, la voce dello speaker all'altoparlante aveva gracidato: "Dopo aver riesaminato il filmato della
volata, la giuria con decisione unanime retrocede all'ultimo posto nella classifica di tappa, per gravi
scorrettezze commesse negli ultimi 200 metri, il corridore numero 65…".
Il 65 era lui.
& & &
"Sconfitto e umiliato", rimuginava Mario cupamente, disteso sul letto dell'albergo, mentre il
massaggiatore gli spalmava di crema i polpacci muscolosi. "Ma va', Mario - cercava di tirarlo su il buon
Silvano, sfregandogli energicamente le gambe ancora indurite per lo sforzo - ma va' che anche se ti hanno
retrocesso hai fatto una bellissima volata. Eri terzo, non vuol dire, sei partito male fuori dalla curva:
vedrai che prima della fine una tappa la vinci…".
Mario l'aveva guardato torvo, si sentiva talmente giù che aveva quasi voglia di piangere. E per
l'ennesima volta raccontava a Silvano ogni sequenza della volata cercando il perché dell'ennesima
sconfitta. "Stamattina stavo poco bene, ma questo non conta, poi mi ero ripreso - piagnucolava. - Mi
sentivo una gran voglia di vincere, ne avevo bisogno come il pane, porco mondo! Invece sotto lo
striscione dell'ultimo chilometro quell'imbecille di fiammingo, come si ciama quel biondino, Van Dooren
che ti fa? Non si mettea frenare? Proprio mentre stavo per pigliare la ruota di Van Katwijk. E se ci
riuscivo, adesso avrei vinto, perc