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1 FILOSOFIA POLITICA E CRITICA SOCIALE Introduzione Michael Walzer, filosofo ebreo americano sostiene la partecipazione dell’intellettuale alla discussione pubblica. I libri del terzo modulo si rispecchiano vicendevolmente: il primo dà delle tesi filosofiche, il secondo delle esemplificazioni pratiche su cosa vuol dire essere critico. Con Socrate e Arendt abbiamo analizzato due posizionamenti della filosofia: 1) una posizione è quella di Socrate che sta al livello, all’altezza delle opinioni plurali, sta in mezzo alle doxai; 2) l’altra è il posizionamento platonico di uscire dalla caverna per poi ritornare con un atteggiamento autoritario, il filosofo deve esercitare una tirannia sulla moltitudine. Walzer sostiene una tesi secondo cui il filosofo deve abitare la caverna, non può pretendere la posizione di superiorità. Abbiamo il tema del vicino e del lontano, della critica interna ed esterna, della città e della montagna. Connected: una critica intrecciata alle pratiche e alle forme di vita a cui vuole parlare. Da dove si deve partire per criticare? Cosa è la critica? Cosa vuol dire criticare? Vuol dire fare le differenze all’interno di un contesto sottolineando cosa in quel contesto non è tollerabile, giustificabile. Criticare significa tracciare delle linee. In questo senso perché è importante stabilire la distanza? La critica esige la capacità di non essere sommersi dallo stato delle cose. Nella critica vicina c’è il rischio che non ci sia un certo margine di distanza che consenta un giudizio libero. Il rischio dell’essere connessi è il rischio di essere inglobati. A che distanza bisogna stare per offrire una critica efficace e convincente? Questo è il punto. Walzer sostiene la tesi di una critica interna o connessa Il critico, per lui, non è un piantagrane. La posizione del critico non è quella del rivoluzionario perché per quest’ultimo lo status quo è tutto da buttare, il rivoluzionario non divide, non separa come fa invece il critico. Sullo sfondo c’è la contrapposizione di due tesi: 1) la tesi del critico esterno, estraneo; in questo caso si parla di giudice imperiale in visita in una colonia, costui è staccato emotivamente dal contesto; 2) la tesi del critico connesso; in questo caso si parla di giudice locale. La posizione del critico connesso è ambiguo, la connessione è ambigua. Walzer mette in discussione due miti: a) mito della teoria: l’idea, cioè, che il compito della critica sia fare astrazione creando un linguaggio critico che possa essere utilizzato trasversalmente a contesti diversi. Elementi importanti del mito della teoria sono: - l’astrazione; - il trasversalismo
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Sep 12, 2019

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FILOSOFIA POLITICA E CRITICA SOCIALE

Introduzione Michael Walzer, filosofo ebreo americano sostiene la partecipazione dell’intellettuale alla discussione pubblica. I libri del terzo modulo si rispecchiano vicendevolmente: il primo dà delle tesi filosofiche, il secondo delle esemplificazioni pratiche su cosa vuol dire essere critico. Con Socrate e Arendt abbiamo analizzato due posizionamenti della filosofia: 1) una posizione è quella di Socrate che sta al livello, all’altezza delle opinioni plurali, sta in mezzo alle doxai; 2) l’altra è il posizionamento platonico di uscire dalla caverna per poi ritornare con un atteggiamento autoritario, il filosofo deve esercitare una tirannia sulla moltitudine. Walzer sostiene una tesi secondo cui il filosofo deve abitare la caverna, non può pretendere la posizione di superiorità. Abbiamo il tema del vicino e del lontano, della critica interna ed esterna, della città e della montagna. Connected: una critica intrecciata alle pratiche e alle forme di vita a cui vuole parlare.

Da dove si deve partire per criticare? Cosa è la critica? Cosa vuol dire criticare? Vuol dire fare le differenze all’interno di un contesto sottolineando cosa in quel contesto non è tollerabile, giustificabile. Criticare significa tracciare delle linee. In questo senso perché è importante stabilire la distanza? La critica esige la capacità di non essere sommersi dallo stato delle cose. Nella critica vicina c’è il rischio che non ci sia un certo margine di distanza che consenta un giudizio libero. Il rischio dell’essere connessi è il rischio di essere inglobati. A che distanza bisogna stare per offrire una critica efficace e convincente? Questo è il punto. Walzer sostiene la tesi di una critica interna o connessa Il critico, per lui, non è un piantagrane. La posizione del critico non è quella del rivoluzionario perché per quest’ultimo lo status quo è tutto da buttare, il rivoluzionario non divide, non separa come fa invece il critico. Sullo sfondo c’è la contrapposizione di due tesi:

1) la tesi del critico esterno, estraneo; in questo caso si parla di giudice imperiale in visita in una colonia, costui è staccato emotivamente dal contesto;

2) la tesi del critico connesso; in questo caso si parla di giudice locale. La posizione del critico connesso è ambiguo, la connessione è ambigua. Walzer mette in discussione due miti: a) mito della teoria: l’idea, cioè, che il compito della critica sia fare astrazione creando un linguaggio critico che possa essere utilizzato trasversalmente a contesti diversi. Elementi importanti del mito della teoria sono:

- l’astrazione; - il trasversalismo

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Fare astrazione vuol dire prendere le distanze allontanandomi e così facendo perdo le particolarità, i dettagli. Così facendo lo scopo della critica è fornire delle prescrizioni che possono essere utili ad ambiti diversi in maniera trasversale. In questa causa la critica è neutrale rispetto a caratteristiche specifiche di contesti diversi. b) mito eroico: attribuisce al critico una statura eroica che è capace di un pensiero alienato, estraniato. Qui c’è l’idea di un immagine titanica del critico che non vuol legami, vincoli, appartenenze, è un outsider radicale. Questi due miti insieme hanno favorito nella cultura occidentale lo stereotipo di un critico non connesso che si assume il compito di rifare il mondo.

Walzer è diffidente verso questa prospettiva perché la ritiene fallimentare sia nella comprensione sia nel giudizio che tale prospettiva mette in pratica, perché certi critici marxisti e stalinisti sono diventati complici dei regimi totalitari proprio perché bisognava ricominciare da capo, bisognava formare un uomo nuovo.

Il modo in cui il critico connesso comunica ai suoi cittadini, in mezzo a loro e non fuori dove trova giustificazione? Walzer come fa a distinguere tesi contrapposte di critici connessi? A parità di connessione come faccio a sapere chi ha ragione? Cosa succede nei casi in cui la forma di vita di cui sono membro e a cui parlo contiene pratiche accettate dalla maggioranza ma ad un esame critico appaiono ingiuste? Come fa un critico connesso a smentire le pratiche diffuse? Il critico ha bisogno di pescare fuori perché lì non c’è quello che gli serve. Riuscirà una critica connessa a non rimanere impigliata dai valori più diffusi, dalle pratiche maggioritarie? Walzer concentra la sua attenzione nel tentativo di mostrare le debolezze del modello rivale, sullo smontaggio del modello rivale. È possibile costruire una critica efficace e convincente con materiale preso dentro nel solo contesto da criticare? Per Walzer il profeta è nella cultura ebraica una figura che rappresenta la figura del critico. Nel primo capitolo del libro “Interpretazione e critica sociale” Walzer mette in contrapposizione due figure di critici: quello esterno e quello interno. Le debolezze della critica esterna sono:

- non sa di cosa parla; - non riesce a parlare ai membri del gruppo ma a coloro che hanno già percorso

una strada che li ha portati al distanziamento. Gli obiettivi della critica interna è quella di toccare invece coloro che sono acritici che non hanno percorso una strada di distanziamento. Il compito del critico è quello di parlare a coloro i quali nessuno ha parlato usando un linguaggio comune perché bisogna partire da premesse condivise per arrivare a conclusioni diverse. Il percorso della critica connessa è lo stesso di quello socratico: ciò che siamo stati → ciò che siamo → ciò che dovremmo essere. Il critico è qualcuno che crea divisioni, resta il problema di fino dove questa divisione può arrivare, il critico non vuole distruggere lo status quo. Il critico distaccato è qualcuno che si chiama fuori dal contesto, non ha un radicamento e quindi è più facilmente incline ad una argomentazione utopica. Non tiene conto delle attività e

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delle contingenze. Il critico connesso è qualcuno che cerca il meglio a disposizione oppure il meno peggio, è un lavoro più attento al dettaglio, più suscettibile all’attrito e alle contingenze. Non c’è mai una soluzione senza costi.

Cosa ci vuole al posto della teoria per il critico? La risposta di Walzer è che il critico ha bisogno di una sensibilità morale. Sensibilità significa essere ricettivi nel contesto in cui siamo immersi, la sensibilità è un modo per catturare fatti rilevanti facendo riferimento a dettagli contestuali.

Nell’idea di radicamento è implicito l’idea di coinvolgimento del critico, c’è calore, laddove nel mito della teoria c’è freddezza e astrattezza. In Walzer possiamo dire che c’è una preponderanza del comprendere e una mancanza del giudicare, è un trade-off tra comprensione e giudizio. Una forma di vita sono abitudini, consuetudini è l’insieme dei giochi linguistici che tengono insieme. Walzer tende a mettere in discussione il paternalismo della critica esterna (paternalismo: compito genitoriale del critico nel senso che parla con individui che non sono adatti a pensare da sé, non sono in grado di badare a sé stessi).

Walzer dà una interpretazione estremizzata del modello rivale per colpirlo. In Walzer non c’è sofisticazione filosofica, c’è invece molta attenzione alla forma di vita in cui donne e uomini sono immersi. Il punto è non soltanto da dove si parte per criticare ma anche dove ci si ferma. Si parte da dove siamo, qui e ora, il problema è dove ci si ferma, quanto ci si deve allontanare. Il disaccordo sulla risposta riguarda la possibilità di trovare indicazioni critiche che permettono di giudicare contesti diversi. Più schiacciamo il pedale della critica connessa meno siamo in grado di dare prescrizioni trasversali. Interpretazione e critica sociale La questione della critica è una questione vecchia come il mondo, da quando esiste il mondo esiste la critica. Per Walzer non potrebbero esistere società umane senza che esista una riflessione critica delle pratiche umane condivise. La critica è un momento di riflessione ponderata, è un momento valutativo in cui si cerca di avanzare punti di vista per rifiutare e/o accettare modalità di vita condivisa. L’onorevole compagnia dei critici esiste da tempo memorabile. I primi sono i profeti biblici, si continua con Socrate, per proseguire con la cultura romana e il medioevo, si passa per il Rinascimento per arrivare alla società moderna. L’attività critica vive insieme alle società umane. Anche nella raccolta sulla compagnia dei critici, Walzer contrappone figure di intellettuali diversi da quelli dominanti del ‘900. L’immagine dominante del critico del ‘900 è quella di una figura alienata ed estraniata dalle pratiche condivise che è rappresentata dai pensatori marxisti. Gli intellettuali connessi che Walzer sceglie sono più o meno lontani da questa immagine di intellettuale. Questo interesse, questa ricerca della connessione (connected) è dovuto:

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- al fatto che l’intelletuale deve posizionarsi all’altezza, all’interno della comunità a cui vuole parlare, il critico estraneo parla invece ai suoi colleghi o a chi si è già allontanato ma non alla moltitudine;

- all’idea del familiare, dell’ambiente in cui si vive; Walzer vuole sottolineare la sofferenza del distacco dall’ambito che ci è familiare.

La distanza è sempre un movimento faticoso e costoso per il soggetto che la compie, per Walzer si può fare questo salto quando siamo sostenuti da un’ideologia. Se non ci sono posizioni ideologiche il distacco è difficile. Per Walzer il critico inizia sempre da dove si trova, quindi qui e ora. Walzer si posiziona sulla filsofia mondana, questo vale per la parte critica della teoria di Walzer. Per Walzer restare nella caverna, nella città significa interpretare per i nostri cittadini il mondo di significati che abbiamo in comune. Interpretare e le parole con cui sono messe in tensione: § scoperta; § invenzione; § interpretazione. Una filosofia della caverna come Walzer la propone è una filosofia interpretativa, per Walzer la filosofia non è scoperta e non è invenzione. Quelli che Walzer chiama tre sentieri di filosofia morale: - scoperta: parla di casi in cui il critico è qualcuno che riceve da Dio la parola, come Mosè. In un certo senso i dieci comandamenti sono dei doni che Mosè porta alla sua comunità, da un fuori a un dentro. - invenzione: è l’attitudine che hanno queste filosofie che costruiscono critiche esterne in grado di sollecitare i membri di una cultura un atteggiamento distaccato, è la capacità di guardare la realtà con altri occhi, reinventiamo ciò che ci è familiare. La capacità della critica coinvolta è l’interpretazione perché in questa io non devo posizionarmi come un outsider, non devo distaccarmi da principi e pensieri condivisi da una forma di vita; quindi dovrò essere un conoscitore profondo di quei linguaggi che devo interpretare in modo che i miei concittadini siano coabitanti di un mondo comune. Il lavoro del critico connesso è un lavoro di interpretazione in modo che vengano alla luce tutti i significati che una parola può avere. Il critico come interprete di un linguaggio condiviso. Il critico in un certo senso lavora nel portare alla luce il significato delle parole che usiamo. Questo lavoro del critico connesso, nel portare alla luce significati latenti, può portare alla luce critiche e problemi irrisolti. Walzer parla di fedeltà del critico al mondo comune dei significati condivisi. Se sui significati condivisi ci sono disaccordi, questo mantiene in sospensione il critico connesso; dobbiamo far una interpretazione. Essere fedele a significati condivisi in alcuni casi deve significare scegliere. Il critico connesso deve saper scegliere altrimenti non è critico, nel scegliere il critico deve guardare le differenti prospettive sulla questione.

Per Walzer è importante il rapporto tra critica e appartenenza. Per Walzer il lavoro interpretativo del critico consiste nell’andare a misurare la distanza tra le promesse che la città ha fatto e quelle che ha mantenuto. Il critico lavora in questa

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forbice fra promesse e realizzazioni pratiche e quindi il critico deve essere un profondo conoscitore del tessuto in cui vive e critica. Il problema è mettersi d’accordo sul significato delle parole perché ognuno ad una parola può dare il suo contenuto. L’oggetto America è un oggetto intrinsecamente conflittuale. Il critico non gode di nessuna legittimità particolare, può ottenerla se riesce a farsi ascoltare dalla moltitudine. L’idea di dotare la critica di una autorevolezza superiore è impensabile; il critico dice la sua, se passa entra nella discussione altrimenti va a casa, in questo senso è una filosofia antiplatonica. C’è una inimicizia tra la filosofia come tirannia e vita politica democratica.

Cosa può tutelare la critica connessa dal rischio di populismo? Da una parte la moltitudine agisce a casaccio ma dall’altro la filosofia mondana deve parlare ad essa. È possibile attraverso il discorso pubblico trasformare il gregge in moltitudine di pluralità? Bisogna saltare la moltitudine per arrivare ad un uditorio democratico. Il critico connesso di Walzer ha il compito di costruire un uditorio democratico di fronte al quale il critico parla. Il lavoro del critico connesso è quello di tessere un mondo di significati condivisi: il critico da l’inizio ma poi sono i cittadini nell’uditorio democratico che proseguono il discorso. Allo stesso modo di un avvocato che difende o accusa in tribunale, così il critico connesso difende o critica di fronte all’uditorio democratico le varie tesi. Le pratiche sono quelle che fanno appello al senso comune di una forma di vita condivisa e bisogna cercare di vivificare questi significati. Senso comune è una sorta di senso di orientamento nel mondo che condividiamo con gli altri. Devo posizionarmi e attivare criticamente ciò che il senso comune sollecita dentro di noi. Il modello della conversione è quello dell’intellettuale distaccato e non connesso, il filosofo distaccato è colui che vuole convertire le persone e i mondi. Il modello del critico connesso non è la conversione ma la persuasione, esercitare una critica interpretativa (o connessa) significa lavorare in uno spazio che rifiuta di evadere dai luoghi comuni (nel senso ampio del termine, luoghi che ci sono familiari). Il critico connesso vuole criticare per rendere più abitabile il luogo familiare, per abitarli più coerentemente. In questo senso il critico connesso lavora anche tra interpretazione e auto-interpretazione (forma di comunità di per se stessa). L’auto-interpretazione è apologetica, auto-assolutoria, tende a giustificare le scelte compiute. La via della scoperta è la via delle religioni rivelate. Le implicazioni della scoperta sono quelle che ci dicono qualcosa che non sappiamo del nostro mondo e visto il carattere religioso della scoperta qualcosa che non avremmo potuto conoscere da soli. Tutte le teorie filosofiche che fanno riferimento al “nessun luogo” hanno l’ambizione di un punto di vista del tutto estraneo, esterno. Secondo Walzer le scoperte secolari ci dicono quello che c’è già, non fanno che vedere con occhi differenti quello che già c’è. Le obiezioni polemiche vanno al sentiero dell’invenzione. Questo sentiero non ha ambizioni radicali come la scoperta, ci chiede di ragionare come se fossimo autori del mondo in cui viviamo, ci sono degli artefatti, siamo noi che abbiamo fatto la storia. Walzer quando parla del sentiero dell’invenzione parla dell’illuminismo, gli

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umani smettono di vedere la loro vita come destino e iniziano a vederla come insieme di regole positive, punti di vista rifatti nel tempo. Nella filosofia politica contemporanea, soprattutto di lingua inglese, l’approccio inventivo è stato di lunga dominante. È stata dominante l’idea di costruire teorie che esaltassero la capacità umana di lasciare la loro impronta sul mondo. Due figure che più hanno condizionato la discussione pubblica e che hanno un’impronta inventiva: Rawls e Habermas.

Dobbiamo porre attenzione su una coppia di concetti elaborata da Hegel e ripresa da Walzer, cioè la coppia moralità-eticità: moralità, può essere un sistema di regole formali che possono essere considerate trasversali rispetto a concetti diversi, regole che orientano il nostro comportamento; eticità, è la densità di una forma di vita, delle sue prescrizioni, è il senso comune di quella comunità. Per Walzer non si può compiere artificialismo nei confronti dell’eticità, non si può sottoporre a verifica razionale i comportamenti irriflessi. Nel caso di Walzer il riferimento all’eticità gioca un ruolo decisivo nel rifiuto di una filosofia inventiva. Per un critico l’eticità della forma di vita di cui sta parlando è una forma ineludibile. Per rispondere alle domande un filosofo si deve radicare nel contesto in cui vive e critica, le risposte del filosofo non devono essere estraniate dal contesto ma radicate. Il rifiuto dell’invenzione è motivato dal fatto che la moralità per Walzer è un dato dal quale partire e non può essere considerato un esito. Occorre estrarre le risposte che il contesto ti offre. I filosofi inventivi fanno uso di esperimenti mentali (sono delle immagini virtuali dalle quali si possono dedurre conclusioni). Idea di Rawls: che giustizia sceglierebbero individui, che non sono né puri altruisti né puri egoisti, per distribuire beni in condizioni di scarsità moderata? Che principi sceglierebbero questi individui? Gli individui dovrebbero immaginare di porsi sotto un velo di ignoranza; dobbiamo scegliere non sapendo chi siamo, e soprattutto facendo finta di non conoscere le differenze che fanno differenza tra noi. Questo esperimento mentale serve a garantire a tutti e non solo alla mia categoria di appartenenza imparzialità, è un modo per garantire l’imparzialità prodotto da un’analisi specifica che riguarda il fatto che ciascuno di noi riceve in sorte un sociale (ricchezza, ecc.) naturale (bellezza, salute). Questa casualità nel nascere è giusta o ingiusta? Non possiamo dire che il caso è giusto o ingiusto. Il problema rispetto al quale fare qualcosa è il modo in cui una società tratta i casi casuali: se una società politica cerca di livellare le disparità casuali è giusta altrimenti no. Walzer risponde a questo progetto con l’esempio delle case e delle stanze dell’albergo (lettura pag. 31-32 di Interpretazione… “Uomini e donne… migliore” poi “Poiché… affezione”). Qui vediamo che cosa Walzer avrebbe da obiettare sulla storia inventiva. La casa è metafora della densità della forma di vita che vogliamo abitare. La contrapposizione tra casa e albergo è la contrapposizione tra una morale assunta come dato. La condizione dello sradicamento è una condizione cruciale del XX secolo, Walzer non

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ignora questo fatto ma crede che anche gli apolidi vogliano vivere in un contesto, crede che tutti vogliano essere immersi in una forma di vita. Il critico connesso ha casa nella forma di vita che abita. I tre sentieri della filosofia morale possono essere parificati ai tre tipi di poteri: - scoperta corrisponde l’esecutivo; - invenzione corrisponde il legislativo; - interpretazione corrisponde il giudiziario. La critica sociale deve agire come il sistema giudiziario che è un sistema interpretativo. Ormai per l’esecutivo e il legislativo non c’è più spazio, solo per il giudiziario c’è spazio perché lavoro interpretativo. La tesi dell’interpretazione è questa: non è necessaria la scoperta e l’invenzione perché noi abbiamo già ciò che ci serve, il nostro repertorio morale è assicurato, quello che dobbiamo fare è lavorare d’interpretazione. La filosofia solitaria non connettiva lavora in senso verticale, la filosofia connessa lavora in profondità, scava dentro. Quando diciamo che la morale è un dato è perché pensiamo che ci siano differenti contesti e il critico come deve comportarsi? Il critico che risposta deve dare su cosa sia giusto o ingiusto? Walzer risponde che noi possiamo distinguere due prescrizioni: - thin (sottile), i criteri thin sono quelli che definiscono un codice morale minimo

trasversale a contesti diversi, sono norme basiche, tipo non uccidere; - thick (denso, spesse), i criteri thick, tipo la giustizia, per Walzer sono impossibili

da definire in maniera trasversale alle diverse forme di vita; una teoria adatta all’India può non essere una teoria adatta agli Stati Uniti.

L’idea di Walzer è che da una morale thin non possiamo dedurre implicazioni più ampie. La distinzione tra thin e thick è una distinzione non ben definita e confinata. Walzer è stato accusato di una posizione relativistica (= ognuno a suo modo, non è possibile giudicare alcune cose fuori dal contesto in cui viviamo). Se noi siamo legittimati a intervenire in contesti trasversali come facciamo a giustificare l’intervento? Come facciamo a definire il campo d’azione di thin e thick? Una posizione relativistica ritiene che forme di vita sono incommensurabili, la posizione di Walzer introduce una incommensurabilità relativa tra le diverse forme di vita.

Chi è il critico? Il critico è qualcuno che ha il dono speciale dell’interpretazione morale. La critica sociale non è soltanto critica della società ma è in se stessa una attività socievole. Quando il nostro paese si comporta male è sempre il nostro paese. Il critico è distaccato ma non è marginale e non bisogna pensare che la critica sia un’attività negativa. Walzer sottolinea gli aspetti costruttivi. Il critico non deve mai mettersi contro la sua comunità (vedi saggio di Camus sulla guerra d’Algeria: “Non sopportavo più i miei cittadini… si ha una tara”). Cosa succede ai critici in quel momento? Quello di Camus verso i suoi concittadini è l’atteggiamento di qualcuno che alza un muro contro la sua comunità e si estranea. Mettersi contro significa assumere posizioni auto-referenziali e parlare ai colleghi e non alla moltitudine.

In società come le nostre la critica è una critica immanente (non astratta) che viene dall’interno e dal profondo. Questo non significa che deve essere una pratica

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tiepida, anzi, è molto radicale perché per un verso il critico connesso è in grado di smascherare tutte le apologie dello status quo e dall’altro il critico sociale può opporsi alle maggioranze o ideologie prevalenti, nessuno lo può accusare di non sapere di cosa sta parlando. I critici non connessi sono classificati da Walzer come rifacitori di mondi. Qual è il punto da cui partire se si vuole far critica? Interpretare o trasformare? Distinzione tra moralità sottile e moralità spessa Walzer usa la coppia di concetti hegeliana per contestare l’approccio inventivo. Per moralità Hegel intende un insieme di regole normative mentre per eticità Hegel intende la moralità consuetudinaria, i costumi abituali che generano comportamenti irriflessi e incondizionati. L’ambito della moralità è il campo della scoperta e dell’inventiva, l’ambito dell’eticità è il campo dell’interpretazione. Per Walzer l’eticità svolge un ruolo determinante. Se noi siamo animali immersi in contesti diversi, la distinzione tra moralità spessa e moralità sottile serve ad appianare alcune perplessità. Questa distinzione serve per collocare la moralità e l’eticità, il thin e il thick. Per chiarire questa distinzione Walzer parte da un esempio: da una manifestazione nelle vie di Praga con dei cartelli con scritto “verità o giustizia”; Walzer capì il significato di quei cartelli e come lui ciascuno poteva riconoscere i valori che i dimostranti stavano difendendo. Che cosa ha reso possibile il capire, il significato? La condivisione di qualcosa anche se possono esserci delle culture e regimi diversi. Che cosa accomuna Walzer e i dimostranti di Praga? L’idea che quelle persone volevano la verità dai loro leaders politici, volevano giustizia. Essi stavano manifestando a favore non di una particolare giustizia o verità, in quel caso giustizia voleva dire fine degli arresti arbitrari, uguaglianza innanzi alla legge. Un’idea, quindi, comune ed elementare, è questa la moralità sottile della giustizia. Nell’idea di moralità sottile c’è un’idea universalistica (che contiene un’opzione antitirannica); nell’idea di moralità spessa c’è un’idea particolaristica. Un altro modo di esprimere la giustizia è quello interno che è spesso, è interno al solo stato. Secondo Walzer i significati minimi sono incorporati nella moralità spessa dei contesti. Se non ci fosse una comprensione non si riuscirebbe a capire. Per i manifestanti di Praga le parole giustizia e verità hanno anche altri significati che noi da fuori non riusciamo a capire. Se i manifestanti avessero discusso su argomenti interni al loro paese avrebbero cessato di essere universalistici, avrebbero combattuto ciò che è meglio per loro. L’ideale di giustizia è universalistico, qualsiasi società umana concepisce l’idea di giustizia ma se si contestualizza questo ideale il suo perseguimento può creare disaccordo. Il fatto che si parli di una moralità minima non significa che si tratti di una moralità minore o più povera, per Walzer si tratta della moralità più importante. Noi diamo alle parole verità e giustizia significati aggiuntivi, noi diamo a quelle parole dei significati influenzati dalla nostra cultura.

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Dal punto di vista della moralità sottile è possibile essere in accordo sul significato di certe parole ma è nella moralità spessa che possono creare dei conflitti, cioè tutti sono d’accordo con certi valori ma poi nella realizzazione concreta di questi valori o la loro importanza possono sorgere dei problemi, dei conflitti. Quando guardiamo una manifestazione in un certo senso marciamo con quei popoli in difficoltà ma contemporaneamente facciamo le nostre manifestazioni, questo fa cogliere la nostra duplicità come cittadini di un contesto e spettatori del mondo. Questo dualismo si adatta al carattere della società umana, universale perché è umana e particolare, perché è una società. Noi siamo esseri fatti per avere una comprensione generale e una comprensione specifica, locale. Le società sono particolari perché hanno membri che hanno memorie della loro vita in comune, al contrario l’umanità è fatta di persone che non hanno una storia, una cultura, una consuetudine in comune. Non c’è un modo umano singolare di pensare a questioni interne ai contesti. L’errore dell’approccio inventivo è quello di giocare tutto sul piano dell’umanità che cancella il nostro dualismo. Per Walzer bisogna mettere ordine ai valori umani in base al contesto, bisogna rendere giustizia al contesto in cui ordinare i valori: libertà, tolleranza, giustizia, pace uguaglianza, ecc.) Il minimalismo morale è valido per diverse forme di vita. Il minimalismo morale sarà costretto nell’orientamento di una moralità condivisa in un pezzo di mondo, non c’è un linguaggio morale neutro ma trasversale. Il contenuto della moralità sottile è spesso un contenuto negativo: “no a”, “non fare questo”; il suo contenuto sono “regole contro”. È probabile che persone simili esprimeranno questo linguaggio nel linguaggio dei diritti che appartiene alla moralità spessa degli occidentali. Il linguaggio dei diritti è traducibile. Walzer dice che una moralità in cui noi non potessimo parlare a nome delle sofferenze di altri popoli, una moralità così sarebbe una morale che non ci serve a niente. In questo senso il minimalismo morale consente una critica esterna. Attraverso thin Walzer dice che possiamo visitare e criticare contesti diversi dal nostro in nome di una moralità sottile. Il minimalismo morale non è una moralità neutra perché per Walzer indica semplicemente delle forme ripetute e rintracciabile in contesti diversi di moralità spessa. Due punti:

1) il minimalismo morale non è inventivo ma interpretativo; 2) bisogna neutralizzare l’idea che l’universalismo della moralità sottile sia un

moralismo prodotto filosoficamente. Quando utilizziamo il linguaggio dei diritti non lo facciamo derivare da una cultura filosofica perché siamo stati addestrati a certi vocaboli. Il minimalismo morale ci permette di unirci ai manifestanti di Praga, ma le applicazioni del concetto di essere contro la tirannia fanno parte della moralità spessa.

L’impresa critica per Walzer è portata avanti nei termini di una moralità spessa e la speranza secondo cui il minimalismo possa alimentare critiche da solo è una speranza vana e non può sostenere una dottrina universale. La moralità minima

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(sottile) serve a spiegare come ci troviamo insieme e perché ci separiamo e abbiamo bisogno di tornare nella moralità spessa delle nostre case. Quello che Walzer ci dice è che in un pezzo di mondo è considerato universalistico quello che diverse moralità spesse hanno in comune.

L’inventivo è colui che fa una guerra in Afghanistan per togliere il burqa alle donne. Invece gli inventivi hanno paura dei contesti particolari perché più peso diamo al particolarismo, alla moralità spessa meno strumenti critici abbiamo per intervenire universalmente (Più peso diamo al particolarismo maggiori strumenti critici abbiamo per intervenire). Walzer cerca di rispondere alla domanda di quali siano i margini valutativi di manovra della critica. Nel momento in cui dividiamo il compito del critico tra thin e thick, l’idea di Walzer è che quando siamo in thin abbiamo una versione più inclusiva di contesti diversi rispetto a quando siamo in thick.

Intervento militare e uso della forza Abbiamo trattato nella lezione precedente le questioni che relative alla moralità spessa e moralità sottile o tra massimalismo e minimalismo morale così come le vede Walzer, ci sono rimaste fuori alcune questioni che vedremo in queste lezioni. In particolare noi abbiamo parlato la scorsa volta del tipo di attitudine che abbiamo nel momento in cui assistiamo a delle manifestazioni di altri popoli che rivendicano valori molto generali. Ci sono dei casi in cui non si tratta solamente di marciare idealmente a fianco di queste persone che manifestano e che magari sono oppressi ma anche di combattere al loro fianco. È un argomento che Walzer ha sempre trattato nel suo lavoro, non si è mai astenuto dal trattare questo tema scrivendo tra l’altro anche un libro: Guerre giuste e guerre ingiuste. La tesi di Walzer, in generale, è che coloro che condividono una morale minimalista non dovrebbero essere ansiosi di intervenire in altri contesti. Dall’altra parte questo è anche giustificato dal fatto che regole morali che possiamo descrivere in termini minimalistici, cioè in termini sottili non sempre autorizzano l’uso della forza in altri contesti.

Se Secondo Walzer quello su cui tutti noi siamo chiamati ad esprimerci, come critici potenziali ordinari, è su quello che lui chiama la giustezza di un intervento. In ogni caso quando ci pronunciamo sulla giustezza di un intervento i valori minimali effettivi cui possiamo fare riferimento sono quelli espressi dal codice morale come la vita o la libertà: tendenzialmente se sono in corso pratiche di genocidio, pratiche di massacro, o pratiche sistematiche di asservimento di gruppi di persone noi assumiamo in questi casi che la gente voglia essere aiutata. Se ci sono ragioni contrarie ad un intervento queste ragioni, ricorda Walzer, non comprendono certamente l’idea che le persone vogliano essere torturate o massacrate. È vero che questo può creare dei problemi perché le pratiche che noi non riteniamo oppressive non sono considerate tali in tutti i contesti e quindi in questo caso quello che noi vogliamo fare è offrire un’immagine della nostra moralità minima che però difficilmente può passare o arrivare attraverso l’intervento militare.

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Quando Walzer pone il problema di offrire un’immagine della nostra moralità minimale o sottile sta ponendo un problema che riguarda tutta quella discussione che va sotto l’etichetta di “esportazione della democrazia”. In questo senso la tesi di Walzer sarebbe che la democrazia è meglio esportarla per contagio e che attraverso l’uso della forza. Esportare la democrazia per contagio significa esporre altre persone all’immagine della nostra moralità minima e dunque diffondere informazione, cultura istituzionale, storie, narrazioni, arrivare a toccare persone che vivono in contesti che la nostra moralità minimale ci fa percepire come ingiusti e intollerabili; quindi, attraverso quella che può essere considerata la diffusione di una cultura: l’uso della radio, dei giornali ovviamente nelle lingue in questioni. Questo è fondamentale perché possiamo pensare che in ciascuno di questi paesi esistono delle minoranze che già sono attivate contro i regimi in questione e che hanno bisogno di un supporto informativo, generalmente di un sostegno esterno che faciliti il contagio e la diffusione delle idee antitiranniche e questo vuol dire offrire un’immagine della nostra moralità minimale.

Ci sono poi dei casi in cui alla fine in cui il ricorso alla forza può sembrare inevitabile. Per chiarire il suo pensiero, Walzer fa un esempio: l’esempio riguarda il nostro comportamento che dobbiamo tenere se improvvisamente ci trovassimo al cospetto di una persona che sta per suicidarsi. Questo esempio dice: useremmo la forza per fermare una persona che sta suicidandosi senza sapere in anticipo chi è o da dove viene? Cioè senza sapere quali sono i suoi valori di riferimento? Perché dico senza sapere chi è e da dove viene? Perché forse questa persona ha delle buone ragioni per suicidarsi, forse le sue buone ragioni per suicidarsi vengono da una moralità interna alla quale aderisce, da una moralità diffusa nella società in cui vive. Nonostante ciò, dice Walzer, siccome la vita non è un valore relativo ma è un valore trasversale o minimale in tutte le forme della vita umana, difendere la vita è un atto di solidarietà. Allora, se noi non rinunceremmo ad impedire a una persona di suicidarsi in nome del rispetto delle sue ragioni morali specifiche (culturali, religiose) possiamo: 1°) sicuramente indicare la cultura morale che alimenta quelle ragioni; 2°) anche intervenire con la forza per impedirglielo. Che spazio ha la critica interna o immanente? Come può evitare i rischi dell’apologetica (apologetica = difesa dello status quo)? Secondo Walzer possiamo arrivare a capire meglio che cosa s’intende per critica interna o immanente e quindi per critica interpretativa se facciamo delle analogie con la nostra vita privata e personale. Ci capita qualche volta di accusare i nostri amici e colleghi di venire meno a principi che noi e loro dichiariamo di onorare. Quando noi facciamo a un amico parente o collega questo tipo di rimprovero, che cosa gli stiamo dicendo sostanzialmente? Li stiamo misurando con gli ideali che dicono di avere, c’è una misurazione sugli ideali di una persona. Per Walzer il critico è impegnato nello stesso tipo di attività, il critico vuole mostrarci come veramente siamo, il critico vuole farci guardare allo specchio. In questo senso Walzer parla dello specchio di Amleto. Lo specchio di Amleto, dice Walzer, è il più potente degli strumenti critici.

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Il ricorso alla metafora dello specchio è potente perché i membri di una società e specialmente i suoi governanti hanno bisogno di credere che le loro pratiche, politiche e istituzionali, siano giuste. Gli abitanti e i governanti di una forma di vita, sostiene Walzer, raccontano bugie non solo agli altri ma anche a se stessi e quindi la critica serve a smontare false auto-rappresentazioni. Abitanti e governanti di una forma di vita hanno quindi bisogno di auto-giustificarsi.

Questo è un bisogno presente nelle società umane ben prima della modernità e ben prima della democrazia. Questo dare ragione di se non è connaturato al principio democratico secondo cui si ha legittimità a governare per consenso del popolo. L’esempio che Walzer fa, a tal proposito, riguarda l’antico Egitto e si chiede come mai i faraoni proclamavano sempre nei loro documenti l’impegno a far si che giustizia fosse fatta, che i poveri fossero soccorsi e alimentati adeguatamente, trattati come si deve, ecc. Come mai tutto questo? Perché un faraone egiziano dovrebbe essere preoccupato di questo sapendo che tanto il suo potere non era messo in discussione? I faraoni si comportavano così perché credevano che il loro potere sarebbe stato più sicuro se i sudditi credevano che il faraone governasse con giustizia? Oppure lo facevano perché la loro autostima dipendeva dal fatto di sapere di governare giustamente? Oppure forse era la divinità a richiedere questo? Non ha tanta importanza sapere perché, il problema importante a cui Walzer si riferisce è questo: nel momento in cui il faraone promette che giustizia sarà fatta si apre lo strada della critica, si apre la possibilità di verificare il divario tra promesse fatte e promesse mantenute. La critica lavora sempre quando ci sono promesse e promesse aperte. Supponiamo che in questa forbice aperta dal faraone si faccia avanti un critico, come farà questo critico ad iniziare il suo lavoro? Come farà il critico a compilare un catalogo delle ingiustizie commesse dal faraone nonostante le sue promesse? A che cosa si appellerà? L’idea di Walzer è che se questo critico vuole essere persuasivo, i suoi argomenti critici dovranno in qualche modo legarsi agli argomenti già disponibili e discussi alla forma di vita che vuole criticare. Cosa potrebbe dire lo scriba: tu hai detto che ci vuole la carità del faraone per i poveri, allora io ti dico che per i poveri la carità del faraone non è sufficiente, forse dovremmo pensare a qualcosa di più sistematico e impegnativo, per esempio, una divisione della terra. Cosa ha fatto lo scriba? Si è agganciato alla promessa del faraone e l’ha dilatata mostrando che quel tipo di promessa è inadeguata allo scopo. Agganciarsi e articolare e dunque fare riferimento a vocabolari, sistemi e criteri già presenti.

Facciamo un esempio contemporaneo: come sono arrivati i popoli dell’est europeo a criticare il comunismo? Anche in questo caso, dice Walzer, lo sfondo era costituito da una cultura ideologica pre-esistente. La critica, quando era presente, già pure in una forma sommersa e clandestina prima dell’89 era una critica espressa più che altro in termini religiosi o nazionalistici in circoli abbastanza sommersi o fatta in case private e in maniera clandestina. Nonostante la sua difficoltà, nonostante la sua clandestinità, nonostante il fatto che questa critica non aveva in molti di questi paesi un’organizzazione, si può

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dire che questa critica funzionò per contagio interno. Riuscì questa critica ad operare anche in condizioni di repressione tirannica.

Ma qual è la critica che coloro che amministravano e controllavano il vecchio regime temevano maggiormente? Qual è la critica che li mettevano più in difficoltà? Quella che nasceva dal presunto idealismo interno al sistema, cioè i primi critici del comunismo sono stati dei comunisti dissidenti. Secondo Walzer questi critici operavano chiedendo ai tiranni che rispettassero davvero i valori che dicevano di credere, questo è un esempio di critica interna. Da questo punto di vista la critica alla tirannia comunista poteva avere la nostra solidarietà minimale o minimalista, una solidarietà che però aveva dei limiti ben precisi perché? Perché il programma dei primi dissidenti era un programma comunista, a volte anche leninista, che non poteva essere sostenuto in occidente neanche da chi sosteneva i dissidenti. Questo processo libera la dissidenza dall’ancoraggio al comunismo e comincia a far fiorire delle opzioni molto più diversificate e dunque questi comunisti dissidenti si staccarono progressivamente, radicalmente sempre più dal comunismo avvicinandosi a valori del minimalismo sottile occidentale: libertà, uguaglianza, governo democratico, governo rappresentativo. I documenti politici dell’est inglobano valori minimali delle democrazie occidentali. Che cosa possiamo trarre? Quello che Walzer vuol dire sostanzialmente è che è stata l’esperienza di una dissidenza interna e anche il riconoscimento che una riforma dall’esterno sarebbe stata improbabile a portare i critici interni a quei sistemi a riferirsi a modelli esterni; in sostanza la dissidenza interna si è spostata progressivamente da forma di vita condizionata dagli ideali dominanti a una critica interna sempre meno complice e sempre meno coinvolta nel regime. Sono stati i critici interni ai paesi dell’est a fare riferimento all’ideale minimale della democrazia occidentale. Nei paesi dell’est, quindi, è successo che in un certo senso non è stato il liberalismo ad essere esportato da noi a loro è successo invece che il liberalismo è cresciuto dalla critica al comunismo, è cresciuto lì. Questi esempi servono a Walzer per dire che la critica interna non è una critica compiacente o deferente verso lo status quo, secondo lui ha delle potenzialità sovversive e queste potenzialità sovversive ce le ha proprio perché i critici sociali cominciano da dove si trovano e quindi cercano di dimostrarsi perdenti o vincenti sul loro stesso terreno.

L’idea di Walzer è che le persone che hanno dei dubbi sulla necessita dell’invenzione, sono delle persone che in qualche modo sono nostalgiche della teoria astratta, sono nostalgici di una correzione filosofica delle forma di vita. Ma perché persone di questo tipo sono in errore secondo Walzer? Perché non esiste comunque una teoria astratta e generale che sia applicabile a tutti i contesti, a tutte le forme di vita. Il sogno di coloro che pensano ancora nei termini dell’invenzione sarebbe quello di essere sostituiti da una sorta, come lui lo chiama, di ufficio universale della critica sociale dove un gruppo di funzionari reclutati a livello internazionale applicherebbero gli stessi principi morali a tutti i paesi, a tutte le culture.

In questo senso i nostalgici dell’invenzione sarebbero, secondo Walzer, un po’ come nostalgici della chiesa medioevale o del comintern. Perché? Cosa hanno in

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comune la chiesa medioevale e il comintern? Il piano universale e universalistico. Questa presenza, dice Walzer, deve essere abbandonata.

Attenzione, ci sono delle organizzazioni che possono reclamare questo statuto? Le Nazioni Unite cosa sono? Cosa fanno? Ricoprono un ruolo di valutazione, monitoraggio di vari contesti nazionali, valutano le politiche, come sostenerle ed eseguirle. Lo fanno su scala su scala planetaria. Walzer direbbe che le Nazioni Unite non operano sulla base di una teoria, non opera sulla base di una propria politica inventiva. Ci sono però dei casi più interessanti delle Nazioni Unite. Che cosa fa Amnesty International? Amnesty International è un caso esemplare per capire come funziona il minimalismo morale come criterio di giudizio tra contesti e culture diverse. Minimalismo morale, moralità sottile, principi trasversali a forme di vita diverse. Il lavoro di Amnesty International è strutturato così: il documento base di Amnesty International è la rivelazione dei diritti umani inviolabili. Amnesty International prende questo documento come suo documento fondativo; in questo documento c’è scritto che cosa s’intende per diritti umani e che cosa s’intende per diritti umani inviolabili. Questo è l’apparato critico con cui Amnesty International lavora. Come lavora? Prende questo documento e vede in tutti i contesti nazionali quali sono le pratiche che violano i diritti: dove, come, perché. Presenta ogni anno un rapporto. Su che base operano organizzazioni come queste? Operano sulla base di quello che noi chiamiamo minimalismo interpretativo, universalista. Cioè di quella sorta di moralità sottile e minimale che può essere considerata trasversale a forma di vita diverse. Un aspetto interessante del lavoro di Amnesty International in questo senso sta proprio nella capacità di distinguere tra aspetti sottili e aspetti densi delle forme di vita politiche, per cui in sostanza lo scopo di Amnesty non è imporre principi morali a forme di vita altre. Il successo di Amnesty International sta nella differenza tra moralità sottile e moralità densa oltre che adottare un peso e una misura unica per tutti gli Stati, quindi Amnesty International non è assimilabile né al comintern né alla chiesa medioevale per questa precisa ragione.

L’idea di Walzer è che la critica sociale funziona come un ministero degli interni più che come un ministero degli esteri. In questo senso Walzer nega l’aurea eroica che il critico sociale ha sempre avuto. Il critico sociale interprete, il critico sociale intero, immanente è qualcuno che ha meno ambizioni del critico inventivo e soprattutto non è disposto a interrompere o ad agire traumaticamente sul suo contesto di appartenenza. Allo stesso modo in Socrate si pone nei confronti degli ateniesi, così il critico sociale è in un certo senso un iscritto, un membro, per questo il suo stile discorsivo deve essere adatto a parlare alla sua comunità, così torniamo alla persuasione, qui ritorniamo al punto secondo cui il critico deve posizionarsi all’altezza della comunità alla quale appartiene, alle opinioni, il critico non è un traghettatore, non deve traghettare queste persone dalla loro forma di vita a un’altra forma di vita.

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Il critico deve persuadere. La persuasione richiede la compartecipazione a una comunità discorsiva, ricordate Socrate: con quelli che pensano che valga la pena di restituire un’ingiustizia con un’ingiustizia io non ho niente da dire. Con quelli che prendono come punto di riferimento il giudizio della moltitudine io non ho nulla da dire. Questa stessa idea di comunità discorsiva è presente anche nel discorso di Walzer, è per questo che la critica deve persuadere le persone a partire da quanto è già loro noto, a partire dall’idealismo diffuso in quella forma di vita. Perché idealismo diffuso?

Diciamo che se tu vuoi fare dei cambiamenti devi partire da ciò che le persone già conoscono, se vuoi fare dei cambiamenti non puoi calare dall’alto o esportare da un altro luogo parole d’ordine che sarebbero estranee e difficili da comprendere ai membri della comunità. Se si vuole cambiare bisogna partire da dove ci si trova e non importare. Il nemico teorico di Walzer è il giacobinismo perché esso contiene l’idea di esportare ideali da un contesto all’altro, è l’idea di rifare il mondo e le persone. Walzer rifiuta questa impresa con degli argomenti che hanno a che fare con la tirannia della filosofia, sulla sentenza della filosofia a fabbricare modelli pensando di poterli calare dall’altro ai diversi contesti, costringendo i contesti ad adeguarsi ai modelli.

Altro esempio: manifestazione degli studenti cinesi del 1989. Che tipo di partecipazione era la nostra? Era una partecipazione che rifletteva una posizione morale e politica minimalista. Noi avevamo solidarietà con tutti quegli studenti indipendentemente dalla differenze politiche, noi eravamo solidali nella lotta contro dei tiranni; il fatto che noi eravamo solidali con questi studenti nella lotta contro i tiranni non ci impegnava minimamente a sostenere la loro visione di cosa è la democrazia, o di che tipo di governo avrebbe dovuto avere la Cina una volta caduto il comunismo. In un certo senso quando noi assumiamo questa posizione, assumiamo una posizione di relativo disimpegno, cioè, non un disimpegno dalla lotta politica ma un disimpegno dai dettami della lotta politica.

Se ci fosse la possibilità di spiegare la nostra concezione di democrazia in Cina, bisognerebbe spiegarla non come spiega il missionario che cerca di convertire, non bisogna dire come costruire la democrazia in Cina perché non esiste una ricetta di democrazia che va bene per tutti i contesti, ma occorre dire quali sono i criteri di orientamento, quali sono state le esperienze concrete che noi abbiamo fatto, i dilemmi, i problemi, i casi conflittuali, ci dovrà essere una democrazia cinese. Cosa dovrebbe fare un critico interno? Un critico interno cinese dovrebbe compiere lo stesso lavoro che abbiamo raccontato per il critico dell’Europa dell’est. Perché questo deve avvenire? Perché il principio base della democrazia è il consenso del popolo e questo ideale base richiede minimalisticamente che la democrazia cinese sia definita dai cinesi stessi secondo la loro cultura e loro storia. Noi non possiamo, nel momento in cui vogliamo propagandare la democrazia in un contesto in cui non c’è, agire mettendo in crisi come primo passo il principio base.

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Ruolo dei profeti come critici sociali Questo discorso è importante per capire come la critica non sia una pratica legata essenzialmente alle società moderne ma è una pratica che coesiste insieme alle società umane. Per Walzer i profeti sono il primo esempio di critici sociali riscontrabile nella storia, in particolare costruendo una distinzione tra due profeti, Amos e Giona, ritroviamo la distinzione rispettivamente tra il critico interno e il critico minimalista-esterno, il critico della moralità spessa e il critico della moralità sottile. Il primo dato che Walzer osserva in merito ai profeti è che essi confermano la sua tesi generale del significato della politica, vale a dire i profeti dipendono per il loro messaggio da messaggi precedenti, non scoprono morali ma le elaborano a partire da dati già disponibili, non sono scopritori e non sono inventori. Il fatto che non siano né l’una né l’altra cosa ma siano degli interpreti di una morale ricevuta li rende, secondo Walzer, immediatamente accessibili per l’uditorio al quale vogliono parlare. Dunque, il profeta sa come parlare al suo pubblico esattamente come deve saperlo un critico contemporaneo. Il profeta sa come parlare non perché sa quale artifici retorici deve usare per essere ascoltato ma perché ricerca un posizionamento che sia all’altezza della comunità, quindi non sopra né fuori ma alla stessa altezza. Si sente pienamente partecipe di una comunità discorsiva.

In questo senso Walzer propone di prendere due passaggi sui quali riflettere del Deuteronomio (un libro della Bibbia). Primo passaggio. È quello in cui si sottolinea che la parola di Dio non è in cielo:

«Questo comando che oggi ti ordino non ti è nascosto, né è troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire sì che lo possiamo eseguire? Non è di là dal mare… Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica» . Cosa vuol dire che la parola non è in cielo ma è molto vicina a te, posizionata alla tua stessa altezza, non sulla montagna non nel cielo? Vuol dire che oramai Mosè, dice Walzer, era già salito sulla montagna per prendere la parola, a questo punto non c’è più bisogno di nessuna scoperta, a questo punto si deve lavorare di interpretazione. La parola (intesa in senso di legge) è diventata un possesso pubblico, alla portata dei cittadini che ci ragionano sopra, la elaborano. Dunque quello che il profeta deve fare non è né scoprire né inventare questa parola ma renderla pienamente chiara e accessibile nelle sue implicazioni a coloro che già la conoscono.

Walzer racconta una storia nel libro che ci fa capire cosa significa che la legge è diventata di possesso pubblico:

«La storia riguarda una disputa tra un gruppo di saggi; l’argomento non è rilevante. Rabbi Eliezer stava da solo in minoranza dopo aver portato innanzi ogni

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immaginabile argomento senza riuscire a convincere i suoi colleghi. Esasperato, egli chiese aiuto a Dio: “Se la legge è come dico io, fa che questo carrubo lo provi”. Sicché il carrubo fu sollevato cento cubiti in aria, alcuni dicono che fu sollevato per quattrocento cubiti. Rabbi Giosuè parlò per la maggioranza: “Nessuna prova può essere portata da un carrubo”. Allora Rabbi Elizier disse: “Se la legge è come dico io, fa che questo corso d’acqua lo provi”. E l’acqua cominciò subito a scorrere all’indietro. Ma Rabbi Giosuè disse: “Nessuna prova può essere portata da un corso d’acqua”. Di nuovo Rabbi Eliezer disse: “Se la legge è come dico io, fa che le mura di questa scuola lo provino”. E le mura cominciarono a cadere. Ma Rabbi Giosuè rimproverò le mura, dicendo che esse non avevano il diritto di interferire con le dispute di studiosi sulla legge morale; ed esse smisero di cadere e stanno lì ancora oggi, anche se ad angolo acuto. E allora Rabbi Eliezer fece appello a Dio stesso: “Se la legge è come dico io, che il cielo lo provi”. Al che una voce gridò: “Perché disputi con Rabbi Eliezer? In tutte le cose la legge è come dice lui”. Ma Rabbi Giosuè si alzò in piedi ed esclamò: “Non è in cielo!”. Cosa vuol dire questa storia? Vuol dire esattamente che la morale è diventata un patrimonio di discussione pubblica, vuol dire quello che abbiamo detto tante volte in questo corso e cioè che la discussione pubblica non ha e non può avere un punto definitivo, non c’è un’autorità che possa decidere quando la discussione deve avere termine, perché il senso della morale non è in cielo ma è qui nel nostro mondo, la morale è divenuto un oggetto pubblico sul quale gli individui discuteranno interminabilmente. La parola è un messaggio disponibile, comune, accessibile e soprattutto soggetto allo smontaggio e alla riflessione degli individui.

È ovvio, però, che i testi dei profeti non sono immediatamente accessibili, la profezia è il tipo di discorso articolato, particolare nel tono e anche nelle modalità retoriche. Nella profezia troviamo formulato in forma poetica, narrativa, nella forma dell’invettiva, nella forma della collera una serie di valutazioni critiche nei confronti di un contesto. La profezia, poi, in genere è costruita come tipo di discorso come una sorta di appello, come un ammonimento. Più che mai il profeta si pone come lo specchio di Amleto. Lo specchio che ci fa vedere ciò che siamo o ciò che siamo diventati o quello che dovremmo essere sulla base delle nostre premesse e non sei.

Il caso specifico della profezia di Giona si distingue dal caso specifico della profezia di Amos proprio perché mentre Amos assume in pieno la fisionomia del critico interno o immanente e dunque assume in pieno il riferimento contestuale della politica, Giona invece parla agli abitanti di una città che non è la sua, Giona è il profeta inviato da Dio nella città di Nivive e in particolare diciamo che Giona è un critico in viaggio. Giona arriva a Nivive, profetizza rovina alla città, anzi, si può dire che la rovina della città è il contenuto della sua profezia: ancora 40 giorni e Nivive sarà distrutta. Giona non è un cittadino di Nivive e sembra di Nivive sapere poco. Il caso di Nivive è simile al caso di Sodoma e Gomorra. Nivive, Sodoma e Gomorra sono le tre città destinate alla distruzione per la loro corruzione; gli abitanti di queste città sono condannati a perire a causa della loro malvagità. Una malvagità i cui termini non vengono specificati dal profeta, se non vagamente. Non sappiamo

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sostanzialmente niente della vita interna di queste città condannate alla rovina, non sappiamo niente dei contenuti specifici della malvagità che viene addebitata ai loro abitanti. Giona non ci racconta lo sfondo sul quale questa critica così devastante prende posto, qui il profeta sembra davvero parlare con la voce aliena del critico inventivo. Vediamo come commenta Walzer questa cosa (lettura pag. 89 “Interpretazione e critica sociale”):

«Naturalmente, Nivive ha la sua storia morale e religiosa, il suo credo, il suo codice, i suoi templi e preti, i suoi dèi. Ma lo scopo di Giona non è ricordare al popolo ciò che è suo; solo un profeta locale (un critico organico) potrebbe farlo. Cercate di immaginare Giona in conversazione con gli abitanti di Nivive: che potrebbe aver detto? La conversazione è parassita della comunità, e poiché la comunità qui è minima, noi possiamo immaginare solo una conversazione minima. Non è che qui non vi sia nulla da dire, ma il discorso sarebbe esile, centrato su quelle conoscenze morali che non dipendono dalla vita comune; ci sarebbe poco spazio per la sfumatura o la sottigliezza. Così la profezia di Giona e il suo compimento: il popolo riconosce e si allontana “dalla violenza che è nelle sue mani”. Cos’è questa violenza il cui riconoscimento non dipende da una particolare storia morale o religiosa?»

Lasciamo in sospeso questa domanda e andiamo invece al modo di procedere di Amos. Più coerentemente, secondo Walzer, con la tradizione profetica Amos a differenza di Giona è animato da interesse e considerazione per questo popolo, per questa comunità, per questa famiglia, famiglia che venne via dall’Egitto quindi il popolo ebraico è il riferimento. Quando Amos parla lo fa immerso in un conteso, quando Giona parla, invece, parla dal di fuori, è un esempio classico di una divisione tra due critiche che abbiamo parlato.

Che cosa fa Amos? Amos giudica il carattere interno di una comunità e questo è esattamente ciò che Giona non può fare. La postura del profeta, dunque, è una postura di solidarietà (la prof. preferisce chiamarla connessione). La solidarietà è una postura intermedia tra l’universalismo e il settarismo o l’apologetica. Perché la solidarietà sta in mezzo tra queste due opzioni? Perché non sta né troppo fuori né troppo dentro, come si vede è sempre un problema di distanza, questa è un’ossessione della filosofia politica.

La posizione del critico immanente o del critico interpretativo sta a metà tra l’universalismo che, come sappiamo, per Walzer è possibile solo in una fora minimale, sottile e dall’altra parte invece una sorta di appartenenza intesa in senso settario oppure in senso apologetico, cioè come difesa aprioristica della forma di vita alla quale si appartiene, una sorta di patriottismo acritico, laddove invece nel caso di Socrate avevamo parlato di patriottismo critico. Ecco, potremmo dire che la solidarietà e la connessione del profeta sono una sorta di patriottismo critico come quella di Socrate, questo è almeno quello che Walzer ci dice di pensare.

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Due aspetti di questo messaggio solidale o connesso che non è né universalistico né settario: 1°) il primo aspetto ha a che fare con il carattere non utopico e non visionario della critica profetica, quella a cui il profeta fa riferimento, dice Walzer, è un’etica quotidiana (il critico non deve fare un lavoro di distruzione, deve lavorare col materiale disponibile correggendo le cose che non vanno, il critico non un revisore radicale del quadro, è uno che lavora dentro il quadro). È il suo un messaggio mondano (mondano nel senso che la morale è un oggetto pubblico su cui tutti possono intervenire e nessuna autorità può stabilire quando la discussione pubblica può avere fine) e quotidiano. Il contenuto della profezia non è mai un contenuto utopico, né rivoluzionario né visionario, quindi si potrebbe dire che il profeta non fa nessun uso della immaginazione filosofica. Il profeta è radicato nella storia e nella cultura d’Israele, è situato, è radicato, sono tutti termini che hanno a che fare con l’idea di una collaborazione ben piantata in un territorio geografico e morale. 2°) il secondo aspetto è che il profeta non è interessato alla perfezione morale degli abitanti di una forma di vita, non è interessato a dire ai singoli come potrebbero costruirsi una prospettiva di salvezza, il profeta non vuole che gli individui siano ascetici, che rifiutino il mondo, che se ne tengano al di fuori, che non si compromettano, che percorrano la via della santità, tutte queste sono questioni che non hanno alcuna rilevanza politica; il profeta è interessato al giusto e all’ingiusto come virtù pubbliche e non come virtù individuali. Ma perché potremmo chiederci: il profeta rifiuta per un verso la posizione filosofica e utopica e per l’altro l’ascesi? Perché di nuovo sta in mezzo, che cosa hanno in comune e l’ascesi e l’utopia? La negazione del mondo. Fate attenzione: negazione del mondo non nel senso di Hannah Arendt, ma nel mondo particolare e particolaristico in cui il profeta è immerso.

Quindi qui in mezzo insieme a “solidarietà e connessione” dovremmo scrivere l’aggettivo della moralità spessa, cioè particolaristica. Il particolarismo sta a metà in un certo senso, entrambe le possibilità che sono rifiutate dal profeta, cioè la proposta agli individui di una via ascetica, di una via personale della santità come fuga dal peccato dalla contaminazione del mondo, da una parte, e dall’altra l’utopia come prefigurazione di una società radicalmente altra, appaiono a Walzer due negazioni assimilabili del particolarismo, due fughe dal “qui e ora”. In questo senso dire che il profeta parla particolaristicamente al popolo d’Israele e per il popolo d’Israele vuole dire che il profeta parla da un luogo specifico, la dove l’ascesi e l’utopia, ciascuna a suo modo, ci richiedono di valutare come se non abitassimo nessun luogo. È evidente che il particolarismo ha a che fare anche con l’accessibilità del linguaggio e con la proprietà del linguaggio con cui i profeti annunziano il loro messaggio. Messaggio che i profeti formulano secondo le linee di una particolare morale, che formulano secondo le linee di una particolare tradizione.

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Ci possono essere molti passaggi misteriosi nelle profezie, tuttavia i riferimenti ed il contesto discorsivo sono costruiti in modo da rendere possibile quanto meno ai lettori o agli ascoltatori della profezia di sapere di che cosa si tratta perché il senso dell’orientamento è condiviso dal profeta e dagli altri.

Naturalmente, dice Walzer, non bisogna pensare che interpretare voglia dire soltanto prendere atto di una tradizione. Quindi, non bisogna attribuire all’interpretazione delle pretese molto moderate e quasi trascurabili di riforma; Walzer tiene a sottolineare il sovversivismo di cui l’interpretazione può essere portatrice. L’interpretazione può davvero scombinare l’arredo di una forma di vita, può avere anche un forte potere di revisione. Alcuni dicono, sostiene Walzer, che il lavoro del critico del profeta è un lavoro critico di poco conto perché la tradizione ebraica è una tradizione densa, piuttosto incoerente e dunque, in sostanza, il lavoro critico del profeta è estremamente facilitato.

La tesi di Walzer rispetto a questa obiezione è molto interessante perché Walzer la capovolge perché sostiene che la coerenza è la risultante del lavoro dei profeti e non un dato con cui i profeti dovranno lavorare. È proprio perché il messaggio profetico lo ha permesso che la tradizione ebraica si è costituita come una tradizione molto nicchia ma anche sostanzialmente coerente. Secondo Walzer questo è il portato di un lavoro critico ed è per questo che Walzer con una definizione ritiene che in fondo i profeti erano dei parassiti del passato. Naturalmente nell’idea di parassiti del passato non c’è soltanto l’idea che il profeta viva di rendita perché il profeta è parassita di un passato al quale però contribuisce a dare forma e sul quale è capace di intervenire criticamente.

L’idea del profeta come parassita della memoria è utile per capire in che senso il profeta lavora sullo sfondo pre-esistente, ma lavora creativamente, in sostanza deve richiamare dei passaggi chiave di una storia per riportare la comunità che lo ascolta a certe responsabilità: ciò che siamo stati, ciò che siamo diventati, ciò che dovremmo essere.

Il significato della profezia non sta nell’esattezza delle sue previsioni, quanto nel carattere di ammonimento o di messa in guardia che ha nei confronti dell’uditorio al quale ricorda delle cose eppure rimprovera delle cose oppure predice delle cose ma questa predizione non deve essere valutata a seconda della sua veridicità, Nivive è veramente andata in rovina dopo 40 giorni? Il senso della profezia non va misurato sulla veridicità della previsione ma va misurato sulla sua capacità di entrare in tensione con l’uditorio. Il tipo di tensione che si instaura dalla profezia è dovuta al fatto che la città si mette all’erta, che gli ascoltatori possono cominciare a interrogarsi su cosa c’è che non va o possono cominciare a rivedere dei comportamenti che potrebbero essere all’origine della profezia negativa. Ciò che vorrei che fosse chiaro è che la profezia non si cala come una verità dall’alto che paralizza l’uditorio, ma al contrario si pensa che la profezia debba mettere in moto la reazione auto-riflessiva della comunità.

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Amos è un profeta interessato alla politica della nuova classe dominante che si andava formando in Israele, nuova classe dominante particolarmente presa dal pulpito del lusso e della ricchezza.

Qui, quello che Amos fa è cercare di posizionarsi ad una certa distanza dai ricchi che sono anche oppressori, ma il suo modo di procedere non è quello di mettersi dalla parte degli oppressi e lavorare contro gli oppressori. Amos si rivolge agli oppressori facendo appello a valori che loro dicono di condividere, loro dicono di essere dei seguaci della legge ma come è possibile essere seguaci della legge se si è ricchi a spese dei poveri. Il senso della legge, il senso del patto, il senso dell’alleanza che non lega soltanto Dio al suo popolo ma anche i membri del popolo tra di loro (senso dell’alleanza che noi chiameremmo il patto sociale) cui gli oppressori dicono di attenersi sta proprio in uno spirito di solidarietà, di legame, di non appropriarsi di qualcosa che appartiene anche all’altro che gli oppressori violano, violano questo patto al quale dicono però volere appartenere. Vediamo come Amos si rivolge ai mercanti (lettura pag. 96 “Interpretazione e critica sociale”):

«Ascoltate questo, voi che calpestate il povero e sterminate gli umili del paese, voi che dite “Quando sarà passato il novilunio e si potrà vendere il grano? E il sabato, perché si possa smerciare il frumento, diminuendo le misure e aumentando il siclo e usando bilance false, per comprare con denaro gli indigenti e il povero per un paio di sandali? Venderemo anche lo scarto del grano”. Profezia è il discorso critico che interpella un uditorio motivandolo a prendere atto di come sia lontano, di come si è allontanato dai suoi standard di riferimento. Dunque, ci possono essere certi profeti assolutamente privi di riferimenti religiosi. Una volta chiarito che il senso della profezia non è un senso necessariamente religioso, in che senso questo discorso di Amos (quello che abbiamo letto) è un discorso culturalmente specifico, culturalmente particolaristico? Diciamo che qui c’è una doppia natura particolare del discorso, perché? Intanto perché si rivolge ad una porzione del popolo al quale appartiene, cioè i mercanti; e secondariamente perché si rivolge ai mercanti d’Israele, non hai mercanti in generale. Quindi doppiamente è particolaristico il suo discorso, particolaristico per poter sperare di essere convincente.

Amos critica il fatto che questi nuovi ricchi passino il loro tempo in feste:

«Io detesto, respingo le vostre feste e non gradisco le vostre riunioni; anche se voi mi offriste olocausti (= sacrifici), io non gradisco i vostri doni e le vittime grasse come pacificazione io non le guardo. Lontano da me il frastuono dei tuoi canti: il suono delle tue arpe non posso sentirlo! Piuttosto scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne».

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Qui vediamo che la critica di questo modello di stile di vita deriva dal fatto che secondo Amos questo culto della ricchezza allontana il popolo dai suoi obblighi morali. Se le cerimonie non hanno uno scopo rituale e specifico sono inutili, anzi possono essere anche dannose.

Questi due esempi, la critica dei mercanti e la critica delle feste, ci servono una volta di più a capire in che senso Amos può essere assunto come una figura esemplare del critico interno di cui Walzer parla. Una critica che conosce le convenzioni e le pratiche di una società e proprio per questo può chiamarle a rendere conto. In sostanza a volte il critico interno non ha bisogno di specificare perché la gente a cui parla ha già la storia in testa, quindi non c’è bisogno di spiegare i preamboli, i preamboli sono nelle convenzioni, nelle premesse, nelle promosse della comunità. Dunque, sintetizzando, ritornando al paragone con Giona. Walzer dice:

«Giona è un semplice messaggero che fa appello a valori sociali, anche se egli può fare appello, senza dirlo, a un codice minimo, a una specie di diritto internazionale. Egli non è un missionario, che porta con sé una dottrina alternativa; non cerca di convertire il popolo di Nivive alla religione di Israele, di portarlo al patto del Sinai. Egli rappresenta solo il codice minimo. Possiamo pensare a Giona come a un critico minimalista; non sappiamo realmente quali tipi di cambiamenti egli abbia richiesto nella vita di Nivive, ma presumibilmente in nessun posto vicino essi erano così ampi come quelli richiesti da Amos in Israele. Ciò che fa la differenza è l’appartenenza di Amos alla sua società. La sua critica va più a fondo di quella di Giona perché egli conosce i valori fondamentali degli uomini e delle donne che critica. E poiché egli a sua volta è riconosciuto come uno di loro, può richiamarli al loro «vero» sentiero. Propone riforme che essi possono intraprendere restando membri della stessa società». Walzer qui è abile perché fa una mossa in più, cioè è chiara qual è la differenza fra Amos e Giona, e secondo la prof. è una differenza estremamente illuminante per capire che cosa separa il critico minimalista e il critico interno. Il passaggio importante è quando Walzer dice che la critica di Amos va più a fondo, questo vuol dire che per Walzer è molto più radicale la critica interna che la critica esterna, cioè è come se Walzer ci stesse dicendo che per essere critici bisogna essere appartenenti, che per essere critici bisogna condividere valori, che per essere critici bisogna essere a pieno titolo abitanti di una forma di vita, non visitatori, non turisti, non inviati da Dio o dall’ufficio internazionale della critica e dunque qui Walzer non solo sta cercando di difendersi dall’accusa di difendere una figura di critico settario e apologetico.

Dal punto di vista della critica diversa da come la intende Walzer, io posso utilizzare uno standard critico che sia applicabile a forme di vita diverse che io posso anche non avere mai visto, non m’interessa, non devo abitare, non devo parlare il loro linguaggio per sapere cosa è criticabile. Allora l’idea di Walzer è che questo può essere fatto ma solo in modo minimale perché non c’è una critica massimalista trasversale a contesti diversi, non ci può essere, io posso solo rimanere alla superficie,

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posso solo parlare dei grandi valori. Allora come si fa andare in profondità nella critica? Se la critica minimalistica, universalistica e sottile può rimanere solamente sulle grandi parole e non va in profondità, per farlo devo utilizzare solo la critica interna e come funziona la critica interna? Funziona come la profezia e quindi va interpretata.

Per andare a fondo nella critica della mi forma di vita io devo parlare e ragionare come un appartenente, non è possibile una critica massimalista che sia esterna a una forma di vita perché sarebbe una sorta di tirannia filosofica.

Il profeta, il critico sociale è un riformista non è un rivoluzionario. Questa idea del riformismo serva semplicemente a ricordare che il critico interno è qualcuno che si muove entro un frame, è qualcuno che vuole correggere anche drasticamente ma all’interno, entro un frame. Quindi il lavoro del riformista è un lavoro che in parte è di interpretazione. È una correzione limitata. L’idea di Walzer è che questa correzione limitata ha un impatto più radicale. In sostanza essere riformisti non significa né essere timidi né essere acquiescenti nei confronti di ciò che c’è da criticare perché, anzi, soltanto nel momento in cui di muovi entro un frame e sei disposto anche ad alterare drasticamente dei dati interno a questo sei veramente qualcuno che cambia le cose, che cambia il modo in cui le cose sono concepite e percepite. Walzer vuole muoversi contro il pregiudizio che vede i rivoluzionari, sempre e comunque, più capaci di cambiare le cose dei riformisti. La tesi di Walzer è esattamente la tesi contraria: chi cambia di più è il riformismo. Tre casi d’applicazione: Orwell, Camus e De Beauvoir

Nelle tre figure di spicco, Orwell, Camus e Simone De Beauvoir, è particolarmente evidente la tensione tra critica interpretativa e critica inventiva. Ciascuno di questi tre critici sono esemplari di una generazione intellettuale perché grosso modo svolgono una parte importante del loro lavoro intorno agli anni ’30 e in tutti e tre i casi Walzer assume un riferimento contestuale per giustificare il loro lavoro: nel caso di Orwell l’Inghilterra, nel caso di Camus la guerra d’Algeria e in Beauvoir non un luogo ma uno spazio di riferimento: la donna nella sua opera principale “Il secondo sesso”.

Ciascuno di questi tre riferimenti, l’Inghilterra, la guerra in Algeria e la donna, evocano nel lavoro critico dei personaggi il ruolo di quella comunità di riferimento, di quel contesto di riferimento, che secondo Walzer è indispensabile al lavoro del critico.

Ricordiamo che l’atteggiamento di Walzer nell’analizzare i vari autori non è né distaccato né imparziale. Orwell

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In particolare per quel che riguarda il caso di Orwell, Walzer mette in rilievo il rapporto di tensione che Orwell instaura con la sinistra del suo tempo, in particolare con la degenerazione stalinista dell’Unione Sovietica. “1984” e “La fattoria degli animali” sono incentrati sulla critica della tirannia, sulla critica della degenerazione tirannica del comunismo. Il condizionamento, il posizionamento critico che Orwell assume, tra i primi senza nessun colpevole ritardo, senza nessun atteggiamento ambiguo e compiacente contro il comunismo, non gli impedisce affatto di avere un atteggiamento politicamente radicale in tutte una serie di questioni che comportano le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori e più in generale la condizione europea alla vigilia della seconda guerra mondiale.

È nota la partecipazione di Orwell alla guerra civile spagnola. Orwell prende una posizione molto netta partecipando alla guerra civile come volontario ma questo non gli impedisce di schierarsi all’interno di questa guerra, non con i comunisti ma con il partito degli anarchici rivoluzionari (con la parte meno politicamente educata) cioè con coloro che, pur essendo di sinistra, erano assolutamente contro l’Unione Sovietica e contro lo stalinismo. In questo condizionamento che è all’interno del fronte repubblicano ma ostile a una applicazione disciplinata a quello che era la visione prevalentemente stalinista, indica il carattere disciplinato, carattere interno ma allo stesso tempo capace di mettere in questione, anche in modo radicale, le problematiche politiche. Orwell interpreta questi passaggi come dei modi efficaci per leggere la situazione interna al suo paese, la situazione politica, della relazione tra le classi, tra i deboli e i forti.

Walzer in un certo senso trova degli aspetti somiglianti tra Orwell e Camus in questo tipo di punti di vista: uno che non ha mai abbandonato, pur avendo viaggiato molto, le sue radici e questo attaccamento alle proprie radici è presente anche nel rifiuto che Orwell manifesta nei confronti dell’internazionalismo. Internazionalismo che per Walzer sarebbe una variante tipica di un massimalismo critico trasversale. Internazionalismo come ripresa del cosmopolitismo kantiano con l’unica differenza che nel caso di cosmopolitismo kantiano non è dal punto di vista particolare di un gruppo di persone, cioè di lavoratori, che il trasversalismo è costruito, ma dal punto di vista di ciascuno di noi in quanto ovunque abitiamo, qualunque lingua parliamo, qualunque sia la nostra cultura e il nostro stile di vita, possiamo comunque condividere dei sistemi valutativi come agenti razionali e morali. Internazionalismo traduce sul piano del punto di vista dei lavoratori lo stesso tipo di argomento.

Le guerre andavano valutate dal punto di vista degli interessi dei lavoratori a farle in tutti i paesi. Facendo questo tipo di ragionamento si sarebbe riscontrato che non c’era mai in nessun caso un interesse del proletariato a partecipare alle guerre perché esse erano tutte fatte nell’interesse delle classi dominanti. Guardando dal punto di vista degli oppressi, in qualunque paese, nessuna guerra poteva essere importante.

Nel suo rifiuto dell’internazionalismo Orwell in fondo manifesta una resistenza a quella critica massimalista, all’idea di una critica spessa trasversale a contesti diversi. Pur disprezzando l’internazionalismo, Orwell non è mai stato un nazionalista.

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(Sospensione tra due punti di vista diversi perché il nazionalismo è una forma di settarismo, è una forma di adesione apologetica alla propria forma di vita, l’internazionalismo invece in questo caso gioca un ruolo dell’approccio filosofico, trasversale, neutrale che Walzer è interessato a criticare).

Orwell sicuramente non aveva dubbi quando ci si doveva schierare pro o contro una tirannia. Era chiaramente anti-franchista e ha partecipato alla guerra come volontario. Nello schieramento repubblicano il suo posizionamento non è stato un posizionamento vicino agli orientamenti dominanti che erano sostanzialmente quelli dei comunisti, ma è stato un posizionamento viceversa eccentrico: lui stava insieme a coloro che erano quanto di più restio alla disciplina comunista. Questo suo condizionamento politico è indicativo del fatto che comunque sulle grandi linee Orwell non aveva mai dubbi, anti-tirannico, anti-dispotico, anti-stalinista. Ma quando si doveva posizionare dentro il fronte sapeva anche lì fare le sue scelte. Camus

Metodologicamente questo libro, “L’intellettuale militante”, Walzer non aggiunge nulla al libro precedente, ma in realtà qui gli interessava darci la traduzione vivente delle sue tesi teoriche che in sostanza hanno delle gambe su cui camminare e le gambe sono questi personaggi. La scelta è un modo con cui Walzer manifesta la sua coerenza che poi consiste nell’andare a vedere nella pratica come la critica interna funziona e quali sono le sue difficoltà. A questo proposito il capitolo chiave è evidentemente il capitolo sulla guerra in Algeria, capitolo che è dedicato a Camus, ma che presenta anche una raffigurazione del contrasto tra lo stesso Camus e Sartre, quest’ultimo intellettuale impegnato per eccellenza e presente negativamente in questo capitolo.

Perché questo è un caso ideale? Camus è un appartenente di una famiglia di francesi vissuti in Algeria e per questo aveva un senso di appartenenza che gli altri intellettuali francesi non avevano affatto e dunque, come dice Walzer, dovendo scegliere tra la giustizia eterna e l’Algeria francese, Camus sceglie l’Algeria francese. Non guarda alla guerra d’Algeria secondo la visione di ciò che è giusto e ciò che non è giusto, ma guarda alla guerra dal punto di vista di uno che è stato immerso nel contesto algerino, che lo conosce, che ne conosce la situazione, le forme di vita, le abitudini, la lingua etc. In un certo senso per Camus l’Algeria è un tipo di patria, ha un amore sfrenato per l’Algeria che è la sua terra d’infanzia. Dunque non ci possiamo aspettare di trovare in Camus una critica obiettiva del colonialismo francese, perché si rifiuta di assumere sull’Algeria un punto di vista neutrale.

L’esperienza della guerra in Algeria è difficile da analizzare soprattutto per quanto riguarda l’aspetto del riportare le fortissime polemiche e divisioni politiche che ha prodotto soprattutto all’interno dell’intellettualità francese. Camus per la sua posizione viene sottoposto a una operazione di stigmatizzazione, di isolamento e di quasi linciaggio da parte di tutti coloro con i quali fino a quel momento aveva condiviso la sua esperienza intellettuale e umana.

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Il fatto che elementi politici possano avere effetti sull’amicizia, possano sovrastarla, non è nulla di nuovo e scandaloso: la politica quando diviene importante può avere questo genere di effetti. Ci sono poi delle caratteristiche collaterali molto sgradevoli di questi concetti per cui colui che non canta nel coro viene messo da parte. L’isolamento intellettuale è per Walzer il prezzo che paga il critico immanente alla critica radicale che lo considera un traditore perché non sa fare le scelte giuste al momento opportuno.

Nel momento in cui nel ’58 in Francia vi fu il referendum che sancì in modo schiacciante la desiderabilità di un ritorno di De Gaulle al potere a causa dei guai che la Francia stava andando in contro a causa della guerra in Algeria, comincia una situazione tesa per cui tutto questo gruppo di intellettuali, che aveva al loro centro Simone De Beauvoir la quale rivestiva un ruolo di egemonia intellettuale tra gli intellettuali europei in quel momento, assume un atteggiamento paradigmatico nella critica interna. I risultati del referendum per De Beauvoir hanno contribuito a staccarlo completamente dal suo paese, non sopportava più i suoi concittadini, non poteva sedersi accanto a gente simile. “Tutti coloro che incontravo erano, chi più chi meno, carnefici di arabi, tutti colpevoli e anch’io sono francese. Queste parole mi bruciavano la lingua come ammettere che si ha una tara”. In queste parole esce, secondo Walzer, l’esito dell’atteggiamento da critica esterna. In che cosa consiste questo atteggiamento? Nello scioglimento dei nodi che ci tengono legati alla nostra comunità di appartenenza. “Io non sono più francese se i francesi si rendono responsabili di questo.” Per tagliare il nodo che ci tiene legati alla comunità, usiamo la forbice che è la critica radicale che riesce a portarci fuori rendendoci non più francesi in quel momento, ma sostenitori del giusto, della giusta soluzione per l’Algeria. Non più francese ma pro FLN, per e contro coloro che ritieni la Francia ingiustamente calpesta con il suo colonialismo.

Questo punto è importante. Nel senso che uscire dal proprio contesto di riferimento, rimanere sospesi nel vuoto della critica radicale, secondo Walzer significa di fatto sottovalutare che nel suo contesto di riferimento ci sono probabilmente diverse interpretazioni di ciò che sta accadendo. Dire che sono francese e dire che questa parola mi brucia in bocca perché appartengo a una razza malata e corrotta, significa trascurare che probabilmente all’interno dei francesi erano presenti opinioni diverse. E lo stesso sostantivo Francia è un sostantivo che implica un conflitto interno.

Invece il critico radicale ha bisogno di costruire delle alternative secche senza residui: da una parte il colonialismo francese e dall’altra parte il diritto dell’Algeria all’autodeterminazione. Questa incapacità di scomporre le situazioni e questa tendenza a ridurre la complessità in modo che le scelte di campo diventino in un certo senso delle situazioni in cui si sceglie tra il bene e il male, sono caratteristiche di tipi di ragionamenti che non piacciono a Walzer. Ma soprattutto questo tipo di semplificazione del campo produce un effetto non secondario assente in Orwell e cioè schierandosi con l’FLN e contro il colonialismo francese identificato tout court con la Francia, si sceglie il bene contro il male e se l’FLN coincide con il bene viene

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reso impossibile criticarlo e criticare con esso le modalità d’azione. Questo genera una compiacenza. Non c’è una parola di critica nei confronti dell’operato dell’FLN e in particolare le azioni terroristiche contro i francesi. La questione è questa: è possibile sottoscrivere una causa fino alle sue estreme conseguenze senza poter dissentire nemmeno da alcune delle sue manifestazioni? Si, è possibile nel momento in cui questa causa è identificata come portatrice del bene contro il male. Questo tipo di ragionamento non è tipico di un critico interno: egli infatti non lo farebbe mai. Non può essere portato a queste conseguenze dal suo stesso modo di ragionare che è molto meno ambizioso, molto più concettuale, più attento alle singole vite di uomini e donne.

Naturalmente la critica di Walzer è schierata dalla parte di Camus contro la Francia ma soprattutto alla fine quello di cui lui veramente accusa Sartre è quello di non essere più francese ma di non avere neanche avuto la forza di diventare algerino. Cioè in sostanza alla fine l’intellettuale radicale è raffigurato come qualcuno che non intende assumersi delle responsabilità contestuali ma è capace soltanto di ragionare sulle grandi cause appunto trasferendo sul piano astratto tra bene e male e giusto e ingiusto epurando il terreno di tutte le sue colpe. Di nuovo compare in Camus la tensione quando si dichiara contemporaneamente due cose: solitaire e solidaire. Vediamo riproposta l’idea secondo la quale c’è connessione, solidarietà ma c’è anche capacità di pensare da sé, di stare sulle proprie gambe. De Beauvoir

Walzer è particolarmente interessato a questo libro sulla donna («Il secondo sesso») perché qui De Beauvoir crea una ricerca filosofica più vitale e ricca di quella di Sartre, apre un continente di ricerca seguendo il suo naso, entra in un testo genealogico del femminismo. Secondo Walzer Beauvoir manifesta le caratteristiche del critico sociale anche in un’altra sua opera sulla terza età. Noi ci soffermiamo sul primo. Ma perché sceglie la donna come oggetto d’indagine? La risposta data ci riposta al tema del parlare criticamente di ciò a cui si appartiene. Beauvoir risponde dicendo che ha scelto se stessa che ha dato all’opera una taglio autobiografico, culturale e filosofico. L’idea di scegliere se stessa, di parlare di sé, di stare vicino a sé, di trasformare in un oggetto di critica una parte del proprio essere risponde pienamente per Walzer ai requisiti di una critica interna. Questo lavoro critico presenta una perplessità che De Beauvoir ha nei confronti della visione esistenzialistica della libertà che di nuovo corrisponde a una visione radicale del rapporto del soggetto con se stesso. L’idea esistenzialistica della libertà è un’idea secondo la quale il soggetto può inventarsi, può assumersi sino in fondo la responsabilità della sua libertà, contro tutto e contro tutti che fa di sé il suo progetto.

Quando De Beauvoir comincia a riflettere su questo punto, scrivendo la sua autobiografia, si rende conto che la concezione esistenzialistica della libertà è troppo semplice, e che se lei è riuscita a conquistare la libertà certamente non l’ha fatto nel

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modo immaginato dalla prospettiva inventiva della filosofia sartriana. Semmai la libertà nel suo caso è stata conquistata contro le circostanze, indipendentemente dalle circostanze, circostanze sfavorevoli e sfortunate. Ma dove stava il peso sulle ali? Nell’essere donna.

In Beauvoir la sua conquista della libertà era la conquista della libertà di vivere con un uomo insieme ad altri uomini. Quel tipo di libertà non era accessibile alle donne di quel momento e dunque da parte sua conquistata indipendentemente da loro. Il tipo di vita e carriera a cui era giunta erano in quel momento sostanzialmente accessibili solo ad una piccola parte, ad un élite. E’ proprio da questa difficoltà, da questa dissonanza, che l’oggetto donna, condizione della donna, questione della relazione simbolica tra la donna e l’uomo, relazione di dominio tra la donna e l’uomo assume nella sua mente un peso rilevante. Diventa cruciale per lei il rendere possibile per la donna liberarsi da quel destino che fino a questo momento ha rappresentato la sua anatomia che ha a che fare con l’idea che c’è una classe di esseri umani a cui il corpo cede illibertà e la non scelta di sé.

Walzer sottolinea il fatto che in Beauvoir, a differenza di Camus e Orwell, il contesto di riferimento è il suo essere donna e una riflessione critica sull’essere donne che parta dal riconoscimento del suo posizionamento eccentrico rispetto al gruppo al quale appartiene. Perché lei è riuscita a eccedere appunto il destino che alle donne non è permesso. Il suo lavoro va a indagare l’impossibilità di attenuare l’alterità della donna. Come attenuare a questa alterità considerando la donna un soggetto a pieno titolo?

Beauvoir si pone come critico interno della condizione femminile, della condizione di quell’essere umano chiamato donna e la sua percezione che questo essere umano chiamato donna non è dato in natura ma costruito culturalmente: donne si diventa, si diventa ciò che la cultura e il simbolico hanno costruito come quell’essere umano che si chiama donna dal quale tutti si attendono delle determinate prestazioni. Noi siamo socializzate a ciò che si chiama donna che non è dato in natura, perché l’anatomia non è un destino. Questo modo di rapportarsi con la propria condizione, secondo Walzer, mima il modo di Amos.