FINANZIERI A CEFALONIA Pochi avvenimenti, come quelli verificatisi nell’isola greca di Cefalonia nel settembre 1943,hanno assunto nel tempo un significato emblematico,tanto da diventare simbolo del valore sfortunato e insieme della crudeltà umana. E raramente,d’altra parte,la rimozione ha operato con tanta efficacia,costruendo un mito intorno al sacrificio,e sorvolando sulle circostanze che lo avevano provocato. I fatti in realtà,furono noti subito dopo la fine della seconda guerra mondiale,se ne occuparono sia il Tribunale di Norimberga che la giustizia militare italiana,e non mancarono pubblicazioni a carattere memorialistico,redatte da sopravvissuti o da testimoni di avvenimenti collaterali rispetto all’episodio centrale ..La “strage di Cefalonia”,tuttavia,fu per mezzo secolo confinata nell’ambito delle celebrazioni militari,presso i reparti che avevano partecipato ai combattimenti sull’isola,senza meritare la rilevanza di altre vicende – le Fosse Ardeatine,Marzabotto – che meglio si prestavano ad essere inquadrate negli schemi storiografici della Resistenza e della guerra partigiana,anche se è fuor di dubbio che dell’una e dell’altra costituì premessa la disperata difesa dei presidi delle isole joniche.,come di quelli dislocati in tante altre località della Penisola e dei territori d’occupazione. Le ragioni per la rimozione non mancavano. L’uccisione sistematica di migliaia di militari dopo la resa,in assenza di alcuna necessità bellica – a fine settembre ’43 l’esercito italiano praticamente non esisteva più – è fatto ingiustificabile sotto qualsiasi profilo,condannato non soltanto dal diritto internazionale ,ma dagli usi di guerra e dalla tradizione dell’onore militare,al di là di ovvie considerazioni umanitarie.Tanti altri fatti deplorevoli accaddero durante la seconda guerra mondiale,ma Cefalonia ebbe dimensioni eccezionali,e per di più non fu opera delle milizie politiche – le SS,la Gestapo – cui di solito si attribuiscono episodi efferati. Nell’isola operarono reparti regolari della Wehrmacht ,in base ad ordini emanati dal Quartier Generale del Fuhrer e trasmessi lungo la normale catena gerarchica,al comando del Gruppo di Armate “E” a Salonicco,a quello del XXII corpo d’armata da montagna a Gianina,a quello della divisione alpina che eseguì l’operazione. Non era quindi possibile applicare alla vicenda la convenzione che rendeva più facile il reinserimento della Germania Federale nel consorzio delle democrazie occidentali, convenzione secondo la quale le atrocità commesse durante la seconda guerra mondiale erano state opera di un numero limitato di fanatici nazisti,mentre le forze armate regolari avevano tenuto un contegno conforme alla cultura europea ed alla tradizione di Federico il Grande,di Blucher e di Moltke.
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FINANZIERI A CEFALONIA
Pochi avvenimenti, come quelli verificatisi nell’isola greca di Cefalonia nel settembre 1943,hanno
assunto nel tempo un significato emblematico,tanto da diventare simbolo del valore sfortunato e
insieme della crudeltà umana.
E raramente,d’altra parte,la rimozione ha operato con tanta efficacia,costruendo un mito intorno al
sacrificio,e sorvolando sulle circostanze che lo avevano provocato. I fatti in realtà,furono noti subito
dopo la fine della seconda guerra mondiale,se ne occuparono sia il Tribunale di Norimberga che la
giustizia militare italiana,e non mancarono pubblicazioni a carattere memorialistico,redatte da
sopravvissuti o da testimoni di avvenimenti collaterali rispetto all’episodio centrale ..La “strage di
Cefalonia”,tuttavia,fu per mezzo secolo confinata nell’ambito delle celebrazioni militari,presso i
reparti che avevano partecipato ai combattimenti sull’isola,senza meritare la rilevanza di altre
vicende – le Fosse Ardeatine,Marzabotto – che meglio si prestavano ad essere inquadrate negli
schemi storiografici della Resistenza e della guerra partigiana,anche se è fuor di dubbio che dell’una
e dell’altra costituì premessa la disperata difesa dei presidi delle isole joniche.,come di quelli
dislocati in tante altre località della Penisola e dei territori d’occupazione.
Le ragioni per la rimozione non mancavano.
L’uccisione sistematica di migliaia di militari dopo la resa,in assenza di alcuna necessità bellica – a
fine settembre ’43 l’esercito italiano praticamente non esisteva più – è fatto ingiustificabile sotto
qualsiasi profilo,condannato non soltanto dal diritto internazionale ,ma dagli usi di guerra e dalla
tradizione dell’onore militare,al di là di ovvie considerazioni umanitarie.Tanti altri fatti deplorevoli
accaddero durante la seconda guerra mondiale,ma Cefalonia ebbe dimensioni eccezionali,e per di
più non fu opera delle milizie politiche – le SS,la Gestapo – cui di solito si attribuiscono episodi
efferati. Nell’isola operarono reparti regolari della Wehrmacht ,in base ad ordini emanati dal
Quartier Generale del Fuhrer e trasmessi lungo la normale catena gerarchica,al comando del
Gruppo di Armate “E” a Salonicco,a quello del XXII corpo d’armata da montagna a Gianina,a
quello della divisione alpina che eseguì l’operazione. Non era quindi possibile applicare alla
vicenda la convenzione che rendeva più facile il reinserimento della Germania Federale nel
consorzio delle democrazie occidentali, convenzione secondo la quale le atrocità commesse durante
la seconda guerra mondiale erano state opera di un numero limitato di fanatici nazisti,mentre le
forze armate regolari avevano tenuto un contegno conforme alla cultura europea ed alla tradizione
di Federico il Grande,di Blucher e di Moltke.
Quando negli anni ’50 ,in un quadro di relazioni internazionali radicalmente mutato,l’esercito
italiano e quello tedesco si trovarono ad essere integrati nello stesso sistema difensivo atlantico,fu
logico mettere l’accento sugli elementi di unione,e non enfatizzare gli altri.
Per ragioni analoghe,non era il caso di mettere in evidenza i limiti della condotta di guerra degli
anglo-americani,che impedirono loro di sfruttare a fondo il cambiamento di situazione provocato
dall’armistizio italiano.
Ma soprattutto,la vicenda di Cefalonia pose impietosamente in evidenza la serie di fattori negativi
che contrassegnarono l’uscita del nostro Paese dall’alleanza dell’Asse ed il passaggio al campo
opposto,la superficialità e le reticenze nelle trattative con gli alleati,l’imprevidenza e la mancanza di
pianificazione nella delicatissima fase del cambiamento di fronte,il discutibile comportamento del
Comando Supremo cui fece riscontro la mancanza di iniziativa che paralizzò gli alti comandi
periferici.
All’abbondante memorialistica ed alle pubblicazioni ufficiali degli stati maggiori dell’Esercito e
della Marina si è aggiunta,ma soltanto nel 1993,un’analisi tecnica molto seria,affidata al generale
Mario Montanari per la parte italiana,ed al comandante Gerhard Schreiber per quella tedesca ( “ La
divisione Acqui a Cefalonia”,a cura di Giorgio Rochat e Marcello Venturi,ed.
Mursia,Milano),autore quest’ultimo anche di una ricerca su “ I militari italiani nei campi di
concentramento del Terzo Reich” (Ufficio Storico dello Stato Maggiore Esercito,1992),esemplare
per rigore ed obiettività. A queste fonti , ed alla scarna documentazione esistente nell’ archivio del
Museo Storico della Guardia di finanza, ci riferiremo prevalentemente nella ricostruzione
dell’episodio,che valse alla bandiera della Guardia di finanza la prima medaglia d’oro al valor
militare,per il comportamento del I battaglione mobilitato , dislocato appunto nelle Isole Joniche.
L’occupazione italiana delle Isole Joniche.
Il gruppo delle Isole Joniche ( o”Jonie”.secondo la grafia italiana dell’epoca) comprende due
elementi principali.
A nord la maggiore,Corfù,separata da un braccio di mare dalla costa dell’Albania meridionale,in
corrispondenza del porticciolo di Saranda,allora nota con l’antico nome di Santi Quaranta,o con
quello recentissimo di Porto Edda,attribuitole in omaggio alla figlia primogenita di
Mussolini,nonché consorte del ministro degli esteri Galeazzo Ciano,principale artefice e
patrocinatore dell’unione italo-albanese.
Parecchie miglia più a sud il gruppo delle isole meridionali,Cefalonia ed Itaca al centro,Leucade
(Santa Maura) a nord,divisa dalla terraferma epirota da un canale artificiale,Zante a sud,davanti alla
costa del Peloponneso.
Cefalonia domina l’accesso al golfo di Patrasso ed al canale di Corinto,e quindi gli approcci da
ponente al Pireo ed agli approdi dell’Attica.
Possedimento veneziano fino al 1798,dopo esser passate di mano nel corso delle guerre
napoleoniche le isole erano state,per tutto il XIX secolo,anche dopo la conquista dell’indipendenza
greca,una base della Royal Navy.
L’esercito italiano aveva occupato senza difficoltà l’arcipelago nei primi giorni di maggio del
1941,dopo la resa delle forze armate elleniche,e proprio Cefalonia era stata il teatro dell’unica
operazione di aviosbarco portata a termine da parte nostra nel corso della seconda guerra
mondiale,con il lancio di una compagnia della Scuola di Paracadutismo di Tarquinia.
Dopo pochi giorni i reparti sbarcati furono sostituiti dalla divisione di fanteria “Acqui”,con compiti
di presidio e di difesa costiera.
La grande unità,erede di tradizioni prestigiose dell’esercito sardo, aveva la struttura delle divisioni
di fanteria definite “da montagna”,per intendere che la loro motorizzazione era ridotta al
minimo,quasi inesistente,mentre l’ artiglieria era destinata a spostarsi a dorso di mulo.
Comprendeva il 17° ed il 18° reggimento fanteria,una legione di Camicie Nere ( in pratica un terzo
reggimento a ranghi ridotti) ed il 33° reggimento artiglieria da campagna,su due gruppi di obici
da75/13 ed uno da 100/17,armati con materiale di preda bellica austro-ungarica della prima guerra
mondiale e,come si è detto ,someggiabile.
La “Acqui” nel giugno 1940 aveva partecipato alle operazioni su fronte francese e,dopo una sosta in
prossimità del confine svizzero,nella prima metà di novembre aveva raggiunto la sua sede stanziale
di Merano,con una forza ridotta al 60% per effetto della parziale smobilitazione disposta con
singolare tempismo proprio in concomitanza con l’inizio della campagna di Grecia.
Lo sfavorevole andamento delle operazioni sul fronte greco-albanese fece sì che già il 18 novembre
la divisione fosse frettolosamente avviata oltre Adriatico,dove i suoi reparti furono impiegati “ a
spizzico” per turare le falle che si aprivano nel nostro schieramento.In aprile la
“Acqui”,riordinata,partecipò all’infruttuosa offensiva nella valle Shushica e,dopo il crollo del fronte
ellenico,raggiunse la costa dell’Epiro,da dove fu trasferita nelle isole.
Nel corso dell’occupazione sia la consistenza complessiva della divisione che la distribuzione dei
suoi reparti tra le varie isole subirono frequenti rimaneggiamenti ,in funzione dei mutamenti della
situazione generale che,come vedremo,fece considerare opportuno lo spostamento della
gravitazione delle forze da Corfù al gruppo meridionale..
In particolare,il comando di divisione fu trasferito a Cefalonia,la cui guarnigione fu
rinforzata,soprattutto in artiglieria, mentre la legione CC.NN. fu sostituita dal 317° reggimento
fanteria.
Come tiene a sottolineare Rochat nel saggio introduttivo al volume citato,la “Acqui” era in sostanza
una divisione “qualsiasi”,con tutte le carenze di addestramento e di inquadramento –e naturalmente
di armamento ed equipaggiamento – delle analoghe unità dell’esercito italiano dell’epoca.
Gli uomini che la componevano non erano truppe di élite ma soldati in prevalenza non più
giovanissimi,sul morale dei quali non poteva non incidere la stanchezza per il lungo tempo
trascorso sotto le armi e la preoccupazione per il futuro,che l’andamento disastroso della guerra non
poneva certo in una prospettiva favorevole.
Per la sua posizione geografica Cefalonia aveva anche una certa importanza dal punto di vista
navale,tanto che era stata scelta come base per il 37° gruppo dragaggio, per il 10° gruppo
antisommergibili e per una squadriglia di MAS ,destinati alla protezione del traffico marittimo con
la Grecia e l’Egeo e di un tratto della rotta di sicurezza seguita dai trasporti per l’Africa
Settentrionale,finché vi furono.
Nel gruppo antisom erano inquadrate anche due motovedette della Guardia di finanza, “Caron” e
“Spanedda “; due batterie antinave ed una contraerei della marina concorrevano alla difesa
dell’isola.
Per i servizi di polizia erano aggregati alla divisione “Acqui” il VII battaglione Carabinieri
,responsabile del servizio di polizia militare e,con il modesto concorso della gendarmeria locale,del
mantenimento dell’ordine pubblico,ed il I battaglione della Guardia di finanza,con compiti di
polizia economica e di concorso alla difesa costiera.
Il I battaglione era uno dei due reparti costituiti nell’estate del 1940 per partecipare alle operazioni
dell’esercito di campagna,e la sua nascita,come quella del gemello II,era stata piuttosto travagliata.
Lo Stato Maggiore dell’ Esercito,infatti,era contrario alla formazione di elementi della Guardia di
finanza destinati ad operare come normali unità di fanteria,come era avvenuto nella prima guerra
mondiale,ritenendo più coerente con la fisionomia del Corpo l’impiego in compiti di copertura e di
difesa costiera,oltre che per la tutela dell’economia di guerra.
Soltanto ai primi di giugno,nell’imminenza della dichiarazione di guerra,per l’insistenza del
Comando Generale della Guardia,motivata da ragioni di prestigio e,diremmo oggi,di “presenza”,era
stata autorizzata la costituzione di due battaglioni, per i quali fu scelta la struttura dei corrispondenti
reparti di CC.NN assegnati in rinforzo ai settori di copertura,più leggera di quella delle analoghe
unità di fanteria.
Nel corso del conflitto,poi,le cose andarono diversamente,per il manifestarsi delle esigenze della
occupazione nei territori greci,jugoslavi,ed in seguito anche della Francia meridionale,tanto che alla
fine del 1942 la Guardia di finanza.contava ben diciotto battaglioni mobilitati,dislocati dalla
Slovenia a Creta,in Savoia ed in Provenza,oltre a tre compagnie autonome ( due nelle Isole
dell’Egeo ed una sul confine libico-tunisino),ai reparti in Africa ed agli equipaggi del naviglio.
Il I ed il II battaglione,costituiti il 1° luglio 1940 nella caserma di viale XXI aprile in Roma,dopo un
breve periodo di addestramento a Carsoli,in Abruzzo,furono dislocati alla frontiera
jugoslava,rispettivamente a Tarvisio ed a Plezzo. Sciolti e rapidamente ricostituiti in novembre,con
una vicenda analoga a quella già descritta per la divisione “Acqui”,i due battaglioni furono
trasferiti in Albania,dove il 13 dicembre ebbero il battesimo del fuoco in Val Tomorreces,nel
massiccio del Tomori,al punto di giunzione dei settori della 9^ e della 11^ armata . In prima linea
senza soluzione di continuità fino a marzo,i reparti furono spostati nel settore di Librazhd,in
corrispondenza del confine jugoslavo-albanese,quando in aprile,con l’entrata in guerra della
Jugoslavia, si profilò la minaccia dell’apertura di un nuovo fronte alle spalle dello schieramento
italiano contro la Grecia.
Dopo aver partecipato all’azione per l’occupazione della città di Dibra,nella Macedonia jugoslava,
alla cessazione delle ostilità il II battaglione fu inviato in Montenegro,mentre il I si concentrò
presso il porto di Igoumenitsa,in Epiro,dal quale,tra maggio e giugno 1941, si trasferì nelle Isole
Joniche.
Nel settembre di due anni dopo,il reparto presentava una fisionomia sensibilmente diversa da quella
iniziale. Contava una forza notevolmente superiore a quella organica,ripartita in cinque compagnie:
la1^ e la 3^ a Corfù,con il comando di battaglione,la 2^ a Leucade,la 4^ a Cefalonia e la 5^ a
Zante,e gli erano attribuiti compiti più complessi di quelli assegnati agli altri reparti del Corpo. in
Grecia. .
A questi ultimi (sei battaglioni,dislocati in Epiro,Peloponneso,Tessaglia e Creta,alle dipendenze,per
il servizio d’istituto,di un Comando Superiore in Atene,dove operava anche un nucleo di polizia
tributaria) erano attribuiti essenzialmente compiti di polizia militare ( ricerca di armi e di radio
clandestine,cattura di militari inglesi sbandati,controspionaggio) e marittima,e di difesa costiera.Il
XII ed il XIII battaglione,gli ultimi costituiti nella seconda metà del ’41,avevano per tale ultimo
compito una struttura “anfibia”,poiché una delle tre compagnie era formata da personale del
contingente di mare e disponeva di naviglio locale di requisizione.
In un primo tempo,alla Guardia di finanza furono assegnate anche funzioni di polizia economica
simili a quelle svolte in Patria e nei territori ex-jugoslavi ( controllo sugli ammassi e sulla
distribuzione delle derrate alla popolazione civile,repressione degli accaparramenti,controllo dei
prezzi).La situazione di progressivo collasso dell’economia ellenica, con un’inflazione ed una crisi
alimentare di proporzioni drammatiche,indussero successivamente il comando italiano a rinunciare
al controllo e ad restituire le responsabilità in materia economica alle autorità greche – il cosiddetto
“esperimento Kotsanatis” – nella speranza che riuscissero a riattivare i meccanismi di mercato.
I finanzieri furono quindi impiegati per la tutela degli interessi dell’amministrazione militare
italiana e per le esigenze di approvvigionamento delle truppe
Una situazione alquanto diversa si verificò nelle Isole Joniche.
Con l’obiettivo neppure troppo coperto di una futura annessione,il governo italiano perseguì una
politica di graduale distacco delle isole dal contesto statale greco,dando vita ad un regime di
occupazione distinto da quello in vigore nella terraferma,nel quale le funzioni di governo furono
attribuite ad un “Ufficio Affari Civili” affidato ad un esponente politico fascista,formalmente
inserito nel comando della “Acqui”,ma in realtà diretto da uno speciale ufficio istituito nel gabinetto
degli Esteri di Roma.
Furono così costituite nell’arcipelago le istituzioni di organizzazione del consenso del partito
fascista italiano,si cercò di valorizzare il retaggio dell’antica presenza veneziana,e soprattutto ci si
adoperò per attrarre nell’orbita italiana la modesta economia isolana,cosa del resto non
difficile,viste le condizioni disastrose di quella ellenica.
Nell’aprile 1942 furono ritirate dalla circolazione le monete greche,per far posto ad una “dracma
jonica”,le cui banconote recavano diciture bilingui.Anche i francobolli furono sostituiti da quelli
italiani,con una speciale sovrastampa
Per il controllo delle operazioni di cambio della moneta il ministero degli esteri richiese il
trasferimento temporaneo nelle isole di duecento finanzieri .
Alla Guardia di finanza fu così affidata una sorta di sovrintendenza sugli organi
dell’amministrazione finanziaria ellenica,esercitata da tre capitani ,nominati commissari straordinari
per le dogane,i monopoli e le eforie,gli uffici delle imposte.
Il compito più gravoso,comunque,era quello della difesa costiera e della polizia marittima,per
l’esercizio della quale,implicante anche il controllo del traffico locale tra le isole,il battaglione
disponeva di due motovelieri (“S.Marco” a Corfù e “Cesare” a Zante) e di un motoscafo di
requisizione ,tutti armati da finanzieri del contingente di mare; nell’ottobre 1941 erano giunte
dall’Italia le motobarche MB 30 e MB 31,del naviglio del Corpo,dislocate la prima a Corfù e l’altra
a Cefalonia.
Fu appunto nel settore della polizia marittima che si dovette registrare l’unico incidente in oltre due
anni di occupazione.Il 22 luglio 1941 nella rada di Katalios,sulla costa meridionale di Cefalonia, i
finanzieri Francesco Caddeo ed Enrico Martinelli,furono uccisi a colpi di pistola durante il controllo
di un motoveliero ,ma l’episodio fu attribuito a “normali” contrabbandieri,peraltro inseguiti e poi
parte uccisi in conflitto e parte catturati a Zante..
La resistenza fu praticamente inesistente nell’isola fino ai primi del’43,ed anche dopo non sembra
abbia costituito una seria minaccia per le truppe d’occupazione.
La situazione di relativa tranquillità nelle isole cambiò radicalmente tra la fine del 1942 e l’inizio
dell’anno successivo,quando l’abbandono dell’Africa Settentrionale da parte dell’Asse pose sul
tappeto il problema delle possibili successive mosse degli alleati anglo-americani.
.Nelle valutazioni degli alti comandi tedesco ed italiano un grado elevato di probabilità fu attribuito
all’invasione della penisola balcanica,e le isole joniche,fino ad allora considerate soltanto come
punto di appoggio per il traffico verso la Grecia e l’Africa Settentrionale,acquistarono una rilevanza
strategica ben maggiore, quali possibili basi per operazioni verso la terraferma ellenica o anche
verso l’ Adriatico.
Fu così deciso l’ulteriore rafforzamento delle guarnigioni del gruppo meridionale,il trasferimento
del comando di divisione da Corfù a Cefalonia ed il passaggio della grande unità alle dipendenze
dell’11^ armata e del XXVI corpo d’armata, nella cui zona di competenza si trovava la Grecia
occidentale. Anche il I battaglione fu trasferito,per il servizio d’istituto,dal Comando Superiore
della R.G.F.d’Albania a quello di Atene.
I rapporti di dipendenza dei presidi delle Isole Joniche furono ulteriormente modificati nell’estate
del ’43,quando Leucade fu assegnata alla divisione “Casale” e Zante alla “Piemonte”,ed il 15 agosto
fu addirittura spezzata l’unità organica della “Acqui”:il presidio di Corfù,dove era rimasto il
18°fanteria (ed i comandi di battaglione dei CC.RR. e della R.G.F.) continuò a dipendere dal XXVI
C.d’A. con sede a Gianina,mentre quelli di Cefalonia ed Itaca passarono all’VIII C.d’A.,il comando
del quale era ad Agrinion.
Questo intreccio di relazioni di comando ebbe un ruolo non lieve nella dinamica della tragedia di
Cefalonia,perché i comandi di divisione e di corpo d’armata ebbero comportamenti difformi rispetto
alla nuova situazione determinata dall’armistizio,il che certo non agevolò i rapporti con i tedeschi.
Il 30 giugno 1943 il comando della “Acqui” fu assunto dal generale di divisione Antonio Gandin,
personaggio di rilievo nello stato maggiore dell’esercito italiano ( ed anche insegnante di arte
militare presso l’Accademia della Guardia di finanza negli anni ’20).
Gandin era stato,dal dicembre 1940,capo del reparto operazioni del Comando Supremo,aveva
quindi una visione completa della situazione generale e,grazie anche alla sua ottima conoscenza
della lingua,gli erano perfettamente noti i metodi di guerra e la mentalità dell’alto comando
tedesco,con i maggiori esponenti del quale aveva avuto relazioni personali di lavoro;era anche
decorato della croce di ferro di prima classe.
Probabilmente fu l’unico a non farsi illusioni circa l’esito finale della vicenda
A Cefalonia. avevano anche sede il comando della fanteria divisionale ( generale di brigata Edoardo
Gherzi) e quelli del 17° e 317° reggimento fanteria ( ten.col.Ernesto Cessari e col. Ezio Ricci) e del
33°artiglieria (col.Mario Romagnoli,che era anche comandante dell’artiglieria divisionale)
Il colonnello Luigi Lusignani comandava il 18°fanteria ed il presidio di Corfù.
Il Comando Marina di Argostoli,dipendente dal Comando Militare Marittimo della Grecia
Occidentale ( “ Marimorea”,in Patrasso) era retto dal capitano di fregata Mario Mastrangelo.
Il capitano i.g.s. Luigi Bernard comandava dalla metà di agosto il I battaglione mobilitato della
R.G.F. in Corfù.Anche il capitano Francesco La Rosa era giunto al comando della 4^ compagnia di
Cefalonia soltanto l’8 agosto,proveniente dalla Scuola Sottufficiali di Ostia.I due subalterni presenti
sull’isola,sottotenenti Pasquale Ciancarelli e Lelio Triolo,di 22 e 21 anni,compagni di corso( il 43°
“Val d’Astico”),avevano concluso il periodo d’applicazione a dicembre,ed erano giunti insieme a
Cefalonia il 7 gennaio 1943.
A Corfù la 1^ compagnia aveva entrambi i plotoni nel capoluogo,impegnati nei servizi di polizia
economica e di vigilanza del porto,della cui difesa era responsabile il comandante di battaglione; la
3^ compagnia aveva i plotoni nelle località costiere di Ipsos, Agros e Perivolis.
A Cefalonia la 4^ compagnia aveva il I plotone ad Argostoli,il II a Samos,il III a Porto Guiscardo;il
IV plotone era distaccato nell’isola di Zante. Tutti i plotoni erano articolati in distaccamenti lungo la
costa e nelle isole minori,con una forza minima pari ad una squadra ( dieci uomini circa),con
compiti quasi esclusivamente di polizia militare e marittima e di osservazione ed allarme per la
difesa costiera.
La forza dei reparti all’8 settembre 1943 non è nota con esattezza ( l’archivio del Museo Storico del
Corpo dispone del diario del reparto soltanto fino a tutto il 31 dicembre 1941)
Nel saggio del prof.Rochat già citato è riportato un prospetto della forza della divisione “Acqui” e
dei reparti aggregati al 15 novembre 1942,rinvenuto nell’archivio dell’Ufficio Storico dello
S.M.E.,nel quale al I battaglione della R.G.F.è attribuita una consistenza di 17 ufficiali e 658
sottufficiali,appuntati e finanzieri.Non vi è ragione di ritenere che dieci mesi dopo i dati fossero
variati in modo rilevante.
In agosto quasi metà dei quadri erano stati avvicendati. Oltre al comandante di battaglione ed al
cap. La Rosa,anche il comandante della compagnia di Zante ,cap.Ventriglia,l’aiutante maggiore
,tenente Benini e parecchi comandanti di plotone erano ai loro posti da pochi giorni.
.
.
L’armistizio e le trattative con i tedeschi.
L’evoluzione negativa del conflitto all’inizio del 1943 provocò reazioni opposte nei vertici
dell’Asse. A Roma ci si preoccupò soprattutto della ricerca di una soluzione politica,e soltanto il 2
agosto,dopo il “colpo di stato “ che aveva eliminato il governo fascista,furono tentati i primi contatti
con gli anglo-americani,inficiati peraltro da un grave equivoco:da parte italiana si riteneva di poter
negoziare un armistizio,gli interlocutori erano disponibili soltanto ad intese tecniche,per concordare
le modalità della “resa incondizionata”,decisa dai “tre grandi” a Casablanca in gennaio.
Nel clima di diffidenza reciproca che ne derivò,la questione della sorte delle centinaia di migliaia di
militari stanziati in Balcania ed in Grecia non fu neppure affrontata, né furono studiate ipotesi
di difesa coordinata o di recupero Il Comando Supremo apparve del resto paralizzato,in quei giorni,
da un duplice errore di valutazione,riguardante le possibilità d’azione sia del futuro nemico
tedesco,di fronte al quale si rinunciò in partenza a tentativi di resistenza (anche dove,come a
Roma,il rapporto di forze era favorevole) sia degli anglo-americani,ritenuti a torto in grado di
risolvere con la loro strapotenza qualsiasi incognita dovesse esser posta dall’evoluzione degli
eventi.
A complicare definitivamente le cose si aggiunse l’ossessione per la segretezza,a causa della quale
le direttive in vista di un confronto con i tedeschi giunsero agli alti comandi periferici con tale
ritardo – in qualche caso non giunsero affatto -.da risultare prive di efficacia.
Ma non si può fare a meno di ricordare che nell’estate ’43 l’esercito italiano contava ben due
comandi di gruppo d’armate e sette comandi d’armata,ciascuno con un proprio stato maggiore e
propri organi informativi,e tutti si sciolsero o furono catturati nel giro di poche ore,senza assumere
alcuna iniziativa.
Non era lecito attendersi,d’altra parte,che il problema se lo ponessero gli anglo-americani,i quali
avevano pianificato dettagliatamente l’operazione anfibia principale.(Avalanche,lo sbarco a
Salerno) e quelle concorrenti in Calabria ed in Puglia, senza fare conto dell’atteggiamento
italiano.,e non furono disposti a modificare le decisioni prese,a favore di un concorso che venne
loro richiesto soltanto dopo che l’emergenza si fu manifestata,tanto più che Avalanche non andava
affatto bene ed si profilava il rischio di un fallimento.
Il collasso dell’alleato fu invece ritenuto come estremamente probabile dal vertice militare
tedesco,che passò all’organizzazione delle contromisure subito dopo la fine delle operazioni in
Nord Africa,ai primi di maggio .Fu costituito un apposito stato maggiore a Monaco di
Baviera,affidato al più prestigioso condottiero del momento,il maresciallo Rommel,il quale assunse
poi il comando di un complesso di forze,il Gruppo di Armate “B”,con il compito specifico del
disarmo dell’esercito italiano e della presa di possesso del territorio a nord della congiungente Pisa-
Rimini,la futura “linea gotica”.
Misure analoghe furono prese nei territori d’occupazione ,e l’esecuzione fu affidata al comandante
superiore del sud-est,feldmaresciallo barone von Weichs,in Belgrado e al comandante del Gruppo di
Armate “E”,generale Loehr, in Salonicco .In Grecia,con il consenso del Comando Supremo
italiano,l’11^ armata fu trasformata in grande unità mista italo-tedesca,alle dipendenze del comando
Gruppo di Armate “E”,e divisioni tedesche vennero inserite nei corpi d’armata italiani ,circostanza
questa che si risolse nella neutralizzazione preventiva della nostra linea di comando e si rivelò
determinante al momento dell’armistizio.
In particolare,nella Grecia nord-occidentale fu costituito il XXII corpo d’armata da montagna
(gen.Hubert Lanz),con la 1^ divisione da montagna e la 104^ divisione cacciatori,formalmente
inquadrate una nel XXVI C.d’A. e l’altra nell’VIII C.d’A. italiani.
A Cefalonia fu inviato ai primi di agosto un gruppo tattico al comando del tenente colonnello Hans
Barge,costituito dal 966° reggimento fanteria da fortezza,rinforzato da due batterie semoventi e da
elementi di supporto,per un totale di circa 1800 uomini,che presero posizione nella penisola di
Lixuri,nella parte occidentale dell’isola.Una compagnia rinforzata ed una batteria semovente,con
elementi di supporto,al comando del tenente Fauth,furono distaccati ad Argostoli, il capoluogo,sede
anche del comando italiano.
Negli ultimi giorni di agosto,a Roma,anche il Comando Generale della Guardia di finanza ritenne
necessario emanare disposizioni da attuare nell’eventualità che una crisi delle comunicazioni
ponesse i comandi periferici nell’impossibilità di ricevere ordini. Il comandante generale Aldo
Aymonino,ottenuta l’approvazione esplicita del maresciallo Badoglio,diramò così il 28 agosto la
circolare 897/R.O.,con la quale si stabiliva che i reparti posti a disposizione dell’esercito avrebbero
conservato in ogni caso le dipendenze operative previste,ed avrebbero quindi eseguito gli ordini
conseguenti. I reparti addetti al servizio d’istituto dovevano rimanere a qualunque costo nelle sedi
loro assegnate,salvo ordini superiori;se per gli eventi bellici si fossero trovati ad immediato contatto
con il nemico avrebbero dovuto continuare a disimpegnare i loro compiti,compreso il concorso al
mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica.
Quest’ultima disposizione trovava fondamento nell’articolo 56 della legge di guerra (R.D.8 luglio
1938,n.415) che consentiva alle forze di polizia di continuare ad assolvere i loro compiti d’istituto
anche in territorio occupato dal nemico, come previsto dalle convenzioni internazionali,ed aveva già
trovato applicazione in Africa Orientale.sotto l’occupazione britannica.Essa valeva per
l’organizzazione del Corpo nel territorio metropolitano,servì ad orientare le scelte dei finanzieri nei
giorni immediatamente successivi all’armistizio e conseguì lo scopo di assicurare la sopravvivenza
dell’istituzione,che rimase integra mentre le strutture politiche e militari dello stato si dissolvevano.
Ma non modificò la situazione dei circa dodicimila finanzieri, la metà dell’organico del Corpo,che
l’8 settembre 1943 si trovavano fuori d’Italia,i quali non potevano che seguire la sorte dei reparti
dell’esercito cui erano aggregati.
L’intera organizzazione di comando italiana,in Patria ed all’estero,apprese la notizia dell’armistizio
dal discorso alla radio del maresciallo Badoglio,alle 19,45 di quel giorno,contemporaneamente alla
popolazione civile. Alle 0,20 del 9 settembre il Comando Supremo,resosi conto che il promemoria
contenente le direttive circa il contegno da tenere all’atto dell’armistizio non era stato ricevuto da
tutti i destinatari,ne riprodusse il testo in un messaggio radio,aggiungendo tuttavia l’ordine di “non
prendere l’iniziativa di atti ostili contro i tedeschi”. Alle 6,30 lo stesso Comando Supremo
comunicò agli Stati Maggiori di Forza Armata che stava lasciando Roma con il re ed il
governo,mentre lo Stato Maggiore dell’Esercito ordinò la rinuncia alla difesa della capitale ed il
concentramento nella zona di Tivoli del corpo d’armata motocorazzato che avrebbe dovuto
provvedervi..
“Superesercito” fu sciolto “temporaneamente” dal capo di SM gen.Roatta,mentre gli organi
corrispondenti della Marina e dell’Aeronautica continuarono a funzionare sotto la direzione dei
rispettivi sottocapi di SM.
In sintesi,il vertice interforze e quello della principale forza armata scomparvero fino al pomeriggio
del 10 settembre,quando furono riattivati a Brindisi.In tale arco di tempo l’intero organismo militare
italiano si disintegrò.
Ad Atene,il generale Vecchiarelli,comandante dell’11^ armata,tentò per tutta la notte di trovare una
soluzione all’alternativa postagli dal gen.Loehr,comandante del gruppo di armate “E”: respingere
l’armistizio e schierarsi con i tedeschi,oppure cedere le armi e concentrare le truppe in attesa di
disposizioni per il rimpatrio. Poi cedette,ed alle 9,50 del 9 settembre diramò gli ordini per la
consegna delle artiglierie e delle armi collettive ed il ritiro del personale dalle postazioni difensive.
A Cefalonia il gen.Gandin aveva ricevuto alle 21,30 l’ordine del comando di armata,che prescriveva
di non assumere iniziative,ma di reagire con la forza ad ogni atto di violenza armata.Il mattino
successivo aveva convocato il tenente colonnello Barge,comandante del gruppo tattico tedesco,che
si disse privo di ordini,ed insieme concordarono di tenersi in contatto per evitare incidenti.
L’intera giornata del 9 trascorse in attesa di notizie.
Nella notte precedente l’ammiraglio Lombardi,comandante di “Marimorea” a Patrasso,era riuscito a
trasmettere ai comandi dipendenti l’ordine di Supermarina di avviare verso l’Italia tutte le unità in
grado di prendere il mare,prima di essere raggiunto,il mattino successivo,da quello del comando di
armata,che disponeva per la consegna ai tedeschi.Le unità della base di Argostoli,compresa la
motovedetta “Caron”,partirono quindi nella stessa notte sul 9, agli ordini del comandante in
2^,capitano di corvetta Delfino,ed a sera erano in salvo a Brindisi.
Più avventuroso il rimpatrio della seconda unità della Guardia di finanza,la “Spanedda”,in missione
tra Corfù e Leucade al comando del brigadiere Vincenzo Riso.Ricevuto da Marina Corfù l’ordine di
dirigere per l’Italia,il sottufficiale riuscì a rifornirsi di nafta vincendo la resistenza di un finanziere
di guardia ad un deposito di Leucade,ed il mattino del 10 puntò verso la costa pugliese,senza
tuttavia conoscere le rotte di sicurezza prescritte per l’attraversamento dei campi minati:Nel
pomeriggio,attardato anche dall’avaria di uno dei due motori,corse il rischio di essere affondato dal
la torpediniera “Sagittario”,di scorta alla corazzata “Giulio Cesare”in trasferimento da Trieste,dal
cui comandante ebbe il consiglio di dirigere per Taranto,per la probabilità che Brindisi fosse
occupata dai tedeschi.Il silenzio delle stazioni radio costiere diede intanto al brigadiere la
sensazione che qualcosa di estremamente grave stesse accadendo a terra. Dopo un’altra notte di
navigazione cieca,la “Spanedda”,ormai a corto di combustibile,entrò in Mar Grande a mezzogiorno
dell’11,per avere l’onore di essere abbordata da una lancia della Royal Navy con un picchetto al
comando di un ufficiale,il quale ingiunse al brigadiere Riso di tenersi pronto a partire per Malta.
A Cefalonia,intanto,il comando della “Acqui” aveva ricevuto soltanto alle 20 del 9 il
messaggio,partito da Atene alle 9,50,con il quale il generale Vecchiarelli ordinava la consegna delle
artiglierie e delle armi di reparto. Ne seguì un certo disorientamento,poiché l’ordine era
evidentemente in contrasto con l’orientamento espresso in precedenza dallo stesso comando di
armata,e coerente con il messaggio di Badoglio,secondo il quale i reparti avrebbero dovuto reagire
ad atti di violenza. .
Il mattino del 10 il tenente colonnello Barge si ripresentò,comunicando le disposizioni impartite dal
suo comando di corpo d’armata:consegna di tutte le armi,comprese quelle individuali,da farsi in
forma pubblica sulla piazza principale di Argostoli alle 10 del mattino successivo.L’ufficiale
tedesco lasciò tuttavia intravedere la possibilità di un’attenuazione delle condizioni,almeno per
quanto concerneva i tempi e le forme meno accettabili per la consegna delle armi.
L’opinione prevalente degli storici e dei memorialisti è orientata a ritenere che il generale
Gandin,proprio per le sue particolari esperienze di stato maggiore e conoscenze del mondo militare
tedesco,si fosse convinto che la sua divisione non poteva attendersi aiuto esterno e che,una volta
sopraffatto il piccolo contingente avversario già sull’isola,sarebbe stato difficile resistere all’offesa
aerea e ad un ritorno in forze.
Quella scelta dal comando di armata si presentava quindi come una soluzione obbligata; il problema
era farla accettare ai propri uomini,ed eliminare gli aspetti di essa che palesemente contrastavano
con i principi dell’onore militare.
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Il generale decise quindi di continuare a trattare ,per prender tempo,nella speranza che gli sviluppi
della situazione,rapidissimi ed imprevedibili in quei giorni,gli offrissero una via d’uscita.
Lo stato d’animo della guarnigione italiana andava intanto peggiorando progressivamente,mentre si
diffondeva la sensazione che il comandante della divisione intendesse consegnare i propri uomini ai
tedeschi,rinunciando in partenza ad una difesa che un esame superficiale dei rapporti di forza –
undicimila uomini contro 1800 – faceva ritenere possibile,almeno fino a quando gli anglo-
americani non si fossero decisi ad intervenire.
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Alcuni giovani ufficiali,tra i quali due comandanti di batteria del 33°,il tenente Renzo Apollonio ed
il capitano Amos Pampaloni, si impegnarono a galvanizzare i soldati incitandoli alla resistenza,ed i
loro posti comando divennero meta di diecine di uomini,compresi carabinieri e finanzieri.
Apollonio prese anche contatto con i partigiani greci,i quali badarono bene a tenersi estranei al
conflitto italo-tedesco,preoccupandosi piuttosto di raccogliere quante armi e munizioni fosse
possibile.
La tensione aumentò quando si apprese che i tedeschi avevano disarmato ed allontanato i
distaccamenti dei Carabinieri e della Guardia di finanza nella parte nord-occidentale dell’isola,sotto
il loro controllo.
Il mattino dell’11 settembre il tenente colonnello Barge comunicò che il comando germanico
acconsentiva ad un temperamento delle modalità di disarmo,ma chiedeva che la divisione si
concentrasse in una piana al centro dell’isola e cedesse le postazioni della difesa costiera. Veniva
poi posta agli Italiani una triplice alternativa:schierarsi con i vecchi alleati,combattere contro di
loro,cedere le armi; la risposta doveva esser data entro le 19.
Gandin compì a quel punto un gesto che parve insolito,la convocazione dei sette cappellani militari
presenti sull’isola,i quali,come era logico attendersi,si espressero a favore della resa. Con ogni
probabilità non si trattò di una richiesta ,certamente discutibile,di parere circa le decisioni da
prendere,ma di un sondaggio doveroso sullo stato d’animo dei soldati,al quale conferì rilevanza il
fatto che le prime testimonianze sugli avvenimenti di Cefalonia furono dovute a due cappellani,don
Romualdo Formato,del 33° artiglieria,e don Luigi Ghilardini,del 37° ospedale da campo.
Alle 18 il generale chiamò a rapporto i comandanti di corpo,i quali si espressero tutti a favore
dell’accettazione delle condizioni di disarmo ad eccezione del colonnello Romagnoli,comandante
del 33° artiglieria, e del capitano di fregata Mastrangelo.
Nel campo tedesco,intanto,i comandi operativi erano pressati dalle sollecitazioni