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Atti del Convegno Padova - Pernumia 26 - 27 ottobre 2011 a cura di Andrea Cecchinato Molte cose stanno bene nella penna che ne la scena starebben male Teatro e lingua in Ruzante
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Contado senese e contado pavano in scena. Qualche intersezione

Mar 01, 2023

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Page 1: Contado senese e contado pavano in scena. Qualche intersezione

3Titolo contributo

Atti del Convegno

Padova - Pernumia26 - 27 ottobre 2011

a cura di Andrea Cecchinato

Molte cose stanno bene nella penna che ne la scena starebben male

Teatro e lingua in Ruzante

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4 «Le comiche smorfie»

Prima edizione: giugno 2012

ISBN 978 88 6129 878 1

© 2012 by cleup sc “Coop. Libraria Editrice Università di Padova”via G. Belzoni 118/3 – Padova (t. 049 8753496)www.cleup.it

Tutti i diritti di traduzione, riproduzione e adattamento,totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresele copie fotostatiche e i microfilm) sono riservati.

In copertina: Landshut, Burg Trausnitz, Narrentreppe: Un Nachtwächter accorre durante una rissa.

Organizzazione scientifica

RobeRto Alonge, IvAno pAccAgnellA, elenA RAndI

Volume pubblicato con il contributo della Regione del Veneto

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5Titolo contributo

Indice

Premessa 7

Introduzione 9

Questioni lessicali ruzantiane 11Ivano Paccagnella

Il toscano di Ruzante e la codificazione grammaticale cinquecentesca 45Chiara Schiavon

Intorno al testo dei Due dialoghi 63Cosimo Burgassi

Dai pavani alla Betia (e ritorno) 81Andrea Cecchinato

Toponomastica ruzantiana 109Lorenzo Tomasin

Per Ruzante e i predicatori. Primi assaggi su Bernardino da Feltre 125Luca D’Onghia

Contado senese e contado pavano in scena. Qualche intersezione 141Marzia Pieri

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6 Indice

Appunti per una rilettura della Moschetta 161Roberto Alonge

Qualche modesta proposta sul finale della Moschetta (e dintorni) 185Anna Scannapieco

Poetiche del paradosso nel teatro ruzantiano 205Ronnie Ferguson

Natura e civiltà: appunti sulla morale nel teatro ruzantino 223Paola Degli Esposti

Ferrara e la scena della Betìa 237Federica Natta

Osservazioni sullo spazio scenico in Ruzante 261Maria Ida Biggi

Ruzante nella storia e nella storiografia dell’attore italiano. Da Apollonio a Zorzi 277Raimondo Guarino

Baseggio riscrive Ruzante 293Paolo Puppa

De Bosio, Betìa 1994: Meneghelo filosofo dell’eros 309Simona Brunetti

«Verbum caro factum est»: una Moscheta per Franco Branciaroli 327Claudio Longhi

Indice dei nomi 345

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Contado senese e contado pavano in scena. Qualche intersezioneMarzia Pieri

Molti studi dedicati in questi anni ad Angelo Beolco hanno pro-gressivamente svuotato di senso una serie di cruces critiche di tipo evolutivo drammaturgico in passato tanto dibattute, ridimensio-nando l’importanza della ricostruzione cronologica del suo lavoro, che sembrava ancora a Padoan un handicap «dolente degli studi ruzanteschi»1; un incremento considerevole di informazioni e docu-menti sulla vita spettacolare dei primi decenni del Cinquecento, e soprattutto uno sguardo più scaltrito sulle forme sociali e antropo-logiche del consumo di rappresentazioni drammatiche e musicali di quegli anni (non ancora e non solo commedie) – di cui siamo debito-ri soprattutto a Piermario Vescovo e Raimondo Guarino2 – ne hanno in parte ridisegnato il percorso.

1 «Per valutare con esattezza lo svolgimento della cultura, della poetica e dell’arte del Beolco è necessario avere anzitutto un’idea sufficientemente precisa della suc-cessione cronologica delle opere, che è invece il punto dolente degli studi ruzante-schi». Così scriveva g. Padoan in Angelo Beolco da Ruzante a Perduoçimo, in «Let-tere Italiane», XX (1968), pp. 121-200 (ora in Momenti del Rinascimento veneto, Padova, Antenore, 1978, p. 94).2 Mi riferisco ai due volumi di Piermario Vescovo Da Ruzante a Calmo. Tra «Signore Comedie» e «Onorandissime Stampe», Padova, Antenore, 1996 e Il villano in scena. Altri saggi su Ruzante, Padova, Esedra, 2006 e ai contributi di Raimondo Guarino Teatro e mutamenti. Rinascimento e spettacolo a Venezia, Bologna, il Mulino, 1995 e La mimesi di Ruzante. L’attore letterato e la differenza linguistica, in c. schiavon (a cura di), «In lengua grossa, in lengua sutile». Studi su Angelo Beolco, il Ruzante, Padova, Esedra, 2005, pp. 303-328.

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Sul versante dello spettacolo e della filologia testuale si è anche assai riflettuto intorno alla natura composita e ibridata dei componi-menti di destinazione recitativa, che proprio in quest’epoca tendono a costituirsi come drammaturgici attraverso montaggi intertestuali di svariatissime provenienze, e a fissarsi nella scrittura, e poi nella stampa, con tutti i passaggi mediali che una tale rivoluzione compor-ta; all’interno di questo processo (dove molto, come si sa, è andato perduto, e le sopravvivenze documentarie sono spesso fortuite)3 è altrettanto chiaro, ormai, che il potente catalizzatore della commedia classicistica, spartiacque decisivo per la nascita del teatro moderno in ambito cortigiano, non inibisce affatto la sopravvivenza di un arci-pelago di forme dialogiche, musicali e narrative tout court, che “pe-scano” in un vasto retroterra di storie (cavalleresche, mitologiche, novellistiche e pastorali) perfettamente contigue al cosiddetto teatro erudito, consumate in palco e in libro fin ben addentro nel secolo da ampie fasce di pubblico4.

La filologia dei componimenti teatrali (testata su felici imprese editoriali e appassionate riflessioni metodologiche nel ventennio ap-pena trascorso5) rivendica ormai la loro specificità, la loro natura aperta e dinamica: come per Shakespeare, per Eduardo, o per Dario Fo, ci è chiaro anche per Ruzante che ci troviamo davanti a oggetti

3 Si rimanda a i. Paccagnella, Ruzante e i testi teatrali veneti di primo ’500. Alcune questioni filologiche e di metodo, ibid., pp. 161-192 e id., Per l’edizione di Ruzante tra filologia e storia della lingua, in Storia della lingua italiana e filologia, Atti del VII Convegno ASLI (Firenze-Pisa 18-20 dicembre 2008), Firenze, Cesati, 2009, pp. 97-128.4 Lo studio della storia e della formazione sociale e antropologica dello spettatore teatrale moderno è in gran parte ancora da scrivere; è prezioso il libro di P. vescovo, Entracte. Drammaturgia del tempo, Venezia, Marsilio, 2007, e mi permetto di rinvia-re anche al mio Narrare, cantare, recitare. Appunti sullo spettatore cinquecentesco, in corso di stampa in una miscellanea di studi in onore di Maria Grazia Profeti (Firenze, Alinea, 2012).5 Si rimanda, per esempio, a r. drusi, d. Perocco, P. vescovo (a cura di), «Le sorte dele parole». Testi veneti dalle origini all’Ottocento, Padova, Esedra, 2007 e a l. riccò, «Su le carte e fra le scene». Teatro in forma di libro nel Cinquecento italiano, Roma, Bulzoni, 2008.

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precari, trasmessici per vie diverse, spesso interpolati, e che registra-no stadi della composizione legati a contingenti occasioni rappresen-tative, casuali punte di iceberg che presuppongono spesso un prima e un dopo di interventi poliautoriali. Gli indizi e le ricostruzioni, quasi sempre, possono solo formulare delle ipotesi, aprire e chiudere piste interpretative altrettanto plausibili; il gioco della citazione, il ri-pescaggio fulminante di un rimando, l’esegesi strenua delle varianti, non sciolgono gli enigmi, non consentono di riordinare in sequenze definitive un convincente svolgimento dei fatti.

Riconsiderata con tale rassegnata consapevolezza, la sua opera, se esce in certo senso ridimensionata e più decifrabile sul piano formale e strutturale, svetta se possibile ancora più luminosa per altezza poe-tica e pregnanza storica, ma questo è un altro discorso. È probabile che ulteriori sondaggi restituiscano nuove fonti, facciano emergere prestiti e eredità artistiche inedite grazie all’acutezza di lettori sagaci e alla potenza di scavo delle banche dati digitali, ma a questo tipo di esercizi di erborizzazione infinita6 si potranno forse affiancare util-mente anche indagini comparative di altro segno, che, oltre la lettera dei testi, attivino nuovi collegamenti, aiutandoci a ricostruire alcune parentele rimaste finora in ombra fra lo studio patavino, le feste ve-neziane delle compagnie della Calza e l’officina ariostesca di Ferrara. In questa sede vorrei dunque provare ad aggiungere qualche tessera al mosaico, guardando alla tradizione teatrale senese, connessa con Ruzante per via di alcuni testi, forse; di alcuni autori, probabilmente;

6 Rubo la metafora a Andrea Gareffi, che così scrive a proposito di Ariosto: «la letteratura critica che si è applicata al Negromante ha continuato per anni a cercare paralleli, rapporti, dipendenze dal teatro latino, specialmente l’Andria di Terenzio, e derivazioni da quello in volgare, la Calandria del Bibbiena. Ma non è sminuzzando qua e là i testi comici di Ariosto […] che si arriva lontano, anzi semmai si impelaga ogni critica nell’analisi dei debiti e dei prestiti: a un dipresso così come, intessendo fonti possibili e impossibili del Furioso, Pio Rajna arrivava a confondere piuttosto che non a chiarire, lasciando quasi credere che Ariosto lavorasse di schede, riunisse tessere, combinasse schemi, erborizzasse in tutti i prati» (a. gareFFi (a cura di), Le Commedie di Ludovico Ariosto, Torino, Utet, 2007, vol. II, p. 528).

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di concrete esperienze di messinscena, e fruizione di spettacolo, di sicuro7.

In quest’epoca di veloci ma labili trapassi dall’oralità alla scrittura circolano fittamente per l’Italia testi cartacei, persone fisiche varia-mente addette ai lavori, e memorie condivise di esperienze spettato-riali; tutte concorrono (senza gerarchie né soluzioni di continuità) a costruire la nuova scena volgare: gli equivoci si sprecano, i pareri sono discordi, i plagi e le riprese fulminei e contagiosi. Più che anda-re a caccia di certificati anagrafici di parentela, mi limiterò dunque a rilevare tracce di retroterra comuni, molto interessanti in questo limbo di incubazione teatrale ancora aperto e sperimentale.

Lo spettacolo senese in particolare – apprezzato e conosciuto gra-zie anche a un precoce lancio editoriale – circola capillarmente per la penisola in forma di recite e di libretti, e costituisce un serbatoio da cui pescano in molti, non solo da quando Alessandro Piccolomini in-nesta nell’aristotelismo padovano i frutti del laboratorio intronatico sulla commedia, ma già molto prima, a inizio secolo, quando la pat-tuglia agguerrita dei cosiddetti pre-Rozzi (attori e musici di diversa estrazione sociale, che firmano spesso come autori i loro componi-menti e lavorano da solisti, ma anche in ensemble) lancia con succes-so una drammaturgia pastorale e rusticale subito diffusa a stampa a Roma, Siena e Venezia.

7 Al teatro senese cinquecentesco sto lavorando da tempo e faccio dunque riferi-mento ad alcune tappe di questa ricerca: Siena e il DNA della commedia rinascimen-tale, in «Il Castello di Elsinore», XXI (2008), n. 57, pp. 9-20; accadeMici intronati, Gl’Ingannati, Siena, Titivillus, 2009; La memoria dello spettacolo come autobiografia collettiva: il caso della Siena rinascimentale, in e. Mattioda ( a cura di), Nascita della storiografia e organizzazione dei saperi, Atti del Convegno Internazionale, Torino, 20-22 maggio 2009, Firenze, Olschki, 2010, pp. 259-278; Lo Strascino da Siena e la sua opera poetica e teatrale, Pisa, Ets, 2010 e, in corso di stampa: Fra vita e scena. Ap-punti sulla commedia senese cinquecentesca (nel «Bullettino senese di storia patria», 2012) e Fra il contado di Siena e la Farnesina: Mescolino maggiaolo, in F. Bortoletti (a cura di), L’attore del Parnaso. Profili di attori-musici e drammaturgie d’occasione, Milano, Mimesis, 2012).

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Essi provengono da una città che è un vero e proprio centro fon-dativo della cultura teatrale italiana e che – come Padova – ha lega-mi profondi con il contado circostante e ospita un’Università che la apre all’Europa; sin dalla fine del Quattrocento si intrecciano qui esperienze rappresentative sacre e profane fra gli scolari dello Stu-dio, alcune dimore patrizie e un circuito borghese di sodalizi arti-giani, dove si coltivano danze, musiche, narrazioni drammatizzate, contrasti recitativi, e vere e proprie recite drammatiche in versi e in prosa più o meno auliche. Da questo bacino – dopo gli outsider di inizio secolo, cui si è accennato, che trapiantano a Roma la civiltà scenica della madrepatria – scaturisce, a partire dagli anni ’30, la ricchissima esperienza delle congreghe e accademie cinquecentesche che animano la tumultuosa vita della Repubblica e poi, dopo la sua tragica sconfitta, ne celebrano il mito al cospetto dei Medici, nuovi padroni, accumulando un’eccellenza tecnica di tipo letterario, sce-nografico e performativo unica nel suo genere e, a sua volta, destina-ta a straordinaria irradiazione europea con la diaspora di tanta parte dell’intellighenzia senese.

Qui, insomma, le manifestazioni della vita civile e comunitaria tendono a diventare teatro: un teatro sociologicamente trasversale, naturalmente mescidato di cultura alta e popolare, ugualmente de-stinato a un’audience interna attiva e partecipe (di cui esprime umori e passioni) e a pubblici forestieri, affascinati da un dialetto fluido e comunicativo, dalle contaminazioni musicali e coreografiche e dalla bravura dei recitanti; per i pubblici forestieri, appunto, questo patri-monio di linguaggi e di fabulae, sradicato dal suo contesto originario, viene riciclato in forme neutre e tecnicizzate come puro intratteni-mento, depurato dei suoi originari umori realistici e polemici. Il suo sostrato è fondamentalmente recitativo piuttosto che letterario, ha a che fare con una peculiare competenza mimica e oratoria (da Gentile Sermini a San Bernardino), al gusto municipale per una civiltà della conversazione che, nella seconda metà del secolo, produrrà un’im-ponente serie di trattati teorici di gran fortuna, e che determina, a cavallo fra Quattrocento e Cinquecento, una ricca messe di inter-

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testualità e interdiscorsività8, di cui si potrebbero fare molti esempi – dall’utilizzo scenico delle Bucoliche elegantissime alla trasposizione drammatica di novelle e poemetti, a una produzione dialoghistica “di confine”, profondamente marcata di oralità (di cui più tardi la Raffaella di Piccolomini, così contigua al teatro, costituirà un vero e proprio modello)9 – che fa pensare immediatamente alla recitazione. I senesi, a casa loro, sono abituati ad affidare alla recita molte espe-rienze condivise di socialità, pubblica e privata, e lo fanno prima e meglio di altri in Italia.

I più bravi riscuotono a Roma grande successo presso quell’ano-mala corte borghese che il senese Agostino Chigi installa alla Farne-sina, e a cui approdano, intorno alla fabbrica di San Pietro, molti ar-tigiani, poeti e uomini faceti in cerca di fortuna, tempio laico di una festività carica di valenze simboliche culte, e laboratorio di precoci esperimenti rappresentativi, che precede quello di Alvise Cornaro e un po’ gli assomiglia.

Qui, nel secondo decennio del Cinquecento, si tentano prove re-citative e musicali diverse e si incrociano una serie di personaggi – da

8 Il riferimento è alle definizioni teoriche di Cesare Segre nel settimo capitolo («In-tertestualità e interdiscorsività nel romanzo e nella poesia») di Teatro e romanzo. Due tipi di comunicazione letteraria, Torino, Einaudi, 1984, pp. 103-118. 9 Nell’Apologia dei dialoghi, del 1574, Sperone Speroni teorizza un tipo di dialogo «imitante li nostri alterni ragionamenti, non introdotti né interrotti dallo scrittore ma alla maniera delle commedie», che fornisce imitazioni e ritratti come i personag-gi fittizi delle commedie che non sono veramente «la meretrice, né il parasito né la ruffiana né il vero giovane innamorato». La forma dialogica priva di cornice narra-tiva si rifà ad un sistema mimetico dove l’imitazione «riguarda non le azioni ma le opinioni» (in B. WeinBerg (a cura di), Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, Bari, Laterza, 1970, vol. II, pp. 697 e 705). Forse la giovanile Raffaella di Piccolo-mini è già costruita come contrasto dialettico di una coppia oppositiva (ruffiana/amorosa) poi elaborato teoricamente come vero e proprio sistema drammaturgico nel famoso (e perduto) zibaldone a cui fa riferimento nella dedicatoria ad Antonio Cocco del suo trattato astronomico La sfera del mondo, Venezia, Varisco, 1561; se ne veda la dettagliata analisi di d. seragnoli, Il teatro a Siena nel Cinquecento. “Proget-to” e “modello” drammaturgico nell’Accademia degli Intronati, Roma, Bulzoni, 1980, pp. 98-125.

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Federigo Gonzaga a Falconetto, da Zuan Manenti10 a Pietro Aretino, da Maestro Andrea al Bibbiena – che poi ritroveremo (di persona o per interposta scrittura) a Padova e a Venezia dalle parti di Ruzante. Qui si fanno dunque conoscere alcuni di questi pre-Rozzi a cui si accennava, dei quali lo stesso Ruzante potrebbe avere avuto notizia o lettura; le cautele sono obbligatorie anche se gli indizi sono piuttosto solidi e le somiglianze saltano agli occhi; ricordiamo che svariati testi senesi compaiono nella biblioteca di Marin Sanudo11. Giorgio Pado-an riteneva il Beolco «buon conoscitore» della produzione senese da cui avrebbe ripreso «qualche spunto», restandone però estraneo12, ma credo che quell’intuizione si possa oggi robustamente integrare, senza pensare solo ai rimandi testuali diretti (che pure ci sono).

Il personaggio che soprattutto vorrei chiamare in causa è Niccolò Campani detto lo Strascino, a cui ho dedicato di recente un’edizio-ne omnia. È un professionista semi-colto, già famoso come attore e musico nelle feste senesi, che emigra a Roma presso il Chigi, fa per un po’ il canterino e il poeta d’occasione e presto scala la vetta del successo (arrivando alla cerchia stretta del papa) sia come solista e cantore di mensa che come capo di una troupe stipendiata attiva nei palazzi dell’Urbe, con un consenso straordinario (registrato da mol-teplici, ammirate testimonianze), che lo catapulta nelle corti del nord e poi a Venezia.

Qui lo aiuta a trapiantarsi, sulla scia di Aretino, probabilmente quel Giovanni Manenti (senese anche lui) che sembra davvero una

10 La sua multiforme attività di imprenditore culturale e consulente editoriale è stata ricostruita da l. degl’innocenti, I Reali dell’Altissimo. Un ciclo di cantari fra oralità e scrittura, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2008, pp. 65-92 e si veda anche l. riccò, «Su le carte e fra le scene», cit., pp. 113-115.11 Il manipolo è piuttosto consistente: I cinque disperati di Niccolò Alticozzi, Co-media del vitio muliebre, Pietà d’amore e Bicchiere di Mariano Trinci, Strascino di Niccolò Campani, oltre alla Virginia di Bernardo Accolti, sempre di provenienza senese; cfr. g. Padoan, La raccolta di testi teatrali di Marin Sanudo, in Id., Momenti del Rinascimento veneto, cit., pp. 68-93.12 id., L’avventura della commedia rinascimentale, Padova, Piccin, 1996, p. 91.

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figura chiave di raccordo fra la Roma leonina, la Toscana e la bottega tipografica di Zoppino (a cui si deve la sistematica incetta dei moder-ni componimenti volgari e parateatrali)13: musico, attore, appaltatore del lotto, egli recita per le Compagnie della Calza ed è molto vicino sia al Campani che a Ruzante. A lui si deve la stampa dei Reali di Francia dell’Altissimo (che chiude in qualche modo un’epoca) ma anche l’organizzazione della seconda recita veneziana della Man-dragola nel carnevale del 1526 (che ne sta aprendo, evidentemente, un’altra), sul cui successo ragguaglia per lettera l’autore. Un venta-glio di esperienze e di competenze che suggerisce, ancora una volta, l’opportunità di non tracciare linee di separazione troppo nette, col senno di poi, in un laboratorio letterario, tipografico e performativo così magmatico, che la storiografia seriore ci indurrebbe a scandire in ordinati e successivi scomparti.

Di Strascino, dunque, che aveva recitato a Roma davanti a Fede-rico Gonzaga e poi si era esibito in varie corti settentrionali per poi raggiungere le tipografie e forse i palazzi della Serenissima, ci resta-no alcune rime amorose e carnevalesche, che parodizzano Petrarca con una certa competenza e rivelano una buona conoscenza della tradizione nenciale e del Pulci; tre componimenti drammatici veri e propri di grande fortuna editoriale (Strascino, Magrino e Coltelli-no), dove sono montati consuntivamente per la stampa (da lui o da altri poco importa) alcuni numeri del suo repertorio, e un notevole Lamento sul mal francese (di cui era personalmente affetto e che lo porterà alla morte), che invece stampa in proprio a Venezia presso lo Zoppino nel 1521 (poco prima di morire), dando forma di libro, firmato e letterariamente incorniciato a partire da un sogno di pri-mavera, al suo cavallo di battaglia di tutta la vita. Con questo libret-to, confezionato con un adeguato e interessante paratesto di qualche

13 Sull’attività della sua bottega si veda l. severi, L’editore Niccolò Zoppino e la que-stione della lingua, in n. cannata, M. a. grignani (a cura di), Scrivere il volgare fra Medioevo e Rinascimento, Pisa, Pacini, 2009, pp. 69-80.

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pretesa, egli compie un salto di qualità da performer ad autore, rive-landosi ben consapevole che i tempi stanno cambiando e che la sua eccellenza di improvvisatore non può più bastare.

La morte gli consente (un po’ come a Ruzante) di non sopravvive-re a se stesso, ma la sua avventura resta emblematica come anello di congiunzione fra l’età dei grandi dicitori (da Serafino all’Altissimo) e quella nuova di autori, per il momento saldamente ancorati alla realtà materiale della messinscena come attori ma anche direttori di scena e in molti casi imprenditori di sé, da Cherea a Ariosto. Il suo grande amico un po’ più giovane, Pietro Aretino, che lo celebra in più luoghi della propria opera con fedele nostalgia, sarà l’unico ca-pace di attraversare indenne il rischioso passaggio, mentre il Bibbie-na, un altro sodale di quegli anni romani, si limiterà a condensarne la memoria nell’hapax misterioso della Calandria14. Come Ruzante, dunque, Strascino lavora in un contesto colto, recita, scrive e diri-ge spettacoli in cui emerge un corposo realismo comico, e di cui è il protagonista nei panni ambigui del villano; come lui gioca sulla doppia identità di autore e di personaggio assumendo un fortunato nome d’arte; come lui conclude cronologicamente il proprio lavoro con un’opera monologica e autobiografica intensa e originale. La sua levatura è modesta ma non banale; i suoi compagni di recite sono meno referenziati culturalmente dei nobiles iuvenes patavini, eppure sembra che le modalità organizzative e distributive del loro lavoro siano abbastanza simili. Non è affatto il buffone bernesco in cui certa tradizione critica lo ha rimpicciolito, cucendogli addosso una leg-genda triviale; non ha niente a che fare con fra Mariano o altri per-sonaggi dell’epoca divenuti proverbiali come tipi fortunati ai confini fra teatro e pettegolezzo mondano15; non fa in tempo a incontrare

14 Cfr. F. ruFFini, Commedia e festa nel Rinascimento. La Calandria alla corte di Ur-bino, Bologna, il Mulino, 1986.15 Le pasquinate romane e svariati prologhi di commedie ricordano molti di questi personaggi, per esempio Maestro Andrea o il già ricordato Zuan Manenti, come figurine sagomate di buffoni più o meno stolti o furbi; il loro status, in questi anni di rapide transizioni culturali e sociali, è ancora molto ibrido. Soltanto Cherea, Fedra

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la commedia all’antica (o non ne ha i mezzi) e resta soprattutto un solista mitico, ma, relativamente alla sua estrazione e alla sua gene-razione, è uomo di spettacolo a 360 gradi, dotato di straordinaria sensibilità scenica e sicuro intuito di mercato.

Del suo percorso colpiscono (mutatis mutandis) alcune somiglian-ze con quello del Beolco: l’indubbia eccellenza attoriale; la relazione con un mecenate e un entourage organizzato; la costruzione di un alter ego scenico molto fortunato; il retroterra lirico-musicale; l’atti-tudine al montaggio di moduli collaudati e iterabili (che qualcuno ha definito “teatrogrammi”16); la mescidazione dei linguaggi, l’utilizzo di motivi carnevaleschi e popolari; lo sguardo acuto sulla campa-gna e sul villano carico di un’empatica “cognizione del dolore”17, la versatilità nel cucire forme specifiche per specifiche circostanze rap-presentative: per l’uno la veglia municipale, lo spettacolo di strada, la festa signorile con recita; per l’altro, qualche anno più tardi e a un altro livello sociale, il trattenimento privato, la recita goliardica, il monologo d’occasione o la commedia cortigiana.

A entrambi si attaglia quella perspicua e celebre ricostruzione di Borghini, che fa risalire l’origine della commedia all’affabulazione informe e musicale dell’istrione polifonico18 (vengono a mente le di-vagazioni sconclusionate che Ruzante infligge all’impaziente sier To-mao nell’Anconitana)19, a cui i più lungimiranti danno via via forma articolata e codificazione comunicativa.

L’esperienza di Ruzante, che certo non importa sagomare con troppo determinismo ma che approda pure a una richiesta di pri-

Inghirami, Strascino e, appunto, Ruzante, si attestano, con i loro nomi d’arte, a un livello di riconosciuta dignità artistica. 16 Cfr. l’introduzione («Theatergrams») a g. l. cluBB, Italian Drama in Shakespeare’s Time, New Haven and London, Yale University Press, 1989, pp. 1- 26.17 La «“funzione-Gadda” proiettata da Zorzi sul suo Ruzante» è mirabilmente di-scussa e approfondita da P. vescovo, Il villano in scena (usura e caritas), in Id., Il villano in scena, cit., pp. 25-36.18 Cfr. ibid., p. 62 e P. ventrone, Gli araldi della commedia. Teatro a Firenze nel Rinascimento, Pisa, Pacini Editore, 1993, pp. 103-108.19 Nella terza scena dell’atto quarto.

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vilegio di stampa (come accade a Strascino o a Cherea), conferma l’omogeneità e la similarità dei processi attraverso i quali si stanno formando in quest’epoca le nuove esperienze del teatro in diversi centri della penisola, spesso in forme occasionali, spontanee e sog-gettive, e solo in pochi casi indirizzate e organizzate da una dirigenza di qualche genere. Così si spiegano, del resto, certi misteriosi exploit drammaturgici, apparentemente senza radici e senza contesto (la già ricordata Calandria, per eccellenza, ma per esempio anche la Ramnu-sia del veronese Giovanni Aurelio Schioppi, le anonime Veniexiana e Ardelia, o la Sophia di Giovangiacomo Brusonio)20, che ci fanno sospettare che scrivere e recitare una commedia (o qualcosa che le assomigli) equivalga ancora a compiere un’esperienza di socialità e di condivisione in cui si giocano competenze e creatività personali in stretta relazione con un’udienza compartecipe. Talvolta, e per diver-se sollecitazioni esterne, queste competenze tendono a strutturarsi e organizzarsi, recidendo l’originario cordone ombelicale con una precisa cerchia di spettatori, come è il caso appunto – fatte sempre le debite proporzioni – di Strascino e di Ruzante.

Edizioni recenti ce lo segnalano (nell’indice dei nomi) con qual-che occorrenza; nella Moschetta Luca d’Onghia ne ha rintracciate diverse: il richiamo al “naturale” come impulso sessuale del prolo-go (e anche in Betia, V, 44)21 che si ritrova già in un suo capitolo amoroso («Tu puoi pensare ch’i’ ho buon naturale/ e tu de’ esser di buona natura»)22, insieme alla metafora erotica, forse proverbiale, del “metti e leva” («Facciamo a un altro giuoco, che entra e esce»)23 che compare in I, 4 come «A’ fie’ così an’ mi, che quî dea romagnir

20 Si rimanda a P. vescovo, Ardelia, Ramnusia, Veniexiana. Appunti su una linea della commedia cinquecentesca, in «Lettere Italiane», XLVII (1995), pp. 436-452.21 «E in collusion, sto naturale è quello che ne fa ficare in tal buso ch’a’ no se ghe fichessan mè, e sì ne fa fare an’ quello ch’a’ no fassan mè»; e in Betia, V, 44: «E questo intentando e digando / del naturale de nu / incontra la natura, o femene, de vu» (Cfr. ruzante, Moschetta, edizione critica e commento a cura di L. D’Onghia, Venezia, Marsilio, 2010, p. 90).22 M. Pieri, Lo Strascino da Siena, cit., pp. 278-279. 23 Ibid., p. 279 e ruzante, Moschetta, cit., p. 131.

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de fuora a’ i mettì entro»; gli occhi «strafulgenti» (già «stralucenti» nella Nencia) dell’amata, qui «lusinti co’ i spiegi»24; l’incompatibilità “teologica” fra Amore e Libertà (che ancora ritorna in Betia, I, 53) e che riecheggia un passo del Lamento: «però mi sdegno forte fra me stesso / quando io sento un che d’amor si lamenta, / perché libero arbitrio gli è concesso / d’evitar quella cosa che ‘l tormenta»25. Ma si può citare la descrizione parodistica della bellezza femminile a par-tire dal basso: «Comenzanto de soto in su, e da i piè, pota, mo che biè piazon, larghi e frimi!» nella Prima Oratione, forse inaugurata in un altro capitolo di Strascino: «La ne veniva a la ritonda alzata, / la mi mostrava que’ due bei pedoni»26. A lui fa capo, a quanto sembra, anche la prima occorrenza della formula resa immortale dal Don Giovanni di Mozart/Da Ponte: «Non so che far, vorrei e non vorrei»27, riecheggiata per esempio in Piovana, II, 4: «I famigi de sete massarì no farà a un patron inamorò; che ghe ven tanti vuò e non vuò in lo cao a una bota, che ‘l n’è tante mosche atorno a una casara da fromagio».

Oltre a Strascino, che è il più famoso dei pre-rozzi senesi, potreb-bero essere arrivati fra le mani di Beolco, per esempio il suo compa-gno e sodale Mescolino (il primissimo di costoro ad essere stampato fin dal 1511): dalla sua Egloga rusticale della Partigione la volubilità femminile “qual foglia al vento” («Ma s’tu vorra’ cavar tutte suo vo-glie, i’ ti so dir che tu v’arà faccenda, ché l’ànno più rivolte che le fo-glie!») trapassa in Moschetta, I, 1: «Oh, fantasia de femene! […] L’è

24 Ibid., p. 115 e M. Pieri, Lo Strascino da Siena, cit., p. 272. 25 «Poh. Oh, mo le ha pur la gran potientia ste femene, che le tira gi uomeni don’ le vuò elle al so’ despetto. Dise po ch’a’ gh’è libro arbitro!» (ruzante, Moschetta, cit., p. 101); o ancora: «in questo [l’Amore] el gh’è tolta / la nostra lubertè» (Betia, I, 53-54; cfr. ruzante, Teatro, a cura di L. Zorzi, Torino, Einaudi, 1967, p. 159).26 Ibid., p. 1190 e Capitolo delle bellezze della dama, in M. Pieri, Lo Strascino da Sie-na, cit., p. 269. Sul rovesciamento dell’itinerario descrittivo consueto, che si produ-ce in questo componimento, partendo dal basso dei piedi invece che dal volto, cfr. s. longhi, Il capitolo burlesco nel Cinquecento, Padova, Antenore, 1983, p. 122. 27 In Coltellino, III, 231 (M. Pieri, Lo Strascino da Siena, cit., p. 158).

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pruopio com’è na fuogia che n’ha stabilitè!»28, insieme all’immagine del crivello: «No di’ de villani, ch’a’ se sbuseron la pelle pì ca no fo mè criviegi» e nel Dialogo facetissimo, 34: «El n’è tanti busi int’un crivello da mégio, con i m’ha fato in la me vita», forse risalente al suo Targone: «i’ ti farei più buchi ch’un crivello»29. Il gioco di parole su «Rolando da i stari» della braveria di Ruzante (sempre in Moschetta, I, 2), che equivoca fra i quarti di nobiltà e gli stai come misura di peso agricola, potrebbe invece risalire alla Pippa di Pierantonio Stric-ca Legacci30. Al suo Solfinello fa pensare il confronto della Pastoral fra il villano e il dottore, con la gag dell’orina, mentre la perdita del cuore lamentata da Zilio in Betia, II, 249, ricorda l’ anonima Egloga di Mecoccio che ha perso il cuore e lo va cercando31; e c’è anche una Commedia di Pidinzuolo, in cui i contadini si riuniscono per festeg-giare l’elezione a cardinale di Giovanni Piccolomini, che potrebbe richiamare qualche spunto delle Orationi32. Compaiono in Ruzante specifici dettagli della vita rusticale, non sempre e non solo ascrivibili al grande retroterra nenciale e rusticano: per esempio in Betia, III, 396, la preoccupazione di proteggere i pulcini dal falco, che ritrovia-mo in una canzone del Campani33.

La caccia potrebbe certo continuare, rilevando tracce comuni fra il corpus senese e quello ruzantesco a proposito della fisiologia comi-

28 Cfr. ruzante, Moschetta, cit., p. 113 e Egloga rusticale della partigione, 63, in B. Persiani (a cura di), Commedie rusticali senesi del Cinquecento, con un saggio introduttivo di P. Trifone, Siena, Betti, 2004, p. 64.29 Egloga rusticale del targone, II, 2, 557, ibid., p. 104; Moschetta, I, 64 (cfr. ru-zante, Moschetta, cit., p. 133) e Dialogo facetissimo, III, 34 (in ruzante, Teatro, cit., p.701). 30 ruzante, Moschetta, cit., p 126. 31 È una rusticale anonima del 1536, a cui si potrebbe aggiungere la Pasquina, del 1533, in cui l’innamorato si mette a letto sentendosi privo di cuore e budella. È la variante “bassa” del tema antico e aulico del cuore mangiato o perduto, ricorrente nella lirica amorosa, nella Vita Nova e in Boccaccio.32 La Commedia di Pidinzuolo, anonima, è stata edita recentemente da Bianca Per-siani, in Commedie rusticali senesi, cit., da una stampa del 1523, ma risale probabil-mente al 1517. 33 Canzone di Strascino, in M. Pieri, Lo Strascino da Siena, cit., p. 292.

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ca del mal d’amore, degli spunti metateatrali, dei doppi sensi eroti-ci, dei virtuosismi scatologici, delle divagazioni feroci sul tema della fame; del labile e terrificante confine fra l’essere vivi e morti, del sui-cidio (per esempio in Moschetta, III, 6, o in Fiorina, I, 1, o nel Dialogo facetissimo, 78-84); si potrebbero notare aggettivi caratteristici (per esempio vari bravoso), l’insistito riferimento alla dea Diana rivestita di panni vicini al folklore rurale34; e una peculiare, comune attenzione alle stratificazioni sociali interne al mondo contadino (con differen-ziazioni di censo e di linguaggio fra piccoli proprietari e bifolchi mi-serabili); si potrebbe sottolineare il comune utilizzo drammaturgico di zuffe e bastonature, le scene in notturna, le danze conclusive che segnano il trapasso dalla recita alla festa, gli spunti sull’inferno e l’ol-tretomba e persino il sogno come generatore del testo.

Ma avevamo premesso di non giudicare dirimente questo tipo di indagini: troppo poco sappiamo di come i testi entrassero in cir-colazione in un’epoca ancora dominata da pratiche di oralità di cui ci risulta difficile valutare l’impatto e le implicazioni, e da una dif-fusione manoscritta (per esempio nel caso di Strascino) fittissima e poco garantita35, senza contare il bacino culturale di partenza (una rilevazione sistematica di locuzioni proverbiali, di imprecazioni, di musiche e di giochi citati in questi testi e davvero molto simili lo con-fermerebbe) da indagare, semmai, con gli strumenti dell’etnografia.

Ma esistono anche corpose e intriganti tangenze drammaturgi-che, in particolare col Coltellino dello stesso Campani, dove il villano Berna irrompe in scena infoiato e disperato (dopo che il prologo ha chiesto all’uditorio il permesso di farlo entrare per divertirsi un po’ alle sue spalle, piuttosto che scacciarlo a bastonate) ricordando il ce-

34 Su questi sincretismi cfr. M. canova, Lettura antropologica della Lettera all’Alva-rotto di Ruzante, in «Revue des Etudes Italiennes», n.s., 1999, n. 1-2, p. 86.35 Ricordiamo, ad esempio, che il Lamento di Strascino ha una larghissima circola-zione manoscritta (l’autore dichiara di non farcela a fornire le molte copie che gli si richiedono) e che il duca di Mantova sollecita con insistenza al suo amanuense copia del Coltellino nello stesso 1520 in cui ne escono ben due edizioni a stampa (cfr. M. Pieri, Lo Strascino da Siena, cit., pp. 60 e 191.

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leberrimo ingresso di Ruzante nella Pastoral, e dove tutta la tastiera dell’alienazione amorosa e corporea è svolta con notevole finezza. Incerto se suicidarsi o meno per amore, come fanno i pastori ele-ganti, Berna si congeda comicamente e teneramente dai suoi utensili e dai suoi animali, si interroga sulla morte («chi s’ammazza da sé dunque è valente?»; «morto ch’un è, sente più altro duolo?»; «prima ch’a questo strano punto io giunga, / vorre’ saper che cosa è questa morte»), e poi teme di essere morto davvero, con accenti che ricor-dano l’irresistibile confronto in materia fra Tamìa e Nale nell’atto quinto della Betia. Altrettanto stralunato e naif è il villano Scorteccia del Magrino, che corteggia importuno una ragazza abbandonata da un innamorato di alto lignaggio e funziona da spalla epicizzante per dinamizzare, con la sua brutale sensualità e i suoi commenti dissacra-tori, i languori troppo lineari dell’intreccio amoroso.

Costoro alternano con perizia le due maschere del villano “let-terario” di ascendenza nenciale e del performer solista dal ghigno buffonesco in due componimenti destinati a un pubblico romano di aristocratici disposto soltanto a ridere dell’alterità esotica e folklorica del contadino, mentre i protagonisti dello Strascino, egloga rappre-sentativa di evidente destinazione senese (cioè radicata in un conte-sto dove i rapporti fra palco e platea sono strettissimi e le allusioni a una realtà condivisa sono immediate), alle prese con i soprusi del padrone e le vigliacche connivenze del giudice sono, al contrario, molto precise: indebitati e affamati i villani offrono quattro inte-ressanti varianti umane e anagrafiche di un archetipo ancora molto fluido, contrapposto con durezza all’universo padronale ipocrita e feroce. Essi, dopo aver cercato invano di far valere le proprie ra-gioni (ricordando gli interessi esosi, le donne violate, la carestia e la miseria che li affligge) ricorreranno – una volta tanto vittoriosi nella parentesi carnevalesca – alle maniere forti e riusciranno a intimidire il giudice e a sfuggire agli sbirri in una finale sarabanda danzata alla martorella.

Nel suo contesto originario questo teatro possiede una dirom-pente carica di realtà, che non ha niente a che vedere, beninteso, con

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suggestioni sociali o rivendicazioni ideologiche, ma è semplicemen-te contiguo alla vita reale, portatore di vitali tensioni e suggestioni. Nel contesto mezzadrile senese i piccoli proprietari prevalgono sul latifondo nobiliare e il tasso di rissosità e di polemica fra padroni e contadini (alcuni di questi autori sono a loro volta piccoli proprie-tari) registra con virulenza il variare tempestoso delle crisi, delle ca-restie, delle invasioni militari (i confronti comicamente tragici fra la vigliaccheria villanesca e l’orrore delle violenze spagnole, con vari casi di contadini disperati che si travestono da soldati-predoni, è un altro grande tema che accomuna questi due mondi)36. Più tardi, fa-cendosi i tempi sempre più grami per tutti, il teatro dei Rozzi virerà in direzione spietatamente anti-campagnola, ma nei componimenti che stiamo ora esaminando emerge un ventaglio di posizioni diverse da parte dei singoli autori, e di Strascino in particolare, che lascia spazio, come si è detto, a empatie toccanti e alla registrazione, quasi equidistante, del punto di vista degli uni e degli altri.

Con i senesi dunque il teatro di Ruzante condivide temi e spunti scenici a vario livello, ma soprattutto (anche qui non si sa se per deri-vazione diretta o consanguineità tipologica) un peculiare dinamismo scenico, l’istintiva attitudine a costruire spazi plastici, logicamente contigui all’azione e alle battute degli attori. Nonostante le approssi-mazioni e le incongruenze degli intrecci (solo sommariamente disci-plinati sul piano spazio-temporale da un aurorale impulso ordinato-re) e lo schematismo dei personaggi, i testi toscani hanno spesso una freschezza e una vivacità del tutto alieni dalla statica verbosità che allinea, in molte commedie alla latina, azioni e discorsi sullo sfondo di piatti fondali. Facciamo solo l’esempio dell’utilizzo scenico dell’ interno/esterno, cioè di quelle sequenze in cui due personaggi si re-lazionano al di qua e al di là di una porta chiusa, o si parlano dalla strada, visibile agli spettatori, stando affacciati a una finestra. Ruzan-

36 Cfr. il mio Il soldato spagnolo in commedia nel ’500: dalla cronaca storica alla stiliz-zazione teatrale, in M. g. ProFeti e d. Pini (a cura di), Leyendas negras e leggende auree, Firenze, Alinea, 2011, pp. 71-86.

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te, come sappiamo, ne fa un uso genialmente drammaturgico (basti pensare al coito in presa diretta della Moschetta, con Ruzante che assiste alla propria onta dietro la porta chiusa) in molti luoghi della sua opera, in ciò raccordandosi a una tradizione scenica remota dalle eredità plautine e terenziane37.

Qui infatti i personaggi sulla pubblica via si limitano di solito, con poche eccezioni, ad alludere verbalmente a entrate e uscite di altri personaggi dalle quinte, o da edifici a cui allude la scenografia; la praticabilità dei teleri dipinti è ancora piuttosto approssimativa e i modelli latini non suggeriscono troppe complicazioni, a cui semmai offrono rimedio le trovate ingegnose dei coraghi, per esempio facen-do dei buchi nei teleri per consentire agli attori fuori scena di udire le battute pronunciate in palco, onde entrare al momento giusto38. Nel vasto arcipelago drammaturgico che non ha a che fare con la comme-dia questi problemi non si pongono: vige una mimesi idealizzatrice, come la chiamava Luigi Russo, che affida tutto all’azione: l’andirivie-ni fra un dentro e un fuori al cospetto degli spettatori, le polemiche per essere fatti entrare, i colpi di scena e gli escamotage sorprendenti si sprecano; talvolta non è agevole supporne la realizzazione (per esempio in un testo complicatissimo e quasi astratto come le Nozze di Psiche e Cupidine di Galeotto del Carretto), ma in genere bastano delle garitte o degli ingegni praticabili da cui far interagire gli attori; la struttura del contrasto, dialogico o musicale, tende a dialettizzarsi in termini materialmente spaziali, diventa persino topos iconografico di moltissime incisioni a stampa.

Lo sketch dello scambio alla finestra è ereditato nella Calandria, con il congedo di Calandro da Fulvia (II, 10) e con lo scambio pe-santemente erotico (in III, 10) fra i servi Fessenio, che bussa alla

37 Cfr. P. vescovo, Lo spazio e il tempo nel teatro di Ruzante, in Il villano in scena, cit., pp. 53-74. 38 Questo dispositivo è minuziosamente descritto in una lettera di Ippolito Calandro del 1532, riportata in a. luzio, r. renier, La coltura e le relazioni letterarie d’Isabel-la d’Este Gonzaga, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», XXXIX (1902), p. 220.

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porta di casa, e Samia che dall’interno ritarda ad aprire impegnata in altro, ma è solo un cammeo farsesco estraneo all’intreccio39 (dove la dialettica dentro/fuori è invece sapientemente costruita per via di azioni rappresentate e di azioni lasciate immaginare agli spettatori)40, e in chiave altrettanto seriale e poco significativa lo ritroviamo in vari luoghi della prima Cortegiana41; Ariosto – che molto impara da Ruzante in questo ambito42 – si limita a inserire un concitato con-ciliabolo davanti a una porta chiusa fra Lico e Filogono e il cuoco Dalio nei Suppositi (IV, 4)43. Le commedie intronatiche, eredi natu-rali della performatività dei pre-Rozzi, ne sfruttano invece con sa-pienza tutte le risorse: basti pensare all’irresistibile scambio fra la serva Pasquella e il soldato spagnolo Giglio, derubato con destrezza e lasciato sessualmente a bocca asciutta quando meno se l’aspettava (IV, 6) negli Ingannati, commedia letteraria e aristocratica composta collettivamente, che imita Plauto con eccentrica libertà, traslocando in ambito culto molti prestiti di sketch, farse e contrasti praticati sui palcoscenici borghesi e popolari. Si confermano insomma, anche da questo punto di vista, circolarità e continuità drammaturgiche molto significative.

Vorrei concludere questa comparazione un po’ tendenziosa con i due monologhi, che (almeno per quanto ci attestano i documenti su-perstiti) concludono ugualmente l’itinerario di Strascino e di Ruzan-te: la commovente bellezza della Lettera all’Alvarotto, che compen-dia memorie pubbliche e private, letterarie e esistenziali con tanta calda sprezzatura, è beninteso remota dal Lamento di quel tribulato

39 La soluzione materiale del plot è affidata alla dichiarata esistenza di “una finestra bassa” nel retro della camera terrena invisibile agli spettatori, da cui si effettueranno gli scambi necessari in V, 4.40 Cfr. P. vescovo, Il villano in scena, cit., p 60.41 E precisamente in: I, 6; IV, 11 e 21; V, 4. 42 Cfr. s. terManini, Rapporti teatrali tra Ariosto e Ruzante, in F. crisPo (a cura di), Atti del IV Convegno Internazionale di Studi sul Ruzante (Padova 13-20 maggio 1995), Padova, Papergraf, 1997, pp. 75-93. 43 Due tarde sequenze del genere ritroviamo nella giunta di Virginio alla Scolastica (IV, 11).

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di Strascino Campana senese sopra el male incognito, el quale tratta de la pazienzia e impazienza in ottava rima, long seller cinquecente-sco già recitato come diceria canterina, poi adattato per la stampa in chiave visionaria e memoriale: l’autore, addormentatosi in un bel giardino in un mattino di primavera, è visitato dall’incubo di una ricaduta nella malattia, da cui è guarito (o meglio crede di esserlo). Inorridito, reagisce allo shock mettendosi, già in sogno, a compor-re dei versi, che trascrive al suo risveglio. Il testo dunque nasce da una crisi mortale superata e vinta attraverso la forza guaritrice del-la poesia ed è offerto dal buffone taumaturgo (reduce dall’inferno, come tanti suoi colleghi, ma dall’inferno ben reale della sofferenza fisica) alla vasta platea dei sifilitici, come coraggiosa testimonianza di un’esperienza privata devastante attraversata e vinta. Le ottave ripercorrono il pauroso corpo a corpo con il dolore, la vergogna, la paura, l’isolamento sociale, la blasfemia e la ribellione: il canterino ci mette tutto se stesso e riesce a dire la propria verità, fra le maglie della convenzione più vieta, «attraverso una grande varietà di regi-stri: dalla confessione sommessa e privata alla trattazione medica, dal pacato ragionare didascalico e compunto, all’ invettiva disperata, alla fantasia macabra e surreale sul dolore universale di una moltitudine infinita di malati, giustiziati, schiavi accostati in un grande affresco di Pietà laica»44. Se Ruzante distilla degli universali etici e culturali molto alti, Strascino si limita a esibire senza diaframmi la realtà bru-tale di un vissuto privatissimo, seppure condiviso da molti, ma per entrambi il teatro aderisce profondamente alla vita ed è in grado di parlare la lingua del desiderio, del dolore e del sogno45.

44 M. Pieri, Lo Strascino da Siena, cit., p. 189.45 Cfr. P. vescovo, Racconto, teatro e sogno. La Lettera di Ruzante a Marco Alvarot-to, in Il villano in scena, cit., pp. 105-120.