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Stesura provvisoria Giorgio Lunghini Elementi di economia politica Il modello standard e le teorie alternative Dispense a uso esclusivo degli studenti dell’Istituto Universitario di Studi Superiori Pavia 2012
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Elementi Di Economia Politica (2012)

Jul 30, 2015

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Stesura provvisoria

Giorgio Lunghini

Elementi di economia politica Il modello standard e le teorie alternative

Dispense a uso esclusivo degli studenti dell’Istituto Universitario di Studi Superiori

Pavia 2012

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INDICE

Premessa p. 3 La teoria neoclassica p. 4 Un semplice modello neoclassico aggregato p. 8 L’economia politica classica e la critica marxiana p. 14 Economia politica e capitalismo p. 15 Le determinanti del sovrappiù p. 17 Quesnay: Le condizioni per la riproduzione p. 19 Smith: Il lavoro p. 23 Ricardo: La distribuzione del prodotto sociale p. 30 Ricardo: Accumulazione e saggio dei profitti p. 35 Marx e i Classici: Il valore come sostanza e come misura p. 38 Marx: Plusvalore e profitto p. 41 Marx: Riproduzione e crisi p. 43 Marx: La caduta tendenziale del saggio dei profitti p. 50 Critica della teoria neoclassica : Keynes e Sraffa p. 54 La critica di Keynes p. 56 La critica di Sraffa p. 70 Letture consigliate p. 75

Queste dispense sono tratte da: G. Lunghini, Riproduzione, distribuzione e crisi, Edizioni Unicopli, Milano 1996; S. Lucarelli, Critica dell’economica: Keynes e Sraffa - Appunti dalle lezioni di Giorgio Lunghini nell’Università L. Bocconi, Milano 2004; G. Lunghini e E. Vesentini, La teoria economica e il suo linguaggio, in: “Enciclopedia del XXI Secolo”, vol.1, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2009.

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Premessa

La teoria economica oggi dominante - la teoria neoclassica - si presenta come una teoria capace di indagare qualsiasi aspetto della attività umana. Essa sembra essere riuscita in un’impresa che sinora la fisica ha mancato, la proposta di un modello unificato di spiegazione della realtà considerata di propria competenza; di certo essa è riuscita a imporre come elementare e indiscutibile buon senso la sua visione del mondo e le conseguenti raccomandazioni politiche. Tuttavia non esiste una sola teoria economica: a fianco della teoria dominante coesistono altre teorie, teorie che si possono definire eterodosse ma che non per questo si possono considerare superate o irrilevanti. Sono numerosi e attivi, anche e in alcuni campi soprattutto in Italia, gli economisti che si rifanno alla tradizione classica e marxiana, o a quei grandi autori del Novecento, come J.M. Keynes, P. Sraffa e J. A. Schumpeter, che alla teoria neoclassica hanno mosso critiche radicali.

L’economia è una disciplina che non progredisce, o per lo meno non progredisce nel senso in cui progrediscono la fisica e la medicina, cioè con l’acquisizione di nuovi risultati sostanziali. Anche nelle scienze della natura coesistono teorie rivali, ma le scienze della natura dispongono, in generale, di criteri sufficientemente robusti per accertare lo statuto epistemologico delle diverse teorie. L’economia non si occupa di un oggetto naturale, bensì della società e di una società storicamente determinata; nel lavoro teorico, e nella competizione tra le diverse teorie economiche per l’egemonia culturale, l’elemento politico ha perciò un peso importante, talora determinante. Bisogna allora chiedersi quali siano le caratteristiche della teoria neoclassica, quando e come questa teoria sia nata, e in che modo essa sia diventata e sia tuttora dominante; e ripercorrere poi le altre epoche della storia delle teorie economiche, per proiettare su uno sfondo questa teoria e così mettere in evidenza quei temi che essa ha rimosso, temi cruciali in questo inizio di secolo. “Lo studio della storia del pensiero”, scrive Keynes, “è premessa necessaria alla emancipazione della mente. Non so che cosa renderebbe più conservatore un uomo, se il non conoscere niente altro che il presente, o niente altro che il passato”.

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La teoria neoclassica

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Intorno al 1870, in curiosa coincidenza con l’inizio della Grande depressione, la teoria economica è travolta da una vera e propria rivoluzione (nel senso di T. Kuhn), da un radicale rovesciamento di prospettiva rispetto a quella dell’economia politica classica e della critica di questa da parte di Marx. Ne sono protagonisti studiosi di diversi paesi e di varia formazione (W. S. Jevons, P. H. Wicksteed, F. Y. Edgeworth e A. Marshall in Inghilterra, C. Menger e E. Böhm Bawerk in Austria, il francese L. Walras e l’italiano V. Pareto in Svizzera, I. Fisher in America, K. Wicksell in Svezia). Tutte le teorie economiche comprendono una teoria del valore, cioè una qualche spiegazione di che cosa determini il valore e i prezzi delle merci. Il cambiamento più importante e vistoso, nella teoria neoclassica, è l’abbandono della teoria del valore-lavoro, su cui si fondavano le teorie dei classici e di Marx, e l’adozione di una teoria del valore-utilità, una teoria che pone “come unico principio di tutta la teoria del valore di scambio quella piccola cosa, così facilmente trascurata, che è la variabilità del valore d’uso o della stima soggettiva del valore”.

L’introduzione della categoria dell’utilità nel discorso economico, come nuovo fondamento della teoria del valore, si accompagna a un importante cambiamento metodologico. La meccanica razionale, e con essa il calcolo infinitesimale, viene assunta come paradigma teoretico. Un modello epistemologico, quello della fisica dell’Ottocento, del tutto inappropriato per una scienza sociale e però accademicamente seducente. La scientificità o meno di un ragionamento economico viene fatta dipendere dalla sua formalizzazione matematica, e la teoria del valore viene ridotta a un mero problema di calcolo: si tratta di calcolare, sulla base di determinate condizioni, quei prezzi che sul mercato assicurano l’equilibrio tra la domanda e l’offerta dei beni. Nella teoria neoclassica, a differenza dell’economia politica classica, l’oggetto dell’analisi non sono più le classi sociali, definite sulla base delle loro relazioni con la produzione e la distribuzione del sovrappiù, ma è l’individuo con i suoi gusti (o preferenze) e i suoi bisogni. La teoria neoclassica è una teoria essenzialmente microeconomica, una teoria che come suo compito principale assume quello di spiegare, sulla base dei loro gusti e dei loro bisogni, le scelte che gli individui compiono nel mercato. L’homo œconomicus è analogo a un punto materiale soggetto a vincoli nel mondo della meccanica razionale; egli si muoverà nello spazio del mercato, entro i limiti imposti dalle proprie risorse e dai comportamenti altrui, finché il sistema non avrà raggiunto un equilibrio statico. La teoria economica si riduce così a una scienza pseudonaturale, libera da coordinate storiche e ideologiche. Questi due sviluppi, la matematizzazione del discorso economico e l’individualismo metodologico (ovvero il principio secondo cui è scientifica soltanto una spiegazione che parta dall’analisi del comportamento dei

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singoli individui), si sposano perfettamente con la nuova categoria dell’utilità. Il problema delle scelte individuali viene concepito e formulato come un semplice problema matematico di massimizzazione di una funzione obiettivo, il cui argomento è l’utilità. Ogni individuo è caratterizzato da una propria funzione di utilità, e dalla soluzione del problema individuale di massimizzazione dell’utilità si ricavano le funzioni individuali di domanda e di offerta, ovvero le quantità di beni che, dati i propri gusti e la propria dotazione iniziale (la propria ricchezza), ogni soggetto desidera domandare o offrire sul mercato in corrispondenza di ogni possibile valore dei prezzi dei beni stessi. Così determinate le quantità dei beni domandate e offerte da ogni singolo soggetto, sulla base delle funzioni individuali di utilità, è possibile procedere alla loro aggregazione, in modo da calcolare le quantità domandate e offerte nel mercato dall’insieme dei soggetti, in corrispondenza dei diversi prezzi. Il prezzo di equilibrio di mercato di un bene risulta essere quel prezzo, in corrispondenza del quale la quantità domandata è uguale alla quantità offerta. La ‘legge della domanda e dell’offerta’ non è altro che questo: la determinazione, attraverso variazioni delle quantità e dei prezzi, di quella configurazione prezzo - quantità che soddisfa la condizione di uguaglianza tra domanda e offerta del bene. Se nel mercato la quantità domandata eccedesse la quantità offerta, il prezzo del bene aumenterebbe finché viene ristabilito l’equilibrio (se fosse invece la quantità offerta a eccedere la quantità domandata, si avrebbe una diminuzione del prezzo). All’equilibrio dei mercati presiederebbe dunque una sorta di ordine naturale.

Secondo Walras (il massimo teorico della scuola neoclassica), il mercato funziona come un calcolatore: “Anche nella pratica, ci sono dei mercati in cui le vendite e gli acquisti si fanno à la criée per mezzo di agenti, quali agenti di cambio o agenti di commercio, e questi mercati sono proprio quelli meglio organizzati sotto l’aspetto della concorrenza. Ma, da un punto di vista teorico, la presenza degli agenti è forse più necessaria di quella degli scambisti stessi? Niente affatto. Questi agenti sono gli esecutori puri e semplici di ordini scritti su dei carnets; se invece di ‘gridare i prezzi’, essi dessero questi carnets a un calcolatore, il calcolatore determinerebbe il prezzo di equilibrio non certo altrettanto rapidamente, ma senz’altro più rigorosamente di quanto non avvenga mediante il meccanismo del rialzo e del ribasso. Noi siamo questo calcolatore: le nostre curve di domanda rappresentano gli ordini degli scambisti; ci si dia il tempo necessario e potremmo determinare matematicamente i nostri prezzi di equilibrio”.

Una impostazione simile ha conseguenze di grande portata circa la visione del processo economico. La teoria neoclassica è essenzialmente microeconomica, ma si pronuncia anche sul funzionamento del sistema economico nel complesso, funzionamento che viene concepito come

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risultato degli esiti aggregati dei comportamenti microeconomici. Se sul mercato del lavoro non vi sono attriti o rigidità artificiali, vi si determinerà un saggio di salario di equilibrio, nel senso che in corrispondenza a esso vi sarà piena occupazione (non ci sarà disoccupazione involontaria). Dato il livello dell’occupazione di pieno impiego, l’intera capacità produttiva verrà utilizzata; la produzione che ne risulterà, nella forma di beni di consumo e di beni di investimento, verrà interamente venduta. Infatti la teoria neoclassica fa propria la cosiddetta legge di Say, secondo la quale l’offerta crea la propria domanda. La moneta è presente soltanto come strumento utile per facilitare gli scambi, non anche come possibile riserva di valore; dunque non vi saranno problemi di realizzazione. Nel mondo neoclassico la moneta è neutrale, nel senso che la quantità di moneta non ha nessuna influenza sulle grandezze reali, cioè sul livello dell’occupazione e della produzione.

Quanto al modo in cui il prodotto sociale verrà distribuito nella forma di redditi, anch’esso sarebbe governato da un ordine naturale, anziché da un conflitto tra le parti. Se si concepisce e si legittima ciascuna quota distributiva come il corrispettivo per i servizi produttivi dei fattori della produzione, di cui ciascun soggetto è proprietario, la distribuzione del prodotto sociale non è determinata anche da un conflitto tra le classi, ma soltanto dalle condizioni tecniche della produzione, condizioni che sono assunte come date.

Si costituisce così quella Grande teoria, o Grande sistema della scienza economica (G. L. S. Shackle), che si affermerà come teoria dominante, quale è ancora oggi. In breve: la Grande teoria è la teoria di un equilibrio generale atemporale, perfettamente concorrenziale e di piena occupazione. Con l’avvento della Grande teoria la teoria economica, da indagine sistemica circa le cause e le leggi della ricchezza, della sua distribuzione e della sua accumulazione, quale era l’economia politica per i classici e per Marx, si riduce all’economica; economica che secondo la fortunata definizione di L. Robbins è la scienza che studia la condotta umana come una relazione tra scopi e mezzi scarsi applicabili a usi alternativi. Scienza che vorrebbe essere la scienza di un sistema economico in generale, di un sistema economico astratto; astratto non nel senso in cui lo è qualsiasi oggetto teorico, ma nel senso che non è soggetto a determinazioni storiche o istituzionali: nella teoria neoclassica, la storia non conta. Di un sistema in cui vi sarebbero armonia, certezza e equilibrio, se il mercato fosse liberato da qualsiasi impedimento artificiale e da improvvidi interventi dello Stato. Per realizzare il migliore dei mondi possibili, sarebbe dunque necessaria e sufficiente la politica del laissez faire.

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Un semplice modello neoclassico aggregato

La teoria economica neoclassica (la teoria egemone dopo il 1870), anziché analisi di un dato modo di produzione, è tecnica di soluzione del problema economico che vi è assunto come generale ed eterno: secondo quali rapporti gli individui dovrebbero redistribuirsi, mediante lo scambio (e come se la produzione fosse produzione per l’uso), i beni e i servizi produttivi di cui dispongono inizialmente, allo scopo di ottenere la situazione finale più vantaggiosa, secondo le loro preferenze. In questo schema la struttura di classe diventa analiticamente irrilevante, e così il concetto di sovrappiù.

I parametri dello schema neoclassico sono i seguenti: a) le dotazioni iniziali di risorse e una tecnologia efficiente, come determinanti dell’offerta; b) i gusti o preferenze degli individui e la distribuzione fra questi della proprietà delle risorse, come determinanti della domanda. Sono invece variabili endogene: a) le quantità di servizi produttivi destinate alla produzione di ciascun bene; b) le quantità di ciascun bene o servizio destinate a ciascun consumatore; c) i prezzi dei servizi produttivi (dunque i redditi dei proprietari delle risorse); d) i prezzi dei beni finali (e dunque i redditi degli addetti alla produzione). Questi prezzi assicurano l’equilibrio del sistema, in quanto

assicurano che per nessun bene o servizio produttivo la domanda ecceda l’offerta, e in quanto tutti i redditi sono determinati simultaneamente, poiché il caso e il mercato mediano e rimediano i privilegi e i rapporti di forza. Nel sistema neoclassico la teoria e la pratica economica si risolvono tutte e interamente nella teoria e nella pratica dei rapporti di scambio. Questo approccio riduce la teoria del valore a teoria dei prezzi di mercato, sopprimendo i problemi lasciati irrisolti dai classici e resi espliciti dalla marxiana critica dell’economia politica. Se nel sistema teorico classico la teoria dei prezzi è solo un termine medio dell’analisi del valore, della distribuzione e dell’accumulazione, e i prezzi di equilibrio sono condizione soltanto necessaria per la riproduzione del rapporto capitalistico, nel sistema teorico neoclassico i prezzi di equilibrio sono condizione sufficiente per il mantenimento dello status quo ante, e ogni problema viene ridotto a un problema di scelta.

La teoria neoclassica è infatti una teoria dell’allocazione ottima di risorse date, in vista della massima soddisfazione del consumatore. Questo

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problema, e conseguentemente quello distributivo, si pone e si risolve nella sfera dello scambio piuttosto che della produzione. Se si assumono le risorse e la tecnologia come parametri, le scelte individuali di consumo possono essere trattate come le determinanti di tutte le variabili importanti: allocazioni dei fattori, prezzi, redditi e allocazioni delle merci. La teoria della scelta è dunque il nucleo dell’economia neoclassica.

Questo nucleo teorico, e le conseguenti scelte di politica economica che da esso derivano, possono essere illustrate con un semplice modello di equilibrio economico generale aggregato, in cui il prezzo dei beni, dei servizi e dei fattori della produzione, risulta determinato dalle leggi della domanda e dell’offerta: ‘leggi’ tali che non esisterà disoccupazione involontaria, la produzione verrà massimizzata sotto il vincolo delle tecnologie disponibili, i prezzi verranno minimizzati date le condizioni di circolazione della moneta.

Mercato del lavoro Sul mercato del lavoro si individua un salario (reale) di equilibrio

(w* = w*/p*), tale che - date le tecniche che massimizzano la produzione e date le condizioni di circolazione della moneta che minimizzano i prezzi – in corrispondenza a quel livello di salario non vi sarà disoccupazione

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involontaria. In questo senso, l’equilibrio descritto da un modello di equilibrio economico generale è un equilibrio di piena occupazione.

L’offerta di lavoro (NS) viene determinata a partire dall’utilità marginale dei singoli agenti; la domanda di lavoro (ND) viene determinata a partire dalla produttività marginale delle singole imprese. Le due curve sono ricavate dall’aggregazione delle singole offerte e delle singole domande. Si suppone che il mercato del lavoro funzioni in condizioni di concorrenza perfetta e che i lavoratori siano perfettamente mobili da un settore all’altro e da un territorio all’altro. Per ogni dato livello dello stock di capitale, le imprese richiedono lavoro, in modo da massimizzare i profitti totali. Detto in termini microeconomici, le imprese assumono lavoratori fino a che la produttività marginale del lavoro non sia uguale al saggio di salario reale.

Esisterebbe, in altre parole, un livello naturale del salario, in corrispondenza del quale si ha piena occupazione della forza lavoro, piena utilizzazione della capacità produttiva, e - data la quantità di moneta - il più basso livello dei prezzi. Ne segue un importante corollario: tra profitti e salari, dunque tra capitale e lavoro, non vi sarebbe conflitto, poiché qualsiasi tentativo di spingere i salari al di sopra del livello di equilibrio comprometterebbe un presunto ordine naturale.

Mercato dei beni La teoria neoclassica accetta la legge di Say, dunque assume

l’esistenza di meccanismi di mercato capaci di assicurare che il reddito non consumato sia interamente speso in investimenti. Il livello del prodotto dipende dalle quantità impiegate dei fattori capitale e lavoro.

Ciò viene rappresentato da una funzione di produzione del tipo, Y= f(K, N), f’N> 0, f’K> 0. Le funzioni prevalentemente assunte dalla teoria neoclassica standard postulano:

a) rendimenti costanti di scala: f(aK, aN)=aY, a > 0; b) produttività marginale decrescente di ciascun fattore al crescere della

sua quantità impiegata (ceteris paribus): f’N> 0, f’’N < 0. Una funzione che soddisfa questi requisiti è la cosiddetta funzione di

produzione Cobb-Douglas: Y= AKαNβ, α+β = 1.

La funzione di produzione neoclassica rappresenta una sintesi del principio che per qualsiasi livello della produzione, il valore della domanda non sarà mai inferiore al valore dei beni prodotti. Lo stesso principio è espresso dalla legge di Say, secondo cui l’offerta crea sempre la propria domanda. Dalla funzione di produzione può essere dedotta l’offerta aggregata di beni (YS), una volta noto lo stock di capitale corrente K e la

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quantità di lavoro che le imprese desiderano occupare al salario reale di equilibrio:

YS = f(ND, K) = f[f(w*), K]

La domanda di beni di consumo viene costruita partendo dall’ipotesi che le famiglie preferiscano in generale consumare il proprio reddito disponibile nel presente piuttosto che in futuro. Ciò implica che esse saranno disposte a rinunciare a una parte del loro consumo presente solo se questa rinuncia, o risparmio, sarà remunerata da un interesse. La scelta dei consumatori si riduce quindi all’alternativa tra l’acquisto di beni di consumo (C) o il risparmio (S, il quale coinciderà con l’investimento I). La domanda aggregata di beni viene pertanto a dipendere dal livello del tasso di interesse reale (r) che premia i parsimoniosi. Il tasso di interesse viene inteso come costo della capitalizzazione e non è considerato un fenomeno monetario, ma un prezzo qualunque sul mercato delle merci.

D = D(r) = C(r) + I(r), D’(r) < 0 Nell’ambito della teoria neoclassica domanda e offerta sono le

determinanti dell’equilibrio: la legge della domanda e dell’offerta è la legge dell’equilibrio, su tutti i mercati e per il sistema nel complesso: come se domanda e offerta fossero forze indipendenti e simmetriche:

YS = D(r) La domanda complessiva si compone di due parti fondamentali, per

beni di consumo e per investimenti; dunque un altro modo di esprimere la condizione di equilibrio è postulare una relazione di identità fra risparmio (S) e investimenti (I):

YS - C(r) = S(r) = I (r), S’(r) > 0 Si tratta allora di vedere se esista un meccanismo in grado di

garantire l’uguaglianza tra risparmio e investimenti in corrispondenza di qualsiasi livello di risparmio. Secondo gli economisti neoclassici tale meccanismo esiste e è fornito dai movimenti del tasso di interesse (r). Al diminuire di r diventa conveniente un maggior volume di investimenti: esiste sempre un livello di r in corrispondenza del quale il volume degli investimenti è in grado di assorbire qualunque ammontare di risparmio. La possibilità di suscitare un ammontare di investimenti di qualunque grandezza desiderata garantisce un volume di domanda di pari ammontare, così che il sistema si assesterà – in assenza di attriti sui mercati o di improvvidi interventi dello Stato – a un livello di piena occupazione (Y*).

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Mercato della moneta Nello schema neoclassico la moneta è un soltanto un numéraire,

dunque non influisce sui livelli di produzione, occupazione, salario reale e tasso di interesse. Si assume che la moneta sia desiderata soltanto al fine di effettuare scambi. Inoltre essa non rende alcun interesse e quindi non può entrare in concorrenza con i titoli. Vale pertanto la teoria quantitativa della moneta: la quantità di moneta in circolazione (M), moltiplicata per il numero medio di volte che circola nell’unità di tempo (v) eguaglia il valore della produzione scambiata (pY):

Mv = pY Una volta che la produzione di equilibrio, Y*, sia stata determinata

sul mercato dei beni, e assumendo che la velocità di circolazione della moneta (v) sia una costante istituzionale determinata dalle abitudini di pagamento della collettività, le variazioni dell’offerta di moneta (M) si riflettono unicamente sul livello dei prezzi assoluti (p).

p = Mv/Y

Dunque la moneta è neutrale, non avendo influenza né sul salario reale, né sul tasso di interesse. Una notevole implicazione di questo assunto è che le decisioni delle banche centrali sullo stock di moneta non avrebbero alcuna influenza sui livelli di produzione e occupazione.

Il sistema dei prezzi In questo contesto, il sistema dei prezzi assume per tutti i singoli

agenti una funzione parametrica: nel senso che ciascuno degli agenti deve assumerli come dati. Il ruolo dei prezzi nella determinazione dell’equilibrio neoclassico può dunque essere descritto nel modo seguente. Si supponga che in un certo momento si fissino a caso dei prezzi. Soggetti e imprese li assumono come dati e vi conformano i propri comportamenti massimizzanti. In conseguenza di tali comportamenti si formeranno sul mercato offerte e domande di beni e servizi produttivi da parte dei soggetti e delle imprese; niente assicura, tuttavia, che l’offerta complessiva e la domanda complessiva siano uguali su tutti i mercati. Lo sarebbero soltanto se i prezzi criés par hazard, per caso (ecco il “caso” neoclassico) coincidessero con quelli di equilibrio. Se però i prezzi non sono quelli di equilibrio, su alcuni mercati vi sarà un eccesso di offerta, su altri un eccesso di domanda: cosicché le posizioni di massimo individuali non saranno compatibili fra loro. Si darà allora una nuova fissazione dei prezzi, tale che saranno minori, rispetto a quella iniziale, i prezzi nei mercati sui quali vi è un eccesso di offerta, maggiori là dove vi è un eccesso di domanda. Gli

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aggiustamenti proseguiranno fin quando offerta e domanda non saranno uguali su tutti i mercati. La stabilità è dunque presupposta, e la concorrenza costituisce il meccanismo che assicurerebbe in maniera impersonale e oggettiva il raggiungimento della configurazione di equilibrio. La soluzione teorica, mediante il calcolo matematico, e la soluzione pratica del problema della determinazione dell’equilibrio, mediante i tâtonnements del mercato, cioè mediante il meccanismo della concorrenza, vengono a coincidere.

Nello schema neoclassico il mercato funziona come una macchina perfetta, anzi come un calcolatore, direbbe Walras: Anche praticamente, ci sono dei mercati in cui le vendite e gli acquisti si fanno à la criée per mezzo di agenti, quali agenti di cambio o agenti di commercio, e questi mercati sono proprio quelli meglio organizzati sotto il rapporto della concorrenza. Ma, da un punto di vista teorico, la presenza degli agenti è forse più necessaria di quella degli scambisti stessi? Niente affatto. Questi agenti sono gli esecutori puri e semplici di ordini scritti su dei carnets; se invece di “ gridare i prezzi”, essi dessero questi carnets a un calcolatore, il calcolatore determinerebbe il prezzo di equilibrio non certo altrettanto rapidamente, ma senz’altro più rigorosamente di quanto non avvenga mediante il meccanismo del rialzo e del ribasso. Noi siamo questo calcolatore: le nostre curve di domanda rappresentano gli ordini degli scambisti; ci si dia il tempo necessario e potremmo determinare matematicamente i nostri prezzi di equilibrio.

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Economia politica e capitalismo

L’economia politica si costituisce come disciplina autonoma quando si afferma il modo di produzione capitalistico, inteso come forma storicamente determinata di organizzazione dei rapporti materiali dell’esistenza. L’autonomia teoretica dell’economia politica corrisponde alla costituzione del processo economico come processo a sé stante, come processo circolare: in questo senso si può dire che l’economia politica è scienza del capitalismo. Questa coincidenza può essere argomentata a partire dal concetto di sovrappiù, concetto su cui si fondano l’economia politica classica e la critica marxiana. Il sovrappiù è quel che resta del prodotto sociale (tutto quanto viene prodotto in un’economia, in un dato periodo di tempo), una volta reintegrati i mezzi di consumo necessari per la sussistenza e la riproduzione dei lavoratori produttivi (produttivi di sovrappiù), nonché i mezzi di produzione consumati o logorati nel processo produttivo. Per definizione il sovrappiù sarà nullo in un’economia di mera sussistenza o in stato stazionario, ma normalmente sarà positivo. Il sovrappiù può essere positivo in qualsiasi modo di produzione. Ciò che distingue le diverse formazioni economiche della società, per esempio la società della schiavitù da quella del lavoro salariato, sono le forme in cui il sovrappiù viene prodotto, le persone o classi che se ne appropriano, l’uso che ne verrà fatto, e il ruolo che in tutto ciò hanno l’istituto della proprietà, il mercato e la moneta. In un’astratta società precapitalistica (‘feudale’) il sovrappiù viene prodotto mediante il comando diretto, non mediato dal mercato, del lavoro dei servi. Si pensi alla corvée, il lavoro non pagato dovuto al signore: tre giorni alla settimana dedicati a coltivare i fondi servili e tre impiegati sui fondi dominici. Del sovrappiù, in natura o in denaro, il signore si appropria in forza di un rapporto di potere strettamente politico, e lo impiega non per l’allargamento del processo produttivo, ma per quello che si può chiamare “consumo signorile”. Il sovrappiù esce, per così dire, dal processo produttivo e viene destinato ad altro. Al mercato si ricorre essenzialmente per gli scambi intercomunitari, e la moneta ha come funzione pressoché esclusiva quella di agevolare gli scambi, evitando il baratto. Quali che ne siano stati i percorsi e i momenti, l’“accumulazione originaria” o la “grande trasformazione”, la recinzione delle terre e l’introduzione del sistema di fabbrica, le rivoluzioni borghesi e la rivoluzione industriale, con l’avvento del capitalismo si assiste ad una polarizzazione della società. Se si trascurano i residui feudali (i rentiers, gli artigiani) sul mercato si fronteggiano due classi: i capitalisti, proprietari dei mezzi di produzione, e i lavoratori salariati, liberi ma proprietari di un’unica merce: la propria forza lavoro. Il sovrappiù (se realizzato) prende la forma

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di profitto, e questo, il profitto e non l’uso, diventa lo scopo della produzione. Del sovrappiù il capitalista si appropria in quanto possiede o controlla i mezzi di produzione, ma dopo aver pagato al suo prezzo la forza lavoro. Il sovrappiù, d’altra parte, non è più destinato al consumo ma alla riproduzione allargata del processo produttivo. Tutti i rapporti fra gli uomini passano per il mercato, il mercato pervade tutta la società. La moneta diventa essenziale al processo di produzione e riproduzione, poiché il processo capitalistico non è volto alla produzione di valori d’uso ma alla produzione di valori di scambio. Questo è un punto particolarmente importante, che dopo Marx ha sottolineato Keynes: noi non viviamo in un’economia cooperativa, nella quale il processo è del tipo Merce-Denaro-Merce, cioè inteso a scambiare una merce contro denaro al fine di ottenere un’altra merce, atta a soddisfare bisogni diversi da quelli che possono essere soddisfatti con la merce posseduta e ceduta inizialmente. Questa può essere la prospettiva del singolo consumatore, per il quale scopo dello scambio è il valore d’uso. In un’economia monetaria di produzione, invece, questa non è la prospettiva del mondo degli affari, che dal denaro si separa in cambio di una merce secondo un processo del tipo Denaro-Merce-Denaro, cioè un processo inteso a ottenere più denaro per chi lo muove anziché al soddisfacimento dei bisogni dei consumatori. Nel sistema feudale l’immissione di lavoro nel processo produttivo e la destinazione del sovrappiù che ne risulta hanno determinazione extraeconomica. Il processo è, per così dire, un processo lineare, e il momento economico è qui un momento, un segmento, del processo di riproduzione sociale. Nel capitalismo tutto è soggetto a determinazione economica: i fattori economici entrano anche dove possono non essere desiderati. Da finalizzato ad altro, alla produzione di valori d’uso e al consumo signorile, con il capitalismo il processo economico diventa fine a se stesso, autonomo, circolare: un processo di produzione di denaro a mezzo di denaro. Allora acquista possibilità e senso una sua scienza autonoma e sistematica, l’economia politica.

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Le determinanti del sovrappiù

Il prodotto sociale P, cioè tutto quanto viene prodotto in un’economia in un dato periodo di tempo, si divide in tre parti: il consumo necessario N, cioè i mezzi di consumo necessari per la sussistenza e la riproduzione dei lavoratori produttivi (produttivi di sovrappiù), il reintegro dei mezzi di produzione C e il sovrappiù S (che può prendere due forme: rendita e profitto). Il sovrappiù è dunque quel che resta di P, una volta reintegrati N e C:

S = P - (N + C). Ai fini della determinazione quantitativa del sovrappiù gli

economisti classici assumono come note le circostanze seguenti: a) le condizioni tecniche della produzione (in termini di prodotto medio per lavoratore e di fabbisogno per lavoratore di mezzi di produzione); b) il livello di sussistenza del salario reale dei lavoratori; c) il numero dei lavoratori. Noto il prodotto medio per lavoratore e il numero dei lavoratori, risulta determinato il prodotto sociale P. Dato il salario reale e il numero dei lavoratori, risulta determinato il consumo necessario N. Dato il numero dei lavoratori e il fabbisogno per lavoratore di mezzi di produzione, risulta determinato l’ammontare C delle merci necessarie per reintegrare i mezzi di produzione consumati nel processo produttivo. Il sovrappiù S risulterà dalla somma algebrica di P, N e C. In generale il prodotto sociale sarà composto da beni eterogenei, mentre la determinazione quantitativa del sovrappiù richiede che i termini della somma algebrica da cui questo risulta siano espressi nella stessa unità di misura. Di qui la necessità di una teoria del valore. Da un lato una teoria del valore è necessaria al fine di spiegare l’origine del sovrappiù, dall’altro una teoria del valore è necessaria per fondare una teoria dei prezzi, mediante i quali rendere omogenee le diverse grandezze. Di ciò si dirà più avanti. È invece necessario qui un cenno alla verosimiglianza delle ipotesi circa la tecnologia e il salario di sussistenza.

Tecniche di produzione e salario Normalmente gli economisti trattano le tecniche di produzione come

una variabile esogena. Ciò non avrebbe conseguenze teoriche (e politiche) rilevanti se l’economia in cui viviamo fosse un’economia cooperativa. In questo caso le tecniche di produzione potrebbero essere trattate parametricamente, perché in ogni periodo la comunità sceglierebbe concorde le tecniche che rendono massimo il valore d’uso sociale dei beni e servizi prodotti. Nella realtà capitalistica le condizioni tecniche della produzione non sono una variabile extraeconomica. In una economia

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capitalistica la scelta delle tecniche di produzione è demandata a imprese che perseguono propri obiettivi, quali la massimizzazione dei profitti. Questi obiettivi non coincidono necessariamente con quelli della società nel suo complesso, e le scelte più convenienti per le imprese possono avere conseguenze indesiderabili per i lavoratori. Le macchine non sono neutrali, poiché possono avere usi (o addirittura forme) differenti nelle diverse società. I robot, ad esempio, potrebbero essere impiegati per risparmiare lavoro anziché lavoratori: per ridurre le ore di lavoro e la fatica degli occupati, che sarebbero più numerosi, e non per ridurre il numero dei lavoratori occupati, creando disoccupazione. Per quanto riguarda l’ipotesi circa il salario, sia gli economisti classici sia Marx, ma con ragioni diverse, assumono che il salario pagato sia quello di sussistenza, ovvero quello che in una data società e in un dato periodo consente la riproduzione della forza lavoro. Sul mercato del lavoro, tuttavia, è possibile che nel breve periodo il salario corrente sia maggiore di quello di sussistenza, ad esempio come conseguenza di un eccesso di domanda di lavoro. Occorre dunque una teoria ausiliaria circa le forze che faranno tendere il salario al suo livello di sussistenza. Ricardo risolve il problema rinviando alla demografia malthusiana, secondo la quale la variazione nel numero dei lavoratori è una funzione della differenza fra salario di mercato e salario di sussistenza. Salari ‘alti’ stimoleranno la crescita demografica (oggi si potrebbe pensare all’immigrazione) e faranno aumentare l’offerta di lavoro, riconducendo così il salario al livello di sussistenza. Marx suggerisce un’altra spiegazione, economica anziché demografica. Per i singoli capitalisti il salario è un costo di produzione e dunque cercheranno di renderlo minimo, così come faranno per qualsiasi altro costo di produzione. È una visione miope, perché i salari da un lato sono costi di produzione ma dall’altro sono potere d’acquisto, così che una riduzione dei salari può comportare una domanda effettiva minore: ai minori costi corrisponderanno minori ricavi. In ogni caso il singolo capitalista non può controllare direttamente il mercato del lavoro, mentre è signore nella fabbrica quanto a scelta delle tecniche di produzione. Nell’intento di minimizzare il costo del lavoro, egli adotterà tecniche di produzione risparmiatrici di lavoratori, alimentando un esercito industriale (e politico) di riserva, che a sua volta spingerà i salari verso il basso.

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Quesnay: Le condizioni per la riproduzione

Nella Francia della metà del Settecento l’industria, nel senso moderno del termine, è assente. Le attività manifatturiere e commerciali hanno forma artigianale. L’economia è fondamentalmente un’economia agricola, retta da rapporti giuridici di tipo feudale (alla corvée si rinuncia nel 1776). Nelle campagne francesi del settentrione il processo lavorativo comincia però a prendere forma capitalistica, sia per l’uso che vi si fa dei mezzi di produzione sia e soprattutto perché il lavoro è diventato lavoro salariato. Nel sistema fisiocratico l’agricoltura è il settore produttivo in cui si manifesta la produzione capitalistica, cioè la produzione di sovrappiù. La rivoluzione dell’Ottantanove e la rivoluzione industriale sono ancora lontane, tuttavia i fisiocratici, per dirla con Marx, riescono a scoprire l’essenza borghese nascosta nell’involucro feudale. A François Quesnay (1694-1774), il massimo esponente della scuola fisiocratica, si devono intuizioni e categorie analitiche ancora oggi insuperate, in primo luogo la visione del processo produttivo come processo circolare, come processo di produzione-riproduzione. Qualunque sia la forma sociale del processo di produzione, esso è insieme processo di riproduzione. Si riproduce costantemente il prodotto materiale, ma si riproducono anche i rapporti economici e sociali. Il Tableau économique mostra come il prodotto annuo, determinato in valore, si ripartisca attraverso la circolazione in maniera tale che, rimanendo invariate le altre circostanze, possa svolgersi la sua riproduzione semplice, cioè in maniera tale che il sistema possa riprodursi su scala invariata. Gli innumerevoli atti individuali di circolazione sono riassunti nella circolazione tra le grandi classi economiche della società. Per Quesnay è infatti essenziale, ai fini dell’analisi del processo di riproduzione, il concetto di classi sociali, sia pure nella loro forma precapitalistica: la classe produttiva, o degli agricoltori, la classe dei proprietari terrieri, la classe sterile o dei manifatturieri. A Quesnay, infine, si deve la nozione di capitale come anticipazione. Il capitale non è soltanto un insieme di beni capitali o una somma di denaro, ma è un rapporto sociale. L’idea di capitale come anticipazione sottolinea la presenza di alcune condizioni necessarie per l’avvio del processo produttivo capitalistico. Se il salario è a livello di sussistenza, e quindi i lavoratori non possono accantonare mezzi propri, il processo produttivo può essere avviato solo mediante una transazione denaro-merce tra capitalisti e lavoratori (in questo caso la merce è la forza lavoro).

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Il capitale come anticipazioni Per Quesnay le anticipazioni sono indispensabili ai fini della

produzione di un sovrappiù. Soltanto il capitale investito (in agricoltura) fa sì che il processo produttivo dia luogo ad un produit net; e l’origine di questo va ricercata non nella sfera della circolazione, che pure è essenziale alla riproduzione del sistema, ma nella sfera della produzione. La produzione non può essere ridotta a un rapporto immediato fra uomo e natura. Il processo di produzione di merci non può essere descritto semplicemente in termini di una combinazione di lavoro e terra, poiché per produrre merci occorre impiegare come mezzi di produzione anche quantità appropriate di queste stesse merci. L’ammontare del sovrappiù dipende crucialmente dalla entità e dalla composizione delle anticipazioni. Quesnay distingue tre tipi di anticipazioni: anticipazioni primitive, ossia quelle che hanno reso le terre coltivabili; anticipazioni fondiarie, che dotano i terreni delle attrezzature necessarie alla coltura; e anticipazioni annuali, ossia quelle spese che sono sostenute annualmente per il lavoro della coltura. Sono anticipazioni primitive il bestiame, gli edifici, gli attrezzi; anticipazioni fondiarie le opere idrauliche e di recinzione e in generale le opere di miglioramento permanente dei fondi; anticipazioni annuali i salari dei lavoratori, le sementi e tutte le altre spese annuali ricorrenti. Anticipazioni primitive e anticipazioni fondiarie hanno la natura del capitale fisso, e partecipano alla produzione del prodotto netto cedendo il loro valore nel corso di più periodi di produzione (e richiedendo quindi adeguati reintegri per ciascun periodo di produzione). Le anticipazioni annuali dei ricchi fittavoli hanno invece la natura di capitale circolante, in quanto trasferiscono il loro valore nei beni prodotti nel corso di un solo periodo di produzione. Tutte e tre queste forme di anticipazioni, nella loro composizione ed ammontare, sono essenziali nella determinazione dell’ammontare e della composizione del sovrappiù, che si forma soltanto nell’agricoltura ma che una volta distribuito e speso sostiene tutti i ceti e tutte le professioni. Così, il prodotto netto reso possibile da un dato ammontare di anticipazioni annuali non dipende soltanto da queste, ma anche dall’ammontare delle anticipazioni primitive e fondiarie. L’accumulazione di capitale in agricoltura è essenziale affinché crescano il prodotto lordo e la parte di questo costituita da prodotto netto. In particolare occorre che le anticipazioni siano di natura e ammontare tali da consentire la “grande coltura”, poiché soltanto così sarà possibile l’introduzione di metodi sempre più produttivi (di sovrappiù). Una somma di denaro diventa capitale soltanto se si trasforma in capitale produttivo, e quindi procura un prodotto netto per l’intera società.

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Le classi sociali Le tre classi sociali che Quesnay considera sono le seguenti: a) La classe produttiva (CP), identificata nell’agricoltura: è quella che coltivando la terra riproduce la ricchezza annuale della nazione, anticipa le spese dei lavori agricoli e paga annualmente il reddito ai proprietari terrieri.

b) La classe dei proprietari terrieri (PT): comprende il sovrano, i possessori dei terreni e i percettori di decime. Questa classe vive del reddito, o produit net, della coltura, che le viene pagato annualmente dalla classe produttiva dopo che questa ha prelevato dalla riproduzione, che essa fa rinascere annualmente, le ricchezze necessarie a rimborsarsi delle anticipazioni annuali e a conservare inalterate le ricchezze investite per lo sfruttamento dei terreni. c) La classe sterile (CS), costituita dai cittadini occupati in servizi e in lavori diversi da quelli dell’agricoltura, le cui spese sono pagate dalla classe produttiva e dalla classe dei proprietari.

L’unica caratteristica che le tre classi hanno in comune è la capacità di spendere, ed è proprio nella circolazione che si danno (che si possono dare) le condizioni necessarie per la riproduzione del sistema.

Il Tableau économique

Il modo in cui il processo circolare si è originariamente avviato non può essere spiegato all’interno dello schema di Quesnay (né in qualsiasi altro modello). Si dà infatti come ipotesi che la classe produttiva (CP) all’inizio di ciascun periodo si ritrovi con due miliardi di lire, che sono l’intera quantità di denaro esistente nel sistema. Si suppone inoltre che con anticipazioni annuali pari a due miliardi, la CP ottenga un prodotto pari a cinque miliardi, dei quali due miliardi di reddito o produit net. Ci si deve ora chiedere quale debba essere la successione di transazioni (monetarie e reali) fra le diverse classi, necessaria affinché ciascuna classe disponga delle anticipazioni o redditi necessari per riavviare il processo. I flussi monetari necessari affinché il processo di riproduzione possa ripetersi sono, in ordine temporale, i seguenti:

- to: La CP paga ai PT il reddito netto di due miliardi. - t1: I PT, che possono comperare senza vendere, spendono un miliardo nell’acquisto di prodotti agricoli, e un miliardo nell’acquisto di prodotti manifatturati. - t2: La CS spende un miliardo per l’acquisto, come mezzi di sussistenza, di prodotti agricoli.

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- t3: La CP compera prodotti manifatturati per un miliardo. - t4: La CS spende un miliardo per l’acquisto di prodotti agricoli, con i quali sostituisce le proprie anticipazioni. - t5 La CP è così tornata in possesso dei due miliardi di lire disponibili, e il processo di circolazione monetaria può ricominciare.

Se si considerano i flussi reali corrispondenti ai flussi monetari descritti sopra, compiuti gli scambi si avrà che:

- Presso i PT si troveranno prodotti agricoli per un miliardo e prodotti manifatturati per un miliardo, disponibili per il loro consumo. - Presso la CS si troveranno prodotti agricoli per due miliardi, di cui un miliardo come mezzi di sussistenza per i lavoratori ivi impiegati e un miliardo per la sostituzione delle anticipazioni annuali. - Presso la CP, oltre ai due miliardi in denaro che vi sono tornati e che al prossimo to dovranno essere pagati ai proprietari come reddito, saranno rimasti prodotti agricoli per due miliardi e vi si troveranno prodotti manifatturati per un miliardo.

Di questo fondo annuo di prodotti, di valore pari a tre miliardi, due miliardi costituiscono le anticipazioni annuali consumate per il lavoro diretto della riproduzione dei cinque miliardi (“che questa classe fa rinascere annualmente per restituire e perpetuare le spese che il consumo annulla”) e l’altro miliardo è prelevato dalla stessa classe produttiva sulle proprie vendite, come interesse sulle anticipazioni originarie. Questi “interessi”, che Quesnay giustifica con le manutenzioni rese necessarie dal deterioramento delle anticipazioni primitive e fondiarie, possono farsi ragionevolmente consistere, dal punto di vista fisico, nei manufatti che la classe produttiva ha acquistato dalla classe sterile. La classe produttiva è così di nuovo in grado di pagare, in denaro, il reddito dei proprietari. È altresì in grado, avendo reintegrato le anticipazioni annuali, di provvedere ad una riproduzione complessiva pari a cinque miliardi. Di questi, uno sarà comperato dalla classe dei proprietari e due dalla classe sterile. Questa potrà riprodurre due miliardi di manufatti, che venderà alle altre due classi. E così via: il processo produttivo potrà ripetersi.

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Smith: Il lavoro

Nell’Inghilterra di Adam Smith (1723-1790) il rapporto capitalistico ha ormai pervaso tutta l’attività produttiva. Ciò consente a Smith di fare un importante passo avanti rispetto ai fisiocratici: di riconoscere che in tutte le attività è possibile produrre sovrappiù, e che il sovrappiù prende non solo la forma di rendita (per i fisiocratici il produit net prende per l’appunto la forma di rendita pagata dalla classe produttiva alla classe dei proprietari), ma anche e soprattutto quella di profitto. D’altra parte Smith compie un passo indietro: trascura, nella determinazione quantitativa del sovrappiù, la quota del prodotto sociale necessaria al reintegro dei mezzi di produzione consumati nel processo produttivo: sarebbe capitale soltanto quello speso in salari, e sarebbe vero il “dogma veramente fantastico” per il quale il prezzo delle merci è composto soltanto di salario, profitto e rendita fondiaria, quindi soltanto di salario e sovrappiù. Errore analogo compirà David Ricardo, e questo, come si vedrà con Marx, ha conseguenze importanti sulla definizione e l’analisi del saggio dei profitti.

Lavoro produttivo e lavoro improduttivo Per Smith “il lavoro svolto in un anno è il fondo da cui ogni nazione

trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e comode della vita che in un anno consuma, e che consistono in effetti o nel prodotto immediato di quel lavoro o in ciò che in cambio di quel prodotto viene acquistato da altre nazioni”. Occorre distinguere, tuttavia, tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Per Quesnay l’unico lavoro produttivo (di sovrappiù) è quello prestato in agricoltura, mentre è improduttiva la classe dei manifatturieri e dei mercanti. Questa rappresentazione, per Smith, è inesatta. La classe dei manifatturieri e dei mercanti riproduce pur sempre, secondo lo stesso Quesnay, il valore del suo consumo annuo e perpetua l’esistenza dei fondi o capitali che la mantengono e la impiegano: “come un matrimonio dal quale nascono tre figli è certamente più produttivo di quello dal quale ne nascono solo due, così il lavoro degli agricoltori e dei lavoratori agricoli è certamente più produttivo di quello dei mercanti, degli artigiani e dei manifatturieri. Tuttavia la superiorità del prodotto di una classe non rende l’altra sterile e improduttiva”. Davvero improduttivi sono invece, per Smith, quei lavori, come quello dei domestici, che consistono “in servizi che generalmente si esauriscono nel medesimo istante in cui vengono compiuti e non si fissano e non si realizzano in nessuna merce adatta alla vendita, che possa ricostituire il valore dei loro salari e del loro mantenimento. Invece il lavoro degli artigiani, dei manifatturieri e dei mercanti si fissa naturalmente in qualche

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merce vendibile”. Secondo questa prima distinzione, sarebbe dunque produttivo soltanto il lavoro che si fissa in una merce vendibile sul mercato, e la merce è la forma più elementare della ricchezza borghese. Questa definizione esprime quindi un punto di vista superficiale: rappresenta le cose come esattamente appaiono al capitalista. L’altra distinzione smithiana, quella che coglie il “nesso interno” dei rapporti borghesi di produzione, muove dalla considerazione seguente. L’intero prodotto annuo si divide in due parti: una di queste è in primo luogo destinata a reintegrare un capitale, ossia a rinnovare i viveri, i materiali e il prodotto finito che sono stati ritirati da un capitale. L’altra parte è destinata a costituire un reddito: o come profitto per il possessore di questo capitale, o per qualche altra persona come rendita della sua terra. La prima di queste due parti “non è mai immediatamente impiegata per mantenere altro che i lavoratori produttivi; essa paga soltanto i salari del lavoro produttivo. La parte che è immediatamente impiegata per costituire un reddito, o come profitto o come rendita, può mantenere indifferentemente il lavoro produttivo o quello improduttivo”. È dunque lavoro produttivo (di sovrappiù) quello che si scambia contro un capitale, ossia un’anticipazione volta alla realizzazione di una somma maggiore di quella anticipata. È lavoro improduttivo quello che si scambia contro un reddito, ossia contro una spesa il cui unico fine è il consumo. Per Smith è volta a volta lavoro produttivo quello che si fissa in una merce vendibile e quello che produce un sovrappiù. La nozione qui rilevante è la seconda, per la quale è lavoro produttivo (di sovrappiù) il lavoro che si scambia contro capitale, mentre è lavoro improduttivo quello pagato dal reddito dei capitalisti e dei rentiers. Simmetricamente, si potrà dire che è capitale quella parte del fondo posseduto da un individuo che viene impiegata per mettere in attività il lavoro produttivo, e che quindi non solo consentirà di reintegrare le spese inizialmente sostenute, ma darà altresì luogo ad un reddito. L’altra parte del fondo, in quanto destinata al consumo immediato, non darà invece alcun reddito. Soltanto con l’impiego di lavoro produttivo sarà possibile un processo di accumulazione di capitale. Si manifesta così la duplicità del rapporto fra capitale e lavoro salariato: in quanto lavoro produttivo di sovrappiù, il lavoro produce il capitale, ma in quanto lavoro salariato esso viene comandato dal capitale. Il capitale può prendere la forma di capitale fisso e di capitale circolante. Come quasi tutte le distinzioni smithiane (quella fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, ma soprattutto quelle interne alla teoria smithiana del valore), anche questa è confusa, poiché gli elementi del capitale produttivo vengono distinti a seconda del modo in cui compaiono nella sfera della circolazione, anziché in quella della produzione. La distinzione fra capitale fisso e capitale circolante in Smith si regge

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letteralmente sul fatto che il capitale circoli oppure no, che generi un profitto restando presso il capitalista, dentro al processo produttivo, oppure distaccandosene, circolando con le merci prodotte. Per Smith, ad esempio, sono capitale fisso i fondi impiegati nel miglioramento delle terre coltivate, le costruzioni destinate alla locazione, gli strumenti di produzione di qualsiasi genere, il bestiame da lavoro, e le stesse “abilità acquisite e utili” dei lavoratori; mentre sono capitale circolante la moneta, le merci prodotte per la vendita, le materie prime impiegate in un processo produttivo o nel mantenimento del bestiame da lavoro, i salari dei lavoratori. Per quanto riguarda l’origine del sovrappiù e in particolare del profitto, Smith la individua nella produttività del lavoro. A sua volta, la produttività del lavoro dipende dalla divisione del lavoro, e questa dalla tendenza propria della natura umana al baratto e allo scambio: “Poiché è in questo modo, col baratto e con lo scambio, che noi otteniamo la maggior parte di quei reciproci buoni uffici di cui abbiamo bisogno, così è questa stessa tendenza a trafficare che in origine dà occasione al sorgere di quella divisione del lavoro, sulla quale si fonda tutto il benessere delle società evolute”. Nella produzione capitalistica il capitale, riunendo insieme un grande numero di lavoratori e anticipando loro le sussistenze di cui essi non dispongono, può attuare la migliore divisione del lavoro e può fornire agli operai le migliori macchine. La forma capitalistica di produzione sarebbe dunque destinata a diventare la forma dominante e definitiva dell’economia e della società. Se così fosse, la storia sarebbe finita. In effetti la forma capitalistica della divisione del lavoro, mentre rende il lavoro massimamente produttivo, fa anche sì che il lavoro sia un lavoro diviso. A questa forma di divisione sociale del lavoro, inoltre, non corrisponde una distribuzione equa del prodotto. La società borghese, secondo Smith, si regge sulla classe dei lavoratori produttivi e questi, producendo prodotto netto, sostengono se stessi e tutte le altre classi. I padroni, che avendo anticipato le sussistenze si appropriano del prodotto netto, ne trattengono per sé una parte come profitto, destinandola elettivamente alla accumulazione del capitale, e ne redistribuiscono l’altra parte ai proprietari fondiari e ai lavoratori improduttivi: “In un paese civile i poveri provvedono a se stessi e all’enorme lusso dei loro signori. La rendita che va a sostenere lo sfarzo dell’indolente padrone è stata tutta guadagnata dalla laboriosità del contadino. Chi possiede denaro, indulge ad ogni sorta di ignobile e sordido libertinaggio a spese del mercante e dell’artigiano, ai quali presta ad interesse il suo capitale. Tutte quelle frivole ed indolenti persone che sono addette alla Corte, sono, allo stesso modo, nutrite, vestite ed alloggiate da coloro che pagano le tasse per mantenerle. Tra i selvaggi, invece, ognuno gode dell’intero prodotto della propria attività”.

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Valore e prezzi Smith, a differenza dei fisiocratici, si trova a dover affrontare il

problema di che cosa determini il valore delle merci. Poiché per i fisiocratici il sovrappiù si produceva soltanto in agricoltura, di esso si poteva dare una determinazione quantitativa in termini fisici, come semplice differenza fra le quantità di beni prodotte e le quantità di beni impiegate come mezzi di produzione e mezzi di sussistenza. Quando possa darsi sovrappiù in tutte le attività produttive, come è per Smith, l’unica determinazione quantitativa logicamente possibile diventa quella in valore. Di qui la centralità della teoria del valore nell’analisi dell’economia capitalistica. Nella teoria smithiana del valore, il lavoro ha un ruolo cruciale come misura del valore stesso, come sua “misura reale”. Normalmente il valore di scambio di una merce è espresso in termini del denaro che se ne può avere in cambio, anziché in termini di lavoro o di un’altra merce. La moneta è però una unità di misura variabile. Anche il lavoro lo è, tuttavia, a differenza della moneta e di qualsiasi merce, è preferibile come unità di misura poiché “in ogni tempo e luogo, uguali quantità di lavoro si può dire abbiano uguale valore per il lavoratore. Nel suo stato ordinario di salute, di forza e d’animo, al livello ordinario della sua arte e della sua destrezza, egli deve sacrificare sempre la stessa quantità del suo riposo, della sua libertà e della sua felicità. Il prezzo che egli paga deve essere sempre lo stesso, qualunque sia la quantità di beni che ne riceve in cambio. Di questi, in effetti, a volte se ne potrà comprare una quantità maggiore, a volte una quantità minore, ma è il loro valore che cambia, non quello del lavoro con cui si comprano. [...] Soltanto il lavoro dunque, non variando mai nel suo proprio valore, è l’ultima e reale misura con cui il valore di tutte le merci può essere stimato e paragonato in ogni tempo e luogo. È il loro prezzo reale; la moneta è solo il loro prezzo nominale”.

Lavoro contenuto e lavoro comandato

Se “il lavoro svolto in un anno è il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e comode della vita”, sembrerebbe ragionevole dedurre che il valore di una merce dipende dal lavoro che vi è contenuto. Smith ritiene invece che ciò sia vero soltanto in quello stadio “rozzo e primitivo” della società, nel quale tutto il prodotto del lavoro appartiene al lavoratore. Così, “se in un popolo di cacciatori uccidere un castoro costa di solito un lavoro doppio rispetto a quello che occorre per uccidere un cervo, un castoro si scambierà naturalmente per due cervi, ovvero avrà il valore di due cervi”. Soltanto in questo caso “il rapporto fra le quantità di lavoro necessarie a procurarsi diversi oggetti sembra sia la

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sola circostanza che possa offrire una qualche regola per scambiarli l’uno con l’altro”. Quando la produzione abbia modi e fini capitalistici, sia cioè produzione per il profitto anziché per l’uso, questa semplice regola di determinazione dei prezzi relativi non vale più, poiché il prezzo di una merce dovrebbe pagare non soltanto il lavoro che vi è contenuto, ma anche profitti ed eventualmente rendite: “Non appena i capitali si sono accumulati nelle mani di singole persone, alcune di loro li impiegheranno naturalmente nel mettere al lavoro gente operosa, a cui forniranno materiali e mezzi di sussistenza allo scopo di trarre profitto dalla vendita delle loro opere o da ciò che il loro lavoro aggiunge al valore dei materiali. Nello scambiare il manufatto finito con moneta, con lavoro o con altri beni, oltre a quanto basti a pagare il prezzo dei materiali e il salario degli operai, qualcosa dev’essere dato per i profitti dell’imprenditore dell’opera, il quale rischia i suoi capitali nell’impresa. Il valore che gli operai aggiungono ai materiali si divide dunque in questo caso in due parti, una delle quali paga il loro salario, mentre l’altra paga i profitti di chi li impiega sul complesso dei capitali che ha anticipato per i materiali e i salari”. In una situazione capitalistica il prodotto del lavoro non appartiene tutto al lavoratore: “Nella maggior parte dei casi egli dovrà spartirlo col proprietario dei capitali che lo occupano. E la quantità di lavoro comunemente impiegata nel procurarsi o nel produrre una merce non è più l’unica circostanza che può regolare la quantità di lavoro che essa dovrebbe comunemente comprare, o comandare o ricevere in cambio. È evidente che una quantità addizionale deve spettare ai profitti dei capitali che hanno anticipato i salari e fornito i materiali di quel lavoro. Non appena la terra di un paese diventa tutta proprietà privata, i proprietari della terra, come tutti gli altri uomini, amano mietere dove non hanno seminato ed esigono una rendita anche per il suo prodotto naturale. Il legno della foresta, l’erba del campo e tutti i frutti naturali della terra che, quando la terra era in comune, costavano al lavoratore solo la pena di raccoglierli, vengono ad avere anche per lui un prezzo addizionale che si fissa su di essi. Egli deve pagare per il permesso di raccoglierli e deve dare al proprietario una quota di ciò che il suo lavoro raccoglie o produce”. Di qui un paradosso, peraltro fecondo: se si assume che il valore di una merce corrisponde al lavoro che si può comperare (“comandare”) con il ricavato della sua vendita, sembrerebbe che il lavoro comandato da una merce sia maggiore di quello che vi è contenuto. In verità Smith commette un errore, confondendo il lavoro contenuto con il salario pagato. L’ambigua conclusione smithiana è questa: “Il valore reale di tutte le diverse parti componenti del prezzo è misurato dalla quantità di lavoro che ognuna di esse può comprare o comandare. Il lavoro misura il valore non

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solo della parte del prezzo che si risolve in lavoro, ma anche di quella che si risolve in rendita e di quella che si risolve in profitto. In ogni società il prezzo di ogni merce si risolve, in definitiva, nell’una o nell’altra di queste parti o in tutte e tre, mentre in ogni società progredita tutte e tre entrano, poco o tanto, come componenti del prezzo della maggior parte delle merci”. Da un lato Smith pensa che sia il salario sia il profitto sono il risultato della divisione di un valore che ha precedentemente avuto origine dal lavoro erogato dal lavoratore. Dall’altro egli accenna una teoria “additiva” del valore, sostenendo che “salario, profitto e rendita sono le fonti originarie di ogni reddito, così come di ogni valore di scambio”. Da questa ambiguità hanno origine le due grandi linee di pensiero in tema di teoria del valore: da un lato chi ritiene che salario, profitto e rendita siano parti di un valore ad essi presupposto e che ha come sola origine il lavoro; dall’altro chi ritiene che dietro a ciascuna forma di reddito vi sia un distinto “fattore produttivo”.

Prezzi naturali e prezzi di mercato

La distinzione fra lavoro comandato e lavoro contenuto (e poi quella fra prezzi naturali e prezzi di mercato) può essere chiarita a partire dalla seguente definizione “additiva” del prezzo p di una merce:

p = w l + r k + r t dove w, r, e r stanno, rispettivamente, per saggio di salario, di profitto e di rendita; l, k, e t per fabbisogno unitario (o coefficiente) di lavoro, mezzi di produzione e terra. Se si prende a unità di misura il saggio di salario, dividendo primo e secondo membro per w si ottiene che il lavoro comandato (il quale assume il significato di un “prezzo relativo”) è pari a:

p (r k +r t) ____ = l + _____________ > l.

w w

Il lavoro comandato risulta maggiore del lavoro contenuto: la differenza fra lavoro comandato (p / w) e lavoro contenuto ( l ) è pari al sovrappiù (profitto e rendita) per unità di prodotto. Si dirà poi che il prezzo di una merce è al suo livello naturale se i saggi di salario, di profitto e di rendita sono uniformi nei diversi settori. Quando non lo fossero, i prezzi di mercato saranno diversi da quelli naturali. Se nel settore interessato i prezzi di mercato sono superiori alla media, saranno impiegati più lavoro, mezzi di produzione e terra, in tal modo aumentando la produzione offerta sul mercato. Il processo di concorrenza farà abbassare il prezzo di mercato. Vale il contrario quando i

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prezzi di mercato sono inferiori a quelli naturali. Si può dunque pensare che i prezzi di mercato “gravitino” attorno ai prezzi naturali. Smith, tuttavia, non spiega che cosa determini i saggi “naturali” di salario, profitto e rendita.

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Ricardo: La distribuzione del prodotto sociale

Per David Ricardo (1772-1823) il problema principale dell’economia politica non è l’indagine sulle cause della ricchezza delle nazioni, bensì la determinazione delle leggi che regolano la distribuzione del prodotto sociale, al netto della rendita, fra capitalisti e lavoratori. Come Smith, Ricardo concepisce il capitale nella sua materialità, e lo riduce alle anticipazioni salariali. Sotto questa ipotesi, il saggio dei profitti, che per definizione è uguale al rapporto fra l’ammontare dei profitti e il valore del capitale, risulta pari al rapporto fra profitti e salari, ed è dunque la misura ricercata della distribuzione del prodotto sociale netto di rendita fra capitalisti e lavoratori. Si tratterà perciò di individuare le determinanti del saggio dei profitti; il modo in cui il saggio dei profitti si muove con il procedere dell’accumulazione del capitale; e se e come l’introduzione delle macchine nel processo produttivo abbia influenza sugli interessi delle diverse classi della società (“argomento questo di grande importanza, che sembra non sia stato mai esaminato in modo da condurre a risultati certi e soddisfacenti”).

Le determinanti del saggio dei profitti Ricardo non dà una spiegazione dell’origine del profitto, poiché lo

concepisce come un residuo: come quel che resta nelle mani dei capitalisti, una volta pagati rendita e salari. Tuttavia la teoria ricardiana del saggio dei profitti mostra che il rapporto fra capitalisti e lavoratori salariati è un rapporto conflittuale, e questa è una importante implicazione politica dell’analisi ricardiana delle relazioni fra capitale sociale e processo lavorativo sociale, quali si danno nel modo di produzione capitalistico. Il saggio dei profitti, secondo Ricardo, dipende da due ordini di circostanze: dalle condizioni tecniche della produzione e dal saggio di salario. Date le condizioni tecniche della produzione (e in ogni dato momento esse sono date), saggio dei profitti e saggio di salario stanno fra di loro in una relazione inversa: ad un alto saggio di salario corrisponde un basso saggio dei profitti, e viceversa. Inoltre, e a differenza di quanto sosterrà la teoria neoclassica nella sua versione egemone, non è vero che ad una data configurazione delle tecniche di produzione corrisponda una ed una sola configurazione distributiva di equilibrio. In astratto, è compatibile con una configurazione data delle tecniche di produzione qualsiasi configurazione distributiva, compresa fra i due estremi in cui tutto il prodotto netto (di rendita) va ai salari, o in cui (al limite) tutto il prodotto netto va ai profitti. È importante sottolineare che ciò è vero soltanto in astratto: nella realtà non è vero che non esista un vincolo distributivo alla

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determinazione del livello di attività o al processo di accumulazione del capitale, e dunque non è vero che il salario sia una “variabile indipendente”. Il prodotto sociale che si spartiscono capitalisti e lavoratori è il prodotto sociale al netto della rendita. Sul livello del saggio dei profitti, e sulla sua dinamica nel corso del processo di accumulazione, hanno perciò influenza le determinanti della rendita stessa. Questa, secondo Ricardo (che ne mutua la spiegazione da Malthus), dipende dal fatto che il processo produttivo è caratterizzato da rendimenti decrescenti. Se si suppone, come Ricardo fa nella versione più semplice della sua teoria, che l’unica attività produttiva sia quella agricola e che le diverse terre abbiano diversa fertilità, allora la concorrenza fra capitalisti da un lato e fra proprietari terrieri dall’altro farà sì che la rendita risulti pari alla differenza fra il prodotto effettivamente ottenuto, e quello che si sarebbe ottenuto se tutte le terre fossero di fertilità pari a quella della terra meno fertile fra quante messe a coltura. Su quest’ultima la rendita è nulla e il suo prodotto (il prodotto marginale) basterà appena a pagare i salari e i profitti, ad un saggio dei profitti che per effetto della concorrenza dovrà essere uniforme su tutte le terre. Anche il saggio di salario dovrà essere uniforme su tutte le terre, e sarà mantenuto al livello di sussistenza dall’operare di un meccanismo demografico di tipo malthusiano.

Il saggio dei profitti in un modello semplificato Nella sua versione più semplice della teoria del saggio dei profitti,

Ricardo ragiona come se: a) il capitale consistesse soltanto nelle sussistenze anticipate dai capitalisti ai lavoratori (cioè nel consumo necessario N); b) tali sussistenze consistessero interamente e soltanto in unico tipo di merce: il “grano”. Ricardo ragiona cioè come se vi fosse omogeneità fisica fra mezzi di produzione e prodotto. In questo modo il problema del valore viene eluso, e il saggio dei profitti può essere espresso come rapporto fra quantità omogenee. Ricardo, inoltre, suppone che esistano terre di tipo differente, ordinabili secondo il grado di fertilità; e che quindi la produttività del lavoro applicato alla terra sia decrescente, via via che vengono messe a coltura nuove terre (col procedere dell’accumulazione del capitale, crescerà la popolazione e dunque aumenterà il fabbisogno di grano). Per determinare il saggio dei profitti, e dunque la relazione fra salario e profitto, occorre in primo luogo determinare l’ammontare della rendita, al fine di calcolare il prodotto sociale netto di rendita e quindi di analizzare il vero problema, quello delle quote relative dei profitti P e dei salari W. La rendita non entra nel valore delle merci: essa è una deduzione ex ante dal prodotto sociale, che ha origine dalla diversa fertilità delle terre coltivate e dalla concorrenza da un lato fra i capitalisti, dall’altro fra i rentiers. Poiché in regime di concorrenza il capitale va in cerca degli

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impieghi più fruttiferi, i capitalisti si disputeranno le terre più fertili fino a quando la rendita pagata ai proprietari delle terre non avrà coperto interamente la differenza fra il prodotto sociale totale e il prodotto sociale marginale, ossia il prodotto che si otterrebbe se tutte le terre avessero la fertilità della terra marginale. Sulla terra marginale non si paga rendita perché anche i proprietari terrieri si fanno concorrenza, e dunque accetteranno una rendita (tendenzialmente) nulla, purché la loro proprietà sia coltivata. È per questo che la rendita non entra nella determinazione del prezzo del grano, che infatti si determina sulla terra marginale: perché anche il prezzo del grano prodotto sulla terra marginale, che non può essere diverso da quello del grano prodotto sulle terre inframarginali, deve poter pagare saggi di profitto e di salario uniformi su tutte le terre. Al ragionamento ricardiano circa le determinanti del saggio dei profitti, nel caso semplificato in cui si produca soltanto “grano”, si può dare la forma seguente: (1) Funzione di produzione: X = f(N), dove X sta qui per il prodotto sociale totale, e N per il numero dei lavoratori. Le ipotesi su f sono: f(0) ≥ 0: si escludono produzioni negative; f’(0) > x, dove x sta qui per salario di sussistenza: se nemmeno la terra più fertile è in grado di produrre sovrappiù nella forma di profitti, il sistema, in quanto sistema capitalistico, non sarebbe “vitale”; f”(N) < 0: il lavoro, in quanto venga applicato a terre di fertilità via via minore, ha produttività marginale decrescente. (2) R = f(N) - N f’(N): la rendita è pari alla differenza fra il prodotto sociale totale e il prodotto sociale marginale. (3) W = N x: i salari sono pari al prodotto del numero dei lavoratori per il saggio di salario corrente. (4) K = W: il capitale consiste nelle sole anticipazioni salariali. (5) P = X - W - R: i profitti sono quel che resta del prodotto sociale, pagati i salari e la rendita. Si noti che il sistema (1) - (5) è sottodeterminato: comprende sette incognite ma solo cinque equazioni. Il modello può essere completato con una delle seguenti coppie di ipotesi: (6) N = N* e (7) K = K* (assumendo cioè che N* e K* siano dei dati), oppure (6 bis) x = x e (7). Definito il saggio dei profitti come r = P / K, dalle equazioni precedenti si ricava:

{f (N) - [f (N) - N f’ (N)] - N x} f’ (N) r = _______________________________ = ______ - 1.

N x x

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Questo vuole dire che il saggio dei profitti, la distribuzione del prodotto sociale (netto di rendita) fra capitalisti e lavoratori, dipende da due ordini di circostanze: non soltanto dalle condizioni tecniche della produzione, ma anche, e inversamente, dal saggio di salario. La spartizione del prodotto sociale dipende crucialmente dai rapporti di forza fra capitalisti e lavoratori, e non soltanto dalle condizioni tecniche della produzione. La teoria neoclassica sosterrà invece che il capitale, così come ogni altro “fattore” della produzione, dovrebbe essere remunerato secondo la sua produttività marginale, “produttività” che dipenderebbe soltanto dalle condizioni tecniche della produzione.

Per Ricardo i profitti sono invece un residuo: nella sfera della distribuzione non vi è armonia, bensì conflitto. Saggio di salario (x) e saggio dei profitti (r) stanno in una relazione inversa.

Dato il numero dei lavoratorie delle terre messe a coltura, e date le condizioni tecniche della produzione, esiste una ed una sola relazione, inversa, fra saggio di salario e saggio dei profitti. Il saggio di salario ovviamente non può salire al di sopra del prodotto marginale f’(N*), e quando lo esaurisse il saggio dei profitti sarebbe pari a zero. D’altra parte, il saggio dei profitti tenderebbe all’infinito se il saggio di salario tendesse a zero. La gratuità degli operai è un limite in senso matematico: “se gli operai potessero vivere d’aria, non si potrebbero comperare a nessun prezzo”. In ogni dato momento, fra le tante configurazioni distributive che giacciono sulla curva x - r, prevarrà una sola coppia salario-profitto. In quanto il sistema è sottodeterminato (in quanto la distribuzione del prodotto

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sociale non dipende soltanto dalle condizioni tecniche della produzione), in ogni dato momento il valore del saggio di salario (o del saggio dei profitti) dipenderà dal valore che avrà assunto l’altra variabile distributiva. In ogni dato momento, la configurazione distributiva dipende dunque dalle forze, e dai rapporti di forza, che determinano una delle due variabili, il saggio di salario o il saggio dei profitti. Potrebbe trattarsi del saggio di salario, tenuto al suo livello di sussistenza da processi demografici o da scelte dei capitalisti circa le tecniche di produzione. Oppure del saggio dei profitti, che può essere condizionato da “influenze estranee al sistema della produzione, e particolarmente dal livello dei tassi dell’interesse monetario”. Tutte le infinite configurazioni distributive che appartengono alla x - r sono compatibili con le condizioni tecniche date, dunque una delle due variabili distributive deve avere determinazione esogena.

Rendita, salari e profitti Data la funzione di produzione, le parti della rendita, dei salari e dei

profitti nel prodotto totale corrispondente a un certo numero di lavoratori (N*) e a un qualche livello del saggio di salario (x), possono essere rappresentate graficamente a partire dalla funzione del prodotto marginale (f’(N)).

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Ricardo: Accumulazione e saggio dei profitti

Per Ricardo (che almeno in questo senso aderisce alla legge di Say, secondo la quale tutti i redditi sono interamente spesi) se vi sono profitti positivi, questi saranno investiti dai capitalisti nella coltivazione di nuove terre, che avranno una produttività via via decrescente. I profitti saranno progressivamente schiacciati fra rendita e salari (vi è dunque conflitto non soltanto fra capitalisti e lavoratori salariati, ma anche fra queste due classi e quella dei rentiers). Venendo meno i fondi necessari per l’allargamento della produzione, il sistema, prima o poi, raggiungerà lo stato stazionario. Le conseguenze ricardiane del processo di accumulazione del capitale sulla distribuzione del prodotto sociale, e in particolare sul saggio dei profitti, si possono descrivere nel modo seguente, partendo da una funzione della produzione al netto della rendita:

X - R = N f’(N).

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Si consideri il punto No e si supponga che il salario sia al livello di sussistenza x. Dal punto di vista dinamico il sistema non è in equilibrio: essendo positivi i profitti (dati dalla differenza fra la funzione di produzione al netto della rendita e la semiretta che rappresenta il monte salari, W = N x), i capitalisti sono mossi ad accumulare. Secondo quanto prescrive la legge di Say, fino a quando i profitti sono positivi, i capitalisti li reinvestiranno. Sul mercato del lavoro si crea allora un eccesso di domanda: essendo il salario al livello di sussistenza, tutti i lavoratori sono occupati. Si apre perciò la concorrenza tra i capitalisti, che si disputano i lavoratori scarsi offrendo un salario più elevato. La distribuzione del prodotto (netto di rendita) si sposta a favore dei lavoratori (ciò si può leggere come rotazione verso nord-ovest della semiretta del monte salari, o come spostamento verso l’alto sulla x - r associata a No). Entra allora in azione la legge di Malthus: la popolazione aumenta, l’eccesso di domanda di lavoro viene compensato dall’aumento dell’offerta, la concorrenza tra lavoratori nuovi e vecchi riporta il salario al livello di sussistenza. Crescendo la popolazione aumenta la domanda di grano. Si passa così al punto N1, con più lavoratori occupati e un maggiore numero di terre messe a coltura. Il prodotto marginale diminuisce, dunque la x - r si sposta verso il basso. A parità di saggio di salario, che è tornato al livello di sussistenza, il saggio dei profitti diminuisce a causa della minor fertilità delle nuove terre messe a coltura. Finché il saggio dei profitti resta positivo, il processo si ripeterà. Alla fine il monte salari esaurirà il prodotto netto di rendita, in corrispondenza al punto in cui il prodotto marginale è pari al salario di sussistenza, e dunque profitti e saggio dei profitti si annullano. Si raggiunge così lo stato stazionario, in cui il sistema avrà realizzato la massima espansione possibile, date le risorse disponibili e date le condizioni tecniche della produzione (un cui cambiamento potrebbe soltanto rinviare nel tempo il raggiungimento dello stato stazionario). A tale stato si arriverà senza crisi: gli squilibri possono essere al più temporanei e limitati a particolari settori, ma non estesi al sistema nel complesso grazie all’operare della legge di Say e della teoria quantitativa della moneta.

L’effetto delle macchine Il rapporto fra capitale e lavoro salariato non è istituito, per Ricardo,

soltanto dalle leggi “naturali” che governano la relazione inversa fra saggio di salario e saggio dei profitti e la caduta di questo nel corso del processo di accumulazione (caduta non “tendenziale”, ma necessaria), bensì anche dall’eventuale introduzione di macchine nel processo produttivo: che non è un fatto di natura ma è il risultato di decisioni dei capitalisti.

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Per Ricardo, e contro l’opinione allora e oggi dominante, l’introduzione di macchine nel processo produttivo riesce spesso dannosa agli interessi della classe dei lavoratori. L’occupazione aumenta sicuramente soltanto quando aumentano le anticipazioni salariali e il salario è al suo livello “naturale”, di sussistenza. L’introduzione delle macchine può invece far sì che aumenti il reddito netto della società (rendite e profitti) e contemporaneamente diminuisca il reddito lordo (e dunque l’ammontare dei salari). A ciò consegue, secondo Ricardo, che la stessa causa che può aumentare il reddito netto del paese, può nello stesso tempo rendere esuberante la popolazione e peggiorare le condizioni dei lavoratori: “l’opinione nutrita dalla classe lavoratrice, secondo cui l’impiego delle macchine è spesso dannoso ai suoi interessi, non è fondata sul pregiudizio e sull’errore, ma è conforme ai corretti principi dell’economia politica”. Da ciò non si deve trarre che l’impiego delle macchine non vada incoraggiato: “L’impiego delle macchine in uno stato non può mai essere scoraggiato impunemente. Se al capitale non si consente di ottenere il massimo del reddito netto che l’impiego delle macchine può dare, esso verrà inviato all’estero, e questo suo esodo deve scoraggiare la domanda di lavoro in modo molto più serio del più esteso impiego delle macchine”. Da ciò si deve invece trarre che occorrono politiche economiche appropriate per riassorbire la disoccupazione.

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Marx e i Classici: Il valore come sostanza e come misura

La categoria centrale dell’economia politica classica è quella del sovrappiù: l’economia politica classica, tuttavia, non dice quale sia l’origine della forma capitalistica del sovrappiù, il profitto. Questa è la domanda che pone Karl Marx (1818-1883), e la sua teoria del valore ne costituisce la risposta. L’importanza che in questa impresa hanno per Marx i classici è testimoniata dalle Teorie sul plusvalore, che del Capitale sono parte integrante. La premessa marxiana, tuttavia, è una Critica dell’economia politica, intesa ad andare al di là dei risultati dell’economia politica classica, a disvelare l’essenza stessa, il “nesso interno”, del rapporto capitalistico: “ogni scienza sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero”. Si potrà mettere in dubbio il risultato dell’impresa, come è stato fatto (soprattutto per ragioni politiche), ma non che i suoi scopi e metodi siano altri, e vadano oltre, rispetto a quelli dell’economia politica classica. Marx muove da una riflessione critica circa i concetti di lavoro comandato di Smith e di lavoro contenuto di Ricardo. Da Ricardo Marx accetta l’idea che il valore di scambio delle merci sia regolato dal principio del lavoro contenuto non solo nello stadio “rozzo e primitivo” della società ma anche nel modo di produzione capitalistico; tuttavia Ricardo, secondo Marx, sbaglia poiché fa scambiare il capitale direttamente contro lavoro invece che con la merce forza lavoro. Questo non significa che il principio smithiano del lavoro comandato sia erroneo o inutile. Per Marx è vero che in Smith vi sono incertezze e confusioni, tuttavia le contraddizioni di Smith hanno questo di importante: “che contengono problemi che egli in verità non risolve, ma che egli, contraddicendosi, enuncia. Sotto questo rapporto, l’esattezza del suo istinto è dimostrata, nel migliore dei modi, dal fatto che i suoi successori accolgono, in contrasto tra di loro, ora l’uno ora l’altro aspetto della sua dottrina”. Per Marx, in particolare, resta vero che quando la merce funziona come capitale, quando essa viene impiegata nell’acquisto di lavoro vivo, allora il valore acquistato è maggiore del lavoro che è stato necessario per produrre il capitale merce. Il modo in cui Marx concilia i due principi smithiani è il seguente: nel capitalismo anche il lavoro è una merce e dunque ha un valore di mercato; tuttavia il luogo in cui si determina il nesso e la differenza fra lavoro contenuto e lavoro comandato è la sfera della produzione e non il mercato, che di quella è soltanto la proiezione.

Lavoro e forza lavoro Il lavoro, in generale, è la principale attività materiale con la quale

l’uomo si pone in rapporto con la natura, al fine di cavarne valori d’uso. Per Marx il processo capitalistico di produzione è però una forma storicamente

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determinata del processo di produzione sociale in generale. Quest’ultimo è al tempo stesso il processo di produzione delle condizioni materiali della vita umana e un processo che si sviluppa entro specifici rapporti di produzione storico-economici, producendo e tentando di riprodurre questi rapporti stessi di produzione e dunque i rappresentanti di questo processo, le loro condizioni materiali di esistenza e i loro rapporti reciproci, ossia la loro determinata forma economica e sociale. Il complesso di questi rapporti, in cui i rappresentanti di questa produzione stanno con la natura e fra di loro, costituisce per Marx la società, considerata nella sua struttura economica. La caratteristica principale del modo capitalistico di produzione, se ad esso si guarda dal punto di vista della circolazione, è che il processo è del tipo Denaro - Merce - Denaro, e non Merce - Denaro - Merce. Ciò vuol dire che mentre nel ciclo M - D - M lo scopo dello scambio è quello di ottenere una merce finale atta a soddisfare bisogni diversi da quelli che possono essere soddisfatti con la merce posseduta e ceduta inizialmente (scopo dello scambio è in questo caso quello di ottenere valori d’uso, e la moneta serve soltanto all’intermediazione nello scambio delle merci: questa può essere la prospettiva del singolo consumatore), nel ciclo D - M - D si cede denaro per ottenere altro denaro. Questo denaro, d’altra parte, non viene mai speso definitivamente, ma rifluisce al punto di partenza. Scopo di questo processo non è l’ottenimento di valori d’uso, bensì la realizzazione di un plusvalore. Questa è la prospettiva del mondo degli affari, che dal denaro si separa in cambio di una merce secondo un processo inteso a ottenere più denaro per chi lo muove anziché al soddisfacimento dei bisogni dei consumatori. Perché l’operazione abbia un senso, la somma ottenuta (se il plusvalore è realizzato, se la merce che l’ha incorporato è stata venduta vantaggiosamente), dovrà essere maggiore di quella anticipata: la forma effettiva del ciclo dovrà dunque essere D - M - D’, dove D’ sarà maggiore di D. La differenza rispetto al valore originario sarà costituita dal profitto. Si tratta ora di spiegare come mai D’ possa risultare, e per il capitalista debba risultare, maggiore di D. La spiegazione marxiana è la seguente. Il processo si apre con uno scambio di potere d’acquisto contro una merce, e il potere d’acquisto originario si trasforma in capitale proprio in quanto prende la forma intermedia di merce. Tuttavia non esiste nessuna risorsa o merce (salvo una) che allo stesso tempo abbia valore d’uso e sia fonte di valore, così come deve essere affinché D’ sia maggiore di D. Diventa dunque necessario indagare come si svolga il modo capitalistico di produzione e riproduzione. Secondo Marx “Il capitalista compera agli stessi operai, a quanto sembra, il loro lavoro con del denaro. Per denaro essi gli vendono il loro lavoro. Ma ciò non è che l’apparenza. Ciò che essi in realtà vendono al capitalista per una somma di denaro è la loro forza lavoro. [...]

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La forza lavoro è dunque una merce, che il suo possessore, il salariato, vende al capitale. Perché la vende? Per vivere”. L’idea di Marx è che l’unica merce che abbia insieme valore d’uso e capacità di valorizzazione sia la forza lavoro. Di questa merce, che costituisce l’unica proprietà del lavoratore “libero”, il lavoratore stesso non può fare uso, poiché non possiede i mezzi di produzione, e dato che lo stadio di sviluppo delle forze produttive esclude la produzione desarmata manu. Questa merce può soltanto venderla a chi, il capitalista, possiede potere d’acquisto da trasformare in capitale, la immette e la utilizza nel processo produttivo, e ne trae il plusvalore che con l’ulteriore trasformazione della merce prodotta in denaro si realizzerà (se si realizzerà) nella forma di profitto. Nel modo capitalistico di produzione il capitale non può più essere pensato come entità materiale e come categoria distinta e separata dal lavoro, come semplice insieme di mezzi di produzione che vengono combinati con il lavoro per produrre valori d’uso. Nel modo capitalistico di produzione il lavoratore è lavoratore salariato, e il rapporto fra strumenti e capacità lavorativa, quale si dà nel processo lavorativo, sottende un nesso sociale fra capitale e lavoratore che condiziona tutto il processo di produzione, valorizzazione e riproduzione. Scrive Marx : Anche il capitale è un rapporto sociale di produzione. Esso è un rapporto borghese di produzione, un rapporto di produzione della società borghese. [...] Il capitale non consta soltanto di mezzi di sussistenza, di strumenti di lavoro e di materie prime, esso consta pure di valori di scambio. Tutti i prodotti di cui esso consta sono merci. Il capitale non è dunque soltanto una somma di prodotti materiali; esso è una somma di merci, di valori di scambio, di grandezze sociali. [...] Come dunque una somma di merci, di valori di scambio, diventa capitale? Per il fatto che essa, come forza sociale indipendente, cioè come forza di una parte della società, si conserva e si accresce attraverso lo scambio con la forza lavoro vivente, immediata. L’esistenza di una classe che non possiede null’altro che la capacità di lavorare, è una premessa necessaria del capitale.

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Marx: Plusvalore e profitto

Per Marx il valore di una merce si scinde in tre parti: capitale costante, capitale variabile, plusvalore. Il processo produttivo si apre con la spesa, da parte del capitalista, del suo capitale monetario nell’acquisto dei mezzi di produzione e della forza lavoro, la quale costituisce il capitale produttivo. La forza lavoro, come qualsiasi altra merce, viene pagata secondo il suo valore, che è pari al tempo di lavoro necessario per riprodurla, cioè per produrre i mezzi di sussistenza del lavoratore. Al termine del processo di produzione il capitale produttivo è trasformato in capitale merce, in merci che hanno un valore superiore a quello del capitale produttivo iniziale. La parte di capitale monetario spesa nei mezzi di produzione (capitale costante) non cambia la sua grandezza di valore; mentre la parte spesa in forza lavoro (capitale variabile) ha aumentato il suo valore, producendo il plusvalore che viene trattenuto dal capitalista, e che una volta realizzato può essere trasformato in nuovo capitale produttivo. Il lavoratore salariato si troverà così di fronte il valore che egli stesso ha prodotto: egli vende la propria forza lavoro per produrre ciò che gli si contrapporrà come proprietà del capitalista. Da un lato la forza lavoro, in quanto produce plusvalore, è all’origine del profitto; dall’altro il lavoro, in quanto lavoro salariato, è incluso nel capitale. Per Marx la soluzione del problema lasciato irrisolto da Smith e da Ricardo, quale sia l’origine del profitto, è questa: all’origine del profitto sta il plusvalore, e all’origine di questo sta il pluslavoro prestato nella fabbrica dal lavoratore, dopo che questi aveva venduto sul mercato, e al suo prezzo, la propria forza lavoro. Lo scambio che ha per oggetto la merce forza lavoro è uno scambio fra equivalenti nella sfera della circolazione, mentre è uno scambio fra non equivalenti se si considera il processo capitalistico complessivo, che è allo stesso tempo processo di produzione, circolazione e riproduzione. “L’operaio riceve in cambio della sua forza lavoro dei mezzi di sussistenza, ma il capitalista, in cambio dei suoi mezzi di sussistenza, riceve del lavoro, l’attività produttiva dell’operaio, la forza creatrice con la quale l’operaio non soltanto ricostituisce ciò che consuma, ma conferisce al lavoro accumulato un valore maggiore di quanto aveva prima”. La giornata lavorativa si divide dunque in due parti: una parte serve a ricostituire i beni di consumo necessari alla riproduzione della forza lavoro (lavoro necessario), l’altra parte (pluslavoro) costituisce il plusvalore, quella parte del valore del prodotto che non ritorna al lavoratore salariato e che anzi gli si contrapporrà come nuovo capitale. Un rapporto di sfruttamento non si dà soltanto nel modo di produzione capitalistico, ma soltanto in questo esso è mediato e celato dallo scambio: il profitto è il risultato della forma capitalistica del rapporto di sfruttamento. Poiché il

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valore (W) di ogni merce prodotta capitalisticamente si scinde in capitale costante (C), capitale variabile (V) e plusvalore (S), la grandezza alla quale vanno commisurati i profitti al fine della determinazione del saggio dei profitti sarà il valore dell’intero capitale speso negli elementi della produzione, cioè la somma del capitale costante e del capitale variabile e non soltanto l’ammontare dei salari anticipati, come si ha in Ricardo.

Se il plusvalore si trasforma in profitto (se cioè la merce prodotta viene venduta, “realizzata”) il saggio dei profitti sarà dato da

S

r = ______ . C + V

Se si divide numeratore e denominatore per V, il saggio dei profitti risulterà pari a

S / V s r = _________ = ______ .

C / V + 1 q + 1

Il saggio dei profitti dipende dunque dal rapporto fra S / V (s, che si può chiamare “saggio del plusvalore” o “di sfruttamento” e che coincide con il rapporto cui Ricardo riduce il saggio dei profitti) e (C / V + 1) (dove q si può chiamare “composizione organica del capitale”). Per Marx le determinanti del saggio dei profitti sono dunque la distribuzione del reddito fra capitalisti e lavoratori e le condizioni tecniche della produzione. Si noti che mentre il saggio del plusvalore rende manifesta l’origine del plusvalore stesso, che è il capitale variabile, nel saggio dei profitti tale origine viene occultata, poiché perdendosi la distinzione fra capitale costante e capitale variabile, il profitto apparirà come generato da “qualità segrete” del capitale nel suo complesso e non soltanto da quella sua parte che per Marx ha capacità di valorizzazione. Il capitalista anticipa il capitale complessivo senza riguardo alle diverse funzioni assolte nella produzione del plusvalore dalle singole parti costitutive del capitale, e dunque ai suoi occhi (e di quanti sono “impigliati nei rapporti di produzione borghesi”) il profitto è originato dal capitale in sé; mentre in realtà esso non è altro che la forma mistificata del plusvalore, la “forma fenomenica del plusvalore”.

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Marx: Riproduzione e crisi

Per Marx il processo di produzione capitalistico è una forma storicamente determinata del processo di produzione sociale. Quest’ultimo è al tempo stesso il processo di produzione delle condizioni materiali della vita umana, e un processo di riproduzione di determinati rapporti di produzione. Il complesso di questi rapporti costituisce la società considerata nella sua struttura economica. Per gli economisti classici i rapporti economici e sociali sono invece retti da un ordine naturale, che ne assicura il regolare dispiegamento e la ripetizione ininterrotta in condizioni di equilibrio. Essi concepiscono il capitalismo come storicamente determinato, ma determinato da una storia che sarebbe finita. Lo concepiscono come se si trattasse di un modo di produzione nel quale lo scambio è scambio immediato, oppure nel quale la produzione è produzione sociale, così che la società, quasi fosse retta da un piano, ripartirebbe i suoi mezzi di produzione e le sue forze produttive nella misura e nelle proporzioni necessarie al soddisfacimento dei diversi bisogni, in modo tale che ad ogni sfera di produzione tocchi il quanto del capitale sociale richiesto per il soddisfacimento del bisogno al quale essa corrisponde. I classici non negano il fenomeno della crisi, tuttavia essi ammettono soltanto la possibilità delle crisi. Le crisi, per gli economisti classici, sono un caso, come tali saranno temporanee e locali, non potranno investire il sistema nel suo complesso e soprattutto avranno cause esogene, “naturali”. Marx (e dopo di lui Keynes) rovescia questa posizione, negando la finzione su cui si regge: non la crisi, bensì l’equilibrio è un caso. Non è vero che lo scambio è scambio immediato e non è vero che il fine della produzione è il soddisfacimento dei bisogni: il processo non è del tipo M - D - M, ma del tipo D - M - D’.

Gli schemi di riproduzione Nel modo capitalistico di produzione non si tratta di ricavare dalla

vendita di una merce una massa di valore equivalente sotto altra forma, denaro o altra merce, ma si tratta di ricavare dal capitale anticipato per la produzione lo stesso plusvalore e profitto di ogni altro capitale della stessa grandezza, qualunque sia il ramo di produzione in cui esso è impiegato. Si tratta quindi di vendere le merci prodotte e di venderle a prezzi che assicurino almeno il profitto medio, ossia di venderle ai loro prezzi di produzione. Il processo annuale di riproduzione non è facile a comprendersi. I movimenti dei capitali singoli e dei redditi personali si incrociano, si mescolano, si perdono in uno spostamento generale, cioè nella circolazione della ricchezza sociale, che confonde la vista e dà all’indagine compiti molto complicati da risolvere. È nel processo di circolazione-riproduzione

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che si manifesta la crisi, o può manifestarsi l’equilibrio, del capitale. Gli schemi marxiani della riproduzione, che dichiaratamente riprendono l’idea del tableau économique di Quesnay, hanno lo scopo di individuare le condizioni necessarie affinché il processo di produzione possa ripetersi: riprodursi. Per fare astrazione da ciò che non incide sul processo di riproduzione, Marx presuppone che le merci vengano vendute al loro valore e che le tecniche di produzione non mutino. Inoltre presuppone che vi siano due sole classi, la classe capitalistica e la classe operaia: si presuppone, in altre parole, il dominio generale ed esclusivo della produzione capitalistica. Questi presupposti sono funzionali all’obiettivo che Marx si pone qui: mostrare che l’equilibrio capitalistico è possibile, ma che il suo verificarsi è un caso. Si suddivida ora il sistema economico nelle due sezioni fondamentali, quella che produce mezzi di produzione (1) e quella che produce mezzi di consumo (2). Come il valore di ogni singola merce, così anche quello del prodotto complessivo annuo di ciascuna sezione si suddivide in capitale costante, capitale variabile e plusvalore. Dunque si avrà:

W1 = C1 + V1 + S1

W2 = C2 + V2 + S2.

Ciascuna sezione (e dunque il sistema nel complesso) sarà in equilibrio soltanto se l’ammontare di valore delle sue vendite è uguale all’ammontare di valore dei suoi acquisti. A fronte dell’ammontare di valore W1 offerto per la vendita dal settore che produce mezzi di produzione starà la domanda di mezzi di produzione da parte di entrambe le sezioni, per il reintegro e per l’eventuale allargamento del capitale costante che vi è impiegato. A fronte dell’ammontare di valore W2 offerto per la vendita dal settore che produce mezzi di consumo starà la domanda di beni di consumo da parte di entrambe le sezioni, per il reintegro del capitale variabile che vi è impiegato e per il consumo dei capitalisti. Le due condizioni di equilibrio sono:

C1 + V1 + S1 = C1 + C2 + g (S1 + S2)

C2 + V2 + S2 = V1 + V2 + l (S1 + S2)

dove g è la quota del plusvalore complessivo destinata all’allargamento del capitale costante mediante l’acquisto di nuovi mezzi di produzione, mentre l è la quota di plusvalore destinata al consumo dei capitalisti. Se g > 0, si dirà

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che il sistema è in uno stato di riproduzione allargata. In generale si può ritenere che (g + l) ≠ 1. Si avrà (g + l) < 1 se parte del plusvalore viene tesaurizzata, mentre si potrebbe avere (g + l) > 1 se si ammette (come farà Keynes) che si possano effettuare investimenti non soltanto ricorrendo a profitti realizzati in precedenza, ma anche attingendo al credito. Per definire le condizioni di riproduzione per il sistema nel complesso, si sommino membro a membro le due condizioni settoriali. Dopo aver semplificato, si otterrà

S1 + S2 = (g + l) (S1 + S2).

Affinché le condizioni di riproduzione siano soddisfatte per il sistema nel complesso, è perciò necessario che (g + l ) = 1. Deve cioè valere la legge di Say, nel senso che sia i capitalisti sia i lavoratori spendono per intero i loro redditi (per i lavoratori ciò dipende dal fatto che il salario è a livello di sussistenza). In questo caso, condizione necessaria per l’equilibrio intersettoriale è che la domanda di mezzi di consumo da parte della sezione che produce mezzi di produzione sia uguale alla domanda di mezzi di produzione da parte della sezione che produce mezzi di consumo. Se si semplificano separatamente le due condizioni di riproduzione settoriali, si ha

V1 + (1 - g) S1 = C2 + gS2

V1 + lS1 = C2 + (1 - l) S2.

Questo significa che se (g + l) = 1, anche in riproduzione allargata quando una sezione è in equilibrio anche l’altra lo è. Altrimenti ciò non è vero. Se i capitalisti si comportano come devoti funzionari dell’accumulazione (così che g = 1 e l = 0), si avrà:

V1 = C2 + S2 ,

e il sistema sarà nello stato di massima riproduzione allargata. Se invece i capitalisti consumano l’intero plusvalore, comportandosi da “gaudenti” (g = 0 e l = 1), la condizione di equilibrio si ridurrà a:

V1 + S1 = C2,

e si dirà che il sistema è in uno stato di riproduzione semplice (che corrisponde allo stato stazionario degli economisti classici). La conclusione marxiana è che l’equilibrio capitalistico è possibile, come è implicito nel fatto che le condizioni sopra individuate possono

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essere soddisfatte. Tuttavia l’equilibrio non è imposto da una necessità naturale: è soltanto un caso, dato il “carattere primitivo” della produzione capitalistica. In assenza di un piano, è chiaro non soltanto che il verificarsi spontaneo di queste condizioni è improbabile; ma anche che se esse per caso si verificano, nulla assicura che esse comportino il massimo livello di attività e di occupazione del sistema. Nella determinazione del livello, delle proporzioni, e della regolarità e stabilità delle modalità di riproduzione del sistema, sono cruciali le decisioni dei capitalisti circa l’impiego dei profitti realizzati. L’equilibrio può esistere, ma non è necessariamente unico, non è necessariamente stabile, ed è almeno improbabile che sia ottimo (anche soltanto nei termini quantitativi del numero di lavoratori occupati). In particolare, la funzione del denaro quale capitale monetario produce determinate condizioni dello svolgimento normale della riproduzione, sia su scala semplice sia su scala allargata, che si trasformano in altrettante condizioni di svolgimento anormale della produzione, in possibilità di crisi (in questo caso, crisi da sproporzione). Nel capitalismo la congruenza tra composizione della produzione e struttura del bisogno sociale è lasciata al mercato, della cui efficienza è lecito dubitare. Si pensi ai due veri, grandi fallimenti del mercato, ai giorni nostri particolarmente evidenti: la disoccupazione e i bisogni sociali insoddisfatti Circa la possibilità, o impossibilità, di una realizzazione sistematica delle merci prodotte, prima di Marx si erano affermate due tendenze teoriche. La prima, egemone, passa per Say e (da questo punto di vista) per Ricardo, ed esclude la possibilità di crisi generali, poiché chi vende non avrebbe altro scopo che ritornare sul mercato nella veste di compratore utilizzando tutto il potere d’acquisto ottenuto dalla vendita. Si suppone, in questo caso, che la moneta sia soltanto lo strumento per effettuare lo scambio e dunque che il valore complessivo della domanda sociale sia sempre uguale al valore complessivo dell’offerta. La seconda tendenza, che passa per Sismondi e Malthus, vuole invece che vi sia necessariamente un’eccedenza della produzione rispetto al consumo, con conseguente impossibilità di realizzazione da parte del mercato e dunque impossibilità di un processo regolare di riproduzione allargata. Gli schemi marxiani di riproduzione mostrano invece, contro Malthus e Sismondi, che l’equilibrio capitalistico in realtà è possibile, ossia non è affetto da una difficoltà iniziale dirimente, che gli impedirebbe una dispiegata vita storica. Contro Say e Ricardo gli schemi mostrano che il processo di riproduzione può manifestarsi soltanto attraverso crisi, nelle quali lo squilibrio tra produzione e consumo svolge un ruolo essenziale: nel capitalismo lo scopo della produzione non è il consumo ma la valorizzazione del capitale. La faccia vera dell’equilibrio capitalistico è per Marx la crisi, che le teorie dominanti hanno invece sempre visto come eccezione; e l’analisi della crisi va

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ricondotta alla contraddizione tra capitale e lavoro salariato, alla concorrenza tra i tanti capitali, all’uso capitalistico della scienza e della tecnica, al denaro.

Le crisi Al termine del processo di produzione il capitale produttivo è

trasformato in capitale merce, in merci che hanno un valore superiore a quello del capitale produttivo iniziale. La parte di capitale monetario spesa nei mezzi di produzione (capitale costante) non cambia la sua grandezza di valore; mentre la parte spesa in forza lavoro (capitale variabile) ha aumentato il suo valore, producendo il plusvalore che viene trattenuto dal capitalista, e che una volta realizzato può essere trasformato in nuovo capitale produttivo. Ciascun singolo capitale, tuttavia, può riprodursi soltanto se la merce prodotta viene venduta e se il ricavato viene riconvertito in nuovo capitale produttivo. La realizzazione della merce può essere ostacolata da tre ordini di circostanze: il bisogno che la collettività ha della merce stessa (valore d’uso), la quantità di moneta esistente, l’effettiva trasformazione in denaro dell’intera quantità prodotta. Le diverse forme di crisi sono connesse fra di loro. Si possono però distinguere le crisi da sproporzione, che in generale si danno quando non siano soddisfatte le condizioni della riproduzione, le crisi da tesaurizzazione e le crisi di realizzazione. All’origine delle crisi sta comunque il fatto che la forza motrice della produzione capitalistica è costituita dal saggio dei profitti: viene prodotto solo quello che può essere prodotto con profitto, e nella misura in cui tale profitto può essere ottenuto. In un mondo alla Ricardo una diminuzione del saggio dei profitti non avrebbe determinato nessuna crisi. Semplicemente, quando non vi fossero più stati profitti investibili il processo di accumulazione si sarebbe esaurito e il sistema economico sarebbe entrato nello stato stazionario. In ogni caso era implicito nella legge di Say che tutti i redditi sarebbero stati spesi, in consumi se non in investimenti. Secondo Marx c’è una terza possibilità. In una economia capitalistica il denaro non è soltanto un mezzo di pagamento, ma può anche essere tesaurizzato. Dopo aver venduto le sue merci in cambio di denaro, il capitalista, quando giudichi troppo basso il saggio dei profitti, può decidere di tenere il ricavato in forma di tesoro, anziché rimetterla in circolazione e trasformarla in nuovo capitale. Se i capitalisti non spendono l’intero plusvalore precedentemente realizzato né nell’acquisto di mezzi di produzione né nell’acquisto di mezzi di consumo, le condizioni della riproduzione non vengono soddisfatte. In questo caso il denaro esce dal ciclo del capitale industriale da cui è scaturito, e potrà essere trattenuto in forma liquida oppure potrà essere impiegato in attività finanziarie o speculative. Il denaro non opera più come capitale, e diventa

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un peso morto della produzione capitalistica. Si può dunque pensare che esista un saggio minimo del profitto, al di sotto del quale si avrà una crisi da tesaurizzazione, che interrompe e devia il processo di produzione e riproduzione. L’altra forma di crisi, la crisi di realizzazione, ha origine dal fatto che il salario non è soltanto un costo di produzione per il capitalista, ma è anche il potere d’acquisto con il quale i lavoratori acquisteranno le merci da essi stessi prodotte. La situazione ideale, per ciascun singolo capitalista, sarebbe quella in cui egli potesse pagare ai propri lavoratori il salario più basso possibile, mentre tutti gli altri lavoratori ricevessero i più alti salari possibili. Ciò è però impossibile, poiché il saggio di salario (così come il saggio dei profitti e il saggio di plusvalore, che corrisponde al rapporto tra profitti e salari) tende ad essere uniforme. Esisterà dunque un saggio massimo del profitto, cioè il massimo saggio dei profitti realizzabile con una data distribuzione del reddito tra profitti e salari. Il plusvalore si trasforma in profitto soltanto se le merci in cui è incorporato vengono vendute, e gli acquirenti potenziali delle merci prodotte sono in massima parte i lavoratori stessi: a condizione che dispongano del denaro necessario. (L’economia capitalistica è concretamente irrazionale, secondo Max Weber, perché non soddisfa i bisogni in quanto tali, bensì solo i bisogni dotati di capacità d’acquisto). Si consideri ora la situazione seguente. Nell’intento di aumentare il saggio dei profitti, o di contrastarne la diminuzione, i capitalisti aumentano la composizione organica del capitale. Sostituendo macchine a lavoratori, aumenta la disoccupazione (l’“esercito industriale di riserva”). La concorrenza fra lavoratori fa diminuire il saggio di salario, e ciò fa diminuire i costi di produzione. L’aumento della composizione organica del capitale, che sta al denominatore del saggio dei profitti, fa però diminuire il saggio dei profitti: a meno che non cresca il saggio del plusvalore. Per compensare la diminuzione del saggio dei profitti, ai capitalisti sembrerà conveniente un aumento del saggio del plusvalore (o di sfruttamento). I conti tornerebbero, se in conseguenza dell’aumento della disoccupazione e dello spostamento della distribuzione del reddito dai salari ai profitti non diminuisse il potere d’acquisto dei lavoratori. Il valore totale (W1 + W2), che i capitalisti possono realizzare con la vendita delle merci prodotte, è infatti prodotto da una quota via via decrescente delle forze di lavoro. Una riduzione del potere d’acquisto dei lavoratori impedirebbe la vendita di tutte le merci prodotte, e si darebbe una crisi di realizzazione (o di sovrapproduzione). La dinamica effettiva del saggio dei profitti è dunque costretta entro un sentiero delimitato dal saggio minimo e dal saggio massimo dei profitti. Poiché in un sistema capitalistico la forma tipica del cambiamento tecnico è

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la sostituzione di macchine a lavoratori, il che comporta la caduta tendenziale del saggio dei profitti, il saggio massimo tenderà sempre più ad avvicinarsi a quello minimo. Così il sentiero delimitato dai due si restringerà progressivamente, fino a quando, cadendo il saggio massimo al di sotto di quello minimo, l’accumulazione cesserà e il sistema capitalistico si troverà in una crisi irreversibile (a meno di riforme strutturali).

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Marx: La caduta tendenziale del saggio dei profitti

Per Marx l’industria moderna non considera e non tratta mai come definitiva la forma di un processo di produzione, quindi la natura della grande industria porta con sé variazione del lavoro, fluidità delle funzioni, mobilità dell’operaio in tutti i sensi. Di questo processo ininterrotto le macchine sono un momento essenziale, e in fondo lo sono in quanto le condizioni di esistenza della borghesia la costringono a calcolare. La forma più semplice nella quale Marx espone la questione è la seguente. Maggiore divisione del lavoro, più macchinario, una scala più grande su cui vengono sfruttate la divisione del lavoro e il macchinario. E la concorrenza produce nuovamente la stessa reazione a questo risultato. Vediamo dunque che il modo di produzione, i mezzi di produzione, sono costantemente sconvolti, rivoluzionati, che la divisione del lavoro porta con sé necessariamente una maggiore divisione del lavoro, l’impiego di macchine - un maggiore impiego di macchine, il lavoro su vasta scala - un lavoro su scala più vasta. È questa la legge che di continuo getta la produzione borghese fuori del suo vecchio binario e costringe il capitale a tendere sempre più le forze produttive del lavoro, perché esso le ha tese una prima volta; la legge che non gli concede nessuna tregua e gli mormora senza interruzione: Avanti! Avanti! [...] Se ci si rappresenta questa agitazione febbrile contemporaneamente su tutto il mercato mondiale, si comprenderà come l’aumento, l’accumulazione e la concentrazione del capitale hanno come conseguenza una divisione del lavoro ininterrotta, che travolge se stessa e viene introdotta sopra una scala sempre più gigantesca, un ininterrotto impiego di nuovo macchinario e il perfezionamento del vecchio. [...] La guerra industriale tra capitalisti ha come carattere specifico che le battaglie in essa vengono vinte meno con l’arruolamento di nuove armate di operai che con il loro licenziamento. I comandanti, i capitalisti, fanno a gara a chi può licenziare il maggior numero di soldati dell’industria. È vero che gli economisti ci raccontano che gli operai resi superflui dalle macchine trovano lavoro in nuove branche dell’industria. Essi non osano sostenere direttamente che gli stessi operai che vengono licenziati trovino un rifugio in nuovi rami di lavoro. I fatti gridano troppo forte contro questa menzogna. Essi si limitano ad affermare che per altre parti costitutive della classe operaia, per esempio per quella parte della giovane generazione operaia che era già pronta a entrare nel ramo dell’industria rovinato, si apriranno nuovi campi di impiego. [...] Riassumendo: quanto più il capitale produttivo cresce, tanto più si estendono la divisione del lavoro e l’impiego delle macchine. Quanto più la divisione del lavoro e l’impiego delle macchine si estendono, tanto più si estende la concorrenza fra gli operai, tanto più si contrae il loro salario. [...] Nella misura in cui i capitalisti sono costretti da questo movimento a sfruttare su una scala più grande i mezzi di produzione già esistenti, e a mettere in moto per questo scopo tutte le leve del credito, nella stessa misura aumentano le crisi. Esse diventano più frequenti e più forti per il solo fatto che, nella misura in cui cresce il bisogno di mercati più estesi, i nuovi mercati da sfruttare si fanno sempre più rari, poiché ogni crisi precedente ha già conquistato al

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commercio mondiale un mercato fino ad allora non conquistato o sfruttato dal commercio soltanto in modo superficiale. [...] Si ha così la produzione progressiva di una sovrappopolazione operaia relativa, ossia di un esercito industriale di riserva. Questo costituisce la leva dell’accumulazione capitalistica e addirittura una delle condizioni d’esistenza del modo di produzione capitalistico. Il meccanismo della produzione capitalistica fa in modo che l’aumento assoluto del capitale non sia accompagnato da un corrispondente aumento della domanda generale di lavoro. Se da un lato l’accumulazione del capitale aumenta la domanda di lavoro, dall’altro essa aumenta l’offerta di operai mediante la loro ‘messa in libertà’. Allo stesso tempo la pressione dei disoccupati costringe gli operai occupati a rendere liquida una maggior quantità di lavoro, rendendo in tal modo l’offerta di lavoro in una certa misura indipendente dall’offerta di operai. Il movimento della legge della domanda e dell’offerta di lavoro su questa base porta a compimento il dispotismo del capitale.

Il processo di costituzione e crescita di un esercito industriale di riserva disponibile è in Marx l’altra faccia del processo di caduta tendenziale del saggio dei profitti. Questa dualità non poteva essere colta da Ricardo, che fonda la sua legge della caduta del saggio dei profitti non sulla contraddittoria razionalità capitalistica ma sull’avarizia della natura. Per Ricardo il saggio dei profitti dipende dalle condizioni tecniche della produzione e dal saggio di salario La messa a coltura di terre via via meno fertili, dato il saggio di salario, comporta necessariamente e naturalmente una caduta del saggio dei profitti. In Marx la dinamica del saggio dei profitti ha invece cause endogene e, a differenza di quanto si sostiene abitualmente, non ha carattere deterministico. L’argomentazione che la vulgata lectio imputa a Marx, attribuendogli una visione deterministica della dinamica capitalistica, è la seguente. Per definizione il saggio dei profitti è pari al rapporto fra profitti e capitale investito (costante e variabile), dove tutti i termini sono espressi in valore. Se si dividono numeratore e denominatore per il valore del capitale variabile si ottiene che il saggio dei profitti è pari al saggio di sfruttamento (corrispondente al rapporto fra profitti e salari), diviso per il rapporto fra capitale costante e capitale variabile (la composizione organica del capitale), più uno. Data la distribuzione del reddito fra capitalisti e lavoratori, i primi cercheranno di comprimere i salari sostituendo lavoratori con macchine. La sostituzione di macchine a lavoratori produce disoccupazione, dunque concorrenza fra disoccupati e occupati, dunque diminuzione del salario. Questa pratica, per il singolo capitalista, è razionale: al singolo capitalista conviene che la forza lavoro sia pagata il meno possibile. Ciò che conviene al singolo capitalista non conviene però al complesso dei capitalisti, poiché i redditi che pagano le merci prodotte sono principalmente i salari. D’altra parte l’aumento del capitale costante rispetto al capitale variabile, a parità di ogni altra circostanza, farà algebricamente diminuire il saggio dei profitti. A

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seconda dei punti di vista si potrà dunque sostenere che il sistema capitalistico è destinato a crollare, oppure che Marx ha torto poiché le statistiche dimostrerebbero che tale tendenza non si dà. Nel primo caso è il capitalismo come forma storica che sarebbe destinato a finire, nel secondo è la storia stessa che con il capitalismo sarebbe finita. Sono ovvie le implicazioni politiche: nel primo caso non ci sarebbe che da aspettare, con timore o con speranza; nel secondo si dovrebbe concludere che il capitalismo è la forma definitiva dell’organizzazione economico-sociale. Non è vera né l’una né l’altra prognosi, poiché non è vero che le circostanze restino ferme, e non sempre è vero che i capitalisti siano miopi. Henry Ford e il fordismo ne hanno dato dimostrazione. D’altra parte l’eventuale stabilità del saggio dei profitti non contraddice, secondo un suggerimento di Sraffa, la “legge” di Marx: “quando ‘tendenziale’ sia inteso relativamente ad una particolare astrazione, cioè essa sia il risultato dell’azione di un gruppo di forze (accumulazione) supponendo che altre forze (progresso tecnico, invenzioni e scoperte) non operino. Il risultato è che la caduta tendenziale costringe i capitalisti a continue rivoluzioni tecniche per evitare la caduta del saggio dei profitti”.

Le cause antagonistiche Le circostanze non restano ferme poiché la “tendenza” è contrastata da quelle che Marx chiama cause antagonistiche. La tendenza a una disoccupazione crescente e a una caduta del saggio dei profitti non è altro che una nuova espressione del progressivo sviluppo della produttività sociale del lavoro, che si dimostra per l’appunto nel fatto che, per mezzo dell’impiego crescente di macchinario e di capitale fisso in generale, una maggiore quantità di materie prime e ausiliarie vengono trasformate in prodotto da un eguale numero di operai nello stesso tempo, cioè con un lavoro minore. [...] La progressiva tendenza alla diminuzione generale del saggio generale del profitto è dunque solo un’espressione peculiare al modo di produzione capitalistico per lo sviluppo progressivo della produttività sociale del lavoro. [...] Dato che la massa di lavoro vivo impiegato diminuisce costantemente in rapporto alla massa di lavoro oggettivato da essa messo in movimento (cioè ai mezzi di produzione consumati produttivamente), anche la parte di questo lavoro vivo che non è pagato e si oggettiva in plusvalore dovrà essere in proporzione costantemente decrescente rispetto al valore del capitale complessivo impiegato. Questo rapporto costituisce però il saggio dei profitti, che dovrà per conseguenza diminuire costantemente.

Nella realtà questa diminuzione non è stata forte e rapida così come “la legge in quanto tale” indurrebbe a prevedere, dunque devono agire delle influenze antagonistiche che contrastano o neutralizzano l’azione della legge in generale, dandole il carattere di una semplice tendenza. Le più generali di queste cause antagonistiche, per Marx, sono l’aumento del grado di sfruttamento del lavoro, la riduzione del salario al di sotto del suo valore, la diminuzione di prezzo degli elementi del capitale costante, la

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sovrappopolazione relativa, il commercio estero, l’accrescimento del capitale azionario. L’elenco dovrebbe e potrebbe essere riveduto e allungato, ma la conclusione rimane. La contraddizione esistente nel modo capitalistico di produzione consiste nella sua tendenza allo sviluppo assoluto delle forze produttive, che vengono continuamente a trovarsi in conflitto con le specifiche condizioni di produzione entro le quali il capitale si muove e può solo muoversi: “Non vengono prodotti troppi mezzi di sussistenza in rapporto alla popolazione esistente. Al contrario, se ne producono troppo pochi per poter soddisfare in modo conveniente ed umano la massa della popolazione”. Il limite del modo capitalistico di produzione si manifesta nei fatti seguenti: 1. Lo sviluppo della forza produttiva del lavoro, determinando la caduta del saggio dei profitti, genera una legge che, ad un dato momento, si oppone inconciliabilmente al suo ulteriore sviluppo e che deve quindi di continuo essere superata per mezzo di crisi. 2. L’estensione o la riduzione della produzione non viene decisa in base al rapporto fra la produzione ed i bisogni sociali, i bisogni di un’umanità socialmente sviluppata, ma in base all’appropriazione del lavoro non pagato e al rapporto tra questo lavoro non pagato e il lavoro oggettivato in generale o, per usare un’espressione capitalistica, in base al profitto ed al rapporto fra questo profitto ed il capitale impiegato, vale a dire in base al livello del saggio dei profitti. La produzione capitalistica incontra quindi dei limiti ad un certo grado di sviluppo, che sembrerebbe viceversa assai inadeguato sotto l’altro punto di vista. Essa si arresta non quando i bisogni sono soddisfatti, ma quando la produzione e la realizzazione del profitto impongono questo arresto.

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Critica della teoria neoclassica: Keynes e Sraffa

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Una critica radicale della teoria economica ortodossa è l’obiettivo comune perseguito sia da Sraffa che da Keynes, sebbene i due ricorrano a strategie diverse. Con la General Theory of Employment, Interest and Money (1936) Keynes svela le determinanti effettive del livello di occupazione. Produzione di merci a mezzo di merci. Premesse a una critica della teoria economica (1960) di Piero Sraffa, nega l’effettiva universalità della teoria marginalista del valore e della distribuzione.

È un peccato, e un problema interessante per gli storici del pensiero economico, che queste critiche non abbiano ottenuto lo stesso successo che in altre discipline sarebbe stato garantito da un simile potere teoretico. Contro la tesi neoclassica. che afferma l’armonia di interessi propria del capitalismo, Sraffa ci offre una dimostrazione definitiva dell’esistenza di un conflitto interno fra salari e profitti. Keynes, d’altro canto, sostiene in modo convincente che in un’economia fondata sull’attività imprenditoriale la disoccupazione rappresenta la normalità. La General Theory di Keynes e le Premesse a una critica della teoria economica di Sraffa hanno quindi gettato le basi per un’analisi critica del capitalismo contemporaneo. Stando ai fatti, la General Theory è stata seppellita dalla così detta “sintesi neoclassica” e Produzione di merci solitamente non è nemmeno menzionata nei libri di testo.

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La critica di Keynes

Nella sua opera più famosa, la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, apparsa nel 1936, Keynes esamina due punti cruciali della costruzione neoclassica: la determinazione del livello dell’occupazione e la determinazione del tasso di interesse.

Per quanto riguarda il livello dell’occupazione, Keynes mostra come esso non sia determinato nel mercato del lavoro dall’operare congiunto di due funzioni, una di domanda e una di offerta, così come afferma la teoria neoclassica, bensì da altre forze che agiscono su altri mercati (mercati della moneta, dei capitali, dei beni), dei quali si deve tener necessariamente conto (superando così il metodo neoclassico del ceteris paribus). In particolare non vi sarebbe necessariamente una relazione inversa fra il salario e l’occupazione: una diminuzione del salario potrebbe anche non condurre a un aumento dell’occupazione. Per quanto riguarda il tasso di interesse, Keynes mostra come esso, a differenza di quanto affermato dalla teoria neoclassica, non sia il prezzo che equilibra domanda e offerta di beni capitali, cioè investimenti e risparmi in un dato mercato. Per spiegare la determinazione di questo prezzo particolare si dovrebbe invece far riferimento a elementi diversi dal mero interagire delle forze di domanda e offerta: in particolare, bisogna riferirsi alla preferenza per la liquidità dei soggetti che operano in un mondo e in una storia caratterizzati dall’incertezza.

Il problema diventa allora quello di determinare che cosa determini gli imprenditori a fare quel che fanno, posto che la Teoria generale si può ridurre a questa proposizione: l’occupazione è quella che i capitalisti decidono di dare, secondo le loro aspettative. Secondo lo stesso Keynes, “la teoria si può riassumere dicendo che, data la psicologia della gente, il livello della produzione e dell’occupazione complessiva dipende dall’ammontare dell’investimento”.

La psicologia della gente Al centro del ragionamento di Keynes sta l’idea che noi, nella realtà,

abbiamo soltanto una percezione molto vaga delle conseguenze non immediate dei nostri atti. La nostra conoscenza, in generale e anche per quanto riguarda le decisioni economiche più importanti, è una ‘conoscenza incerta’. Il significato in cui Keynes usa questo termine è quello per cui si può dire che sono incerti la prospettiva di un’altra guerra in Europa, o il prezzo del rame e del tasso di interesse di qui a vent’anni, o l’obsolescenza di una nuova invenzione, o la posizione dei proprietari di ricchezza privata nel sistema sociale tra cinquant’anni: Su queste cose non c’è alcuna base scientifica su cui fondare un qualsivoglia calcolo probabilistico. Noi

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semplicemente non sappiamo”. Anche se in condizioni di conoscenza incerta, tuttavia, dovremo prendere delle decisioni, e ciò faremo rimuovendo l’esperienza passata e dunque sottovalutando la possibilità di mutamenti futuri; oppure fingendoci che lo stato attuale dell’economia sia basato su una corretta ponderazione delle prospettive future (che è l’assunto epistemologicamente ingenuo della moderna teoria delle “aspettative razionali”); oppure ammettendo che il nostro giudizio individuale non vale nulla, e che perciò ci converrà ricorrere al giudizio del resto del mondo, che forse è meglio informato.

La psicologia di una società di individui, ciascuno dei quali cerca di copiare gli altri, conduce a ciò che Keynes definisce un giudizio ‘convenzionale’. Una siffatta concezione del futuro, essendo basata su fondamenta inconsistenti, “è soggetta a improvvisi e violenti mutamenti. La pratica della calma e della immobilità, della certezza e della sicurezza, improvvisamente viene meno. Nuovi timori e speranze, senza preavviso, vengono a influenzare il comportamento umano. Le forze della delusione potrebbero improvvisamente imporre una nuova convenzione. Tutte queste piacevoli, elaborate tecniche fatte per una sala delle riunioni lussuosamente arredata e per un mercato appropriatamente regolato possono crollare da un momento all’altro. In ogni momento, vaghi timori panici e ugualmente vaghe e ingiustificate speranze non sono del tutto acquietati e giacciono solo di poco sotto la superficie”. Il fatto che la nostra conoscenza sia incerta ha dunque come conseguenza principale la fragilità, la precarietà dell’equilibrio del sistema.

L’economia capitalistica come economia monetaria

Per Keynes l’analisi tradizionale dell’equilibrio capitalistico è difettosa in quanto non è riuscita a isolare correttamente le variabili indipendenti del sistema: risparmio e investimenti non sono le determinanti del sistema, bensì i risultati gemelli delle determinanti del sistema, che sono la propensione al consumo, la scheda dell’efficienza marginale del capitale e il saggio di interesse. Queste determinanti sono esse stesse complesse e ciascuna è suscettibile di essere influenzata da cambiamenti prospettivi delle altre. Le variabili dipendenti sono il volume dell’occupazione e il reddito nazionale (misurato in unità di salario).

Per Keynes l’equilibrio capitalistico non solo è possibile, ma è anche normale, nel senso che un qualche equilibrio si dà sempre. Tuttavia normalmente esso è iniquo. E’ perfettamente possibile che la domanda (effettiva) uguagli il reddito, ma normalmente l’uguaglianza fra domanda e offerta sul mercato della moneta e sul mercato dei beni si accompagna all’esistenza di disoccupazione involontaria (il marxiano esercito industriale

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di riserva). Un’eventuale diminuzione del salario, comunque ottenuta, non è un rimedio alla disoccupazione, poiché non determina necessariamente una modifica delle aspettative e perciò delle decisioni dei capitalisti, dalle quali dipende il volume dell’occupazione.

Nella determinazione dell’equilibrio capitalistico i prezzi sono del tutto secondari rispetto all’investimento e alla moneta; mentre per la teoria ortodossa è vero il contrario. Per Keynes (come per Marx) l’equilibrio classico (e per Keynes anche l’equilibrio neoclassico) - un equilibrio che esiste come unico, stabile (e ottimo in un qualche senso) - non è affatto il caso naturale, necessario e generale. Tutta l’opera di Lord Keynes intende dimostrare che i “postulati della teoria classica sono applicabili soltanto a un caso speciale e non al caso generale, alla situazione che essa assume essere un punto limite delle possibili soluzioni di equilibrio. Inoltre, le caratteristiche del caso speciale presupposto dalla teoria classica risultano non essere quelle proprie alla società economica nella quale effettivamente viviamo, con la conseguenza che il suo insegnamento è fuorviante e disastroso se si tenta di applicarlo ai fatti dell’esperienza.”

In questo quadro assume un’importanza centrale la visione keynesiana dell’equilibrio capitalistico come equilibrio monetario: “l’importanza della moneta scaturisce essenzialmente dal fatto che essa costituisce un legame fra presente e futuro”. A causa di questa proprietà della moneta, gli effetti di aspettative mutevoli circa il futuro delle attività correnti non possono essere discussi altro che in termini monetari. Qui Keynes concede che a Marx si deve un’osservazione feconda:

La natura della produzione nel mondo reale non è, come gli economisti sembrano spesso supporre, un caso del tipo Merce-Denaro-Merce, cioè inteso a scambiare una merce contro denaro al fine di ottenere un’altra merce. Questo può infatti essere la prospettiva del singolo consumatore, ma certamente non è quella del mondo degli affari: che dal denaro si separa in cambio di una merce soltanto al fine di ottenere più denaro, secondo un processo del tipo Denaro-Merce-Denaro.

Cioè un processo inteso a ottenere più denaro per chi lo muove anziché al soddisfacimento dei bisogni dei consumatori. Keynes prende subito le distanze da Marx, sostenendo che di tale osservazione Marx farà un uso altamente illogico. Il punto di partenza, tuttavia è lo stesso: noi non viviamo in una real-exchange economy, bensì in una monetary economy of production.

Moneta e saggio di interesse La domanda totale di moneta (L) può essere considerata la somma di

due componenti: la prima, dovuta ai moventi delle transazioni e a quello

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precauzionale, dipende dal livello del reddito [L1(Y)]; la seconda, dovuta al movente speculativo dipende dal livello del tasso di interesse [L2(i)].

L = L1(Y) + L2(i)

L’intera domanda di moneta risulta composta di una parte che è dunque insensibile rispetto alle variazioni del tasso di interesse, e di una parte decrescente al crescere del tasso di interesse:

L’offerta di moneta può essere invece considerata rigida rispetto al tasso di interesse, in quanto viene discrezionalmente decisa dalla Banca Centrale, in funzione di determinati obiettivi di politica monetaria (graficamente essa sarà così rappresentata da una linea verticale). Ora il tasso di interesse viene determinato a quel livello che rende eguale la domanda e l’offerta di moneta (cioè assicura l’equilibrio di mercato). Se per esempio l’offerta è pari a M1, il tasso corrispondente sarà i1 e la quantità di moneta richiesta a scopi speculativi sarà pari alla differenza M1-L1. Se la Banca Centrale aumenta l’offerta fino al livello M2 vi sarà un ribasso del tasso fino a i2, ma questo effetto non può essere ottenuto con qualsiasi incremento della liquidità. Infatti se il tasso di interesse si trova già al livello i3, non sarà più possibile scendere al di sotto di esso a causa della “trappola della liquidità”.

L’opinione di Keynes è che il tasso di interesse è determinato non da fenomeni reali (come la domanda di investimenti o l’offerta di risparmio), bensì da grandezze puramente monetarie, cioè dalla domanda e dall’offerta di moneta. Si tratta perciò di spiegare le circostanze che influenzano lo stato del mercato monetario. La relazione tra domanda di moneta e tasso di interesse dipende dal fatto che esiste un movente speculativo, cioè il desiderio di detenere risorse in forma liquida allo scopo di trarre vantaggio

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dal mercato (in particolare dal mercato dei titoli, lucrando una differenza tra il prezzo corrente ed il prezzo futuro). L’incertezza circa il corso futuro del saggio di interesse è, secondo Keynes, “l’unica spiegazione intelligibile” della domanda speculativa, che dipende dal rapporto tra il saggio corrente e le aspettative circa un saggio “normale” o “sicuro”. Se i è inferiore al normale, gli operatori, attendendosi generalmente un suo aumento e una futura diminuzione delle quotazioni, preferiranno detenere moneta anziché titoli, e la domanda speculativa sarà elevata. Infatti la domanda speculativa varia inversamente rispetto al tasso di interesse. A tassi di interesse molto elevati essa si annulla, poiché tutti gli operatori, attendendosi un ribasso verso un livello “normale” di i, temono che la perdita in conto interessi sia così forte da non essere compensata dal guadagno in conto capitale dovuto all’aumento della quotazione di mercato. Per contro vi sarà un livello molto basso di i in corrispondenza del quale l’attesa del suo rialzo e di una diminuzione del valore di mercato dei titoli è talmente generale (se non unanime) che tutti vogliono vendere i titoli stessi in cambio di moneta speculativa, anche se la loro quotazione è elevata.

Il saggio di interesse, in questo contesto, non è una ricompensa per il risparmio o l’astinenza come tali; infatti se un uomo tesaurizza i suoi risparmi in denaro, non percepisce alcun interesse benché risparmi esattamente tanto quanto prima: il saggio di interesse è invece la ricompensa all’abbandono della liquidità per un periodo determinato. Esso misura la riluttanza di coloro che possiedono la moneta ad abbandonare il loro controllo liquido su di essa; esso non è il prezzo che porta all’equilibrio la domanda di mezzi da investire con la disposizione a astenersi dal consumo presente; è il prezzo che equilibra il desiderio di tenere ricchezza in forma di denaro con la quantità di denaro disponibile. Questa preferenza per la liquidità richiede però una spiegazione: “perché mai vi dovrebbe essere qualcuno, al di fuori delle mura di un manicomio, che desideri usare la moneta come riserva di ricchezza?” La spiegazione keynesiana è che, per motivi in parte ragionevoli, in parte istintivi, il nostro desiderio di tenere moneta come riserva di ricchezza è un barometro del nostro grado di sfiducia nelle nostre capacità di calcolo e nelle nostre convenzioni sul futuro. Sebbene questo nostro atteggiamento verso la moneta sia esso stesso convenzionale o istintivo, esso opera, per così dire, a un livello più profondo delle nostre motivazioni. Esso subentra nei momenti in cui le più superficiali, più instabili convenzoni si sono indebolite: “il possesso della moneta culla la nostra inquietudine, e il premio che noi pretendiamo per dividerci da essa è la misura della nostra inquietudine”.

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Capitale, investimenti e animal spirits Mentre la teoria neoclassica determina il valore dello stock di

capitale sulla base del tasso di interesse che risulta dal confronto tra domanda e offerta dei servizi dei beni capitali, per Keynes l’efficienza marginale del capitale è il tasso di profitto atteso, ciò che l’imprenditore - mosso dai suoi animal spirits e in condizioni di conoscenza incerta - si aspetta di ottenere, e non ciò che egli otterrà davvero: l’efficienza marginale del capitale va definita in termini dell’aspettativa di reddito e del prezzo corrente dell’offerta del capitale: “essa dipende dal saggio atteso di rendimento in termini di moneta, se questa venisse investita in un dato capitale di nuova produzione; non dal risultato storico di ciò che un investimento ha reso rispetto al suo costo originario se si guarda indietro a ciò che ha fruttato quando la sua vita è giunta al termine”.

L’ammontare effettivo dell’investimento corrente dipenderà da un confronto tra l’efficienza marginale del capitale e il saggio di interesse corrente, poiché si realizzeranno soltanto quei progetti di investimento per i quali l’efficienza marginale è maggiore, o almeno uguale, al saggio di interesse corrente. Da ciò deriva che l’incentivo a investire dipende in parte dall’efficienza marginale del capitale (dalle aspettative degli imprenditori), e in parte dal saggio di interesse. Per Keynes il rendimento del capitale dipende dal fatto che esso è (artificialmente) scarso. Ciò è sufficiente per consigliare di non dire che il capitale è produttivo: è assai meglio dire che esso fornisce, nel corso della sua vita, un reddito maggiore del suo costo originario. L’unica ragione per la quale un bene capitale offre una prospettiva di rendere, durante la sua vita, servizi aventi un valore complessivo superiore al suo prezzo di offerta iniziale è perché esso è scarso; e viene mantenuto scarso a causa della concorrenza del saggio di interesse: se il capitale diviene meno scarso, il suo rendimento rispetto al costo diminuirà, senza che diminuisca la sua produttività fisica.

Equilibrio capitalistico e disoccupazione La teoria keynesiana si può riassumere così: “data la psicologia della

gente, il livello della produzione e dell’occupazione complessive dipende dall’ammontare dell’investimento”. Più esaurientemente, la produzione totale dipende dalla propensione al tesoreggiamento, da come la politica monetaria influenza la quantità di moneta, dallo stato di fiducia relativamente al rendimento futuro dei beni capitali, dalla propensione alla spesa, e dai fattori sociali che influenzano il livello del salario monetario. Di questi diversi fattori sono però quelli che determinano il tasso dell’investimento, quelli dei quali ci si può fidare di meno, perché sono

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quelli che sono influenzati dalle nostre previsioni sul futuro del quale sappiamo così poco.

Quando l’occupazione cresce, il reddito reale aggregato cresce. La psicologia della collettività è tale che quando il reddito reale aggregato cresce, il consumo cresce, ma non quanto il reddito. Di conseguenza i datori di lavoro avrebbero delle perdite se destinassero l’intero aumento di occupazione alla soddisfazione dell’aumento nella domanda per il consumo immediato. Così, per giustificare ogni dato ammontare di occupazione vi deve essere un ammontare di investimento corrente sufficiente ad assorbire l’eccesso della produzione totale rispetto a quanto la collettività sceglie di consumare quando l’occupazione è al livello dato. Se non vi fosse questo ammontare di investimento, i ricavi degli imprenditori sarebbero minori di quanto occorre per indurli ad offrire quel dato ammontare di occupazione. Ne segue perciò che, data quella che chiameremo la propensione al consumo della collettività, il livello di equilibrio dell’occupazione, cioè il livello al quale non vi è alcun motivo perché i datori di lavoro nel complesso espandano o contraggano l’occupazione, dipenderà dall’investimento corrente.

L’ammontare di investimento corrente, a sua volta, dipenderà da quello che chiameremo lo stimolo a investire; e lo stimolo a investire si vedrà che dipende dalla relazione fra la scheda di efficienza marginale del capitale e il complesso dei tassi di interesse su prestiti di varie scadenza e rischi. Così, data la propensione al consumo e il saggio di nuovo investimento, vi sarà un solo livello di occupazione compatibile con l’equilibrio; poiché qualsiasi altro livello condurrebbe a una disuguaglianza fra il prezzo di offerta aggregata della produzione nel complesso e il suo prezzo di domanda aggregata. Questo livello non può essere maggiore della piena occupazione, cioè il salario reale non può essere minore della disutilità marginale del lavoro. Tuttavia non vi è alcuna ragione in generale per aspettarsi che esso sia uguale alla piena occupazione. La domanda effettiva associata alla piena occupazione è un caso speciale, che si realizza soltanto quando la propensione al consumo e lo stimolo a investire stanno fra loro in una relazione particolare. Questa relazione particolare, che corrisponde ai presupposti della teoria classica, è in un certo senso una relazione di ottimo. Tuttavia può esistere soltanto quando, per caso o per disegno deliberato, l’investimento corrente fornisce un ammontare di domanda giusto uguale all’eccesso del prezzo di offerta aggregata della produzione corrispondente alla piena occupazione, rispetto a quanto la collettività sceglierà di spendere in consumi quando è pienamente occupata.

Nella teoria classica (e neoclassica) si suppone invece che la domanda effettiva assuma sempre un valore uguale al prezzo di offerta aggregato, per qualsiasi ammontare di occupazione. Ciò è come dire che la

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domanda effettiva, anziché avere un unico valore di equilibrio, è un serie infinita di valori tutti ugualmente ammissibili; cosicché il volume dell’occupazione è in un equilibrio neutrale per tutti i valori dell’occupazione stessa, fuorché per il suo valore massimo: la concorrenza fra gli imprenditori spingerà il volume dell’occupazione verso tale valore massimo, che è l’unico punto di equilibrio stabile. Per Keynes, al contrario, in ogni situazione data vi è un unico livello di occupazione compatibile con l’equilibrio, e tale equilibrio è stabile anche se l’occupazione non è piena. A ciò basta che la domanda aggregata sia uguale all’offerta aggregata (e che in presenza di variazioni negli investimenti si abbia una variazione nel reddito commisurata al moltiplicatore).

Questa analisi ci fornisce, secondo Keynes, una spiegazione del paradosso della povertà nel bel mezzo dell’abbondanza: È caratteristica saliente del sistema economico in cui viviamo che, mentre è soggetto a fluttuazioni severe per quanto riguarda la produzione e l’occupazione, esso non è violentemente instabile. In effetti esso sembra capace di permanere in una condizione cronica di attività subnormale per un periodo considerevole, senza una tendenza marcata né verso la ripresa né verso il collasso complesso [...]. Una situazione intermedia, né disperata né soddisfacente, è la nostra sorte normale.

Lo schema keynesiano A differenza di un modello di equilibrio economico generale, il

ragionamento di Keynes parte dall’idea che i mercati non siano tra loro indipendenti. Se analizziamo le condizioni di equilibrio

I(i) = S(Y)

M = L(i, Y)

vediamo che nessuna di esse è in grado di realizzarsi per le variazioni di una sola variabile. Il mercato della moneta esercita un effetto sul mercato delle merci, attraverso l’influenza del tasso di interesse sugli investimenti, ed il mercato delle merci, determinando il livello di Y, esercita un effetto sul mercato della moneta, attraverso la domanda per transazioni.

L’ordine causale delle relazioni keynesiane si presenta allora nel modo seguente. Innanzitutto occorre considerare i fattori che determinano il livello della domanda effettiva e degli investimenti: le aspettative (E) che possiamo assumere come esogene, ed il livello del tasso di interesse (i) che dipende, data la preferenza della liquidità, dall’offerta di moneta (M). La domanda effettiva determina il livello del reddito (Y), e quindi quello del risparmio (S = Y-C) che serve a finanziare la domanda autonoma costituita dagli investimenti (I). In un certo senso il mercato della moneta precede nell’ordine causale il mercato delle merci.

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Tale ordine può essere rappresentato come segue:

E

E I Y N

i

M

Il mercato della moneta dipende dallo stato delle aspettative (E), che influenza la forma e la posizione della domanda di moneta L(i), nonché della moneta in circolazione (M). Questo insieme di circostanze determina il livello del tasso di interesse (i):

E

i

M

L’ammontare degli investimenti (I) che corrispondono a un certo tasso di interesse, secondo una domanda di investimenti I(i), dipende a sua volta dalle aspettative:

E

i

I

Il volume degli investimenti insieme all’ammontare dei consumi, dipendenti dalla propensione al consumo della collettività, determina il livello del reddito:

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Y1 rappresenta il reddito di “equilibrio”, dato il livello degli investimenti. Ad esso corrisponde un certo livello di occupazione.

Si noti che l’equilibrio sul mercato della moneta e sul mercato dei

beni (anche se questo è in equilibrio nel senso particolare di eguaglianza ex- post, ma non tra grandezze decise ex-ante), si realizza senza che ciò implichi necessariamente equilibrio sul mercato del lavoro. Infatti nel grafico l’occupazione corrispondente al reddito di ‘equilibrio’ Y1 è inferiore al livello di piena occupazione N*.

Per Keynes il mercato del lavoro non può essere descritto come mercato tendente all’equilibrio, in virtù di una domanda e di un’offerta in funzione di una stessa variabile. L’unica condizione che Keynes introduce è che i salari monetari non possono essere inferiori al livello corrente w0, cioè:

w ≥ w0

In ciò non è implicita nessuna idea di equilibrio inteso come eguaglianza fra domanda e offerta. Ne consegue una differenza essenziale con il modello neoclassico: Keynes non ipotizza il pieno impiego della capacità produttiva né che il livello di occupazione sia quello di pieno impiego.

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Attualità di Keynes

L’opinione comune circa le cosiddette ‘politiche keynesiane’ è che esse consistano in qualche generica forma di spesa pubblica, intesa a innalzare la domanda effettiva a un livello più alto di quello che altrimenti si avrebbe con i soli consumi e investimenti privati, a un livello possibilmente pari a quello che comporta la piena occupazione. A questa interpretazione spuria della lezione keynesiana hanno contribuito il keynesismo bastardo (nel senso di Joan Robinson, di riduzione della Teoria generale a caso particolare della teoria neoclassica dell’equilibrio economico generale), che riduce la ricetta keynesiana a un rilancio della domanda effettiva accompagnato da un taglio dei salari; e il keynesismo criminale (secondo la definizione di Marcello De Cecco), di cui il nostro paese ha avuto lunga e rovinosa esperienza. In Italia Keynes ha spesso suscitato forti antipatie, a destra come a sinistra. A sinistra, quasi sempre per ignoranza. A destra per ragioni più serie. Keynes, probabilmente, non se ne sarebbe meravigliato: “Queste franche conclusioni di un economista possono essere interpretate in un senso sia conservatore che rivoluzionario. [...] Così credo proprio di essere stato capace, una volta tanto, di accontentare tutti”.

Il pensiero di Keynes è realmente pericoloso, poiché comporta una riflessione e una scommessa sui fini, anziché sui mezzi, che la politica può e deve darsi in questo mondo. Questo mondo, “il capitalismo decadente, internazionale ma individualistico”, a Keynes non piace: “Non è intelligente, né bello, né giusto, né virtuoso, né si comporta come dovrebbe. In breve non ci piace e anzi stiamo cominciando a detestarlo. Ma quando ci domandiamo che cosa mettere al suo posto, siamo estremamente perplessi”. Per quanto perplesso, anzi proprio per questo, Keynes non è un conservatore. Infatti esclude che i difetti di questo mondo possano essere emendati applicando la dottrina del laissez faire, di cui confuta i princìpi metafisici e denuncia le conseguenze: “Se lo scopo della vita è di cogliere le foglie dagli alberi fino alla massima altezza possibile, il modo migliore di raggiungere questo scopo è di lasciare che le giraffe dal collo più lungo facciano morire di fame quelle dal collo più corto”. I difetti più evidenti della società economica nella quale viviamo sono, per Keynes, l'incapacità a provvedere una occupazione piena e la distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e del reddito. Keynes nega, con eccellenti argomentazioni teoriche, che possa essere “lui - il grande capitano di industria, il maestro individualista - che ci condurrà per mano in Paradiso”. Dunque dovrà intervenire il governo. Questo non significa che il governo debba sostituirsi all'impresa privata:

Dobbiamo tendere a separare quei servizi che sono tecnicamente sociali da quelli che sono tecnicamente individuali. L’azione più importante dello stato si riferisce non a quelle

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attività che gli individui privati esplicano già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d'azione degli individui, a quelle decisioni che nessuno compie se non vengono compiute dallo stato. La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno già, e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto. [...] Il nostro problema è di elaborare un’organizzazione sociale che sia la più efficiente possibile, senza offendere le nostre nozioni di un soddisfacente sistema di vita.

E’ impressionante che i difetti più evidenti della società economica nella quale viviamo siano oggi gli stessi che Keynes denunciava nel 1936: “l'incapacità a provvedere una occupazione piena e la distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e del reddito”. Questa persistenza patologica non trova spiegazioni convincenti nell’antropologia e nell’analisi economica reazionarie; mentre la possono spiegare la Teoria generale di Keynes e la miopia dei conservatori: “La difficoltà sta nel fatto che i leaders capitalisti nella City e in parlamento non sono capaci di distinguere i nuovi strumenti e le misure per salvare il capitalismo da quello che loro chiamano bolscevismo”. Per lunghi periodi il ‘keynesismo’ può anche essere sembrato dominante, in forme più o meno oneste di spesa pubblica. Keynes ha certamente autorizzato un intervento, diretto o indiretto, a sostegno della domanda effettiva e dunque dell’occupazione. L’idea era che soltanto by accident or design la domanda effettiva, per consumi e per investimenti, avrebbe coinciso con la produzione corrispondente al pieno impiego, e che perciò un intervento attivo del governo normalmente sarebbe stato necessario. Anche questo tipo di intervento oggi potrebbe essere utile. Anziché il Keynes del breve periodo, tuttavia, è il Keynes radicale cui si dovrebbe pensare, anche perché ce ne sono le condizioni (non anche la volontà politica). Questo Keynes, il Keynes del capitolo 24 della Teoria generale, sulla filosofia sociale verso la quale la teoria generale potrebbe condurre, in verità non ha mai dominato, in nessun governo e in nessuna università. Eppure vi si trovano analisi e disegni di estremo interesse.

Che cosa si dovrebbe fare, e si potrebbe fare, se davvero si condivide il giudizio che la disoccupazione e l’ineguaglianza sono dei mali da guarire? Secondo questo Keynes si dovrebbero fare tre cose:

1. Nelle condizioni contemporanee l’aumento della ricchezza, lungi dal dipendere dall’astinenza dei ricchi, come in generale si suppone, è probabilmente ostacolato da questa. Viene quindi a cadere una delle principali giustificazioni sociali della grande disuguaglianza delle ricchezze. [...] Per mio conto, ritengo che vi siano giustificazioni sociali e psicologiche per rilevanti disuguaglianze dei redditi e delle ricchezze, ma non per disparità tanto grandi quanto quelle oggi esistenti. Vi sono pregevoli attività umane che richiedono il movente del guadagno e l’ambiente del possesso privato della ricchezza affinché possano esplicarsi completamente. Inoltre, l’esistenza di possibilità di guadagni monetari e di ricchezza privata può istradare entro canali relativamente innocui pericolose tendenze umane, le quali, se non potessero venir soddisfatte in tal modo, cercherebbero uno sbocco in crudeltà, nel perseguimento sfrenato del potere e dell’autorità personale e in altre

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forme di autopotenziamento. È meglio che un uomo eserciti la sua tirannia sul proprio conto in banca che sui suoi concittadini. [...] Ma per stimolare queste attività e per soddisfare queste tendenze non è necessario che le poste del gioco siano tanto alte quanto adesso. Poste assai inferiori serviranno ugualmente bene, non appena i giocatori vi si saranno abituati. Però non deve confondersi il compito di tramutare la natura umana col compito di trattare la natura umana medesima. Sebbene nella repubblica ideale sarebbe insegnato, ispirato o consigliato agli uomini di non interessarsi affatto alle poste del gioco, può essere pur tuttavia saggia e prudente condotta di governo consentire che la partita si giochi, sia pure sottoponendola a norme e limitazioni, fino a quando la media degli uomini, o anche soltanto una sezione rilevante della collettività, sia di fatto dedita tenacemente alla passione del guadagno monetario. 2. Ora, sebbene questo stato di cose sarebbe affatto compatibile con un certo grado di individualismo, esso significherebbe tuttavia l'eutanasia del rentier e di conseguenza l'eutanasia del potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale. Oggi l’interesse non rappresenta il compenso di alcun sacrificio genuino, come non lo rappresenta la rendita della terra. [...] Potremmo dunque mirare in pratica (non essendovi nulla di tutto ciò che sia irraggiungibile) a un aumento del volume di capitale finché questo non fosse più scarso, cosicché l’investitore senza funzioni non riceva più un premio gratuito: e a un progetto di imposizione diretta tale da permettere che l’intelligenza e la determinazione e l’abilità del finanziere, dell’imprenditore et hoc genus omne (i quali certamente amano tanto il loro mestiere che il loro lavoro potrebbe ottenersi a molto minor prezzo che attualmente) siano imbrigliate al servizio della collettività, con una ricompensa a condizioni ragionevoli. 3. Lo Stato dovrà esercitare un’influenza direttiva circa la propensione a consumare, in parte mediante il suo schema di imposizione fiscale, in parte fissando il saggio di interesse e in parte, forse, in altri modi. Per di più, sembra improbabile che l'influenza della politica bancaria sul saggio di interesse sarà sufficiente da sé sola a determinare un ritmo ottimo di investimento. Ritengo perciò che una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento si dimostrerà l’unico mezzo per consentire di avvicinarci all’occupazione piena; sebbene ciò non escluda necessariamente ogni sorta di espedienti e di compromessi coi quali la pubblica autorità collabori con la privata iniziativa. [...] Non è la proprietà degli strumenti di produzione che è importante che lo Stato si assuma. Se lo Stato è in grado di determinare l’ammontare complessivo dei mezzi dedicati ad aumentare gli strumenti di produzione e il saggio base di remunerazione per coloro che li possiedono esso avrà compiuto tutto quanto è necessario. Inoltre la necessarie misure di socializzazione possono essere introdotte gradualmente e senza apportare una soluzione di continuità nelle tradizioni generali della società.

Proporre queste tre ricette (redistribuzione della ricchezza e del reddito, eutanasia del rentier, e una socializzazione di una certa ampiezza dell'investimento) come strumenti per combattere la disoccupazione e l'ineguaglianza può sembrare una predica. Esse si reggono invece su analisi difficili da liquidare, tanto che il problema viene spesso rimosso definendo la disoccupazione e l’ineguaglianza come fenomeni “naturali”. Citando Paul Valery, Keynes ricorda che i conflitti politici distorcono e disturbano nella gente il senso di distinzione tra questioni di importanza e questioni di urgenza e che dunque il cambiamento economico di una società è cosa da realizzare lentamente. E’ vero che il cambiamento economico di una società è un processo lento, poiché richiede consenso politico circa un diverso

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modello di società, diverso circa la strada da prendere anziché restare in un centro inesistente. Eppure Keynes è sicuro che il potere degli interessi costituiti è assai esagerato in confronto con la progressiva estensione delle idee. Non però immediatamente, [...] giacché nel campo della filosofia economica e politica non vi sono molti sui quali le nuove teorie fanno presa prima che abbiano venticinque o trent’anni di età, cosicché le idee che funzionari di Stato e uomini politici e perfino gli agitatori applicano agli avvenimenti correnti non è probabile che siano le più recenti. Ma presto o tardi sono le idee, non gli interessi costituiti, che sono pericolose sia in bene che in male.

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La critica di Sraffa

La critica alla teoria neoclassica del valore e della distribuzione è stata sviluppata a partire dal dibattito sul concetto di capitale, sulla funzione aggregata di produzione e sul ritorno delle tecniche in seguito alla pubblicazione di Produzione di merci a mezzo di merci (1960) di Piero Sraffa. In questo libro schematico ed enigmatico si dimostra, in un centinaio di pagine, l’impossibilità di concepire il capitale come una merce, di cui il profitto possa essere considerato il prezzo, essendo il capitale in realtà un insieme di mezzi di produzione eterogenei. Da ciò consegue che il capitale non può essere dato, cioè misurato in termini di valore, indipendentemente dalla determinazione dei valori delle merci che lo costituiscono e anteriormente ad essa. Se questo non è possibile, allora non è possibile nemmeno misurare il prodotto marginale del capitale, e nemmeno quello del lavoro. Pertanto non esiste la possibilità di risolvere il problema distributivo adottando l’impianto marginalista, che calcola il profitto e il salario d’equilibrio proprio sulla base dei prodotti marginali di capitale e lavoro. Ne deriva che l’armonia distributiva postulata dai neoclassici non è dimostrabile: non esiste nessun livello “naturale” del salario, e di conseguenza nessuna configurazione distributiva del prodotto sociale d’equilibrio. Esistono invece limiti alquanto ampi entro i quali le quote distributive possono variare, e entro tali limiti la situazione viene determinata in primo luogo dalle influenze storiche esercitate dalle forze sociali e politiche.

Lo scopo principale di Produzione di merci a mezzo di merci è enunciato nel sottotitolo: Premesse a una critica della teoria economica, e ancora nella Prefazione: è “carattere particolare della serie di proposizioni che vengono ora pubblicate che esse, per quanto non si addentrino nell’esame della teoria marginale del valore e della distribuzione, sono state tuttavia concepite così da poter servire di base per una critica di quella teoria”. Oggetto dell’analisi è la relazione che corre, in un dato momento di un sistema economico, tra i prezzi relativi e le grandezze distributive. L’obiettivo è l’elaborazione di una teoria economica che giunga alla determinazione dei prezzi delle merci e delle variabili distributive in maniera indipendente dal concetto di scarsità relativa dei fattori produttivi. L’analisi di Sraffa si struttura su uno schema del processo economico che non presuppone l’agire delle forze della domanda e dell’offerta come determinanti dei valori di equilibrio. La visione del sistema di produzione e di consumo che si ricava è di un processo circolare; la stessa visione propria del Tableau économique di Quesnay e degli schemi di riproduzione di Marx.

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Consideriamo un’economia in cui si produce più del minimo necessario per la reintegrazione e vi è quindi un sovrappiù da distribuire. Si producono tre merci base: a1, a2, a3. Una merce si dice base quando entra direttamente o indirettamente nella produzione di tutte le altre merci. I metodi di produzione sono unici per ogni merce e differenti tra di loro, pur esibendo tutti rendimenti di scala costanti. In realtà non si vuole “limitare l’argomento al caso di industrie a rendimenti costanti. Se tale supposizione può riuscire di qualche aiuto, non c’è nessun male a che il lettore l’adotti come temporanea ipotesi di lavoro. In realtà però l’argomento non comporta alcuna limitazione del genere. Non viene qui considerato alcun cambiamento nel volume della produzione e neppure alcun cambiamento nelle proporzioni in cui i diversi mezzi di produzione sono usati in ciascuna industria, così che la questione se i rendimenti siano costanti o variabili non sorge nemmeno. L’indagine riguarda esclusivamente quelle proprietà di un sistema economico che sono indipendenti da variazioni nel volume della produzione e nelle proporzioni tra i “fattori” impiegati”. Questo è il punto di vista “degli economisti classici da Adamo Smith a Ricardo”, “sommerso e dimenticato in seguito all’avvento della teoria ‘marginale’”.

Le incognite sono rappresentate dai prezzi relativi delle tre merci presenti nel sistema (p1, p2, p3) e dalle variabili distributive, cioè del salario e del saggio del profitto (w, r). L1, L2 e L3 sono le quantità di lavoro annualmente impiegate nelle industrie che producono rispettivamente a1, a2, a3. I coefficienti tecnici di produzione sono rappresentati da aij, con i, j = 1, 2, 3 (aij indica la quantità di bene i-esimo impiegata nella produzione del bene j-esimo):

a1 p1 = (a11 p1 + a21 p2 + a31 p3) (1+r) + L1 w

a2 p2 = (a12 p1 + a22 p2 + a32 p3) (1+r) + L2 w

a3 p3 = (a13 p1 + a23 p2 + a33 p3) (1+r) + L3 w

L’algebra elementare ci dice che questo è un sistema di tre equazioni in cinque incognite. E’ ragionevole ritenere uniforme, nelle tre sfere della produzione, il livello di w e r. Vale infatti la definizione di concorrenza propria dei classici che presuppone l’uniformità del saggio del profitto, ovvero l’assenza – nel lungo periodo - di ostacoli all’ingresso di nuove imprese nei diversi settori. Il sistema risulta sottodeterminato. Possiamo allora prendere come unità di misura il primo bene e quindi porre p1 = 1. A questo punto il sistema è ancora sottodeterminato, ma può muoversi con un grado di libertà. Questo significa che, fissata una variabile distributiva (per esempio w), l’altra (r) risulta di conseguenza determinata, e il sistema è chiuso.

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La conclusione è la seguente: in un mondo con più merci, date le sole condizioni tecniche di produzione (la matrice dei coefficienti tecnici), e una delle due variabili distributive (poniamo il salario), mediante un sistema di equazioni simultanee si determinano i prezzi che assicurano il pareggio del bilancio nelle diverse industrie e l’altra variabile distributiva (cioè il saggio del profitto). Viceversa se si ponesse come dato il saggio del profitto, il quale è “suscettibile di esser determinato da influenze estranee al sistema della produzione, e particolarmente dal livello dei tassi di interesse monetario”, si determinerebbero i prezzi e l’altra variabile distributiva (cioè in questo caso il salario).

Poiché a seconda del valore dato a una variabile distributiva cambia il valore dell’altra variabile distributiva, lo schema di Sraffa mostra come non vi sia un unico salario o profitto di equilibrio, ma vi siano, dal punto di vista logico, infinite configurazioni distributive ammissibili. Questa è una profonda differenza con la teoria tradizionale. Per la teoria tradizionale, la distribuzione del reddito non è che la conseguenza necessaria delle dotazioni iniziali dei soggetti e delle scelte che essi hanno compiuto relativamente al consumo e alla produzione. Nella concezione di Sraffa, invece, e proprio come nella concezione di Ricardo, la distribuzione del reddito non dipende soltanto dalle condizioni della produzione: vi è anche una componente esogena. Affermare che la remunerazione dei ‘fattori’ della produzione, lavoro e capitale, ovvero la distribuzione del reddito tra salario e profitto, è esterna alle condizioni della produzione significa negare che esistano leggi di mercato che univocamente e necessariamente stabiliscano una ‘giusta’ retribuzione dei fattori.

All’interno di Produzione di merci a mezzo di merci l’opposizione tra le variabili distributive diventa una proprietà logico matematica del sistema economico reale che può essere illustrata in termini generali ricorrendo a un sistema tipo: Possiamo dire che se R è il rapporto tipo, cioè il massimo saggio del profitto, e w la proporzione del prodotto netto tipo che va ai salari, il saggio del profitto sarà:

r = R(1-w)

Ne deriva che quando il salario venga gradualmente ridotto da 1 a 0 il saggio del profitto aumenta in proporzione diretta della riduzione complessiva del salario. Questa relazione può essere rappresentata graficamente da una linea retta [inclinata negativamente].

La teoria del valore dopo Sraffa: critica e ideologia Nell’impostazione di Sraffa, il problema dei classici (e di Marx) -

quale sia l’origine e la sostanza del valore delle merci, e con esso il problema marxiano della trasformazione - vengono soppressi. Sraffa pretende di ristabilire Marx senza la “metafisica e la terminologia

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hegeliana”. Tuttavia i fini cui Karl Marx e Piero Sraffa mirano le loro analisi non sono gli stessi. Il fine ultimo al quale tiene Marx è svelare la legge economica del movimento della società moderna, la quale non è un solido cristallo, ma un organismo capace di trasformarsi e in costante processo di trasformazione. Mentre Il Capitale è una critica integrale dell’economia politica, in Produzione di merci a mezzo di merci Sraffa pubblica delle premesse a una critica della teoria economca. Le ‘verità’ qui pubblicate sono verità enunciate come tali, indipendentemente dal fatto che abbiano o meno una qualche importanza diretta per la politica pratica. Il risultato è che dopo Sraffa non ci sarebbe più bisogno di una teoria del valore.

Nello schema teorico di Sraffa, i coefficienti del sistema di equazioni simultanee da cui si ottengono i prezzi e il saggio del profitto, dato il salario (o il salario, dato il saggio del profitto) possono essere espressi in quantità di lavoro, ma una teoria del valore lavoro diventa superflua. Come scrive lo stesso Sraffa, nel sistema tipo il saggio del profitto si presenta “come un rapporto fra quantità di merci, senza bisogno di ricorrere ai loro prezzi”, ed “è curioso che in tal modo siamo posti in grado di esprimere i prezzi in una misura che non sappiamo di cosa consista”: “i prezzi delle merci possono essere considerati indifferentemente come espressi o nel prodotto netto tipo o nella quantità di lavoro che [...] sappiamo equivalente al prodotto netto tipo”. Nello schema di Sraffa, in altre parole, è possibile, ma non è necessario (dunque è superfluo) ricondurre i prezzi di produzione alle quantità di lavoro. Così, per battere neoclassici e marginalisti, si devono indebolire tutte le categorie marxiane.

È bensì vero che il sistema dei prezzi di Sraffa può essere interpretato come quel sistema di prezzi atto a garantire la riproduzione del sistema economico nel tempo (anziché come strumento capace di allocare in maniera efficiente risorse scarse in un dato momento, così come vuole l’ottica neoclassica della scarsità). Nulla si dice tuttavia di quanto avviene all’interno della ‘fabbrica’, luogo capitalistico del lavoro umano. D’altra parte Sraffa ci dice che per determinare i prezzi e il saggio del profitto, così come non occorre riferirsi a quantità di lavoro, non occorre nemmeno riferirsi a utilità soggettive (e quindi diventa superflua anche una teoria del valore utilità, la quale risente inoltre di tutti i vizi logici messi in luce nelle Premesse a una critica della teoria economica). La teoria dei prezzi diviene così completamente autonoma, da un punto di vista logico, da qualsiasi teoria del valore. Quando ci si chieda se la struttura economica della società è retta da uno scambio tra uguali oppure da un rapporto di sfruttamento, la teoria del valore non è però una parte della teoria economica come le altre, che si possono giudicare erronee per il principio di non contraddizione

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quando non rispettano le regole del calcolo, o superflue per il principio di Occam quando le rispettano. Come ha notato Claudio Napoleoni, con questa rinuncia alla teoria del valore si perde molto. Si perde, più precisamente, l’economia. Ma tenendo conto dello status dell’economia prima di Sraffa, è un bene che questa perdita sia accaduta [...]. Egli obbliga, per ragioni che a questo punto dovrebbero essere evidenti, a ricominciare tutto da capo.

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Letture consigliate

M. Dobb, Theories of Value and Distribution since Adam Smith. Ideology and Economic Theory, Cambridge 1973; trad. it. Storia del pensiero economico, Editori Riuniti, Roma 1974.

Keynes J. M., The End of Laissez-faire (1926), in The Collected Writings, vol. IX, Macmillan, Londra 1972; trad. it. J. M. Keynes, La fine del laissez-faire e altri scritti, Bollati Boringhieri, Torino 1991. http://www.panarchy.org/keynes/laissezfaire.1926.html

Keynes J. M., The General Theory of Employment, Interest, and Money, Macmillan, Londra 1936; trad. it. Occupazione, interesse e moneta. Teoria generale, UTET, Torino 1947. http://etext.library.adelaide.edu.au/k/keynes/john_maynard/k44g/k44g.html

Keynes J. M., The General Theory of Employment, “The Quarterly Journal of Ecomomics”, 1937; trad. it. J. M. Keynes, La fine del laissez-faire e altri scritti, Bollati Boringhieri, Torino 1991.

Marx K., Das Kapital: Kritik der politischen Ökonomie (1867, 1885, 1894), Dietz, Berlino 1947-49; trad. it. Il capitale. Critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1965-68.

Quesnay F., François Quesnay et la physiocratie, Presses Universitaire de France, Parigi 1958; trad. it. Il ‘Tableau économique’ e altri scritti di economia, ISEDI, Milano 1973.

Ricardo D., On the Principles of Political Economy and Taxation, 1821; trad it. Sui principi dell’economia politica e della tassazione, ISEDI, Milano 1976. http://oll.libertyfund.org/files/113/0687.01_LF.pdf

Smith A., An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, 1776; trad. it. Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, ISEDI, Milano 1973. http://www.econlib.org/LIBRARY/Smith/smWN.html

Sraffa P., Produzione di merci a mezzo di merci. Premesse a una critica della teoria economica, Einaudi, Torino 1960.

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© Giorgio Lunghini