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Il cinema italiano intorno a Gomorra tra visibilità, semivisibilità, invisibilità, in «The Italianist Film Issue», Summer 2010

Apr 07, 2023

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E D I T I N G S U I T E

Il cinema italiano intorno a Gomorra tra visibilità, semivisibilità, invisibilità

Christian Uva

Cosa succede nel panorama del cinema italiano intorno a Gomorra (Matteo Garrone, 2008)? Come si configura il territorio della produzione filmica all’indomani del successo dell’opera di Garrone che ha riportato l’Italia, almeno per un momento, a guadagnarsi una (stra)visibilità nel contesto nazionale e internazionale?1 Il Rinascimento cinematografico prefigurato circa un anno e mezzo fa dai riconoscimenti ottenuti anche da Il Divo di Paolo Sorrentino trova una sua concreta conferma nella produzione dell’ultima stagione?

Questo intervento tenterà di rispondere alle suddette domande prendendo anzitutto spunto da un dato: se al botteghino il cinema italiano resta posizionato al secondo posto dopo quello americano (come di norma), fra i primi cinquanta top film del 2009 figurano soltanto dieci opere italiane rispetto alle diciotto dell’anno precedente.2

In prima analisi, il seguito del prodotto italiano registra insomma una certa flessione che, del resto, va di pari passo con la persistente difficoltà di approdare alla tanto agognata sala, oltre che di permanervi per un tempo sufficiente. Per fare fronte ad una simile situazione continuano ad essere molteplici e variamente dislocati geograficamente i tentativi di distribuire in proprio, ‘myself’, opere cinematografiche realizzate (troppo) spesso con budget irrisori.3

Sul fronte dell’opera prima, infatti, come già segnalato da più parti, l’ostacolo fondamentale da superare non è più la realizzazione stessa del film, quanto la possibilità di renderlo fruibile ad un pubblico, di attualizzarne l’essenza altrimenti ‘virtuale’ mutandone lo statuto da invisibile a visibile. Il cuore della discussione deve dunque allargarsi dalla pur sempre centrale questione del ‘modo di produzione’ a quel che potremmo definire in termini di ‘modo di distribuzione’; ciò è tanto più vero tenendo in considerazione l’attuale dibattito teorico sulle nuove forme di rilocazione dell’esperienza spettatoriale.4

Quanto al concetto di invisibilità, bisogna sottolineare come esso sia diventato, oltre che, come sostiene Vito Zagarrio, una nozione ‘di moda’,5 una sorta di nuovo canone che, proprio in reazione allo status quo sopra accennato,

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serve oggi per indicare un certo carattere DOC, una certa nobiltà artistica del prodotto filmico italiano anche quando non riesce a conquistarsi stabilmente lo spazio della sala cinematografica, circolando e ottenendo invece riconoscimenti nei festival nazionali e internazionali e giungendo in tal modo a conquistarsi una propria legittimità di fronte agli addetti ai lavori. Tutto ciò trova conferma nell’esistenza di convegni, pubblicazioni e studi accademici sull’argomento, come anche nella presenza di festival che hanno deciso di improntare la propria linea editoriale sul valore dell’invisibilità delle opere presentate: si veda a tale proposito, oltre che il volume curato da Zagarrio (Gli invisibili: esordi italiani del nuovo millennio), il titolo Gli invisibili scelto su questa scorta come tema del terzo concorso internazionale del Salinadocfest, ‘ad indicare una massa incandescente di persone’, scrive l’ideatrice e direttrice del festival Giovanna Taviani, ‘che dietro i riflettori della televisione cercano disperatamente, spesso senza esito, di far sentire la loro voce’.6

Per un’opera ‘emersa’ come Gomorra, insomma, molteplici continuano ad essere gli esempi filmici di semiclandestinità ai quali bisogna ascrivere opere sia di fiction che di carattere documentaristico (se ancora, in tempi di progressiva e inesorabile ibridazione tra i due ambiti, tale distinzione di comodo può avere un senso).

Proprio in ragione dell’ampia articolazione di questo panorama, si vuole cominciare tale ricognizione nel contesto del cinema italiano realizzato in Italia contestualmente al film di Matteo Garrone, ma anche all’indomani del suo successo, con uno sguardo che intende immergersi anzitutto nel sottosuolo di questa produzione, nei suoi anfratti più reconditi, laddove si situano opere che, pur avendo raggiunto faticosamente la sala in modi più o meno ufficiali, hanno perlopiù dovuto approfittare ‘di una nicchia della distribuzione e dell’esercizio, sapendo già di essere ghettizzate e di dover smontare nel giro di una settimana’.7

1 Gli emarginati

A percorrere le zone semisommerse del cinema italiano dell’ultima stagione sono le vene riconducibili ai seguenti ambiti: quello di carattere sociale, radicato in un cinema inteso come strumento di analisi o di denuncia dei mali e delle delicate questioni etiche e sociali al centro del dibattito pubblico (vedi pedofilia, bullismo, droga, eutanasia, scandali italiani vari); quello connesso al tentativo di rilanciare un cinema dei generi che, accanto alla commedia (frequentata nelle sue varie declinazioni anche dalla produzione di nicchia), punti con forza su altri filoni come il noir e il poliziesco (dominata dalla lezione del cinema popolare italiano degli anni ’70 filtrato attraverso le pratiche tarantiniane) e, in parte, il melodramma.

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Infine c’è il contesto della sperimentazione dei linguaggi, delle forme, delle tecniche narrative, quello maggiormente candidato a restare sommerso, underground.

Per quanto riguarda il cinema di narrazione, si prenda ad esempio in considerazione Animanera di Raffaele Verzillo, sul delicato tema della pedofilia, la cui distribuzione di un gigante come Medusa (che tuttavia ne decide l’uscita nel mese di agosto del 2008) e il cui statuto di ‘genere’ non riescono a garantire la sufficiente persistenza in sala. Sul fronte opposto di una distribuzione regionale sganciata dalle logiche perverse del ‘sistema’ si pone invece un’operazione come quella di Capitan Basilico (2008) di Massimo Morini, parodia del filone superomistico girata interamente in Liguria, frutto della precisa scelta local che nel 2004 aveva già contraddistinto il fantascientifico InvaXön - Alieni in Liguria (2004), opera prima dello stesso regista prodotta dalla band musicale Buio Pesto.

Nel medesimo contesto regionalistico – a conferma dell’ormai definitiva perdita da parte di Roma dell’egemonia nella produzione cinematografica italiana – si pongono orgogliosamente anche Focaccia Blues (2009), docufiction del pugliese Nico Cirasola esplicitamente mirata a contrapporre il locale al globale attraverso la vicenda di una focacceria di Altamura (in provincia di Bari) che sfida e sconfigge il McDonald’s del luogo, Trappola d’autore (Franco Salvia, 2009) di ambientazione ugualmente pugliese, e Cenci in Cina (2009) in cui il regista Marco Lamberti ironizza con spirito tutto toscano sulla concorrenza tra cinesi e italiani di Prato, noto polo dell’industria tessile. Del medesimo stampo regionalistico (anche nella distribuzione) è La terra nel sangue (2008) di Giovanni Ziberna, film costituito da quattro episodi sviluppati nel territorio del Friuli Venezia Giulia, un Nord d’Italia insolitamente frequentato cinematograficamente.

Altri recenti casi di cinema sommerso, perlopiù debutti, sono La casa sulle nuvole (2009) di Claudio Giovannesi, tratto da Appunti per un viaggio in Marocco dello stesso regista, un documentario sugli italiani a Marrakech; È tempo di cambiare (2008) di Fernando Muraca, storia d’amore ambientata in Calabria e in Sicilia che tocca temi sensibili come la mafia e la ’ndrangheta; Gloss – Cambiare si può, commedia sul delicato tema della mutazione di sesso; Legami di sangue (2008), melodramma familiare di stampo (neo)neorealista che segna l’esordio di Paola Columba; Mario il mago (2008) dell’ungherese Almàsi Tamas distribuito dalla piccola società L’Altrofilm del regista indipendente Louis Nero. E poi, ancora, Nient’altro che noi! (2009) di Angelo Antonucci, che affronta una problematica sociale attuale come quella del bullismo scolastico; Non lo so (2009) dei due fratelli esordienti Alessandro e Cristiano Di Felice, piccola storia di ambientazione provinciale; l’opera ‘di ricerca’ di Silvana Maja Ossidiana (2007), incentrata sulla parabola umana e artistica della pittrice napoletana Maria Palliggiano, forte dell’interpretazione di alcuni attori di calibro come Teresa Saponangelo e Renato Carpentieri; La perfezionista (2008) di Cesare Lanza, regista che, pur provenendo da spettacoli leggeri per la televisione, si misura con

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un tema ‘caldo’ quale l’eutanasia; Polvere (2008) di Danilo Proietti e Massimiliano D’Epiro, film dal linguaggio tarantiniano incentrato sulla cocaina e sul contesto antropologico che la circonda in una città come Roma.

Piccoli esordi all’insegna della discrezione sono Principessa (2009), mélo diretto da Giorgio Arcelli, allievo del Laboratorio Fare Cinema di Marco Bellocchio; Il primo giorno d’inverno (2008) di Mirko Locatelli, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia del 2008 nella sezione Orizzonti e Tre lire primo giorno (2008) di Andrea Pellizzer, opera d’artigianato frutto di un collettivo di amici recitata da attori non professionisti che, insieme al film di Locatelli, costituisce l’esempio di una produzione di area milanese negli ultimi anni segnalatasi come fucina di un cinema indipendente denso di segnali stimolanti.

Degni di particolare attenzione nel panorama dell’invisibilità sono in special modo Vietato sognare (2008) di Barbara Cupisti (regista fattasi conoscere nel 2007 con il documentario Madri) che stabilisce il proprio set nei Territori Occupati, confermando la prassi ormai comune per molti registi italiani di allontanarsi dall’Italia per realizzare i propri film anche in terre lontane; Un altro pianeta, caso cinematografico alle Giornate degli Autori della Mostra del Cinema di Venezia 2008, primo lungometraggio di Stefano Tummolini (già scrittore e sceneggiatore per Ozpetek), storia ambientata nel mondo omosessuale girata in digitale, con budget ridottissimo e in una settimana, su una spiaggia vicino Roma; Mar Nero (2008), l’intenso esordio di Federico Bondi (autore, come molti di quelli citati, proveniente dal documentario), a cavallo (anche dal punto di vista produttivo) tra l’Italia e l’Europa dell’est (in particolare la Romania); il nuovo film di Davide Manuli Beket (2008), rilettura prosciugata del già minimalista classico di Samuel Beckett Aspettando Godot premiata al Festival di Locarno dalla critica indipendente, coraggiosamente girata in bianco e nero e ambientata negli incontaminati esterni sardi; Tagliare le parti in grigio (2009) di Vittorio Rifranti, film dagli echi ballardiani che indaga coraggiosamente quanto autarchicamente sul tema della cicatrice (fisica e morale), motivo relativamente inedito nel contesto cinematografico italiano.

Ma soprattutto una segnalazione speciale, anche in virtù della particolarità dell’autore e della modalità tecnica in cui viene realizzata, merita l’opera di un uomo di teatro sempre più attratto dai moduli espressivi di un ‘cinema di poesia’: il riferimento va a La paura di Pippo Delbono, unico film italiano invitato nella selezione ufficiale del Festival di Locarno del 2009 che prende di petto tematiche scomode come il razzismo, la pervasività della televisione e della sua cultura, la latitanza di artisti e intellettuali di fronte alle grandi emergenze del nostro tempo. Quel che deve essere tuttavia rimarcato è il modo in cui ciò avviene visto che a tradurre in immagini il punto di vista morale fortissimo, dichiarato, di Delbono è un piccolo telefonino di ultima generazione che, nelle mani del regista, da oggetto omologante si fa strumento di lotta, di analisi del mondo: in particolare, è proprio

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nelle immagini imperfette e ‘pixelate’ prodotte da tale dispositivo che la realtà bruta si trasfigura in un personalissimo universo in cui la prosa del documento si fa visione ipersoggettiva che, a tratti, sfiora l’astrattismo formale, dando vita ad una forma enunciativa ‘sempre instabile’ tale da provocare nello spettatore la messa in discussione ‘della propria distanza dalla realtà e il grado di anestetizzazione del proprio sguardo’.8

Tra gli invisibili di rango si segnalano anche alcune opere di ambientazione e provenienza siciliana come il rigoroso film di mafia La siciliana ribelle (2009) di Marco Amenta, già autore nel 2006 di un importante documentario su Bernardo Provenzano intitolato Il fantasma di Corleone; Se chiudi gli occhi, esordio di Lisa Romano del 2008 ambientato anch’esso in Sicilia e imperniato su un’indagine interiore che assume, a tratti, i risvolti della commedia, e il melodramma di Fabiomassimo Lozzi Stare fuori (2008), storia di due personaggi ossessionati dal proprio passato e dal ricordo di un amore indimenticabile, ambientata tra la Sicilia e la capitale.

Ulteriore titolo degno di nota è Good Morning Aman (2009), debutto di Claudio Noce coprodotto e interpretato da Valerio Mastandrea nel ruolo dolente di un ex pugile depresso la cui esistenza si incrocia, sullo sfondo della Roma multietnica della Stazione Termini e di Piazza Vittorio, con quella di un adolescente di origine somala scampato alla guerra nel proprio paese.

Su un fronte più propriamente di genere si pongono invece il karate movie di Victor Rambaldi Il soffio dell’anima (2009), figlio di Carlo, noto ideatore, disegnatore e realizzatore di E.T., la creatura protagonista dell’omonimo film di Steven Spielberg; il thriller di Luigi Cecinelli Visions (2009), la cui fattura da B-movie patinato, unitamente all’impiego di attori perlopiù non italiani che recitano in lingua inglese, è finalizzata a tentare la strada del mercato estero dove il cinema di genere ha più chances di vendibilità; il melodramma con Raoul Bova Sbirri (2009) di Roberto Burchielli, nel quale si tenta la strada del cinéma verité tramite tranches de vie rubate con telecamere nascoste all’attività di una vera squadra narcotici; e poi il poliziesco di Francesco Campanini Il solitario (2008), anch’esso debitore di Tarantino e del ‘poliziottesco’ italiano degli anni ’70, distribuito disomogeneamente sul territorio nazionale ma capace di guadagnarsi lo spazio dell’evento speciale al Noir in Festival di Courmayeur.

Accanto a tali esempi c’è infine il caso di film usciti qualche anno dopo la loro realizzazione come il noir all’italiana Una vita migliore (apparso nella scorsa stagione ma prodotto nel 2007), realizzato autarchicamente da Fabio Del Greco che, oltre ad occuparsi della regia, della sceneggiatura e del montaggio, lo ha anche interpretato; Aria di Valerio D’Annunzio (prodotto nel 2007 e uscito nel 2009), storia di un uomo nato nel corpo sbagliato che diventa occasione per raccontare l’atrocità dello scontro e del confronto con la bivalenza della sua natura; Billo – Il Grand Dakhaar di Laura Muscardin, uscito nel 2008 ma pronto nel 2006, sulle

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difficoltà di integrazione di un immigrato senegalese a Roma, vittima di angherie di ogni tipo; Quell’estate felice, pronto nel 2007 ma giunto in sala nel 2009, opera di ambientazione siciliana e in costume realizzata da Beppe Cino ispirandosi al romanzo di Gesualdo Bufalino Argo il cieco (Palermo: Sellerio, 1984); Sleeping Around di Marco Carniti (ugualmente pronto nel 2007 ma uscito nel 2009), sorta di ronde fondata su una catena di intrecci tra i dieci protagonisti della narrazione; e poi l’ultima opera di un regista già ampiamente affermato come Salvatore Maira, Valzer, anch’essa pronta nel 2007, anno in cui viene presentata alla Mostra del Cinema di Venezia, ma distribuita (malamente) solo nel 2009: particolarità di questo film è quella di essere stato girato, grazie all’impiego del mezzo digitale, in un unico piano sequenza (come avvenne nel 2002 con L’arca russa di Aleksandr Sokurov).

A questo lungo elenco di opere sospese tra l’invisibilità e la semivisibilità si deve infine aggiungere il ritorno al cinema di un grande regista teatrale come Maurizio Scaparro, il quale, dopo aver trasformato nel 2004 in un lungometraggio digitale il suo spettacolo Amerika (da Kafka), con L’ultimo Pulcinella, liberamente ispirato a un soggetto inedito di Roberto Rossellini, nel 2008 cala una delle maschere per eccellenza della Commedia dell’Arte nel contesto parigino, impiegando la fisionomia spigolosa e partenopea di Massimo Ranieri per incarnarla.

Parallelamente ai motivi che percorrono le opere citate, il territorio cinematografico di cui si è fin qui trattato è contraddistinto anche da una autoriflessività di carattere perlopiù tematico che sembra denunciarne una certa, parziale, siccità creativa. Si prendano ad esempio titoli come La canarina assassinata (2008) di Daniele Cascella, in cui l’autore mette in scena la canonica vicenda di un regista alle prese con un copione che non ama impostogli dal tipico produttore avido di successo; oppure Doppio (2008) di Eric Alexander, opera prima autarchica imperniata sulla storia di due fratelli, uno sceneggiatore e l’altro attore, che sognano di sfondare nel mondo del cinema; o, ancora, Imago Mortis (2009) di Stefano Bessoni, il cui protagonista è uno studente di cinema vittima di visioni di morte apparentemente misteriose; infine Solitudo (2009) di Pino Borselli, altro caso di film pronto già due anni prima della sua uscita, vero e proprio metafilm imperniato sul senso stesso del raccontare girato con budget inconsistente in soli 17 giorni e naturalmente, come la gran parte delle opere menzionate, con tecnologia digitale.

Quello delineato è il contesto cinematografico che, per quanto di fatto negato al grande pubblico, riesce tuttavia ad ottenere il privilegio di una pur minima presenza in sala; si deve infatti considerare che al di sotto di esso, nella complessa stratificazione geofilmica qui presa in esame, si colloca il livello popolato dalla ‘fauna’ di registi, non necessariamente esordienti, i cui film sono rimasti invece del tutto invisibili in quanto totalmente privi di distribuzione e quindi, almeno per il momento, mai transitati, anche solo per pochi giorni, in una qualsivoglia sala

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cinematografica: solo per il 2009 si tratta di un folto elenco che contempla più di trenta opere di lungometraggio alle spalle delle quali c’è spesso una produzione più che solida, come nel caso ‘eccellente’ dell’ultimo film di Dario Argento, Giallo (finito di realizzare circa un anno fa), che ancora, per motivi del tutto ‘misteriosi’, non è riuscito a raggiungere il pubblico.

Se quanto mostrato sin qui concerne i moduli narrativi della finzione, sul piano del documentario si registra una tendenza che conferma il progressivo ritorno di interesse verso un ‘cinema del reale’ per lungo tempo assente dalle sale e presente unicamente, nelle forme del reportage o del documentario naturalistico/scientifico, in televisione.

L’approdo nei cinema resta comunque per il film documentario una conquista anche più difficile che per l’opera di finzione, data la scarsa educazione e abitudine del pubblico italiano a misurarsi con questo tipo di forma espressiva. Oltre ai festival, è la strada dell’home video l’alternativa con cui alcuni registi riescono a supplire alla difficile visibilità del proprio prodotto: interessante, da questo punto di vista, è l’esempio di Eskimosa, società creata nel 2004 dal gruppo Feltrinelli che, grazie anche alla collaborazione con alcuni grandi distributori di cinema italiano (Bim in primo luogo, ma anche Mikado, Lucky Red e, più occasionalmente, Fandango e 01), ha dato visibilità a film come Feltrinelli (2006) di Alessandro Rossetto, dedicato alla figura del leggendario editore (e rivoluzionario) Giangiacomo Feltrinelli, Checosamanca (2006), film collettivo di denuncia sull’Italia del presente firmato da dieci giovani registi esordienti e presentato alla prima edizione della Festa del Cinema di Roma, e al documentario del debuttante Domenico Distilo Dawaz: la fune sul mare (2007), coprodotto con Rai Cinema, folle storia di un funambolo che tenta di attraversare lo Stretto di Messina.

Allo stesso modo, la casa editrice Chiarelettere ha messo in commercio nel 2009 l’ultimo film di uno dei documentaristi più interessanti del panorama nazionale (e non solo), Gianfranco Pannone, il cui Il Sol dell’Avvenire, già presentato al Festival di Locarno nel 2008, prendendo spunto dal libro di Giovanni Fasanella Che cosa sono le BR, a distanza di quaranta anni dalla nascita delle Brigate rosse, indaga sulle cause sociali, antropologiche, esistenziali che hanno condotto la nota formazione terroristica italiana ad imbracciare le armi.

Nella stessa direzione di un cinema votato ad una riflessione sulla memoria storica si è mosso un altro documentarista di primo piano come Marco Bertozzi (anche docente universitario) con il suo raffinato Predappio in Luce (2008), film che si interroga sul ruolo della cittadina natale di Benito Mussolini negli immaginari dell’Italia attuale, evidenziando come tale luogo sia ancora oggetto di visite nostalgiche e di rituali altrove impensabili.

Per restare alle ‘grandi firme’ di questa forma di cinema, anch’esso mirato al recupero di una memoria è il lavoro filologico svolto da Giuseppe Bertolucci

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attraverso la ricostruzione della versione originale dell’opera pasoliniana La rabbia del 1963, operazione a suo modo politica (ma prima di tutto poetica) in quanto mirata a ripristinare i 16 minuti realizzati dal poeta di Casarsa eliminati a suo tempo dal produttore Gastone Ferranti per fare posto ad una versione ‘reazionaria’ firmata da Giovanni Guareschi.

A proposito di politica, non si dimentichi che il documentario – in quanto, rispetto al cinema di finzione, maggiormente svincolato dal sistema industriale – resta, soprattutto nell’Italia di questi anni, una delle forme d’espressione in cui la denuncia, la presa di posizione anche ideologica, la difesa della memoria, trovano una più libera forma d’espressione. Come un uomo sulla terra (2008) di Andrea Segre, Dagmawi Yimer e Riccardo Biadene è, in questo senso, un lavoro dalla chiara impronta politica poiché denuncia i metodi polizieschi e poco ortodossi impiegati dalle autorità libiche nei confronti dei flussi migratori che dall’Africa si dirigono verso l’Europa.

Ugualmente mirati alla denuncia di una realtà drammatica come quella delle morti sul lavoro sono i documentari di Daniele Segre (Morire di lavoro, 2008) e di Mimmo Calopresti (La fabbrica dei tedeschi, 2008): se tuttavia nel primo caso si ha a che fare con un’opera militante (coprodotta dal sindacato della Cgil) di carattere rigorosamente documentario, nel film di Calopresti dedicato alla tragedia accaduta il 6 dicembre 2007 nell’acciaieria ThyssenKrupp a Torino dove, a seguito di un grave incidente, morirono sette operai, compaiono alcuni frammenti di fiction che conferiscono al suo lavoro il carattere di un ibrido (è il caso del prologo in bianco e nero in cui i parenti delle vittime assumono le fisionomie di attori come Valeria Golino, Monica Guerritore, Silvio Orlando e Luca Lionello).

Il medesimo territorio di meticciato linguistico (come se il documentario, di per sé, stesse ‘stretto’ soprattutto ai registi già ampiamente passati per esperienze di pura fiction) è quello in cui si muove anche Davide Ferrario con Tutta colpa di Giuda (2009), girato all’interno del carcere delle Molinette di Torino in cui, rispetto al film di Calopresti, le proporzioni tra finzione e documentario si invertono a favore decisamente della prima.

Di grande attualità è anche il tema al centro di Due volte genitori (2009) di Claudio Cipelletti: la questione dell’omosessualità vista dal punto di vista dei rapporti tra figli gay o lesbiche con i propri genitori è l’occasione per fare emergere e implicitamente condannare, anche qui con un intento a suo modo politico, pregiudizi e modi di pensare arretrati.

Alla mafia (argomento, come si è visto, particolarmente frequentato anche dal cinema di finzione), e in particolare alle sue vittime, è invece dedicato Io ricordo (2008) di Ruggero Gabbai, prodotto dalla Indiana Production Company di Gabriele e Silvio Muccino, in cui il ricorso alla docufiction serve per amplificare, grazie all’interpretazione di attori siciliani come Gianfranco Iannuzzo, il valore

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monumentale che si intende attribuire alla memoria di tutte le vittime della criminalità organizzata.

Caso a sé stante in tale panorama è quello di Ermanno Olmi che nel 2009 torna al documentario con Terra Madre, film ‘biologico’9 a più mani in cui la sezione diretta dal maestro lombardo dedicata all’esaltazione del mondo contadino (mostrando la sua maniera di vivere la terra e la natura in maniera corretta) viene seguita da altri due segmenti firmati da Maurizio Zaccaro e da Franco Piavoli.

A conclusione di questa esplorazione di un ‘sommerso’ filmico la cui cifra comune è l’indipendenza, l’autarchia, la perifericità produttiva si vuole porre un titolo che ha generato un notevole ritorno di fiducia nelle capacità di tale cinema spesso esordiente di trovare un contatto con un pubblico ampio, non necessariamente di addetti ai lavori. Il riferimento va a Pranzo di Ferragosto che segna il debutto da regista (oltre che da attore) di Gianni Di Gregorio, già sceneggiatore di Matteo Garrone (anche produttore del film con la sua società Archimede) in Gomorra, Primo amore e L’imbalsamatore. Il piccolo racconto bozzettistico delicatamente incentrato sul tema della terza età è probabilmente il titolo più capace di ritagliarsi l’attenzione di critica e pubblico nel difficile territorio ‘intorno’ a Gomorra oggetto di questa analisi (ne è testimonianza, oltre all’ottimo risultato ottenuto dal film al botteghino, anche il successo riscontrato al Festival di Venezia del 2008 dove riceve il premio come miglior opera prima).

Pur non raggiungendo gli stessi esiti, un altro esordio ‘benedetto’ dal passaggio veneziano (dove ottiene nel 2009 il premio nella sezione ‘Controcampo italiano’) è Cosmonauta di Susanna Nicchiarelli, sorta di corrispettivo ‘impegnato’ della produzione giovanilistica di questi anni, in cui si racconta di un’adolescenza al femminile calata nell’ormai rimosso contesto storico e ideologico della ‘Guerra fredda’.

2 Gli integrati

Se si sposta lo sguardo nel contesto del cinema più visibile e ‘ufficiale’, quello che nell’ultimo anno e mezzo, grazie ad una distribuzione solida e capillare, in sala ci è arrivato riuscendo spesso ad ottenere risultati di tutto rispetto anche in termini di incassi, il panorama non è molto dissimile.

La realtà continua a costituire motivo di indagine e di riflessione per molti cineasti impegnati nel tentativo di proporre sul grande schermo un modello interpretativo dell’attualità alternativo, dal punto di vista delle forme linguistiche e narrative, a quello imposto dal medium televisivo.

Parallelamente a questa linea, il cinema di genere si conferma come ossatura fondamentale del pur esile apparato industriale italiano, anche se è bene precisare che, aldilà di alcuni casi ben definiti, la stessa, antica separazione tra Autorialità e

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genere sembra non avere più molto senso se è vero che diverse opere ‘d’autore’ del cinema italiano contemporaneo sono riconducibili ad uno o più generi: come nota Vito Zagarrio, lo stesso Gomorra è ‘un grande omaggio a generi come il juvenile delinquency movie, al film di mafia e di camorra ma anche al cinema ‘civile’ italiano’, mentre un’opera come Il Divo ‘fa il verso alle bio-pics americane’.10

In un simile quadro la medesima idea di produzione di genere (basata sull’impiego seriale di un modello preprogrammato) deve probabilmente essere sostituita con quella, suggerita da Franco Montini, di ‘artigianato di prototipi’11 corrispondente più propriamente alla pratica dello sfruttamento di un film di imprevisto successo sulla scorta di quanto già accaduto negli anni ’60 con il peplum o il western all’italiana e oggi con il filone dei teen movie di mocciana origine.

Accanto alla commedia e ad un più autoriale interesse per il noir, è proprio il filone giovanilistico a confermare una certa presenza che tuttavia sembra dare qualche segno di cedimento, laddove la parabola che ha registrato il suo apice subito dopo la metà di questo decennio sembra ora nella sua fase discendente.

Come già prima di Gomorra, inoltre, la letteratura e la memoria (nella dimensione storica e personale) mantengono una posizione di primo piano tra le fonti di ispirazione cui il cinema italiano più visibile si abbevera.

Allo scopo di dare conto, anche in questo caso, dell’articolata geografia attraverso la quale è possibile esaminare questo territorio, si procederà ad una ricognizione delle ‘terre emerse’ dell’ultimissimo cinema italiano facendo riferimento alle principali categorie nelle quali, secondo un criterio inevitabilmente schematico, è possibile raggruppare la produzione in oggetto.

2.1 LetteraturaÈ in questo ‘settore’ che si inseriscono le ultime opere di registi più che consolidati come il Roberto Faenza de Il caso dell’infedele Klára (2009), film girato interamente a Praga e in lingua inglese ispirato al romanzo dello sconosciuto scrittore praghese Michal Viewegh (Torino: Instar Libri, 2005), cui fa da contraltare la ‘romanissima’ e delicata storia di amicizia tra due uomini di diversa estrazione culturale raccontata da Francesca Archibugi in Questione di cuore (2008) a partire dall’omonimo libro di Francesco Contarello (Milano: Feltrinelli, 2005), a sua volta già sceneggiatore tra anni ’80 e ’90 di Carlo Mazzacurati e Gabriele Salvatores. A proposito di quest’ultimo, Come Dio comanda (2008) costituisce la scarnificazione del lungo, omonimo romanzo di Niccolò Ammaniti (Milano: Mondadori, 2008) di cui Salvatores rimuove ‘muscoli e nervi per appropriarsi dello scheletro, delle ossa della narrazione’, facendone altra ‘cosa’ rispetto all’originale letterario, ossia un racconto ‘espressionista e lirico’.12

Nel 2008 anche Ferzan Ozpetek guarda per la prima volta nella sua carriera alla letteratura, virando i toni del melodramma (genere abitualmente praticato)

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in quelli della cupa tragedia di Un giorno perfetto (2008), libera trasposizione dell’omonimo romanzo di Melania Mazzucco (Milano: Rizzoli, 2005).

Di derivazione letteraria è anche l’ultima prova registica di Pappi Corsicato che trae liberamente dalla novella La Marchesa di O... di Heinrich von Kleist (Venezia: Marsilio, 2001) il suo Il seme della discordia (2008), film giocato su atmosfere surreali e al contempo su una fisicità dei corpi che la macchina da presa ritrae con un linguaggio sempre consapevole e ricercato, confermando quella ‘certa tendenza’ del cinema meridionale, come scrive Gian Piero Brunetta, ‘a tentare nuove e non lineari strade del racconto, a esplorare usi non realistici [...] degli elementi formali riuscendo a far respirare e a contaminare le storie che si svolgono ai piedi del Vesuvio con gli umori e l’affabulazione del cinema internazionale, da Almodòvar a Kaurismaki’.13

Di atmosfera noir è poi Il passato è una terra straniera (2008), trasposizione filmica compiuta da Daniele Vicari a partire dall’omonimo romanzo del magistrato-scrittore Gianrico Carofiglio (Milano: Rizzoli, 2004) in cui il regista, pur adottando uno stile da action movie fortemente attento all’elemento formale, non rinuncia all’introspezione psicologica.

A proposito di ‘transiti’ dalla letteratura al cinema, tra gli esordi del 2008 si deve infine annoverare quello di uno degli scrittori di maggior rilievo del panorama italiano contemporaneo, Alessandro Baricco, il quale realizza con Lezione Ventuno (2008) un film a metà tra il saggio e la favola che segnala una particolare attenzione per la ricerca estetica (nutrita degli apporti cinefili più diversi, da Derek Jarman a Ken Russell fino ai fumetti di Tanino Liberatore) unita a quel piacere del narrare già caratteristico del Baricco romanziere.

2.2 MemoriaA tale categoria deve essere ascritta anzitutto la memoria storica, elemento da cui, in forme e con intenti anche molto diversi, l’ultimo cinema italiano sembra non poter prescindere, quasi a voler saldare un debito di conoscenza nei confronti di un passato con cui la società italiana sta progressivamente facendo i conti.

Si pensi ad esempio al periodo fascista che fa da sfondo all’intensa e tragica storia d’amore raccontata da Marco Bellocchio (2009) in Vincere, opera incentrata sulla travagliata vicenda sentimentale di Ida Dalser e Benito Mussolini in cui il melodramma familiare, il biopic, l’inchiesta giornalistica si mescolano supportati da un linguaggio filmico in continua sperimentazione che, riproponendo la proficua ibridazione tra realtà e fantasia già al centro di Buongiorno, notte, conferma il regista piacentino come uno degli autori più ‘giovani’, liberi e coraggiosi dell’attuale panorama italiano: come annota Gianni Canova, il suo fare cinema significa prima di tutto ‘non stancarsi di continuare a chiedersi dove sta, e cosa fa, il cinema che ci entra dentro e che ci esce fuori, e che ci sta sopra e ci attraversa, e che ci invita e ci accoglie in sé’.14

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Ad un altro, contiguo e delicatissimo momento della storia pre-repubblicana guardano, su fronti diametralmente opposti, Michele Soavi e Giorgio Diritti rispettivamente con Il sangue dei vinti (2008) e L’uomo che verrà (2009). Nel primo caso si ha a che fare con un’enfatica illustrazione cinematografica dell’omonimo libro ‘revisionista’ di Giampaolo Pansa in cui, mediante l’adozione di ‘un’ottica visuale da guerra civile’ (nel senso della pur legittima volontà di ‘salvaguardare per ognuno la memoria di tutti’15), si tenta di restituire dignità al ‘sangue’ dei combattenti di Salò, procedendo parallelamente a smontare il mito della Resistenza; nel secondo titolo, anche se non esplicitamente, il riferimento va alla strage di Marzabotto (l’eccidio compiuto dalle truppe naziste in Italia tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 nel territorio in provincia di Bologna), rievocata mediante i toni sommessi di un cinema di impianto olmiano in cui il rigore naturalista va di pari passo con la raffinata ricerca formale.

Altro periodo storico che continua ad attrarre fatalmente il cinema italiano dell’ultimo periodo è quello degli anni di piombo. È questo il versante in cui si colloca l’ultimo capitolo della filmografia sul terrorismo: La prima linea (2009) di Renato De Maria, regista già vicino alle atmosfere degli anni ’70 con il suo Paz! (2001), tratto da alcuni fumetti di Andrea Pazienza. Attraverso una forma cinematografica raggelata che rielabora certo action movie italico d’annata (viene in mente, anche per l’impiego di alcuni materiali di repertorio, un tardo e misconosciuto ‘poliziottesco’ del 1977 come Italia: ultimo atto? di Massimo Pirri), l’opera di De Maria si rivolge a quella particolare declinazione del terrorismo italiano che fu Prima linea, gruppo armato secondo in Italia solo alle BR quanto a numero di aderenti e di azioni, di cui si racconta la sanguinosa parabola, culminante con la clamorosa evasione dal carcere di Susanna Ronconi, organizzata con cura certosina dal compagno Sergio Segio (autore del libro Miccia corta (Roma: DeriveApprodi, 2005) da cui il film è tratto).

La memoria legata a questo periodo ‘caldo’ della storia italiana è anche occasione per operazioni di vintage di un’epoca fortemente radicata, spesso in forma mitica, nell’immaginario delle nuove generazioni; si veda in questo senso l’affresco sul ’68 proposto da Michele Placido attraverso gli stilemi del romanzo popolare (come di consueto nel suo ultimo cinema) ne Il grande sogno (2009), oppure, in forma diversa, il repertorio canonico di musica, décor e moda anni ’60 da cui prende le mosse il confronto generazionale tutto al femminile messo in scena da Enzo Monteleone in Due partite (2009), film tratto da un libro (Milano: Feltrinelli, 2006) e da una pièce teatrale di Cristina Comencini (anche collaboratrice alla sceneggiatura).

È a suo modo un film sulla memoria, laddove quest’ultima è tuttavia strumentalizzata per un preciso intento politico, anche il colossal di Renzo Martinelli Barbarossa (2009), film fortemente voluto da un partito di governo come la Lega Nord con lo scopo di associare le attuali glorie della fazione guidata

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da Umberto Bossi a quelle dell’antica Lega Lombarda; così come, per restare ad un altro caso di produzione titanica, è un percorso nella memoria personale e collettiva quello proposto da Giuseppe Tornatore in Baaria (2009), in cui l’autore siciliano torna a raccontare la propria terra d’origine attraverso un enfatico affresco collettivo nel quale la rievocazione di numerosi decenni della storia del secolo scorso si intreccia con un accumulo di omaggi cinematografici.

La memoria assume altresì le forme del cinema di impegno civile, come nel caso di Fortapàsc (2009) in cui Marco Risi mette in scena la vicenda del giornalista de ‘Il Mattino’ Giancarlo Siani ucciso dalla camorra rifacendosi agli stilemi del cinema di ‘consumo impegnato’16 degni anni ‘70 che avevano già informato la sua produzione a cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 (si prendano quali esempi Mery per sempre o Il muro di gomma), provocando tuttavia un’inevitabile domanda: come scrive Marco Toscano, ‘è possibile un film sulla camorra dopo Gomorra?’17

Anche il film del 2008 di Giulio Manfredonia con Claudio Bisio, Si può fare, è, a suo modo, un’opera che intende chiamare in causa, attraverso una sorta di favola, un certo passato italiano come quello dei primi anni ’80, periodo in cui entra in vigore la legge Basaglia che decreta la chiusura dei manicomi; mentre è certamente più personale e meno legato ad una dimensione socio-politica il viaggio ‘verso sud’, nella propria terra d’origine (la Puglia) ma anche nel proprio passato, compiuto da Sergio Rubini in L’uomo nero (2009).

All’incrocio tra memoria personale e memoria collettiva si collocano infine gli ultimi titoli realizzati da Pupi Avati (regista la cui factory, sostenuta insieme al fratello Antonio, continua a rappresentare un esempio unico di modello produttivo industriale a ‘conduzione familiare’): Il papà di Giovanna (2008), in cui la microstoria dei personaggi, indagata con il tipico sguardo avatiano sospeso tra nostalgia e ironia, si mescola alla Storia italiana (nel caso specifico, il periodo in cui il fascismo promulga le leggi razziali, conduce l’Italia in guerra e quindi termina la propria tragica parabola), e Gli amici del Bar Margherita (2009), amarcord ambientato a Bologna nel 1954 nel quale il racconto corale si incardina, come nel noto Festa di laurea del 1984, su un evento festoso di carattere familiare.

2.3 GeneriA continuare invariabilmente a dominare questa categoria è l’indistruttibile e inattaccabile film di Natale firmato da Neri Parenti (quasi un ‘marchio autoriale’ in tale contesto), il cosiddetto ‘cinepanettone’ che nel 2008 si declina in versione brasiliana (Natale a Rio) e nel 2009 si sposta nella patria dei divi hollywoodiani (Natale a Beverly Hills), cui fa da contraltare, da un lato, per il periodo estivo, il ‘cinecocomero’ vanziniano (nel 2009 Un’estate ai Caraibi), e dall’altro il film prenatalizio di Enrico Oldoini La fidanzata di papà (2008), al quale segue nel 2009

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(ma non nel periodo delle festività) I mostri oggi, film che vorrebbe attualizzare la lezione dell’ingombrante precedente di Dino Risi nell’Italia del nuovo millennio.

Su un piano confinante con questo è possibile collocare anche l’ultima commedia di Giovanni Veronesi, il cui Italians (2009) si fonda sul medesimo spunto narrativo che informa, in buona parte, i titoli sopra citati, quello cioè facente capo al ritratto bonario dell’italiano in trasferta all’estero declinato in una galleria di ‘tipi’ che intenderebbero guardare ai canonici esempi forniti dalla commedia all’italiana.

A proposito di ‘cinepanettoni’, il 2009 segna con Ex il ritorno alla regia dell’ex sceneggiatore di Parenti Fausto Brizzi, il quale, dopo il successo di Notte prima degli esami (2006) e Notte prima degli esami – oggi (2007), dirige un film che, lontano dalle derive farsesche dei prodotti natalizi con Christian De Sica, tenta di inscriversi nel miglior solco della produzione di Dino Risi, Ettore Scola, Mario Monicelli, svelando, come scrive Canova, ‘l’immaginario italiano contemporaneo, di cui avidamente si nutre’ e tentando, al contempo, di chiudere o quantomeno ridimensionare la stessa linea produttiva dei cinepanettoni per inaugurare, prosegue Canova, il ‘cinesanvalentino. Prodotto più fresco, romantico e transgenerazionale’18 mirato a controllare il calendario delle uscite cinematografiche di febbraio.

Il cosmo sul comò (2008) rappresenta invece il ritorno al cinema del trio comico televisivo Aldo, Giovanni & Giacomo, i quali confermano con questo film una volontà di sperimentare sulla forme narrative, oltre che sui toni surreali della propria comicità, degna di attenzione.

A tentare il ‘guado’ tra televisione e cinema sono anche i due comici Salvatore Ficarra e Valentino Picone che affidano a Battista Avellino la regia de La matassa (2009), in cui il filtro della commedia viene applicato all’intento, a suo modo sociale, di fare i conti con la piaga della mafia e con la questione dell’integrazione degli extracomunitari; allo stesso modo, il comico Checco Zalone, lanciato dal cabaret televisivo di maggior successo in Italia in questi anni (Zelig, dal 1997 al 2003 in onda su Italia 1 e successivamente su Canale 5, con un solo anno di pausa nel 2006), viene diretto da Gennaro Nunziante (anche coautore dei suoi testi) in Cado dalle nubi (2009), film orgogliosamente ‘medio’ che ha il pregio di affondare lo sguardo in certe ‘piccolezze’ anche politiche dell’Italia di oggi.

Un’ulteriore declinazione di commedia che conferma la voglia di questo genere di guardare all’attualità italiana nelle sue sfaccettature sociali anche più delicate è quella praticata da Vincenzo Salemme, già attore proveniente dalla ‘bottega’ di Eduardo De Filippo, il quale in No Problem (2008) rivolge l’attenzione alla famiglia allargata e multietnica, mettendo al contempo alla berlina il mondo della televisione.

Confidando nel richiamo commerciale del sequel di film cult degli anni ’70 e ’80 (pratica piuttosto sviluppata nel cinema italiano degli anni 2000, soprattutto

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nel contesto della commedia), dopo l’enorme successo di Vado a vivere da solo (Marco Risi, 1982) in cui era solo attore, Jerry Calà dirige Torno a vivere da solo (2008), dando vita tuttavia ad un’operazione ‘fuori tempo massimo’ che, oltre ad essere scartata senza riserve dalla critica, non riesce ad ottenere neanche riscontro di pubblico in sala.

Su un altro fronte di genere, pur con la fisiologica flessione cui si è già accennato, si continua a registrare una certa tenitura da parte del filone giovanilistico derivato inizialmente dalla produzione letteraria di Federico Moccia (di cui nel frattempo, dopo l’esordio di Scusa ma ti chiamo amore del 2008, nel 2009 è uscita l’opera seconda Amore 14 e nel 2010 Scusa ma ti voglio sposare, sempre tratti dai suoi omonimi best sellers (Milano: Rizzoli, 2007; Milano: Feltrinelli, 2008 e Milano: Rizzoli, 2009)). È in quest’area che si colloca ad esempio Iago (2009) di Volfango De Biasi, il quale, sfruttando due dei volti ‘teen’ più noti come Nicolas Vaporidis e Laura Chiatti, proponendo una versione ammodernata del dramma shakespeariano, non riesce tuttavia a raggiungere al botteghino i risultati sperati. Allo stesso modo, nel 2008 Questo piccolo grande amore di Riccardo Donna (richiamandosi a quella sorta di genere trasversale costituito dai film intitolati a popolari canzoni della musica leggera italiana19) non riesce a convincere il pubblico di giovani e giovanissimi al quale intende rivolgersi tramite una storia troppo condizionata da stereotipi del passato e ambientata nella Roma cantata da Claudio Baglioni (che ne firma anche la sceneggiatura insieme con Ivan Cotroneo).

Aspira invece ad aprirsi ad un pubblico più ampio, dal punto di vista generazionale, Louis Prieto che, dopo il mocciano Ho voglia di te (sequel del 2008 di Tre metri sopra il cielo), realizza con Meno male che ci sei (2009) una commedia agrodolce che confronta due generazioni femminili e il loro quotidiano bisogno d’amore.

A proposito di filone giovanilistico, il 2008 segna anche il ritorno sugli schermi di un film di Luca Lucini, l’artefice del citato film ‘fondatore’ del genere (Tre metri sopra il cielo): con Solo un padre – confermando la tendenza dei protagonisti di tale contesto produttivo a cercare in altre forme narrative e stilistiche una propria maturazione – segue questa volta la strada del melodramma familiare,20 mentre l’anno successivo torna con Oggi sposi (2009) ad un intrattenimento commerciale, quello della ‘commedia matrimoniale’, da più parti considerato tuttavia esempio alto di un cinema medio di qualità.

Caso tutto particolare, e piuttosto isolato, è poi quello rappresentato dalla fitta produzione di Stefano Calvagna in cui tematiche sociali di indubbia rilevanza trovano però spazio di trattazione in un cinema in cui il genere assume il senso dell’approccio fortemente stereotipato alla materia di volta in volta trattata, sulla scorta della moda giornalistica del momento (l’usura è ad esempio l’argomento su cui si costruisce nel 2008 l’operazione de Il peso dell’aria, mentre nel 2009, a

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diciotto anni di distanza da Ultrà di Ricky Tognazzi, è la volta del problematico mondo della tifoseria calcistica).

Altro esempio ‘di genere’ da considerarsi del tutto a parte è, infine, nel 2009 il debutto da regista di Stefania Sandrelli che con Christine Cristina sceglie l’ardua e poco battuta strada della biografia storica, decidendo di raccontare la vicenda di Christine de Pizan, italiana cresciuta alla corte di Carlo V di Francia fra stimoli culturali di ogni sorta e poi abbandonata al suo destino assieme ai figli alla morte del Re Saggio.

2.4 Politica e attualitàSe le categorie fin qui menzionate devono essere considerate non già come compartimenti stagni, ma quali territori che inevitabilmente si confondono e si accavallano, producendo zone ibride in cui, come si è visto, non è raro trovare ad esempio un film sulla memoria tratto dalla letteratura che sia al tempo stesso un’opera di genere, tanto più tale discorso deve essere riferito al raggruppamento qui in oggetto in cui in particolare l’elemento ‘politico’, in quanto ingrediente della narrazione, perde la P maiuscola che aveva contraddistinto nelle scorse stagioni produzioni d’autore come Il Caimano di Nanni Moretti o lo stesso Il Divo di Paolo Sorrentino per assumere un profilo più basso, meno incisivo, forse anche a testimonianza della forte ondata di antipolitica che sta attraversando la penisola da almeno un paio di anni a questa parte.

Tra le opere comunque più interessanti in questo contesto si segnala Diverso da chi? (2009) dell’esordiente Umberto Carteni, uno dei pochi film più recenti a rivolgere la lente della macchina da presa in direzione della politica italiana e delle sue miserie, impiegando il filtro della commedia agro-dolce e interpreti di spicco dell’attuale scena cinematografica (come Luca Argentero e Claudia Gerini, presenza femminile ormai consolidata nello scenario attoriale italiano).

Più condizionata dal desiderio di ‘essere di moda’, fotografando in presa diretta un fenomeno mediatico come Facebook, è l’opera collettiva Feisbum – Il film (2009), instant movie attraversato da un pessimismo di fondo che, nell’episodio diretto da Serafino Murri, recupera le atmosfere di un topos della commedia all’italiana come il summenzionato I mostri (1963) di Risi.

Opera meticcia a cavallo tra mélo e mafia movie è invece Galantuomini (2008) di Edoardo Winspeare, in cui il regista salentino di adozione, già noto alla fine degli anni ’90 per opere come Pizzicata (1996) e Sangue vivo (2000), guarda in particolare a quella declinazione pugliese della criminalità organizzata che prende il nome di Sacra Corona Unita.

Se al di fuori dell’Italia si rivolge l’attenzione del debuttante Marco Pontecorvo che, con Pa-Ra-Da (2008), porta la macchina da presa nelle fogne dove alloggiano i boskettari, gli adolescenti che nella Romania post-comunista vivono di espedienti di ogni genere, profondamente calati nella realtà italiana sono due

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film che propongono in modi diversi una riflessione sul sempre più difficile mercato del lavoro: si pensi all’esempio di Fuga dal call center (2009), docufiction d’esordio di Federico Rizzo, la cui tematica (il call center come simbolo di un precariato non solo lavorativo ma anche esistenziale) la pone in immediata relazione con il film di Massimo Venier Generazione mille Euro (2009), ulteriore dolceamaro spaccato di una situazione di precariato (qui tutta milanese), ma anche con il precedente del 2008 di Paolo Virzì incentrato sullo stesso argomento (Tutta la vita davanti) e, sul piano più propriamente documentaristico, con Parole Sante (2007), in cui il drammaturgo Ascanio Celestini trattava il tema del lavoro e dello sfruttamento attraverso la vicenda di un gruppo di precari del più grande call center italiano.

Casi tutti particolari di cinema dagli intenti marcatamente politici sono, infine, quelli di Francesco Maselli, che torna alla regia con Le ombre rosse (2009) per mettere in scena un’allegoria della sinistra italiana del nuovo millennio, e di Marco Bechis, il quale, dopo Garage Olimpo (1999) e Figli-Hijos (2001), sulle tragiche conseguenze della dittatura militare in Argentina, rinnova la carica di denuncia del suo cinema rivolgendo nuovamente lo sguardo al Sudamerica, soffermando l’attenzione sull’estinzione della tribù dei Kaiowà e, ancora una volta, sulle ferite e i soprusi che i più ‘forti’ sono in grado di infliggere ai più ‘deboli’.

Prima di concludere questo viaggio nel cinema italiano dell’ultimo periodo, per dovere di completezza, si vuole aggiungere al lungo elenco di opere citate alcuni ulteriori titoli che, data la sostanziale irriducibilità alle categorie proposte, si configurano come sorta di ‘UFO’ rispetto agli ambiti indicati.

È questo il caso, ad esempio, della terza prova di Anne Riitta Ciccone, Il prossimo tuo (2008), opera dal tocco leggero sul tema del dolore di vivere divisa in tre sezioni ambientate in altrettanti paesi europei (Italia, Francia e Finlandia), e l’esordio di Giuseppe Capotondi La doppia ora (2009), film ‘di sceneggiatura’ che conferma la solidità artistica di alcuni volti nuovi di questo cinema, quali Filippo Timi e Ksenia Rappoport.

Allo stesso modo, Giulia non esce la sera (2009), segnando il ritorno sul set di Giuseppe Piccioni a cinque anni di distanza da La vita che vorrei, ripropone personaggi profondamente colpiti dal ‘male di vivere’ contemporaneo: le tenui e delicate figure qui messe in scena continuano ad apparire ‘fuori dal mondo’ (per citare il titolo della fortunata opera dello stesso autore del 1998), sostanzialmente marcate da una ‘mancanza che nessuna società riuscirà mai a colmare’.21

La stessa delicatezza di tocco contraddistingue infine Lo spazio bianco (2009) di Cristina Comencini, il cui stile tradizionalmente posato e realistico non si sottrae in quest’occasione alla suggestione visionaria di alcune scene surreali per raccontare la vicenda di una donna alle prese con una difficile gravidanza.

Quanto sin qui mostrato costituisce il paesaggio del cinema italiano quale esso si è configurato all’indomani del ‘sisma Gomorra’, ‘opera definitiva, apocalittica,

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capace di azzerare e far ripartire un immaginario, rendendo irrimediabilmente meno efficace un’ipotesi di racconto e messa in scena più tradizionale’.22

Se certamente di grande intensità sono state le scosse provocate da quest’opera nell’intero panorama produttivo italiano, a giudicare dalla ‘cinecartografia’ sopra riportata non sembra tuttavia che, almeno nell’immediato, tale territorio sia granché mutato rispetto al passato: i sommovimenti all’origine del ‘meraviglioso’ terremoto garroniano sembrano infatti essersi esauriti in quelle che oggi assumono la fisionomia di formule nelle quali lo stesso esempio di Gomorra appare più un modello ‘di moda’ di cui sfruttare la scia che un precedente al quale guardare per inaugurare un nuovo sguardo sulla realtà. Realtà del cui paesaggio di detriti il cinema italiano contemporaneo sembra limitarsi a prendere atto, confermando quanto scriveva Gian Piero Brunetta in relazione alla produzione filmica di una decina di anni fa: ‘vi sono ben più macerie di ogni tipo nel cinema a cavallo del nuovo millennio che in quello che raccontava l’Italia uscita dalla guerra mondiale’.23

Note1 Nozione impiegata da Vito Zagarrio in ‘Gli invisibili diventano (stra)“visibili”’, in

, a cura di Vito Zagarrio (Torino: Kaplan 2009), pp. 7-18 (p. 7).

2 Fonte Cinetel <http://www.cinetel.it/homenew.asp> [accesso di 5 gennaio 2010].

3 Per citare il progetto di produzione e distribuzione ‘dal basso’ inventato e testato con un certo successo dal regista Vittorio Moroni con la sua opera prima del 2005,

.

4 Il riferimento va, in particolare, all’elaborazione teorica di Francesco Casetti che, se da un lato rileva l’emergere di ‘pratiche extra-sala e extra-film’, dall’altro evidenzia come queste ultime siano ‘anche pronte a reinstallarsi in sala, rinnovando anche lì i tratti dell’esperienza filmica’, dando così vita ad un ritorno in sala (‘rientro nella madrepatria’) definibile nei termini di una ‘ ’ (Francesco Casetti, ‘Ritorno alla madrepatria: la sala cinematografica in un’epoca post-mediatica’, , 8 (2009), 173-86 (p. 184).

5 Zagarrio, p. 7.

6 Giovanna Taviani, ‘Il mio Paese: gli invisibili’ <http://www.salinadocfest.org/2009/mio-paese-gli-invisibili.php?lang=en> [accesso di 11 dicembre 2009].

7 Zagarrio, p. 8.

8 Luca Mosso, ‘Essere nelle cose’, , 57 (2009), 61.

9 Michele Gottardi, ‘Terra madre’, , 159 (2009), 70.

10 Vito Zagarrio, ‘Il genere nel nuovo cinema italiano’, in , a cura di Franco Montini

(FAC: Roma, 2009), pp. 19-26 (p. 20).

11 Franco Montini, ‘Un confine sempre più indecifrabile’, in Montini pp. 7-10 (p. 10).

12 Massimo Rota, ‘Vite senza indulgenza’, , 48 (2009), 11.

13 Gian Piero Brunetta, (Roma-Bari: Laterza,

2007), p. 662.

14 Gianni Canova, ‘Immaginare un’immagine’, , 52 (2009), 39.

15 Attilio Coco, ‘ ’, , 158 (2009), 38-39 (p. 39).

16 Con tale definizione Giorgio De Vincenti indica quella ‘corrente’ cinematografica che, in particolare negli anni ’70, raccoglie nomi come quelli di Damiano Damiani, Giuliano Montaldo, Mauro Bolognini, Francesco Rosi, Elio Petri, Francesco Maselli, cineasti che fornirono attraverso il proprio lavoro un importante apporto al movimento di reazione democratica di fronte alle azioni destabilizzanti e al vero e proprio terrorismo proveniente da alcuni

Page 20: Il cinema italiano intorno a Gomorra tra visibilità, semivisibilità, invisibilità, in «The Italianist Film Issue», Summer 2010

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settori deviati dello Stato. Giorgio De Vincenti, ‘Politica e corruzione nel cinema di consumo’, in

, a cura di Lino Miccichè (Marsilio: Marsilio 1997), pp. 265-82 (p. 268).

17 Marco Toscano, ‘Fortapàsc’, , 51 (2009), 19.

18 Gianni Canova, ‘Ex e lo svelamento dell’immaginario’, , 50 (2009), 42-43 (p. 42).

19 Si vedano, per tutti, l’esempio dello stesso , il cui titolo cita una nota canzone di Antonello

Venditti, ma anche, su tutt’altro fronte, l’ultima opera di Paolo Virzì (in uscita nel momento in cui si sta scrivendo questo intervento), , che richiama il

titolo di un’altra hit di un popolare gruppo italiano come i ‘Ricchi e poveri’, formazione musicale la cui produzione ‘nazional-popolare’ ha raggiunto il picco del successo tra anni ’70 e ’80.

20 Cui può essere ascritto anche il film di ascendenze ozpetekiane (2008) di Maria Sole Tognazzi.

21 Gianni Canova, ‘Giulia non esce la sera’, , 159 (2009), 40-41 (p. 41).

22 Toscano, p. 19.

23 Brunetta, p. 628.

10.1179/026143410X12724449730295

Christian Uva, Università Roma tre, Italy ([email protected])

© Department of Italian Studies, University of Reading and Departments of Italian, University of Cambridge and University of Leeds