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125 Autorappresentanza e partecipazione locale nei centri sociali autogestiti. Milano ed il CSA Cox 18 di Andrea Membretti In questo contributo mi propongo di analizzare, in un’ottica diacronica e fortemente ancorata al contesto territoriale, le modalità con cui il rapporto tra partecipazione locale e rappresentanza è stato praticato e concettualizzato dai centri sociali autogestiti (CSA), dalla loro origine agli anni più recenti, in un’area metropolitana del nord Italia. Questa riflessione scaturisce infatti da alcune ricerche empiriche da me condotte negli ultimi anni sul fenomeno, con riferimento alla realtà milanese e in particolare ai centri sociali Cox 18 e Leoncavallo (Membretti, 1997; 2003; 2006), nonché, per la parte di ricostruzione storica, dalla rilettura di due altre indagini, realizzate un decennio fa sempre a Milano (Moroni et al., 1995; Tobia, 1995). Dopo aver inquadrato il tema a livello più generale, partendo dalle origini della partecipazione locale in Italia e considerando le principali fasi attraversate dai CSA dalla metà degli anni Settanta fino a giorni nostri, focalizzerò dunque l’attenzione sul caso del Cox 18 e specialmente su di un periodo cruciale della sua storia, risalente a circa dieci anni or sono; in quell’epoca questo attore di movimento, precedentemente radicato nel quartiere, si è trovato in conflitto con il territorio di insediamento ed ha voluto/dovuto infine affrontare alcune “prove di rappresentanza” per guadagnare una legittimazione ad agire e ad esistere che era stata messa duramente in crisi da un comitato spontaneo costituito dalla popolazione residente. Seguendo un percorso simile a quello affrontato da altri soggetti di movimento nella Milano dei primi anni ’80 (si vedano Diani, 1984, e Melucci, 1984) la soluzione faticosamente individuata ha contribuito ad alimentare un processo già in corso di trasformazione del centro sociale da soggetto che si era incanalato verso una forma di autosegregazione identitaria e relazionale, a luogo di offerta di una peculiare forma di servizio - dato dal mix tra controcultura e socialità non mercificata - aperto
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Autorappresentanza e partecipazione locale negoziata nei centri sociali autogestiti. Milano ed il CSA Cox 18

Mar 28, 2023

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Monica Bozzano
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Autorappresentanza e partecipazione locale nei centri sociali autogestiti. Milano ed il CSA Cox 18

di Andrea Membretti In questo contributo mi propongo di analizzare, in un’ottica diacronica e

fortemente ancorata al contesto territoriale, le modalità con cui il rapporto tra partecipazione locale e rappresentanza è stato praticato e concettualizzato dai centri sociali autogestiti (CSA), dalla loro origine agli anni più recenti, in un’area metropolitana del nord Italia. Questa riflessione scaturisce infatti da alcune ricerche empiriche da me condotte negli ultimi anni sul fenomeno, con riferimento alla realtà milanese e in particolare ai centri sociali Cox 18 e Leoncavallo (Membretti, 1997; 2003; 2006), nonché, per la parte di ricostruzione storica, dalla rilettura di due altre indagini, realizzate un decennio fa sempre a Milano (Moroni et al., 1995; Tobia, 1995).

Dopo aver inquadrato il tema a livello più generale, partendo dalle origini della partecipazione locale in Italia e considerando le principali fasi attraversate dai CSA dalla metà degli anni Settanta fino a giorni nostri, focalizzerò dunque l’attenzione sul caso del Cox 18 e specialmente su di un periodo cruciale della sua storia, risalente a circa dieci anni or sono; in quell’epoca questo attore di movimento, precedentemente radicato nel quartiere, si è trovato in conflitto con il territorio di insediamento ed ha voluto/dovuto infine affrontare alcune “prove di rappresentanza” per guadagnare una legittimazione ad agire e ad esistere che era stata messa duramente in crisi da un comitato spontaneo costituito dalla popolazione residente. Seguendo un percorso simile a quello affrontato da altri soggetti di movimento nella Milano dei primi anni ’80 (si vedano Diani, 1984, e Melucci, 1984) la soluzione faticosamente individuata ha contribuito ad alimentare un processo già in corso di trasformazione del centro sociale da soggetto che si era incanalato verso una forma di autosegregazione identitaria e relazionale, a luogo di offerta di una peculiare forma di servizio - dato dal mix tra controcultura e socialità non mercificata - aperto

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alla città e al territorio. L’esito di questo processo sarà inoltre costituito da un rovesciamento della precedente concezione del rapporto tra centro sociale e territorio: se in origine il CSA si percepiva come – e in buona misura era – espressione del contesto locale (e quindi forma particolare della partecipazione diretta), in seguito esso dovrà negoziare con il proprio quartiere una legittimazione ad agire sul territorio che assumerà sempre più i tratti di un riconoscimento1 del diritto di esistere, come entità autonoma e non conflittuale. Anche quando questa relazione dialettica prenderà temporaneamente la forma di una attribuzione di rappresentanza, non si ricomporrà comunque quel nesso tra centro sociale e territorio tipico degli anni Settanta: piuttosto il rapporto si configurerà come uno scambio tra prestazioni e riconoscimento, dove le azioni in difesa degli interessi locali diverranno campo di incontro tra realtà che resteranno anche in seguito distinte. L’ottica che verrà ad assumere la relazione sarà dunque, come cercherò di argomentare, quella di una partecipazione locale negoziata.

Se a livello strettamente locale il tema della rappresentanza verrà dunque declinato secondo un approccio molto pragmatista, esso tuttavia assumerà ben altre connotazioni su scala sovra-locale e globale. Infatti, parzialmente “sganciati” dal territorio di insediamento, e comunque con esso in rapporti di negoziazione, i CSA degli anni Novanta e Duemila tendono comunque, nonostante l’enfasi tradizionale su autonomia ed autogestione, a parlare ed agire “ a nome di”, ma oggi sul piano innanzitutto simbolico e culturale. Permane infatti nei centri sociali la tensione tra rifiuto del principio della delega e pratica di una autorganizzazione che mira, nei fatti e nei linguaggi, a costituire un riferimento (una rappresentanza informale) per ampie fasce di portatori di interessi a livello ormai globale: il rapporto tra partecipazione e rappresentanza resta dunque per i CSA un tema fondamentale, anche se il campo – spesso territoriale e localizzato - su cui la rappresentanza informale viene “provata” tende sempre più a rimandare ad interessi e a sistemi di significato che lo trascendono, rendendo così difficile valutare la corrispondenza tra azioni specifiche di tutela/promozione sociale e consenso da parte di quei soggetti che sono i presunti interessati.

1. La partecipazione locale in Italia: democrazia rappresentativa e

pratiche di autorappresentanza Per analizzare il tema della rappresentanza nel caso dei centri sociali

autogestiti è necessario innanzitutto tracciare un quadro di riferimento più 1 Per riconoscimento intendo qui un processo di validazione individuale e collettiva che

prende le mosse dall’attribuzione all’altro dello status di soggetto titolato ad agire, e prima ancora ad esistere, in relazione ad un dato contesto sociale, come portatore di diritti e di doveri connessi ad una sfera di reciprocità. Si veda anche Taylor e Habermas, 1998.

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generale, costituito dall’evolversi della partecipazione locale in Italia dagli anni Sessanta ad oggi (Membretti, 2005). Questo percorso può essere letto come la storia di due approcci tra loro molto diversi al tema della rappresentanza degli interessi collettivi, riconducibili, con una certa semplificazione, alla tradizionale distinzione tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta.

La prima ondata di partecipazione locale vede un approccio alla questione di tipo istituzionale e decisamente di natura “integrazionista” (Mela, 1996): nel periodo del boom economico, infatti, la crescita del benessere diffuso si accompagna al permanere di sacche consistenti di marginalità sociale, a partire dalle aree metropolitane del Nord, che appaiono interessate da rapidi e selvaggi processi di urbanizzazione, fondati in gran parte sui flussi migratori provenienti dal Sud del Paese. Focalizzando l’attenzione sulle periferie cittadine e sui loro abitanti, i primi interventi nel settore sono gestiti dall’alto, a livello politico-istituzionale, con la finalità dichiarata di integrare gli strati a rischio di esclusione sociale e di socializzarne i membri rispetto al quadro di valori dominante nel sistema socio-culturale dell’epoca. I meccanismi della democrazia rappresentativa vengono indicati come idonei al coinvolgimento attivo delle popolazioni urbane, anche su scala locale, così come altrettanta enfasi è posta sulle politiche culturali di base, coincidenti spesso con una socializzazione secondaria dai tratti di risocializzazione (è il caso del proletariato di origini contadine, risocializzato alla vita urbana).

Intesa dunque la città come un’organizzazione socio-spaziale sostanzialmente coerente – o perlomeno da ricondurre ad una propria coerenza interna1 – queste prime esperienze di partecipazione top-down vedono come un tutt’uno la ricomposizione dei diversi territori urbani in un sistema integrato (nell’alveo della pianificazione territoriale di tipo razional-comprensivo) e la parallela integrazione delle classi sociali marginali in una società coesa, nella direzione di progressivi e sostanzialmente unidirezionali aggiustamenti strutturali: si tratta pertanto di un approccio di matrice chiaramente funzionalista, centrato sulla condivisione – effettiva o presunta – di un set di valori correlato ad una determinata idea di sviluppo, ovvero quella di stampo fordista-keynesiano.

Gli stessi partiti storici della sinistra, a partire dall’opera capillare delle sezioni sul territorio, tendono, anche se con un orizzonte di mutamento sociale di tipo riformatore, a condividere questo approccio di fondo alla partecipazione: l’obiettivo di una progressiva integrazione delle masse nel sistema socio-economico attraverso la partecipazione istituzionale – anche tramite i ricorso a pratiche di “quasi-conflitto” (Guidicini, 1998) - è infatti

1Le Galès (2002) parla a questo proposito di città come “società incomplete”.

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ampiamente sostenuto pure su questo versante politico (così come, per altri versi ancora e per certi aspetti, su parte di quello cattolico: si veda ad esempio Tosi, Vitale, 2005). Le numerose associazioni (culturali, ricreative, sportive, ..) che vengono costituite già nel secondo dopoguerra nel campo socialista e comunista rappresentano altrettanti tasselli di una politica partecipativa incentrata sulla democrazia rappresentativa ad ogni livello, su di un complesso e diversificato sistema di gerarchie (all’interno degli ambiti di partecipazione e rispetto all’ordinamento tra di essi), su procedure formalizzate di espressione e di decisione che sostanziavano la natura istituzionale di questi soggetti collettivi.

Sul finire degli anni Sessanta, però, e in modo crescente durante gli anni Settanta, si fa strada un’altra idea di partecipazione, più radicale e di tipo conflittualista, che in parte si affianca e in parte soppianta gli approcci precedenti: quelli che sono stati definiti come “nuovi movimenti” sociali (Diani, 1984; Habermas, 1981; Melucci, 1984), nati spesso in seno alla sinistra extra-parlamentare, si configurano infatti come soggetti prevalentemente urbani-metropolitani che rivendicano dal basso una partecipazione non più istituzionale e tendenzialmente gerarchizzata, ma al contrario informale, orizzontale, basata sulla democrazia diretta e quindi su quella che possiamo definire come una autorappresentanza degli interessi, a partire dal territorio1. Sono modalità partecipative che si muovono su di un orizzonte di cambiamento radicale della società e della città, opposto tanto alle logiche funzionaliste quanto a quelle riformiste: il fulcro della partecipazione viene dunque individuato ancora e in modo più netto nel conflitto tra le classi sociali, che viene però declinato anche come conflitto (che lascia nei fatti poco spazio alla mediazione) tra territori del benessere e territori della marginalità, tra un centro da cui i ceti popolari vengono espulsi e delle periferie che si configurano spesso come ghetti.

Il territorio urbano, ovvero la città nel suo complesso e nella sua scomposizione in quartieri, ma anche gli spazi fisici su scala più ridotta (a partire dalle ex aree industriali dismesse), diventano i campi di confronto per istanze sociali e politiche che mirano in molti casi alla costruzione di quello che verrà definito come “contropotere territoriale”. La partecipazione, così intesa, viene declinata secondo l’asserto gramsciano dell’“agire localmente, pensando globalmente”, di stampo non riformatore ma piuttosto rivoluzionario, fortemente connotato dal punto di vista ideologico; mentre entra in crisi la centralità socio-economica e territoriale della fabbrica fordista, gli ambiti principali in cui questo agire si estrinseca

1 Habermas (1981:33; in Ruggiero, V.) definisce i nuovi movimenti sociali come quei

soggetti collettivi che hanno a che fare con conflitti che “deviano dal modello, tipico del welfare-state, di conflitto istituzionalizzato sulla distribuzione delle risorse” riguardando piuttosto elementi quali la qualità della vita, l’autorealizzazione, la costruzione delle identità, l’espressione delle potenzialità individuali e la comunicazione.

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sono la questione abitativa, i servizi socio-culturali di quartiere e la socialità.

In seno a questo ampio e diversificato movimento sono proprio i centri sociali autogestiti (CSA) a costituire, dalla metà degli anni Settanta, uno degli esperimenti più emblematici di auto-organizzazione della partecipazione locale di tipo conflittuale (Ruggiero, 2000). Alla base del loro agire di tipo autorappresentativo vi sono essenzialmente due motivazioni: innanzitutto le istituzioni delle democrazia rappresentativa, anche laddove rinnovate attraverso la sperimentazione di processi top-down di attivazione della partecipazione, vengono ritenute, per natura intrinseca e per degenerazione burocratica, inadeguate a raccogliere e a trasmettere ai livelli superiori le istanze espresse dal quartiere. In secondo luogo, anche quando le istituzioni locali mettono in campo delle politiche partecipative, esse sono considerate in ogni caso come di natura dichiaratamente integrazionista, ovvero finalizzate a creare consenso tra la popolazione urbana rispetto al sistema socio-economico dominante, a tutto svantaggio della classe operaia e dei ceti più deboli, le cui aspirazioni alla trasformazione sociale vengono così incanalate in modo inoffensivo. Al contrario, le pratiche di autorappresentanza promosse dai CSA assumono un carattere tendenzialmente conflittualista, sia perché rifiutano i percorsi di partecipazione offerti dalle istituzioni, sia soprattutto per la loro concezione della partecipazione locale come “campo per la rivoluzione”, ovvero come occasione per trasformare radicalmente l’ordine esistente.

2. Il percorso dei centri sociali autogestiti milanesi: radicamento,

conflitto e negoziazione con il territorio I primi centri sociali autogestiti di Milano nascono alla metà degli anni

Settanta come forme di partecipazione locale bottom-up, basate sull’autorganizzazione e sull’autonomia dalle istituzioni territoriali (politiche, sociali, culturali): la pratica decisionale dell’autogestione evidenzia fin da subito l’enfasi che questi attori pongono sulla democrazia diretta, intesa come antidoto alla burocratizzazione e alla perdita di controllo dal basso che veniva imputata alle istituzioni rappresentative locali.

I CSA si inseriscono nel solco della partecipazione di tipo conflittuale caratteristica dei “nuovi movimenti” urbani, attribuendo una fondamentale importanza alla dimensione spaziale e territoriale, a partire dal quartiere di insediamento e dall’edificio da essi (abusivamente, e quindi tramite un conflitto manifesto con le istituzioni) occupato1. Sono soggetti che si

1 I primi centri sociali che nascono a Milano, non a caso, assumono tutti il nome della

via in cui si collocano, a rimarcare il carattere territoriale – potremmo dire “situato” - e di quartiere dell’occupazione.

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percepiscono – e in buona misura sono percepiti dall’ambiente in cui operano – come espressione del quartiere, dei suoi bisogni, delle lotte sociali sul territorio che in esso si vanno svolgendo (da quelle per la casa, a quelle per i servizi, fino a quelle contro il precariato e la dismissione delle fabbriche). Pertanto la questione della rappresentanza degli interessi locali non viene da essi tematizzata in termini, per l’appunto, rappresentativi: al contrario, è proprio l’inadeguatezza che viene attribuita agli istituti della democrazia rappresentativa – anche rispetto alle realtà territoriali di stampo riformatore, come le sedi dei partiti storici della sinistra o i comitati di quartiere – a giustificare la presa in carico, dal basso e in modo informale, di interessi altrimenti non tutelati.

Nel clima socio-culturale e nei contesti territoriali periferici della Milano della seconda metà degli anni Settanta si riscontra un’ampia e diffusa legittimazione locale rispetto al fenomeno dei centri sociali autogestiti: è evidente infatti una corrispondenza per quanto riguarda il rapporto tra le istanze avanzate dai CSA (a partire dal diritto da essi rivendicato all’occupazione abusiva degli edifici dismessi) e gli orientamenti e le visioni della realtà diffusi tra gli abitanti dei quartieri – perlopiù operai e popolari – in cui le occupazioni avevano luogo. Il riconoscimento in un comune orizzonte di pratiche e di valori rende nei fatti possibile che le forme di autorappresentanza messe in atto dai CSA corrispondano ad una specie di rappresentanza informale – di natura innanzitutto simbolico-culturale - degli interessi generali e delle idee di società diffuse in vasti strati della popolazione residente nei quartieri in questione.

Tuttavia l’esperienza dei CSA contiene in nuce, fin dal suo sorgere, un carattere bivalente per quanto riguarda il rapporto con il contesto locale in cui operano: infatti i centri sociali mentre da un lato rivendicano il proprio carattere territoriale e per l’appunto di rappresentanza informale delle istanze di quartiere, dall’altro lato sottolineano la diversità che li distanzia (anche) dalla società locale, una diversità sia culturale e identitaria, che basata sulla loro extra-località (o trans-località), e cioè sui legami da essi stabiliti con altre realtà socio-culturali a livello metropolitano, nazionale e internazionale. L’enfasi da essi posta sul prefisso “auto” (auto-gestione, auto-organizzazione, auto-nomia, auto-produzione culturale, …), unitamente alla focalizzazione sull’edificio occupato e sulle attività in esso organizzate, favoriscono fin da subito una (auto)rappresentazione del centro sociale come “spazio liberato”, come “isola di autogoverno” e, in definitiva, come luogo “dentro” al quartiere, ma le cui pratiche alludono chiaramente ad un “fuori”, ovvero ad un’altra idea di società, autonoma e conflittuale rispetto a quella dominante.

Su questa distanza, che diverrà in seguito separazione, si baseranno in gran parte i processi di costruzione identitaria dei CSA, soprattutto durante gli anni Ottanta. L’autorganizzazione sociale sul territorio assumerà infatti

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nel tempo la forma ideologica della rivendicazione di una autonomia di classe, vista come l’unica strada per la costruzione di un processo rivoluzionario nel capitalismo maturo, a partire dall’affermazione di un “contropotere territoriale”: è il caso dei CSA che più si rifanno alle posizioni dell’area di Autonomia Operaia, e che in qualche modo si sentono di rappresentare – almeno simbolicamente – gli interessi della classe lavoratrice (se non altro in termini avanguardisti). Oppure – è il caso dei CSA legati all’area anarco-libertaria e punk - l’autorganizzazione si configurerà piuttosto come una “separazione esistenziale”1 dalla società capitalistica che è anche una separazione fisica, ovvero come la creazione di isole di socialità e di controcultura autonome e rappresentanti solo se stesse, la cui diffusione sul territorio è intesa come processo di costruzione identitaria e di conflitto culturale rispetto all’ambiente circostante.

Gli anni Ottanta segnano la fine di quel clima politico, sociale e culturale che aveva reso possibile un diffuso riconoscimento ed un certo consenso verso forme di partecipazione peculiari come i CSA: l’accento da questi ultimi posto, fin dalle origini, sull’autonomia contribuirà nei fatti ad una loro marginalizzazione rispetto al territorio. Si verifica difatti un progressivo e drammatico distacco (che diverrà poi, in svariate occasioni, aperto conflitto) tra l’autorappresentanza dei CSA e le istanze – anch’esse spesso prive di rappresentanza istituzionale e a volte coagulate nei comitati dei cittadini – che va esprimendo la nuova composizione sociale post-industriale e post-operaia di una città ormai avviata verso la terziarizzazione avanzata. Nei quartieri un tempo semi-periferici (un caso emblematico è quello del Ticinese, già luogo della “mala” e del sotto-proletariato urbano) sottoposti alla pressione della gentrification, dove muta la struttura di classe e il territorio inizia ad essere oggetto di radicali trasformazioni urbanistiche, i CSA diventano sempre più dei corpi estranei: le forme della socialità, della cultura, della politica e dell’abitare espresse da questi soggetti divergono in modo crescente da quelle di una popolazione residente ormai disomogenea, spesso proveniente da altre aree della città e alla ricerca innanzitutto di sicurezza e di tranquillità sociale.

Facendo leva su queste dinamiche e sulla già evidenziata bivalenza del rapporto CSA-territorio, si fa strada allora da un lato la logica della separazione (tematizzata soprattutto dei centri sociali di area anarco-libertaria e punk, ma ad un certo momento caratteristica di fatto di tutti i CSA milanesi, compresi quelli di ispirazione marxista-leninista; si veda Montagna, in questo volume) mentre dall’altro lato, sul versante istituzionale e su quello delle dinamiche che interessano i residenti, avanza la logica dell’espulsione: questo doppio movimento involutivo accrescerà

1Derivo il concetto di “separazione esistenziale” dalle conversazioni sul tema che ho

avuto la fortuna di avere in passato con Primo Moroni. Si veda anche Balestrini e Moroni (1988).

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la distanza tra CSA e territorio e comporterà per circa un decennio la marginalità sociale di attori che verranno percepiti, da larghissima parte della popolazione urbana, come rappresentanti una visione di città e di politica ormai considerata come residuale e legata ai tramontati anni Settanta.

In presenza di queste dinamiche e a fronte del diffondersi di processi di privatizzazione dello spazio locale – sia in termini urbanistici, sia parallelamente in termini culturali e di orientamento valoriale degli abitanti – i centri sociali autogestiti si trovano dunque in un rapporto con il territorio sostanzialmente conflittuale: degli oltre 150 comitati censiti dall’AASTER1 a Milano nel decennio 1985-1995, numerosi sono sorti per protestare (solo o anche) contro il disturbo arrecato dal locale CSA o per chiederne lo sgombero, attivandosi tramite raccolte di firme, petizioni, manifestazioni, fino ai blocchi stradali. In questo senso, come argomenta Della Porta (2005), i CSA hanno per certi aspetti favorito l'emersione di peculiari pratiche partecipative dei cittadini che possono essere definite come “contromovimenti”.

Gli anni Ottanta vedono pertanto un continuo acuirsi del processo di separazione tra i centri sociali ed il contesto locale, in quello che si può descrivere come un parallelo percorso di chiusura autoreferenziale nella dimensione micro-spaziale, rappresentata nel caso dei cittadini dalla sfera domestica (su questo periodo di massimo riflusso dalla partecipazione alla vita pubblica si veda, ad esempio, Millefiorini, 2002)) e, nel caso degli attivisti, dall’edificio occupato: l’autorappresentanza degli interessi diviene, per i CSA, sempre più coincidente con l’affermazione del diritto alla diversità, ovvero del diritto ad uno spazio separato dove costruire e preservare forme identitarie e di socialità in buona misura aliene dal contesto locale e dalle sue trasformazioni.

Alla fine degli anni Ottanta gli sgomberi violenti ad opera delle forze dell’ordine subiti da diversi centri sociali milanesi (tra cui quelli del Leoncavallo e del Cox 18 nel 1989) evidenziano la volontà delle istituzioni rappresentative (il Comune innanzitutto, ma in una certa misura anche i Consigli di Zona) di cancellare fisicamente i luoghi autogestiti dalla mappa della città. Tuttavia, nello stesso periodo in cui la crisi dei CSA raggiunge l’apice, una nuova composizione di bisogni socio-culturali e di iniziativa politica si inizia a delineare, questa volta decisamente su scala urbana e anche extra-urbana, a partire dal movimento pacifista e contro il nucleare, dalle nascenti forme dell’autorganizzazione sindacale, ma soprattutto trovando forma e coagulo nel movimento studentesco, quello delle scuole nel 1985 e soprattutto quello universitario (la Pantera) nel 1990:

1 I rapporti di ricerca del Consorzio di Ricerca AASTER di Milano, diretto da Aldo

Bonomi, sono reperibili sul sito: http://www.aaster.it/archivio_progetti.htm

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quest’ultimo, sorto contro una riforma dell’università intesa come anticamera della privatizzazione, troverà proprio nei centri sociali un luogo privilegiato di incontro e un interlocutore – anche se in una dialettica inizialmente non priva di conflitti - per l’azione politica e, soprattutto, culturale, alla ricerca di quel “bene scarso” costituito da una socialità non mercificata. Non solo: saranno diversi i CSA occupati ex novo nei primissimi anni Novanta da gruppi composti anche o solo da studenti universitari, spesso in una parziale discontinuità (soprattutto a livello ideologico) con le esperienze storiche dell’autogestione, pur rifacendosi ad esse dal punto di vista simbolico1.

Le dinamiche della prima metà degli anni Novanta evidenziano dunque da un lato una rinnovata spinta, soprattutto giovanile e studentesca, verso la partecipazione sociale su scala (anche) territoriale, nell’ottica ancora una volta dell’autorappresentanza degli interessi a partire dall’autogestione degli spazi, mentre dall’altro lato si manifesta un nuovo processo di attribuzione informale di rappresentanza proprio ai centri sociali, su scala molto più ampia che in passato e che va ad interessare una pluralità di soggetti non direttamente coinvolti nelle pratiche di movimento.

A livello milanese, il caso del Cox 18, che andrò di seguito a considerare, consente di operare una riflessione su come i CSA (o perlomeno una parte di essi), nel loro rispondere a bisogni di natura sia simbolico-identitaria che culturale e relazionale, si siano trovati, in principio quasi senza volerlo, a costituire degli spazi di riferimento a livello metropolitano per una variegata moltitudine di individui che in essi riconoscono in buona misura degli “erogatori” di particolari “servizi” (Membretti, 1997; 2003, 2005. L’offerta di socialità e di cultura non mercificate, che possono essere “fruite” all’interno di ambiti spaziali a valenza simbolica anti o extra sistemica2, diventa dunque il principale canale di ri-legittimazione di questi attori anche al di fuori della cerchia tradizionale (e ormai ristretta) di riferimento: la relazione di servizio così attivata diviene allora, in una certa misura, un forma di rappresentanza di interessi diffusi, in un’ottica non lontana dall’advocacy (Manconi, 1990).

E’ proprio sulla base di questo ricostituito e ampliato capitale di ri-legittimazione, frutto di dinamiche in gran parte metropolitane o anche nazionali, che i CSA si troveranno quindi a rapportarsi, nel corso degli anni

1 Le stesse occupazioni delle sedi universitarie, elemento caratterizzante del movimento

della Pantera, si rifacevano per molti aspetti alle pratiche e alle culture dell’autorganizzazione sviluppatesi proprio nei CSA. Sulle organizzazioni di movimento come 'dorsale' di mobilitazioni successive, in quanto soggetti che rimangono attivi e capaci di costruire iniziative e aggregazione anche nelle fasi di latenza, si veda il contributo di della Porta e Mosca (2005).

2 A questo proposito Melucci (1996) parlava dei movimenti come “attori capaci di sfidare i limiti di compatibilità del sistema”.

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Novanta, con lo specifico territorio di insediamento e con la popolazione in esso residente. Il quartiere, l’isolato, la via in cui è situato il centro sociale diventano il campo su cui sperimentare una convivenza le cui modalità si muovono su di un continuum di posizioni che variano dalla conflittualità endemica, all’indifferenza, alla tolleranza, fino al mutuo riconoscimento e, in rari casi (è quello del Cox 18), alla cooperazione su tematiche locali, nella direzione di una (momentanea) attribuzione di rappresentanza. Nel contesto milanese l’analisi di questi processi di negoziazione mette in luce comunque come i CSA siano divenuti, soprattutto nel corso dell’ultimo decennio, degli attori metropolitani, con legami a livello nazionale e internazionale, il cui rapporto con il territorio di insediamento – e quindi con il tema della partecipazione locale in senso stretto – appare oggi in molti casi rovesciato rispetto alle origini del fenomeno dell’autogestione: laddove infatti il centro sociale non risulta più espressione diretta delle istanze locali (le quali comunque faticano a trovare un coagulo, al di là della protesta difensiva e dell’attivazione sporadica), la sua presenza nel quartiere deve essere per l’appunto legittimata. Poiché a questo scopo non sembra bastare il riconoscimento di cui il CSA può godere su scala metropolitana e da parte di determinate categorie sociali, la costruzione della legittimazione locale (laddove ricercata) tenderà ad avvenire attraverso un mix tra riduzione del disturbo alla quiete pubblica, organizzazione di eventi e di attività che possano interessare la popolazione della zona, in certi rari casi, costruzione di iniziative congiunte per la qualità della vita e per la tutela del territorio in questione: solo in quest’ultimo caso, che tratterò rispetto al Cox 18, ritengo che si possa parlare di “prove concrete di rappresentanza” affrontate da questi attori, anche se in un’ottica di scambio piuttosto che di identità di interessi.

3. Cox 18: la rappresentanza di interessi locali “comuni” come esito di

una negoziazione tra collettività distinte Cox 18 è uno dei primissimi luoghi autogestiti milanesi, con 30 anni di

storia alle spalle: l’occupazione dello stabile di via Conchetta 18 (un edificio di tre piani, di proprietà privata) nasce infatti nel 1976, in quello che era allora un quartiere popolare di Milano, il Ticinese, caratterizzato da un’elevata presenza di sedi politiche e di gruppi extra-parlamentari. Sul versante politico, gli occupanti si ricollegano ad un’area che si autodefiniva “libertaria”, ovvero di ispirazione anarchica, ma non legata ai circoli tradizionali milanesi, quali quello storico del Ponte della Ghisolfa. E’ un’occupazione che si inserisce nell’alveo di un vasto movimento urbano per il diritto alla casa, in un clima socio-politico e culturale sostanzialmente favorevole a questo tipo di rivendicazioni e di azioni, nei fatti non solo tollerate ma in qualche misura riconosciute anche dal punto di vista

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istituzionale, sulla base della Legge 167 in tutela del diritto in questione. L’azione costituisce pertanto una forma radicale di autorappresentanza degli interessi, che tuttavia risulta in sintonia con gli orientamenti di valore diffusi tra una parte considerevole della popolazione, sia nel territorio circostante che a livello metropolitano. Gli occupanti non hanno la necessità di guadagnarsi legittimità e riconoscimento dal quartiere, dal momento che, informalmente, essi stessi rappresentano e tutelano in qualche modo l’interesse collettivo costituito dalla bene-casa: l’appropriazione dell’immobile abbandonato è a tutti gli effetti, nel contempo, una forma di partecipazione locale dal basso, nel momento in cui la risposta al bisogno abitativo non viene delegata alle istituzioni, ma viene autorganizzata dai suoi stessi portatori.

Per circa un decennio, dopo che lo stabile era stato rilevato da parte del Comune, gli occupanti (famiglie sfrattate, studenti, lavoratori immigrati dal Sud Italia) continuano a risiedere e ad agire in quello che si configura sia come uno spazio abitativo (composto da diversi appartamenti), sia come uno spazio autogestito di partecipazione sociale e politica, aperto all’esterno, su scala di quartiere e anche urbana (per le attività pubbliche venivano usati i negozi vuoti, situati a piano terra sul fronte strada). Questa commistione tra abitazioni e spazi sociali si concluderà intorno al 1985/1986, al termine di un progressivo ricollocamento degli inquilini occupanti in altri stabili reperiti dal Comune, dal momento che quello di via Conchetta era stato dichiarato dagli uffici tecnici in pessime condizioni strutturali.

La rifondazione del centro sociale, con prenderà in seguito il nome di Cox 18, avviene dunque nel 1988, in una discontinuità manifesta rispetto alla situazione precedente, per quanto riguarda sia i nuovi occupanti, non più espressione del ciclo di lotte sociali sul territorio legato al ’68-‘77, sia la configurazione sociale ed urbanistica del quartiere, in fase di profonda trasformazione. Il collettivo di gestione del CSA è costituito infatti da soggetti provenienti in buona parte dal movimento punk1 e in una certa misura anche dal nascente sindacalismo di base, con particolare riferimento agli autorganizzati del settore ospedaliero (che daranno quindi vita all’Unione Sindacale Italiana)2. Inoltre un terzo soggetto, che rivestirà un

1 Nel contesto milanese l’etichetta “punk”, di matrice inglese e legata all’omonimo

movimento culturale, verrà trasformata dai soggetti in questione in quella di “punx”. 2 Alla fine degli anni anni Settanta (1978/17979) si sviluppò in Italia un ciclo di lotte

sindacali all’interno del settore dei servizi, con particolare riferimento proprio al ramo degli ospedalieri, dove si andava diffondendo il sindacalismo di base, autonomo da quello tradizionale e fortemente critico con esso. A Milano la contaminazione tra autorganizzati e movimento punk fu particolarmente significativa, proprio a partire dai centri sociali autogestiti quali il Cox 18, il Torricelli, il Virus, sulla base di una comune attenzione al territorio e al precariato sociale, data la crescente crisi della centralità operaia, caratteristica dei decenni precedenti.

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ruolo molto rilevante nel futuro del centro, è la Calusca, storica libreria libertaria del Ticinese1 che, come vedremo, si stabilirà più tardi proprio nello stabile occupato. Questi soggetti vengono ad insediarsi in un quartiere che sta ormai velocemente perdendo la propria connotazione popolare, per trasformarsi nella zona alla moda che è tutt’ora, caratterizzata da una diffusissima presenza di locali serali (quello che oggi è stato definito il “distretto dei divertimenti” milanese, che sorge sulla rete preesistente di bar e trattorie a buon mercato, in diversi casi aperte da ex militanti della sinistra extra-parlamentare) e da un processo di gentrification molto forte, che porterà in pochi anni la composizione sociale a mutare radicalmente, nella direzione di una forte presenza di professionisti e di lavoratori della conoscenza e di una progressiva espulsione dei ceti tradizionalmente residenti (operai, pensionati, artigiani, etc.).

I nuovi occupanti del Cox 18 non solo non possono più contare sul passato radicamento territoriale e sulla solidarietà nel quartiere, ma anzi, in controtendenza rispetto alle dinamiche locali sopra descritte, rivendicano apertamente il carattere di forte diversità dell’occupazione nei confronti del mutato ambiente locale e metropolitano: è una diversità che si estrinseca in rapporto all’uso sociale degli spazi urbani e ai valori proposti, antitetici alla mercificazione delle relazioni sociali. In un Ticinese in piena crisi da riflusso rispetto alla partecipazione sociale, il CSA si trova pertanto nei fatti a rappresentare solo se stesso e la categoria peculiare dei suoi attivisti/frequentatori (giovani, spesso di zone periferiche, in gran parte punk). Tuttavia, mentre pongono le basi per un processo di separazione dal territorio e dai suoi stili di vita che tenderà verso l’auto-segregazione, gli occupanti fin da subito rivendicano un ruolo di utilità sociale e locale per il centro, identificato come spazio di libera e gratuita aggregazione e come avamposto non istituzionale della lotta all’eroina: socialità non mercificata e allontanamento dello spaccio di stupefacenti sono ritenuti bisogni importanti del quartiere2 ma, mentre il tema della socialità in realtà non sembra essere una priorità per la maggioranza dei nuovi residenti, quello dello spaccio viene perlopiù da questi declinato in termini di richiesta di sicurezza e non di prevenzione del rischio e di aiuto ai tossicodipendenti. La ricerca – per certi aspetti ritualistica - di una nuova base di

1 La libreria Calusca era stata fondata negli anni Settanta da Primo Moroni, studioso di

movimenti sociali e attivista culturale milanese, divenendo negli anni un punto di riferimento per le tendenze controculturali metropolitane e un luogo di incontro per gli esponenti di diversi gruppi e collettivi politici.

2 In uno dei volantini distribuiti dagli occupanti in seguito al futuro sgombero del centro sociale si legge: <<Che cos’era Cox 18 per noi? Innanzitutto un’area liberata dall’eroina (…) ma non solo, era uno spazio di aggregazione, comunicazione e autogestione dei nostri bisogni (…) Tutte queste iniziative avevano come unico valore lo stare insieme che ci era diventato impossibile fare nei cosiddetti locali alternativi del Ticinese che (…) altro non sono che l’esaltazione della logica commercial-affaristica e clienteral-politica.>>

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legittimazione, nel solco della rappresentanza informale degli interessi già tipica della fase storica precedente, non sembra dunque andare a buon fine, perlomeno per il primo periodo del “nuovo corso”: la tendenza all’isolamento, di conseguenza, si fa più forte, nella direzione di un processo di costruzione identitaria dai tratti di marginalizzazione.

Fin da subito la nuova occupazione incontra dunque l’ostilità non tanto dell’intero quartiere, quanto piuttosto, su scala micro-territoriale, dell’isolato e soprattutto della via in cui è situato il centro sociale. Le posizioni dei residenti variano su di un continuum che va dalle lamentele per il disturbo notturno della quiete pubblica (via Conchetta è una strada molto stretta e il piano terra del CSA è costituito da negozi – usati come spazi sociali - che si aprono direttamente sul marciapiede) alla convinzione che il luogo sia di fatto un ritrovo di tossicodipendenti e di individui “diversi”, sostanzialmente pericolosi per la collettività. I residenti dunque si muovono subito, prima in modo sparso, con denunce ed esposti, quindi in maniera più organizzata, raccogliendo circa 1.500 firme in appoggio alla richiesta di sgombero del centro sociale.

Sulla spinta di queste pressioni, e in un clima politico mutato anche a livello istituzionale, il centro sociale viene dunque sgomberato agli inizi del 1989, con la motivazione della fatiscenza dello stabile e con la promessa di una sua ristrutturazione da parte del Comune e di una sua futura riassegnazione agli occupanti (ma solo parziale, insieme ad un centro anziani e comunque non per svolgere concerti), previa stipulazione di un regolare contratto d’affitto. Passano dunque alcuni mesi senza che i lavori procedano (se non per quanto riguarda la demolizione dei piani superiori), mentre si delinea sempre più nettamente la posizione della Giunta milanese guidata dal Sindaco socialista Pillitteri, non intenzionata in alcun modo a riconoscere né a tollerare la pratica dell’occupazione abusiva e dell’autogestione. Lo stabile (ridotto al solo piano terra) viene allora nuovamente occupato dal collettivo del Cox 18, quindi violentemente sgomberato dalle forze dell’ordine; infine ancora una volta gli occupanti ne prendono possesso, che si protrarrà in modo ininterrotto fino ad oggi.

A seguito di questa sequela di eventi, durata quasi un anno, e in un equilibrio che appare ancora precario rispetto alla propria sopravvivenza, il collettivo di gestione del centro sociale deve prendere atto di alcuni elementi di riflessione fondamentali, inerenti, in modo più o meno diretto, al nesso tra partecipazione locale e rappresentanza. Innanzitutto il Cox 18 non ha saputo/potuto rappresentare gli interessi locali del quartiere e della via per una chiara e netta divergenza tra la richiesta di quiete, sicurezza e qualità della vita espressa dagli abitanti e la creazione di rumore e di insicurezza legate alla frequentazione del centro sociale, in gran parte notturna e soprattutto da parte di punk e in genere di persone dallo stile di vita e dall’aspetto esteriore ritenuti poco “rassicuranti” dai residenti della

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zona1. In secondo luogo, è evidente che lo scollamento tra il Ticinese, ormai divenuto il “distretto dei divertimenti” di Milano, e il luogo autogestito rimanda ad una più ampia e generalizzata crisi della partecipazione sociale all’interno di una profonda trasformazione del quadro urbano, agli inizi di un periodo che sarà per l’appunto definito di riflusso e di chiusura nella sfera privata. Un terzo elemento, infine, correlato ai primi due, è costituito dal venir meno di quella legittimazione socio-culturale di cui godevano le pratiche di occupazione e di autogestione, non solo rispetto alla popolazione, ma anche a livello istituzionale, dove invece si era riscontrata negli anni precedenti una tolleranza diffusa del fenomeno.

Gli elementi appena considerati rappresentano indubbiamente un forte limite per l’azione del centro sociale e una diretta minaccia alla sua futura sopravvivenza; tuttavia, come si evidenziava nel paragrafo precedente, il culmine della sua crisi coincide anche con l’emergere, a livello metropolitano, di un insieme di bisogni e di istanze socio-culturali che iniziano a delinearsi come una risorsa, almeno potenziale. Infatti si assiste, tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, ad una crescente richiesta, a livello soprattutto giovanile, di socialità e di cultura non mercificate, che siano “autoprodotte” e “fruibili” al di fuori del circuito dei locali commerciali e nel contempo che si caratterizzino per valenze alternative, almeno a livello simbolico-espressivo, rispetto al sistema di valori e di pratiche dominante (in quest’ottica la produzione musicale e artistica in genere rivestirà un ruolo fondamentale). Come per gli altri CSA milanesi , il Cox 18 si trova, sostanzialmente senza averlo voluto, a costituire una possibile risposta a questi bisogni, espressi da categorie sociali non omogenee e, soprattutto, in gran parte lontane, per appartenenza di classe e per stili di vita, dai tradizionali frequentatori dei luoghi autogestiti. Si tratta però di un bacino di potenziali frequentatori che per un verso non si caratterizzano per appartenenze di tipo ideologico né per un rapporto organico con la sfera dell’agire politico antagonista, mentre per l’altro hanno una provenienza non tanto legata al quartiere, ma piuttosto all’intera metropoli, con riferimento anche alle sue zone esterne o periurbane.

L’assemblea di gestione del Cox 18, dopo un serrato e travagliato dibattito interno, decide di adottare una strategia basata su tre elementi principali: la difesa dell’identità politico-culturale del gruppo e del centro sociale, in un’ottica tuttavia che superi la “separazione esistenziale” caratteristica dell’epoca precedente; l’apertura del centro alle nuove leve

1 Sulla tematica della “spettacolarità” degli stili di abbigliamento e di vita delle

aggregazioni giovanili metropolitane si veda la ricerca (i cui risultati vennero contestati duramente proprio da esponenti del movimento punx milanese) “Bande, un modo di dire”, a cura di Cavalli, Leccardi, Rampazi (1986).

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dei frequentatori “esterni” (percepiti come fonte di legittimazione e di sostegno, anche economico, per il centro), tramite l’intensificazione e la diversificazione dell’offerta di eventi culturali (concerti, performances, ecc.); e infine (ma è in questa sede il punto più importante e quello su cui concentrare l’attenzione) la ricerca di un rapporto non conflittuale con il quartiere, attraverso tre azioni congiunte, ovvero la riduzione del disturbo arrecato alla via Conchetta, la ristrutturazione dello spazio occupato nella direzione di un luogo che fosse percepito dagli abitanti come più “normale” pur nella sua diversità (e a questo proposito si promuove l’apertura nel centro sociale della libreria Calusca), e infine, più avanti nel tempo, l’assunzione di responsabilità rispetto ad alcune tematiche legate alla qualità della vita locale, di interesse prettamente degli abitanti piuttosto che degli attivisti e dei frequentatori del CSA.

La prima di queste tre azioni si delinea chiaramente come un intervento unilaterale, in una logica che poteva ancora essere assimilata a quella della “separazione esistenziale” già tipica del passato: difatti viene presa la decisione di murare le vetrine su strada degli ex negozi, usati come spazio sociale, come misura che se da un lato è intesa a limitare al massimo l’impatto visivo delle attività nello stabile occupato e la fuoriuscita di rumore e di persone sulla via, dall’altro lato tuttavia può nel contempo sancire una separazione anche fisica dal territorio.

La seconda azione messa in campo, dato il proseguire delle proteste da parte dei residenti, sposta però l’attenzione del centro sociale dalla ricerca di una non conflittualità con il quartiere ad una negoziazione con gli abitanti in cui si fa strada l’idea di un rapporto effettivo di comunicazione e, in qualche misura, di scambio. La ricerca di questo rapporto parte dall’apertura nello stabile occupato della storica e nota libreria Calusca (che aveva dovuto abbandonare la precedente sede, sempre nel Ticinese) che rappresenta, per affermazione esplicita degli occupanti, un tentativo di creare un ponte con il quartiere proprio attraverso uno spazio/servizio facilmente riconoscibile, non “estraneo” né “minaccioso” e, nel contempo, di pubblica utilità. Nei fatti sarà proprio la Calusca, con la sua porta che dà sulla strada (l’unica apertura rimasta, oltre al portone di ingresso del centro sociale), il primo luogo dell’incontro tra alcuni abitanti, promotori del comitato anti Cox 18, e gli attivisti del centro: se l’avvicinamento è dapprima difficoltoso, dato il livello elevato di conflittualità che era stato raggiunto tra le parti, lo spazio della libreria diventa un luogo di mediazione informale tra i diversi interessi in gioco, ospitando quindi la prima riunione che vede la partecipazione del collettivo di gestione e dei rappresentanti del comitato. Con questo ulteriore passo i rapporti tra CSA e l’isolato circostante si avviano verso il reciproco riconoscimento dei rispettivi interessi e verso un tentativo di parziale conciliazione degli stessi; il Cox 18 prosegue negli interventi atti a diminuire l’impatto acustico e

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ambientale del centro sociale rispetto alla via, attraverso l’insonorizzazione della sala concerti; inoltre si dota di una specie di regolamento, rivolto soprattutto ai frequentatori “esterni”, che vengono invitati (con il contributo di un “servizio d’ordine” serale organizzato dal centro) a non fare schiamazzi nella via e a non sporcare i marciapiedi.

E’ la terza azione che coinvolge il centro sociale, tuttavia, a costituire il passo decisivo nella transizione verso una forma (per quanto circoscritta nel tempo) di rappresentanza degli interessi locali da parte di quest’ultimo. I residenti di via Conchetta, infatti, da tempo lamentano non solo la presenza del centro sociale autogestito, ma anche, più in generale, la ridotta qualità ambientale della strada, a causa innanzitutto dell’eccessivo traffico veicolare e dell’inquinamento acustico e dell’aria, su cui incide in primo luogo il costante passaggio di autobus extraurbani, diretti al capolinea del Ticinese. Inoltre un breve tratto di strada sterrata con un piccolo slargo, presente a metà circa della via e che la collega alla parallela via Torricelli, giace da anni in stato di totale abbandono, essendo divenuto una specie di discarica a cielo aperto, nonostante le reiterate promesse di intervento da parte del Comune per una sua risistemazione. Erano stati proprio questi problemi di vivibilità della zona che avevano contribuito ad esacerbare gli animi dei residenti, spingendoli ad individuare nel centro sociale, con il suo contributo di rumore e di “disordine”, un capro espiatorio su cui puntare l’attenzione.

I cittadini dunque, già dai primissimi anni Novanta, si sono mossi su questo secondo tema, con lettere ai giornali e al consiglio di zona per richiedere un intervento di bonifica dell’area degradata: in assenza di risposte istituzionali, nel 1994 viene organizzata dai residenti delle vie Conchetta e Torricelli, insieme a WWF e Legambiente, una giornata di pulizia, a cui sono invitati anche gli attivisti del Cox 18, i quali (non senza qualche iniziale perplessità) accettano di partecipare. La partecipazione del centro sociale ad una iniziativa prettamente di interesse del quartiere contribuisce a mutare l’atteggiamento di buona parte dei residenti, che iniziano a considerare il luogo autogestito anche come un possibile interlocutore per la tutela della zona. Poco tempo dopo, quando la polizia municipale interverrà per sradicare alberi e fiori piantati abusivamente da alcuni pensionati della zona nell’area ripulita, saranno proprio gli attivisti del Cox 18, accorsi sul luogo con mazze e bastoni, ad impedire l’intervento, mettendo in fuga i vigili. Questo passaggio evidenzia una piena assunzione di responsabilità da parte del centro sociale rispetto alla qualità della vita dell’isolato, attraverso una forma di azione conflittuale che è sicuramente lontana dalle pratiche usuali del comitato dei residenti, ma che nel contempo incontra l’approvazione di buona parte di questi ultimi. Infatti, dopo il “salvataggio” del nascente giardinetto autogestito, viene organizzato un pranzo nei locali del Cox 18, con la partecipazione di

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svariati residenti della via, che costituisce una ulteriore occasione per rinsaldare i rapporti e per il riconoscimento al centro di una rappresentanza informale rispetto alla preservazione del bene pubblico in questione.

Alcuni mesi dopo questi accadimenti è il centro sociale, insieme ad alcuni membri del consiglio di zona appartenenti ai Verdi e a Rifondazione Comunista, con i quali si è andato sviluppando un rapporto politico e umano che ha superato la storica diffidenza dei punk verso i gruppi organizzati, a prendere per primo l’iniziativa in difesa della vivibilità locale, promovendo una manifestazione contro il passaggio degli autobus extraurbani nella via Conchetta, causa di smog e di rumore. Viene deciso il blocco stradale e, pur trattandosi di un’azione illegale e a rischio di denuncia, si assiste ad una buona partecipazione da parte dei residenti, convocati tramite volantini e riunioni preparatorie, ad una iniziativa che avrà un buon risalto mediatico e che contribuirà in seguito al raggiungimento parziale degli esiti sperati. Il centro sociale ottiene quindi da parte di una quota significativa degli abitanti della zona il riconoscimento della validità, a certe condizioni, di pratiche di partecipazione locale di tipo diretto, in parte non legali e informate dal principio dell’autorappresentanza degli interessi. Non è dunque solo il Cox 18 ad essere investito dai cittadini di rappresentanza informale (e in una certa misura anti-istituzionale) rispetto a questioni di tipo territoriale, ma le stesse modalità della partecipazione locale messe in atto dagli abitanti risentono alla fine della “contaminazione” con le pratiche a cui sono abituati gli attivisti del centro sociale.

Al termine di quel periodo di mobilitazione, raggiunti alcuni risultati a livello locale e soprattutto trovato un equilibrio nei rapporti con il quartiere, il Cox 18 potrà godere negli anni successivi del riconoscimento della propria esistenza - e per certi versi del proprio ruolo socio-culturale - da parte di un numero significativo di residenti nella zona e della sostanziale tolleranza (o indifferenza) della gran parte degli abitanti del quartiere, che perlopiù lo ritengono un eccentrico locale serale. Durante gli anni Novanta, parallelamente a questa “integrazione” nel territorio, il centro sociale ha accentuato sempre più la propria vocazione controculturale, diventando un luogo di riferimento metropolitano ma anche nazionale ed internazionale per il movimento cyberpunk1 e per tutto il circuito dell’autoproduzione (musicale, video, informatica, editoriale, ..) che ad esso ruota intorno. In questo modo è proseguito il processo di costruzione identitaria avviato negli anni Ottanta con il punk, ma con un’ottica che oggi non è più quella

1 Il movimento cyberpunk è un fenomeno culturale e politico molto complesso e

articolato, che non è possibile neppure tentare di definire in questa sede; per una prima esplorazione delle sue connotazioni si segnala il sito internet della coop. Shake Edizioni (nata in seno al CSA Cox 18), all’indirizzo: www.shake.it e a quello della correlata rivista Decoder: www.decoder.it

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della separazione, quanto piuttosto quella della differenziazione e dell’innovazione nella sfera simbolico-culturale.

Recentemente oggetto, nel 2004, di una aggressione da parte di un gruppo di nazi-skin di estrema destra, il centro sociale ha diffuso nella zona un volantino in cui rivendica e riassume il proprio ruolo e la propria storia nel quartiere, a partire dagli anni Settanta. Come si evidenzia nel passaggio di seguito riportato, il Cox 18, pur nella sua dimensione trans-locale e controculturale, non rinuncia a definirsi come radicato in un territorio di cui nel contempo denuncia le contraddizioni e la deriva legata alla mercificazione da cui è investito. Diversità e appartenenza rispetto al contesto locale, autonomia e tentativo di rappresentanza restano dunque le polarità tra cui anche oggi si muove il centro sociale.

E’ pratica comune di un CS porre attenzione al territorio e sono centinaia le situazioni in cui la presenza del nostro collettivo ha impedito, quando è stato possibile, la degenerazione di conflitti, la trasformazione di questo spicchio di Ticinese in un’area di spaccio pesante e il peggioramento della già difficile vivibilità del quartiere intrecciando rapporti reali con gli abitanti. Il CSOA COX18 propone da sempre iniziative politiche, sociali, culturali e ha intessuto nel corso degli anni solidi rapporti, anche internazionali. E’ uno spazio di crescita e di esperienze che utilizza molteplici linguaggi della comunicazione tra realtà sociali e soggettività, offrendo spunti di critica e di condivisione dei saperi per favorire la partecipazione e la consapevolezza politica, per la liberazione dai vincoli imposti dallo sfruttamento e dal profitto. Il CS è presente in via Conchetta 18, fin dal 1976!! Va considerato che lungo le sponde del Naviglio vi è una altissima concentrazione di bar e locali la cui frequentazione serale è tra le più variegate e contraddittorie. Nulla a che vedere con la tradizione e la storia del quartiere con la più alta concentrazione di realtà sociali, politiche ed abitative "liberate“ della città (che permane), nonché di proletariato diffuso, piccoli commercianti e artigiani inseriti nel tessuto sociale in rapporto diretto con gli abitanti e i suoi frequentatori. La trasformazione del Ticinese nel quartiere che ha visto sradicato il proprio tessuto, resi inaccessibili gli affitti delle case e peggiorate le condizioni generali di vita nell’illusione di ricreare il "romantico antico quartiere" cela, ma nemmeno tanto, ipocrisia nelle relazioni e spregiudicatezza in affari i cui responsabili interessati non si trovano in COX18, nella LIBRERIA CALUSCA e nell’ARCHIVIO PRIMO MORONI!! L’integrità e la coerenza dell’autogestione praticata e l’atteggiamento in controtendenza all’isola felice del divertimento ha spinto i nostri compagni e compagne a uscire in strada come tante altre volte. (da un volantino del CSA Cox 18, 2004)

4. Conclusioni

Per quanto riguarda il rapporto tra partecipazione locale e

rappresentanza, il percorso sopra delineato ha condotto il centro sociale

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Cox 18 ad una situazione assai differente rispetto tanto alla prima occupazione del 1976, quanto ai mesi critici dello sgombero nel 1989: infatti se nel primo caso si poteva parlare di tendenziale coincidenza tra partecipazione sul territorio e rappresentanza (nella forma già discussa della autorappresentanza) e se nel secondo caso il nesso tra i due elementi si era invece rotto in modo conflittuale (in nome appunto della “separazione esistenziale” e dell’espulsione), la situazione riscontrabile dai primi anni Novanta in poi vede piuttosto come centrale il tema della negoziazione tra interessi in origine assai differenti, che di fatto però restano in gran parte tali anche dopo il percorso di avvicinamento tra le parti in gioco, a causa di una sostanziale diversità di identità e di scopi.

L’assunzione progressiva da parte del Cox 18 della rappresentanza di interessi prettamente locali, sostanzialmente lontani sia dalla cultura politica dell’autogestione che soprattutto dalle pratiche del movimento punk, si è infatti configurata come un processo di scambio, risultato necessario laddove la crisi della legittimazione locale e l’autosegregazione stavano minacciando seriamente la sopravvivenza stessa del centro sociale. Nello svolgersi delle vicende seguite allo sgombero del luogo occupato, prende forma una riconcettualizzazione radicale, a partire dalle pratiche quotidiane, del rapporto tra CSA e territorio di insediamento: si prende infatti atto che il quartiere è in gran parte ostile e che le risorse sociali e di legittimazione di cui il centro può godere (ovvero i nuovi frequentatori e l’universo controculturale di riferimento), oltre ad essere mutate nella loro composizione, sono sostanzialmente situate altrove, in altre zone della metropoli o fuori di essa. Da ciò ne consegue la necessità di pensare il CSA non più come espressione diretta del territorio (e quindi come forma spontanea della partecipazione locale), ma piuttosto come soggetto che si inserisce in esso e che ne assume in qualche misura la rappresentanza informale rispetto a certi temi, con l’obiettivo da un lato di guadagnare legittimazione e dall’altro, se possibile, di produrre qualche tipo di contaminazione tra le proprie culture/pratiche e quelle locali.

Questa riconcettualizzazione comporta, a livello locale, il passaggio dalla logica dell’autorappresentanza ad un orientamento verso la costruzione, processuale e dialettica, di interessi “comuni”, che tali sono, essenzialmente, in quanto nel perseguirli congiuntamente si attua un processo di mutuo riconoscimento tra CSA e territorio. Quando infine si troverà ad agire in rappresentanza informale del territorio, il centro sociale lo farà assai più per legittimare la propria presenza in esso, che per rivendicare qualche tipo di leadership rispetto alle dinamiche socio-politiche locali; ciononostante esso non rinuncerà a tentare di esercitare un’influenza sulle modalità di partecipazione messe in atto dai residenti, anche se le culture e le pratiche del comitato dei cittadini e quelle del Cox 18 resteranno decisamente differenti. Per queste ragioni ritengo si possa

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parlare, nel caso considerato, dell’emergere di una forma di partecipazione locale negoziata, intendendo con questo termine il delinearsi (spesso temporaneo e che non risolve mai definitivamente le cause potenziali di conflitto) di uno spazio pubblico di incontro e di mediazione tra soggetti distinti (abitanti e CSA), costituito per l’appunto dalla comune attivazione su tematiche territoriali.

In questo tipo di partecipazione, su scala essenzialmente micro e che negli ultimi 10-15 anni ha interessato diversi luoghi autogestiti (milanesi e non solo), non si esaurisce tuttavia la questione della rappresentanza per quanto riguarda i centri sociali. Infatti proprio la rottura storica del nesso forte tra con il quartiere e il successivo abbandono dell’autoreferenzialità tipica di logiche separatiste, hanno portato un’ampia area dei CSA a posizionarsi su di un campo d’azione trans-locale: questo fenomeno è stato facilitato dal già discusso mutamento nella popolazione dei frequentatori dei luoghi autogestiti e, più di recente, dall’irrompere sulla scena dei movimenti contro la globalizzazione neo-liberista, oltre che dal persistere (e anche dall’allargarsi) di una sfera controculturale “underground”1 ormai di dimensioni globali. Sono molti i centri sociali che – nella scia del più conosciuto Leoncavallo – rivendicano nei fatti (anche se non esplicitamente) una rappresentanza informale rispetto a tematiche di tipo socio-politico e culturale, quali l’opposizione alla guerra, la lotta contro il precariato sul lavoro, l’antirazzismo, la promozione del reddito universale, ma anche la rivendicazione di spazi di comunicazione indipendente o la battaglia contro il copyright. Anche se continuano ad evidenziare la propria autonomia ed il rifiuto della logica della delega, questi CSA nei fatti tendono a parlare e ad agire “a nome di”: questo avviene però sempre più in riferimento a territori e a popolazioni ampi e non chiaramente definiti né definibili.

Se dunque è relativamente più facile che nel quartiere o nella via di insediamento il centro sociale si trovi ad affrontare delle “prove concrete di rappresentanza” rispetto agli interessi locali, nell’ottica dello scambio tra prestazioni e legittimazione più sopra delineata, nel caso del rapporto con interessi sovra-locali (e spesso globali) non chiaramente e univocamente definiti neppure rispetto ai loro portatori, tali “prove” sono più difficili da identificare, prima ancora che da affrontare. L’attribuzione di rappresentanza rispetto alle tematiche sopra citate, e la speculare ricerca di legittimazione, avvengono infatti essenzialmente sul piano culturale e comunicativo, con un’influenza importante esercitata dal sistema mass-

1 Il termine “underground” in effetti risulta ormai inadeguato per descrivere un

fenomeno culturale di ampie proporzioni, entrato anche nei circuiti culturali “ufficiali”: si tratta oggi non più di una realtà di nicchia e sotterranea, quanto piuttosto di un movimento di innovazione su scala globale, i cui confini rispetto al mercato culturale di massa sono spesso difficili da definire.

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mediatico. Le vicende legate al noto caso del Leoncavallo (Membretti, 2003; 2005) hanno messo in luce come la ricerca del consenso da parte di ampi e variegati strati dell’opinione pubblica, a partire da azioni eclatanti e spesso di natura conflittuale, sia divenuta una delle principali strategie messe in atto da molti centri sociali, con l’intento di conferire un carattere rappresentativo alle proprie forme di autorganizzazione.

La formula, coniata dal movimento delle “tute bianche” (Montagna, in questo stesso testo) nato in seno ai CSA, del “conflitto per creare consenso” evidenzia proprio come i centri sociali, consapevoli dell’importanza di una legittimazione ampia e in parte trasversale, stiano in anni recenti in qualche misura creando da sé le “prove di rappresentanza” degli interessi in questione: le azioni conflittuali sul territorio, che sempre più sono dirette contro i simboli (agenzie del lavoro interinale, Mc Donald’s, CPT, ecc.) di un sistema politico-economico globale, ritenuto ingiusto e prevaricante, diventano così l’affermazione di una rinnovata forma di autorappresentanza che si esplica sul piano locale e su obiettivi di natura spesso micro-territoriale, ma che ambisce a costituire una espressione dell’autorganizzazione sociale della vastissima e sfumata area dei portatori di quegli interessi, su scala prettamente sovra-locale1.

Parallelamente i CSA, e soprattutto l’area che fa riferimento al Leoncavallo e ai centri del Nord-Est, accompagnano e intervallano le pratiche conflittuali di autorappresentanza con pratiche non conflittuali (o a minore intensità di conflitto) finalizzate ad accrescere il consenso dell’opinione pubblica più in generale. L’autogestione di servizi di welfare locale (mense, sportelli sanitari, servizi di consulenza legale,..), piuttosto che l’erogazione di servizi culturali (concerti, rappresentazioni teatrali, ..) si possono leggere non solo come forme di autorganizzazione degli interessi, ma anche come “ponti” (e quindi come mediazioni per creare innanzitutto legami e ambiti di consenso) gettati verso la società più ampia, a partire dalla parziale assunzione (strumentale o meno) della logica e della terminologia del servizio. Queste pratiche si configurano da un lato come strategie di (auto)legittimazione, sulla base della funzione sociale di importanza riconosciuta che vanno a svolgere, e dall’altro lato come tentativi di contaminazione socio-culturale rispetto all’ambiente in cui si vanno a collocare: si tratta infatti spesso di servizi erogati in luoghi occupati illegalmente e con modalità anch’esse non legali o comunque “eterodosse” rispetto ai servizi pubblici o di mercato (Membretti, 2005; Vitale, 2005; Membretti e Vitale, 2005).

Riconcettualizzata, anche se non risolta, la dialettica con il territorio di insediamento, i CSA si ritrovano oggi a fare i conti, su scala trans-locale,

1 Potremmo dire che l’adagio gramsciano viene ad essere parafrasato come “agire

localmente, rappresentare globalmente”.

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con l’ambivalenza che dalla nascita caratterizza la loro storia: luoghi della diversità e dell’autonomia ma nel contempo soggetti che rivendicano la rappresentanza informale di interessi ben più ampi di quelli di cui sono diretti portatori, i centri sociali autogestiti non possono evitare il ricorso a periodiche “prove”, sia sul piano simbolico che su quello della tutela concreta, in base alle quali legittimare il proprio implicito parlare ed agire “a nome di”, pur nel rifiuto di ogni principio di delega.