Università degli Studi di Palermo Facoltà di Scienze Politiche _______ _Corso di laurea specialistica in Studi Europei Corso di Storia Contemporanea Prof.Giuseppe Carlo Marino Una breve storia dei partiti politici francesiDi Nicola Palilla A.A.2005 /2006
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Penso che sia il caso di introdurre questo elaborato fornendo le mie referenze bibliografiche. I
testi su cui mi sono affaticato (tranquilli, stavo scherzando!) sono Storia dei partiti politici
europei di Giorgio Galli e La Francia dal 1870 ai giorni nostri di Sergio Romano, Arnaldo
Mondadori Editore, 1981. Ho consultato, inoltre, una serie di documenti facilmente rinvenibili
in rete nei siti internet: www.wikipedia.it; www.cronologia.it ; www.historia.it; e nei siti
ufficiali del Parti Socialiste, del Parti Comuniste Français e del Front National . Proprio
ispirandomi al lavoro di Giorgio Galli ho organizzato il mio lavoro presentando le varie
tradizioni partitiche francesi secondo le loro famiglie di appartenenza e ne ho seguito, grosso
modo, anche l’ordine di presentazione. Grosso modo, perché ho ritenuto necessario scrivere
un paragrafo a parte per il gollismo e non trattare quest’ultimo all’interno del filone liberale,
perché ci sembra che l’eredità politica del Generale abbia dei tratti di originalità che non possono non essere trattati a parte. Tutto sommato, penso di non aver fatto un buon lavoro di
analisi storica e che avrei dovuto pensarci prima a fare come scopo di questa tesina
l’esposizione di cui alle Conclusioni. Mi auguro, allora, che chi leggerà si porrà in tale ottica
(ma per fare ciò dovrebbe prima leggere le Conclusioni, quindi, partire dalla fine…va be’, fate
La tradizione liberale ha avuto in Francia, come nel resto d’Europa, il suo periodo d’oro tra la
seconda metà dell’Ottocento e la fine della prima guerra mondiale: padrona del parlamento e
delle istituzioni repubblicane fin dalla loro fondazione, la tradizione liberale entrò in crisi con
l’avvento dei partiti di massa e svanì, come formazione partitica, con l’avvento del gollismo.
La tradizione liberale non riuscì mai ad organizzarsi in un solido partito e, diviso tra i diversi
interessi territoriali ed economici che rappresentava e sosteneva, fu più propriamente un vasto
ed eterogeneo schieramento parlamentare di notabili borghesi. All’interno di questo, però,
esistevano due linee di comportamento: quello moderato e quello radicale. Il primo può essere
ricondotto al moderatismo di Adolphe Thiers, il secondo a Léon Gambetta. Seppur frequente,
l’identificazione della corrente moderata e di quella radicale con, rispettivamente, le
esperienze girondina e giacobina non è corretta: non è possibile, infatti, stabilire alcun legame
diretto tra gironda e Thiers da un lato e tra giacobini e Gambetta dall’altro. Perché?
Essenzialmente perché le due esperienze si incrociarono e combinarono in misura tale che, nel
1871, sarebbe stato impossibile individuare dei legami certi di filiazione tra i clubs girondini e
giacobini con i principali partiti della terza repubblica. A Thiers si attribuisce il motto: la
Repubblica sarà conservatrice o non sarà, con il quale, volendo assicurarsi il sostegno delle
classi “forti” che avevano riposato sulla stabilità del Secondo Impero, intese seppellire il mito
della repubblica rivoluzionaria e piantare su basi “razionali” il nuovo stato. Definire la
repubblica “conservatrice” voleva dire, allora, dare vita ad un regime che conservasse le
conquiste della Rivoluzione e sbarrasse la strada a chiunque pretendesse il trono o fosse
animato dall’intenzione di stabilire un governo autoritario. Fu solo con l’inizio del XX°
secolo e con la necessità di fronteggiare il pericolo del socialismo che i liberali presero ad
organizzarsi formalmente. Nel 1901 furono fondati Alléance Démocratique, per iniziativa di
Adolphe Carnet, e Union Républicaine Démocratique, per iniziativa di Louis Marin, entrambi
espressione del liberalismo moderato: mentre il primo, però, era più forte nelle periferie e
godeva del sostegno dei ceti medi, il secondo era più forte in città e promuoveva gli interessi
della borghesia imprenditoriale e degli industriali. I due partiti ebbero una notevole
importanza nella storia politica francese compresa tra l’inizio del secolo e la seconda guerra
mondiale ed entrambi contribuirono a dare al paese importanti leader, tra i quali Raymond
Poincaré e Paul Reynaud. Poincaré, che fu anche presidente della repubblica dal 1913 al 1920,
fu uno dei più incisivi animatori del nazionalismo francese antitedesco: da capo del governo,
tra il gennaio 1922 e d il marzo 1924, decise l’occupazione della Rhur per forzare la
Germania al pagamento delle riparazioni di guerra. Reynaud, invece, sebbene sia stato moltoapprezzato come ministro delle finanze in vari governi di centrodestra, è tristemente ricordato
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come l’ultimo capo di governo della III° repubblica prima di Pétain e della tragica disfatta
militare francese dell’estate 1940. Tuttavia, il più importante tra i partiti della terza repubblica
fu il partito radicale. Erede del liberalismo progressista di Gambetta, si poneva come scopo il
radicamento definitivo della repubblica e delle pratiche parlamentari e, infine, la sconfitta dei
nemici storici della Rivoluzione: la Chiesa e le tendenze autoritarie di monarchici e militari.
Contro la Chiesa i governi radicali condussero delle vere e proprie crociate per
l’emancipazione delle istituzioni e dell’istruzione dalla religione e dalla gerarchia
ecclesiastica. L’infinita battaglia contro la Chiesa fu motivata dal fatto che essa, più che
simpatizzare per, sosteneva apertamente la reazione e la restaurazione della monarchia, così
come aveva fedelmente sostenuto il II° Impero fino a poco prima. La politica accesamente
anticlericale del partito radicale sembra essere stata ispirata dalla Massoneria, la quale
avrebbe formato molti dei suoi quadri e dei suoi leaders e fornitogli un deciso orientamento
politico attraverso il condizionamento di congressi e direzioni. Giorgio Galli scrive come così
facendo la Massoneria “ gli abbia conferito con questi metodi una efficacia ed una potenza
che esso non ha mai più ritrovato in seguito”. Il partito fu per tutta la sua storia scarsamente
strutturato e decentrato, imperniato sui suoi gruppi parlamentari e diviso a sua volta in
sinistra radicale e sinistra radicalsocialista, etichette che trovarono l’unità solo nel 1911
sotto la denominazione di gruppo del partito repubblicano radicale e radicalsocialista. Con
l’ascesa dei socialisti e la comparsa dei loro progressivamente sempre più nutriti gruppi
parlamentari, i radicali decisero di stringere con essi alleanze elettorali e di governo – senza
che ai socialisti vi fosse permesso farne parte – per fronteggiare la maggiore organizzazione
dei partiti del liberalismo moderato che, soprattutto dopo la guerra, con la formazione del
Bloc National , assunsero, oltre che il governo, posizioni decisamente nazionaliste. Proprio la
vittoria elettorale del Blocco nel 1919 indusse i radicali a prendere una decisione: aderire al
centrodestra di Poincaré, cercando di spostare verso il centro l’asse dei suoi governi; ovvero,
stare al centro nel tentativo di continuare a fare da partito pivot ed evitare di finire schiacciati
a sinistra dalla SFIO, il partito socialista? Tornato al governo con l’alleanza della sinistra
denominata Front Populaire, il partito radicale vide fortemente diminuita la sua importanza a
causa del partito socialista che, ottenuto nelle elezioni del ’36 la maggioranza relativa alla
Camera, fu legittimato a prendere il governo e a relegare al semplice appoggio esterno i
radicali (in precedenza i radicali furono al governo sostenuti anche dai voti socialisti). Dopo il
fallimento del governo del Fronte, i radicali tornarono a giocare il loro ruolo preferito, quello
di pivot , entrando ed uscendo da svariate formazioni ministeriali, ma trovandosi sempre più indecadenza e senza spazi in parlamento, stretto a sinistra dalla SFIO e dai comunisti e al centro
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dalla maggiore credibilità dello schieramento moderato. Dopo la seconda guerra mondiale il
partito radicale si ritrovò profondamente ridimensionato dai tre grandi partiti di massa che
avevano animato la Resistenza: partito di notabili a base quasi esclusivamente parlamentare,
sostenuto solo da giornalisti, scrittori, intellettuali e da una ramificata rete clientelare, il
partito radicale divenne, con l’avvento della quarta repubblica e del sistema elettorale
proporzionale, una forza marginale senza una sua certa collocazione. A nulla gli valse
nemmeno l’estremo tentativo del suo giovane leader, Pierre Mendés-France – che fu anche a
capo del governo per pochi mesi nel 1954 – di rianimarlo con un’importante riforma statutaria
mirante a renderlo un moderno partito di massa.
2.
Durante il suo periodo migliore il partito radicale fece leva su quelle che Gambetta chiamava
“nouvelles couches sociales”, cioè, quelle fasce della popolazione che raggruppava gli
occupati nei settori commerciale e impiegatizio e i contadini proprietari. Queste, secondo
Gambetta, erano le vere classi dirigenti: “coloro che pensano, lavorano, accumulano
ricchezza e sanno farne un uso giudizioso, liberale e utile al paese” (Sergio Romano).
Volendo difendere queste “nouvelles couches”, il partito radicale agì per la difesa delle
conquiste della Rivoluzione e per l’emancipazione della Repubblica dalla Chiesa,
difendevano la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino, la proprietà
privata, l’uguaglianza di fronte alla legge, il principio di legalità, la codificazione del diritto,
la separazione del potere, il parlamento. La prima grande opera dei governi radicali fu
senz’altro la legge sulla gratuità dell’insegnamento elementare, il cui grande ispiratore fu
Jules Férry. La legge prevedeva l’insegnamento elementare obbligatorio, laico e gratuito per
fare dei francesi dei buoni cittadini e dei valorosi soldati e togliere alla Chiesa il monopolio
dell’istruzione, dal quale scaturivano solo sudditi papisti e demotivati soldati: il partito
radicale non fu costituito da atei e agnostici, va detto, ed il suo spirito anticlericale fu più
dettato da necessità politiche che da convincimenti religiosi. La Chiesa, infatti, si confondeva
con la reazione, con le classi dominanti ed il parassitismo. Lo scandalo noto come “ affaire
Dreyfus” fu sicuramente la manifestazione più limpida di come gli ambienti clericali, insieme
a quelli militari e quelli di una certa parte della cultura, complottassero contro la repubblica e
contro la politica radicale. Poiché lo scandalo è noto, sottolineerò solo che l’importanza della
questione è dovuta al fatto che lo scontro tra “dreyfusardi” e “antidreyfusardi” in realtà celava
lo scontro tra i sostenitori della legalità repubblicana e quelli dell’autoritarismo. La vicenda,
che si concluse con il reintegro dell’ufficiale Dreyfus nell’esercito e sancì la conclusiva cesuratra la Francia e i nemici della Repubblica, vide distinguersi tra i politici radicali George
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Clemenceau che, come direttore del giornale “ L’Aurore”, pubblicò la celebre lettera aperta di
Émile Zola intitolata J’accuse e condusse una grande battaglia giornalistica per denunciare le
macchinazioni dell’esercito contro le istituzioni. Proprio l’atteggiamento della Chiesa,
sebbene il Papa avesse chiesto ai fedeli di avvicinarsi alla repubblica per scongiurare il ben
più grave nemico costituito dal socialismo, portarono alle leggi del 1901 e del 1904 sulle
associazioni religiose e sulla separazione tra Stato e Chiesa. Con la prima di fatto lo Stato
estese il suo controllo sulla società per creare un rapporto organico fra il paese reale e la
repubblica, attraverso la soppressione delle congregazioni che sostenevano la colpevolezza di
Dreyfus e la sottoposizione di tutte le altre alla legge dello Stato. Il capo del governo in carica
nel 1903 e impegnato nell’implementazione di detta legge (fatta, però approvare dal governo
Waldéck-Rousseau) Émile Combes dichiarò (citazione da Sergio Romano) : “ In ciascuna di
queste associazioni dietro l’apparente varietà degli statuti circolano le stesse idee, si agita la
stessa volontà, fermentano le stesse speranze contro quelle rivoluzionarie. Moralmente esse
sono tutte calcate sullo stesso modello. Hanno tutte la stessa ragion d’essere, le stesse
aspirazioni, lo stesso destino”, volendo con ciò affermare che la Reazione non si era ancora
arresa del tutto e che viveva all’interno della Chiesa: tra il 18 marzo ed il 26 giugno più di 130
congregazioni furono così soppresse. Con la legge del 1904, invece, fu denunciato il
Concordato, quello firmato nel 1801 da Napoleone!, con la Santa Sede e sancita la
separazione dell’ordinamento dello Stato da quello della Chiesa.
3.
In queste pagine si è brevemente mostrato in quali partiti e in che modo la tradizione liberale
francese si è organizzata e ha vissuto durante la III° repubblica e si è, altresì, accennato al
tentativo di riforma del partito radicale di Mendés-France. Una domanda nasce spontanea: che
fine ha fatto il partito radicale? Che fine hanno fatto i partiti del liberalismo moderato? In
generale, che fine ha fatto la tradizione politica liberale in Francia? Il sistema di governo della
V°repubblica, nonché la legge elettorale uninominale a doppio turno voluta da De Gaulle,
hanno escluso la possibilità di una loro ricostituzione. I membri dei secondi, affluiti dopo la
guerra in gran parte nel MRP – il partito cattolico costituito durante la Resistenza – hanno
dovuto infine collocarsi nel vasto schieramento gollista; tra il 1978 ed il 2002, l’ala più
avanzata del movimento neogollista è stata rappresentata da Valéry Giscard D’Éstaing e dal
suo partito UDF, Union pour la démocratie française. Il primo, invece, ha aderito al
programma unitario delle sinistre proposto da François Mittérand negli anni Settanta. Pur non
esistendo oggi un partito denominato “radicale” ovvero “liberale”, la tradizione liberalecontinua, quindi, ad esistere e a vivere, fatta eccezione per quelle formazioni davvero minime
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e legate a qualche particolare personalità politica, all’interno del Parti Socialiste, a sinistra, e
delle formazioni che si rifanno all’esperienza politica del generale De Gaulle, a destra.
Il socialismo: da Jules Guesdes alla “caduta” di Jospin
1.
La Francia può vantare una lunga e ricca tradizione socialista e tuttavia il socialismo non vi ha
trionfato. Sicuramente a remare contro la rivoluzione socialista in Francia è stato, all’interno
di un più vasto sistema di cause, la mancanza di unità all’interno del movimento, la diversa
estrazione sociale dei suoi animatori, la non convergenza di obiettivi e di strategie. Insomma,
la grande varietà di utopie socialiste e le diverse idee su come pervenire a quelle
rappresentazioni, alla fine, hanno provocato solo rivalità. Anche se la storia dei partiti politici
francesi non è direttamente riconducibile alla Rivoluzione – che è patrimonio di tutti e che ha
partorito valori e principi condivisi – è facilmente desumibile il motivo per cui i socialisti si
siano visti e continuino a vedersi quali continuatori di quell’evento, specie nella sua fase
giacobina, e perché finiscano per ritenere, addirittura, la rivoluzione d’Ottobre come
l’obbligato epilogo della vicenda iniziata nel 1789. Karl Marx è giunto a Parigi relativamente
tardi: quando alla caduta del Secondo Impero si tentò l’esperimento della Comune, i
sostenitori del marxismo furono in netta minoranza, soverchiati dai seguaci di Babeuf,
Proudhon e Blanqui. Il socialismo francese si sente fortemente legato alla Rivoluzione e
denota, in tal modo, connotati decisamente nazionali e patriottici: la Comune parigina, per
esempio, non fu realizzata secondo la strategia della Prima Internazionale, bensì nel segno
della continuità con il giacobinismo e la rivoluzione del 1848 (che sotto l’ispirazione di Louis
Blanc aveva partorito il sistema degli atéliers nationaux). La lentezza ed il ritardo con cui in
Francia si costituì un forte partito socialista, nonostante la precoce affermazione della
democrazia, si spiega attraverso la difficoltà di mettere assieme tanti miti, tante suggestioni,
tante strategie, tanti pensatori e, infine, la rivoluzione giacobina con la repubblica
conservatrice. I seguaci di Babeuf, per esempio, sognavano un comunismo integrale basato
sull’egualitarismo, sulla uguale retribuzione del lavoro e sulla comunanza della terra; erano
fortemente radicati nelle periferie, si rifacevano ad una realtà fondamentalmente agricola e
puntavano a realizzare tale programma con azioni violente. I sostenitori delle idee di
Proudhon avevano un carattere libertario e anarchico: pensavano all’autogestione operaia per
conciliare capitale e lavoro e a concetti come libertà individuale e “armonia sociale”; inoltre,
puntavano all’abbattimento dello Stato. Louis-Auguste Blanqui fu uno dei maggiori ispiratori
della Comune: pur non avendovi partecipato (fu arrestato qualche mese prima), la influenzòmoltissimo grazie alle sue idee sulla presa violenta del potere ad opera del proletariato con
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giacobina, autoritaria, centralizzata, protezionista, gerarchica e quella liberale, decentrata,
liberista, individualista”. Questa distinzione forse è troppo semplice, ma ci aiuta a capire
perché il socialismo francese sia sempre stato molto frammentato. Prima dell’unità raggiunta
nel 1905 al Congresso di Rouen, due furono le questioni che misero a dura prova i propositi
unitari del movimento operaio: l’ingresso di Millerand nel governo di Waldéck-Rousseau e
l’affaire Dreyfus. La prima scoppiò quando, a supporto del suo programma riformatore, il
capo del governo Waldéck-Rousseau chiese nel 1899 a un esponente socialista, Millerand, di
entrare nel governo radicale: Jaurés reagì con entusiasmo alla richiesta del presidente del
consiglio, vedendo la cosa come un deciso passo avanti nella marcia del proletariato verso il
potere; tuttavia, il nucleo socialista stretto attorno a Guesde giudicò assai negativamente la
cosa. La seconda questione, invece, riguardò la divergenza sul giudizio relativo a Dreyfus,
giacché Jaurés fin dal primo momento fu dreyfusardo e decisamente schierato dalla parte di
Clèmenceau e della sua battaglia, mentre Guesde si dichiarò originariamente indignato per la
mancata condanna a morte dell’imputato e solo in seguito, opportunisticamente, “ni l’un, ni
l’autre” quando lo scandalo cominciò a definirsi a favore dell’ufficiale di origine ebrea.
Come detto, però, nel 1905 i socialisti trovarono l’unità auspicata dalla Seconda
Internazionale con la fondazione del “ Parti socialiste-Section française de l’International
ouvrière”, meglio noto con l’acronimo SFIO. Il partito fu inizialmente allineato sulle
posizioni di Jules Guesde e dell’ortodossia marxista; interessato al mantenimento dell’unità
così faticosamente raggiunta, Jaurés accettò il modello organizzativo leninista fatto di
strutture rigide, di gerarchia e di un programma di lotta. Nel 1910, però, il partito ha già virato
sulle posizioni socialdemocratiche di Jaurés e avversa il sindacalismo rivoluzionario di
Georges Sorel, il quale, anteponendo l’organizzazione sindacale a quella del partito e l’azione
diretta del proletariato all’iniziativa parlamentare, andava vagheggiando il mito dello sciopero
generale: “ All’estrema sinistra dello schieramento socialista si fa strada la convinzione che
la salute debba venire non dalle campagne elettorali e dai partiti a cui spetta gestirle, ma
dalle lotte sindacali e dall’arma risolutiva dello sciopero generale” (Sergio Romano). La
tendenza del sindacato a considerarsi bastevole al proletariato comportò gravi tensioni tra il
partito e la potente CGT (Confédération Général du Travaille) tanto che, onde evitare che
ciascuna organizzazione se ne andasse per la sua strada, la Seconda internazionale impose a
SFIO e CGT un accordo che vincolasse il sindacato alle decisioni politiche del partito e il
partito alle decisioni in materia di lavoro del sindacato. La conclusione della prima guerra
mondiale ed il trionfo della rivoluzione sovietica comportarono un grande stravolgimento intutto il movimento operaio europeo. In Francia, dove nelle elezioni del 1919 aveva trionfato il
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Blocco Nazionale di Poincaré, il Congresso di Tours aveva visto la maggioranza dei membri
della SFIO votare per la trasformazione della stessa in Partito comunista francese. La
minoranza, invece, guidata da Léon Blum e Jean Longuet, rifiutando il centralismo
democratico del modello sovietico e rivendicando l’originalità del socialismo francese,
ricostituì il partito socialista e lo indirizzò verso un’alleanza con i radicalsocialisti. Ora,
mentre per i comunisti la rivoluzione d’ottobre fu il punto d’arrivo del processo rivoluzionario
iniziato a Parigi nel 1789 – cosa che faceva rivendicare la paternità dei fatti di Russia ai
comunisti francesi – per Léon Blum bisognava fare una distinzione tra “conquista del potere”
e “esercizio del potere”. Prospettandosi la possibilità di raggiungere la maggioranza alla
Camera nonostante la scissione di Tours, l’opinione di Blum era che vincere la maggioranza
parlamentare non significasse aver conquistato il potere – cosa che può farsi solo con la
rivoluzione proletaria – bensì implicasse l’assunzione dell’esercizio del potere nel quadro
sociale e politico esistente; la rivoluzione non può farsi per decreto, non dipende, cioè, dal
governo il quale, però, può rendere la massa operaia responsabile, emancipata, educata e in
grado di fare da sé la rivoluzione. Insomma, l’esercizio del potere è la fase transitoria che
conduce al socialismo. In forza di queste posizioni socialdemocratiche e del sostegno della
CGT di Jouhaux, privata della corrente comunista e anarchica dopo Tours, il partito socialista
cresce alle elezioni del 1924 e, alleato con i radicali nel “Cartél des Gauches”, conquista 104
seggi contro i 162 dei radicali e i 26 del PCF. Nonostante la condivisione di un ampio
programma democratico (applicazione rigorosa delle leggi sulla separazione tra Stato e Chiesa
e sulle congregazioni; previdenza sociale; giornata lavorativa di otto ore; democratizzazione
dell’insegnamento e gratuità di quello superiore; garanzie sindacali) l’alleanza fallirà nel
volgere di due anni a causa del voltafaccia dei radicali. Il fallimento del Cartello non
danneggiò i socialisti che, anzi, nel 1932 contarono 137.000 iscritti contro i 60.000 dei primi
anni ’20, e 129 deputati grazie alla fiducia ispirata dal riformismo di Blum e dal sindacalismo
responsabile della CGT di Jouhaux.
2.
I rapporti tra il partito socialista ed il partito comunista non furono mai pacifici, perché il
PCF, fedele al Comintern – l’Internazionale Comunista – giudicava la disponibilità della
SFIO a governare con i borghesi, all’interno delle regole borghesi, la conferma della teoria del
“socialfascismo” tanto cara a Stalin. La situazione politica degli anni Trenta, però, assai
contraria alla democrazia, portò il Comintern ad optare infine per la strategia del “Fronte
Popolare”, il fronte unito dei comunisti e dei socialisti in funzione antinazista e antifascista. Il“Fronte popolare” francese nasce nell’ottobre del 1934 – i colloqui si erano aperti a luglio –
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ed è integrato dai radicali, convinti di poter egemonizzare il Fronte e magari ripetere la mossa
del 1924-1926. Le elezioni, tuttavia, volsero al peggio per i questi ultimi: la SFIO, infatti,
ottenne la maggioranza relativa con 147 seggi ed assunse la responsabilità del governo: Léon
Blum formò il governo, ma né i radicali né i comunisti, per motivi diversi, entrarono a farne
parte. La vittoria del Fronte fu accolta dalla classe operaia con grande entusiasmo e nel solo
mese di giugno si verificarono 12.000 scioperi, organizzati in tutta la Francia con la fiducia
che il nuovo governo avrebbe rafforzato il potere contrattuale degli operai. In effetti, la
situazione giocò a favore del governo socialista che, da una posizione di forza, riuscì a far
incontrare le richieste del sindacato unificato (nel 1935 la CGT e la CGTU si fusero) con
quelle degli industriali grazie agli accordi di Matignon. Decisamente favorevoli alla classe
operaia, tali accordi prevedevano il libero esercizio dei diritti sindacali, il riconoscimento da
parte degli industriali di delegati eletti tra gli operai, la settimana di quaranta ore, quindici
giorni di ferie pagate. L’azione del governo non si esaurì con gli accordi di Matignon: fu
creato l’Office National Interprofessionel du blé, per sostenere i prezzi agricoli; fu riformata
la Banca di Francia; furono nazionalizzate alcune imprese strategiche e fondata la S.N.C.F.
( société national des chemins de fer ). Il governo del Fronte Popolare, nonostante fosse stato in
grado di far recuperare agli operai potere d’acquisto e fiducia, non riuscì a durare a lungo:
stretto tra la questione “morale” sollevata dalla guerra di Spagna e dalla fuga dei capitali verso
l’estero, Blum rassegnò le dimissioni dopo appena un anno dalla sua investitura.
3.
Dopo la seconda guerra mondiale la SFIO, ricostituita e attiva durante la Resistenza, incontrò
e si scontrò con una realtà politica nuova: la forza del partito comunista, il primo partito
comunista d’Europa. Persa l’alleanza con la CGT, oramai riconquistata dai comunisti, e messa
in minoranza la leadership di Blum, il partito socialista fu affidato a Guy Mollet. Tutto
sommato, la IV° repubblica fu un periodo di decadenza per la SFIO sia per la forza conseguita
a sinistra dai comunisti sia per la scomparsa sostanziale dell’alleato radicale. Le ambiguità del
partito in occasione della guerra d’Algeria ed il sostegno fornito al governo del generale De
Gaulle (che vedeva Mollet come vicepresidente) portarono il partito al suo minimo storico, il
15,7% del 1958. L’introduzione del sistema di governo della V° repubblica e di un sistema
elettorale particolarmente penalizzante per chi non è in grado di stringere accordi (come
furono i socialisti e i comunisti prima di Épinay) introdussero il movimento socialista in una
crisi senza precedenti. Il clima di totale sfiducia, alimentato dalla convinzione che la quinta
repubblica fosse una sorta di dittatura populista, portò a successive scissioni da cuiscaturirono il “ Parti socialiste autonome” e poi la “Union de la gauche socialiste” e, infine, il
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“ Parti socialiste unifié ”. Il 1965, però, è da considerarsi un anno di svolta: in occasione delle
elezioni presidenziali un candidato minore di sinistra, François Mittérand, superò il primo
turno ed ebbe l’onore di costringere la rielezione di De Gaulle dentro il 55% dei voti popolari.
Proprio Mittérand, la cui piccola formazione politica era denominata “Convention des
institutions républicaines”, comprese che combattere il regime della V° repubblica
dall’esterno fosse una strategia sbagliata e che, invece, questo andava conquistato
dall’interno: nel 1971, perciò, la sinistra socialista uscì dal suo lungo inverno con l’apertura al
congresso di Épinay ai comunisti e a tutti i partiti minori della sinistra; il partito si svecchiò
prendendo il nome di Parti Socialiste ed elesse come suo capo proprio Mittérand. Da subito il
PS, grazie all’intesa con comunisti e radicali, centra un grande risultato, il 45% alle legislative
del ’73 ed il 49% alle presidenziali dell’anno successivo. La svolta di Épinay ha permesso al
PS di ottenere due grandi risultati: l’accordo con i comunisti ne ha promosso il partito ad
elemento “utile” per la funzione di governo, in primo luogo; in secondo, attraverso
l’accettazione delle regole della V° repubblica, la sinistra francese si prepara a conquistare
finanche la presidenza. Finisce così la contestazione della costituzione sostanziale della
repubblica gollista e si portano all’interno delle istituzioni gli umori del ’68 e i gruppi
“goscisti”, le organizzazioni libertarie e i movimenti separatisti, le associazioni ecologiche ed
il sindacalismo “autogestito”. Dopo una breve crisi, comunque grave da provocare la sconfitta
alle legislative del 1979, il patto d’unità d’azione tra socialisti e comunisti si riattiva e porta
Mittérand alla presidenza della Repubblica nel 1981 e alla maggioranza assoluta dei seggi
all’Assemblea Nazionale: con il 37,5% dei consenso il PS raggiunge il suo massimo storico.
Mittérand tenne la più alta carica dello Stato per due mandati, fino al 1995, nel corso dei quali
i suoi governi cercarono di fronteggiare le difficoltà economiche attraverso importanti
nazionalizzazioni e l’aumento del potere d’acquisto dei salari. Furono varate importanti
riforme istituzionali (l’ordinamento regionale), giudiziarie (abolizione della pena di morte e
riorganizzazione delle carceri), sociali (cinque settimane di ferie pagate, pensionamenti a
sessanta anni, settimana di 39 ore, diritti sindacali nell’impresa), ma mentre il primo
settennato fu turbato solo dalla coabitazione del biennio 1986-1988, il secondo settennato fu
segnato da una grave instabilità che portò a Matignon tre diversi primi ministri nel volgere di
soli cinque anni (Rocard, Cresson, Bérégovoy). Questa instabilità fu dovuta alla rottura nel
1984 con i comunisti che, accusando il timido piano sociale e di nazionalizzazioni del
governo per la sconfitta alle elezioni europee del 1984 e a quelle nazionali nel 1986, uscirono
dal governo e fornirono a partire dal ‘88 solo l’appoggio esterno ai ministeri socialisti. Dinuovo al governo con Lionél Jospin dal 1997 al 2002, il partito socialista è sconfitto
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incredibilmente dal candidato del Fronte Nazionale Jean-Marie Le Pen e non accede al turno
di ballottaggio contro il neogollista Chirac. Malgrado una recente ripresa, che ha consentito
alla sinistra di travolgere la maggioranza di centrodestra nelle ultime elezioni regionali, è
probabile che il PS stia ancora pagando l’incapacità di far digerire ai suoi iscritti e ai suoi
elettori l’accettazione dell’economia di mercato ed il coinvolgimento nella globalizzazione,
sebbene proprio la Francia di Mittérand sia stata la principale protagonista, assieme alla
Germania di Khol, del forte sviluppo dell’idea unitaria europea.
Tra la rivoluzione francese e la rivoluzione russa: il partito comunista
Come abbiamo già avuto modo di scrivere parlando del partito socialista, il partito comunista
francese (PCF) fu fondato a Tours nel 1920 in seguito alla decisione della maggioranza del
congresso SFIO di trasformare la stessa in Partito Comunista, assecondando le tesi di Lenin e,
soprattutto, della Terza Internazionale, per la quale il capitalismo ed il suo sistema politico
erano giunti senz’altro alla fine della loro epopea e l’ora della presa rivoluzionaria del potere
e della dittatura del proletariato era oramai scoccata. Come tutti i partiti comunisti d’Europa,
anche quello francese è vissuto a lungo in una situazione di sostanziale dipendenza strategica
dall’URSS, dagli umori dei suoi leaders e dalle condizioni e dagli equilibri che si vennero a
costituire quando il mondo fu diviso in due blocchi contrapposti alla fine della seconda guerra
mondiale. Come tutti i partiti comunisti d’Europa anche quello francese, seppure ossequioso
nei confronti del PCUS, ha cercato di definire una sua identità ed originalità nazionali. Il mito
della Rivoluzione del 1789, ovviamente, dava al PCF una ragione in più per reclamare
legittimamente una maggiore autonomia. Nonostante le sincere convinzioni rivoluzionarie dei
suoi promotori, tuttavia esistevano all’interno del neonato partito sostanziali distinzioni:
accanto ai più fedeli all’ortodossia marxista-leninista e al Comintern esisteva un forte gruppo
di persone che riteneva di non dover prendere lezioni da nessuno in materia di rivoluzione
(erano comunisti ma prima ancora erano francesi, avevano fatto la Rivoluzione giacobina e
conoscevano bene Blanqui e Babeuf, insomma!). Il partito comunista, quindi, fin dalla sua
fondazione, sballottato tra una corrente di autonomisti ed una di ortodossi, fu caratterizzato da
una notevole instabilità che di frequente si risolveva con l’espulsione di qualche suo dirigente
accusato di “troztkismo”: fu così che nel 1924 furono espulsi (dal segretario Traint) Rosmer,
Moatte e Souvarine – tre tra i fondatori del partito – e fu sempre così che Traint medesimo fu
allontanato dal partito quattro anni più tardi. L’accusa di trozkismo, in verità, veniva
formulata dal Comintern per eliminare dai partiti comunisti nazionali tutti quei personaggi che
si opponevano di volta in volta all’interferenza di Stalin. E Stalin dava il ben servito senzaguardare in faccia nessuno. A partire dal 1928 il partito fu, quindi, guidato da un gruppo
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favorito dal Comintern costituito da Barbé, Célor, Billoux e Goyot, talmente invisi alla
membership del partito e agli elettori che, dopo il peggiore risultato di sempre conseguito nel
’28, lo stesso Comintern decise di sostituire con un leader giovane proveniente dal sindacato:
Maurice Thorez. La fatica della classe operaia a capire le lotte interne al partito indussero i
più a tornare verso il riformismo della SFIO: sostenuto da un grande entusiasmo al momento
della sua fondazione, il partito declinò e sfiorì rapidamente perdendo quel fascino e
quell’appeal che solo pochi anni prima aveva suscitato tra i lavoratori. La mancanza di
autonomia in un periodo di forte nazionalismo non gli giovò: la classe operaia, infatti, si sentì
più al sicuro nel mito della vittoria del ’18, sapendo la Germania sconfitta e debitrice della
Francia. In una tale contesto, la prospettiva rivoluzionaria sembrò perdere tutto il suo fascino
iniziale. Il PCF, quindi, si sviluppò come partito massimalista e anarcogiacobino disposto solo
alla rivoluzione e a lottare anche sul terreno del lavoro, visto che dopo Tours aveva promosso
la costituzione di sindacato autonomo, la CGTU. In questa fase la sua critica al sistema
borghese non colpisce solo la recessione economica, la disoccupazione, la caduta dei salari ed
il disagio della popolazione degli anni ’30, ma investe con ferocia particolare anche la SFIO,
accusata, assecondando le teorie della Terza Internazionale, di “socialfascismo”, cioè di
sostenere contro gli interessi del proletariato lo stato borghese e le sue strutture di
oppressione. L’ascesa drammatica del nazismo in Germania e l’espansione della destra
radicale e dei regimi fascisti in Europa comportarono, però, un deciso cambio di strategia
nella Comintern a partire dal 1934: per rispondere ad una manifestazione dell’estrema destra,
i comunisti decisero di marciare assieme ai socialisti, alla CGT e alla CGTU in una
contromanifestazione, ponendo, così, la prima pietra per la costruzione di un Fronte Popolare
francese. Il fatto clamoroso di quell’occasione fu che si sventolarono i tricolori e si cantò la
Marseilleise: dopo anni di lealtà incondizionata all’URSS, il PCF poté tornare ad esibire i suoi
tratti nazionalisti ereditati dalla tradizione giacobina e da quella blanquista. A margine della
storica manifestazione unitaria il segretario Thorez affermò: “Siamo orgogliosi del grande
passato del nostro paese, dall’era di Luigi XIV e degli uomini che hanno fatto la nostra
rivoluzione del 1791 (…). Cantando l’Internazionale abbiamo raccolto il motivo della
Marseilleise. Inalberando la bandiera rossa abbiamo innalzato nuovamente il tricolore dei
nostri padri”(Sergio Romano). Nonostante le molte divergenze tra i due partiti e una mai
sopita tendenza del partito comunista a criticare i compagni socialisti – i comunisti
chiedevano l’unità nella convinzione che il loro apparato avrebbe prevalso sulla SFIO; i
socialisti, invece, proponevano un programma comune, una sorta di New Deal alla francese,una via socialdemocratica – il 27 luglio 1934 PCF e SFIO stipularono un patto d’unità
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d’azione contro il fascismo, la guerra e per la difesa delle libertà democratiche; l’iniziativa
unitaria riguardò anche i sindacati che, seppur dopo difficili e lunghe trattative, giunsero alla
loro completa fusione e ad un unico esecutivo. La strategia del Fronte Popolare fu vincente: in
occasione delle legislative del ’36 la coalizione vinse la maggioranza assoluta dei seggi e il
PCF passò da 10 a 72 seggi, ottenendo circa un milione e mezzo di voti. Malgrado il successo,
il PCF non entrò nel governo: “non ci può essere partecipazione di sorta ad un governo
all’interno dei confini del capitalismo”, dichiarò Thorez, aggiungendo di temere che
l’ingresso dei comunisti nel governo avrebbe alimentato presso la destra radicale propositi
golpisti. Anche se responsabile in una certa parte della caduta del governo Blum, al PCF va
riconosciuto il merito di essere stato forse l’unico partito francese a vedere con chiarezza la
tragica situazione dell’Europa degli anni ’30 e a prevedere i drammatici eventi futuri.
Risolutamente contrario alla neutralità nella guerra di Spagna – definita da Blum “borghese” e
quindi motivo d’interesse solo per i governi borghesi, non certo per la Francia del Fronte –
sostenne il riarmo per fronteggiare i vari fascismi e una forte politica di repressione nei
confronti della destra sovversiva, la quale, sempre più frequentemente, manifestava al grido di
“Meglio Hitler del Fronte Popolare”. Questa determinazione e la progressiva acquisizione del
sindacato unificato valsero al partito una grande crescita in termini di iscritti e la reputazione
di difensore della democrazia. Le risorse su cui il partito stava costruendo la sua futura
egemonia a sinistra fu l’attivismo volontario: “ Il partito socialista francese è un partito nel
quale è molto importante l’influenza di intellettuali di origine borghese, come era lo stesso
Léon Blum, una persona culturalmente molto raffinata. Questa influenza borghese è
rilevante: anche nelle riunioni di sezioni o di sindacato è in genere l’intellettuale di sinistra
di origine borghese che ha un ruolo preminente. Invece, il PCF alla metà degli anni Trenta,
come in Italia alla metà degli anni Quaranta, sviluppa molto l’attivismo politico dei militanti
di formazione operaia…è questa una ragione di forza per il partito comunista che si
manifesterà anche dopo la fine della guerra” (Sergio Romano). In un contesto siffatto, il patto
di non aggressione Ribbentrop-Molotov tra Germania nazista e URSS stalinista fu un fulmine
a ciel sereno, lasciò sgomenti gli iscritti e creò un forte disagio tra gli attivisti: 21 dei 72
deputati rimisero il mandato e 18 membri dell’esecutivo della CGT votarono per la condanna
del patto (solo otto membri votarono a favore e due si astennero). Ancora una volta la
dipendenza dall’URSS fa apparire contraddittorio il partito, estraneo al paese e inaffidabile: il
PCF giustificò quella scelta sostenendo che la guerra che Hitler conduceva non riguardava la
democrazia, bensì l’imperialismo e che, proprio per questo motivo, non poteva essered’interesse per il proletariato. Addirittura, alcuni importanti militanti come Marty arrivarono a
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vedere l’invasione sovietica della Polonia orientale come un fatto di civiltà e di progresso: “la
classe operaia francese ha visto col più grande entusiasmo la marcia dell’Armata Rossa per
portare la pace, l’ordine e il socialismo al popolo della Polonia Orientale” . Messo
fuorilegge dal governo Daladier, il partito si ricostituì in gruppo parlamentare come “ gruppo
operaio e contadino” e chiese immediatamente la pace. Fortunatamente, la confusione e lo
smarrimento provocati dal patto di non-aggressione si dissolse – e con esso l’incubo dei
militanti obbligati ad una fedeltà incomprensibile – quando, lanciata l’operazione Barbarossa,
Hitler mosse guerra all’URSS: il partito, da anni in clandestinità, organizzò il più importante
fronte della lotta di Resistenza francese e, giudicando la guerra non più un fatto difensivo
dello stato borghese bensì una guerra per la liberazione del popolo, riuscì non solo a
recuperare quell’immagine che tra il ’39 ed il ’41 era stata offuscata dal rigoroso allineamento
sulle posizioni dell’Unione Sovietica, ma addirittura a rivelarsi alla prima buona occasione, le
elezioni del ’45, il partito di maggioranza relativa con il 28% dei voti. Nonostante la forza
elettorale conseguita e la supremazia raggiunta anche nel mondo del lavoro, giacché la
ricostituita CGT è ormai a direzione esclusivamente comunista, il PCF si trova ai margini del
gioco parlamentare e involontaria causa dell’instabilità ministeriale della IV° repubblica.
Volendo spiegare perché i comunisti non potessero andare al potere, Léon Blum ebbe a dire
che i comunisti non erano né di destra né di sinistra, bensì all’Est. In realtà, il PCF accettò di
comportarsi secondo le regole della quarta repubblica, che aveva concorso a stabilire, e
secondo le regole di Yalta: così, anche se il 1947 fu un anno di violente manifestazioni, il
partito sviluppò un’attività legale parlamentare coordinata con quella sindacale. Oggi il PCF è
un piccolo partito che si attesta tra il 9% e l’11% dei suffragi: come si è ridotto a tali
dimensioni il comunismo francese? La V° repubblica è stata la scure che, scivolando sul collo
della IV°, dei suoi protagonisti e dei suoi mali, ha completamente cambiato il sistema dei
partiti francese, reso bipolare e selettivo; i partiti che difficilmente riescono ad aggregarsi
sono fuori dal parlamento. Così, seppur forte del 20% dei consensi popolari nel 1968, il
partito comunista non riesce nemmeno a formare un gruppo parlamentare, perde
progressivamente visibilità a favore dei socialisti, si logora e finisce per essere del tutto
estraneo alle istituzioni. Accolta la proposta di Mittérand di costituire un patto d’unità
d’azione, il PCF vince assieme al PS numerose elezioni locali e nel 1981 entra nel governo
Mauroy con quattro ministri. Uscitone nel ’84, deluso per lo scarso successo delle
nazionalizzazioni e per la sconfitta alle europee dello stesso anno, il partito comunista torna al
governo solo nel 1997 all’interno del governo socialista di Lionél Jospin. Alle ultime elezioni presidenziali la sinistra massimalista si è presentata frantumata tra numerosi candidati. In
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definitiva, possiamo affermare che pur essendo un importante partito fin dalla sua fondazione
nel 1920, quello comunista non è mai stato forte abbastanza e indipendente per imporre una
sua strategia; è sempre stato dentro un ghetto e costretto a sporadiche alleanze elettorali con i
socialisti per uscirne temporaneamente (Front Populaire, 1936; apertura a Guy Mollet, 1956;
patto con Mittérand, 1972). La sua tradizione, la sua cultura, la sua filosofia della storia, però,
gli hanno imposto di rifiutare qualunque duratura alleanza con partiti dai discutibili propositi
rivoluzionari; la sua fedeltà all’ortodossia sovietica, inoltre, lo ha reso incompatibile con la
doverosa politica atlantica del suo paese : “ La fedeltà all’Unione Sovietica è, però, più un
risultato dell’epopea giacobina francese che a Marx: il partito infatti, si sente erede e
custode ed interprete di una parabola rivoluzionaria le cui tappe sono state la Bastiglia, il
Comitato di Salute Pubblica, le “giornate” del 1948, la Comune, la Rivoluzione sovietica. Il
PCF, quindi, è sostanzialmente un partito francese” (Sergio Romano).
Mouvement républicain populaire: chi è costui?
Malgrado la sua ricca tradizione cattolica e il fatto che sia stato il primo paese in Europa ad
estendere il diritto di voto (nel 1848 con la costituzione della II° repubblica) a tutti i cittadini
maschi adulti, la Francia non ha mai conosciuto formazioni politiche d’ispirazione cristiano-
democratica fino al 1942, anno in cui fu fondato il Mouvement Républicain Populaire. Il
motivo di questa lunga assenza, che poi si è ripetuta per motivi diversi a partire dal ’58,
risiede nel generale rifiuto della Chiesa ottocentesca della democrazia e nel suo particolare
atteggiamento di ostilità nei confronti della repubblica francese. Quest’ultimo punto è stato
segnato dal modo in cui il paese è passato alla modernità, cioè al cruento modo che ha
condotto all’emancipazione dello Stato dalla Chiesa: la Rivoluzione, infatti, favorendo
l’identificazione della Chiesa con l’Ancient Régime, aveva costretto tanto la Chiesa stessa che
la popolazione a prendere posizione a favore o contro l’ordine borghese, in tal modo
spingendo i cattolici praticanti e la gerarchia ecclesiastica a schierarsi contro la Rivoluzione e
contro tutti gli assetti istituzionali che ne ricordavano l’avveramento. I cattolici, insomma,
anche in virtù del pontificio non expedit , preferirono, piuttosto che collaborare con la
repubblica, esserle indifferente, quando non addirittura ostili fino alla sovversione (affaire
Dreyfus): tutto ciò nonostante che in Francia sia vissuto uno dei maggiori pensatori politici
cattolici di ogni tempo: Robert De Lammenais. I cattolici, avendo sempre sviluppato un
comportamento politico conservatore e tendente a riconoscere alle istituzioni repubblicane del
1871 solo un minimo sufficiente di riconoscimento, finirono per preferire l’appoggio ai partiti
conservatori e reazionari piuttosto che dirigere le proprie energie per l’edificazione diorganizzazioni di massa come quelle che a partire dal primo dopo guerra si formarono in Italia
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e in Germania. Nel 1848 i cattolici si erano identificati con il “partito dell’ordine” a sostegno
di Luigi Bonaparte e, una volta proclamato l’impero, si schierarono decisamente in suo
favore. Il cattolicesimo francese, forte nelle campagne, conservatore e reazionario, fu uno dei
maggiori sostegni di quel regime e quando la terza repubblica, che inizialmente si disse
conservatrice, si dimostrò tenacemente laica e disposta a difendersi anche con una politica
anticlericale senza precedenti, allora i cattolici finirono per alimentare il dissenso e, insieme
all’esercito, a favorire tentazioni autoritarie: nell’assemblea i cattolici furono rappresentati
nell’assemblea del 1871 da nobili eletti nelle campagne e legittimisti monarchici, favorevoli
alla restaurazione borbonica e al suo programma politico. Svanito il sogno monarchico, i
cattolici continuarono a schierarsi risolutamente contro la repubblica, la peggiore, tra l’altro,
tra quelle che potevano essere loro proposte, vistane la debolezza dell’esecutivo e la centralità
del legislativo; nello scandalo Dreyfus furono dalle parte dei anti-dreyfusardi. Il sostegno
offerto implicitamente all’ Action française di Charles Maurras – che finirà scomunicato dal
Papa nel 1926 – ed il carattere restauratore del regime di Pétain, però, cambiarono il
comportamento dei cattolici anti-nazisti e amanti della libertà i quali, obbligati a scegliere tra
lo stare dalla parte dell’umanità o da quella della barbarie, aderirono decisamente alla prima
causa partecipando alla Resistenza e collaborando con De Gaulle. La necessità di dotarsi di
una propria personalità politica democratica in opposizione alla “rivoluzione nazionale” di
Vichy e di superare il suo passato reazionario, furono la vera motivazione che spinse i
cattolici a dotarsi di una solida organizzazione partitica moderna in grado di affrontare la lotta
politica senza confondere l’elettorato cattolico con quello della destra autoritaria. Il partito
Mouvement Républicain Populaire giocò un ruolo molto importante durante la Resistenza e
fece parte del Comitato di Liberazione Nazionale. Dopo l’uccisione ad opera dei nazisti di
Jean Moulin, che ne fu il fondatore, il partito fu diretto da Georges Bidault, una personalità di
primo piano nella vita politica francese fino agli anni Cinquanta quando, subita una
involuzione autoritaria, finirà per collaborare negli anni Sessanta con l’OAS. La vicenda
personale di Bidault, però, non fu la storia del mondo cattolico francese. Per tutti i dodici anni
della IV° repubblica il MRP si è mantenuto ad ogni elezione intorno al 20 % dei suffragi, ha
conquistato molte amministrazioni comunali ed è stato al vertice di tutte le combinazioni
governative del periodo 1946-1955. Durante la prima legislatura (1946-1951) i governi
espressi dalla coalizione SFIO-MRP, ebbero di solito un presidente del consiglio socialista e
un ministro degli esteri cattolico (in modo alternato Schuman e Bidault). Tra il ’51 ed il ’55,
invece, grazie al sistema elettorale proporzionale con premio di maggioranza, il MRP andò algoverno alla testa di una coalizione frammentata ed eterogenea (c’erano anche i radicali). In
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questo periodo il MRP fornisce alla Francia alcuni dei suoi migliori politici i quali, come
Robert Schuman, si spesero per progetti ambiziosi e di lungo respiro come l’unificazione
europea ed il riavvicinamento del paese con la Germania e l’Italia. Il fatto che tutti e tre questi
paesi fossero retti da governi a guida cattolica può spiegare facilmente il successo del progetto
delle Comunità europee e il motivo per cui molti parlarono di un’Europa cristiana e
carolingia. A partire dalla metà degli anni Cinquanta, però, il MRP, benché giovane, entrò in
crisi costretto all’opposizione dal ritorno al successo elettorale della SFIO e schiacciato a
destra dalla crescita del Ressemblement du peuple français di De Gaulle e della destra
contestatrice e trasformista di Pierre Poujade. Così, nonostante abbia giocato un ruolo molto
importante durante la Resistenza, si sia adoperato con successo per la riconciliazione franco-
tedesca, abbia dato un forte contributo all’unità europea, abbia espresso ministri e capi di
governo, dato uno spazio politico ai cattolici, con il ritorno del generale De Gaulle e le nuove
istituzioni il partito dei cattolici svanisce nell’impossibilità di ricostruire il centro politico nel
sistema bipolare della nuova repubblica: i cattolici, quindi, tornano nell’ombra, sostenendo lo
schieramento moderato senza esporsi con una formazione propria; si riconoscono nella Union
pour la Nouvélle République, malgrado la strenuo tentativo del Centro democratico di Jean
Lecanuet, ma poi finiscono in massima parte per aderire alla UDF di V.G. D’éstaing.
La Francia e le sue particolarità: il gollismo
La parola “gollismo” richiama immediatamente alla memoria la figura del generale De Gaulle
– da cui appunto “gollismo” – e le istituzioni della V°repubblica. Il movimento gollista si è
espresso a partire dal 1946, anno in cui De Gaulle fondò il Ressemblement du peuple français
(RPF), in svariate formazioni a secondo delle esigenze strategiche di ciascuna scadenza
elettorale: RPF, appunto, fino al 1958; UNR dal 1958 al ’66; UdR fino al ’76; RPR fino al
2002; UMP (dapprima Union pour la majorité presidentiélle, poi Union pour un mouvement
populaire) a partire dal 2002. Tutte queste formazioni, in realtà, non sono mai stati partiti
politici strutturati secondo il modello del partito di massa, bensì dei grandi schieramenti di
persone individualmente convinti della bontà dell’azione politica del Generale. De Gaulle,
infatti, disprezzava i partiti politici e le loro degenerazioni, le quali altro non facevano che
dividere e lacerare la comunità nazionale e causare mal governo e inefficienza di fronte ai
pericoli esterni; De Gaulle, quindi, quando decise di lasciare le armi per servire meglio la sua
nazione come uomo politico, si rifiutò di dar vita ad un nuovo partito “pigliatutto” e volle
fondare uno schieramento trasversale di uomini e donne desiderose di fare il bene della
Francia prima di tutto. De Gaulle, insomma, non si rifece mai ad alcuna ideologia e non basòla sua forza politica su di una struttura che fabbricasse il consenso; volle, invece, dare un
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indirizzo “nazionale” alla sua condotta politica a secondo delle necessità e delle opportunità
del momento e, infine, rapportarsi direttamente con i francesi onesti e coraggiosi saltando la
mediazione dei corpi intermedi. Inizialmente, questo indirizzo “nazionale” che De Gaulle
aveva individuato per la Francia fu costituito da una nuova costituzione che prevedesse, nel
rispetto delle prerogative del parlamento, un forte esecutivo guidato dal presidente della
repubblica. L’idea della repubblica presidenziale era in mente al Generale durante la guerra,
poiché egli percepiva l’assenza di un capo nazionale come la vera causa della disfatta
dell’estate del ’40. Proprio con lo scopo di colmare tale vuoto, De Gaulle non ha esitazione a
radunare attorno a sé, lui che allo scoppio della guerra era un ufficiale come tanti altri, dalle
antenne di Radio Londra tutte le forze armate contrarie a Vichy e tutti i francesi liberi nel
mondo per combattere contro la Germania nazista e i suoi alleati e complici. Giunto a Londra
De Gaulle non ha ancora un programma politico chiaro, ma ha alcune certezze, uno stile e un
alto concetto di sé. Il suo programma prenderà corpo lentamente e pragmaticamente grazie al
contatto con le realtà francese e internazionale: la fede nella Francia “étérnélle”, l’amore per
l’ordine e una certa aspirazione egualitaria saranno le grandi linee della sua politica. Due
aspetti, però, emergono con chiarezza dall’esilio londinese: il sentimento d’indipendenza e il
desiderio di restaurare l’autorità dello Stato e di riscattare la Francia dai suoi recenti errori (il
regime di Pétain). In questi due moti dell’anima del Generale è facile scorgere la denuncia
dell’occupazione nazista, da un lato, e del partito comunista, dall’altro, oltre che una visione
idealizzata della Francia intesa come dispensatrice universale di civiltà. Giunto al potere alla
testa del Comitato di Liberazione Nazionale, De Gaulle non proporrà, quindi, una semplice
restaurazione della repubblica, ma un regime completamente diverso dalla terza repubblica e
la sua deriva partitocratrica: solo nel 1946, però, in un discorso pronunciato a Bayeux dopo le
dimissioni da capo del governo, ufficializzerà i suoi progetti costituzionali e chiamerà a
raccolta i francesi interessati al bene della Francia. Questo disegno incontra consensi e
opposizioni: la destra collaborazionista ne accetterebbe i tratti autoritari, ma diffida della vena
populista e sociale che De Gaulle non dimentica mai di manifestare; la destra liberale e
liberista teme che De Gaulle voglia imporre limiti intollerabili alle idee e alle leggi di
mercato; i radicali restano fedeli ai meccanismi assembleari della terza repubblica e al
notabilato provinciale; i cattolici del MRP temono il centralismo autoritario; i socialisti e i
comunisti non ne sottoscrivono il nazionalismo e la concezione personale del potere e temono
un’involuzione autoritaria. Fallito il primo tentativo ma non domato, il Generale attraversa per
dieci anni tutta la Francia attaccando il sistema dei partiti e la quarta repubblica, mentre ideputati a lui legati si danno un gran da fare in aula per “sabotarla”. De Gaulle riesce a
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posto di fedele alleato dell’America all’interno della coalizione occidentale (…) ma negli
anni sessanta, mentre i rapporti est-ovest accennarono a divenire meno rigidi e il terzo
mondo acquista maggiore coscienza della propria personalità, la Francia occupa uno spazio
politico originale e contribuisce ad amplificare la voce delle pluralità nazionali e delle
specificità etniche. E De Gaulle restituisce in tal modo ai francesi in un contesto
radicalmente diverso dal ventennio fra le due guerre, il sentimento d’una presenza e d’una
funzione nel mondo”. Tutti i nodi della controversa politica del Generale vengono a galla nel
cosiddetto “maggio del ‘68”, quando parve che l’ennesima rivoluzione si stesse consumando
per le strade di Parigi. In quell’occasione, alla contestazione studentesca si unì sì quella degli
operai, ma anche quella delle formazioni politiche di sinistra che, penalizzate del sistema di
governo della V°repubblica, non riuscivano a trovare spazio nelle nuove istituzioni: la
gerarchia istituzionale della V° repubblica, infatti, aveva fortemente indebolito i “corpi
intermedi” come i partiti politici, i sindacati e il parlamento stesso, cosicché il dissenso da
tempo latente non poté fare altro che puntare all’abbattimento di quel regime che non pochi
consideravano una dittatura elettiva. L’esperienza politica personale di De Gaulle si concluse
di lì a poco, quando le sue proposte di riforma dell’università, dell’ordinamento regionale e
del Senato furono rigettate alla voce del referendum; il gollismo, però, non si è concluso lì.
Innanzitutto, esso ha continuato ad esistere grazie alla continuità e alla stabilità delle
istituzioni della V°repubblica; inoltre, lo schieramento attuale di centrodestra continua a
rifarsi, nelle forme possibili, alla politica del Generale, sia per quanto attiene alla politica
estera che per quanto riguarda la politica sociale. Infatti, i neo-gollisti continuano a perseguire
quella politica di grandeur e di autonomia dagli Stati Uniti che fu già del Generale e
seguitano a rendere impervio il cammino dell’unificazione europea anteponendo
costantemente gli interessi superiori della nazione più illuminata del continente; continuano a
intrattenere rapporti privilegiati di neo colonialismo nei confronti delle terre del fu impero
coloniale, ama con l’arguzia di mascherare il tutto dietro alla spirito altruistico della Francia;
seguitano, sul terreno economico, a mantenere la mani dello Stato sulle maggiori attività
produttive in modo da favorire una grande schiera di tecnocrati cresciuti all’ENA e a garantire
il grande capitale con politiche più o meno chiaramente protezioniste. Secondo Giorgio Galli
il gollismo raccoglie l’eredità della tradizione liberale moderata fusa in qualche modo con
taluni aspetti della destra tradizionale, sarà. Di certo è che a partire dalla fine degli anni
Settanta e per circa un ventennio l’area più liberale dello schieramento gollista è stata espressa
da Valéry Giscard d’Éstaing e dal suo partito UDF (Union pour la démocratie française)fondato in occasione delle legislative del ’78, per separare dall’eredità gollista proprio le
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correnti più liberali che male si identificavano nei toni compassati e nel tecnicismo di Georges
Pompidou, il successore di De Gaulle. D’Éstaing, infatti, durante il suo settennato ha cercato
di realizzare il più possibile un programma di liberalizzazioni economiche e una legislazione
più liberale sull’aborto, sul divorzio e sulla gioventù; mentre in politica estera, seppur
continuandosi con la ricerca di vie originali e alternative a quelle nord americane, la strada
seguita è molto più conciliante con la prospettiva europea.
La bestia nera e l’orco: la destra radicale e Jean-Marie Le Pen
Anche la destra in Francia ha una lunga storia, che, tuttavia, per essere appieno compresa,
deve essere scomposta nelle sue due tendenze: quella reazionaria e quella simpatizzante per i
fascismi. La storia della destra francese è dunque segnata da quello spartiacque che è
l’avvento del fascismo in Europa. La destra tradizionale, quella precedente il fascismo, è stata
rappresentata dai fautori della restaurazione monarchica, soprattutto di quella borbonica e si
ricollega alla tradizione religiosa e politica del paese, proponendo un ritorno integrale alla
Francia precedente il 1789; un altro filone, però, sostiene semplicemente l’autoritarismo,
seppur con qualche spruzzo di populismo. Un primo tentativo, seppur confuso, di organizzare
il consenso delle fasce popolari conservatrici fu l’avventura del generale Georges Boulanger,
che tra il 1886 ed il 1889, acquistò una notevole popolarità e, precorrendo in qualche modo il
fascismo, costituì un movimento politico basato su elementi di elitarismo, autoritarismo e
rivendicazioni territoriali. Messosi in luce in Tunisia nel 1881 e grazie a discutibili amicizie e
ad una fama di convinto repubblicano, Boulanger fu nel 1886 ministro della guerra, carica che
tenne con un certo senso della responsabilità e facendosi notare per l’espulsione dall’esercito
del duca D’Aumale e dei principi di sangue reale. Preoccupati dalla sua crescente fama, il
presidente Grévy e la maggioranza moderata cercano di isolarlo, ma, evidentemente ben
consigliato dietro le quinte, Boulanger si lancia in proclami che presto diventano un
programma politico incardinato su propositi antiparlamentari, autoritari, populisti e
nazionalisti; un gruppo eversivo di destra, “ La ligue des patriotes”, gli si raccoglie intorno. Il
movimento boulangista passa vincente attraverso una serie di elezioni suppletive e lo stesso
Boulanger vince nel suo collegio di Parigi il 27 gennaio del 1889 con quasi il doppio dei voti
sul suo più diretto avversario. Incitato dai suoi a marciare sull’Eliseo, oppone il suo rifiuto. A
questo punto, resasi conto della personalità del generale, la repubblica ha la forza di reagire:
scioglie la lingue e incrimina Boulanger di “attentato alla sicurezza dello stato”. Boulanger
fugge a Bruxelles dove muore suicida nel ’91. La vicenda Boulanger, anche se priva di
effetti, è importante perché mostra la sopravvivenza di una coalizione occulta di oppositoridella repubblica, che sempre sono lì ad attendere il momento migliore per provare il colpo di
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forza. È il momento arrivò poco dopo con lo scandalo Dreyfus, occasione in cui la Francia
venne a conoscenza di quanto avversione per il sistema parlamentare ancora ci fosse in essa e
a che livello la collusione tra i reazionari e taluni settori dello stato stesso, come lo stato
maggiore dell’esercito, fosse giunta. Durante il periodo dell’affaire una formazione
tradizionalista che vagheggiava il ritorno della monarchia e la ricomposizione dell’unità
nazionale in uno stato corporativo prese ad esistere. L’Action française rifiutava la
democrazia e l’idea di individuo contrapposta a quella di popolo o di unità nazionale; la
considerava il regime dell’oligarchia finanziaria, dei banchieri ebrei, dei massoni, dei
proprietari. Secondo Charles Maurras solo la barbarie può avere fiducia nel numero e nelle
maggioranze, mentre la civiltà deve fondarsi su Dio, sulla monarchia e sulla Chiesa. Maurras
faceva riferimento anche a istituti pre-rivoluzionari per la fruizione collettiva di beni vitali e
ad un socialismo non egualitario. La seconda tendenza del radicalismo di destra ha inizio con
l’avvento del fascismo in Italia e del nazismo in Germania: è appunto tra gli anni ’20 e gli
anni ’30 che proliferano organizzazioni di destra radicale. Nel 1924 è fondata la lega dei
Jeunes Patriotes; nel 1926 il Redréssement français e la “lega dei contribuenti”; nel 1933 la
solidarité française; nel 1927 nascono le potenti “croix de feu” che, nel 1933, tenteranno di
prendere il potere guidate dal tenente colonnello François la Nocque, in seguito allo scandalo
Stavisky, dal nome di un finanziere spregiudicato morto in circostanze misteriose. L’estrema
destra sosteneva che nello scandalo fosse coinvolto un ministro e che in realtà Stavisky fosse
stato incastrato da qualche potente politico. Il 6 febbraio 1930, dunque, mentre Daladier
presentava alla Camera il suo nuovo governo, le leghe manifestavano di fronte al parlamento
contro il ministero e ci furono scontri che provocarono 14 morti e 659 feriti tra i manifestanti,
1 morto e 780 feriti tra le forze di polizia. Il colonnello La Nocque, che a quel punto poteva
invadere la Camera, non fece però il passo finale: ancora oggi ci si chiede se ci fosse stato
davvero un progetto eversivo, certo è che le Croix de feu, molto forti e ben addestrate,
avrebbero potuto facilmente guadagnare l’ingresso posteriore della Camera. Probabilmente, se
ciò fosse realmente accaduto, molti deputati sarebbero passati dalla parte degli eversivi. Pur
nella loro diversità, tutti questi gruppi hanno tratti in comune: sono fortemente
antiparlamentari, denunciano la corruzione governativa e chiedono una riforma costituzionale
che rafforzi i poteri dell’esecutivo. Al pericolo bolscevico contrappongono un regime
autoritario ma popolare, al capitalismo il corporativismo, al mal costume della repubblica i
valori etici della guerra e la bellezza della violenza. Il collaborazionismo di Vichy svelò alla
Francia e al mondo l’esistenza di una solida e testarda Francia tradizionalista dura a morire,ostile a tutte le manifestazioni politiche, dalla democrazia liberale al socialismo, che avevano
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accompagnato lo sviluppo della società francese da agricola a mercantile e industriale. Pétain
e i suoi sostenitori, che in verità non erano né pochi né isolati, erano convinti che la causa
della sconfitta fosse da cercare nella democrazia e in quel rilassamento morale che ne era
conseguenza: la sconfitta appariva la giusta punizione per una nazione che aveva commesso
troppi peccati e un’occasione imperdibile per restituire alla Francia le sue tradizionali
gerarchie e la sua vocazione contadina. L’espressione “ Révolution Nazionale” suonò secondo
questa destra come una restaurazione incentrata sulla triade: travaille, famille, patrie contro
l’odiata devise: liberté, égalité, fratenité. Tutti i partiti, i gruppi e le leghe di destra radicale si
unirono al regime di Vichy, salutato come una “divina sorpresa”. L’état français di Pétain fu
rurale, anticapitalista, corporativa e antisemita, senza rifarsi al fascismo o al nazismo, ma solo
ai modelli francesi pre-rivoluzionari: non promosse mai la mobilitazione delle masse e
l’organizzazione del consenso, né si fondò su un partito–stato. Una destra simpatizzante e
ispirata dal totalitarismo nazista, in effetti, prese all’epoca forma, ma agiva a Parigi, in un
territorio estraneo all’amministrazione di Pétain e direttamente controllato dal Reich. Robert
Brasillach, redattore di “ je suis partout ”, Marcel Dèat, direttore di “ L’oeuvre” furono solo
alcuni intellettuali che celebravano i miti del capo, della razza e dell’Europa Imperiale.
Tuttavia, questo fascismo francese non fu sorretto da un progetto coerente, ma fu solo un
coacervo di motivazioni disparate, tra cui la certezza della vittoria di Hitler. Finita la guerra e
riaffermata la democrazia, la destra radicale appare sconfitta e marginalizzata per circa un
decennio. Solo nel 1956 quando la IV° repubblica fu in piena crisi si affermò un movimento
dalle caratteristiche “antifiscali”: formatosi attorno ad un piccolo droghiere, Pierre Poujade, il
movimento prese il nome di poujadisme. Il movimento poujadista raggruppava piccoli
negozianti e piccoli imprenditori con i propri rispettivi interessi e chiedeva inizialmente un
fisco più leggero e più equo. In seguito evolse verso posizioni di corporativismo,
nazionalismo, xenofobia e di denuncia nei confronti dei politici e dei mass-media. La UDCA,
il partito fondato da Poujade, presentatosi alle elezioni del 1956 ottenne uno strepitoso
successo guadagnando 52 seggi all’Assemblea nazionale. Il tema principale del poujadisme
fu senz’altro quello delle tasse: inizialmente il movimento non ebbe alcuna caratteristica
eccessivamente polemica, limitandosi a provare a persuadere i membri dell’Assemblea
Nazionale ad ascoltare le rimostranze dei commercianti: cento parlamentari, cogliendo la
palla al balzo, accolsero le loro pressioni e si impegnarono a tutelarne gli interessi; tuttavia, la
mancata realizzazione di quel progetto indusse i commercianti e i piccoli uomini d’affari a
manifestazioni plateali. Quando il movimento si radicalizzò, assunse posizioni politichesempre più conservatrici e propose l’abolizione del parlamento e la sua sostituzione con una
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nuova assemblea degli stati generali in cui sedessero i rappresentanti naturali delle varie
categorie sociali: operai, piccoli uomini d’affari e commercianti, grandi affaristi, agricoltori,
professionisti. Il superamento del poujadisme si ebbe con l’avvento della V°repubblica, ma
l’estrema destra continuò a covare. Se in passato la Francia ha tremato per la bestia nera della
restaurazione, oggi teme l’orco Jean-Marie Le Pen e il suo partito del Front National . Il Front
National fu fondato da Le Pen nel 1972 e sebbene tutti lo considerino un partito di estrema
destra, Le Pen sostiene che il suo è semplicemente un partito francese. Il Fronte Nazionale
riprende la contestazione del poujadisme, di cui Le Pen è politicamente figlio, nei confronti
della politica e fa dell’antipolitica la sua bandiera. Uno dei suoi temi principali è la critica
all’attuale sistema dei partiti francesi e al sistema elettorale: per quanto riguarda il primo Le
Pen ha lungamente parlato della “banda dei quattro” per intendere l’establishment costituito
da RPR, UDF, PS, PCF che monopolizza la vita politica e la società francese in tutti i suoi
livelli; per quanto riguarda il secondo, si contesta che la soglia d’esclusione sia stata
progressivamente alzata dal 5% al 12,5% proprio per impedire a candidati del FN di accedere
al secondo turno. Le Pen contesta tutti i partiti presenti in parlamento, li considera corrotti e
incapaci di rappresentare la comunità francese. I successi elettorali del FN, partito che
conquista mediamente il 12% dei voti e che puntualmente non ottiene seggi in parlamento,
sono dovuti ad una reale disaffezione degli elettori per i partiti che si alternano
periodicamente al governo, e sono maggiori laddove, come nel meridione, c’è un forte disagio
economico e si registrano crescenti tensioni razziali. Altro tema importante è quello della
sicurezza e dell’ordine pubblico, in relazione al quale Le Pen ha più volte chiesto la
reintroduzione della pena di morte. Il punto davvero critico del FN è, tuttavia, costituito dai
suoi collegamenti con talune personalità coinvolte in modo più o meno palese con il nazismo,
il regime di Vichy e la terribile OAS: non è difficile sentire membri del partito e lo stesso suo
leader esprimere pubblicamente opinioni razziste, xenofobe, antisemite e ostili nei confronti
degli stranieri, delle minoranze etniche e dell’unità europea. Alcuni esempi sono forniti da
una serie di dichiarazioni di Le Pen: 13/09/87, in riferimento alle camere a gas: sono state
solo un dettaglio della seconda guerra mondiale; marzo ’87, si chiede l’isolamento dei malti
di AIDS e la costituzione di comunità isolate dalla società denominate “sidatorium” (in
francese AIDS si dice SIDA); febbraio 1997: Le Pen accusa Chirac di essere sul libro paga di
organizzazioni ebree; 2005: Le Pen dichiara che l’occupazione nazista non fu poi “così
disumana”. Nonostante la sua forte carica contestatrice e la sua discutibile ispirazione morale,
il partito non sembra essere mai stato implicato in fatti d’eversione e né volerne alimentare. Il partito, quindi, è più semplicemente una valvola di sfogo che indica ai maggiori partiti
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francesi l’esistenza di un malessere fortemente sentito nelle periferie delle maggiori città e
nella provincia e, dunque, la necessità di una seria e profonda riflessione sullo stato reale delle
istituzioni e della società francesi.
Conclusioni (finalmente!)
Da tempo inestimabile, ormai, in Italia facciamo un gran parlare di riforme e puntualmente i
temi su cui ci si accapiglia sono il sistema elettorale ed il sistema di governo: il governo di
centrodestra, dimissionario mentre scrivo, ha prodotto dopo anni di infiniti dibattiti una nuova
legge elettorale proporzionale con premio di maggioranza e una radicale modifica della
seconda parte della Costituzione con cui si è inteso potenziare i poteri del capo dell’esecutivo.
Ciascuno di noi ha la propria opinione al riguardo e l’intenzione mia non è di discuterle.
Quello che voglio dire è che l’instabilità governativa, il male a cui si vuole porre rimedio
definitivo con queste riforme, non è solo un problema di formula elettorale e/o di sistema di
governo. L’esperienza delle più riuscite democrazie maggioritarie dimostra come il vero
segreto per la governabilità sia la compattezza del sistema dei partiti: un quadro politico
frammentato, “atomizzato” per dirla alla Sartori, e tendente al trasformismo e all’accordo
strategico tra le parti, in mancanza di un programma politico coerente e condiviso, è la vera
causa delle derive assembleari; un quadro in cui alcuni partiti, seppur consistenti, sono
inutilizzabili per la funzione di governo, secondo una conventio ad exludendum, provoca la
mancanza dell’alternanza e un sistema di governo bloccato su di una classe dirigente di fatto
politicamente irresponsabile. Lo scenario ideale, quindi, è il modello Wenstminster, cioè, il
bipartitismo britannico, ovvero il sostanziale bipartitismo, anche se non formale, della
Germania e della Spagna. Il sistema dei partiti, purtroppo, non è riformabile poiché le
organizzazioni politiche sono libere associazioni, il più delle volte non riconosciute, a finalità
politiche e, dunque, non se ne possono stabilire per legge il numero e gli indirizzi. Il sistema
dei partiti, insomma, affiora direttamente dalla società civile e ne esprime la compattezza, se
questa è compatta, oppure le divisioni, se divisa. In Italia, a mio avviso, si parla troppo della
formula elettorale e si tende a presentarlo all’opinione pubblica come una sorta di “formula
magica” che d’un sol colpo dovrebbe annullare la partitocrazia, la mancanza di alternanza, il
malgoverno, l’instabilità ministeriale. Tutti coloro che si onorano di definirsi studiosi, però,
dovrebbero avere l’onestà intellettuale di dichiarare pubblicamente, al di là delle loro
appartenenze politiche e partitiche, che un sistema elettorale non può trasfigurare i voti
espressi dagli elettori, affinché si abbiano chiare maggioranze parlamentari: collegandomi in particolare all’esito della recente consultazione italiana, mi sembra che sia doveroso far notare
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che se tra due schieramenti rivali si registrano, alla fine, solo 25.000 voti di differenza, non
c’è alcun sistema elettorale che, a meno di artifizi qual è un premio di maggioranza, possa
conferire a qualcuno una chiara maggioranza parlamentare. L’uninominale non trasforma i
voti dati ai partiti che esprimono le candidature in seggi così, per qualche strano ritrovato
alchemico: l’uninominale premia pesantemente le aggregazioni più votate e sfavorisce quei
gruppi che non sanno o non possono legarsi ad altri. Non crea maggioranze e minoranze. Se
gli elettori frammentano il loro voto per ragioni clientelari o perché non sanno per chi votare o
perché sono disaffezionati ai partiti maggiori; se gli elettori, per il verificarsi di un caso
statisticamente quasi impossibile ma politicamente piuttosto diffuso recentemente (oltre
all’Italia anche USA, Germania, Ungheria), votano nella stessa misura per l’una e per l’altra
proposta politica, allora non c’è sistema elettorale democratico che possa tenere. E non
facciamo ironia su quest’ultima opinione, perché della legge Acerbo riproposta hanno goduto
proprio quelli che pensavano di vincere allo stesso modo con cui si ruba una caramella ad un
bambino. Se è vero che il sistema elettorale non è poi così decisivo, è altrettanto vero, però,
che esso condiziona il sistema dei partiti. Quindi, quando si parla di riforme, sempre a mio
avviso, è impossibile scindere i tre elementi: sistema elettorale, sistema di governo e sistema
partitico. I tre elementi si condizionano reciprocamente, infatti, e solo per fare un breve
esempio, quello dei partiti è influenzato tanto dal primo che dal secondo sistema. Perché tutta
questa spiegazione politologica in una tesina di storia dei partiti politici francesi? Perché mi
sembra che l’aspetto interessante che affiora da uno studio, seppur superficiale, della storia
dei partiti politici in Francia sia il modo radicale in cui il formato partitico del paese è mutato
con l’introduzione dei meccanismi presidenziali della repubblica gollista. De Gaulle non
amava i partiti, visti come fastidiosi corpi intermedi, e concepì una repubblica in cui il popolo
si potesse identificare con un capo, piuttosto che disperdersi tra tanti “capetti” che tirano
l’acqua solo al proprio mulino: per questo pensò al governo presidenziale e al sistema
uninominale. Quest’ultimo, in particolare, fondandosi sulle singole candidature, che si
definivano fin dall’inizio pro ovvero contro il capo, eliminava i partiti che, come il socialista
ed il comunista, difficilmente riuscivano a farsi degli alleati e ad aggiudicarsi così i singoli
collegi. Ciò che il Generale aveva in mente era una repubblica senza partiti e con una sola
testa; oggi, tuttavia, la Francia ha ricostruito il sistema dei partiti e lo ha fatto in modo
completamente diverso da come questo fu strutturato prima del ’58. Il merito non è del
sistema elettorale, ma del sistema elettorale e del sistema di governo considerati nel loro
insieme. Fin dalla proclamazione della terza repubblica la Francia aveva conosciuto sologoverni instabili e partiti “pazzoidi” che facevano e disfacevano accordi elettorali e
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