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1 INTRODUZIONE Parlare di filosofia della Storia, significa porsi il problema del rapporto tra l’uomo e la sua attività pratica, intesa come facere, quale attività generatrice della storia. Esiste una concezione molto diffusa, ad opera soprattutto di Karl Löwith, per cui la Filosofia della Storia, sostanzialmente inesistente al tempo dei greci, è un prodotto integrale del monoteismo messianico ebraico- cristiano, inizia già con Agostino di Ippona, e risulta essere nel suo coronamento in Marx una storia di secolarizzazione della escatologia ebraico- cristiana nel linguaggio dell’economia politica inglese e della Filosofia classica tedesca 1 . Ma, se se fa iniziare la Filosofia della Storia non con una semplice posizione religioso-scatologica, allora, soltanto con la svolta moderna di Giovanni Battista Vico ha inizio la Filosofia della Storia. Lui è stato il primo ideatore di questa nuova scienza che aveva come obiettivo di essere contemporaneamente Storia e Filosofia. La Filosofia della Storia di Giovanni Vico prende le mosse dalla critica al razionalismo astratto di Cartesio. Infatti, la Filosofia, sin dalle sue origini nella Grecia classica in poi, ha avuto come oggetto della propria indagine l’essere, e quindi l’elaborazione di una metafisica che pervenisse alla comprensione dell’essere quale sostanza immutabile, atemporale, eterna – nonostante l’uomo fosse per definizione mutabile, temporale e contingente. Il tempo e il divenire storico furono quindi confinati nella dimensione della contingenza, della particolarità che potesse avere una propria essenza solo quale determinazione concreta e finita dell’essere. Vico fu, allora, l’artefice della Filosofia avente per oggetto l’uomo nella sua dimensione storica; l’uomo che perviene alla conoscenza di sé come essere nella storia. 1 K. LöWITH, Significato e fine della storia: i presupposti teologici della filosofia della storia, il Saggiatore, 2010.
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Appunti di Filosofia della Storia

Apr 20, 2023

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Lluis Oviedo
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Page 1: Appunti di Filosofia della Storia

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INTRODUZIONE

Parlare di filosofia della Storia, significa porsi il problema del rapporto

tra l’uomo e la sua attività pratica, intesa come facere, quale attività

generatrice della storia.

Esiste una concezione molto diffusa, ad opera soprattutto di Karl

Löwith, per cui la Filosofia della Storia, sostanzialmente inesistente al tempo

dei greci, è un prodotto integrale del monoteismo messianico ebraico-

cristiano, inizia già con Agostino di Ippona, e risulta essere nel suo

coronamento in Marx una storia di secolarizzazione della escatologia ebraico-

cristiana nel linguaggio dell’economia politica inglese e della Filosofia classica

tedesca1.

Ma, se se fa iniziare la Filosofia della Storia non con una semplice

posizione religioso-scatologica, allora, soltanto con la svolta moderna di

Giovanni Battista Vico ha inizio la Filosofia della Storia. Lui è stato il primo

ideatore di questa nuova scienza che aveva come obiettivo di essere

contemporaneamente Storia e Filosofia.

La Filosofia della Storia di Giovanni Vico prende le mosse dalla critica

al razionalismo astratto di Cartesio.

Infatti, la Filosofia, sin dalle sue origini nella Grecia classica in poi, ha

avuto come oggetto della propria indagine l’essere, e quindi l’elaborazione di

una metafisica che pervenisse alla comprensione dell’essere quale sostanza

immutabile, atemporale, eterna – nonostante l’uomo fosse per definizione

mutabile, temporale e contingente. Il tempo e il divenire storico furono

quindi confinati nella dimensione della contingenza, della particolarità che

potesse avere una propria essenza solo quale determinazione concreta e

finita dell’essere.

Vico fu, allora, l’artefice della Filosofia avente per oggetto l’uomo nella

sua dimensione storica; l’uomo che perviene alla conoscenza di sé come

essere nella storia.

                                                                                                               1 K. LöWITH, Significato e fine della storia: i presupposti teologici della filosofia della storia, il Saggiatore, 2010.

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La nuova scienza vichiana scaturisce dalla conoscenza filologica e

filosofica. La filologia studia i fatti storici e ne determina la certezza.

Tuttavia, la certezza non è verità. I fatti empirici debbono essere vagliati alla

luce di concetti universali che possono spiegare l’origine e la causa dei fatti

storici.

Quindi, nel rapporto fra la Filologia e la Filosofia, la Filosofia determina

gli indirizzi della ricerca della Filologia, mentre la Filologia elabora il

materiale dei fatti storici che debbono essere sottoposti alla verifica

veritativa proprio della Filosofia.

Vico cerca, quindi, di pervenire ad una verità ontologica dell’uomo

artefice della storia, sulla base di principi generali che reggono la società, in

quanto connaturati alla natura umana e rinvenibili nei valori costanti che si

perpetuano nel succedersi delle civiltà nella storia, quali l’eroismo, la

famiglia, la pace, la guerra.

Vico, ha dunque, elaborato gli elementi strutturali della Filosofia della

Storia, mediante l’individuazione di principi generali di cui si sostanzia

l’umanità dell’uomo e come tali, costituiscono gli impulsi generatori del

divenire storico.

Possiamo allora rinvenire in Vico gli elementi base della Filosofia della

Storia che diverranno propri dell’idealismo. Infatti, per Hegel la Storia è

luogo di manifestazione dello Spirito. Per Marx, il divenire storico è

determinato da concetti base emergenti della storia stessa, quale il modo di

produzione, da cui deriva la forza propulsiva e la dinamica di sviluppo delle

contrapposizione sociale di classe.

A Vico si potrebbe associare la figura di Spinoza come co-artefice della

Filosofia della Storia.

Spinoza ha fondato il monismo ontologico che unifica concettualmente

le modalità gnoseologiche del pensiero e le modalità ontologiche dell’essere

(anticipando, quindi la risposta al criticismo di Kant).

Si potrebbe dire che già la Filosofia di Kant cercava di delegittimare la

pretesa di normatività storica e politica della vecchia metafisica religiosa

monoteistica cristiana, incompatibile con la nuova istituzione sociale

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politicamente borghese ed economicamente capitalistica. La nuova società

borghese-capitalistica non ha più bisogno della verità, ingombrante residuo

religioso di cui le chiese volevano il monopolio; Con Kant la verità è

integralmente ritradotta in certezza del soggetto (l’Io penso), all’interno di

una nuova società mercantile che non richiede più nessuna fondazione

veritativa, ma soltanto la mano invisibile del mercato (Adam Smith).

Il soggetto però non è più postulato astrattamente (come il Cogito di

Cartesio), ma inserito in un processo storico di progressiva acquisizione

dell’autocoscienza, attraverso il quale è ridefinito il vecchio problema greco

della verità.

Nella sua forma religiosa, la verità può essere rivelata, creduta,

intuita, imposta, eccetera, ma la credenza, la rivelazione, l’intuizione e

l’imposizione non fanno parte della Filosofia. In Filosofia la verità non può

essere accertata, ma solo ricostruita attraverso un processo storico di

percorso della coscienza nel suo superamento di ostacoli da essa stessa

posti (Fichte), dell’allargamento di procedure di riconoscimento (Hegel), ed

infine di superamento di sempre nuovi stati di alienazione-estraneazione

(Marx).

L’idealismo, è proprio questo. La verità non è un dato originario, da

disvelare, ma l’esito di un risultato “ideale” da ricostruire attraverso il

percorso dell’autocoscienza.

Filosofia della Storia come Filosofia della Libertà Nella filosofia hegeliana, la Storia è il luogo di manifestazione

dell’assoluto. Hegel concepisce la storia in funzione dell’autocoscienza

dell’uomo, considerato come unico soggetto unificato della totalità umana.

L’uomo, inteso sia nella sua universalità umana che come individuo,

pone i presupposti del suo operare nella storia e ne realizza i contenuti nel

suo agire pratico, pervenendo al riconoscimento di sé nell’opera compiuta,

già implicito nei presupposti che presiedono all’azione.

La comprensione della Filosofia della Storia come Filosofia della libertà

permette di mettere su basi molto più solidi la critica filosofica al liberalismo

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e al neoliberalismo (nonché al liberalismo economico), in quanto anche il

pensiero liberale si presenta come una filosofia della libertà.

A tale proposito, si può segnalare tre fraintendimenti di Hegel: il

fraintendimento giustificazionista, il fraintendimento necessitarista ed il

fraintendimento storicista.

Il fraintendimento giustificazionista interpreta l’equazione hegeliana di

Reale e di Razionale come la giustificazione di tutto ciò che empiricamente

avviene nella storia in quanto «reale», ignorando (per ignoranza o malafede,

o per entrambe le ragioni) che lo stesso Hegel aveva messo in guardia

dall’intendere il concetto di «reale» come il contingente effettivo.

Il fraintendimento necessitarista porta ad intendere il corso storico

come una catena di eventi inevitabili e necessari, ma si tratta di un

fraintendimento segretamente positivistico, perché la catena di eventi storici

è assimilata ad una catena di eventi astronomici, fisici e chimici.

Il fraintendimento storicistico, il più comune, diffuso e difficile da

estirpare, consiste nel togliere al corso storico ogni fondamento ontologico e

logico veritativo, con la conseguenza di sfociare inevitabilmente nel

relativismo e nel nichilismo.

La libertà è un concetto politico, opposto alla schiavitù, e viene

considerata una caratteristica dei greci rispetto ai barbari orientali, sudditi

del dispotismo imperiale persiano.

I romani non portano la libertà, ma la pax romana, che toglie ai popoli

soggetti la precedente libertà. Paolo di Tarso nella Lettera ai Corinzi non

promette ai cristiani la libertà, ma la liberazione attraverso l’asservimento ad

un unico liberatore, Gesù Cristo, cui devono asservirsi liberi, liberti e schiavi.

In Hobbes, la libertà dell’individuo è ancora vista come pericolosa fonte

di disordine e di sedizione, per cui viene subordinata alla sicurezza da

ottenere delegando ogni potere allo Stato Leviatano.

Solo con Locke la libertà viene legittimata, in quanto è correlata alla

proprietà, unica fonte dei diritti politici.

Ma è soltanto con Hume che la libertà dell’individuo non viene più

fondata sulla base delle due dottrine del diritto naturale e del contratto

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sociale, ma viene di fatto identificata con l’abitudine ed il mutuo consenso

allo scambio.

Ci vorrà allora un solo passo, compiuto da Adam Smith, per fondare la

società moderna sul valore di scambio, inteso come equivalente generale del

tempo sociale medio necessario per la produzione sociale delle merci, rette

dalla «mano invisibile» del mercato.

Il Settecento è allora il secolo in cui, per la prima volta, viene

legittimata la libertà di opinione, in base al fatto che la nuova società

borghese-capitalista non ha più bisogno di essere fondata sulla normatività

eteronoma di metafisiche religiose pseudo-veritative.

Sfida per la filosofia della storia La Filosofia della Storia è una scienza facilmente soggetta a

degenerazioni. Essa può tramutarsi in ideologia, qualora si basi su finalità

contingenti di un dato momento storico. Può altresì identificarsi con

concettualità metafisiche che prescindono dalla storia, vanificandone gli

sviluppi e la portata innovativa. È da questa compresenza di culture

autoreferenti che aveva preso le mosse la Filosofia vichiana: da una Filosofia

che aveva ricercato il certo senza il vero e da una Filosofia concentrata sul

vero facendo astrazione della storia.

Nel primo caso, i fatti storici particolari vengono esaminati senza

alcuna mediazione del certo con le categorie universali della verità filosofica.

Nel secondo caso, il pensiero filosofico dai fatti contingenti fa derivare una

concettualità assoluta, univoca, perché priva di qualsiasi riferimento

dialettico e avulsa da qualsiasi verifica storica. La Filosofia assume quindi i

caratteri di un determinismo assoluto, in cui la Storia stessa assume le vesti

di un divenire necessario per il raggiungimento degli obiettivi ideologici

immanenti, più assimilabile ad un messianismo trascendente, piuttosto che

ad una Filosofia della Storia che abbia la funzione di elaborare un sistema

concettuale che fornisca un senso all’essere dell’uomo nella Storia.

Alla fine delle grandi narrazioni ideologiche ha fatto seguito la teoria di

Fukujama della fine della storia che riassume in sé la dimensione storica

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dell’attuale capitalismo globale. Il capitalismo concepisce la fine della storia

come l’avvento di una temporalità illimitata in cui esso riprodurrà sé stesso,

ormai sempre uguale a sé stesso, poiché, in quanto assoluto, ha realizzato

totalmente sé stesso e, quale unico sistema economico-politico mondiale,

non è suscettibile di ulteriori sviluppi.

Tuttavia, il capitalismo finisce per negare la dimensione stessa della

Storia in quanto progressiva, quale divenire storico progressivo illimitato.

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I - GIAMBATTISTA VICO (Napoli, 1668-1744)

Con l'altezza del suo genio, Giambattista Vico emerse dalla

depressione in cui la cultura italiana era piombata dopo il Rinascimento.

Anch'egli, come Leibniz, contrappone all'essere astratto della

matematica cartesiana la concretezza di una realtà spirituale quale azione e

sviluppo e quindi finalità, in cui si attua una razionalità più profonda di quella

che regola - nella chiarità dell'intelletto - il pensiero geometrico.

Ma la vita di questa realtà spirituale egli la coglie nella storia umana:

in lui per la prima volta il razionalismo diventa storicismo, la ragione cioè è

considerata come realtà che attua se stessa in una esauribile fecondità

creatrice, per cui, nel succedersi degli individui e delle generazioni, essa

accresce di continuo il suo contenuto, e tanto conosce quanto fa.

1. Opposizione al Cartesianesimo, Inefficienza del Cogito

Cartesiano; e il Nuovo criterio di verità: “Verum et factum

convertuntue”

La prima forma della dottrina del Vico intorno alla conoscenza si

presenta come diretta critica e antitesi del pensiero cartesiano.

Cartesio aveva collocato l'idea della scienza perfetta nella geometria,

sul modello della quale intese a riformare la filosofia e ogni atra parte del

sapere. E poiché il metodo geometrico perviene mercé l'analisi a verità

intuitive, e da queste muove di poi per ottenere con deduzione sintetica

sempre più complesse affermazioni, la filosofia, per procedere con rigore di

scienza, doveva, amente di Cartesio, cercare anch'essa il fermo punto

d'appoggio in una verità primitiva e intuitiva, dalla quale deducesse tutte le

sue ulteriori affermazioni, teologiche, metafisiche, fisiche e morali.

L'evidenza, la percezione o idea chiara e distinta era, dunque, criterio

supremo; e l'inferenza immediata, l'intuitiva connessione del pensiero con

l'essere, del cogito col sum, porgeva la prima verità e la base per la scienza.

Ma, per ciò stesso, tutto quel sapere non ancora ridotto o non riducibile a

percezione chiara e distinta e a deduzione geometrica, perdeva ai suoi occhi

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valore e importanza: tale la storia, che si fonda sulle testimonianze;

l'osservazione naturalistica, non ancora matematizzata; la saggezza pratica

e l'eloquenza, che si valgono dell'empirica conoscenza del cuore umano; la

poesia, che offre immagini fantastiche. Piuttosto che un sapere, codesti

prodotti spirituali erano per Cartesio illusioni e torbide visioni: idee confuse,

destinate o a farsi chiare e distinte e perciò a svestire la loro anteriore forma

d'esistenza, o a trascinare un'esistenza miserabile, indegna dell'attenzione

del filosofo.

Ora, dove il filosofo francese stimava di aver fornito tutto quanto si

potesse richiedere per la scienza più rigorosa, il Vico osserva che, posta

l'esigenza alla quale s'intendeva soddisfare, in realtà, col metodo

raccomandato si otteneva ben poco o addirittura nulla.

Bella scienza (dice il Vico) è codesta dell'idea chiara e distinta! Ch'io

pensi quel ch'io penso è, sì, cosa indubitabile, ma non mi ha punto l'aria di

una proposizione scientifica. Ogni idea, per erronea che sia, può apparire

evidente; e, non perché a me appaia tale, acquista virtù di scienza.

Ma in che cosa la verità scientifica consiste, poiché certamente non

consiste nella coscienza immediata? In che la scienza differisce dalla

semplice coscienza? Qual è il criterio, o, in altri termini, quale la condizione

che rende possibile la scienza?

Il primo vero – dice Vico - è in Dio, perché Dio è il primo fattore; ed è

vero infinito perché egli è fattore delle cose tutte, esattissimo perché

rappresenta a lui gli elementi così esterni come interni delle cose, le quali

egli contiene tutte in sé.

Questo l’aveva già affermato l’ebraismo e ripetuto il cristianesimo. Ma

il Vico non si restringe ad affermazioni incidentali e, intendendo per primo la

fecondità del concetto espresso in quella proposizione, dall'elogio dell'infinita

potenza e sapienza di Dio e dal raffronto con quella limitata dell'uomo

ricava, contro Cartesio, il principio gnoseologico universale, che la condizione

per conoscere una cosa è il farla, e il vero è il fatto stesso: «verum ipsum

factum».

Non altro che codesto si vuol dire (egli chiarisce), quando si afferma

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che la scienza è «per causas scire», perché la causa è quella che per

produrre l'effetto non ha bisogno di cosa estranea, è il genere o modo di una

cosa: conoscere le cause è saper mandare ad effetto la cosa, provare dalla

causa è farla. In altri termini, è rifare idealmente quel che si è fatto e si fa

praticamente. La cognizione e l'operazione debbono convertirsi tra loro,

come in Dio intelletto e volontà si convertono e fanno tutt'uno.

Senonché, stabilito nella connessione del vero e del fatto l'ideale della

scienza, e (poiché l'ideale è la vera realtà) conosciuta la natura vera della

scienza, la prima conseguenza che da questo riconoscimento deve trarsi è

quella stessa che ne traevano i platonici e gli scettici del Rinascimento:

l'impossibilità della scienza per l'uomo. Se Dio ha creato le cose, Dio solo le

conosce per cause, egli solo ne conosce i generi o modi, ed egli solo ne ha la

scienza.

All'uomo non è data la scienza, ma la sola coscienza, la quale per

l'appunto volge sulle cose di cui non si può dimostrare il genere o forma

onde si fanno. La verità di coscienza è il lato umano del sapere divino, e sta

a questo come la superficie al solido: piuttosto che verità, dovrebbe dirsi

certezza. A Dio l'intelligere, all'uomo il solo cogitare, il pensare, l'andare

raccogliendo gli elementi delle cose, senza poterli mai raccogliere tutti. A Dio

il vero dimostrativo; all'uomo le notizie non dimostrate e non scientifiche,

ma o certe per segni indubitati o probabili per forza di buoni raziocini o

verisimili per sussidio di potenti congetture. Il certo, la verità di coscienza,

non è scienza, ma non perciò e il falso.

Il pensare – cogito ergo sum -, non essendo causa del mio essere, non

induce scienza del mio essere; se l'inducesse, essendo l'uomo mente e

corpo, il pensiero sarebbe causa del corpo. Il cogito è, dunque, un mero

segno o indizio del mio essere: nient'altro. L'idea chiara e distinta non può

dare criterio, non pure delle altre cose ma della mente medesima, perché la

mente in quel suo conoscersi non si fa, e, poiché non si fa, ignora il genere o

modo onde si conosce.

Ma l'idea chiara e distinta è quel che solo è concesso allo spirito

dell'uomo. Quindi, anche per il Vico la metafisica serba il primato fra le

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scienze umane, che tutte derivano da lei; ma laddove per Cartesio essa può

procedere con sicuro metodo di dimostrazione pari a quello geometrico, per

Vico deve contentarsi del probabile, non essendo scienza per cause ma di

cause.

L'esistenza di Dio è certa, ma non è scientificamente dimostrabile. Per

dimostrare Dio, dovremmo farlo: l'uomo dovrebbe diventare creatore di Dio.

Parimente bisogna ritenere vero tutto quello che ci è stato rivelato da Dio,

ma non domandare in qual modo sia vero, che è ciò che non potremo mai

comprendere. Sulla verità rivelata e sulla coscienza di Dio si appoggiano le

scienze umane e vi trovano la loro norma di verità; ma il fondamento stesso

è verità di coscienza e non di scienza.

Come il Vico abbassa le scienze che Cartesio prediligeva e coltivava, la

metafisica, la teologia, la fisica, così risolleva le forme di sapere che Cartesio

aveva abbassate: la storia, l'osservazione naturalistica, la cognizione

empirica circa l'uomo e la società, l'eloquenza e la poesia. O, per meglio

dire, dimostrato che le superbe verità della filosofia condotta con metodo

geometrico si riducono anch'esse a nient'altro che a probabilità e asserzioni

aventi valori di semplice coscienza, la vendetta delle altre forme del sapere

è, nell'atto stesso, bella e compiuta, perché tutte si ritrovano ormai

adeguate alla medesima altezza o bassezza che si dica. L'idea di una scienza

umana perfetta, che respinga da sé un'altra indegna di questo nome perché

fondata non sul ragionamento ma sull'autorità, è chiarita illusoria.

L'autorità delle proprie e delle altrui osservazioni e credenze, l'opinione

generale, la tradizione, la coscienza del genere umano vengono restaurate

nell'ufficio che hanno sempre avuto e che ebbero nello stesso Cartesio; il

quale (come suole accadere) disprezzò quel che egli possedeva in gran copia

e di cui si era potentemente giovato, e, uomo dottissimo, screditò la dottrina

e l'erudizione, come chi nutrito può darsi il lusso di parlare con disdegno del

cibo che è già sangue nelle sue vene.

C'è, tuttavia, un gruppo delle scienze cartesiane al quale il Vico

riconosca, come i suoi predecessori del Rinascimento, un posto privilegiato;

vale a dire, non di coscienza, ma di vera e propria scienza, non nella

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certezza, ma nella verità: le discipline matematiche. Sono queste, secondo

lui, le sole conoscenze possedute dall'uomo in modo del tutto identico a

quello del sapere divino, e cioè perfetto e dimostrativo. E non già, come

Cartesio aveva creduto, per effetto del loro carattere di evidenza.

La forza delle matematiche nasce, dunque, non dal criterio cartesiano,

ma appunto dall'altro enunciato dal Vico; non dall'evidenza) ma dalla

conversione del conoscere col fare: «mathematka demonstramus, quia

verum facimus».

L'uomo prende l'uno e lo moltiplica, prende il punto e lo disegna; e

crea i numeri e le grandezze che egli conosce perfettamente perché opera

sua. Le matematiche sono scienze operative, e non solo nei loro problemi,

ma negli stessi teoremi, che volgarmente si stimano cosa di mera

contemplazione. Per tal ragione esse sono anche scienze che dimostrano per

cause, contrariamente all'altra opinione volgare che esclude dalle

matematiche il concetto di causa; sono, anzi, le sole, tra le scienze umane,

che davvero provino per cause.

Tutto l'arcano del metodo geometrico consiste nel definire prima le

voci, cioè fare i concetti coi quali si abbia a ragionare; poi stabilire alcune

massime comuni, nelle quali colui col quale si ragiona convenga; e con

questi principi da verità più semplici dimostrate procedere fil filo alle più

composte, e le composte non affermare se prima non si esaminino una per

una le parti che le compongono. Per il Vico, quindi, la gran perfezione che

Cartesio attribuisce alle matematiche è più apparente che reale; che la

sicurezza che egli vanta di quel procedere, è, per sua medesima

confessione, acquistata a spese della realtà; e che, insomma, l'accento della

teoria non cade tanto sulla verità di quelle discipline quanto sulla loro

arbitrarietà.

L'uomo, dice il Vico, andando attorno a investigare la natura delle

cose, e accorgendosi finalmente di non poterla in nessun modo conseguire,

perché non ha dentro di sé gli elementi onde sono composte, e, anzi, li ha

tutti fuori di sé, è condotto via via a volgere a profitto questo stesso vizio

della sua mente. Con l'astrazione che si esercita sugli enti metafisici si foggia

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due cose: il punto da disegnare, e l'unità da moltiplicare. Entrambi finzioni,

perché il punto disegnato non è più punto e l'uno moltiplicato non è più uno,

costruisce per suo uso un mondo di forme e numeri, che egli abbraccia tutto

dentro di sé; e col prolungare, col tagliare, col comporre le linee, con

l'aggiungere, togliere e computare i numeri, fa infinite opere e conosce

infiniti veri. Non può definire le cose e definisce nomi; non può attingere gli

elementi reali e si contenta di elementi immaginari, dai quali sorgono idee

che non ammettono alcuna controversia. Simile a Dio, «ad Dei instar», da

nessun sostrato materiale, e quasi dal niente, crea punto, linea, superficie: il

punto che è posto come quello che non ha parti; la linea come l'escurso del

punto, ossia la lunghezza priva di larghezza e di profondità; la superficie,

come l'incontro di due linee diverse in uno stesso punto, cioè la lunghezza e

la larghezza senza la profondità. Così le matematiche purgano il Vizio della

scienza umana, di avere sempre le cose fuori di sé e di non aver essa fatto

ciò che vuole conoscere. Quelle fanno ciò che conoscono, hanno in sé

medesime i loro elementi e si configurano, perciò, a somiglianza perfetta

della scienza divina (scie ntiae divinae similer evadunt).

La fulgida verità delle matematiche nasce, dunque, dalla disperazione

della verità; la loro formidabile potenza dalla riconosciuta impotenza! La

somiglianza dell'uomo matematico con Dio non è troppo diversa da quella

del contraffattore di un'opera col suo autore: ciò che Dio è nell'universo della

realtà, l'uomo è, sì, nell'universo delle grandezze e dei numeri, ma questo

universo è popolato di astrazioni e fin zioni. La divinità conferita all'uomo è,

quasi, divinità da burla.

Per effetto della diversa genesi che il Vico assegna alle matematiche,

anche la loro efficacia viene assai ristretta. Le matematiche non stanno più,

come per Cartesio, al sommo del sapere umano, destinate a redimere e a

governare le scienze subalterne; ma occupano una cerchia, per quanto

singolare, altrettanto ben circoscritta, fuori della quale perdono, d'un subito,

ogni loro mirabile virtù.

Il potere delle matematiche incontra ostacoli a parte ante e a parte

post: nel loro fondamento e in quel che a loro volta sono in grado di fondare.

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Nel loro fondamento, perché se creano i loro elementi, cioè le finzioni iniziali,

non creano la stoffa in cui queste sono ritagliate e che a esse, non meno che

alle altre scienze umane, è fornita dalla metafisica, la quale, non potendo

dar loro il proprio soggetto, ne dà certe immagini. Dalla metafisica la

geometria toglie il punto per disegnarlo (cioè, per annullarlo come punto): e

l'aritmetica l'uno per moltiplicarlo (cioè, per distruggerlo come uno).

E poiché la verità metafisica, per quanto certa appaia alla coscienza,

non è dimostrabile, le matematiche, in ultima analisi, riposano anch'esse

sull'autorità e sul probabile.

Come non fondano la metafisica dalla quale anzi derivano, così le

matematiche non sono neppure in grado di fondare le altre scienze, che pure

seguono a esse nell'ordine di derivazione. Tutte le materie, diverse dai

numeri e dalle misure, sono affatto incapaci di metodo geometrico. La fisica

non è dimostrabile: l'introduzione del metodo matematico nella fisica non ha

giovato a questa disciplina, che fece scoperte grandi senza quel metodo, e

nessuna né grande né piccola ha fatta mercé di esso. La fisica moderna

somiglia, in verità, a una casa che gli antenati hanno riccamente arredata e

di cui gli eredi non hanno accresciuto la suppellettile, ma si divertono

solamente a cangiarla di posto e a disporla in modi nuovi.

È necessario perciò restaurare e sostenere, in fisica, l'indirizzo

sperimentale contro quello matematico: l'indirizzo inglese contro quello

francese, il cauto uso che delle matematiche fecero Galileo e la sua scuola

contro l'incauto e arrogante dei cartesiani. Il metodo geometrico, ribadisce il

Vico, quando è nel suo legittimo dominio, opera senza farsi sentire, e, ove

fa strepito, segno è che non opera: appunto come negli assalti l'uomo timido

grida e non ferisce, l'uomo d'animo fermato tace e fa colpi mortali.

L'importanza riconosciuta allo sperimentalismo, che stacca il Vico

dall'indirizzo francese e cartesiano e lo avvicina piuttosto a quello italiano e

inglese, a Galileo e al Bacone, lo rende altresì nemico dell'aristotelismo e

dello scolasticismo. Esortando egli a cercare i particolari e a valersi del

metodo induttivo; affermando che il genere umano era stato arricchito

d’innumerevoli verità dalla fisica, la quale, mercé il fuoco, le macchine e gli

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strumenti, si era fatta operatrice di cose simili a peculiari opere della natura;

raccomandando la propria metafisica come tale che serve bene alla fisica

sperimentale; non può non riconoscere ben meritato il discredito in cui era

caduta la fisica aristotelica, troppo (egli diceva) universale. E se a Cartesio

rimproverava l'introduzione delle forme fisiche nella metafisica, e con ciò la

tendenza verso il materialismo, Aristotele e gli scolastici sono poi da lui

accusati dell'errore opposto, cioè di aver voluto introdurre le forme

metafisiche nella fisica.

Come Bacone, Vico stima che il sillogismo e il sorite non producano

nulla di nuovo e ripetano ciò che è già contenuto nelle premesse; e mette m

chiaro i molteplici danni che gli universali aristotelici cagionano in tante le

parti del sapere: nella giurisprudenza, in cui le vuote generalità soffocano il

senno legislativo; nella medicina, che parti del sapere: nella giurisprudenza,

in cui le vuote generalità soffocano il senno legislativo; nella medicina, che

bada piuttosto a tenere in piedi i sistemi che a sanare gl'infermi; nella vita

pratica, nella quale gli abusatori di universali sono derisi col nome di «uomini

tematici». Dagli universali derivano le omonimie o equivoci, cause d'ogni

sorta di errori.

La prima gnoseologia del Vico non è intellettualistica, non è sensistica

e non è veramente speculativa; ma contiene tutte tre queste tendenze che si

compongono in certo modo tra loro, non col sottomettersi gerarchicamente a

una tra esse, ma col sottomettersi tutte alla riconosciuta incompiutezza della

scienza umana.

Il suo intento sarebbe di fronteggiare, con un sol movimento tattico,

dommatici e scettici, contro i primi negando che si possa sapere tutto e

contro i secondi che non si possa sapere cosa alcuna; ma riesce invece a

un'affermazione di scetticismo o agnosticismo, nella quale non manca

neppure qualche tratto mistico.

Il sapere divino è sapere unitario, quello umano è la frammentazione

dell'unità. Dio sa tutte le cose perché contiene in sé gli elementi dai quali le

compone tutte; l'uomo, studiando, conosce le cose col ridurle in pezzi. La

scienza umana è una sorta di anatomia delle opere di natura giacché divide

Page 15: Appunti di Filosofia della Storia

  15  

l'uomo in corpo e anima, e l'anima in intelletto e volontà, e dal corpo astrae

la figura e il moto, e da questi l'ente e l'uno; onde la metafisica contempla

l'ente, l'aritmetica l'uno e la sua moltiplicazione, la geometria la figura e le

sue misure, la meccanica il moto dell'àmbito, la fisica il moto del centro, la

medicina il corpo, la logica da ragione, la morale la volontà. Ma accade di

questa anatomia come di quella del corpo umano, circa la quale i più acuti

fisiologi dubitano se per effetto della morte e della stessa dissezione sia più

possibile indagare il vero sito, struttura e uso delle parti. L'ente, l'unità, la

figura, il moto, il corpo, l'intelletto, la volontà sono altro in Dio, nel quale

fanno uno, altro nell'uomo in cui restano divisi.

Le forme fisiche appaiono evidenti fintanto che non si mettono al

paragone delle metafisiche: il «cogito ergo sum» è certissimo, quando

l'uomo considera sé stesso, creatura finita, ma addentrandosi in Dio, che è

l'unico e vero ente, egli conosce veramente non essere.

2. Vico contro la storia dei filosofi e la "scoperta del mondo

umano"

Bacone con la critica degli "idola", Cartesio con le idee chiare e

distinte, Leibniz con la mathesis universalis, Spinoza con l'esaltazione della

ragione cui sottomettere passioni ed emozioni, erano tutti d'accordo nel

perseguire un ideale conoscitivo ispirato alla semplicità della matematica e al

rigore della logica.

Qual era, in questo contesto, il posto riservato al materiale

documentario dei popoli primitivi, che andava in quel periodo

accumulandosi? Non era, forse, un insieme di fantasiosi e distorti resoconti

di eventi e di persone reali? Non è vero che gli storici sono spesso in

contraddizione tra loro? Non è vero che inventano o spesso integrano episodi

con notizie inesatte o inesistenti o comunque non documentate? E che dire

delle esaltazioni o idealizzazioni di personaggi ed episodi, spesso ignobili,

compiute da storici per "amor di patria", in spregio alla onestà intellettuale?

Leibniz, che pur compose un'opera storica piuttosto voluminosa,

fornisce una difesa del tutto convenzionale della storia come di un mezzo per

Page 16: Appunti di Filosofia della Storia

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soddisfare le curiosità sull'origine delle famiglie e degli stati e come di una

scuola di moralità. La sua inferiorità nei confronti della matematica e della

filosofia fondata sulle scienze matematiche e naturali e sulle altre scoperte

della pura ragione, deve sembrare ovvia a tutti i pensanti.

La disattenzione per la storia non è dunque un fatto marginale, ma

1'effetto di un'impostazione filosofica. La storia non può essere una scienza.

E' al più una scuola di morale, dove non conta la scientificità del dettato

quanto la forza suasiva dell'insegnamento.

In netto contrasto con questo indirizzo, Vico sostiene che la storia non

è scienza ma può e deve diventarlo, perché «questo mondo civile egli

certamente è stato fatto dagli uomini» e pertanto è, più di qualsiasi altro

ambito del reale, scientificamente disciplinabile.

I fatti della storia sono fatti umani, operati dall'uomo, e quegli che li

conosce e pensa, è quello stesso uomo che li ha prodotti. Conoscere la

storia, è un rifare - ad opera dello spirito - ciò che lo spirito stesso ha fatto;

è un rimettere in azione - in un processo ricreativo - quelle medesime

cause, quelle stesse attività che l'uomo ha in sé, nella sua natura, e che egli

ha dispiegate nella creazione del suo mondo.

Nella storia l'uomo conosce se stesso, non certo in quell'essere che ha

ricevuto da Dio, e che è estraneo alla sua azione (quell'essere che Cartesio

credeva di cogliere attraverso il “Cogito”, l'essere dato), ma conosce se

stesso quale egli s'è fatto, quale s'è venuto facendo con la sua attività.

Soggetto e oggetto qui s'identificano davvero senza residuo: è la

verità, ma non più una verità astratta come quella della matematica, bensì

una verità fatta di realtà concreta, la realtà della “mente umana” nel suo

farsi e nel suo conoscersi, anzi della “mente” che si conosce attraverso il suo

farsi. Ed è un processo che, questa volta, con più ragione che non a

proposito del processo di costruzione del mondo matematico, può dirsi

analogo a quello divino della creazione.

3. Vico contro la storia degli storici

Oltre che contro la storia dei filosofi, Vico è contro la storia degli

Page 17: Appunti di Filosofia della Storia

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storici. Egli infatti è convinto, al pari dei filosofi suoi contemporanei, dei

gravi errori, delle contraddizioni e contraffazioni di cui molte ricostruzioni

storiografiche sono viziate. Si tratta di ricerche compiute in base a principi

interpretativi insufficienti o devianti , che egli denuncia come "boria delle

nazioni" e "boria dei dotti". Innanzi tutto la "boria delle nazioni", consistente

nell'inclinazione ad immaginare origini illustri per gli stati.

Per questo egli ritiene poco attendibili le ricostruzioni di Erodoto,

Tucidide, Polibio, Livio, troppo presi "dall'amor di patria".

Riferendosi alle opere di storici contemporanei, come Marsham,

Spencer e van Heurn, Vico rimprovera loro di aver preso alla lettera i

documenti degli storici alessandrini, per i quali la civiltà è cominciata con gli

egizi e con questi si è poi diffusa, come rivoli di un'unica sorgente.

Dove il loro errore? Nella lettura acritica di questi testi e cioè nel non

aver tenuto conto della "boria delle nazioni", di cui gli storici alessandrini

erano affetti. Chi non è cosciente di questa inclinazione, forte soprattutto nei

primi storici sforniti di senso critico, crede di fare storia attendibile solo

perché si attiene con scrupolo ai documenti del passato.

Denunciando la “boria delle nazioni", Vico intende riferirsi allo schema

concettuale ingenere, e al sistema di conoscenze e di credenze che uno

scrittore o un dossografo ha in sé, per il fatto stesso di appartenere a una

società storicamente data.

Lo schema concettuale usato e le cose conosciute o credute, per es.,

da un gruppo di narratori, quali i rapsodi, non sono prodotti individuali dei

rapsodi medesimi, bensì della società in cui essi vivevano e per cui creavano

i loro racconti. Le fonti tradizionali della documentazione storica non

riflettono perciò semplicemente i pregiudizi personali dell'individuo o degli

individui che sono stati strumenti del suo prodursi, sebbene, naturalmente,

anche questo possa capitare; ma, in misura molto più importante,

rispecchiano il sistema di credenze, di valori e di presupposti, sia fattuali sia

normativi,- e lo schema concettuale generale in cui sono collocati nella

società a cui quei creatori appartenevano. Non prender in esame lo schema

concettuale di un popolo che mira ad autoesaltarsi fantasticando origini

Page 18: Appunti di Filosofia della Storia

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illustri, significa restar prigionieri di catene che impediscono di interpretare

correttamente un documento.

Se la "boria delle nazioni" riguarda la documentazione di prima mano e

le ricostruzioni acriticamente fondate su di essa, la "boria dei dotti" riguarda

gli storici contemporanei, e consiste nell'interpretare il documento storico o

letterario supponendo che esso sia il prodotto di modi di pensare adatti a

società molto posteriori a quella che li ha effettivamente prodotti e, possibili

sono in esse.

4. La seconda fase della filosofia del Vico

Gli scritti nei quali il Vico espose la sua prima gnoseologia

appartengono al quadriennio 1708-1712. Nel decennio che seguì, il Vico fu

tratto a darsi sempre più alle ricerche sulla storia del diritto e della civiltà.

Nel ripiegarsi con la mente già gli apparteneva, di rientrare in possesso

di propri beni. Egli ricostruiva la storia dell'uomo; e che cosa era la storia

dell'uomo se non un prodotto dell'uomo stesso? Chi fa la storia se non la fa

l'uomo, con le sue idee, i suoi sentimenti, le sue passioni, la sua volontà, la

sua azione? E lo spirito umano, che fa la storia, non è quello stesso che si

adopera a pensarla e a conoscerla? La verità dei principi generatori della

storia nasce, dunque, non dalla forza dell'idea chiara e distinta, ma dalla

connessione indissolubile del soggetto con l'oggetto della conoscenza.

Il che importava che la scoperta che il Vico ora compiva, la verità che

egli ora riconosceva alle scienze morali, era la visione di un nuovo nesso del

principio gnoseologico già da lui formolato nel periodo precedente della sua

speculazione, ossia del criterio della verità riposto nella conversione del vero

col fatto. La ragione da lui addotta, per la quale l'uomo può avere perfetta

scienza del mondo umano, è per l'appunto che il mondo umano l'ha fatto

l'uomo stesso: e «ove avvenga che chi fa le cose esso stesso le narri, ivi non

può essere più certa l'istoria».

Il Vico non sentì dunque il bisogno di scrivere un nuovo libro

metafisico, perché gli sembrò che bastasse aggiungere una postilla al già

scritto e ritoccare alquanto le sue precedenti affermazioni. La sua nuova

Page 19: Appunti di Filosofia della Storia

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gnoseologia, tenendo fermo il criterio generale della verità contrapposto al

criterio cartesiano - e cioè, che solo chi fa le cose le conosce, - divideva le

cose tutte nel mondo della natura e nel mondo umano; e osservando che il

mondo della natura è stato fatto da Dio e perciò Dio solo ne ha la scienza,

restringeva l'agnosticismo solamente al mondo fisico, e dichiarava, per

contrario, che del mondo umano, come fatto dall'uomo, l'uomo ha la

scienza.

Elevava così le conoscenze, dapprima meramente indiziarie e probabili,

circa le cose dell'uomo al grado di scienza perfetta; ed esprimeva meraviglia

che i filosofi si studino con tanto impegno di conseguire la scienza del mondo

naturale, chiuso all'uomo, e trascurino il mondo umano o civile o delle

nazioni (come anche lo chiamava), del quale è possibile conseguire scienza.

In questo trovava la cagione nella facilità che la mente umana,

immersa e seppellita nel corpo, prova a sentire le cose del corpo, e nello

sforzo e fatica che le costa d'intendere sé medesima: come l'occhio

corporale vede tutti gli oggetti fuori di sé e, per vedere sé stesso, ha bisogno

dello specchio.

In ogni altra parte, le sue idee restavano immutate. Le discipline

naturali venivano considerate sempre come semiscienze; le matematiche

come una formazione astratta, validissima nell'astratto, priva di forza

innanzi al reale.

Nelle scienze matematiche, il principio della conversione del vero col

fatto è attuata solo in apparenza. Originale e vero, quel principio; originale e

vera la teoria delle matematiche; del tutto artificiale e fallace la connessione

delle due verità. Mancava (se non c'inganniamo) un effettivo rapporto tra il

concetto di Dio che crea il mondo, e, perché lo crea, lo conosce, e quello di

colui che costruisce arbitrariamente un mondo di astrazioni e, nel fare ciò,

non conosce nulla o conosce soltanto (quando non è più geometra o

aritmetico ma filosofo) che egli procede arbitrariamente. Nelle matematiche

(diceva il Vico) «l'uomo, contenendo dentro di sé un immaginato mondo di

linee e di numeri, opera talmente in quello con l'astrazione, come Dio

nell'universo con la realtà ».

Page 20: Appunti di Filosofia della Storia

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Nelle scienze morali, invece, il riscontro è tanto logico, che deve dirsi

senz'altro coincidenza. Il sapere umano è, qualitativamente, il medesimo del

divino, e al pari del pensiero divino conosce il mondo umano; sebbene,

quantitativamente più ristretto, non si estenda, come quello, al mondo della

natura. Nel campo umano, non più espedienti di debolezza, non più finzioni,

non più falsificazioni: qui si è nella maggiore concretezza del conoscere.

L'uomo crea il mondo umano, lo crea trasformandosi nelle cose civili; e, col

pensano, ricrea la sua creazione, ripercorre vie già percorse, la rifà

idealmente e perciò conosce con vera e piena scienza. Questo è davvero un

mondo, e l'uomo è per davvero il Dio di questo mondo.

La conversione del vero col fatto nelle scienze morali non poteva non

ripercuotersi nella trattazione del certo, ossia delle cognizioni storiche; il che

forma l'altro tratto importante della seconda gnoseologia vichiana.

Nella prima gnoseologia, quelle cognizioni erano legittimate e protette,

come si è visto, col parificarle a ogni altra sorta di conoscenze, tutte

egualmente deboli o egualmente forti, perché tutte fondate sulla probabilità

e sull'autorità, sia dell'individuo sia del genere umano. Ma, innalzata di sopra

alla autorità e alla probabilità la conoscenza dello spirito umano e delle sue

leggi, le cognizioni storiche, quantunque di loro natura fondate sempre in

qualche modo sull'autorità, venivano rischiarate di nuova luce. Il certo

doveva entrare in un nuovo rapporto, perché aveva ormai di fronte non un

altro certo, ossia una semplice conoscenza probabile circa lo spirito umano,

ma un vero, una conoscenza filosofica.

Questo rapporto è chiamato altresì dal Vico il rapporto di filosofia e

filologia, la prima delle quali versa circa «necessaria naturae» e contempla la

ragione onde viene la scienza del vero, la seconda circa «placita humani

arbitrii» e osserva l'autorità onde viene la coscienza del certo. L'una

considera l'universale, l'altra l'individuale, l'una (avrebbe detto il Leibniz) le

«vérités de raison», l'altra le «vérités de fait».

Distinzione che non è mantenuta dappertutto, presso il Vico, con la

medesima nettezza; tanto che a volte l'autorità contrapposta alla ragione

diventa, secondo lui, parte della ragione stessa, o si confonde con la

Page 21: Appunti di Filosofia della Storia

  21  

conoscenza dell'arbitrio umano, contrapposta a quella della volontà

razionale.

La filologia (nel significato vichiano, che è poi il significato esatto)

abbraccia non solamente la storia delle lingue e delle letterature, ma quella

altresì delle idee e dei fatti, della filosofia e della politica.

Certamente, la filologia, le verità di fatto, il certo non sempre erano

stati spregiati e messi in non cale come dai cartesiani. Il Grozio aveva dato

esempio di vastissima erudizione storica, messa a servigio delle sue dottrine

sul diritto naturale. Il Gravina, contemporaneo e connazionale del Vico,

richiedeva come necessarie al giurisperito non solo la «ratiocinandi ars», ma

la «latinae linguae peritia» e la. «notitia temporum». Ma il Vico notava che

filosofia e filologia rimanevano tuttavia, ai suoi tempi, estranee l'una

all'altra, come erano state quasi del tutto presso i greci e i romani.

Leggendo i libri dei filologi, egli provava un tal senso di vuoto e di

fastidio per l'affastellamento inintelligente di contrapposizioni storici, che era

tratto quasi a dare ragione a Cartesio e al Malebranche nel loro odio contro

l'erudizione.

Senonché quei due filosofi, in cambio di sprezzate l'erudizione,

avrebbero dovuto piuttosto indagare se non fosse stato possibile richiamare

la filologia ai principi della filosofia; e i filologi, da parte loro, invece di

arrecare i fatti a pompa di erudizione, debbono industriarsi di elaborarli a fini

di scienza. La filologia è da ridurre a scienza.

La riduzione non è possibile, non perché si tratti di cose eterogenee,

ma anzi perché quelle sono omogenee: la storia è già intrinsecamente

filosofia; non è possibile proferire la più piccola proposizione storica senza

plasmarla col pensiero, cioè, con la filosofia.

Ma poiché questo presupposto filosofico della filologia allora non era

avvertito e facilmente veniva negato, il Vico, mutato il suo punto di vista

filosofico, raggiunta la coscienza del metodo speculativo nella scienza

dell'uomo, doveva togliere la storia dalla sua condizione d'inferiorità, dalla

servitù al capriccio, alla vanità, al moralismo, alla precettistica o ad altri fini

estrinseci, e riconoscerle il fine proprio e intrinseco di necessario

Page 22: Appunti di Filosofia della Storia

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complemento del vero universale.

In pari tempo, la filosofia si sarebbe riempita di storia, affiatata con la

storia; e da questo affiatamento avrebbe acquistato maggiore larghezza e

un senso più vivo della realtà concreta da spiegare.

Nel pronunziare quella formola, il Vico voleva qualcosa di più e, di

solito, intendeva qualcosa d'altro. Questo qualcos'altro può, nel modo più

diretto, essere chiarito dall'appello che egli fa al Bacone e al suo «metodo di

filosofare più accertato»: metodo espresso nel titolo del libro baconeano:

Cogitata et visa, e che il Vico si proponeva di «trasportare dalle naturali alle

umane cose civili».

Esigeva, insomma, la costruzione di una storia tipica delle società

umane (cogitare), da riscontrare poi nei fatti (videre), accertando coi fatti la

costruzione ideale e avverando con la costruzione ideale i fatti, confermando

la ragione con l'autorità e l'autorità con la ragione; di una scienza che fosse

insieme filosofia dell'umanità e storia universale delle nazioni. Ora questa

costruzione che egli esigeva, questo qual cosa di mezzo tra il cogitare e il

videre, tra il pensiero e l'esperienza, questo misto dei due processi, è

intrinsecamente diverso dalla unità di filosofia e filologia in quanto

interpretazione filosofica dei dati di fatto.

Questa interpretazione è la storia vivente; non è né filosofia né storia,

ma una scienza empirica dell'uomo e delle società, formata da schemi che

non sono le extratemporali categorie filosofiche e neppure gl'individuali fatti

storici: una scienza empirica, e perciò né esatta né vera, ma solamente

approssimativa e probabile, e soggetta a verificazione e rettificazione da

parte così della filosofia come della storia.

5. Le tre "guise" della mente umana e le tre della storia

La «dignità» su cui si regge tutto l'edificio della Scienza Nuova è che,

essendo «questo mondo civile» certamente stato fatto dagli uomini, «se ne

possono, perché se ne debbono, ritrovare i principii dentro le modificazioni

della nostra medesima mente umana». D'onde deriva una coincidenza

perfetta tra i momenti ideali della vita dello spirito, le forme o categorie

Page 23: Appunti di Filosofia della Storia

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costitutive della struttura della mente, le leggi del suo funzionamento; quelle

che Vico chiama «guise» - cioè modi di operare - della nostra mente, da un

lato, e, dall'altro, le fasi di sviluppo, le «età» della storia del mondo civile o

umano.

Ora, le guise della mente umana sono tre: senso, fantasia, ragione

logica («mente pura»). Esse sono modi universali di atteggiarsi della mente

di fronte alla realtà per averne conoscenza, e si convertono in modi di agire

e forme di condotta corrispondenti, cioè:

• la passione e violenza bestiale (la «ferinità»),

• la soggezione a una legge di forza e di arbitrio,

• la libera osservanza dei dettami della ragione.

Gli uomini, prima sentono senza avvertire; dappoi avvertono con

animo perturbato e commosso; finalmente riflettono con mente pura. E

l'ordine delle cose umane fu il seguente: prima furono le selve, poi i tuguri,

quindi i villaggi, appresso le città, finalmente le accademie (organi di

riflessione filosofica).

Nel primo grado l'anima è tutta senso, la coscienza del soggetto è

sommersa e legata nella situazione dell'istante. L'umanità primitiva è

“ferinità”: più che uomini si tratta di “bestioni tutto stupore e ferocia”, tutto

impeto di disordinata passione (libidine) e di torbida violenza: è lo «stato di

natura» hobbesiano. Stato primitivo, questo, non tanto nel senso di

“cronologicamente anteriore”, destinato ad essere sostituito da uno stato

successivo; ma primitivo, nel senso di «originario» e indistruttibile, stato che

le fasi ulteriori superano ma non annullano, perché è il fondo permanente

della vita umana. Se nessuna forma di pensiero e nessuna società sono

possibili nel disordinato tumulto del senso e delle passioni, nessun pensiero

è possibile senza il senso, nessuna società è possibile dove ogni passione sia

spenta.

Nel secondo grado l'opacità della vita bestiale s'illumina, quando il

soggetto “avverte” la commozione che lo perturba, e afferma se stesso

quale si sente in quel perturbamento, e s'«esprime»: e perciò stesso investe

la “particolarità” sua d'una forma che la universalizza senza sopprimerla

Page 24: Appunti di Filosofia della Storia

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come particolarità, si libera dalla limitazione e dalla pressione dei suoi affetti

e delle sue impressioni con la fantasia. Cade in questo punto la genesi del

linguaggio e a un tempo della poesia: formazione spirituale, che è

indipendente dal raziocinio; pensare alogico, fantastico, creatore cioè non di

concetti astratti o di verità intellettive, ma di fantasmi concreti, espressioni

spontanee di esperienze immediatamente vissute. E accanto all'«esprimersi

della passione e in connessione con esso, anche la realtà circostante è

tradotta in un mondo fantastico, ed ecco un'altra produzione caratteristica di

questa fase della vita dello spirito, omogenea al linguaggio e alla poesia: il

mito.

Analogamente, nell'ordine pratico-sociale, il passaggio dallo «stato

fermo» agli “ordini civili” è segnato e determinato dalla legislazione; ma

questa è efficace solo in quanto “considera l'uomo qual è, per farne buoni usi

nell'umana società”, e non ne distrugge le passioni, ma le purifica ed eleva;

facendone dei vizi fattori di civile felicità. E, per esempio, dalla ferocia trae le

virtù e gli ordini militari, dall'avarizia l'attività e potenza economica,

dall'ambizione l'abilità politica. E il diritto, la legge si afferma originariamente

come superiorità di fatto di una volontà estranea, come autorità che

s'impone con la forza: come «oscurezza della ragione» unicamente

sostenuta dall'autorità. Ma “oscurezza della ragione” non significa “assenza”

di ragione, e meno che mai avversione alla ragione. La forza con cui le

passioni ferme degli uomini primitivi vengono domate e le utilità agguagliate

e dirette, non è mai la “mera” forza, la forza brutale: attraverso la

superiorità fisica si afferma anche una superiorità morale.

L'“oscurezza” della ragione frenatrice degli impulsi bestiali e creatori

dei primi ordini civili si manifesta come i timore di Dio e, come pietà

religiosa. Le forze naturali che minacciano gli uomini sono da essi sentite

come divinità terribili e punitrici.

E dalla pietà religiosa, dal timore della divinità, nacque la morale. E

virtù morale è quella che Vico chiama «conato», sforzo di repressione degli

impulsi passionali. E per tal via sorsero i matrimoni, per cui l'istinto della

procreazione è spiritualizzato dal «pudore» nel «timore di qualche divinità»

Page 25: Appunti di Filosofia della Storia

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(d'onde l'origine della famiglia, primo nucleo di organizzazione sociale e

politica); e per tal via la morte fisica fu vinta col culto delle tombe. E sorsero

le prime città e le prime leggi: fondate, sì, sulla forza, ma sulla forza

consacrata e spiritualizzata dalla religione. Come da parte dei soggetti non è

soltanto il timore della pena o comunque la considerazione dell'utile ciò che li

tiene sottomessi al potere costituito, così chi detta legge non esercita la

forza per la forza o a servizio del proprio vantaggio personale. Da parte dei

soggetti v'è una spontanea disposizione a riconoscere come giusto che il più

forte comandi, e da parte di chi con la forza ha conquistato il comando v'è la

tendenza a servirsene per proteggere i deboli e vincere le forze disgregative

della convivenza sociale.

Infine si giunge al terzo grado dello sviluppo della mente umana:

quello della riflessione ragionata, dell'indagine filosofica (la «mente pura»).

E nell'ordine sociale, attraverso la subordinazione agli uomini più forti o più

accorti, si viene gradualmente formando la coscienza della subordinazione

necessaria a una Legge suprema che comprende i deboli e i forti. In questo

grado, la natura umana, «fatta intelligente, benigna e ragionevole, riconosce

per leggi la coscienza, il dovere, la ragione».

6. Vico ripartisce la storia umana in età degli dei, età degli

eroi e età degli uomini

La prima comincia con uomini stupidi, insensati e errabondi bestioni, la

cui natura è contrassegnata dal prevalere dei sensi, priva di qualsiasi potere

riflessivo. I primitivi “sentono senza avvertire”, scrive Vico. E' l'età del senso

o di quella fase di crescita in cui si è “colpiti da oggetti non in quanto tali, ma

solo in quanto producono in noi una modificazione gradita o dolorosa o

eccitante, o deprimente: è il momento della soggettività ancor fresca ed

immediata, rispetto alla quale il mondo è ed interessa solo in quanto in me

si ripercuote”.

Oltre che età del senso, questa è detta anche età degli dei, per la

ragione che, incapaci di riflettere, gli uomini identificavano i fenomeni della

natura con altrettante divinità. E l'età dell'infanzia, allorché «la natura della

Page 26: Appunti di Filosofia della Storia

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mente umana - afferma il Vico - porta ch'ella attribuisca all'effetto la sua

natura, e la natura loro era in tale stato, d'uomini tutti robuste forze di corpo

che, urlando, brontolando, spiegavano le loro violentissime passioni; si

finsero il cielo esser un gran corpo animato, che per tal aspetto chiamarono

Giove [...] che col fischio dei fulmini e col fragore de' tuoni lor sembrava dir

qualcosa ». A motivo di questa visione della natura popolata di divinità

terribili e punitrici, «i primi costumi furono tutti aspersi di religione e di

pietà». Nasce così la "teologia poetica". «I primi uomini, che parlavano per

cenni, dalla loro natura credettero i fulmini, i tuoni cenni di Giove [...], che

Giove comandasse co' cenni, e tali cenni fossero parole reali, e che la natura

fosse la lingua di Giove; la scienza della quale lingua credettero

universalmente le genti esser la divinazione, la qual dai greci ne fu detta

"teologia", che vuol dire "scienza del parlar degli dei"».

Nel quadro della teologia poetica, «i primi governi furono divini, che i

greci direbbero "teocratici", ne' quali gli uomini credettero ogni cosa

comandare gli dei; che fu l'età degli oracoli, che sono la più antica delle cose

che si leggono sulla storia». Governi teocratici o repubbliche monastiche,

fondate sull'autorità paterna come vicaria di quella divina, crearono una

legislazione o diritto anch'esso divino, nel senso che le leggi venivano

imposte come espressione della volontà degli dei. Infatti, «i padri di famiglia

si richiamavano agli dei de' torti che erano stati loro fatti [...] e chiamavano

testimoni della loro ragione essi dei».

Ciò che qui conviene rilevare è che siamo dinnanzi a una immagine

unitaria di teologia poetica, di regime teocratico e di diritto divino. Si tratta

di un'unità sociologico-metafisica, nel senso che una dimensione rimanda

all'altra e tutte esprimono lo stesso stadio di sviluppo. La natura del

primitivo si riflette nelle credenze religiose e queste nell'organizzazione

sociale e questa a sua volta nella natura stessa degli uomini primitivi, non

più del tutto queste nell'organizzazione sociale e questa a sua volta nella

natura stessa degli uomini primitivi, non più del tutto sfrenata ma in via di

controllo e di contenimento.

All'età degli dei fa seguito l'età degli eroi, caratterizzata dal predominio

Page 27: Appunti di Filosofia della Storia

  27  

della fantasia sulla riflessione razionale. Le prime associazioni, formatesi per

auto-proteggersi dagli aggressori vaganti, vengono presto soggiogate

dall'auctoritas dei patres o capi tribù. Queste tribù si ampliano per

l'accorrere di quanti, privi di difesa, chiedono asilo e difesa. Sono i primi

schiavi che, dilatando i primi piccoli gruppi, danno luogo alle primitive forme

di vita stabile. Per tenere a freno la vita interna e prepararsi agli scontri con

eventuali tribù rivali, viene elaborato il diritto eroico, fondato cioè sulla

forza, « prevenuta già della religione che sola può tenere in dovere la forza

». Si tratta di un impianto sociale fondato sull'autorità, non discussa né

discutibile, perché espressione della volontà degli dei.

L'età degli eroi è l'età delle grandi inimicizie tra i popoli primitivi, i

quali, raggiungendo una certa coesione interna, rovesciavano all'esterno

tutto il loro potenziale distruttivo. È il mondo eroico, poetico e religioso

insieme, cantato da Omero, compendio di una potenza anonima e collettiva,

pervasa di un ideale maschio e guerriero.

All'età degli dei e degli eroi fa seguito l’età degli uomini o della

"ragione tutta spiegata". E un passaggio lungo e laborioso, caratterizzato da

lotte interne alle singole città e popoli, provocate da quanti, schiavi e servi,

cominciano a ribellarsi e a pretendere concessioni circa l'istituto del

matrimonio e i riti della sepoltura. Le registrazioni conseguenti, come il

riconoscimento di questi diritti, portano a forme di legislazione scritta e

quindi alla prosa. «Col volger degli anni, vieppiù le umane menti

spiegandosi, le plebi de' popoli si ricredettero finalmente della vanità di tal

eroismo, ed intesero esser essi d'ugual natura umana co' nobili; onde vollero

anch'essi entrare negli ordini civili delle città». Da qui le epiche lotte tra

agatho'i e kako'i in Grecia e tra patrizi e plebei a Roma, dalle quali e insieme

alle quali si svilupparono la disputa, la retorica, la filosofia. Dalla metafisica

fantasticata si passa alla metafisica ragionata; dalla vaga percezione degli

ideali di giustizia e verità alla loro esplicita tematizzazione. Il compendio di

questo laborioso periodo è rappresentato dalla polis greca e dalla filosofia di

Platone, che riassume questa stupenda stagione della ragione umana.

E' questa l'età in cui gli uomini pervengono finalmente alla coscienza

Page 28: Appunti di Filosofia della Storia

  28  

critica di quella saggezza intravista e vagamente percepita nella età

precedenti. Gli ideali, cui gli uomini primitivi avevano ispirato la loro

condotta ma senza una critica avvertenza, divengono ora oggetto di esplicita

tematizzazione. In questa età la storia si fonda su una «natura umana

intelligente, e quindi modesta, benigna e ragionevole, la quale riconosce per

leggi la coscienza, la ragione e il dovere». Il diritto è anch'esso «umano,

dettato dalla ragione umana tutta spiegata»; e i coscienza, la ragione e il

dovere. Il diritto è anch'esso «umano, dettato dalla ragione umana tutta

spiegata»; e i governi sono umani, nei quali, per l'ugualità di essa

intelligente natura, la qual è la propria natura dell'uomo, tutti si uguagliano

con le leggi.

In breve, si tratta di un mutamento generale, non nel senso che si

smarriscono le dimensioni tipiche delle età precedenti, ma nel senso che il

loro contenuto veritativo si ritrova più disciplinato e razionalmente assunto.

Si tratta di arricchimento e d’integrazione e non di rifiuto. E' la metafisica

naturale dei primitivi che diventa ora metafisica ragionata, con ovvie

ripercussioni sulle istituzioni sociali, religiose e civili.

Page 29: Appunti di Filosofia della Storia

  29  

II – GEORG WILHELM FRIEDRICH HEGEL (1770-1831)

Per la maggior parte degli storici del pensiero filosofico la Filosofia

della Storia elaborata da Hegel deve essere considerata come quella che

presenta una profondità di pensiero ed uno spessore concettuale nettamente

superiori a tutte le altre. Per tali storici come, ad esempio, Giovanni

Pellegrino, in altri filosofi della storia si rileva la tendenza a privilegiare in

maniera forse eccessiva il piano metastorico rispetto a quello storico,

cosicché le caratteristiche oggettive di un dato evento storico diventano

piuttosto sfumate. In Hegel, invece, ciò che è reale è razionale e ciò che è

razionale è reale. Ossia: è inconcepibile che nella realtà, ivi compresa quella

degli eventi storici, vi sia qualcosa refrattaria al pensiero. In altri termini

Hegel afferma che tutto ciò che è accaduto nella storia era giusto che

accadesse: e, di conseguenza, tutto ciò che si è verificato doveva verificarsi.

Di conseguenza i progetti e i tentativi che non si sono realizzati non

dovevano realizzarsi, in quanto non erano conformi alla razionalità storica.

Il pensiero hegeliano sulla Filosofia della Storia è contenuto nelle

Lezioni sulla filosofia della storia, tenute da lui

nel 1821, 1824, 1827 e 1831 nella Humboldt-Universität zu Berlin e,

raccolte e pubblicate nel 1840 in questa opera postuma da Eduard Gans e

dal figlio Karl Hegel.

1. La Storia come Storia della Ragione

“La ragione governa il mondo e quindi anche la storia universale

procede razionalmente.2”

Hegel vuole dimostrare che la storia segue i dettami della ragione e

che quindi sia possibile una Filosofia della Storia che riveli come

il progresso storico mondiale sia dovuto al procedere dialettico e quindi allo

svolgimento nella storia dello Spirito assoluto. Non sono le cose che

procedono dall'Assoluto, ma l'Assoluto è questo stesso procedere. L'Assoluto

                                                                                                               2  G. W. F. HEGEL, Lezioni sulla filosofia dela storia, La Nuova Italia, Firenze, 1941, p. 28.

Page 30: Appunti di Filosofia della Storia

  30  

non è una realtà trascendente che guida la storia ma esso stesso si realizza

nella storia. Da ciò se ne deduce che per Hegel la realtà infinita è opera di

un soggetto che tiene i fili della storia e che parla attraverso i suoi uomini,

quegli uomini che la storia l'hanno sempre fatta in prima persona, che come

strumenti nelle mani di questo ineluttabile essere supremo, ne operano il

naturale svolgimento. Cosicché le vicende del mondo non sono estranee

alla storia dello Spirito perché la storia del mondo è la storia stessa di Dio, è

la storia dell'avvento dello Spirito, del realizzarsi della Ragione.

Fine della storia del mondo è dunque che lo spirito giunga al sapere di ciò che esso è

veramente, e oggettivi questo sapere, lo realizzi facendone un mondo esistente,

manifesti oggettivamente se stesso. L'essenziale è il fatto che questo fine è un

prodotto. Lo spirito non è un essere di natura, come l'animale; il quale è come è,

immediatamente. [...] In questo processo sono dunque essenzialmente contenuti dei

gradi, e la storia del mondo è la rappresentazione del processo divino, del corso

graduale in cui lo spirito conosce se stesso e la sua verità e la realizza.3

2. La necessità del negativo

Lo spirito oggettivo creando la storia la indirizza sempre verso un fine

positivo anche quando sembra prevalere il negativo che invece è sempre

transitorio e necessario gradino su cui si esercita il progresso storico:

Noi vediamo un enorme quadro di eventi e di azioni, di infintamente varie formazioni

di popoli, stati, individui, in un succedersi instancabile... dappertutto vengono

proposti e perseguiti fini... Diffuso su tutti questi eventi e casi noi vediamo un umano

agire e soffrire, una realtà nostra dovunque e perciò dovunque una inclinazione o

un'avversione del nostro interesse... Talora vediamo il più vasto corpo di un

interesse generale procedere con maggiore difficoltà, e disgregarsi lasciato in preda

ad infinito complesso di piccoli rapporti; talora vediamo nascere il piccolo da un

enorme dispiegamento di forze, e l'enorme da ciò che appariva insignificante... e se

una vien meno, ecco che un'altra ne prende il posto.4

In questo procedere apparentemente contraddittorio si segnala come

prevalente l'elemento del "mutamento" che indica come dal negativo, dalla                                                                                                                3  Ivi, p. 61. 4  Ivi, pp. 10ss.

Page 31: Appunti di Filosofia della Storia

  31  

morte rinasca la vita, il positivo.

Osservando la vicenda d’individui, popoli e stati, che per un certo tempo

esistono... e quindi scompaiono, è la categoria del mutamento... A questa

categoria del mutamento è però senz'altro connesso anche l'altro motivo, che

dalla morte sorge nuova vita.5

3. La Storia come Storia della Libertà

Secondo Hegel, non tutte le razze che compongono il genere umano

hanno la stessa importanza nella storia dell’umanità. Lo sviluppo e

l’evoluzione storica dell’umanità non sono un fenomeno universale: il punto

di partenza unitario e determinante della storia è costituito dalla razza

bianca dell’occidente cristiano. Per Hegel tale superiorità della razza bianca è

dovuta al fatto che presso tale razza è nato e si è affermato il cristianesimo.

A questo punto diventa opportuno mettere in evidenza l’importanza

che nella filosofia della storia di Hegel rivestono lo Stato, considerato la

massima espressione dello Spirito Oggettivo, e le guerre: secondo il filosofo

tedesco lo Spirito si estrinseca in tre gradi, ovvero come Spirito Soggettivo,

Spirito Oggettivo e Spirito Assoluto.

Nel primo grado, quello dello Spirito Soggettivo, esso non oltrepassa i

limiti della coscienza individuale e della sensazione di attuare il regno della

ragione con l’intelletto e con la volontà. Ma questo compito che si prefigge lo

Spirito Soggettivo è infinito, mentre lo Spirito Soggettivo è per sua stessa

natura finito, ragion per cui non è in grado di raggiungere lo scopo che si

prefigge. Di conseguenza, lo Spirito Soggettivo si trova in una situazione

fortemente frustrante dalla quale non può uscire se non mediante il

passaggio allo Spirito Oggettivo.

Tale passaggio consiste nella consapevolezza da parte della coscienza

individuale della sua partecipazione a un “mondo etico”, nel quale lo Spirito

Oggettivo si è come obbiettivato in forme ed istituzioni superindividuali, che

hanno la capacità e il compito di potenziare le energie dell’individuo.

Secondo Hegel tali istituzioni superindividuali potenziatrici dell’energia

                                                                                                               5  Ibidem.

Page 32: Appunti di Filosofia della Storia

  32  

dell’individuo sono il diritto (esso regola e coordina come dal di fuori le

libertà individuali), la moralità (coscienza della obbligatorietà ed universalità

della legge interiore) e infine l’obbiettivarsi e il concretizzarsi dello Spirito

Oggettivo in quegli organi etici che sono la famiglia, la società civile e,

supremo tra tutti, lo Stato, in cui l’individuo trova la forza plasmatrice e

direttrice di tutte le sue attività spirituali.

Nella Filosofia della Storia di Hegel lo Stato (o la Nazione per utilizzare

un’altra parola) rappresenta il Bene superiore nonché l’ideale più importante

per tutti gli individui che fanno parte della Nazione: secondo Hegel

solamente nella realizzazione di tale ideale si realizza la libertà vera di tutti

gli individui che fanno parte dello Stato. Hegel sostiene che solamente nello

Stato si attua lo “Spirito del Popolo” (Volksgeist), che è la caratteristica più

importante che differenzia i popoli delle varie nazioni.

In questa perspettiva trova senso anche la “necessità del negativo”

come la guerra. Secondo il filosofo tedesco solamente attraverso i contrasti

tra gli Stati, ovvero solamente attraverso la guerra, si attua nel corso degli

eventi storici lo “Spirito del Mondo”, il quale si serve degli interessi

particolari dei singoli popoli come strumento per raggiungere i suoi fini

universali. Secondo Hegel lo studio della storia del genere umano sin dalle

ere più antiche ci dimostra che tutte le guerre nascono dal fatto che ogni

popolo si ritiene in diritto di difendere i propri interessi egoistici senza dare

importanza agli interessi degli altri popoli con i quali entra in guerra. A detta

di Hegel lo “Spirito del Mondo” può raggiungere i suoi fini universali perché i

popoli che scendono in guerra non si rendono conto del fatto che tali guerre

non servono soltanto per raggiungere i loro scopi particolari, ma anche e

soprattutto per permettere allo “Spirito del Mondo” di raggiungere i suoi fini

universali.

Secondo Hegel, i momenti in cui si realizza la storia universale sono

tre:

• storia orientale: in cui a essere libero è uno solo, il re, mentre gli

altri dipendono dal suo arbitrio e dal suo dispotismo;

• storia greco-romana: in cui sono alcuni ad essere liberi mentre

Page 33: Appunti di Filosofia della Storia

  33  

altri sono schiavi; tuttavia nel mondo greco la libertà è una

“libertà bella” dove il cittadino vive in armonia con lo Stato

mentre nel mondo romano la presenza della legge garantisce il

diritto alla libertà solo ai potenti;

• storia cristiano-germanica: in cui, attraverso la Riforma

protestante (che ha, secondo Hegel, liberato l'uomo dalle

strutture ecclesiastiche restituendogli la libertà di coscienza) e

la rivoluzione francese (che ha affermato l'eguaglianza politica

dei cittadini), tutti gli uomini diventano liberi.

Hegel vede nella monarchia costituzionale l'organica sintesi

di democrazia, aristocrazia e monarchia e quindi la migliore realizzazione

dello Stato. Lui vede nello Stato prussiano, e nella sua abolizione dei

privilegi nobiliari, la migliore realizzazione dello Stato. Infatti solo

l'uguaglianza fra tutti i cittadini fa sì che il singolo individuo possa sentirsi

parte del tutto ma sempre sotto la suprema autorità della legge e dello

Stato.

Ma pur in questo grado di sviluppo secondo Hegel lo Spirito non può

raggiungere l’eternità e l’infinitezza della sua natura. Per giungere a tale

infinitezza lo Spirito deve passare al grado di “Spirito Assoluto” che si

esprime in tre forme, ovvero come arte, come religione e come filosofia.

Nell’arte lo “Spirito Assoluto” pone e contempla la sua essenza

assoluta in un singolo oggetto sensibile.

Nella religione si attua l’unità dell’infinito e del finito, l’unione intima

dell’anima col divino come fondamento della realtà e della vita universale.

Ma tale unione dell’anima con il divino si compie nelle forme del

sentimento e dell’immagine. Solamente quando si passa dalla religione alla

filosofia secondo Hegel al sentimento e all’immagine si sostituisce il

pensiero, per cui lo “Spirito Assoluto” diventa finalmente in grado di pensare

se stesso e riesce a liberarsi da ogni limitazione e a conquistare la libertà

assoluta che non poteva raggiungere con la religione ma solamente con la

filosofia, che per Hegel altro non è che l’autocoscienza dello Spirito.

Page 34: Appunti di Filosofia della Storia

  34  

Qui bisogna anche notare che, per Hegel, tutte le precedenti filosofie,

dagli albori della filosofia greca in poi, sarebbero state delle fasi successive

di sviluppo in cui la coscienza dell’uomo avrebbe realizzato dei momenti

dello spirito, tendenti per loro logica coerente intrinseca ad una “definitività”

dell’assoluto, realizzatosi poi compiutamente con la filosofia hegeliana.

Un altro elemento che riveste grande importanza nella filosofia della

storia hegeliana è la convinzione del filosofo tedesco che sia possibile

comprendere il significato vero ed il fine ultimo degli eventi storici solamente

in retrospettiva. Hegel è convinto che il filosofo della storia abbia una

conoscenza ed una comprensione degli eventi storici maggiore sia dei loro

protagonisti sia degli storici che si sono interessati a tali eventi, in quanto i

primi non potevano avere una visione retrospettiva di tali eventi, mentre i

secondi si fermano alla descrizione degli eventi storici e tutt’al più alla

ricerca delle cause e delle conseguenze apparenti degli stessi, senza

ricercarne e comprenderne il significato profondo ed il fine ultimo nella storia

del genere umano.

4. Il Fine e la fine della Storia

Nella filosofia di Hegel, con il definitivo compimento dell’autocoscienza

dell’assoluto, si realizzerebbe anche la fine della storia. In realtà, per Hegel

la problematica del futuro della storia non è un tema che riguardai la

Filosofia della Storia. Il fatto che possono esserci successivi sviluppi e possa,

quindi, pensarsi che l’assoluto abbia future progressioni nella storia, è per

Hegel un problema estraneo ala filosofia, in quanto quest’ultima ha come

oggetto della sua attività speculativa il presente, considerato alla luce della

storia passata. Pertanto il futuro è estraneo al suo campo d’indagine.

La filosofia non può, per Hegel, determinare realtà future o

programmare nuove forme di uno stato, ma solo conoscere la realtà in cui è

chiamata ad operare. Così scrive Hegel nei Lineamenti di filosofia del diritto:

Così dunque, questo trattato, in quanto contiene la scienza dello Stato, dev’essere null’altro, se non il tentativo di intendere e presentare lo Stato come cosa razionale in sé. In quanto scritto filosofico, esso deve restar molto lontano dal dover costituire uno Stato come dev’essere; l’ammaestramento che può trovarsi in esso non può

Page 35: Appunti di Filosofia della Storia

  35  

giungere a insegnare allo Stato come dev’essere, ma, piuttosto, in qual modo esso deve essere riconosciuto come universo etico.

La filosofia nella storia prende coscienza del processo mediante il quale

l’Idea perviene alla sua realizzazione nella storia ed in essa ritrova il suo

principio. La verità, in Hegel, non si identifica nella corrispondenza tra

soggetto ed oggetto, ma scaturisce dal superamento dell’alterità

dell’oggetto, come corrispondenza tra soggetto ( il concetto) e la sua

oggettività (la storia).

Nell’autocoscienza, se l’assoluto giunge alla sua realizzazione, acnhe la

realtà storica perviene al suo compimento. Se, quindi, l’assoluto ha

realizzato il suo fine, anche la storia perviene alla sua fine: il fine della storia

coincide don la sua fine.La storia, del resto, non può essere infinita,

altrimenti, in tal caso, sarebbe priva di finalità da realizzare.

Sorge allora il problema: se la finalità della storia può essere

conosciuta solo nel suo definitivo compimento, perché solo alla luce dello

stadio finale dell’autocoscienza la logica interna al divenire storico può

essere compresa, l’uomo nella storia opererebbe in vista di una destinazione

“non ancora compiuta”. Il senso dell’agire dell’uomo nella storia sarebbe

occultato da finalità che trascendono l’uomo e che annullano la sua

individualità. Esso sarebbe destinato al ruolo di inconsapevole agente della

storia, destinato cioè a realizzare finalità storiche per esso non intelligibili.

Se l’agire umano dovesse svolgersi secondo un senso a lui non

conoscibile, se non nel definitivo compimento della storia, potrebbero

verificarsi situazioni come le seguente:

• In un caso l’operare dell’uomo nella storia sarebbe svincolato da

qualunque presupposto etnico, poiché ogni giudizio di carattere

etico sarebbe sospeso, in quanto solo alla fine del processo

storico sarebbe svelata la finalità e quindi anche il valore etico

dell’agire umano.

• In altro caso l’agire umano nella storia sarebbe caratterizzato da

un giustificazionismo assoluto, perché qualunque azione umana,

anche la più efferata, potrebbe essere concepita come un

momento di una necessità immanente scaturito dalla “astuzia

Page 36: Appunti di Filosofia della Storia

  36  

della ragione”, vale a dire, da finalità trascendenti rispetto ad

una storia, che si serve degli individui come strumenti di un

divenire il cui senso non è conoscibile che alla fine della storia.

Alla luce di tali problematiche, si potrebbe concludere che la filosofia

hegeliana è un sistema che nel proprio compimento contiene in sé

contraddizioni insanabili. Ma il fatto è che, secondo Hegel, la razionalità

immanente non possa occuparsi del futuro, perché la sua funzione è

acquisire coscienza di sé nel presente e nel passato storico, è esplicativo di

una logica che presiede alla scienza filosofica che, come scienza dell’essere,

non può avere per oggetto una storia futura perché quest’ultima, non

essendo ancora avvenuta, non è.

Inoltre, in tali considerazioni, comprendiamo come la filosofia della

storia di Hegel sia aliena da ogni forma di pretesto determinismo storico e,

dato che gli sviluppi della storia sono imprevedibili, per definizione non

possono essere oggetto di una riflessione filosofica preventiva o futuribile. La

struttura concettuale del sistema filosofico hegeliano è eminentemente

dialettica. Lo sviluppo dialettico è immanente alla storia e produce crisi della

società di ogni tempo, in vista di nuove sintesi che ne determinano il

superamento. È nello stesso sviluppo dialettico che si svolge nella storia che

si individua la dialettica tra presente e la sua alterità che è il futuro, quale

non essere del presente. Il futuro se fa presente nel momento in cui la realtà

attuale manifesta la sua crisi, da cui emergono contraddizioni dialettiche

interne allo sviluppo dello spirito, cui fanno riscontro ordinamenti, culture,

assetti sociali che non corrispondono più alle esigenze e alle aspirazioni del

presente storico.

È, dunque, nel presente storico che si attua il processo dialettico di

confronto tra l’attualità del presente e il suo divenire storico (sviluppo

dell’autocoscienza, della libertà), al fine di generare nuove sintesi che

rappresentano il superamento dello stato di cose presenti.

5. Lo Storicismo della Filosofia della Storia di Hegel

Riguardo a questo presunto compimento della storia e alla coscienza

Page 37: Appunti di Filosofia della Storia

  37  

della crisi manifestatasi successivamente alla filosofia hegeliana, sembra

assai rilevante citare la problematica esposta da Karl Jaspers in Origine e

senso della storia.

Jaspers, nell’orizzonte del declino della civiltà europea, elabora una

storicizzazione della filosofia hegeliana. Nella logica del pensiero di Jaspers,

il senso della storia si identificherebbe con la rappresentazione temporale di

un succedersi di momenti in cui nascono filosofie tra loro diverse per finalità

e strutture concettuali, tra loro però interconnesse per la loro intrinseca

successione nella loro temporalità storica. Non è possibile concepire la storia

quale entità metafisica esterna ai contenuti filosofici nelle sue varie fasi di

sviluppo nel tempo perché, in tal caso, i fenomeni storici potrebbero essere

interpretati solo alla luce della loro contingenza storica.

La storia ha invece una sua “storicità”, in quanto definita dalla filosofia

ed il divenire storico acquisisce un proprio senso in funzione delle

elaborazioni concettuali/filosofiche che presiedono alla origine dei fenomeni

storici. È, infatti, compito della scienza filosofica definire il concetto stesso di

storia e fornire alla storia stessa finalità che determinano il suo procedere

nel tempo, in una delle possibili direzioni o “destinazioni”, tra le tante

possibili, ma non tutte realizzabili.

La coscienza della crisi, di cui parla Jaspers, nata dalla dissoluzione

progressiva dell’ontologia dell’essere storico contingente, mediata con

l’universalità del concetto, come autocoscienza, ha senz’altro rappresentato

il declino di una cultura filosofica dominata dalla ricerca dell’essere e delle

categorie universali del pensiero. La coscienza della crisi è rappresentativa

di un pensiero che vive e si alimenta di una critica dissolutiva dei grandi

sistemi filosofici del passato, riducendo, per grandi linee, la realtà dell’uomo

nei limiti dell’esistenza e della contingenza temporale.

Ma la coscienza della crisi è solo un aspetto del declino della filosofia

hegeliana. Il fenomeno che ha maggiormente oscurato Hegel `costituito

dallo storicismo, dalla riproposizione in chiave ideologica della filosofia

hegeliana.

Lo storicismo si propone di rivelare il significato e il destino dell’uomo

Page 38: Appunti di Filosofia della Storia

  38  

nel corso della storia stessa, il cui sviluppo crea di per sé i valori e determina

la coscienza degli uomini. È la storia, nell’ottica dello storicismo, ad attribuire

senso alla vita dell’uomo. Lo storicismo postula l’adesione passiva dell’uomo

alla realità storica in cui vive. E, in tale contesto, l’uomo è strumento di

finalismi storici immanenti, che seguono il loro corso indipendente dalla sua

volontà. Tale concezione finalistica, che prende le mosse dalla

ideologizzazione della filosofia della storia hegeliana, si risolve in una teoria

totalizzante che non solo trasforma l’idealismo, da filosofia della libertà, in

giustificazionismo di qualunque ordinamento totalitario, ma sussiste perché

in grado di generare una sorta di “metafisica del conformismo”. Infatti,

qualora il corso dei fatti smentisca le premesse e le finalità della ideologia

storicista del turno, saranno le nuove verità emerse dalla storia, magari

opposte a quelle precedenti, a giustificare le nuove finalità cui l’uomo deve

supinamente conformarsi.

Fu, quindi, lo storicismo a far degenerare la filosofia di Hegel come

“filosofia del fatto compiuto” o della “provvidenzialità della storia”.

L’ideologia storicista corrisponde, semmai, al concetto hegeliano di

“mondo”. Il “mondo” hegeliano nasce da determinati presupposti storici, che

tuttavia vengono estraniati dalla storia e posti a fondamento di una realtà

assoluta totalizzante, che si riproduce in sé stessa, astraendosi dalla storia.

L’attuale capitalismo globale è, in tal senso, un “mondo”. La sua

autoreferenza riflessiva, infatti, è testimoniata proprio dalla teoria della fine

della storia, dall’identificare tout court la sua genesi storica con la storia in

generale. Storicismo e fine della storia sono casi intimamente legati, perché

il provvisorio vincente è portato irresistibilmente ad eternizzare idealmente

la propria provvisoria vittoria come “definitiva”.

In questo senso, è paradossale (ma anche facilmente spiegabile) che

le due principali forme contemporanee di teoria della fine della storia siano la

teoria staliniana del comunismo come fine della storia (o più esattamente il

comunismo partitico e dispotico nella forma staliniana) e, oggi, la teoria

capitalistica della fine della storia, presente sia in forma direttamente

apologetica (il neoliberalismo imperiale di Fukuyama), sia in forma liberale

Page 39: Appunti di Filosofia della Storia

  39  

moderata (il pensiero di Bobbi, Rawls e Habermas), sia infine nella forma

dell’avvento di un dispositivo tecnico anonimo ed impersonale (Gestell),

equivalente metaforico sofisticato di un modo di produzione capitalistico

marxiano privo della possibilità dialettica e pratica di superamento

(Heidegger).

Ma questa spiegazione non funziona per dei vari filosofi, come Croce,

Gramsci, Kojève, ecc. Essi ritengono che sia un errore l’assolutizzazione

metafisica del tempo storico, e l’illusione che la storia non abbia bisogno di

alcun fondamento esterno, essendo da sola fondamento a se stessa. Lo

storicismo è qui parallelo allo scetticismo, che pensa anch’esso che la

scienza sia da sola fondamento a se stessa, e non abbia bisogno di alcun

fondamento filosofico, spacciato come arcaico e premoderno.

Page 40: Appunti di Filosofia della Storia

  40  

III - KARL MARX (1818 – 1883)

Marx, filosofo, economista e uomo politico tedesco, ricevete una

educazione di impronta liberale ed illuministica. Incomincia studi di

diritto all'università di Bonn, poi a quella di Berlino, finché non si volge verso

la filosofia, secondo l’impulso a “cercare l'Idea nella realtà stessa”,

alimentato dalla lettura di Hegel. Collaboratore, dal maggio 1842, e poi

redattore capo del giornale liberale “Rheinische Zeitung”, Marx conduce, fino

alla vigilia della soppressione di esso (marzo 1843), una puntigliosa battaglia

nei confronti delle istituzioni statali, basandosi su una concezione del diritto

come figura razionale della libertà. Nel corso di successivi ripensamenti

intorno alla natura dello stato, Marx si attesta su una radicale posizione di

difesa dell’orientamento politico democratico.

Nell'ottobre 1843 Marx si trasferisce a Parigi per dare vita, insieme con

A. Ruge. ai «Deutsch-franzósische Jahrbucher», un tentativo di fondere il

proprio radicalismo filosofico. Marx sostiene ora la necessità di una

«emancipazione umana», consistente in una ri-appropriazione, ad opera

della società, delle essenziali forze umane estraniate nello stato. Marx indica

già ora, come portatrice di un’azione rivoluzionaria in Germania, la classe

proletaria in formazione.

Nei cosiddetti Manoscritti economico-filosofici del 1844 (editi nel 1932)

egli perviene a illuminare la situazione del lavoro nell’attuale società

capitalistica, come “lavoro alienato” sotto tre aspetti:

• separazione del produttore-lavoratore (l’operaio) rispetto ai

prodotti della sua attività;

• separazione del produttore rispetto alla sua stessa attività, ossia

autoestraneazione nella produzione;

• alienazione dell'uomo rispetto alla sua essenza di «uomo o ente

generico».

Espulso da Parigi su richiesta del governo prussiano, all'inizio del 1845

Marx si reca a Bruxelles. Qui, da un lato prosegue un'intensissima attività di

studio, scrivendo con l’amico F. Engels L'ideologia tedesca (pubblicata nel

1932), ove si trova esposta per la prima volta la sua più importante

Page 41: Appunti di Filosofia della Storia

  41  

innovazione filosofica: la concezione materialistica della storia.

Dall'altro lato, svolge con Engels un'intensa attività di organizzazione

rivoluzionaria: nel corso di un viaggio a Londra conosce Wilhelm Weitling,

capo teorico della ''Lega dei Giusti", formata in prevalenza di artigiani

tedeschi emigrati, e sostenitore di un comunismo "evangelico", ispirato ai

princìpi della fratellanza universale; forma un "Comitato di corrispondenza"

per coordinare le attività dei socialisti tedeschi, francesi e inglesi; aderisce,

sempre con Engels, alla "Lega dei Giusti", che nel 1847 diviene "Lega dei

comunisti", dandosi una struttura meno settaria e più democratica.

Per il secondo congresso della Lega Marx ed Engels scrivono il

Manifesto del partito comunista, pubblicato a Londra nel febbraio 1848.

Avendo disatteso l'obbligo di non pubblicare testi di carattere politico, Marx

viene arrestato ed espulso dal Belgio: all'inizio di marzo raggiunge dunque

Parigi, dove lo ha richiamato il governo provvisorio rivoluzionario.

Estendendosi la rivoluzione anche in Germania, Marx si reca a Colonia,

dove fonda la "Nuova Gazzetta renana", quindi a Berlino e a Vienna. La

sconfitta della rivoluzione del ’48 determina una nuova espulsione di Marx

dalla Germania e ripara a Londra, dove rimarrà sino alla morte.

È a Londra che Marx si dedica a quella grande opera sull'economia in

cui progetta di fornire un'analisi complessiva della società capitalistica

borghese e una compiuta teoria sulla quale fondare la prospettiva del

socialismo scientifico. Il lavoro teorico, che egli non riuscirà a completare,

produrrà nell'ordine: i Lineamenti fondamentali della critica dell' economia

politica (Grundrisse), pubblicati nel 1859; le Teorie su plusvalore , ed il cui

primo volume de Il Capitale, che viene pubblicato, dopo lunghissime

revisioni, nel 1867. Il secondo e terzo libro (stesi rispettivamente nel

decennio 1869-79 e nel 1865) saranno pubblicati postumi a cura di Engels

nel 1885 e nel 1894.

A fianco di questa attività scientifica, e particolarmente negli ultimi

quindici anni della sua vita, Marx si dedica, sempre con Engels, alla battaglia

politica all'interno del movimento operaio europeo. Nel 1864 partecipa alla

fondazione della Prima internazionale, per la quale scrive l'Indirizzo

Page 42: Appunti di Filosofia della Storia

  42  

inaugurale: la linea politica qui disegnata da Marx prevede la creazione di un

forte movimento operaio internazionale capace di superare ogni settarismo e

di coordinare la lotta per la conquista del potere politico e l'abolizione delle

classi, senza rinunciare a rivendicare obiettivi di carattere sindacale che

possono migliorare le condizioni di vita dei lavoratori e la loro compattezza

politica.

Sulle origini del suo pensiero, Engels ha scritto che tre sono le

influenze culturali che stanno alla base del marxismo:

• la filosofia classica tedesca da Hegel a Feuerbach;

• l'economia politica borghese da Smith a Ricardo;

• il pensiero socialista da Saint-Simon ad Owen.

1. La critica di filosofia hegeliana del diritto pubblico

(1843, editi nel 1927)

La Filosofia della Storia di Marx, comincia con un confronto critico con

la filosofia di Hegel e la critica fatta ad Hegel da Feuerbach.

Secondo Marx lo «stratagemma» di Hegel consistete nel fare delle

realtà empiriche delle manifestazioni necessarie dello Spirito. Questo

significa che invece di limitarsi a constatare, ad esempio, che in certi

ordinamenti storici esiste la monarchia, Hegel afferma che lo Stato

presuppone per necessità una sovranità, la quale si incarna necessariamente

nel monarca, che è la sovranità statale personificata. Inoltre, poiché ciò che

è necessario, per Hegel, è anche razionale, egli deduce la piena «logicità»

della monarchia, identificandola con la razionalità politica in atto.

Marx definisce questo procedimento “misticismo logico”, poiché in virtù

di esso le istituzioni, anziché comparire per ciò che di fatto sono, finiscono

per essere “allegorie” o personificazioni di una realtà spirituale che se ne sta

occultamente dietro di essi. Esaminando il “mistero” di questa “costruzione

speculativa”, Marx arriva alla conclusione che essa è il risultato del

capovolgimento idealistico del rapporto empirico fra soggetto e predicato, fra

piano del concreto e quello astratto. L'idealismo fa dunque del concreto la

manifestazione dell'astratto, e di ciò che viene empiricamente prima la

Page 43: Appunti di Filosofia della Storia

  43  

manifestazione di ciò che viene dopo. Ecco in che senso Hegel, dopo essersi

costruito il concetto astratto di Spirito partendo dalla realtà, finisce per fare

della realtà la manifestazione dello Spirito. Al metodo “mistico” di Hegel,

Marx oppone polemicamente il metodo trasformativo, che consiste nel ri-

capovolgere ciò che l'idealismo ha capovolto, ossia nel riconoscere di nuovo

ciò che è veramente soggetto e veramente predicato.

Oltre che essere fallace sul piano filosofico, il metodo “mistico” di

Hegel è anche conservatore sul piano politico, poiché porta a “canonizzare” o

a “santificare” la realtà esistente, ossia a “razionalizzare” i dati di fatto,

trasformandoli in manifestazioni razionali e necessarie dello Spirito. Per cui

l'esito del giustificazionismo speculativo di Hegel (secondo il quale ciò che è

reale è razionale) è un giustificazionismo politico, che, facendo la corte ai

fatti, conduce all'accettazione delle istituzioni statali vigenti, puntellando

ideologicamente la reazione.

Feuerbach aveva già operato, prima di Marx, il rovesciamento della

filosofia hegeliana, sostituendo all’astrazione dell’Idee, come protagonista

della storia, l’Uomo, cioè un essere non limitato all’aspetto, che Feuerbach

considerava epifenomenico, della coscienza, ma considerato nella globalità

degli aspetti della sua natura, come essere sociale caratterizzato da bisogni,

capace di amare, segnato da dolore.

Per Feuerbach l’essenza dell’Uomo è già realizzata, e non si manifesta

appieno nella vita sociale, nella forma della comunità, soltanto perché essa è

mistificata, nascosta agli occhi degli uomini, pur essendo presente nella

totalità delle sue determinazioni. Per questo Feuerbach faceva del problema

del progresso storico un puro problema de educazione e concepiva la propria

filosofia come un atto rivoluzionario perché secondo lui essa strappava il

velo che nascondeva agli uomini l’immagine della loro essenza realizzata.

2. La critica di Marx a Feuerbach

Marx, nonostante accette sostanzialmente la critica di Feuerbach a

Hegel, ritiene che questo pecca nel considerare l’essenza dell’Uomo già

realizzata, e quindi nell’identificare “l’Uomo” con “gli uomini storici reali”. Egli

Page 44: Appunti di Filosofia della Storia

  44  

rimprovera cioè a Feuerbach di non avere visto la contradizione tra

l’esistenza e l’essenza come struttura ontologica fondamentale dell’uomo

nella storia.

Per questo il problema della storia non è quello di squarciare, con

l’educazione, il velo che nasconde all’uomo la sua essenza, ma quello

dell’“autogenerazione dell’uomo”. L’autogenerazione dell’uomo non potrá

essere compiuta che nel momento in cui sará superata, con il comunismo, la

contradizione tra gli individui e la società come consolidazione del prodotto

della loro attività. E questo superamento non pone all’uomo cosciente un

compito educativo, teorico, che presuppone “un individuo umano astratto-

isolati”, ma un compito pratico, rivoluzionario, perché non si tratta di aprire

la mente agli individui per trasformare la società ma, viceversa, di

trasformare la società – che è diventata una realtà indipendente dagli

individui e li condiziona – per liberar gli individui stessi.

Per Marx quindi, la storia rimane un processo dialettico, come per

Hegel, ma il soggetto di questa dialettica non è l’Idea, bensì la società degli

uomini reali.

Ma il fatto che Marx parli di “individui totali” presuppone quindi la

presenza nella storia di una idea dell’Uomo che consente di distinguere un

Uomo totale dell’uomo unilaterale. Tuttavia, Marx era un rivoluzionario, e la

sua principale preoccupazione era quella di trasformare la società del suo

tempo con gli uomini del suo tempo. Egli quindi era particolarmente attento

ad evitare qualunque affermazione filosofico-storico che potesse dar

l’impressione di sostituire un’astrazione agli uomini concreti come

protagonisti della storia. Con questo rovesciamento che fa astrazione a priori

dalle condizioni reali, diventa possibile trasformare l’intera storia in un

processo di svolgimento della coscienza.

Gli uomini concreti quindi non devono, per Marx, essere ridotti

all’astrazione feuerbachiana dell’Uomo, ma devono essere considerati “nel

loro contesto sociale determinato”, “nelle loro date condizioni di vita che li

hanno fatti divenire ciò che essi sono”. Ne consegue che “ciò che viene

chiamato “vocazione”, “fine”, “genere”, “idea” della storia precedente non è

Page 45: Appunti di Filosofia della Storia

  45  

che un’astrazione della storia successiva, un’astrazione dell’influenza attiva

che la storia precedente esercita sulla successiva”.

Marx ammonisce dunque a considerare protagonisti della storia gli

individui concreti, nella materialità della loro vita quotidiana, a non

ipostatizzare le idee, come fa Hegel. Resta però il fatto che la sua

preoccupazione preminente è quella di dimostrare come la realtà sociale

determina gli individui e non quella di dimostrare al contrario come gli

individui a loro volta determinano la realtà sociale.

3. Manifattura e Grande Industria

La questione delle macchine assume nella riflessione marxiana sulla

storia moderna un ruolo centrale, analogo a quello della rivoluzione francese

nella filosofia hegeliana della storia.

Marx distingue, in polemica con Smith, un periodo della manifattura, in

cui la base del processo lavorativo è la divisione del lavoro, da un periodo

della grande industria, la cui genesi è il rivoluzionamento del mezzo di lavoro

ed il cui fondamento è un sistema di macchine azionato da una forza motrice

artificiale. La distinzione è netta: nella divisione manifatturiera del lavoro il

processo di differenziazione delle operazioni e degli operatori porta al

raffinamento degli utensili impiegati. In questo periodo permane ancora la

base tecnica del lavoro artigianale e si ha solo quello che Marx chiama il

“processo di sottomissione formale del lavoro”. Ma è con la ricomposizione

degli utensili nel macchinario azionato da energia artificiale che si realizza la

sottomissione effettiva, reale (wirlklich), del lavoro al comando capitalistico.

Il sistema di fabbrica è il trasferimento dell’attività di elaborazione del

materiale dall’uomo alla macchina operatrice, è il porsi del sapere scientifico

come forma immediatamente produttiva nella forma oggettivata del

macchinario.

Si ha dunque il passaggio da un principio soggettivo di realizzazione

dell’attività lavorativa con la manifattura ad un principio oggettivo di

sussunzione del lavoro nel macchinario con la fabbrica.

Il dominio del lavoro morto sul lavoro vivo ha pertanto duplice

Page 46: Appunti di Filosofia della Storia

  46  

significato: da una parte il lavoro passato, oggettivato in forma di capitale,

domina autoritariamente il lavoratore in fabbrica, sul mercato e nella

società, dall’altra questo dominio storico, che si costituisce nel periodo della

manifattura, assume solo nell’uso capitalistico delle macchine la sua forma

tecnica. Il lavoro in quanto attività finalizzata, intelligenza capace di

progettare e manipolare, “volontà conforme a uno scopo”

(Zweckmässigkeit), si é ora trasferito nella macchina, condensato di sapere

scientifico e tecnico, mentre al lavoro vivo non restano che mansioni

semplici di esecuzione e controllo. In questo processo di scissione

(Scheidungsprozess) si realizza la sottomissione reale del lavoro al comando

capitalistico, si realizza cioè per la prima volta la base effettiva, materiale e

spirituale, della società capitalistica.

Nel macchinismo si condensano due processi storici: da una parte un

salto di qualità nel processo di emancipazione dell’uomo dai vincoli naturali,

dall’altra un costituirsi della ragione come mondo dell’oggettività, dal

macchinismo alle leggi di mercato, di fronte a cui il lavoro vivo si coglie

soltanto come essere-comandato, come passività all’interno della scissione

fra direzione ed esecuzione del processo lavorativo. Con questo processo

storico la divisione fra lavoro intellettuale e manuale, che costituisce il

fondamento della divisione sociale e delle forme storiche di scissione fra

coscienza ed esperienza, passa ora dalla società al processo lavorativo.

4. Alienazione ed Estraneazione

Il processo di scissione fra possesso delle condizioni di lavoro e lavoro

erogato si sviluppa nella scissione fra razionalità oggettivata nel macchinario

e lavoro privato di autonomia e razionalità consapevole. Questo mondo della

scissione coinvolge lo stesso capitalista. Quando Marx afferma che 1’impresa

capitalistica presuppone che il padrone non lavori intende non solo affermare

la necessità di un margine minimo di pluslavoro, ma intende anche

sottolineare il processo storico di scissione del comando sul lavoro dal lavoro

stesso. Questo processo si sviluppa ulteriormente nella separazione del

proprietario dal direttore di fabbrica, nella distinzione fra “funzioni del

Page 47: Appunti di Filosofia della Storia

  47  

capitale espletate con coscienza e volontà” ed intreccio di funzioni di

comando, disciplinari e tecniche.

Mentre nella manifattura l’impiego diretto dell’utensile e la padronanza

di una pur parcellizzata esperienza professionale rendono ancora il lavoro

qualcosa che 1’operaio coglie come proprio e insieme altro-da-sè, nella

fabbrica il riconoscersi, sia pure parziale e conflittuale, nel frutto del lavoro

svanisce di fronte al sistema di macchine.

Il concetto di “alienazione” affonda le sue radici nella filosofia tedesca

precedente, ma trova le sue più proprie origini nel pensiero di J. J.

Rousseau. Per Hegel l'alienazione è il movimento stesso dello Spirito, che si

fa altro da sé, nella natura e nell'oggetto, per potersi ri-appropriare di sé in

modo arricchito. Come tale l'alienazione riveste, in Hegel, un significato

negativo e positivo al tempo stesso.

In Feuerbach l'alienazione è qualcosa di puramente negativo, poiché si

identifica con la situazione dell'uomo religioso, che, “scindendosi”, si

sottomette ad una potenza estranea (Dio) che lui stesso ha posto,

“estraniandosi” in tal modo dalla propria realtà.

Marx si rifà soprattutto a Feuerbach, da cui accetta la visione formale

del processo costitutivo dell'alienazione, intesa appunto come una condizione

patologica di “scissione”, di “dipendenza” e di “autoestraniazione”. Tuttavia,

a differenza di Feuerbach, per il quale l'alienazione è ancora un fatto

prevalentemente coscienziale, derivante da un'errata interpretazione di sé,

in Marx essa diviene un fatto reale, di natura socio-economica, in quanto si

identifica con la condizione storica del salariato nell'ambito della società

capitalistica.

L'alienazione dell'operaio viene descritta da Marx sotto quattro aspetti

fondamentali, strettamente connessi fra di loro:

• II lavoratore è alienato rispetto al prodotto della sua attività, in

quanto egli, in virtù della sua forza-lavoro, produce un oggetto

(il capitale), che non gli appartiene e che si costituisce come una

potenza estranea e dominatrice nei suoi confronti.

• II lavoratore è alienato rispetto alla sua stessa attività, la quale

Page 48: Appunti di Filosofia della Storia

  48  

prende la forma di un “lavoro forzato” o “costrittivo”, in cui egli è

strumento di fini estranei (il profitto del capitalista), con la grave

conseguenza che l'uomo si sente “bestia” quando dovrebbe

sentirsi veramente “uomo”, cioè nel lavoro sociale, e si sente

uomo quando fa la bestia, cioè si “stordisce” nel mangiare, nel

bere e nel procreare. Infatti sebbene queste ultime, puntualizza

Marx, siano “anche funzioni schiettamente umane”, esse, in

quell'astrazione che le separa dalla restante cerchia dell'attività

umana, e le fa diventare scopi ultimi e unici, sono funzioni

animali.

• II lavoratore è alienato rispetto alla sua stessa “essenza” o

“genere”. Infatti la prerogativa dell'uomo nei confronti

dell'animale è il lavoro libero, creativo e universale, mentre nella

società capitalistica è costretto ad un lavoro forzato, ripetitivo e

unilaterale.

• II lavoratore è alienato rispetto al prossimo, perché “l'altro”, per

lui, è soprattutto il capitalista, ossia un individuo che lo tratta

come un mezzo e lo espropria del frutto della sua fatica, facendo

sì che il suo rapporto con lui, e con l'umanità in genere, sia per

forza conflittuale.

La causa del meccanismo globale dell'alienazione, la quale fa sì che

l'operaio sia ridotto a strumento per produrre una ricchezza che non gli

appartiene e che si erge di fronte come potenza estranea, risiede dunque

nella proprietà privata dei mezzi di produzione, in virtù della quale il

possessore della fabbrica (= il capitalista) può utilizzare il lavoro di una certa

categoria d’individui (= i salariati) per accrescere la propria ricchezza,

secondo una dinamica che Marx, nel Capitale, descriverà in termini di

“sfruttamento” e “logica del profitto”.

La negazione della alienazione dell'uomo si deve dunque identificare,

nella prospettiva di K. Marx, con il superamento del regime della proprietà

privata e con l'avvento del comunismo.

Di conseguenza, per il Marx, la storia si configura come il luogo della

Page 49: Appunti di Filosofia della Storia

  49  

perdita e della possibile riconquista, da parte dell'uomo, della propria

essenza, e il comunismo diviene “la soluzione dell'enigma della storia”.

Ancora una volta, il rapporto Marx-Hegel, nelle analogie e nelle

diversità, si rivela decisivo. Infatti nel capitolo finale dei Manoscritti Marx fa

ancora una volta i conti col vecchio maestro. Egli riconosce ad Hegel una

serie di meriti:

• per aver concepito l'uomo in un'ottica storica e come risultato

della propria attività, ossia come processo di autogenerazione;

• per aver sottolineato in tale processo autoformativo l'importanza

del lavoro;

• per aver inteso tale processo in termini di alienazione e

soppressione dell'alienazione;

• per aver evidenziato “la dialettica della negatività come principio

motore e generatore”, ossia per aver intuito che la liberazione

scaturisce dialetticamente dall'oppressione, in quanto l'unico

modo di realizzarsi, per l'uomo, consiste nel negare le condizioni

che negano il proprio essere.

Tuttavìa, sebbene Hegel, in tal modo, abbia colto "l'espressione

astratta, logica, speculativa per il movimento della storia", i suoi limiti

consistono sostanzialmente:

• nell'aver ridotto l'individuo ad “autocoscienza” o “spirito”,

mettendo quindi, al posto dell'uomo reale, l'essenza astratta di

esso;

• nell'aver considerato soprattutto il lavoro spirituale e

“speculativo”, quale si incarna nella figura del filosofo;

• nell'aver inteso l'alienazione e la disalienazione come delle

operazioni ideali, che si consumano a livello coscienziale e

filosofico e non sul piano pratico;

• nell'aver identificato l'alienazione con il processo di

oggettivazione in quanto tale, ovvero come costituente

ineliminabile e necessario della prassi del soggetto, non

rendendosi conto che ciò che aliena l'individuo non è

Page 50: Appunti di Filosofia della Storia

  50  

l'oggettivazione in quanto tale, ma quell'oggettivazione negativa

e disumanizzante che è propria del lavoro operaio nella società

capitalistica.

In sintesi, Hegel non ha fotografato la storia vera ed il suo processo

concreto di alienazione e disalienazione, poiché si è limitato a descrivere una

storia ideale ed astratta, che si svolge tutta nel cerchio del puro pensiero e

che non presuppone degli interventi pratici sul mondo. Di conseguenza, la

teoria di Hegel non ha niente a che fare con l'alienazione e la disalienazione

effettiva, essendo piuttosto lo specchio mistificato di essa. Ma se

l'alienazione economica è un fatto reale, che sta alla base di tutte le altre

alienazioni, soprattutto di quella politica e di quella religiosa, l'unico modo

per abbatterla, secondo Marx, è l'atto reale, e non puramente pensato, della

rivoluzione e dell'instaurazione del socialismo, inteso come “umanismo

giunto al proprio compimento”.

5. La concezione materialistica della Storia

La decisiva scoperta del fondamento immotivato del principio della

proprietà privata posto a base delle teorie della economia politica classica

(Smith e Ricardo); l’essere venuto in chiaro circa la funzione costitutiva

dell’alienazione svolta dai rapporti economici propri dell’economia di mercato

capitalista, segnano il passaggio di Marx dall'umanismo al materialismo

storico, ovvero la transizione dall'antropologia speculativa e filosofica

dell’idealismo al “sapere reale” della storia. Il testo in cui si concretizza tale

processo è L'ideologia tedesca, scritta da Marx ed Engels insieme, con la

collaborazione di M. Hess, durante l'esilio di Bruxelles (1845-1846) e rimasta

inedita sino al 1932.

Il discorso scientifico storico-materialistico di Marx ed Engels, in merito

alla forma costituita della moderna alienazione, presuppone l’assunto che vi

sia una basilare contrapposizione fra due ordini dell’universo solitamente

designato come “sapere”: fra la “scienza reale e positiva” da un lato, e l’

Page 51: Appunti di Filosofia della Storia

  51  

“ideologia” dall’altro6.

Sotto il termine di “ideologia” sostanzialmente Marx ed Engels indicano

la “falsa rappresentazione” della realtà, e sottolineano come sia della

massima importanza intendere il processo per cui alla “comprensione

oggettiva” dei rapporti reali fra gli uomini, invariabilmente si sostituisca

un'immagine deformata di essi.

Evidentemente l'intento di Marx è quello di svelare, al di là delle

ideologie, la verità sulla storia, mediante il raggiungimento di un punto di

vista obbiettivo sulla società, che permetta di descrivere non ciò che gli

uomini “possono apparire nella rappresentazione propria o altrui, bensì quali

sono realmente” (L'ideologia tedesca, p. 12). Questo programma comporta,

ovviamente, la distruzione della vecchia filosofia idealistica e l'inaugurazione

di una nuova “scienza”.

Ma che cos'è l'umanità, intesa finalmente in modo scientifico e non

ideologico? Marx risponde che essa è una specie evoluta, composta di

individui associati, che in primo luogo sono chiamati a lottare per la propria

sopravvivenza. Di conseguenza, la storia non è, primariamente, una serie di

eventi spirituali, ma un processo materiale fondato sulla dialettica bisogno-

soddisfacimento.

Ed è proprio quest'azione “materiale” che umanizza l'uomo. Infatti,

commenta ironicamente Marx, si possono distinguere gli uomini dagli animali

per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole, ma essi

cominciarono di fatto a distinguersi dagli animali allorché, in virtù della

necessità, cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza. Alla base

della storia vi è dunque il lavoro, che Marx intende come creatore di civiltà e

di cultura e come ciò attraverso cui l'uomo si rende tale, emergendo

dall'animalità primitiva e distinguendosi dagli altri esseri viventi.

Nell'ambito di quella “produzione sociale dell'esistenza” che costituisce

la storia, bisogna distinguere, secondo Marx, due elementi di fondo: le forze

produttive da un lato e i rapporti di produzione dall’altro.

                                                                                                               6  Il termine “ideologia” ala fine del Settecento aveva assunto in Francia il significato di un’analisi gnoseologico delle idee nel loro processo di derivazione delle sensazioni, ossia uno studio sulla base empirica del sapere socialmente accessibile agli uomini.

Page 52: Appunti di Filosofia della Storia

  52  

Per forze produttive Marx intende tutti gli elementi necessari al

processo di produzione, ossia, fondamentalmente:

• gli uomini che producono (= la forza-lavoro);

• i mezzi (terra, macchine ecc.) che essi utilizzano per produrre (=

i mezzi di produzione);

• le conoscenze della tecnica e di tipo scientifico di cui si servono

per organizzare e migliorare la loro produzione.

Per rapporti di produzione Marx intende i rapporti che si instaurano fra

gli uomini nel corso della produzione e che regolano il possesso e l'impiego

dei mezzi di lavoro, nonché la ripartizione di ciò che tramite essi si produce.

I rapporti di produzione trovano la loro espressione giuridica nei rapporti di

proprietà.

Forze produttive e rapporti di produzione costituiscono, nella loro

globalità, il “modo di produzione” di un certo periodo. L'insieme dei rapporti

di produzione, o, più in generale, la base economica, quale si esprime nel

“modo di produzione” costituisce la struttura, ovvero lo scheletro economico,

della società, intesa come organismo complessivo.

Infatti, rispetto alla totalità sociale, la struttura rappresenta il

piedistallo concreto su cui si eleva una sovrastruttura giuridico-politico-

culturale. In altre parole, il termine sovrastruttura sta ad indicare che

secondo il materialismo storico i rapporti giuridici, le forze politiche, le

dottrine etiche, artistiche, religiose e filosofiche non debbono essere intese,

idealisticamente, come delle realtà a sé stanti ed indipendenti, ovvero come

libere produzioni della libera coscienza raziocinante, ma come delle

espressioni più o meno dirette dei rapporti che definiscono la struttura di

una certa società storica.

La mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per se stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell'esistenza; e che l'anatomia della società è da cercare nell'economia politica. Il risultato generale al quale arrivai e che, una volta acquisito, mi servì da filo conduttore nei miei studi, può essere brevemente formulato così: nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppò delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura

Page 53: Appunti di Filosofia della Storia

  53  

economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva la sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza...7

Di conseguenza, non sono le leggi, lo Stato, le forze politiche, le

religioni, le filosofie ecc. che determinano la struttura economica della

società (= idealismo storico), ma è la struttura economica che determina le

leggi, lo Stato, le religioni, le filosofìe ecc. (= materialismo storico ossia, le

vere forze motrici della storia non sono di natura spirituale, come pensavano

per lo più i filosofi precedenti, bensì di natura socio-economica).

6. Storia dell’uomo come Storia Della Libertà

Forze produttive e rapporti di produzione, oltre che rappresentare la

chiave di lettura della statica della società, si configurano anche come lo

strumento interpretativo della sua dinamica, poiché si identificano con la

molla propulsiva del suo divenire, ovvero con la legge stessa della storia.

Marx ritiene infatti che ad un determinato grado di sviluppo delle forze

produttive tendano a corrispondere determinati rapporti di produzione e di

proprietà (ad esempio, rapporti di produzione di tipo feudale corrispondono a

forze produttive di tipo agricolo). Tuttavia i rapporti di produzione si

mantengono soltanto sino a quando favoriscono le forze produttive e

vengono distrutti quando si convertono in ostacoli o catene per le medesime.

Ora, poiché le forze produttive, in connessione con il progresso

tecnico, si sviluppano più rapidamente dei rapporti di produzione, che

esprimendo delle relazioni di proprietà tendono a rimanere statici, ne segue

periodicamente una situazione di frizione o di contraddizione dialettica fra i

due elementi, che genera "un'epoca di rivoluzione sociale”. Infatti, sostiene

Marx, le nuove forze produttive sono sempre incarnate da una classe in

ascesa, mentre i vecchi rapporti di proprietà sono sempre incarnati da una

classe dominante al tramonto.

Di conseguenza, risulta inevitabile lo scontro fra di esse, che si gioca

                                                                                                               7  Prefazione a Per la critica dell’economia politica.

Page 54: Appunti di Filosofia della Storia

  54  

non solo a livello sociale, ma anche politico e culturale (sotto forma, in

quest'ultimo caso, di “battaglia ideologica”). Alla fine finisce sempre per

trionfare la classe che risulta espressione delle nuove forze produttive, che

in tal modo riesce ad imporre la propria maniera di produrre e di distribuire

la ricchezza, nonché la sua specifica visione del mondo (ideologia), poiché

“le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè la

classe che è la potenza materiale dominante è in pari tempo la sua potenza

spirituale dominante”.

Questo modello teorico, secondo Marx, trova la sua tipica

esemplificazione, per quanto riguarda il tempo presente, nel capitalismo

moderno: nella sua forma economica si sta delineando una contraddizione

sempre più “esplosiva” fra forze produttive sociali e rapporti di produzione

privatistici. Infatti la fabbrica moderna, pur essendo proprietà di un

capitalista (o di un gruppo di azionisti), produce soltanto grazie al lavoro

collettivo di operai, tecnici, impiegati, dirigenti ecc. Ma se sociale è la

produzione della ricchezza, sociale deve essere, secondo Marx, la

distribuzione di essa. Ma questo significa che il capitalismo porta in sé, come

esigenza dialettica, il socialismo.

Marx afferma che il capitalismo pone le basi del socialismo, in quanto

genera, per la prima volta nella storia, le “condizioni oggettive” favorevoli ad

una rivoluzione socialista mondiale.

La legge della “corrispondenza” e della “contraddizione” tra forze

produttive e rapporti di produzione permette dunque a Marx di delineare un

quadro generale della, storia passata e presente, e di scandire il cammino

dell'umanità nel tempo secondo alcune grandi formazioni economico-sociali,

qualificate da determinati modi di produrre, da specifici rapporti di proprietà,

da peculiari istituzioni giuridico-politiche e da corrispondenti forme di

coscienza. Marx è convinto che la storia proceda dal comunismo primitivo

(comunque inteso o prospettato) al socialismo futuro, attraverso il momento

intermedio della società di classe, la quale si basa sulla divisione del lavoro e

sulla proprietà privata. Parimenti Marx è convinto che il diagramma storico

dello sviluppo della civiltà implichi di necessità il dovere considerare la storia

Page 55: Appunti di Filosofia della Storia

  55  

umana come un cammino orientato ad una meta, che esso abbia una finalità

interna, ed infine che si debba considerare il socialismo come lo sbocco

inevitabile della dialettica storica.

L’autentico carattere dialettico del materialismo storico di Marx, ed il

suo persistente legame con Hegel risultano dunque evidenti. Infatti anche

per Marx, come per Hegel, la storia si configura - sul piano formale - come

una totalità processuale dominata dalla forza della contraddizione, e mette

capo ad un “risultato finale”. Però con questa notevole differenza di

contenuto: che Marx ritiene di aver fatto camminare la dialettica di Hegel

“sui piedi”, anziché sulla “testa”:

• in quanto il soggetto della dialettica storica non è più lo Spirito,

ma la struttura economica e le classi;

• in quanto la “dialettica” del processo storico è concepita come

“empiricamente” e scientificamente “osservabile” nei fatti stessi;

• in quanto le opposizioni che muovono la storia non sono astratte

e generiche, bensì concrete e determinate, pur riconducendosi

tutte a quella dialettica tra forze produttive e rapporti di

produzione che rappresenta il cuore ed il centro strategico di

tutta la scienza che Marx istituisce delle moderne società di

mercato.

7. A Lotta di Classe: Borghesia e proletariato

Nel testo de II Manifesto (1848), nel quale Marx si propone di esporre

“in faccia al mondo” gli scopi e i metodi dell'azione rivoluzionaria, viene

rappresenta una stringata ma efficace summa della concezione marxista del

mondo. I punti salienti di esso sono:

• l'analisi della funzione storica della borghesia;

• il concetto della storia come «lotta di classe» ed il rapporto fra

proletari e cultura socialista.

Nella prima parte del Manifesto Marx descrive, con un'eloquenza

brillante, la vicenda storica della borghesia, sintetizzandone, dal suo punto di

vista, meriti e limiti. A differenza delle classi che hanno dominato nel

Page 56: Appunti di Filosofia della Storia

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passato, che tendevano alla conservazione statica dei modi di produzione, la

borghesia, secondo Marx, non può esistere senza rivoluzionare

continuamente gli strumenti di produzione e tutto l'insieme dei rapporti

sociali. Di conseguenza, la borghesia appare una classe costituzionalmente

dinamica, che ha dissolto non solo le vecchie condizioni di vita, ma anche

idee e credenze tradizionali.

La borghesia ha modificato la faccia della terra in una misura che non

ha precedenti nella storia, mostrando ai popoli che cosa possa l'attività

umana. Ha compiuto ben altre meraviglie che le piramidi d'Egitto, gli

acquedotti di Roma e le cattedrali gotiche; ha portato a termine ben altre

spedizioni che gli spostamenti dei popoli e le Crociate in Terrasanta. La

borghesia ha realizzato per la prima volta l'unificazione del genere umano,

poiché il bisogno di una dimensione di scambio sempre più estesa per i suoi

prodotti l'ha spinta a percorrere tutto il globo terracqueo. Agevolando le

comunicazioni e trascinando nella civiltà tutti i paesi, assoggettando l'Oriente

all'Occidente, è riuscita a costruire un mercato mondiale e a porre le basi per

un reale cosmopolitismo.

Senonché questa borghesia, che ha evocato come per incanto forze

così gigantesche, non riesce più a dominare le potenze infernali da essa

evocate. Infatti le moderne forze produttive, sempre più sociali, si rivoltano

contro i vecchi rapporti di proprietà, ancora privatistici e sottomessi alla

logica del profitto personale, generando delle crisi terribili, che mettono in

forse l'esistenza stessa del capitalismo. Tanto che il proletariato, la classe

oppressa della società borghese, non può fare a meno di mettere in opera

una dura lotta di classe, volta al superamento del capitalismo e delle sue

forme istituzionali e ideologiche.

Mentre nell'Ideologia tedesca Marx pone come motore dello Sviluppo

sociale la dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione, nel

Manifesto individua, come soggetto autentico di storia, la lotta fra le classi.

La storia di ogni società, esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni

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volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta.

Marx si differenzia dai grandi teorici dell'economia borghese - da Smith

a Ricardo - soprattutto per il suo metodo storicistico-dialettico. Infatti, a

differenza di tali autori, Marx è convinto che:

• non esistano leggi universali dell'economia, e che ogni

formazione sociale abbia caratteri e leggi storiche specifiche (le

leggi che valgono per il feudalesimo, ad esempio, non valgono

per il capitalismo).

• In secondo luogo, Marx è convinto che la società borghese porti

in se stessa delle contraddizioni strutturali che ne minano la

solidità, ponendo le basi oggettive della sua fine.

• In terzo luogo, Marx è persuaso che l'economia debba far uso

dello schema dialettico (mutuato da Hegel) della totalità

organica, studiando il capitalismo come una struttura i cui

elementi risultano strettamente connessi.

Si noti infine che Il Capitale non è soltanto un libro di economia.

Infatti, poiché Marx vede nella sfera economica la chiave di spiegazione della

società nel suo insieme, con la sua elaborazione teorica egli non intende

studiare un segmento della vita reale, isolato dagli altri, ma dare invece una

fotografia critica della civiltà capitalistica, intesa come struttura complessiva.

8. Tendenze e Contradizioni del Capitalismo

Delineando un'analisi del capitalismo a sfondo tragico, Marx descrive le

varie strade imboccate da esso in vista del proprio auto-accrescimento,

mostrando come tale sistema generi una serie di contraddizioni e difficoltà,

che ne minano la sopravvivenza, preparandone la morte futura.

In un primo momento il capitale cerca di accrescere il plus-valore

aumentando la giornata lavorativa (poniamo sino a quindici ore). Ma questa

dilatazione d'orario, pur generando maggior plus-lavoro, e quindi maggior

plus-valore, presenta dei limiti invalicabili, poiché oltre un certo numero di

ore la forza-lavoro dell'operaio cessa di essere produttiva. Di conseguenza,

più che attraverso il prolungamento della giornata lavorativa (che Marx

Page 58: Appunti di Filosofia della Storia

  58  

chiama plus-valore assoluto), il capitalismo punta alla riduzione della parte

di giornata lavorativa necessaria ad integrare il salario (che Marx chiama

plus-valore relativo). Infatti se l'operaio, anziché impiegare sei ore per

guadagnare il proprio salario ne impiega quattro, risulta evidente che il plus-

valore intascato dal capitalista è più grande. Ovviamente, tutto ciò si può

ottenere solo mediante una maggior produttività del lavoro. Da ciò discende

la necessità strutturale, per il capitalismo, di introdurre in continuazione

nuovi e più efficienti metodi e strumenti di lavoro.

Mettendosi dal punto di vista dei salariati, Marx denuncia i "costi

umani” dell'utilizzazione capitalistica delle macchine. Mentre nella

manifattura era l'operaio ad usare gli strumenti di lavoro, ora è piuttosto

“l'automa semovente” del macchinario di fabbrica ad usare il salariato, che

diviene solo un'appendice o un “servo” della macchina. Mentre prima donne

e bambini non erano forze concorrenti decisive, ora lo sono diventate,

favorendo il contenimento o l'abbassamento dei salari. Inoltre, la velocità dei

macchinari produce un'intensificazione del lavoro, distruggendo non solo

ogni creatività individuale, ma generando stress psico-fisico. Per tutti questi

motivi, fra lavoratore e macchina s’instaura un'inevitabile relazione di

ostilità.

Ma proprio l'aumento di produttività conseguito con l'uso delle

macchine genera, accanto alla conflittualità operaia, il fenomeno delle crisi

cicliche di sovrapproduzione proprie del capitalismo. Questo è dovuto al fatto

che il capitalismo (almeno quello “classico” dei tempi di Marx) risulta

caratterizzato dal fenomeno dell'anarchia della produzione, la quale fa sì che

i capitalisti si precipitino “alla cieca” nei settori dove il profitto è più alto,

facendo sì che, ad un certo punto, si verifichi un eccesso di produzione

rispetto alle esigenze di mercato. Tutto ciò genera la crisi, che ha come

effetti concomitanti sia la distruzione capitalistica dei beni (spesso proprio

quelli di cui avrebbero più bisogno le classi povere: caffè, frutta ecc.) sia la

disoccupazione, che va ad accrescere il cosiddetto “esercito industriale di

riserva”.

Marx tende a prospettare la situazione finale del capitalismo in termini

Page 59: Appunti di Filosofia della Storia

  59  

dualistico-dialettici: da un lato una minoranza industriale, dalla gigantesca

ricchezza e dall'immenso potere, dall'altro una maggioranza proletaria

sfruttata. Questa situazione, dato il carattere internazionale del capitalismo,

tende a prodursi su scala mondiale, denunciando il limite massimo cui è

pervenuta la contraddizione che sta alla base di tutte le altre contraddizioni

del capitalismo: il contrasto tra forze produttive sempre più sociali ed il

carattere privatistico dei rapporti di produzione e di proprietà. Da ciò il

celebre epilogo del I libro del Capitale: “La centralizzazione dei mezzi di

produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui

diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene

spezzato. Suona l'ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli

espropriatori vengono espropriati”.

A differenza delle tesi liberal-democratiche o di quelle del Socialismo

utopistico, Marx sostiene che non si tratta tanto di estendere a tutti la

proprietà, quanto di superare la proprietà privata come condizione e forma

dei rapporti fra gli uomini.

La società capitalista quindi, alimenta una contraddizione oggettiva,

insanabile, fra i proprietari dei mezzi di produzione e coloro che posseggono

solo la loro capacità di lavoro, tra borghesi e proletari. L'oggettività di tale

contraddizione sta nel fatto che l'imprenditore è costretto dalle leggi del

mercato a sfruttare al massimo la forza-lavoro, per essere competitivo,

quindi per non essere cacciato dal mercato ad opera di altri capitalisti

concorrenti. L'accumulazione capitalistica non dipende dalle volontà

individuali, ma da leggi oggettive.

La dialettica dell'economia si traduce, così, in una prospettiva storica

sulla quale riposa un progetto politico ultimo: la costruzione di una società

nuova.

Diritti dei capitalisti e diritti dei proletari sono, si è visto, formalmente

"uguali" davanti alla legge, mentre le condizioni di vita sono sostanzialmente

disuguali: di qui lo scontro fra le due classi, la lotta di classe nella quale

decidono solo i rapporti di forza. Per questo Marx non limita la sua attività ad

un ruolo puramente scientifico, di elaborazione teorica.

Page 60: Appunti di Filosofia della Storia

  60  

Come si è visto, la sua intera vita è stata impegnata e sacrificata ad un

compito eminentemente politico: la conquista del potere da parte della

classe operaia. Il conseguimento di questo obiettivo richiede per lui la

costruzione di un'organizzazione che aiuti il proletariato a combattere -

storicamente - le sue battaglie, facendo crescere la sua consapevolezza

critica e creando le basi per l'avvicinamento della prospettiva comunista.

Il comunismo è - per lui – lo stato dei rapporti fra gli uomini che sorge

solo quando le strutture materiali della società capitalistica vedono nei

rapporti proprietari che la costituiscono non una condizione di crescita, ma

un ostacolo, un impedimento per il loro ulteriore sviluppo.

9. La Concezione Materialistica della Storia: Struttura e

sovrastruttura

Nella Prefazione della sua opera - Per la critica dell’economia politica

(1859) – Marx traccia una spiegazione molto chiara del materialismo storico

imperniata sui concetti di struttura e sovrastruttura. La struttura è la base

economica di una società sulla quale si eleva sempre una sovrastruttura (che

comprende politica, diritto, morale, ecc.) ad essa funzionale. I cambiamenti

strutturali determinano cambiamenti sovrastrutturali.

Il brano che segue è tratto dalla Prefazione scritta da K. Marx a “Per la

critica dell'economia politica”.

Il primo la voro intrapreso per sciogliere i dubbi che mi assalivano fu una revisione critica della filosofia del diritto di Hegel. La mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per se stessi, né spiegandoli con la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell'esistenza il cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo l'esempio degli inglesi e dei francesi del secolo XVIII, sotto il termine di «società civile»; e che l'anatomia della società civile è da cercare nell'economia politica. Il risultato generale al quale arrivai e che, una volta acquisito, mi servì da filo conduttore nei miei studi, può essere brevemente formulato così. Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono determinate forme sociali della coscienza. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza.

Page 61: Appunti di Filosofia della Storia

  61  

A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l'innanzi s'erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, in una parola le forme ideologiche, che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. Una formazione sociale, peraltro, non perisce finché non siano sviluppate tutte le forze produttive per la quale essa offra spazio sufficiente; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Pertanto l' umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione. I rapporti di produzione borghese sono l'ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che sorge dalle condizioni di vita sociali degli individui. Le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese [ gli operai, ovvero il proletariato] creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana.

Page 62: Appunti di Filosofia della Storia

  62  

IV – MARTIN HEIDEGGER (1889 – 1976) (LA QUESTIONE DELLA TECNICA)

Abbiamo visto che, secondo Marx, era stato con la ricomposizione degli

utensili del periodo della manifattura nel macchinario azionato da energia

artificiale che si è realizzata la sottomissione effettiva, reale (wirlklich), del

lavoro al comando capitalistico.

Nel suo saggio – La questione della tecnica – Heidegger sostiene che

l’avvento dell’era moderna ha determinato una visione univoca del mondo,

in quanto, alla luce della scienza, i fenomeni della natura vengano

considerati unicamente in un ambito in cui sia resa possibile la loro riduzione

a calcolo matematico e sfruttamento economico.

Gli esseri viventi vegetali e animali sono connessi nel tutto, nel mondo,

quale naturale percezione rapporto. Invece, per l’essere umano, che nel

corso dei secoli si è sempre più caratterizzato in base alle capacità di

rappresentazione degli oggetti esterni nella coscienza, il rapporto con il

mondo è divenuto una sorta di “stare contro”, “stare di fronte”.

L’uomo in questo considerare il mondo innanzi a sé come qualcosa di

totalmente differente, si pone dinanzi a esso considerandolo a sua

disposizione e disponendo della natura come un proprio possesso. Tale

imposizione deliberata dell’oggettivazione è una forma di ciò che

denominiamo volere e che determina l’essenza dell’uomo moderno senza

che, a tutt’oggi, possa ancora capire in base a quale volontà – assurta a

essere dell’ente – questo volere voglia.

Proprio seguendo questo volere, tuttavia, l’uomo moderno s’impone in

qualsiasi relazione, come incanalasse la propria rivolta verso il dominio

universale tramite un fare/fabbricare incontrollato e schizofrenico. La

realizzazione del volere dell’uomo come imposizione totale di sé può

accadere solo dopo aver ridotto ciò che s’incontra alla propria sfera, quale

materiale della produzione “autoimponentesi”: tutto diviene materia prima

passibile di manipolazione, anche l’altro uomo, vicino o straniero.

Scrive Heidegger: “L’umanità dell’uomo e la cosità delle cose sono

Page 63: Appunti di Filosofia della Storia

  63  

dissolte – nel corso di una produzione che si impone incondizionatamente

nel valore di scambio di un mercato, che non soltanto trasforma la Terra in

mercato mondiale, ma che, in quanto volontà di volere, tien mercato nella

stessa essenza dell’essere, risolvendo cosí ogni ente in un affare di calcolo.”

L’uomo “autoimponentesi” è in ultima analisi un funzionario della tecnica.

L’apparente incondizionatezza del proprio volere come imposizione

deliberata e globale, che tende a dissolvere il mondo, giunge a minacciare

l’uomo stesso. Tale minaccia, secondo il filosofo, investe l’essenza dell’uomo

nel suo rapporto all’essere.

Inoltre, “proprio quando è sotto questa minaccia l’uomo si veste

orgogliosamente della figura di signore della terra. Così si viene diffondendo

l’apparenza che tutto ciò che s’incontra sussista solo in quanto è un prodotto

dell’uomo. Egli s’illude di non incontrare altri che se stesso, ovunque volga lo

sguardo. In realtà, argomenta il filosofo, proprio se stesso l’uomo di oggi

non incontra più in nessun luogo; non incontra più cioè la sua essenza.

L’essenza della tecnica moderna consiste nell’imposizione, Gestell.

Trattasi, secondo Heidegger, di una “volontà di potenza” alla Nietzsche, in

quanto riduce l’essere ad oggetto di dominio:“ormai l’epoca

[contemporanea] è caratterizzat dall’assenza di Dio, dalla “mancanza di Dio”

(...). La mancanza di Dio significa che non c’è più nessun Dio che raccolga in

sé, visibilmente e chiaramente, gli uomini e le cose, ordinando in questo

raccoglimento la storia universale e il soggiorno degli uomini in essa.8

Nell’epoca della tecnica le tracce di Dio si sono perse, nascoste o dimenticate

sotto il predominio della volontà dell’uomo sull’ente, che rende impossibile il

lasciar essere l’ente e l’apparire di Dio.

Il nostro essere senza protezione, in una condizione d’intrinseca

finitezza, dove la morte è la faccia della vita a noi opposta, ma

inevitabilmente sempre presente come possibilità più propria dell’uomo è

l’indicazione, che, se raccolta, ci permette di rivoltarci all’”Aperto” in un

rinnovato atteggiamento di percezione rapporto, Bezug, nel rispetto di una

Legge che ci sovrasta e nel medesimo tempo ci trova coinvolti, prima di ogni

                                                                                                               8  M. HEIDEGGER, Perché i poeti?, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze, 1979, p. 247.

Page 64: Appunti di Filosofia della Storia

  64  

nostro volere-sapere-decidere-fare-agire. La libertà umana stessa, pur nella

sua possibile grandezza, è limitata da ciò che gli uomini non possono

cambiare, da ciò che è comunque dato; anzi solo la consapevolezza e

l’accettazione di tale condizione umana può far sí che l’ambito in cui siamo

liberi di vivere, di trasformare e di agire possa preservarsi e mantenere le

sue promesse.

Tale rinata accettazione e rispetto dell’esteriore ci rimette in contatto

naturale con le profondità stesse della nostra interiorità, in ascolto

dell’esistenza incommensurabile che è in noi e fuori di noi.

La domanda che in questo contesto emerge con forza e urgenza

dinanzi al pensiero suonerebbe così: come mai siamo arrivati alla mancanza

di Dio, anzi, all’incapacità di percepire l’assenza come tale? Perché essa

costituisce un destino storico in cui è inserito l’uomo? Come siamo giunti a

non rintracciare più i sentieri verso l’”Aperto”, che conservavano memoria

del nostro esser-senza-protezione e ci mantenevano sulle orme del Sacro,

come siamo giunti a minacciare la nostra essenza umana e la possibilità

della sopravvivenza stessa della nostra forma di vita? In Heidegger queste

domande puntano verso quel segno che determina il centro del suo

pensiero: l’oblio dell’essere, l’oblio dell’oblio e il bisogno di un pensiero

dell’essere.

1. L’Oblio dell’Essere

La connessione tra il problema di Dio e la questione dell’essere

consiste nell’antecedenza dell’ultima nei confronti della prima; il che significa

che, sebbene il pensiero dell’essere ancora non possa pronunciarsi su Dio, è

imprescindibile e condiziona il riferimento dell’uomo a Dio. In questo senso è

prioritario un pensiero dell’essere in riferimento al sacro, e del sacro rispetto

a Dio.

Ma la problematica dell’essere, per Heidegger, è venuta meno già nello

sviluppo assunto dalla metafisica nella storia della cultura occidentale dai

greci in poi.

La metafisica, infatti, pone la problematica dell’essere nella ricerca

Page 65: Appunti di Filosofia della Storia

  65  

dell’essere stesso nell’ente, identificando, in tal modo, l’essere con l’ente,

senza che poi sia possibile trovare un ente cui corrisponda l’essere. Da

sempre — ritiene Heidegger — la metafisica si è caratterizzata come un

discorso teoretico razionale (è logia) incentrato sull’ente in quanto ente (è

ontologia), il quale si conclude con l’emergenza del discorso su Dio (è teo-

logia): la metafisica ha una costituzione onto-teo-logica.

Qui preme a Heidegger, innanzitutto, mettere in evidenza il significato

del termine logia, che accompagna comunemente la denominazione delle

scienze, indicando in tal modo che l’esercizio del pensiero, che di solito si

considera scientifico, è sotto la formalità di tale logia: nel suffisso -logia non

si nasconde soltanto la logicità nel senso del discorso conseguenziale, ed in

special modo del procedimento predicativo, che ordina, dirige, assicura e

comunica il sapere scientifico. -Logia è rispettivamente (jeweils) la totalità di

una connessione fondante, in cui l’oggetto delle scienze viene rappresentato

e concepito in rapporto al suo fondamento.

Logia indica una modalità del pensare — che oggi è diventata la forma

più rigorosa e quindi la modalità per eccellenza del pensare — che parte da

rappresentazioni del reale, in cui l’ente è colto nella sua verità tramite la sua

oggettivazione ed è espresso mediante la proposizione. Sulla base delle

rappresentazioni, la logia è anche processo logico che, grazie al discorso

conseguenziale, determina le cause-ragioni che spiegano l’ente oggettivato,

per finire con un’immagine completa e sistematica dell’ente articolata

secondo connessioni fondanti che rapportano l’ente al suo fondamento ed è

così giustificato e assicurato dal pensiero e per il pensiero. In quanto

assicurato dalla ratio l’ente diventa disponibile alla tecnica.

La metafisica in quanto onto-teo-logia risponde alla modalità del

pensiero logico: l’ontologia e la teologia sono ‘logie’, in quanto cercano la

spiegazione dell’ente in quanto tale e lo fondano nella totalità. Esse danno

ragione dell’essere come fondamento dell’ente. Esse rispondono al ‘logos’

(Rede stehen = lo corrispondono) e sono essenzialmente logos-conformi,

logoiformi; sono cioè la logica del logos.

Per Heidegger il carattere logico della metafisica costituisce una sua

Page 66: Appunti di Filosofia della Storia

  66  

nota essenziale, già presente sin dall’inizio della sua storia. Tuttavia,

l’autentica natura e la portata di tale carattere, per quanto riguarda il

pensiero dell’ente, dell’essere e, quindi, di Dio, si manifesta esplicitamente

soltanto con la modernità.

Inoltre, il pensiero logico, nel senso sopra indicato, come modalità del

pensiero scientifico, non limita il suo campo di applicazione all’ambito delle

scienze nel senso stretto; è diventato invece la formalità del pensiero che

domina preponderantemente la cultura occidentale in tutti i campi.

La natura del pensiero logico può essere conseguentemente enunciata

in modo sintetico tramite il “principio di ragione” formulato da Leibniz con

l’espressione nihil est sine ratione. Heidegger ritiene che il principio ora

enunciato agiva già da secoli nel profondo della cultura dell’occidente, e in

modo particolare nella metafisica, anche se solo con Leibniz venne messo in

luce esplicitamente.

Infatti, secondo questo principio, si segnala che l’intelletto umano in

quanto tale, ovunque e ogni qualvolta è in attività, mira subito a scovare il

fondamento in base al quale ciò che gli capita di incontrare è così com’è. Il

principio leibniziano è un principio del pensiero in quanto svela cosa significhi

in generale conoscere e che cosa si debba ritenere conoscenza valida e

verità accettabile.

Ma il principio di ragione, perché principio del pensiero, è anche un

principio dell’ente, giacché per Leibniz e per tutto il pensiero dell’età

moderna, il modo in cui l’ente ‘è’ poggia sull’oggettività degli oggetti.

L’oggettività dell’oggetto per il rappresentare comporta l’essere

rappresentato degli oggetti, il che significa infine che qualcosa ‘è’, e cioè si

dimostra un ente, soltanto se viene enunciato in una proposizione che

soddisfa il principio di ragione.

Secondo la dimensione ontica — e ad un tempo noetica — il principio è

anche esplicitato secondo la formula principium rationis=nihil est sine

ratione seu effectus sine causa. La tesi del fondamento si presenta come un

principio nella misura in cui determina il riferimento a tutto ciò che è,

accomunando così i termini ratio e causa (nihil est sine ratione, nihil est sine

Page 67: Appunti di Filosofia della Storia

  67  

causa), in quanto è ente soltanto ciò che è rappresentato e quindi la

ragione, il fondamento, è qualcosa che va fornito all’uomo che rappresenta e

che pensa.

Tenendo presente che solo ciò che si presenta al nostro rappresentare,

che ci viene-incontro (be-gegnet) in modo tale da risultare posto, posato, sul

proprio fondamento, vale come qualcosa che sta in modo sicuro, che sta di

fronte, e cioè come un oggetto (Gegenstand), e quindi che soltanto di ciò

che sta in questo modo possiamo dire con certezza: esso è; allora all’interno

del pensiero rappresentante-fondante si compie il passaggio fino a Dio come

ultima ratio rerum. Detto in termini estremi, ciò significa: Dio esiste soltanto

in quanto la tesi del fondamento è valida, e viceversa.9

Ogni ente è ora o il reale come oggetto o il realizzante come

rappresentazione oggettivante in cui si costituisce la oggettività dell’oggetto.

La rappresentazione oggettivante, rappresentando, subordina l’oggetto

all’ego cogito. In questa remissione, l’ego cogito rivela ciò che è in base alla

sua attività (la subordinazione rappresentativa), cioè si rivela come

subjectum. Il soggetto è soggetto a se stesso. L’essenza della conoscenza è

l’autocoscienza. Ogni ente è dunque o oggetto del soggetto o soggetto del

soggetto. In entrambi i casi l’essere dell’ente consiste in una

rappresentazione che è un porsi-innanzi-a-se-stesso e quindi in un imporsi.

All’interno della soggettività dell’ente l’uomo assurge a soggetto della sua

stessa essenza. L’uomo si costituisce nell’in-sorgere. Il mondo si muta in

oggetto.10

Oggettivare significa porre qualcosa dinanzi al soggetto (ob-iectum,

Gegen-stand) in modo tale che l’ente così posto resta comprensibile,

disponibile e assicurato dal e per il soggetto che rappresenta.

Heidegger interpreta l’essenza del rappresentare in quanto imporsi alla

luce della dottrina di Nietzsche della volontà di potenza, la quale

costituirebbe lo stato finale dello sviluppo del rappresentare moderno,

manifestando la natura definitiva di ciò che si contiene nella logia, nella

misura in cui l’oggettivare presuppone la decisione che l’ente vale come ente                                                                                                                9  Cfr. M. HEIDEGGER, Il principio di ragione, Adelphi, Milano, 1991, pp. 17-50 10  Cfr. M. HEIDEGGER, La sentenza di Nierzsche “Dio è morto”, in Sentieri interrotti, cit., p. 235.

Page 68: Appunti di Filosofia della Storia

  68  

solo in quanto diventa oggetto per un soggetto.

L’ultima conseguenza è affermata da Heidegger con tutta la sua

radicalità: questo rapporto fra soggetto e oggetto vale come l’unico ambito

in cui si decide in merito all’ente rispetto al suo essere, in cui si decide, cioè,

dell’essere, ma sempre e soltanto in quanto oggettività dell’oggetto, e mai

dell’essere in quanto tale giacché l’essere è l’indisponibile simpliciter. Il

principio di ragione è l’ambito in cui l’essere in quanto tale non appare, si

sottrae, si dimentica. Il primato della ratio che corrisponde alla logia

condiziona l’oblio dell’essere.11 L’appartenenza di ratio, onto-teo-logia e oblio

dell’essere determina il modo in cui l’essere si è destinato alla metafisica e

condiziona la sua storia.

Come è stato detto, Heidegger conduce la sua analisi seguendo le

indicazioni del pensiero moderno giacché solo nel mondo moderno tutto ciò

comincia a palesarsi come il destino (Geschick) della verità dell’essere

dell’ente nel suo insieme. Ovvero, con la modernità diventa chiaro il sostrato

essenziale che guidava sin dall’inizio la storiadestino del pensiero metafisico,

in modo tale che, nella misura in cui pensare significa rappresentare l’ente in

quanto ente (sia come idea, come sostanza, come ente creato ocome

oggetto), il pensiero metafisico è onto-logia e null’altro12, cioè non è mai

pensiero dell’essere. La metafisica rappresenta l’ente nel suo essere, e

pensa così anche l’essere dell’ente. Ma essa non pensa l’essere come tale,

non pensa la differenza tra l’essere e l’ente.13

Nella misura in cui l’epoca moderna è l’epoca della massima

sottrazione dell’essere, in essa si svela totalmente il destino nichilista

nascosto della metafisica occidentale. Heidegger non ha dubbi circa la

vicendevole appartenenza dei termini onto, teo e logia, affermando che la

metafisica è teo-logia perché è onto-logia. Essa è questa, perché essa è

quella. Il che significa che il Dio della metafisica poggia sul nichilismo.

Il Dio dell’onto-teo-logia è, quindi, il Dio dell’oblio dell’essere, un Dio

che è raggiunto cercando ragioni-fondamenti nell’ambito della ratio

oggettivante sottoposta all’io che rappresenta e controllata da lui; un Dio                                                                                                                11Cfr. HEIDEGGER, Il principio di ragione, cit., p. 100. 12  Cfr. HEIDEGGER, La sentenza di Nietzsche “Dio è morto”, in Sentieri interrotti, cit., p. 192. 13 Cfr. M. HEIDEGGER, Lettera sull’”umanismo”, in Segnavia, Adelphi, Milano, 1987, p. 276.

Page 69: Appunti di Filosofia della Storia

  69  

che costituisce perciò la ratio definitiva, la giustificazione finale, la causa

ultima (Ur-sache), l’Ente sommo.14

La comprensione dell’essere richiede dunque il superamento del

pensiero metafisico.

2. L’Oblio dell’Essere come Prodotto del Pensiero Moderno

Tuttavia, nonostante l’estraniazione dell’uomo contemporaneo dalla

problematica dell’essere, non si deve pensare ad una assenza di essere

nell’epoca moderna, poiché la dimenticanza dell’essere da parte dell’uomo è

un modo di essere dell’essere stesso, dal momento che nulla, per

definizione, può essere estraneo all’essere stesso.

L’essere, tuttavia, no si manifesta mai, nelle varie epoche della storia

dell’uomo, nella sua assoluta compiutezza; esso si disvela parzialmente

all’uomo per poi oscurarsi, senza mais essere ricompresso nella razionalità

dell’uomo.

Il pensiero dell’essere non dipende dalla volontà o capacità dell’uomo,

ma dal rivelarsi dell’essere stesso e dal suo oscuramento successivo all’uomo

stesso.

Nell’ente uomo può essere compreso l’essere, ma l’ente uomo può

comprendere questo disvelamento/nascondimento dell’essere come modo di

essere dell’essere stesso.

Pertanto, l’essere, è presupposto all’ente medesimo che ne può

comprendere le determinazioni nella sua limitata contingenza temporale.

Infatti, per Heidegger, è la morte a rivelare l’essere del nostro esserci

(essere nel mondo), in quanto nella prospettiva della morte si acquisisce la

coscienza della finitezza dell’esserci, di quell’“essere gettato” nel mondo,

ossia nelle contingenze del tempo, del caso, della possibilità.

Quindi se l’essere si rivela nella nostra contingenza temporale, che si

esaurisce con la limitata finitezza della nostra esistenza, che dall’”essere

gettato” si risolve nel nulla, anche la temporalità, e con essa l’essere, è

nulla.

                                                                                                               14 Cfr. M. HEIDEGGER, La concezione onto-teo-logica della metafisica, in Identità e differenza II, “Teoresi”, 1967, pp. 224-226.

Page 70: Appunti di Filosofia della Storia

  70  

L’essere è compreso dall’uomo attraverso i suoi disvelamenti e

oscuramenti subitanei e contingenti, senza che possono essere rintracciati

nel divenire storico i suoi fondamenti e i suoi presupposti, per poi

comprendere le problematiche relative alle singole fasi storiche.

Non è possibile, secondo la visione dell’essere di Heidegger,

comprendere la logica interna dell’essere, i suoi sviluppi e le sue evoluzioni

che formano poi anche la logica della storia stessa. È proprio la concezione

della temporalità di Heidegger a rappresentare l’essere nella stregua di

mistiche apparizioni limitate e finite, in una dimensione della temporalità

dell’uomo che si risolve nel suo nulla così come il tempo stesso.

Questa frammentazione dell’essere, la cui conoscenza è legata alla

dimensione temporale dell’ente, è forse di per sé contradditoria: se l’essere

è tale, in quanto è al di là di ogni sua determinazione, ma comunque la sua

manifestazione è possibile mediante il processo conoscitivo dell’ente, l’essere

stesso è tale in quanto è definito dalla soggettività dell’ente.

Heidegger rovescia la concezione della temporalità storica

dell’idealismo di Hegel. In Hegel la temporalità storica, che si svolge

all’interno di una concezione ontologica e veritativa dell’essere, è

caratterizzata da un vero e proprio accrescimento dell’essere, inteso come

svolgimento di una storia dialettica romanzata della coscienza umana e della

sua lotta per il riconoscimento.

In Heidegger, al contrario, la temporalità storica è lo scenario di un

impoverimento dell’essere. Tutto ciò ovviamente non è casuale, ma dovuto a

cogenti ragioni storiche.

Scrivendo agli inizi dell’Ottocento, Hegel è inserito in un momento

storico caratterizzato da un certo ottimismo sulla possibilità di mantenere le

più positive acquisizioni dell’Illuminismo.

Heidegger scrive a metà del Novecento, in un periodo in cui l’uomo

sembra aver perso il controllo sugli stessi prodotti della propria prassi (ed è

questo il profondo significato della Tecnica intesa come Dispositivo anonimo

ed impersonale, Gestell). La parabola esistenziale di questo filosofo è, infatti,

costellata dalla presenza di tutte le passioni e le catastrofi di un intero

Page 71: Appunti di Filosofia della Storia

  71  

secolo: (Veda Appendice 1).

Il termine Essere indica soprattutto permanenza, e più esattamente

permanenza di un’unità e di una totalità unitaria pensata astrattamente.

Questo termine non esclude il movimento ma lo subordina alla riproduzione

dei suoi elementi strutturali fondamentali.

Nella tradizione filosofica occidentale, il termine di Essere è collegato al

(probabilmente) pitagorico Parmenide di Elea e, quindi, collegato all’idea di

permanenza della comunità politica e sociale contro le forze dissolutrici

(metaforizzate con il termine di Nulla, o di assenza di essere). L’essere

rimanda quindi metaforicamente ad una legislazione comunitaria perfetta ed

immutabile di tipo pitagorico, che non deve essere mutata per non cadere

nel Nulla, metafora della dissoluzione della comunità.

La natura (Physis) era l’origine, la causa ed il principio di tutte le cose,

ed attraverso di essa era pensata l’unità ideale di macrocosmo naturale e di

microcosmo sociale.

Il termine Essere in Parmenide è già quindi a tutti gli effetti una

“ontologia dell’essere sociale”, nella forma della preservazione dell’unità

politica e comunitaria della polis contro le forze che potrebbero corromperla

e favorire la dissoluzione (in primo luogo il Potere del denaro, nella forma

della schiavitù per debiti).

Heidegger strappa il termine verità (aletheia), che effettivamente

significa etimologicamente “disvelamento”, dalla sua concreta genesi storica,

comunitaria e sociale (vero, infatti, è prima di tutto ciò che garantisce la

riproduzione comunitaria, e “falso” è ciò che porta alla sua distruzione).

Una volta effettuato questo strappo, l’intera filosofia greca diventa

incomprensibile.

Platone, esattamente come Parmenide, è prima di tutto un pensatore

politico, e non è un caso che il suo principale dialogo “dialettico” si chiama

Parmenide, in cui cerca di conciliare l’unità e la molteplicità superando la

primitiva formulazione della teoria delle idee ed i limiti della separatezza

assoluta degli universali collegati con il molteplice unicamente dall’imitazione

e dalla partecipazione.

Page 72: Appunti di Filosofia della Storia

  72  

In Platone, in modo ancora più chiaro che in Parmenide (ma sulla sua

scia) l’Essere è ad un tempo l’Uno, il Bene e il Giusto. È del tutto chiaro che

(a differenza di come sostiene Heidegger) il concetto di Essere è

integramente sociale, ed allude alla permanenza, sia pure all’interno del

movimento storico, di alcune strutture “eterne” di convivenza umana, in

primo luogo la società e la solidarietà.

Nel passaggio della filosofia antica al cristianesimo era inevitabile che

le caratteristiche dell’Essere (permanenza eterna dell’Uno e del Bene nella

società comunitaria) venissero trasferite al Dio dell’antico e del nuovo

testamento.

Heidegger ha perfettamente ragione a sottolineare che l’importanza

storica di Cartesio sta nell’essere stato il primo ad avere coscientemente

tradotto il concetto di verità da conoscenza riflessiva sull’Essere in certezza

del soggetto, o più esattamente in certezza delle rappresentazioni del

soggetto stesso.

Ma ha torno nel costruire una narrazione continua che parte da Platone

per sostenere le tesi che la lunga storia della metafisica occidentale,

coronata da Nietzsche e nella sua volontà di potenza, non è che una lunga

storia dell’oblio dell’Essere.

Se si vuole individuare un elemento paradigmatico nella filosofia e nel

pensiero moderno lo si può trovare nel ruolo centrale che acquista il dubbio,

come il thaumazein dei greci, la meraviglia di fronte a ciò che è, lo era stato

nei secoli precedenti, da Platone e Aristotele fino all’età moderna: così il de

omnibus dubitandum est di Descartes può essere considerato una risposta

ad una nuova situazione.

Nel periodo che va, indicativamente, dalla pubblicazione del De

rivoluzionibus (1543) di Copernico all’opera di Newton Philosophiae Naturalis

Principia Mathematica (1687) vengono abbattuti i pilastri della cosmologia

aristotelico-tolemaica, anche se progressivamente, dopo duri conflitti e

cambiano in modo radicale la visione del mondo, dell’uomo e del sapere.

Niccolò Copernico fa del Sole il centro del mondo, spodestando la Terra e i

suoi abitanti; Tyco Brahe, pur nel suo anticopernicanesimo, elimina le sfere

Page 73: Appunti di Filosofia della Storia

  73  

materiali, che avrebbero con il loro moto trainato i pianeti, sostituendole con

la moderna idea di orbita; Johannes Kepler perfeziona la matematica del

sistema copernicano e abbandona l’idea del moto circolare naturale e

perfetto della cosmologia aristotelica, per sostenere il movimento ellittico dei

pianeti; Galileo Galilei mostra, fra l’altro, con l’utilizzo di nuovi strumenti, la

falsità dell’antica distinzione fra fisica terrestre e fisica celeste. Tali sforzi per

comprendere la dinamica dell’universo confluiranno nella nuova visione

sistematica di Isaac Newton, alla cui opera dobbiamo ciò che venne poi

definita la “fisica classica” e che tanta influenza ebbe sulla società umana.

Durante i centocinquant’anni fra Copernico e Newton, insieme alla

nuova visione astrofisica del mondo e al farsi avanti di una nuova immagine

della scienza, che si caratterizza come sperimentale, come costruzione

sempre perfettibile, e insieme ai conseguenti cambiamenti nei metodi di

formazione, di ricerca e di lavoro nelle istituzioni scientifiche, mutano i

rapporti d’influenza fra i risultati della scienza e l’organizzazione sociale, le

relazioni fra scienza e filosofia, fra sapere scientifico e fede religiosa; in

conclusione: nulla rimane staticamente inalterato, nemmeno l’idea di uomo.

Hannah Arendt, allieva originale di Heidegger, riflette su tali questioni

in particolare in Vita activa e osserva che dalle scoperte di Galileo, ad

esempio, non consegue solamente una sfida alla testimonianza dei sensi, ma

in un certo senso alla ragione stessa, in quanto “non era la ragione ma uno

strumento artificiale, il telescopio, che praticamente cambiava la visione del

mondo fisico; non era la contemplazione, l’osservazione e la speculazione

che conducevano alla nuova conoscenza, ma l’attivo procedere dell’homo

faber, del fare e del fabbricare.15”

La metafora degli occhi della mente, nata dalla fiducia che i sensi nel

loro complesso, governati e tenuti insieme dal senso comune, mettano

l’uomo in rapporto veritiero con la realtà che lo circonda, s’infrange ora sulla

consapevolezza che la visibilità non costituisce prova di realtà, avendo

dimostrato il movimento della terra, percepita immobile dall’occhio umano.

In tale nuova consapevolezza si giunge a pensare che l’intelligibilità stessa

                                                                                                               15 H. ARENDT, Vita activa: la condizione umana, intr. e cura di A. Dal Lago, Bompiani, Milano, 1991, 3ª ed., p. 203.

Page 74: Appunti di Filosofia della Storia

  74  

del mondo potrebbe non costituire prova di verità; viene così messo in crisi il

concetto tradizionale di verità, il quale si fondava sul presupposto che ciò

che è si manifesti in modo adeguato alle facoltà umane.

In tal modo il dubbio cartesiano si dilata senza più argini: nessun

pensiero, nessuna esperienza vi si sottrae, si propaga dalla testimonianza

dei sensi alla testimonianza della ragione e a quella della fede. Nasce

l’ipotesi o l’incubo, che non solo la realtà possa essere sogno, ma che uno

spirito maligno inganni volutamente l’uomo.

Se, però, nell’età moderna l’uomo perde la certezza di verità, di realtà,

di fede, rimane, comunque, ferma la convinzione che, come scrive Descartes

in una lettera a Henry More, sebbene la nostra mente potrebbe non essere

la misura delle cose o della verità rimane sicuramente la misura delle cose

che affermiamo o neghiamo. Ovvero, anche quando ogni realtà diventa

dubitabile rimane la certezza del dubitare, che è un modo del pensare del

soggetto. Quando si dubita di qualcosa, si è consapevoli di un processo di

dubbio che si svolge nella coscienza, e, quindi, si confida, per

generalizzazione logica, che i processi che si attivano nella mente abbiano

una propria certezza e possano essere indagati introspettivamente.

L’essere umano dunque trova la propria certezza dentro di sé; nella

dissoluzione della realtà oggettiva in stati soggettivi della mente, riafferma

la possibilità di conoscere almeno ciò che fa da se stesso. Il senso comune

diventa una facoltà interna: ciò che gli uomini hanno in comune è la

struttura della mente, indipendentemente dalle relazioni con il mondo. Per

tali ragioni, a partire dall’età moderna, l’ideale più alto di sapere diventa la

matematica, non più intesa come conoscenza di forme ideali date, ma come

conoscenza di forme prodotte dalla mente stessa dell’uomo.

Questo interiorizzarsi del senso comune, in seguito alla dissoluzione

della realtà oggettiva in stati soggettivi della mente, permette di credere che

si diano ancora saperi universalmente comunicabili, quali appunto la

matematica e la logica, le scienze moderne per eccellenza.   E, nei percorsi

che dalla modernità hanno condotto alla contemporaneità, dopo che anche i

sistemi della matematica non euclidea hanno trovato conferma nella teoria

Page 75: Appunti di Filosofia della Storia

  75  

di Einstein, si è portati a concludere che qualunque costruzione della

matematica pura potrebbe trovare applicazione nell’universo.

Della problematicità del rapporto tra il proprio conoscere e fare con il

mondo esterno, nasce il sospetto che non esistano fatti, dati ma solo

interpretazioni, prospettive, proiezioni del soggetto stesso.

Il punto di partenza non è, quindi, la storia dell’Occidente, ma l’alba

della società borghese-capitalistica, che non ha alcun bisogno del concetto

ontologico-veritativo di Essere, bastandole abbondantemente la certezza

nella previsione scientifica ed economica. Solo con questa “modernità”

l’Essere è spezzato e frantumato in atomi sociali individuali (in-dividuali=non

ulteriormente divisibili), ed è riconosciuto illusoriamente attraverso la mano

invisibile del mercato.

La Tecnica di Heidegger (o meglio il Dispositivo Tecnico, Gestel) è

allora coincidente quasi al cento per cento con il modo di produzione

capitalistico di Marx, privato però di ogni possibilità di superamento

dialettico e quindi di ogni possibile “toglimento” storico e sociale evolutivo

e/o rivoluzionario. Se vogliamo, è un capitalismo che ha come moto ultimo

non certo “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”, ma “Solo un Dio può ancora

salvarci!”.

Page 76: Appunti di Filosofia della Storia

  76  

V – FRIEDRICH NIETZSCHE (1844 – 1900)

Nelle precedenti considerazioni, s’è posto in rilievo il tema della

coscienza della crisi, intesa come l’avvento di un’epoca caratterizzata dalla

critica della filosofia di Hegel, quale sistema filosofico fondato sulla

metafisica dell’assoluto e la sua realizzazione nella storia. Tale coscienza di

una crisi, che si manifesta nella cultura della civiltà europea nella seconda

parte del XIXº secolo, viene alla luce nell’irrazionalismo filosofico di

Nietzsche.

Nietzsche è certamente uno scriba del caos. Ma il caos bob se lo era

inventato lui, lo aveva trovato nella sua contemporaneità, caratterizzata

dalla doppia dissoluzione della vecchia metafisica cristiana e della nuova

metafisica idealistica (Vico, Fichte e Hegel).

Nella seconda delle Considerazioni Inattuali, intitolata Sull’utilità e il

danno della storia per la vita, Nietzsche, in età giovanile, affronta la

problematica della storia, alla luce della critica dello storicismo ottocentesco.

La storia infatti, per Nietzsche, qualora venga considerata come

scienza, si contrappone alla vita, distruggendo nell’uomo l’impulso vitale che

presiede all’azione. La storia non è un processo orientato verso un fine,

poiché, per Nietzsche, “in ogni momento il mondo è completo e tocca il suo

termine”.

La modernità di Nietzsche si rivela nella critica dello storicismo, sia

idealistica che positivistica, che avrebbe gravemente alterato il rapporto tra

la vita e la storia, nel concepire la storia stessa come “scienza del divenire

universale”.

La modernità di Nietzsche si rivela nella critica dello storicismo, sia

idealistica che positivistica, che avrebbe gravemente alterato il rapporto tra

la vita e la storia, nel concepire la storia stessa come “scienza del divenire

universale”.

I fatti storici vengono dunque rielaborati come categorie di un sapere

legato ad un passato e quindi morto, che genera un contrasto insanabile tra

interiorità ed esteriorità dell’uomo. La cultura storica, considerata come

scienza, è incapace di trarre dalla storia elementi di trasformazione della

Page 77: Appunti di Filosofia della Storia

  77  

realtà attuale e, pertanto, tale cultura è destinata a rimanere nell’interiorità

dell’uomo, mentre il mondo esteriore rimane estraneo ed immodificabile.

La cultura diviene allora erudizione, la storia non diventa vita e la

personalità umana s’indebolisce nella sua interiorità impotente. L’epoca

moderna soffre quindi di eccesso di storia.

La cultura storica è, inoltre, fondata sulla presunzione che tale scienza

consenta all’uomo moderno di ergersi a giudice supremo della storia

universale del passato. La scienza della storia ha come fondamento

l’”oggettività” storica, intesa come suprema giustizia, presupponendo quindi

la superiorità dell’uomo moderno rispetto gli uomini vissuti in altre epoche.

Tale scienza ricerca la verità alla luce del pensiero contemporaneo, inteso

come “canone di tutte le verità”.

Nietzsche ha, dunque, intuito la logica del progressismo scientifico

scaturito dal positivismo, che applica alla storia i procedimenti delle scienze

naturali.16

In tale contesto epocale, l’uomo viene relegato al ruolo di spettatore

passivo della storia, le cui verità “scientifiche” possono solo essere oggetto

di accettazione acritica. Secondo Nietzsche, tale senso storico sradica il

futuro, il suo giudicare è sempre distruggere sia la vita presente che il

passato storico; la sistematizzazione scientifica della storia conduce

all’inaridimento culturale che sopprime la vita come istinto.

Lo storicismo, secondo Nietzsche, è una eredità della cultura cristiana

medioevale. La cultura storica è infatti attesa del giudizio, alla pari della

teologia cristiana, quale attesa della fine del mondo: un memento mori” che

distrugge ogni libero desiderio, ogni volontà che spinga l’uomo verso

l’ignoto, che invece esige un “memento vivere”. Lo storicismo `dunque una

“teologia camuffata”, che sostituisce quella della Chiesa.

Da questa visione teologica della cultura storica, scaturisce una

violenta polemica nei confronti della filosofia hegeliana. Essa viene definita

come una credenza che divinizza tutto il passato storico, nel momento in cui

dà a quest’ultimo un senso e uno scopo. La storia, quale supremo valore

                                                                                                               16 Definire il concetto di “Progressismo scientifico”.

Page 78: Appunti di Filosofia della Storia

  78  

assorbirebbe in sé sia l’arte che la religione, poiché essa stessa è “concetto

che realizza sé stesso”.

La potenza della storia si realizzerebbe, secondo Nietzsche, nella

“idolatria del fatto”.

Invece, Nietzsche, sostiene che l’uomo virtuoso si ribella alla forza

cieca dei fatti, va contro la storia, perché i grandi lottano contro la storia, le

sue sentenze, la sua “immoralità” del fatto compiuto.

Tuttavia, Nietzsche afferma che c’è da osservare che tutti i grandi

artisti, filosofi, politici, condottieri, sono indissolubilmente legati alle

circostanze storiche in cui essi hanno operato, ed essi sono grandi proprio

per aver trasformato lo stato di cose esistenti.

Nietzsche rivolge le sue inventive contro la filosofia hegeliana, quale

“idolatria del fatto compiuto”, contrapponendo ad essa una concezione della

storia come opera d’arte, architettura del futuro scaturito dall’azione

dell’uomo. Ma nel momento in cui si contrappone alla storia la vita, quale

emozione di volontà di potenza individuale, la storia si astrae da qualunque

presupposto fondativo di carattere storico-filosofico e non è possibile alcuna

interpretazione di essa, se non alla luce della verifica-accettazione acritica di

una serie di fatti compiuti non riferibili ad una logica che conferisca ad essi

una logica ed una finalità.

La caratteristica di Nietzsche è quella di non fare nessuna concessione

né al cristianesimo né al suo superamento-conservazione (Aufhebung)

hegeliano, ma di colpire tutti e due. La vita che Nietzsche contrappone alla

storia è desunta dalla filosofia di Schopenhauer, cioè quelle volontà istintiva,

brama irrazionale.

Il caos nicciano è infatti ferreamente organizzato intorno ad un solo

fondamento, il presunto fatto della Morte di Dio. Se Dio è morto, ci sono in

fondo soltanto tre figure antropologiche possibili:

• Quella dell’eremita, che abita sui monti e non è ancora informato

della morte di Dio;

• Quella dell’ultimo uomo, che è informato della morte di Dio, e ne

tira l’aberrante e distruttiva conclusione che ormai tutto è

Page 79: Appunti di Filosofia della Storia

  79  

possibile;

• Ed infine quella dell’Übermensch, che trasforma la perdita dei

fondamenti e della morte di Dio in risorsa antropologica per la

volontà di potenza.

La morte di Dio implica la perdita di ogni fondamento e la perdita di

goni fondamento si chiama Nichilismo. La reazione a questo nichilismo si

chiama Volontà di Potenza, ed il portatore antropologico di questa Volontà di

Potenza è Übermensch.

1. L’annuncio della Morte di Dio

Nell’aforisma 125 della Gaia scienza l’”uomo folle” annuncia per la

prima volta la morte di Dio. “Dove se ne è andato Dio? — gridò — ve lo

voglio dire! Siamo stati noi a ucciderlo. [...] Dio è morto!”. Questa “verità”

tremenda apre una nuova via alla filosofia nicciana.

Ma che cosa significa che Dio è morto? E che senso ha annunciare agli

uomini la sua morte? Il motivo della morte di Dio non ha, per Nietzsche,

alcun significato psicologico: non significa dunque che gli uomini non

credono più in Dio; né rappresenta una tesi metafisica circa la non esistenza

di Dio. Esso ha piuttosto il valore di una constatazione: non c’è più alcun Dio

che ci può salvare; oltre gli uomini sta solo il nulla. Alla lettera, si tratta

dunque dell’annuncio di un evento, ancorché terribile, di cui occorre

prendere atto.

Perché tuttavia Dio muore? Dio muore perché il mondo moderno è

investito da una crisi mortale, che ha sprofondato l’umanità nell’angoscia

dell’assurdo. Proclamando la morte di Dio, Nietzsche intende dunque

riassumere in una formula radicale l’irruzione del nichilismo nel mondo

moderno, ossia il fatto che l’insieme degli ideali e dei valori su cui, grazie al

cristianesimo, la civiltà europea ha costruito per secoli la propria regola di

comportamento tradisce ora il nulla che ne era il fondamento nascosto.

Agli occhi di un’umanità che non crede più ai suoi fini e ai suoi valori,

così come essi si sono storicamente affermati nell’occidente cristiano, anche

il Valore supremo si svalorizza: “Dio stesso si rivela come la nostra più lunga

Page 80: Appunti di Filosofia della Storia

  80  

menzogna”.

Se Dio è morto non ha più senso parlare di morale, di bene e di male,

di giusto e di ingiusto. Non ha più senso domandarsi dove l’uomo stia

andando e da dove sia venuto. “Non è il nostro un eterno precipitare? — si

chiede l’’uomo folle’ — Non stiamo forse vagando attraverso un infinito

nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto?”

Nell’epoca della crisi dei valori, l’uomo riconosce l’insensatezza del

mondo e sviluppa un sentimento di perdita e di dolore, di risentimento e di

odio nei confronti della vita. Attraverso questa nozione, Nietzsche matura

dunque una nuova posizione che è ontologica e storica al contempo: nel

corso della civilizzazione umana la metafisica e la morale hanno via via

perduto la loro necessità vitale; dunque l’essere stesso si avvicina al nulla.

Se questa è la vita — si chiede tuttavia Nietzsche — quale compito rimane

ancora all’uomo, quale senso è concesso al suo abitare la Terra? Nella Gaia

scienza, vi si fa solo un cenno: “Non dobbiamo noi stessi diventare dei, per

apparire almeno degni di essa?”

Con il suo capo lavoro – Così parlò Zarathustra - il pensiero di

Nietzsche trova il suo compimento, giunge al suo “grande meriggio”.

Gli insegnamenti fondamentali che Zarathustra intende donare agli

uomini sono tre: la dottrina del Superuomo, quella dell’Eterno ritorno

dell’uguale e, la Volontà di potenza.

Nello Zarathustra, Nietzsche, prorompe con violenza solo ciò che

scorreva già come una corrente sotterranea in Aurora e in Gaia scienza: se

lo spirito libero era l’uomo della vita libera e coraggiosa, del rischio e

dell’esperimento, il superuomo, l’uomo dell’eterno ritorno e della volontà di

potenza, è la realizzazione estrema dello spirito libero.

2. Il Übermensch

La concezione del superuomo trova nella dottrina dell’eterno ritorno

dell’uguale il suo orizzonte definitivo di comprensione.

Il concetto di eterno ritorno significa che il tempo non ha fine; il

divenire non ha scopo. Il corso del mondo non è retto da alcun piano

Page 81: Appunti di Filosofia della Storia

  81  

provvidenziale teso a inaugurare il regno di Dio o della morale. Il tempo non

procede in modo rettilineo né verso un fine trascendente (come ha preteso

la tradizione ebraico-cristiana), né verso una finalità immanente (come ha

creduto lo storicismo).

L’uomo della cultura occidentale è dunque prigioniero di una errata

concezione lineare del tempo secondo cui ogni cosa ha un inizio e una fine,

un principio e uno scopo; e tutto tende a una meta, ossia a una

stabilizzazione definitiva delle forze agenti nel mondo, rispetto alla quale i

momenti del processo sono iscritti in una “grande logica” che li rende

transitori e quindi irrilevanti.

In questa visione, il passato ci condiziona in quanto irreversibile e il

futuro si impone come un evento sempre incombente che ci impedisce di

godere del presente.

A questa concezione ebraico-cristiana — che intende il tempo scandito

da istanti irripetibili: creazione, peccato, redenzione, fine dei tempi —

Nietzsche oppone invece una concezione ciclica, ripresa dalla tradizione

antica, presocratica e orientale, secondo la quale gli eventi sono destinati

eternamente a ripetersi in un tempo circolare. Il mondo risulta dominato, in

questa visione, dalla necessità della ripetizione: “tutte le cose eternamente

ritornano e noi con esse, e noi fummo già eterne volte e tutte le cose con

noi”. Ogni istante vissuto, ogni piacere e ogni dolore, sono già esistiti infinite

volte e infinite volte, in eterno, esisteranno.

Se tutto ritorna, ogni istante non è né un passo in avanti, né uno

indietro, in quanto non vi sono più direzioni prescritte: cade la possibilità di

orientarsi nel tempo rispetto a scopi o princìpi assoluti; si svela così il

fondamento ontologico fallace di ogni progetto etico, religioso o metafisico.

Ma, secondo Nietzsche, l’eterno ritorno non va interpretato in un senso

fatalistico: Non basta abbandonarsi alla ciclicità del tempo per sottrarsi al

nichilismo e all’angoscia. L’amor fati nicciano non è l’accettazione rassegnata

delle cose così come esse accadono. Al contrario, l’uomo superiore è proprio

colui che volontariamente vuole per sé quella legge universale che gli altri

enti (gli animali, le piante, gli stessi uomini inconsapevoli) si limitano a

Page 82: Appunti di Filosofia della Storia

  82  

seguire ciecamente; così facendo egli trasforma il caso in una necessità

consapevolmente assunta e voluta.

La dottrina nicciana dell’eterno ritorno mette capo, in questo modo, a

una nuova concezione dell’agire umano. Nella visione lineare del tempo ogni

istante acquista significato solo se legato agli altri, che lo precedono e lo

seguono; il corso del tempo muove dunque verso un fine che trascende i

singoli momenti di cui è costituito. Nella visione nicciana invece, ogni

momento del tempo, e dunque ogni esistenza singola in ogni suo attimo di

vita, possiede tutto intero il suo senso. L’attimo presente può e merita perciò

di essere vissuto per se stesso, come se fosse eterno.

La prima massima nicciana suonerebbe così: muovi sempre

dall’attimo, dal presente vissuto pienamente, in quanto affidato né al

destino, né alla casualità, ma alla decisione, al coraggio, alla volontà. Da cui

la seconda massima: vivi quest’attimo in modo tale che tu debba desiderare

di riviverlo. E, chiaro, solo un uomo perfettamente felice potrebbe volere

l’eterna ripetizione di ogni attimo della propria vita. Ed è altrettanto chiaro

che solo in un mondo pensato nella cornice di una temporalità ciclica è

possibile una tale piena felicità, giacché in una struttura del tempo rettilinea

nessun istante vissuto può realmente avere in sé una pienezza di senso, in

quanto tale istante ha senso, come abbiamo visto, solo in funzione degli altri

istanti che lo precedono e lo seguono sulla linea del tempo.

L’eterno ritorno può essere voluto solo dal superuomo; ma il

superuomo può darsi solo in un mondo ordinato secondo l’eterno ritorno.

Diventa in questo modo per la prima volta possibile l’avvento di una nuova e

felice umanità, libera di dispiegare la propria creativa volontà di potenza sul

mondo.

3. La Volontà di Potenza

Viene così ora in primo piano la nozione di volontà di potenza, come

tratto distintivo della nuova condizione di felicità del superuomo.

Il termine, che appartiene soprattutto alla produzione posteriore allo

Zarathustra, è stato a lungo interpretato sulla base dei significati più

Page 83: Appunti di Filosofia della Storia

  83  

immediati di cui si fa portatore, ossia nella sua accezione di potere e quindi

di dominio e di violenza sugli altri.

Sarebbe errato misconoscere la presenza in Nietzsche di questi

significati. Parimenti, attraverso questo concetto, Nietzsche intende

designare però anche quel dominio di sé che già nella “fase illuministica”

aveva contrapposto alla violenza barbara, tipica dell’individuo volgare e

mediocre. Nietzsche cita, a questo proposito, il brahmanesimo come essenza

di un potere nobile fondato sulla padronanza della potenza. “Volontà di

potenza” dunque non è la semplice volontà di dominio, pura affermazione

sull’altro, né la giustificazione metafisica di un’ideologia di potenza. Come

dirà Martin Heidegger, essa è la volontà che vuole se stessa. Di fronte al

nulla dei valori, all’assurdità del mondo, alla realtà della sofferenza, essa è la

volontà dell’individuo di affermarsi come volontà.

La morte di Dio diventa la resurrezione dell’uomo responsabile e

padrone del proprio destino, la cui volontà è ora libera di affermare se

stessa. Soggetto di volontà di potenza, di conseguenza, è colui che ha la

forza per affermare la propria prospettiva del mondo.

La radice del concetto è, ancora una volta, greca. Uno dei temi di cui

esso si compone è quello della “competizione” come principio di

organizzazione della vita. Nietzsche contesta l’immagine sbiadita che la

tradizione accademica ha dato dell’umanesimo greco. La sua vera natura

non sta nell’ottimismo razionalistico di Socrate, né nella omologhia platonica,

ossia nella ricerca della convergenza delle vedute tramite il ragionamento

dialettico. La bella umanità greca, da tutti ammirata, è segnata per

Nietzsche al contrario dal tratto della crudeltà, dal gusto per la distruzione,

dalla gioia di vincere. La lezione dei greci è che non esiste vita senza un

istinto alla potenza, istinto che l’uomo greco ha imparato a dominare e a

rendere creativo. La competizione greca, di cui Omero ha fissato il modello

ed Eraclito ha tessuto l’elogio, è la “spiritualizzazione” della lotta primitiva,

che nella vita pubblica assume le forme delle gare sportive, dei concorsi di

tragedie, dei certami oratori, delle dispute filosofiche.

L’esempio più frequente cui Nietzsche ricorre per evocare il

Page 84: Appunti di Filosofia della Storia

  84  

protagonista della volontà di potenza è quello dell’artista creatore che

costruisce e dà forma alla materia.

4. La Filosofia del Martello

La “filosofia del martello” nicciana lancia ora l’ultimo e più violento atto

d’accusa contro quelli che erano stati già i bersagli delle opere precedenti lo

Zarathustra: le “menzogne di vari millenni”, la morale, le religioni.

Il XIX secolo appare a Nietzsche come un “XVIIIº assottigliato,

istupidito, tirato terribilmente in lungo”: un “deserto” in cui l’uomo si è

definitivamente perduto. Dominati dal militarismo e dal nazionalismo

prussiani, dalla pruderie vittoriana, dalla logica perversa della merce e dello

scambio, dagli stati forti e burocratizzati, gli uomini dell’Ottocento vivono

isteriliti in comportamenti anonimi e ripetitivi.

La loro vita risulta preordinata secondo valori individuali e collettivi

statici e opprimenti; imprigionati in ambiti di eticità “oggettivi” (la famiglia,

la società, lo stato) essi obbediscono in “gregge” al motto del secolo:

“compiere il proprio dovere”. Incantati dai predicatori del progresso e

dell’uguaglianza essi sono vittime del sistema di certezze dell’intelligenza

occidentale che induce in loro la paura della responsabilità individuale, il

senso di colpa per la propria mancanza di volontà, l’illusione di una

redenzione nell’al di là. Con Kant, Rousseau ed Hegel, essi hanno creduto

che “il concetto possa prendere il posto della natura”; e di qui hanno

imparato ad agire solo “in base a ragionamenti, non a istinti”. Per questo

motivo il paesaggio della loro vita interiore è abitato solo da dicotomie

astratte: virtù-vizio, premio-colpa, altruismo-egoismo. Che ne è della vita in

questo vivere? Per Nietzsche, nulla.

L’uomo vive tuttavia protetto dalla morale e dalla religione. Innalzando

l’umiltà a valore sommo, la morale è la consolazione dei deboli. Facendo

dell’uomo forte l’immorale, essa segna il trionfo della cultura servile. La

morale è il “sonno della vita” in cui l’uomo vive senza coscienza di sé,

prigioniero delle illusioni e dimentico della propria natura libera e creativa. Il

sentimento che ne è il fondamento nascosto è il risentimento, che è lo stato

Page 85: Appunti di Filosofia della Storia

  85  

d’animo di malafede proprio dell’uomo “schiavo” che non sa accettare la

propria impotenza, che non ha la forza di affermarsi trionfante sulle

sofferenze della vita. Espressione del risentimento, la morale è pura volontà

di vendetta dei sofferenti contro i felici, dei mediocri contro le eccezioni,

vendetta che conduce alla negazione della volontà di potenza, cioè al rifiuto

della vita stessa: è la degradazione nichilistica del mondo (…). Gli esempi

della morale del risentimento Nietzsche li trova sia nella cultura

dell’occidente, da Socrate a Wagner, sia nelle grandi religioni, nel

buddhismo, nell’ebraismo e soprattutto nel cristianesimo. Se attraverso la

morale i deboli si vendicano dei forti e “fanno i padroni”, attraverso la

religione cristiana viene loro promesso il premio nel regno dei cieli. La

violenta requisitoria antireligiosa, avviata da Nietzsche sin dalle opere

giovanili, culmina nell’Anticristo, l’opera degli ultimi mesi dalla sua vita

consapevole, in cui il cristianesimo, in quanto fondato sulla repressione degli

istinti e sull’aumento del senso di colpa tramite l’angoscia del peccato, viene

inteso come la più raffinata tecnica di annientamento della vita che la civiltà

abbia saputo produrre. Il cristiano è un «animale malato»: fa della propria

debolezza una virtù, proiettando in una illusoria vita oltre la morte il premio

per le proprie sofferenze e frustrazioni.

In antitesi alla morale e alla religione, la trasvalutazione dei valori è

invece la liberazione della qualità attiva della vita, l’invenzione di nuove

forme di esistenza, di nuovi valori. Il suo protagonista — come sappiamo —

è il superuomo, che esercita il culto dell’umanità come natura vittoriosa, al

di fuori di ogni schema normativo. Alla collettivizzazione della paura, egli

risponde con l’individualità del coraggio, propria di chi soffre e resiste, ben

lungi dal rimproverare alla vita il suo carattere doloroso. Alla grande

ipocrisia, affermatasi con Socrate e Cristo, la quale afferma che non si vive

per vincere, ma per far trionfare il bene e la verità, il superuomo risponde

che valori e verità nascono solo in base a uno scontro di forze: il mondo è

simpatetico se si vince, astioso se si perde. Non ci sono dunque essenze nei

valori; essi esistono perché esistono forme di vita vincenti. La morale ha per

secoli inventato e imposto valori, come se fossero fondati sulla verità: ha

Page 86: Appunti di Filosofia della Storia

  86  

così nascosto il loro essere fondati sulla volontà di potenza di singoli e

gruppi.

Nietzsche detesta la moderna ideologia egualitaria, che gli sembra

l’ostacolo più pericoloso per l’affermazione del superuomo (“Tutti molto

uguali, molto piccoli, molto tolleranti, molto noiosi”). L’attacco alle dottrine

socialiste è esplicito (anche se viene ignorato il nome di Marx che

probabilmente Nietzsche non lesse mai). Al socialismo, in particolare,

rimprovera l’ottimismo, retaggio del moralismo razionalistico: è questo

ottimismo, su cui storicamente si è innestato il provvidenzialismo cristiano,

che ispira, a suo parere, le pretese “scientifiche” del socialismo e dà vita agli

ideali illusori della giustizia e della felicità di massa, variante moderna della

morale del “gregge”. Per parte sua, si dichiara invece favorevole a una

organizzazione sociale aristocratica, antistatalista, antinazionalista,

“europea”, il cui compito sia quello di formare una nuova “casta dominante”

educata agli ideali del superuomo.

L’aristocrazia a cui egli si riferisce non è tuttavia né quella del sangue,

né quella del denaro. Non vi è traccia, nel pensiero di Nietzsche, di alcuna

delle nozioni razziste, antisemite e pangermaniste, che saranno invece

esaltate nel secolo seguente dal nazismo e che già nei suoi anni animavano

la condotta politica dei gruppi nazionalisti tedeschi.

VI – LA POLITICIZZAZIONE DE SUPERUOMO

Page 87: Appunti di Filosofia della Storia

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  90  

APPENDICE 1

La prima lezione dopo la prima guerra mondiale tenuta da Heidegger

ha per titolo L’idea della filosofia e il problema della visione del mondo. Il

giovane libero docente intende prendere parte, con questo ciclo di lezioni,

alla disputa intellettuale scatenatasi dopo la conferenza di Max Weber La

vocazione interiore alla scienza. Il fulcro della questione riguardava il

problema del rapporto tra etica e scienza. Weber proponeva una netta

separazione tra il possesso del mondo, da una parte, e il rispetto del mistero

della persona, dall’altra. Per il sociologo Dio poteva sopravvivere

esclusivamente nell’anima del singolo il quale, però, doveva essere

disponibile “a compiere il sacrificio dell’intelletto” e credere in lui. Di

conseguenza una fede che si confonde con la scienza, o peggio, che istaura

un rapporto di concorrenza con essa. Nel 1924 Heidegger tiene una

conferenza per i teologi di Marburgo sul tema Il concetto di tempo. Per la

prima volta propone un’interpretazione della temporalità alla luce della

particolare curvatura della mortalità “L’esserci […] sa della sua morte […] E’

un percorrimento dell’esserci che va al suo non più”. Questo “non più” non

rappresentava però semplicemente l’evento morte, ma piuttosto il “‘come’

del mio puro e semplice esserci”.17

Nel 1931 il filosofo tedesco è rapito filosoficamente da Platone e

partecipa, sulle tracce di quest’ultimo e sorretto da un senso nuovo di

responsabilità politica e sociale, alla distruzione della democrazia. La prima

metà del corso su Platone, tenuto nel biennio 1931-32, è dedicata

all’interpretazione del mito della caverna tratto dalla Repubblica. In tale

dialogo il senso della giustizia, come ci dice lo stesso Platone, è racchiuso nel

giusto equilibrio dell’anima, sia nell’uomo che nella polis. Tale equilibrio è

strettamente legato alla natura dell’anima stessa che è fatta, come il cosmo,

di puro essere il quale, semplicemente permanendo, è in opposizione con il

divenire. Per Heidegger invece non c’è alcun ideale ontologico della

persistenza. Occorre, dunque, interpretare il pensiero di Platone meglio di

quanto lo abbia fatto Platone stesso. Il risultato di questa interpretazione è                                                                                                                17 Cfr. M. HEIDEGGER, Il concetto di tempo, Adelphi, Milano, 1998, pp. 27-28.

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l’individuazione di una distanza che si interpone tra l’uomo e la sua

percezione del mondo e di sé stesso, poiché esiste una parte di entrambe

che si mostra e un’altra che si sottrae. Ciò significa che esiste uno spazio di

gioco in cui risiede la libertà dell’uomo. Tale distanza è chiamata da

Heidegger “apertura”. Se quest’ “apertura” non ci fosse l’uomo non potrebbe

distinguersi né da ciò che lo circonda, né da se stesso. Di conseguenza non

potrebbe neanche esserci.

La crisi imperversa in Germania e il coacervo di problemi in gioco

rappresenta, per la debole democrazia di Weimar, un nodo inestricabile.

Ispirato da Platone, Heidegger si unisce a quelle forze nelle quali scorge una

reale volontà di ricominciare. Per il filosofo l’avvento del partito

nazionalsocialista non è un fatto meramente politico, rappresenta un atto

nuovo nella storia dell’essere.

Il 20 aprile del ’33, il giovane professore viene eletto rettore

dell’università di Friburgo dalla riunione plenaria. Il 27 maggio è il giorno del

discorso di rettorato. Il tema di tale discorso è L’autoaffermazione

dell’università tedesca. In questa sede propone una metafora in cui la

scienza è intesa come una lotta infinita del sapere contro l’oscurità dell’ente.

Quindi l’università deve conformarsi al modello della truppa d’assalto e, di

conseguenza, deve essere rifiutata una volta per tutte la concezione di una

scienza come mezzo attraverso il quale dare sfogo alle vanità personali e

attraverso il quale fare carriera e soldi.

A causa degli intrighi interni alla gerarchia nazista e all’amarezza di

vedere disilluse le sue ambizioni di generare una vera rivoluzione spirituale

attraverso il nazionalsocialismo, nell’aprile del ’34 Heidegger si dimette dalla

carica di rettore. L’allontanamento dall’ambito politico per un ritorno nel

mondo dello spirito è sottolineato dal cambio del tema del corso estivo.

Questo doveva trattare il tema “Lo Stato e la scienza”, invece il filosofo, alla

prima lezione, comincia a parlare di logica.

Il filosofo, attraverso l’opera - L’epoca dell’immagine del mondo –

pubblicato nel secondo dopo guerra, tenta di rielaborare la sua delusione per

la mancata realizzazione sul piano politico della rivoluzione metafisica. Si

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adopera in una diagnosi del mondo moderno che, sempre più, si manifesta

ai suoi occhi come l’epoca della mobilitazione totale. Di tale processo, però,

il nazionalsocialismo non rappresenta più il momento di rottura. La

rivoluzione, anzi, ne diviene l’esito più coerente poiché, nel

nazionalsocialismo, brucia, più che mai, il furore della modernità che si

esplica attraverso l’inautenticità sotto forma di “mobilitazione totale”.

Nel successivo corso intitolato Nietzsche e il nichilismo europeo

(1937/1938) Heidegger propone un’interpretazione sorprendente della

sconfitta bellica francese. Per il filosofo, infatti, non erano più l’America e la

Russia le potenze avanguardia della “desolante frenesia della tecnica

scatenata”. Era la Germania che vinceva poiché si era abbandonata più

efficacemente alla mostruosità della tecnica.

Nel 1945, l’amministrazione militare francese pretende dall’università

di Friburgo l’epurazione di tutti gli elementi politicamente più compromessi.

Heidegger è annoverato tra questi.

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