1 INTRODUZIONE Parlare di filosofia della Storia, significa porsi il problema del rapporto tra l’uomo e la sua attività pratica, intesa come facere, quale attività generatrice della storia. Esiste una concezione molto diffusa, ad opera soprattutto di Karl Löwith, per cui la Filosofia della Storia, sostanzialmente inesistente al tempo dei greci, è un prodotto integrale del monoteismo messianico ebraico- cristiano, inizia già con Agostino di Ippona, e risulta essere nel suo coronamento in Marx una storia di secolarizzazione della escatologia ebraico- cristiana nel linguaggio dell’economia politica inglese e della Filosofia classica tedesca 1 . Ma, se se fa iniziare la Filosofia della Storia non con una semplice posizione religioso-scatologica, allora, soltanto con la svolta moderna di Giovanni Battista Vico ha inizio la Filosofia della Storia. Lui è stato il primo ideatore di questa nuova scienza che aveva come obiettivo di essere contemporaneamente Storia e Filosofia. La Filosofia della Storia di Giovanni Vico prende le mosse dalla critica al razionalismo astratto di Cartesio. Infatti, la Filosofia, sin dalle sue origini nella Grecia classica in poi, ha avuto come oggetto della propria indagine l’essere, e quindi l’elaborazione di una metafisica che pervenisse alla comprensione dell’essere quale sostanza immutabile, atemporale, eterna – nonostante l’uomo fosse per definizione mutabile, temporale e contingente. Il tempo e il divenire storico furono quindi confinati nella dimensione della contingenza, della particolarità che potesse avere una propria essenza solo quale determinazione concreta e finita dell’essere. Vico fu, allora, l’artefice della Filosofia avente per oggetto l’uomo nella sua dimensione storica; l’uomo che perviene alla conoscenza di sé come essere nella storia. 1 K. LöWITH, Significato e fine della storia: i presupposti teologici della filosofia della storia, il Saggiatore, 2010.
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INTRODUZIONE
Parlare di filosofia della Storia, significa porsi il problema del rapporto
tra l’uomo e la sua attività pratica, intesa come facere, quale attività
generatrice della storia.
Esiste una concezione molto diffusa, ad opera soprattutto di Karl
Löwith, per cui la Filosofia della Storia, sostanzialmente inesistente al tempo
dei greci, è un prodotto integrale del monoteismo messianico ebraico-
cristiano, inizia già con Agostino di Ippona, e risulta essere nel suo
coronamento in Marx una storia di secolarizzazione della escatologia ebraico-
cristiana nel linguaggio dell’economia politica inglese e della Filosofia classica
tedesca1.
Ma, se se fa iniziare la Filosofia della Storia non con una semplice
posizione religioso-scatologica, allora, soltanto con la svolta moderna di
Giovanni Battista Vico ha inizio la Filosofia della Storia. Lui è stato il primo
ideatore di questa nuova scienza che aveva come obiettivo di essere
contemporaneamente Storia e Filosofia.
La Filosofia della Storia di Giovanni Vico prende le mosse dalla critica
al razionalismo astratto di Cartesio.
Infatti, la Filosofia, sin dalle sue origini nella Grecia classica in poi, ha
avuto come oggetto della propria indagine l’essere, e quindi l’elaborazione di
una metafisica che pervenisse alla comprensione dell’essere quale sostanza
immutabile, atemporale, eterna – nonostante l’uomo fosse per definizione
mutabile, temporale e contingente. Il tempo e il divenire storico furono
quindi confinati nella dimensione della contingenza, della particolarità che
potesse avere una propria essenza solo quale determinazione concreta e
finita dell’essere.
Vico fu, allora, l’artefice della Filosofia avente per oggetto l’uomo nella
sua dimensione storica; l’uomo che perviene alla conoscenza di sé come
essere nella storia.
1 K. LöWITH, Significato e fine della storia: i presupposti teologici della filosofia della storia, il Saggiatore, 2010.
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La nuova scienza vichiana scaturisce dalla conoscenza filologica e
filosofica. La filologia studia i fatti storici e ne determina la certezza.
Tuttavia, la certezza non è verità. I fatti empirici debbono essere vagliati alla
luce di concetti universali che possono spiegare l’origine e la causa dei fatti
storici.
Quindi, nel rapporto fra la Filologia e la Filosofia, la Filosofia determina
gli indirizzi della ricerca della Filologia, mentre la Filologia elabora il
materiale dei fatti storici che debbono essere sottoposti alla verifica
veritativa proprio della Filosofia.
Vico cerca, quindi, di pervenire ad una verità ontologica dell’uomo
artefice della storia, sulla base di principi generali che reggono la società, in
quanto connaturati alla natura umana e rinvenibili nei valori costanti che si
perpetuano nel succedersi delle civiltà nella storia, quali l’eroismo, la
famiglia, la pace, la guerra.
Vico, ha dunque, elaborato gli elementi strutturali della Filosofia della
Storia, mediante l’individuazione di principi generali di cui si sostanzia
l’umanità dell’uomo e come tali, costituiscono gli impulsi generatori del
divenire storico.
Possiamo allora rinvenire in Vico gli elementi base della Filosofia della
Storia che diverranno propri dell’idealismo. Infatti, per Hegel la Storia è
luogo di manifestazione dello Spirito. Per Marx, il divenire storico è
determinato da concetti base emergenti della storia stessa, quale il modo di
produzione, da cui deriva la forza propulsiva e la dinamica di sviluppo delle
contrapposizione sociale di classe.
A Vico si potrebbe associare la figura di Spinoza come co-artefice della
Filosofia della Storia.
Spinoza ha fondato il monismo ontologico che unifica concettualmente
le modalità gnoseologiche del pensiero e le modalità ontologiche dell’essere
(anticipando, quindi la risposta al criticismo di Kant).
Si potrebbe dire che già la Filosofia di Kant cercava di delegittimare la
pretesa di normatività storica e politica della vecchia metafisica religiosa
monoteistica cristiana, incompatibile con la nuova istituzione sociale
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politicamente borghese ed economicamente capitalistica. La nuova società
borghese-capitalistica non ha più bisogno della verità, ingombrante residuo
religioso di cui le chiese volevano il monopolio; Con Kant la verità è
integralmente ritradotta in certezza del soggetto (l’Io penso), all’interno di
una nuova società mercantile che non richiede più nessuna fondazione
veritativa, ma soltanto la mano invisibile del mercato (Adam Smith).
Il soggetto però non è più postulato astrattamente (come il Cogito di
Cartesio), ma inserito in un processo storico di progressiva acquisizione
dell’autocoscienza, attraverso il quale è ridefinito il vecchio problema greco
della verità.
Nella sua forma religiosa, la verità può essere rivelata, creduta,
intuita, imposta, eccetera, ma la credenza, la rivelazione, l’intuizione e
l’imposizione non fanno parte della Filosofia. In Filosofia la verità non può
essere accertata, ma solo ricostruita attraverso un processo storico di
percorso della coscienza nel suo superamento di ostacoli da essa stessa
posti (Fichte), dell’allargamento di procedure di riconoscimento (Hegel), ed
infine di superamento di sempre nuovi stati di alienazione-estraneazione
(Marx).
L’idealismo, è proprio questo. La verità non è un dato originario, da
disvelare, ma l’esito di un risultato “ideale” da ricostruire attraverso il
percorso dell’autocoscienza.
Filosofia della Storia come Filosofia della Libertà Nella filosofia hegeliana, la Storia è il luogo di manifestazione
dell’assoluto. Hegel concepisce la storia in funzione dell’autocoscienza
dell’uomo, considerato come unico soggetto unificato della totalità umana.
L’uomo, inteso sia nella sua universalità umana che come individuo,
pone i presupposti del suo operare nella storia e ne realizza i contenuti nel
suo agire pratico, pervenendo al riconoscimento di sé nell’opera compiuta,
già implicito nei presupposti che presiedono all’azione.
La comprensione della Filosofia della Storia come Filosofia della libertà
permette di mettere su basi molto più solidi la critica filosofica al liberalismo
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e al neoliberalismo (nonché al liberalismo economico), in quanto anche il
pensiero liberale si presenta come una filosofia della libertà.
A tale proposito, si può segnalare tre fraintendimenti di Hegel: il
fraintendimento giustificazionista, il fraintendimento necessitarista ed il
fraintendimento storicista.
Il fraintendimento giustificazionista interpreta l’equazione hegeliana di
Reale e di Razionale come la giustificazione di tutto ciò che empiricamente
avviene nella storia in quanto «reale», ignorando (per ignoranza o malafede,
o per entrambe le ragioni) che lo stesso Hegel aveva messo in guardia
dall’intendere il concetto di «reale» come il contingente effettivo.
Il fraintendimento necessitarista porta ad intendere il corso storico
come una catena di eventi inevitabili e necessari, ma si tratta di un
fraintendimento segretamente positivistico, perché la catena di eventi storici
è assimilata ad una catena di eventi astronomici, fisici e chimici.
Il fraintendimento storicistico, il più comune, diffuso e difficile da
estirpare, consiste nel togliere al corso storico ogni fondamento ontologico e
logico veritativo, con la conseguenza di sfociare inevitabilmente nel
relativismo e nel nichilismo.
La libertà è un concetto politico, opposto alla schiavitù, e viene
considerata una caratteristica dei greci rispetto ai barbari orientali, sudditi
del dispotismo imperiale persiano.
I romani non portano la libertà, ma la pax romana, che toglie ai popoli
soggetti la precedente libertà. Paolo di Tarso nella Lettera ai Corinzi non
promette ai cristiani la libertà, ma la liberazione attraverso l’asservimento ad
un unico liberatore, Gesù Cristo, cui devono asservirsi liberi, liberti e schiavi.
In Hobbes, la libertà dell’individuo è ancora vista come pericolosa fonte
di disordine e di sedizione, per cui viene subordinata alla sicurezza da
ottenere delegando ogni potere allo Stato Leviatano.
Solo con Locke la libertà viene legittimata, in quanto è correlata alla
proprietà, unica fonte dei diritti politici.
Ma è soltanto con Hume che la libertà dell’individuo non viene più
fondata sulla base delle due dottrine del diritto naturale e del contratto
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sociale, ma viene di fatto identificata con l’abitudine ed il mutuo consenso
allo scambio.
Ci vorrà allora un solo passo, compiuto da Adam Smith, per fondare la
società moderna sul valore di scambio, inteso come equivalente generale del
tempo sociale medio necessario per la produzione sociale delle merci, rette
dalla «mano invisibile» del mercato.
Il Settecento è allora il secolo in cui, per la prima volta, viene
legittimata la libertà di opinione, in base al fatto che la nuova società
borghese-capitalista non ha più bisogno di essere fondata sulla normatività
eteronoma di metafisiche religiose pseudo-veritative.
Sfida per la filosofia della storia La Filosofia della Storia è una scienza facilmente soggetta a
degenerazioni. Essa può tramutarsi in ideologia, qualora si basi su finalità
contingenti di un dato momento storico. Può altresì identificarsi con
concettualità metafisiche che prescindono dalla storia, vanificandone gli
sviluppi e la portata innovativa. È da questa compresenza di culture
autoreferenti che aveva preso le mosse la Filosofia vichiana: da una Filosofia
che aveva ricercato il certo senza il vero e da una Filosofia concentrata sul
vero facendo astrazione della storia.
Nel primo caso, i fatti storici particolari vengono esaminati senza
alcuna mediazione del certo con le categorie universali della verità filosofica.
Nel secondo caso, il pensiero filosofico dai fatti contingenti fa derivare una
concettualità assoluta, univoca, perché priva di qualsiasi riferimento
dialettico e avulsa da qualsiasi verifica storica. La Filosofia assume quindi i
caratteri di un determinismo assoluto, in cui la Storia stessa assume le vesti
di un divenire necessario per il raggiungimento degli obiettivi ideologici
immanenti, più assimilabile ad un messianismo trascendente, piuttosto che
ad una Filosofia della Storia che abbia la funzione di elaborare un sistema
concettuale che fornisca un senso all’essere dell’uomo nella Storia.
Alla fine delle grandi narrazioni ideologiche ha fatto seguito la teoria di
Fukujama della fine della storia che riassume in sé la dimensione storica
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dell’attuale capitalismo globale. Il capitalismo concepisce la fine della storia
come l’avvento di una temporalità illimitata in cui esso riprodurrà sé stesso,
ormai sempre uguale a sé stesso, poiché, in quanto assoluto, ha realizzato
totalmente sé stesso e, quale unico sistema economico-politico mondiale,
non è suscettibile di ulteriori sviluppi.
Tuttavia, il capitalismo finisce per negare la dimensione stessa della
Storia in quanto progressiva, quale divenire storico progressivo illimitato.
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I - GIAMBATTISTA VICO (Napoli, 1668-1744)
Con l'altezza del suo genio, Giambattista Vico emerse dalla
depressione in cui la cultura italiana era piombata dopo il Rinascimento.
Anch'egli, come Leibniz, contrappone all'essere astratto della
matematica cartesiana la concretezza di una realtà spirituale quale azione e
sviluppo e quindi finalità, in cui si attua una razionalità più profonda di quella
che regola - nella chiarità dell'intelletto - il pensiero geometrico.
Ma la vita di questa realtà spirituale egli la coglie nella storia umana:
in lui per la prima volta il razionalismo diventa storicismo, la ragione cioè è
considerata come realtà che attua se stessa in una esauribile fecondità
creatrice, per cui, nel succedersi degli individui e delle generazioni, essa
accresce di continuo il suo contenuto, e tanto conosce quanto fa.
1. Opposizione al Cartesianesimo, Inefficienza del Cogito
Cartesiano; e il Nuovo criterio di verità: “Verum et factum
convertuntue”
La prima forma della dottrina del Vico intorno alla conoscenza si
presenta come diretta critica e antitesi del pensiero cartesiano.
Cartesio aveva collocato l'idea della scienza perfetta nella geometria,
sul modello della quale intese a riformare la filosofia e ogni atra parte del
sapere. E poiché il metodo geometrico perviene mercé l'analisi a verità
intuitive, e da queste muove di poi per ottenere con deduzione sintetica
sempre più complesse affermazioni, la filosofia, per procedere con rigore di
scienza, doveva, amente di Cartesio, cercare anch'essa il fermo punto
d'appoggio in una verità primitiva e intuitiva, dalla quale deducesse tutte le
sue ulteriori affermazioni, teologiche, metafisiche, fisiche e morali.
L'evidenza, la percezione o idea chiara e distinta era, dunque, criterio
supremo; e l'inferenza immediata, l'intuitiva connessione del pensiero con
l'essere, del cogito col sum, porgeva la prima verità e la base per la scienza.
Ma, per ciò stesso, tutto quel sapere non ancora ridotto o non riducibile a
percezione chiara e distinta e a deduzione geometrica, perdeva ai suoi occhi
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valore e importanza: tale la storia, che si fonda sulle testimonianze;
l'osservazione naturalistica, non ancora matematizzata; la saggezza pratica
e l'eloquenza, che si valgono dell'empirica conoscenza del cuore umano; la
poesia, che offre immagini fantastiche. Piuttosto che un sapere, codesti
prodotti spirituali erano per Cartesio illusioni e torbide visioni: idee confuse,
destinate o a farsi chiare e distinte e perciò a svestire la loro anteriore forma
d'esistenza, o a trascinare un'esistenza miserabile, indegna dell'attenzione
del filosofo.
Ora, dove il filosofo francese stimava di aver fornito tutto quanto si
potesse richiedere per la scienza più rigorosa, il Vico osserva che, posta
l'esigenza alla quale s'intendeva soddisfare, in realtà, col metodo
raccomandato si otteneva ben poco o addirittura nulla.
Bella scienza (dice il Vico) è codesta dell'idea chiara e distinta! Ch'io
pensi quel ch'io penso è, sì, cosa indubitabile, ma non mi ha punto l'aria di
una proposizione scientifica. Ogni idea, per erronea che sia, può apparire
evidente; e, non perché a me appaia tale, acquista virtù di scienza.
Ma in che cosa la verità scientifica consiste, poiché certamente non
consiste nella coscienza immediata? In che la scienza differisce dalla
semplice coscienza? Qual è il criterio, o, in altri termini, quale la condizione
che rende possibile la scienza?
Il primo vero – dice Vico - è in Dio, perché Dio è il primo fattore; ed è
vero infinito perché egli è fattore delle cose tutte, esattissimo perché
rappresenta a lui gli elementi così esterni come interni delle cose, le quali
egli contiene tutte in sé.
Questo l’aveva già affermato l’ebraismo e ripetuto il cristianesimo. Ma
il Vico non si restringe ad affermazioni incidentali e, intendendo per primo la
fecondità del concetto espresso in quella proposizione, dall'elogio dell'infinita
potenza e sapienza di Dio e dal raffronto con quella limitata dell'uomo
ricava, contro Cartesio, il principio gnoseologico universale, che la condizione
per conoscere una cosa è il farla, e il vero è il fatto stesso: «verum ipsum
factum».
Non altro che codesto si vuol dire (egli chiarisce), quando si afferma
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che la scienza è «per causas scire», perché la causa è quella che per
produrre l'effetto non ha bisogno di cosa estranea, è il genere o modo di una
cosa: conoscere le cause è saper mandare ad effetto la cosa, provare dalla
causa è farla. In altri termini, è rifare idealmente quel che si è fatto e si fa
praticamente. La cognizione e l'operazione debbono convertirsi tra loro,
come in Dio intelletto e volontà si convertono e fanno tutt'uno.
Senonché, stabilito nella connessione del vero e del fatto l'ideale della
scienza, e (poiché l'ideale è la vera realtà) conosciuta la natura vera della
scienza, la prima conseguenza che da questo riconoscimento deve trarsi è
quella stessa che ne traevano i platonici e gli scettici del Rinascimento:
l'impossibilità della scienza per l'uomo. Se Dio ha creato le cose, Dio solo le
conosce per cause, egli solo ne conosce i generi o modi, ed egli solo ne ha la
scienza.
All'uomo non è data la scienza, ma la sola coscienza, la quale per
l'appunto volge sulle cose di cui non si può dimostrare il genere o forma
onde si fanno. La verità di coscienza è il lato umano del sapere divino, e sta
a questo come la superficie al solido: piuttosto che verità, dovrebbe dirsi
certezza. A Dio l'intelligere, all'uomo il solo cogitare, il pensare, l'andare
raccogliendo gli elementi delle cose, senza poterli mai raccogliere tutti. A Dio
il vero dimostrativo; all'uomo le notizie non dimostrate e non scientifiche,
ma o certe per segni indubitati o probabili per forza di buoni raziocini o
verisimili per sussidio di potenti congetture. Il certo, la verità di coscienza,
non è scienza, ma non perciò e il falso.
Il pensare – cogito ergo sum -, non essendo causa del mio essere, non
induce scienza del mio essere; se l'inducesse, essendo l'uomo mente e
corpo, il pensiero sarebbe causa del corpo. Il cogito è, dunque, un mero
segno o indizio del mio essere: nient'altro. L'idea chiara e distinta non può
dare criterio, non pure delle altre cose ma della mente medesima, perché la
mente in quel suo conoscersi non si fa, e, poiché non si fa, ignora il genere o
modo onde si conosce.
Ma l'idea chiara e distinta è quel che solo è concesso allo spirito
dell'uomo. Quindi, anche per il Vico la metafisica serba il primato fra le
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scienze umane, che tutte derivano da lei; ma laddove per Cartesio essa può
procedere con sicuro metodo di dimostrazione pari a quello geometrico, per
Vico deve contentarsi del probabile, non essendo scienza per cause ma di
cause.
L'esistenza di Dio è certa, ma non è scientificamente dimostrabile. Per
dimostrare Dio, dovremmo farlo: l'uomo dovrebbe diventare creatore di Dio.
Parimente bisogna ritenere vero tutto quello che ci è stato rivelato da Dio,
ma non domandare in qual modo sia vero, che è ciò che non potremo mai
comprendere. Sulla verità rivelata e sulla coscienza di Dio si appoggiano le
scienze umane e vi trovano la loro norma di verità; ma il fondamento stesso
è verità di coscienza e non di scienza.
Come il Vico abbassa le scienze che Cartesio prediligeva e coltivava, la
metafisica, la teologia, la fisica, così risolleva le forme di sapere che Cartesio
aveva abbassate: la storia, l'osservazione naturalistica, la cognizione
empirica circa l'uomo e la società, l'eloquenza e la poesia. O, per meglio
dire, dimostrato che le superbe verità della filosofia condotta con metodo
geometrico si riducono anch'esse a nient'altro che a probabilità e asserzioni
aventi valori di semplice coscienza, la vendetta delle altre forme del sapere
è, nell'atto stesso, bella e compiuta, perché tutte si ritrovano ormai
adeguate alla medesima altezza o bassezza che si dica. L'idea di una scienza
umana perfetta, che respinga da sé un'altra indegna di questo nome perché
fondata non sul ragionamento ma sull'autorità, è chiarita illusoria.
L'autorità delle proprie e delle altrui osservazioni e credenze, l'opinione
generale, la tradizione, la coscienza del genere umano vengono restaurate
nell'ufficio che hanno sempre avuto e che ebbero nello stesso Cartesio; il
quale (come suole accadere) disprezzò quel che egli possedeva in gran copia
e di cui si era potentemente giovato, e, uomo dottissimo, screditò la dottrina
e l'erudizione, come chi nutrito può darsi il lusso di parlare con disdegno del
cibo che è già sangue nelle sue vene.
C'è, tuttavia, un gruppo delle scienze cartesiane al quale il Vico
riconosca, come i suoi predecessori del Rinascimento, un posto privilegiato;
vale a dire, non di coscienza, ma di vera e propria scienza, non nella
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certezza, ma nella verità: le discipline matematiche. Sono queste, secondo
lui, le sole conoscenze possedute dall'uomo in modo del tutto identico a
quello del sapere divino, e cioè perfetto e dimostrativo. E non già, come
Cartesio aveva creduto, per effetto del loro carattere di evidenza.
La forza delle matematiche nasce, dunque, non dal criterio cartesiano,
ma appunto dall'altro enunciato dal Vico; non dall'evidenza) ma dalla
conversione del conoscere col fare: «mathematka demonstramus, quia
verum facimus».
L'uomo prende l'uno e lo moltiplica, prende il punto e lo disegna; e
crea i numeri e le grandezze che egli conosce perfettamente perché opera
sua. Le matematiche sono scienze operative, e non solo nei loro problemi,
ma negli stessi teoremi, che volgarmente si stimano cosa di mera
contemplazione. Per tal ragione esse sono anche scienze che dimostrano per
cause, contrariamente all'altra opinione volgare che esclude dalle
matematiche il concetto di causa; sono, anzi, le sole, tra le scienze umane,
che davvero provino per cause.
Tutto l'arcano del metodo geometrico consiste nel definire prima le
voci, cioè fare i concetti coi quali si abbia a ragionare; poi stabilire alcune
massime comuni, nelle quali colui col quale si ragiona convenga; e con
questi principi da verità più semplici dimostrate procedere fil filo alle più
composte, e le composte non affermare se prima non si esaminino una per
una le parti che le compongono. Per il Vico, quindi, la gran perfezione che
Cartesio attribuisce alle matematiche è più apparente che reale; che la
sicurezza che egli vanta di quel procedere, è, per sua medesima
confessione, acquistata a spese della realtà; e che, insomma, l'accento della
teoria non cade tanto sulla verità di quelle discipline quanto sulla loro
arbitrarietà.
L'uomo, dice il Vico, andando attorno a investigare la natura delle
cose, e accorgendosi finalmente di non poterla in nessun modo conseguire,
perché non ha dentro di sé gli elementi onde sono composte, e, anzi, li ha
tutti fuori di sé, è condotto via via a volgere a profitto questo stesso vizio
della sua mente. Con l'astrazione che si esercita sugli enti metafisici si foggia
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due cose: il punto da disegnare, e l'unità da moltiplicare. Entrambi finzioni,
perché il punto disegnato non è più punto e l'uno moltiplicato non è più uno,
costruisce per suo uso un mondo di forme e numeri, che egli abbraccia tutto
dentro di sé; e col prolungare, col tagliare, col comporre le linee, con
l'aggiungere, togliere e computare i numeri, fa infinite opere e conosce
infiniti veri. Non può definire le cose e definisce nomi; non può attingere gli
elementi reali e si contenta di elementi immaginari, dai quali sorgono idee
che non ammettono alcuna controversia. Simile a Dio, «ad Dei instar», da
nessun sostrato materiale, e quasi dal niente, crea punto, linea, superficie: il
punto che è posto come quello che non ha parti; la linea come l'escurso del
punto, ossia la lunghezza priva di larghezza e di profondità; la superficie,
come l'incontro di due linee diverse in uno stesso punto, cioè la lunghezza e
la larghezza senza la profondità. Così le matematiche purgano il Vizio della
scienza umana, di avere sempre le cose fuori di sé e di non aver essa fatto
ciò che vuole conoscere. Quelle fanno ciò che conoscono, hanno in sé
medesime i loro elementi e si configurano, perciò, a somiglianza perfetta
della scienza divina (scie ntiae divinae similer evadunt).
La fulgida verità delle matematiche nasce, dunque, dalla disperazione
della verità; la loro formidabile potenza dalla riconosciuta impotenza! La
somiglianza dell'uomo matematico con Dio non è troppo diversa da quella
del contraffattore di un'opera col suo autore: ciò che Dio è nell'universo della
realtà, l'uomo è, sì, nell'universo delle grandezze e dei numeri, ma questo
universo è popolato di astrazioni e fin zioni. La divinità conferita all'uomo è,
quasi, divinità da burla.
Per effetto della diversa genesi che il Vico assegna alle matematiche,
anche la loro efficacia viene assai ristretta. Le matematiche non stanno più,
come per Cartesio, al sommo del sapere umano, destinate a redimere e a
governare le scienze subalterne; ma occupano una cerchia, per quanto
singolare, altrettanto ben circoscritta, fuori della quale perdono, d'un subito,
ogni loro mirabile virtù.
Il potere delle matematiche incontra ostacoli a parte ante e a parte
post: nel loro fondamento e in quel che a loro volta sono in grado di fondare.
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Nel loro fondamento, perché se creano i loro elementi, cioè le finzioni iniziali,
non creano la stoffa in cui queste sono ritagliate e che a esse, non meno che
alle altre scienze umane, è fornita dalla metafisica, la quale, non potendo
dar loro il proprio soggetto, ne dà certe immagini. Dalla metafisica la
geometria toglie il punto per disegnarlo (cioè, per annullarlo come punto): e
l'aritmetica l'uno per moltiplicarlo (cioè, per distruggerlo come uno).
E poiché la verità metafisica, per quanto certa appaia alla coscienza,
non è dimostrabile, le matematiche, in ultima analisi, riposano anch'esse
sull'autorità e sul probabile.
Come non fondano la metafisica dalla quale anzi derivano, così le
matematiche non sono neppure in grado di fondare le altre scienze, che pure
seguono a esse nell'ordine di derivazione. Tutte le materie, diverse dai
numeri e dalle misure, sono affatto incapaci di metodo geometrico. La fisica
non è dimostrabile: l'introduzione del metodo matematico nella fisica non ha
giovato a questa disciplina, che fece scoperte grandi senza quel metodo, e
nessuna né grande né piccola ha fatta mercé di esso. La fisica moderna
somiglia, in verità, a una casa che gli antenati hanno riccamente arredata e
di cui gli eredi non hanno accresciuto la suppellettile, ma si divertono
solamente a cangiarla di posto e a disporla in modi nuovi.
È necessario perciò restaurare e sostenere, in fisica, l'indirizzo
sperimentale contro quello matematico: l'indirizzo inglese contro quello
francese, il cauto uso che delle matematiche fecero Galileo e la sua scuola
contro l'incauto e arrogante dei cartesiani. Il metodo geometrico, ribadisce il
Vico, quando è nel suo legittimo dominio, opera senza farsi sentire, e, ove
fa strepito, segno è che non opera: appunto come negli assalti l'uomo timido
grida e non ferisce, l'uomo d'animo fermato tace e fa colpi mortali.
L'importanza riconosciuta allo sperimentalismo, che stacca il Vico
dall'indirizzo francese e cartesiano e lo avvicina piuttosto a quello italiano e
inglese, a Galileo e al Bacone, lo rende altresì nemico dell'aristotelismo e
dello scolasticismo. Esortando egli a cercare i particolari e a valersi del
metodo induttivo; affermando che il genere umano era stato arricchito
d’innumerevoli verità dalla fisica, la quale, mercé il fuoco, le macchine e gli
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strumenti, si era fatta operatrice di cose simili a peculiari opere della natura;
raccomandando la propria metafisica come tale che serve bene alla fisica
sperimentale; non può non riconoscere ben meritato il discredito in cui era
caduta la fisica aristotelica, troppo (egli diceva) universale. E se a Cartesio
rimproverava l'introduzione delle forme fisiche nella metafisica, e con ciò la
tendenza verso il materialismo, Aristotele e gli scolastici sono poi da lui
accusati dell'errore opposto, cioè di aver voluto introdurre le forme
metafisiche nella fisica.
Come Bacone, Vico stima che il sillogismo e il sorite non producano
nulla di nuovo e ripetano ciò che è già contenuto nelle premesse; e mette m
chiaro i molteplici danni che gli universali aristotelici cagionano in tante le
parti del sapere: nella giurisprudenza, in cui le vuote generalità soffocano il
senno legislativo; nella medicina, che parti del sapere: nella giurisprudenza,
in cui le vuote generalità soffocano il senno legislativo; nella medicina, che
bada piuttosto a tenere in piedi i sistemi che a sanare gl'infermi; nella vita
pratica, nella quale gli abusatori di universali sono derisi col nome di «uomini
tematici». Dagli universali derivano le omonimie o equivoci, cause d'ogni
sorta di errori.
La prima gnoseologia del Vico non è intellettualistica, non è sensistica
e non è veramente speculativa; ma contiene tutte tre queste tendenze che si
compongono in certo modo tra loro, non col sottomettersi gerarchicamente a
una tra esse, ma col sottomettersi tutte alla riconosciuta incompiutezza della
scienza umana.
Il suo intento sarebbe di fronteggiare, con un sol movimento tattico,
dommatici e scettici, contro i primi negando che si possa sapere tutto e
contro i secondi che non si possa sapere cosa alcuna; ma riesce invece a
un'affermazione di scetticismo o agnosticismo, nella quale non manca
neppure qualche tratto mistico.
Il sapere divino è sapere unitario, quello umano è la frammentazione
dell'unità. Dio sa tutte le cose perché contiene in sé gli elementi dai quali le
compone tutte; l'uomo, studiando, conosce le cose col ridurle in pezzi. La
scienza umana è una sorta di anatomia delle opere di natura giacché divide
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l'uomo in corpo e anima, e l'anima in intelletto e volontà, e dal corpo astrae
la figura e il moto, e da questi l'ente e l'uno; onde la metafisica contempla
l'ente, l'aritmetica l'uno e la sua moltiplicazione, la geometria la figura e le
sue misure, la meccanica il moto dell'àmbito, la fisica il moto del centro, la
medicina il corpo, la logica da ragione, la morale la volontà. Ma accade di
questa anatomia come di quella del corpo umano, circa la quale i più acuti
fisiologi dubitano se per effetto della morte e della stessa dissezione sia più
possibile indagare il vero sito, struttura e uso delle parti. L'ente, l'unità, la
figura, il moto, il corpo, l'intelletto, la volontà sono altro in Dio, nel quale
fanno uno, altro nell'uomo in cui restano divisi.
Le forme fisiche appaiono evidenti fintanto che non si mettono al
paragone delle metafisiche: il «cogito ergo sum» è certissimo, quando
l'uomo considera sé stesso, creatura finita, ma addentrandosi in Dio, che è
l'unico e vero ente, egli conosce veramente non essere.
2. Vico contro la storia dei filosofi e la "scoperta del mondo
umano"
Bacone con la critica degli "idola", Cartesio con le idee chiare e
distinte, Leibniz con la mathesis universalis, Spinoza con l'esaltazione della
ragione cui sottomettere passioni ed emozioni, erano tutti d'accordo nel
perseguire un ideale conoscitivo ispirato alla semplicità della matematica e al
rigore della logica.
Qual era, in questo contesto, il posto riservato al materiale
documentario dei popoli primitivi, che andava in quel periodo
accumulandosi? Non era, forse, un insieme di fantasiosi e distorti resoconti
di eventi e di persone reali? Non è vero che gli storici sono spesso in
contraddizione tra loro? Non è vero che inventano o spesso integrano episodi
con notizie inesatte o inesistenti o comunque non documentate? E che dire
delle esaltazioni o idealizzazioni di personaggi ed episodi, spesso ignobili,
compiute da storici per "amor di patria", in spregio alla onestà intellettuale?
Leibniz, che pur compose un'opera storica piuttosto voluminosa,
fornisce una difesa del tutto convenzionale della storia come di un mezzo per
16
soddisfare le curiosità sull'origine delle famiglie e degli stati e come di una
scuola di moralità. La sua inferiorità nei confronti della matematica e della
filosofia fondata sulle scienze matematiche e naturali e sulle altre scoperte
della pura ragione, deve sembrare ovvia a tutti i pensanti.
La disattenzione per la storia non è dunque un fatto marginale, ma
1'effetto di un'impostazione filosofica. La storia non può essere una scienza.
E' al più una scuola di morale, dove non conta la scientificità del dettato
quanto la forza suasiva dell'insegnamento.
In netto contrasto con questo indirizzo, Vico sostiene che la storia non
è scienza ma può e deve diventarlo, perché «questo mondo civile egli
certamente è stato fatto dagli uomini» e pertanto è, più di qualsiasi altro
ambito del reale, scientificamente disciplinabile.
I fatti della storia sono fatti umani, operati dall'uomo, e quegli che li
conosce e pensa, è quello stesso uomo che li ha prodotti. Conoscere la
storia, è un rifare - ad opera dello spirito - ciò che lo spirito stesso ha fatto;
è un rimettere in azione - in un processo ricreativo - quelle medesime
cause, quelle stesse attività che l'uomo ha in sé, nella sua natura, e che egli
ha dispiegate nella creazione del suo mondo.
Nella storia l'uomo conosce se stesso, non certo in quell'essere che ha
ricevuto da Dio, e che è estraneo alla sua azione (quell'essere che Cartesio
credeva di cogliere attraverso il “Cogito”, l'essere dato), ma conosce se
stesso quale egli s'è fatto, quale s'è venuto facendo con la sua attività.
Soggetto e oggetto qui s'identificano davvero senza residuo: è la
verità, ma non più una verità astratta come quella della matematica, bensì
una verità fatta di realtà concreta, la realtà della “mente umana” nel suo
farsi e nel suo conoscersi, anzi della “mente” che si conosce attraverso il suo
farsi. Ed è un processo che, questa volta, con più ragione che non a
proposito del processo di costruzione del mondo matematico, può dirsi
analogo a quello divino della creazione.
3. Vico contro la storia degli storici
Oltre che contro la storia dei filosofi, Vico è contro la storia degli
17
storici. Egli infatti è convinto, al pari dei filosofi suoi contemporanei, dei
gravi errori, delle contraddizioni e contraffazioni di cui molte ricostruzioni
storiografiche sono viziate. Si tratta di ricerche compiute in base a principi
interpretativi insufficienti o devianti , che egli denuncia come "boria delle
nazioni" e "boria dei dotti". Innanzi tutto la "boria delle nazioni", consistente
nell'inclinazione ad immaginare origini illustri per gli stati.
Per questo egli ritiene poco attendibili le ricostruzioni di Erodoto,
Tucidide, Polibio, Livio, troppo presi "dall'amor di patria".
Riferendosi alle opere di storici contemporanei, come Marsham,
Spencer e van Heurn, Vico rimprovera loro di aver preso alla lettera i
documenti degli storici alessandrini, per i quali la civiltà è cominciata con gli
egizi e con questi si è poi diffusa, come rivoli di un'unica sorgente.
Dove il loro errore? Nella lettura acritica di questi testi e cioè nel non
aver tenuto conto della "boria delle nazioni", di cui gli storici alessandrini
erano affetti. Chi non è cosciente di questa inclinazione, forte soprattutto nei
primi storici sforniti di senso critico, crede di fare storia attendibile solo
perché si attiene con scrupolo ai documenti del passato.
Denunciando la “boria delle nazioni", Vico intende riferirsi allo schema
concettuale ingenere, e al sistema di conoscenze e di credenze che uno
scrittore o un dossografo ha in sé, per il fatto stesso di appartenere a una
società storicamente data.
Lo schema concettuale usato e le cose conosciute o credute, per es.,
da un gruppo di narratori, quali i rapsodi, non sono prodotti individuali dei
rapsodi medesimi, bensì della società in cui essi vivevano e per cui creavano
i loro racconti. Le fonti tradizionali della documentazione storica non
riflettono perciò semplicemente i pregiudizi personali dell'individuo o degli
individui che sono stati strumenti del suo prodursi, sebbene, naturalmente,
anche questo possa capitare; ma, in misura molto più importante,
rispecchiano il sistema di credenze, di valori e di presupposti, sia fattuali sia
normativi,- e lo schema concettuale generale in cui sono collocati nella
società a cui quei creatori appartenevano. Non prender in esame lo schema
concettuale di un popolo che mira ad autoesaltarsi fantasticando origini
18
illustri, significa restar prigionieri di catene che impediscono di interpretare
correttamente un documento.
Se la "boria delle nazioni" riguarda la documentazione di prima mano e
le ricostruzioni acriticamente fondate su di essa, la "boria dei dotti" riguarda
gli storici contemporanei, e consiste nell'interpretare il documento storico o
letterario supponendo che esso sia il prodotto di modi di pensare adatti a
società molto posteriori a quella che li ha effettivamente prodotti e, possibili
sono in esse.
4. La seconda fase della filosofia del Vico
Gli scritti nei quali il Vico espose la sua prima gnoseologia
appartengono al quadriennio 1708-1712. Nel decennio che seguì, il Vico fu
tratto a darsi sempre più alle ricerche sulla storia del diritto e della civiltà.
Nel ripiegarsi con la mente già gli apparteneva, di rientrare in possesso
di propri beni. Egli ricostruiva la storia dell'uomo; e che cosa era la storia
dell'uomo se non un prodotto dell'uomo stesso? Chi fa la storia se non la fa
l'uomo, con le sue idee, i suoi sentimenti, le sue passioni, la sua volontà, la
sua azione? E lo spirito umano, che fa la storia, non è quello stesso che si
adopera a pensarla e a conoscerla? La verità dei principi generatori della
storia nasce, dunque, non dalla forza dell'idea chiara e distinta, ma dalla
connessione indissolubile del soggetto con l'oggetto della conoscenza.
Il che importava che la scoperta che il Vico ora compiva, la verità che
egli ora riconosceva alle scienze morali, era la visione di un nuovo nesso del
principio gnoseologico già da lui formolato nel periodo precedente della sua
speculazione, ossia del criterio della verità riposto nella conversione del vero
col fatto. La ragione da lui addotta, per la quale l'uomo può avere perfetta
scienza del mondo umano, è per l'appunto che il mondo umano l'ha fatto
l'uomo stesso: e «ove avvenga che chi fa le cose esso stesso le narri, ivi non
può essere più certa l'istoria».
Il Vico non sentì dunque il bisogno di scrivere un nuovo libro
metafisico, perché gli sembrò che bastasse aggiungere una postilla al già
scritto e ritoccare alquanto le sue precedenti affermazioni. La sua nuova
19
gnoseologia, tenendo fermo il criterio generale della verità contrapposto al
criterio cartesiano - e cioè, che solo chi fa le cose le conosce, - divideva le
cose tutte nel mondo della natura e nel mondo umano; e osservando che il
mondo della natura è stato fatto da Dio e perciò Dio solo ne ha la scienza,
restringeva l'agnosticismo solamente al mondo fisico, e dichiarava, per
contrario, che del mondo umano, come fatto dall'uomo, l'uomo ha la
scienza.
Elevava così le conoscenze, dapprima meramente indiziarie e probabili,
circa le cose dell'uomo al grado di scienza perfetta; ed esprimeva meraviglia
che i filosofi si studino con tanto impegno di conseguire la scienza del mondo
naturale, chiuso all'uomo, e trascurino il mondo umano o civile o delle
nazioni (come anche lo chiamava), del quale è possibile conseguire scienza.
In questo trovava la cagione nella facilità che la mente umana,
immersa e seppellita nel corpo, prova a sentire le cose del corpo, e nello
sforzo e fatica che le costa d'intendere sé medesima: come l'occhio
corporale vede tutti gli oggetti fuori di sé e, per vedere sé stesso, ha bisogno
dello specchio.
In ogni altra parte, le sue idee restavano immutate. Le discipline
naturali venivano considerate sempre come semiscienze; le matematiche
come una formazione astratta, validissima nell'astratto, priva di forza
innanzi al reale.
Nelle scienze matematiche, il principio della conversione del vero col
fatto è attuata solo in apparenza. Originale e vero, quel principio; originale e
vera la teoria delle matematiche; del tutto artificiale e fallace la connessione
delle due verità. Mancava (se non c'inganniamo) un effettivo rapporto tra il
concetto di Dio che crea il mondo, e, perché lo crea, lo conosce, e quello di
colui che costruisce arbitrariamente un mondo di astrazioni e, nel fare ciò,
non conosce nulla o conosce soltanto (quando non è più geometra o
aritmetico ma filosofo) che egli procede arbitrariamente. Nelle matematiche
(diceva il Vico) «l'uomo, contenendo dentro di sé un immaginato mondo di
linee e di numeri, opera talmente in quello con l'astrazione, come Dio
nell'universo con la realtà ».
20
Nelle scienze morali, invece, il riscontro è tanto logico, che deve dirsi
senz'altro coincidenza. Il sapere umano è, qualitativamente, il medesimo del
divino, e al pari del pensiero divino conosce il mondo umano; sebbene,
quantitativamente più ristretto, non si estenda, come quello, al mondo della
natura. Nel campo umano, non più espedienti di debolezza, non più finzioni,
non più falsificazioni: qui si è nella maggiore concretezza del conoscere.
L'uomo crea il mondo umano, lo crea trasformandosi nelle cose civili; e, col
pensano, ricrea la sua creazione, ripercorre vie già percorse, la rifà
idealmente e perciò conosce con vera e piena scienza. Questo è davvero un
mondo, e l'uomo è per davvero il Dio di questo mondo.
La conversione del vero col fatto nelle scienze morali non poteva non
ripercuotersi nella trattazione del certo, ossia delle cognizioni storiche; il che
forma l'altro tratto importante della seconda gnoseologia vichiana.
Nella prima gnoseologia, quelle cognizioni erano legittimate e protette,
come si è visto, col parificarle a ogni altra sorta di conoscenze, tutte
egualmente deboli o egualmente forti, perché tutte fondate sulla probabilità
e sull'autorità, sia dell'individuo sia del genere umano. Ma, innalzata di sopra
alla autorità e alla probabilità la conoscenza dello spirito umano e delle sue
leggi, le cognizioni storiche, quantunque di loro natura fondate sempre in
qualche modo sull'autorità, venivano rischiarate di nuova luce. Il certo
doveva entrare in un nuovo rapporto, perché aveva ormai di fronte non un
altro certo, ossia una semplice conoscenza probabile circa lo spirito umano,
ma un vero, una conoscenza filosofica.
Questo rapporto è chiamato altresì dal Vico il rapporto di filosofia e
filologia, la prima delle quali versa circa «necessaria naturae» e contempla la
ragione onde viene la scienza del vero, la seconda circa «placita humani
arbitrii» e osserva l'autorità onde viene la coscienza del certo. L'una
considera l'universale, l'altra l'individuale, l'una (avrebbe detto il Leibniz) le
«vérités de raison», l'altra le «vérités de fait».
Distinzione che non è mantenuta dappertutto, presso il Vico, con la
medesima nettezza; tanto che a volte l'autorità contrapposta alla ragione
diventa, secondo lui, parte della ragione stessa, o si confonde con la
21
conoscenza dell'arbitrio umano, contrapposta a quella della volontà
razionale.
La filologia (nel significato vichiano, che è poi il significato esatto)
abbraccia non solamente la storia delle lingue e delle letterature, ma quella
altresì delle idee e dei fatti, della filosofia e della politica.
Certamente, la filologia, le verità di fatto, il certo non sempre erano
stati spregiati e messi in non cale come dai cartesiani. Il Grozio aveva dato
esempio di vastissima erudizione storica, messa a servigio delle sue dottrine
sul diritto naturale. Il Gravina, contemporaneo e connazionale del Vico,
richiedeva come necessarie al giurisperito non solo la «ratiocinandi ars», ma
la «latinae linguae peritia» e la. «notitia temporum». Ma il Vico notava che
filosofia e filologia rimanevano tuttavia, ai suoi tempi, estranee l'una
all'altra, come erano state quasi del tutto presso i greci e i romani.
Leggendo i libri dei filologi, egli provava un tal senso di vuoto e di
fastidio per l'affastellamento inintelligente di contrapposizioni storici, che era
tratto quasi a dare ragione a Cartesio e al Malebranche nel loro odio contro
l'erudizione.
Senonché quei due filosofi, in cambio di sprezzate l'erudizione,
avrebbero dovuto piuttosto indagare se non fosse stato possibile richiamare
la filologia ai principi della filosofia; e i filologi, da parte loro, invece di
arrecare i fatti a pompa di erudizione, debbono industriarsi di elaborarli a fini
di scienza. La filologia è da ridurre a scienza.
La riduzione non è possibile, non perché si tratti di cose eterogenee,
ma anzi perché quelle sono omogenee: la storia è già intrinsecamente
filosofia; non è possibile proferire la più piccola proposizione storica senza
plasmarla col pensiero, cioè, con la filosofia.
Ma poiché questo presupposto filosofico della filologia allora non era
avvertito e facilmente veniva negato, il Vico, mutato il suo punto di vista
filosofico, raggiunta la coscienza del metodo speculativo nella scienza
dell'uomo, doveva togliere la storia dalla sua condizione d'inferiorità, dalla
servitù al capriccio, alla vanità, al moralismo, alla precettistica o ad altri fini
estrinseci, e riconoscerle il fine proprio e intrinseco di necessario
22
complemento del vero universale.
In pari tempo, la filosofia si sarebbe riempita di storia, affiatata con la
storia; e da questo affiatamento avrebbe acquistato maggiore larghezza e
un senso più vivo della realtà concreta da spiegare.
Nel pronunziare quella formola, il Vico voleva qualcosa di più e, di
solito, intendeva qualcosa d'altro. Questo qualcos'altro può, nel modo più
diretto, essere chiarito dall'appello che egli fa al Bacone e al suo «metodo di
filosofare più accertato»: metodo espresso nel titolo del libro baconeano:
Cogitata et visa, e che il Vico si proponeva di «trasportare dalle naturali alle
umane cose civili».
Esigeva, insomma, la costruzione di una storia tipica delle società
umane (cogitare), da riscontrare poi nei fatti (videre), accertando coi fatti la
costruzione ideale e avverando con la costruzione ideale i fatti, confermando
la ragione con l'autorità e l'autorità con la ragione; di una scienza che fosse
insieme filosofia dell'umanità e storia universale delle nazioni. Ora questa
costruzione che egli esigeva, questo qual cosa di mezzo tra il cogitare e il
videre, tra il pensiero e l'esperienza, questo misto dei due processi, è
intrinsecamente diverso dalla unità di filosofia e filologia in quanto
interpretazione filosofica dei dati di fatto.
Questa interpretazione è la storia vivente; non è né filosofia né storia,
ma una scienza empirica dell'uomo e delle società, formata da schemi che
non sono le extratemporali categorie filosofiche e neppure gl'individuali fatti
storici: una scienza empirica, e perciò né esatta né vera, ma solamente
approssimativa e probabile, e soggetta a verificazione e rettificazione da
parte così della filosofia come della storia.
5. Le tre "guise" della mente umana e le tre della storia
La «dignità» su cui si regge tutto l'edificio della Scienza Nuova è che,
essendo «questo mondo civile» certamente stato fatto dagli uomini, «se ne
possono, perché se ne debbono, ritrovare i principii dentro le modificazioni
della nostra medesima mente umana». D'onde deriva una coincidenza
perfetta tra i momenti ideali della vita dello spirito, le forme o categorie
23
costitutive della struttura della mente, le leggi del suo funzionamento; quelle
che Vico chiama «guise» - cioè modi di operare - della nostra mente, da un
lato, e, dall'altro, le fasi di sviluppo, le «età» della storia del mondo civile o
umano.
Ora, le guise della mente umana sono tre: senso, fantasia, ragione
logica («mente pura»). Esse sono modi universali di atteggiarsi della mente
di fronte alla realtà per averne conoscenza, e si convertono in modi di agire
e forme di condotta corrispondenti, cioè:
• la passione e violenza bestiale (la «ferinità»),
• la soggezione a una legge di forza e di arbitrio,
• la libera osservanza dei dettami della ragione.
Gli uomini, prima sentono senza avvertire; dappoi avvertono con
animo perturbato e commosso; finalmente riflettono con mente pura. E
l'ordine delle cose umane fu il seguente: prima furono le selve, poi i tuguri,
quindi i villaggi, appresso le città, finalmente le accademie (organi di
riflessione filosofica).
Nel primo grado l'anima è tutta senso, la coscienza del soggetto è
sommersa e legata nella situazione dell'istante. L'umanità primitiva è
“ferinità”: più che uomini si tratta di “bestioni tutto stupore e ferocia”, tutto
impeto di disordinata passione (libidine) e di torbida violenza: è lo «stato di
natura» hobbesiano. Stato primitivo, questo, non tanto nel senso di
“cronologicamente anteriore”, destinato ad essere sostituito da uno stato
successivo; ma primitivo, nel senso di «originario» e indistruttibile, stato che
le fasi ulteriori superano ma non annullano, perché è il fondo permanente
della vita umana. Se nessuna forma di pensiero e nessuna società sono
possibili nel disordinato tumulto del senso e delle passioni, nessun pensiero
è possibile senza il senso, nessuna società è possibile dove ogni passione sia
spenta.
Nel secondo grado l'opacità della vita bestiale s'illumina, quando il
soggetto “avverte” la commozione che lo perturba, e afferma se stesso
quale si sente in quel perturbamento, e s'«esprime»: e perciò stesso investe
la “particolarità” sua d'una forma che la universalizza senza sopprimerla
24
come particolarità, si libera dalla limitazione e dalla pressione dei suoi affetti
e delle sue impressioni con la fantasia. Cade in questo punto la genesi del
linguaggio e a un tempo della poesia: formazione spirituale, che è
indipendente dal raziocinio; pensare alogico, fantastico, creatore cioè non di
concetti astratti o di verità intellettive, ma di fantasmi concreti, espressioni
spontanee di esperienze immediatamente vissute. E accanto all'«esprimersi
della passione e in connessione con esso, anche la realtà circostante è
tradotta in un mondo fantastico, ed ecco un'altra produzione caratteristica di
questa fase della vita dello spirito, omogenea al linguaggio e alla poesia: il
mito.
Analogamente, nell'ordine pratico-sociale, il passaggio dallo «stato
fermo» agli “ordini civili” è segnato e determinato dalla legislazione; ma
questa è efficace solo in quanto “considera l'uomo qual è, per farne buoni usi
nell'umana società”, e non ne distrugge le passioni, ma le purifica ed eleva;
facendone dei vizi fattori di civile felicità. E, per esempio, dalla ferocia trae le
virtù e gli ordini militari, dall'avarizia l'attività e potenza economica,
dall'ambizione l'abilità politica. E il diritto, la legge si afferma originariamente
come superiorità di fatto di una volontà estranea, come autorità che
s'impone con la forza: come «oscurezza della ragione» unicamente
sostenuta dall'autorità. Ma “oscurezza della ragione” non significa “assenza”
di ragione, e meno che mai avversione alla ragione. La forza con cui le
passioni ferme degli uomini primitivi vengono domate e le utilità agguagliate
e dirette, non è mai la “mera” forza, la forza brutale: attraverso la
superiorità fisica si afferma anche una superiorità morale.
L'“oscurezza” della ragione frenatrice degli impulsi bestiali e creatori
dei primi ordini civili si manifesta come i timore di Dio e, come pietà
religiosa. Le forze naturali che minacciano gli uomini sono da essi sentite
come divinità terribili e punitrici.
E dalla pietà religiosa, dal timore della divinità, nacque la morale. E
virtù morale è quella che Vico chiama «conato», sforzo di repressione degli
impulsi passionali. E per tal via sorsero i matrimoni, per cui l'istinto della
procreazione è spiritualizzato dal «pudore» nel «timore di qualche divinità»
25
(d'onde l'origine della famiglia, primo nucleo di organizzazione sociale e
politica); e per tal via la morte fisica fu vinta col culto delle tombe. E sorsero
le prime città e le prime leggi: fondate, sì, sulla forza, ma sulla forza
consacrata e spiritualizzata dalla religione. Come da parte dei soggetti non è
soltanto il timore della pena o comunque la considerazione dell'utile ciò che li
tiene sottomessi al potere costituito, così chi detta legge non esercita la
forza per la forza o a servizio del proprio vantaggio personale. Da parte dei
soggetti v'è una spontanea disposizione a riconoscere come giusto che il più
forte comandi, e da parte di chi con la forza ha conquistato il comando v'è la
tendenza a servirsene per proteggere i deboli e vincere le forze disgregative
della convivenza sociale.
Infine si giunge al terzo grado dello sviluppo della mente umana:
quello della riflessione ragionata, dell'indagine filosofica (la «mente pura»).
E nell'ordine sociale, attraverso la subordinazione agli uomini più forti o più
accorti, si viene gradualmente formando la coscienza della subordinazione
necessaria a una Legge suprema che comprende i deboli e i forti. In questo
grado, la natura umana, «fatta intelligente, benigna e ragionevole, riconosce
per leggi la coscienza, il dovere, la ragione».
6. Vico ripartisce la storia umana in età degli dei, età degli
eroi e età degli uomini
La prima comincia con uomini stupidi, insensati e errabondi bestioni, la
cui natura è contrassegnata dal prevalere dei sensi, priva di qualsiasi potere
riflessivo. I primitivi “sentono senza avvertire”, scrive Vico. E' l'età del senso
o di quella fase di crescita in cui si è “colpiti da oggetti non in quanto tali, ma
solo in quanto producono in noi una modificazione gradita o dolorosa o
eccitante, o deprimente: è il momento della soggettività ancor fresca ed
immediata, rispetto alla quale il mondo è ed interessa solo in quanto in me
si ripercuote”.
Oltre che età del senso, questa è detta anche età degli dei, per la
ragione che, incapaci di riflettere, gli uomini identificavano i fenomeni della
natura con altrettante divinità. E l'età dell'infanzia, allorché «la natura della
26
mente umana - afferma il Vico - porta ch'ella attribuisca all'effetto la sua
natura, e la natura loro era in tale stato, d'uomini tutti robuste forze di corpo
che, urlando, brontolando, spiegavano le loro violentissime passioni; si
finsero il cielo esser un gran corpo animato, che per tal aspetto chiamarono
Giove [...] che col fischio dei fulmini e col fragore de' tuoni lor sembrava dir
qualcosa ». A motivo di questa visione della natura popolata di divinità
terribili e punitrici, «i primi costumi furono tutti aspersi di religione e di
pietà». Nasce così la "teologia poetica". «I primi uomini, che parlavano per
cenni, dalla loro natura credettero i fulmini, i tuoni cenni di Giove [...], che
Giove comandasse co' cenni, e tali cenni fossero parole reali, e che la natura
fosse la lingua di Giove; la scienza della quale lingua credettero
universalmente le genti esser la divinazione, la qual dai greci ne fu detta
"teologia", che vuol dire "scienza del parlar degli dei"».
Nel quadro della teologia poetica, «i primi governi furono divini, che i
greci direbbero "teocratici", ne' quali gli uomini credettero ogni cosa
comandare gli dei; che fu l'età degli oracoli, che sono la più antica delle cose
che si leggono sulla storia». Governi teocratici o repubbliche monastiche,
fondate sull'autorità paterna come vicaria di quella divina, crearono una
legislazione o diritto anch'esso divino, nel senso che le leggi venivano
imposte come espressione della volontà degli dei. Infatti, «i padri di famiglia
si richiamavano agli dei de' torti che erano stati loro fatti [...] e chiamavano
testimoni della loro ragione essi dei».
Ciò che qui conviene rilevare è che siamo dinnanzi a una immagine
unitaria di teologia poetica, di regime teocratico e di diritto divino. Si tratta
di un'unità sociologico-metafisica, nel senso che una dimensione rimanda
all'altra e tutte esprimono lo stesso stadio di sviluppo. La natura del
primitivo si riflette nelle credenze religiose e queste nell'organizzazione
sociale e questa a sua volta nella natura stessa degli uomini primitivi, non
più del tutto queste nell'organizzazione sociale e questa a sua volta nella
natura stessa degli uomini primitivi, non più del tutto sfrenata ma in via di
controllo e di contenimento.
All'età degli dei fa seguito l'età degli eroi, caratterizzata dal predominio
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della fantasia sulla riflessione razionale. Le prime associazioni, formatesi per
auto-proteggersi dagli aggressori vaganti, vengono presto soggiogate
dall'auctoritas dei patres o capi tribù. Queste tribù si ampliano per
l'accorrere di quanti, privi di difesa, chiedono asilo e difesa. Sono i primi
schiavi che, dilatando i primi piccoli gruppi, danno luogo alle primitive forme
di vita stabile. Per tenere a freno la vita interna e prepararsi agli scontri con
eventuali tribù rivali, viene elaborato il diritto eroico, fondato cioè sulla
forza, « prevenuta già della religione che sola può tenere in dovere la forza
». Si tratta di un impianto sociale fondato sull'autorità, non discussa né
discutibile, perché espressione della volontà degli dei.
L'età degli eroi è l'età delle grandi inimicizie tra i popoli primitivi, i
quali, raggiungendo una certa coesione interna, rovesciavano all'esterno
tutto il loro potenziale distruttivo. È il mondo eroico, poetico e religioso
insieme, cantato da Omero, compendio di una potenza anonima e collettiva,
pervasa di un ideale maschio e guerriero.
All'età degli dei e degli eroi fa seguito l’età degli uomini o della
"ragione tutta spiegata". E un passaggio lungo e laborioso, caratterizzato da
lotte interne alle singole città e popoli, provocate da quanti, schiavi e servi,
cominciano a ribellarsi e a pretendere concessioni circa l'istituto del
matrimonio e i riti della sepoltura. Le registrazioni conseguenti, come il
riconoscimento di questi diritti, portano a forme di legislazione scritta e
quindi alla prosa. «Col volger degli anni, vieppiù le umane menti
spiegandosi, le plebi de' popoli si ricredettero finalmente della vanità di tal
eroismo, ed intesero esser essi d'ugual natura umana co' nobili; onde vollero
anch'essi entrare negli ordini civili delle città». Da qui le epiche lotte tra
agatho'i e kako'i in Grecia e tra patrizi e plebei a Roma, dalle quali e insieme
alle quali si svilupparono la disputa, la retorica, la filosofia. Dalla metafisica
fantasticata si passa alla metafisica ragionata; dalla vaga percezione degli
ideali di giustizia e verità alla loro esplicita tematizzazione. Il compendio di
questo laborioso periodo è rappresentato dalla polis greca e dalla filosofia di
Platone, che riassume questa stupenda stagione della ragione umana.
E' questa l'età in cui gli uomini pervengono finalmente alla coscienza
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critica di quella saggezza intravista e vagamente percepita nella età
precedenti. Gli ideali, cui gli uomini primitivi avevano ispirato la loro
condotta ma senza una critica avvertenza, divengono ora oggetto di esplicita
tematizzazione. In questa età la storia si fonda su una «natura umana
intelligente, e quindi modesta, benigna e ragionevole, la quale riconosce per
leggi la coscienza, la ragione e il dovere». Il diritto è anch'esso «umano,
dettato dalla ragione umana tutta spiegata»; e i coscienza, la ragione e il
dovere. Il diritto è anch'esso «umano, dettato dalla ragione umana tutta
spiegata»; e i governi sono umani, nei quali, per l'ugualità di essa
intelligente natura, la qual è la propria natura dell'uomo, tutti si uguagliano
con le leggi.
In breve, si tratta di un mutamento generale, non nel senso che si
smarriscono le dimensioni tipiche delle età precedenti, ma nel senso che il
loro contenuto veritativo si ritrova più disciplinato e razionalmente assunto.
Si tratta di arricchimento e d’integrazione e non di rifiuto. E' la metafisica
naturale dei primitivi che diventa ora metafisica ragionata, con ovvie
ripercussioni sulle istituzioni sociali, religiose e civili.
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II – GEORG WILHELM FRIEDRICH HEGEL (1770-1831)
Per la maggior parte degli storici del pensiero filosofico la Filosofia
della Storia elaborata da Hegel deve essere considerata come quella che
presenta una profondità di pensiero ed uno spessore concettuale nettamente
superiori a tutte le altre. Per tali storici come, ad esempio, Giovanni
Pellegrino, in altri filosofi della storia si rileva la tendenza a privilegiare in
maniera forse eccessiva il piano metastorico rispetto a quello storico,
cosicché le caratteristiche oggettive di un dato evento storico diventano
piuttosto sfumate. In Hegel, invece, ciò che è reale è razionale e ciò che è
razionale è reale. Ossia: è inconcepibile che nella realtà, ivi compresa quella
degli eventi storici, vi sia qualcosa refrattaria al pensiero. In altri termini
Hegel afferma che tutto ciò che è accaduto nella storia era giusto che
accadesse: e, di conseguenza, tutto ciò che si è verificato doveva verificarsi.
Di conseguenza i progetti e i tentativi che non si sono realizzati non
dovevano realizzarsi, in quanto non erano conformi alla razionalità storica.
Il pensiero hegeliano sulla Filosofia della Storia è contenuto nelle
Lezioni sulla filosofia della storia, tenute da lui
nel 1821, 1824, 1827 e 1831 nella Humboldt-Universität zu Berlin e,
raccolte e pubblicate nel 1840 in questa opera postuma da Eduard Gans e
dal figlio Karl Hegel.
1. La Storia come Storia della Ragione
“La ragione governa il mondo e quindi anche la storia universale
procede razionalmente.2”
Hegel vuole dimostrare che la storia segue i dettami della ragione e
che quindi sia possibile una Filosofia della Storia che riveli come
il progresso storico mondiale sia dovuto al procedere dialettico e quindi allo
svolgimento nella storia dello Spirito assoluto. Non sono le cose che
procedono dall'Assoluto, ma l'Assoluto è questo stesso procedere. L'Assoluto
2 G. W. F. HEGEL, Lezioni sulla filosofia dela storia, La Nuova Italia, Firenze, 1941, p. 28.
30
non è una realtà trascendente che guida la storia ma esso stesso si realizza
nella storia. Da ciò se ne deduce che per Hegel la realtà infinita è opera di
un soggetto che tiene i fili della storia e che parla attraverso i suoi uomini,
quegli uomini che la storia l'hanno sempre fatta in prima persona, che come
strumenti nelle mani di questo ineluttabile essere supremo, ne operano il
naturale svolgimento. Cosicché le vicende del mondo non sono estranee
alla storia dello Spirito perché la storia del mondo è la storia stessa di Dio, è
la storia dell'avvento dello Spirito, del realizzarsi della Ragione.
Fine della storia del mondo è dunque che lo spirito giunga al sapere di ciò che esso è
veramente, e oggettivi questo sapere, lo realizzi facendone un mondo esistente,
manifesti oggettivamente se stesso. L'essenziale è il fatto che questo fine è un
prodotto. Lo spirito non è un essere di natura, come l'animale; il quale è come è,
immediatamente. [...] In questo processo sono dunque essenzialmente contenuti dei
gradi, e la storia del mondo è la rappresentazione del processo divino, del corso
graduale in cui lo spirito conosce se stesso e la sua verità e la realizza.3
2. La necessità del negativo
Lo spirito oggettivo creando la storia la indirizza sempre verso un fine
positivo anche quando sembra prevalere il negativo che invece è sempre
transitorio e necessario gradino su cui si esercita il progresso storico:
Noi vediamo un enorme quadro di eventi e di azioni, di infintamente varie formazioni
di popoli, stati, individui, in un succedersi instancabile... dappertutto vengono
proposti e perseguiti fini... Diffuso su tutti questi eventi e casi noi vediamo un umano
agire e soffrire, una realtà nostra dovunque e perciò dovunque una inclinazione o
un'avversione del nostro interesse... Talora vediamo il più vasto corpo di un
interesse generale procedere con maggiore difficoltà, e disgregarsi lasciato in preda
ad infinito complesso di piccoli rapporti; talora vediamo nascere il piccolo da un
enorme dispiegamento di forze, e l'enorme da ciò che appariva insignificante... e se
una vien meno, ecco che un'altra ne prende il posto.4
In questo procedere apparentemente contraddittorio si segnala come
prevalente l'elemento del "mutamento" che indica come dal negativo, dalla 3 Ivi, p. 61. 4 Ivi, pp. 10ss.
31
morte rinasca la vita, il positivo.
Osservando la vicenda d’individui, popoli e stati, che per un certo tempo
esistono... e quindi scompaiono, è la categoria del mutamento... A questa
categoria del mutamento è però senz'altro connesso anche l'altro motivo, che
dalla morte sorge nuova vita.5
3. La Storia come Storia della Libertà
Secondo Hegel, non tutte le razze che compongono il genere umano
hanno la stessa importanza nella storia dell’umanità. Lo sviluppo e
l’evoluzione storica dell’umanità non sono un fenomeno universale: il punto
di partenza unitario e determinante della storia è costituito dalla razza
bianca dell’occidente cristiano. Per Hegel tale superiorità della razza bianca è
dovuta al fatto che presso tale razza è nato e si è affermato il cristianesimo.
A questo punto diventa opportuno mettere in evidenza l’importanza
che nella filosofia della storia di Hegel rivestono lo Stato, considerato la
massima espressione dello Spirito Oggettivo, e le guerre: secondo il filosofo
tedesco lo Spirito si estrinseca in tre gradi, ovvero come Spirito Soggettivo,
Spirito Oggettivo e Spirito Assoluto.
Nel primo grado, quello dello Spirito Soggettivo, esso non oltrepassa i
limiti della coscienza individuale e della sensazione di attuare il regno della
ragione con l’intelletto e con la volontà. Ma questo compito che si prefigge lo
Spirito Soggettivo è infinito, mentre lo Spirito Soggettivo è per sua stessa
natura finito, ragion per cui non è in grado di raggiungere lo scopo che si
prefigge. Di conseguenza, lo Spirito Soggettivo si trova in una situazione
fortemente frustrante dalla quale non può uscire se non mediante il
passaggio allo Spirito Oggettivo.
Tale passaggio consiste nella consapevolezza da parte della coscienza
individuale della sua partecipazione a un “mondo etico”, nel quale lo Spirito
Oggettivo si è come obbiettivato in forme ed istituzioni superindividuali, che
hanno la capacità e il compito di potenziare le energie dell’individuo.
Secondo Hegel tali istituzioni superindividuali potenziatrici dell’energia
5 Ibidem.
32
dell’individuo sono il diritto (esso regola e coordina come dal di fuori le
libertà individuali), la moralità (coscienza della obbligatorietà ed universalità
della legge interiore) e infine l’obbiettivarsi e il concretizzarsi dello Spirito
Oggettivo in quegli organi etici che sono la famiglia, la società civile e,
supremo tra tutti, lo Stato, in cui l’individuo trova la forza plasmatrice e
direttrice di tutte le sue attività spirituali.
Nella Filosofia della Storia di Hegel lo Stato (o la Nazione per utilizzare
un’altra parola) rappresenta il Bene superiore nonché l’ideale più importante
per tutti gli individui che fanno parte della Nazione: secondo Hegel
solamente nella realizzazione di tale ideale si realizza la libertà vera di tutti
gli individui che fanno parte dello Stato. Hegel sostiene che solamente nello
Stato si attua lo “Spirito del Popolo” (Volksgeist), che è la caratteristica più
importante che differenzia i popoli delle varie nazioni.
In questa perspettiva trova senso anche la “necessità del negativo”
come la guerra. Secondo il filosofo tedesco solamente attraverso i contrasti
tra gli Stati, ovvero solamente attraverso la guerra, si attua nel corso degli
eventi storici lo “Spirito del Mondo”, il quale si serve degli interessi
particolari dei singoli popoli come strumento per raggiungere i suoi fini
universali. Secondo Hegel lo studio della storia del genere umano sin dalle
ere più antiche ci dimostra che tutte le guerre nascono dal fatto che ogni
popolo si ritiene in diritto di difendere i propri interessi egoistici senza dare
importanza agli interessi degli altri popoli con i quali entra in guerra. A detta
di Hegel lo “Spirito del Mondo” può raggiungere i suoi fini universali perché i
popoli che scendono in guerra non si rendono conto del fatto che tali guerre
non servono soltanto per raggiungere i loro scopi particolari, ma anche e
soprattutto per permettere allo “Spirito del Mondo” di raggiungere i suoi fini
universali.
Secondo Hegel, i momenti in cui si realizza la storia universale sono
tre:
• storia orientale: in cui a essere libero è uno solo, il re, mentre gli
altri dipendono dal suo arbitrio e dal suo dispotismo;
• storia greco-romana: in cui sono alcuni ad essere liberi mentre
33
altri sono schiavi; tuttavia nel mondo greco la libertà è una
“libertà bella” dove il cittadino vive in armonia con lo Stato
mentre nel mondo romano la presenza della legge garantisce il
diritto alla libertà solo ai potenti;
• storia cristiano-germanica: in cui, attraverso la Riforma
protestante (che ha, secondo Hegel, liberato l'uomo dalle
strutture ecclesiastiche restituendogli la libertà di coscienza) e
la rivoluzione francese (che ha affermato l'eguaglianza politica
dei cittadini), tutti gli uomini diventano liberi.
Hegel vede nella monarchia costituzionale l'organica sintesi
di democrazia, aristocrazia e monarchia e quindi la migliore realizzazione
dello Stato. Lui vede nello Stato prussiano, e nella sua abolizione dei
privilegi nobiliari, la migliore realizzazione dello Stato. Infatti solo
l'uguaglianza fra tutti i cittadini fa sì che il singolo individuo possa sentirsi
parte del tutto ma sempre sotto la suprema autorità della legge e dello
Stato.
Ma pur in questo grado di sviluppo secondo Hegel lo Spirito non può
raggiungere l’eternità e l’infinitezza della sua natura. Per giungere a tale
infinitezza lo Spirito deve passare al grado di “Spirito Assoluto” che si
esprime in tre forme, ovvero come arte, come religione e come filosofia.
Nell’arte lo “Spirito Assoluto” pone e contempla la sua essenza
assoluta in un singolo oggetto sensibile.
Nella religione si attua l’unità dell’infinito e del finito, l’unione intima
dell’anima col divino come fondamento della realtà e della vita universale.
Ma tale unione dell’anima con il divino si compie nelle forme del
sentimento e dell’immagine. Solamente quando si passa dalla religione alla
filosofia secondo Hegel al sentimento e all’immagine si sostituisce il
pensiero, per cui lo “Spirito Assoluto” diventa finalmente in grado di pensare
se stesso e riesce a liberarsi da ogni limitazione e a conquistare la libertà
assoluta che non poteva raggiungere con la religione ma solamente con la
filosofia, che per Hegel altro non è che l’autocoscienza dello Spirito.
34
Qui bisogna anche notare che, per Hegel, tutte le precedenti filosofie,
dagli albori della filosofia greca in poi, sarebbero state delle fasi successive
di sviluppo in cui la coscienza dell’uomo avrebbe realizzato dei momenti
dello spirito, tendenti per loro logica coerente intrinseca ad una “definitività”
dell’assoluto, realizzatosi poi compiutamente con la filosofia hegeliana.
Un altro elemento che riveste grande importanza nella filosofia della
storia hegeliana è la convinzione del filosofo tedesco che sia possibile
comprendere il significato vero ed il fine ultimo degli eventi storici solamente
in retrospettiva. Hegel è convinto che il filosofo della storia abbia una
conoscenza ed una comprensione degli eventi storici maggiore sia dei loro
protagonisti sia degli storici che si sono interessati a tali eventi, in quanto i
primi non potevano avere una visione retrospettiva di tali eventi, mentre i
secondi si fermano alla descrizione degli eventi storici e tutt’al più alla
ricerca delle cause e delle conseguenze apparenti degli stessi, senza
ricercarne e comprenderne il significato profondo ed il fine ultimo nella storia
del genere umano.
4. Il Fine e la fine della Storia
Nella filosofia di Hegel, con il definitivo compimento dell’autocoscienza
dell’assoluto, si realizzerebbe anche la fine della storia. In realtà, per Hegel
la problematica del futuro della storia non è un tema che riguardai la
Filosofia della Storia. Il fatto che possono esserci successivi sviluppi e possa,
quindi, pensarsi che l’assoluto abbia future progressioni nella storia, è per
Hegel un problema estraneo ala filosofia, in quanto quest’ultima ha come
oggetto della sua attività speculativa il presente, considerato alla luce della
storia passata. Pertanto il futuro è estraneo al suo campo d’indagine.
La filosofia non può, per Hegel, determinare realtà future o
programmare nuove forme di uno stato, ma solo conoscere la realtà in cui è
chiamata ad operare. Così scrive Hegel nei Lineamenti di filosofia del diritto:
Così dunque, questo trattato, in quanto contiene la scienza dello Stato, dev’essere null’altro, se non il tentativo di intendere e presentare lo Stato come cosa razionale in sé. In quanto scritto filosofico, esso deve restar molto lontano dal dover costituire uno Stato come dev’essere; l’ammaestramento che può trovarsi in esso non può
35
giungere a insegnare allo Stato come dev’essere, ma, piuttosto, in qual modo esso deve essere riconosciuto come universo etico.
La filosofia nella storia prende coscienza del processo mediante il quale
l’Idea perviene alla sua realizzazione nella storia ed in essa ritrova il suo
principio. La verità, in Hegel, non si identifica nella corrispondenza tra
soggetto ed oggetto, ma scaturisce dal superamento dell’alterità
dell’oggetto, come corrispondenza tra soggetto ( il concetto) e la sua
oggettività (la storia).
Nell’autocoscienza, se l’assoluto giunge alla sua realizzazione, acnhe la
realtà storica perviene al suo compimento. Se, quindi, l’assoluto ha
realizzato il suo fine, anche la storia perviene alla sua fine: il fine della storia
coincide don la sua fine.La storia, del resto, non può essere infinita,
altrimenti, in tal caso, sarebbe priva di finalità da realizzare.
Sorge allora il problema: se la finalità della storia può essere
conosciuta solo nel suo definitivo compimento, perché solo alla luce dello
stadio finale dell’autocoscienza la logica interna al divenire storico può
essere compresa, l’uomo nella storia opererebbe in vista di una destinazione
“non ancora compiuta”. Il senso dell’agire dell’uomo nella storia sarebbe
occultato da finalità che trascendono l’uomo e che annullano la sua
individualità. Esso sarebbe destinato al ruolo di inconsapevole agente della
storia, destinato cioè a realizzare finalità storiche per esso non intelligibili.
Se l’agire umano dovesse svolgersi secondo un senso a lui non
conoscibile, se non nel definitivo compimento della storia, potrebbero
verificarsi situazioni come le seguente:
• In un caso l’operare dell’uomo nella storia sarebbe svincolato da
qualunque presupposto etnico, poiché ogni giudizio di carattere
etico sarebbe sospeso, in quanto solo alla fine del processo
storico sarebbe svelata la finalità e quindi anche il valore etico
dell’agire umano.
• In altro caso l’agire umano nella storia sarebbe caratterizzato da
un giustificazionismo assoluto, perché qualunque azione umana,
anche la più efferata, potrebbe essere concepita come un
momento di una necessità immanente scaturito dalla “astuzia
36
della ragione”, vale a dire, da finalità trascendenti rispetto ad
una storia, che si serve degli individui come strumenti di un
divenire il cui senso non è conoscibile che alla fine della storia.
Alla luce di tali problematiche, si potrebbe concludere che la filosofia
hegeliana è un sistema che nel proprio compimento contiene in sé
contraddizioni insanabili. Ma il fatto è che, secondo Hegel, la razionalità
immanente non possa occuparsi del futuro, perché la sua funzione è
acquisire coscienza di sé nel presente e nel passato storico, è esplicativo di
una logica che presiede alla scienza filosofica che, come scienza dell’essere,
non può avere per oggetto una storia futura perché quest’ultima, non
essendo ancora avvenuta, non è.
Inoltre, in tali considerazioni, comprendiamo come la filosofia della
storia di Hegel sia aliena da ogni forma di pretesto determinismo storico e,
dato che gli sviluppi della storia sono imprevedibili, per definizione non
possono essere oggetto di una riflessione filosofica preventiva o futuribile. La
struttura concettuale del sistema filosofico hegeliano è eminentemente
dialettica. Lo sviluppo dialettico è immanente alla storia e produce crisi della
società di ogni tempo, in vista di nuove sintesi che ne determinano il
superamento. È nello stesso sviluppo dialettico che si svolge nella storia che
si individua la dialettica tra presente e la sua alterità che è il futuro, quale
non essere del presente. Il futuro se fa presente nel momento in cui la realtà
attuale manifesta la sua crisi, da cui emergono contraddizioni dialettiche
interne allo sviluppo dello spirito, cui fanno riscontro ordinamenti, culture,
assetti sociali che non corrispondono più alle esigenze e alle aspirazioni del
presente storico.
È, dunque, nel presente storico che si attua il processo dialettico di
confronto tra l’attualità del presente e il suo divenire storico (sviluppo
dell’autocoscienza, della libertà), al fine di generare nuove sintesi che
rappresentano il superamento dello stato di cose presenti.
5. Lo Storicismo della Filosofia della Storia di Hegel
Riguardo a questo presunto compimento della storia e alla coscienza
37
della crisi manifestatasi successivamente alla filosofia hegeliana, sembra
assai rilevante citare la problematica esposta da Karl Jaspers in Origine e
senso della storia.
Jaspers, nell’orizzonte del declino della civiltà europea, elabora una
storicizzazione della filosofia hegeliana. Nella logica del pensiero di Jaspers,
il senso della storia si identificherebbe con la rappresentazione temporale di
un succedersi di momenti in cui nascono filosofie tra loro diverse per finalità
e strutture concettuali, tra loro però interconnesse per la loro intrinseca
successione nella loro temporalità storica. Non è possibile concepire la storia
quale entità metafisica esterna ai contenuti filosofici nelle sue varie fasi di
sviluppo nel tempo perché, in tal caso, i fenomeni storici potrebbero essere
interpretati solo alla luce della loro contingenza storica.
La storia ha invece una sua “storicità”, in quanto definita dalla filosofia
ed il divenire storico acquisisce un proprio senso in funzione delle
elaborazioni concettuali/filosofiche che presiedono alla origine dei fenomeni
storici. È, infatti, compito della scienza filosofica definire il concetto stesso di
storia e fornire alla storia stessa finalità che determinano il suo procedere
nel tempo, in una delle possibili direzioni o “destinazioni”, tra le tante
possibili, ma non tutte realizzabili.
La coscienza della crisi, di cui parla Jaspers, nata dalla dissoluzione
progressiva dell’ontologia dell’essere storico contingente, mediata con
l’universalità del concetto, come autocoscienza, ha senz’altro rappresentato
il declino di una cultura filosofica dominata dalla ricerca dell’essere e delle
categorie universali del pensiero. La coscienza della crisi è rappresentativa
di un pensiero che vive e si alimenta di una critica dissolutiva dei grandi
sistemi filosofici del passato, riducendo, per grandi linee, la realtà dell’uomo
nei limiti dell’esistenza e della contingenza temporale.
Ma la coscienza della crisi è solo un aspetto del declino della filosofia
hegeliana. Il fenomeno che ha maggiormente oscurato Hegel `costituito
dallo storicismo, dalla riproposizione in chiave ideologica della filosofia
hegeliana.
Lo storicismo si propone di rivelare il significato e il destino dell’uomo
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nel corso della storia stessa, il cui sviluppo crea di per sé i valori e determina
la coscienza degli uomini. È la storia, nell’ottica dello storicismo, ad attribuire
senso alla vita dell’uomo. Lo storicismo postula l’adesione passiva dell’uomo
alla realità storica in cui vive. E, in tale contesto, l’uomo è strumento di
finalismi storici immanenti, che seguono il loro corso indipendente dalla sua
volontà. Tale concezione finalistica, che prende le mosse dalla
ideologizzazione della filosofia della storia hegeliana, si risolve in una teoria
totalizzante che non solo trasforma l’idealismo, da filosofia della libertà, in
giustificazionismo di qualunque ordinamento totalitario, ma sussiste perché
in grado di generare una sorta di “metafisica del conformismo”. Infatti,
qualora il corso dei fatti smentisca le premesse e le finalità della ideologia
storicista del turno, saranno le nuove verità emerse dalla storia, magari
opposte a quelle precedenti, a giustificare le nuove finalità cui l’uomo deve
supinamente conformarsi.
Fu, quindi, lo storicismo a far degenerare la filosofia di Hegel come
“filosofia del fatto compiuto” o della “provvidenzialità della storia”.
L’ideologia storicista corrisponde, semmai, al concetto hegeliano di
“mondo”. Il “mondo” hegeliano nasce da determinati presupposti storici, che
tuttavia vengono estraniati dalla storia e posti a fondamento di una realtà
assoluta totalizzante, che si riproduce in sé stessa, astraendosi dalla storia.
L’attuale capitalismo globale è, in tal senso, un “mondo”. La sua
autoreferenza riflessiva, infatti, è testimoniata proprio dalla teoria della fine
della storia, dall’identificare tout court la sua genesi storica con la storia in
generale. Storicismo e fine della storia sono casi intimamente legati, perché
il provvisorio vincente è portato irresistibilmente ad eternizzare idealmente
la propria provvisoria vittoria come “definitiva”.
In questo senso, è paradossale (ma anche facilmente spiegabile) che
le due principali forme contemporanee di teoria della fine della storia siano la
teoria staliniana del comunismo come fine della storia (o più esattamente il
comunismo partitico e dispotico nella forma staliniana) e, oggi, la teoria
capitalistica della fine della storia, presente sia in forma direttamente
apologetica (il neoliberalismo imperiale di Fukuyama), sia in forma liberale
39
moderata (il pensiero di Bobbi, Rawls e Habermas), sia infine nella forma
dell’avvento di un dispositivo tecnico anonimo ed impersonale (Gestell),
equivalente metaforico sofisticato di un modo di produzione capitalistico
marxiano privo della possibilità dialettica e pratica di superamento
(Heidegger).
Ma questa spiegazione non funziona per dei vari filosofi, come Croce,
Gramsci, Kojève, ecc. Essi ritengono che sia un errore l’assolutizzazione
metafisica del tempo storico, e l’illusione che la storia non abbia bisogno di
alcun fondamento esterno, essendo da sola fondamento a se stessa. Lo
storicismo è qui parallelo allo scetticismo, che pensa anch’esso che la
scienza sia da sola fondamento a se stessa, e non abbia bisogno di alcun
fondamento filosofico, spacciato come arcaico e premoderno.
40
III - KARL MARX (1818 – 1883)
Marx, filosofo, economista e uomo politico tedesco, ricevete una
educazione di impronta liberale ed illuministica. Incomincia studi di
diritto all'università di Bonn, poi a quella di Berlino, finché non si volge verso
la filosofia, secondo l’impulso a “cercare l'Idea nella realtà stessa”,
alimentato dalla lettura di Hegel. Collaboratore, dal maggio 1842, e poi
redattore capo del giornale liberale “Rheinische Zeitung”, Marx conduce, fino
alla vigilia della soppressione di esso (marzo 1843), una puntigliosa battaglia
nei confronti delle istituzioni statali, basandosi su una concezione del diritto
come figura razionale della libertà. Nel corso di successivi ripensamenti
intorno alla natura dello stato, Marx si attesta su una radicale posizione di
difesa dell’orientamento politico democratico.
Nell'ottobre 1843 Marx si trasferisce a Parigi per dare vita, insieme con
A. Ruge. ai «Deutsch-franzósische Jahrbucher», un tentativo di fondere il
proprio radicalismo filosofico. Marx sostiene ora la necessità di una
«emancipazione umana», consistente in una ri-appropriazione, ad opera
della società, delle essenziali forze umane estraniate nello stato. Marx indica
già ora, come portatrice di un’azione rivoluzionaria in Germania, la classe
proletaria in formazione.
Nei cosiddetti Manoscritti economico-filosofici del 1844 (editi nel 1932)
egli perviene a illuminare la situazione del lavoro nell’attuale società
capitalistica, come “lavoro alienato” sotto tre aspetti:
• separazione del produttore-lavoratore (l’operaio) rispetto ai
prodotti della sua attività;
• separazione del produttore rispetto alla sua stessa attività, ossia
autoestraneazione nella produzione;
• alienazione dell'uomo rispetto alla sua essenza di «uomo o ente
generico».
Espulso da Parigi su richiesta del governo prussiano, all'inizio del 1845
Marx si reca a Bruxelles. Qui, da un lato prosegue un'intensissima attività di
studio, scrivendo con l’amico F. Engels L'ideologia tedesca (pubblicata nel
1932), ove si trova esposta per la prima volta la sua più importante
41
innovazione filosofica: la concezione materialistica della storia.
Dall'altro lato, svolge con Engels un'intensa attività di organizzazione
rivoluzionaria: nel corso di un viaggio a Londra conosce Wilhelm Weitling,
capo teorico della ''Lega dei Giusti", formata in prevalenza di artigiani
tedeschi emigrati, e sostenitore di un comunismo "evangelico", ispirato ai
princìpi della fratellanza universale; forma un "Comitato di corrispondenza"
per coordinare le attività dei socialisti tedeschi, francesi e inglesi; aderisce,
sempre con Engels, alla "Lega dei Giusti", che nel 1847 diviene "Lega dei
comunisti", dandosi una struttura meno settaria e più democratica.
Per il secondo congresso della Lega Marx ed Engels scrivono il
Manifesto del partito comunista, pubblicato a Londra nel febbraio 1848.
Avendo disatteso l'obbligo di non pubblicare testi di carattere politico, Marx
viene arrestato ed espulso dal Belgio: all'inizio di marzo raggiunge dunque
Parigi, dove lo ha richiamato il governo provvisorio rivoluzionario.
Estendendosi la rivoluzione anche in Germania, Marx si reca a Colonia,
dove fonda la "Nuova Gazzetta renana", quindi a Berlino e a Vienna. La
sconfitta della rivoluzione del ’48 determina una nuova espulsione di Marx
dalla Germania e ripara a Londra, dove rimarrà sino alla morte.
È a Londra che Marx si dedica a quella grande opera sull'economia in
cui progetta di fornire un'analisi complessiva della società capitalistica
borghese e una compiuta teoria sulla quale fondare la prospettiva del
socialismo scientifico. Il lavoro teorico, che egli non riuscirà a completare,
produrrà nell'ordine: i Lineamenti fondamentali della critica dell' economia
politica (Grundrisse), pubblicati nel 1859; le Teorie su plusvalore , ed il cui
primo volume de Il Capitale, che viene pubblicato, dopo lunghissime
revisioni, nel 1867. Il secondo e terzo libro (stesi rispettivamente nel
decennio 1869-79 e nel 1865) saranno pubblicati postumi a cura di Engels
nel 1885 e nel 1894.
A fianco di questa attività scientifica, e particolarmente negli ultimi
quindici anni della sua vita, Marx si dedica, sempre con Engels, alla battaglia
politica all'interno del movimento operaio europeo. Nel 1864 partecipa alla
fondazione della Prima internazionale, per la quale scrive l'Indirizzo
42
inaugurale: la linea politica qui disegnata da Marx prevede la creazione di un
forte movimento operaio internazionale capace di superare ogni settarismo e
di coordinare la lotta per la conquista del potere politico e l'abolizione delle
classi, senza rinunciare a rivendicare obiettivi di carattere sindacale che
possono migliorare le condizioni di vita dei lavoratori e la loro compattezza
politica.
Sulle origini del suo pensiero, Engels ha scritto che tre sono le
influenze culturali che stanno alla base del marxismo:
• la filosofia classica tedesca da Hegel a Feuerbach;
• l'economia politica borghese da Smith a Ricardo;
• il pensiero socialista da Saint-Simon ad Owen.
1. La critica di filosofia hegeliana del diritto pubblico
(1843, editi nel 1927)
La Filosofia della Storia di Marx, comincia con un confronto critico con
la filosofia di Hegel e la critica fatta ad Hegel da Feuerbach.
Secondo Marx lo «stratagemma» di Hegel consistete nel fare delle
realtà empiriche delle manifestazioni necessarie dello Spirito. Questo
significa che invece di limitarsi a constatare, ad esempio, che in certi
ordinamenti storici esiste la monarchia, Hegel afferma che lo Stato
presuppone per necessità una sovranità, la quale si incarna necessariamente
nel monarca, che è la sovranità statale personificata. Inoltre, poiché ciò che
è necessario, per Hegel, è anche razionale, egli deduce la piena «logicità»
della monarchia, identificandola con la razionalità politica in atto.
Marx definisce questo procedimento “misticismo logico”, poiché in virtù
di esso le istituzioni, anziché comparire per ciò che di fatto sono, finiscono
per essere “allegorie” o personificazioni di una realtà spirituale che se ne sta
occultamente dietro di essi. Esaminando il “mistero” di questa “costruzione
speculativa”, Marx arriva alla conclusione che essa è il risultato del
capovolgimento idealistico del rapporto empirico fra soggetto e predicato, fra
piano del concreto e quello astratto. L'idealismo fa dunque del concreto la
manifestazione dell'astratto, e di ciò che viene empiricamente prima la
43
manifestazione di ciò che viene dopo. Ecco in che senso Hegel, dopo essersi
costruito il concetto astratto di Spirito partendo dalla realtà, finisce per fare
della realtà la manifestazione dello Spirito. Al metodo “mistico” di Hegel,
Marx oppone polemicamente il metodo trasformativo, che consiste nel ri-
capovolgere ciò che l'idealismo ha capovolto, ossia nel riconoscere di nuovo
ciò che è veramente soggetto e veramente predicato.
Oltre che essere fallace sul piano filosofico, il metodo “mistico” di
Hegel è anche conservatore sul piano politico, poiché porta a “canonizzare” o
a “santificare” la realtà esistente, ossia a “razionalizzare” i dati di fatto,
trasformandoli in manifestazioni razionali e necessarie dello Spirito. Per cui
l'esito del giustificazionismo speculativo di Hegel (secondo il quale ciò che è
reale è razionale) è un giustificazionismo politico, che, facendo la corte ai
fatti, conduce all'accettazione delle istituzioni statali vigenti, puntellando
ideologicamente la reazione.
Feuerbach aveva già operato, prima di Marx, il rovesciamento della
filosofia hegeliana, sostituendo all’astrazione dell’Idee, come protagonista
della storia, l’Uomo, cioè un essere non limitato all’aspetto, che Feuerbach
considerava epifenomenico, della coscienza, ma considerato nella globalità
degli aspetti della sua natura, come essere sociale caratterizzato da bisogni,
capace di amare, segnato da dolore.
Per Feuerbach l’essenza dell’Uomo è già realizzata, e non si manifesta
appieno nella vita sociale, nella forma della comunità, soltanto perché essa è
mistificata, nascosta agli occhi degli uomini, pur essendo presente nella
totalità delle sue determinazioni. Per questo Feuerbach faceva del problema
del progresso storico un puro problema de educazione e concepiva la propria
filosofia come un atto rivoluzionario perché secondo lui essa strappava il
velo che nascondeva agli uomini l’immagine della loro essenza realizzata.
2. La critica di Marx a Feuerbach
Marx, nonostante accette sostanzialmente la critica di Feuerbach a
Hegel, ritiene che questo pecca nel considerare l’essenza dell’Uomo già
realizzata, e quindi nell’identificare “l’Uomo” con “gli uomini storici reali”. Egli
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rimprovera cioè a Feuerbach di non avere visto la contradizione tra
l’esistenza e l’essenza come struttura ontologica fondamentale dell’uomo
nella storia.
Per questo il problema della storia non è quello di squarciare, con
l’educazione, il velo che nasconde all’uomo la sua essenza, ma quello
dell’“autogenerazione dell’uomo”. L’autogenerazione dell’uomo non potrá
essere compiuta che nel momento in cui sará superata, con il comunismo, la
contradizione tra gli individui e la società come consolidazione del prodotto
della loro attività. E questo superamento non pone all’uomo cosciente un
compito educativo, teorico, che presuppone “un individuo umano astratto-
isolati”, ma un compito pratico, rivoluzionario, perché non si tratta di aprire
la mente agli individui per trasformare la società ma, viceversa, di
trasformare la società – che è diventata una realtà indipendente dagli
individui e li condiziona – per liberar gli individui stessi.
Per Marx quindi, la storia rimane un processo dialettico, come per
Hegel, ma il soggetto di questa dialettica non è l’Idea, bensì la società degli
uomini reali.
Ma il fatto che Marx parli di “individui totali” presuppone quindi la
presenza nella storia di una idea dell’Uomo che consente di distinguere un
Uomo totale dell’uomo unilaterale. Tuttavia, Marx era un rivoluzionario, e la
sua principale preoccupazione era quella di trasformare la società del suo
tempo con gli uomini del suo tempo. Egli quindi era particolarmente attento
ad evitare qualunque affermazione filosofico-storico che potesse dar
l’impressione di sostituire un’astrazione agli uomini concreti come
protagonisti della storia. Con questo rovesciamento che fa astrazione a priori
dalle condizioni reali, diventa possibile trasformare l’intera storia in un
processo di svolgimento della coscienza.
Gli uomini concreti quindi non devono, per Marx, essere ridotti
all’astrazione feuerbachiana dell’Uomo, ma devono essere considerati “nel
loro contesto sociale determinato”, “nelle loro date condizioni di vita che li
hanno fatti divenire ciò che essi sono”. Ne consegue che “ciò che viene
chiamato “vocazione”, “fine”, “genere”, “idea” della storia precedente non è
45
che un’astrazione della storia successiva, un’astrazione dell’influenza attiva
che la storia precedente esercita sulla successiva”.
Marx ammonisce dunque a considerare protagonisti della storia gli
individui concreti, nella materialità della loro vita quotidiana, a non
ipostatizzare le idee, come fa Hegel. Resta però il fatto che la sua
preoccupazione preminente è quella di dimostrare come la realtà sociale
determina gli individui e non quella di dimostrare al contrario come gli
individui a loro volta determinano la realtà sociale.
3. Manifattura e Grande Industria
La questione delle macchine assume nella riflessione marxiana sulla
storia moderna un ruolo centrale, analogo a quello della rivoluzione francese
nella filosofia hegeliana della storia.
Marx distingue, in polemica con Smith, un periodo della manifattura, in
cui la base del processo lavorativo è la divisione del lavoro, da un periodo
della grande industria, la cui genesi è il rivoluzionamento del mezzo di lavoro
ed il cui fondamento è un sistema di macchine azionato da una forza motrice
artificiale. La distinzione è netta: nella divisione manifatturiera del lavoro il
processo di differenziazione delle operazioni e degli operatori porta al
raffinamento degli utensili impiegati. In questo periodo permane ancora la
base tecnica del lavoro artigianale e si ha solo quello che Marx chiama il
“processo di sottomissione formale del lavoro”. Ma è con la ricomposizione
degli utensili nel macchinario azionato da energia artificiale che si realizza la
sottomissione effettiva, reale (wirlklich), del lavoro al comando capitalistico.
Il sistema di fabbrica è il trasferimento dell’attività di elaborazione del
materiale dall’uomo alla macchina operatrice, è il porsi del sapere scientifico
come forma immediatamente produttiva nella forma oggettivata del
macchinario.
Si ha dunque il passaggio da un principio soggettivo di realizzazione
dell’attività lavorativa con la manifattura ad un principio oggettivo di
sussunzione del lavoro nel macchinario con la fabbrica.
Il dominio del lavoro morto sul lavoro vivo ha pertanto duplice
46
significato: da una parte il lavoro passato, oggettivato in forma di capitale,
domina autoritariamente il lavoratore in fabbrica, sul mercato e nella
società, dall’altra questo dominio storico, che si costituisce nel periodo della
manifattura, assume solo nell’uso capitalistico delle macchine la sua forma
tecnica. Il lavoro in quanto attività finalizzata, intelligenza capace di
progettare e manipolare, “volontà conforme a uno scopo”
(Zweckmässigkeit), si é ora trasferito nella macchina, condensato di sapere
scientifico e tecnico, mentre al lavoro vivo non restano che mansioni
semplici di esecuzione e controllo. In questo processo di scissione
(Scheidungsprozess) si realizza la sottomissione reale del lavoro al comando
capitalistico, si realizza cioè per la prima volta la base effettiva, materiale e
spirituale, della società capitalistica.
Nel macchinismo si condensano due processi storici: da una parte un
salto di qualità nel processo di emancipazione dell’uomo dai vincoli naturali,
dall’altra un costituirsi della ragione come mondo dell’oggettività, dal
macchinismo alle leggi di mercato, di fronte a cui il lavoro vivo si coglie
soltanto come essere-comandato, come passività all’interno della scissione
fra direzione ed esecuzione del processo lavorativo. Con questo processo
storico la divisione fra lavoro intellettuale e manuale, che costituisce il
fondamento della divisione sociale e delle forme storiche di scissione fra
coscienza ed esperienza, passa ora dalla società al processo lavorativo.
4. Alienazione ed Estraneazione
Il processo di scissione fra possesso delle condizioni di lavoro e lavoro
erogato si sviluppa nella scissione fra razionalità oggettivata nel macchinario
e lavoro privato di autonomia e razionalità consapevole. Questo mondo della
scissione coinvolge lo stesso capitalista. Quando Marx afferma che 1’impresa
capitalistica presuppone che il padrone non lavori intende non solo affermare
la necessità di un margine minimo di pluslavoro, ma intende anche
sottolineare il processo storico di scissione del comando sul lavoro dal lavoro
stesso. Questo processo si sviluppa ulteriormente nella separazione del
proprietario dal direttore di fabbrica, nella distinzione fra “funzioni del
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capitale espletate con coscienza e volontà” ed intreccio di funzioni di
comando, disciplinari e tecniche.
Mentre nella manifattura l’impiego diretto dell’utensile e la padronanza
di una pur parcellizzata esperienza professionale rendono ancora il lavoro
qualcosa che 1’operaio coglie come proprio e insieme altro-da-sè, nella
fabbrica il riconoscersi, sia pure parziale e conflittuale, nel frutto del lavoro
svanisce di fronte al sistema di macchine.
Il concetto di “alienazione” affonda le sue radici nella filosofia tedesca
precedente, ma trova le sue più proprie origini nel pensiero di J. J.
Rousseau. Per Hegel l'alienazione è il movimento stesso dello Spirito, che si
fa altro da sé, nella natura e nell'oggetto, per potersi ri-appropriare di sé in
modo arricchito. Come tale l'alienazione riveste, in Hegel, un significato
negativo e positivo al tempo stesso.
In Feuerbach l'alienazione è qualcosa di puramente negativo, poiché si
identifica con la situazione dell'uomo religioso, che, “scindendosi”, si
sottomette ad una potenza estranea (Dio) che lui stesso ha posto,
“estraniandosi” in tal modo dalla propria realtà.
Marx si rifà soprattutto a Feuerbach, da cui accetta la visione formale
del processo costitutivo dell'alienazione, intesa appunto come una condizione
patologica di “scissione”, di “dipendenza” e di “autoestraniazione”. Tuttavia,
a differenza di Feuerbach, per il quale l'alienazione è ancora un fatto
prevalentemente coscienziale, derivante da un'errata interpretazione di sé,
in Marx essa diviene un fatto reale, di natura socio-economica, in quanto si
identifica con la condizione storica del salariato nell'ambito della società
capitalistica.
L'alienazione dell'operaio viene descritta da Marx sotto quattro aspetti
fondamentali, strettamente connessi fra di loro:
• II lavoratore è alienato rispetto al prodotto della sua attività, in
quanto egli, in virtù della sua forza-lavoro, produce un oggetto
(il capitale), che non gli appartiene e che si costituisce come una
potenza estranea e dominatrice nei suoi confronti.
• II lavoratore è alienato rispetto alla sua stessa attività, la quale
48
prende la forma di un “lavoro forzato” o “costrittivo”, in cui egli è
strumento di fini estranei (il profitto del capitalista), con la grave
conseguenza che l'uomo si sente “bestia” quando dovrebbe
sentirsi veramente “uomo”, cioè nel lavoro sociale, e si sente
uomo quando fa la bestia, cioè si “stordisce” nel mangiare, nel
bere e nel procreare. Infatti sebbene queste ultime, puntualizza
Marx, siano “anche funzioni schiettamente umane”, esse, in
quell'astrazione che le separa dalla restante cerchia dell'attività
umana, e le fa diventare scopi ultimi e unici, sono funzioni
animali.
• II lavoratore è alienato rispetto alla sua stessa “essenza” o
“genere”. Infatti la prerogativa dell'uomo nei confronti
dell'animale è il lavoro libero, creativo e universale, mentre nella
società capitalistica è costretto ad un lavoro forzato, ripetitivo e
unilaterale.
• II lavoratore è alienato rispetto al prossimo, perché “l'altro”, per
lui, è soprattutto il capitalista, ossia un individuo che lo tratta
come un mezzo e lo espropria del frutto della sua fatica, facendo
sì che il suo rapporto con lui, e con l'umanità in genere, sia per
forza conflittuale.
La causa del meccanismo globale dell'alienazione, la quale fa sì che
l'operaio sia ridotto a strumento per produrre una ricchezza che non gli
appartiene e che si erge di fronte come potenza estranea, risiede dunque
nella proprietà privata dei mezzi di produzione, in virtù della quale il
possessore della fabbrica (= il capitalista) può utilizzare il lavoro di una certa
categoria d’individui (= i salariati) per accrescere la propria ricchezza,
secondo una dinamica che Marx, nel Capitale, descriverà in termini di
“sfruttamento” e “logica del profitto”.
La negazione della alienazione dell'uomo si deve dunque identificare,
nella prospettiva di K. Marx, con il superamento del regime della proprietà
privata e con l'avvento del comunismo.
Di conseguenza, per il Marx, la storia si configura come il luogo della
49
perdita e della possibile riconquista, da parte dell'uomo, della propria
essenza, e il comunismo diviene “la soluzione dell'enigma della storia”.
Ancora una volta, il rapporto Marx-Hegel, nelle analogie e nelle
diversità, si rivela decisivo. Infatti nel capitolo finale dei Manoscritti Marx fa
ancora una volta i conti col vecchio maestro. Egli riconosce ad Hegel una
serie di meriti:
• per aver concepito l'uomo in un'ottica storica e come risultato
della propria attività, ossia come processo di autogenerazione;
• per aver sottolineato in tale processo autoformativo l'importanza
del lavoro;
• per aver inteso tale processo in termini di alienazione e
soppressione dell'alienazione;
• per aver evidenziato “la dialettica della negatività come principio
motore e generatore”, ossia per aver intuito che la liberazione
scaturisce dialetticamente dall'oppressione, in quanto l'unico
modo di realizzarsi, per l'uomo, consiste nel negare le condizioni
che negano il proprio essere.
Tuttavìa, sebbene Hegel, in tal modo, abbia colto "l'espressione
astratta, logica, speculativa per il movimento della storia", i suoi limiti
consistono sostanzialmente:
• nell'aver ridotto l'individuo ad “autocoscienza” o “spirito”,
mettendo quindi, al posto dell'uomo reale, l'essenza astratta di
esso;
• nell'aver considerato soprattutto il lavoro spirituale e
“speculativo”, quale si incarna nella figura del filosofo;
• nell'aver inteso l'alienazione e la disalienazione come delle
operazioni ideali, che si consumano a livello coscienziale e
filosofico e non sul piano pratico;
• nell'aver identificato l'alienazione con il processo di
oggettivazione in quanto tale, ovvero come costituente
ineliminabile e necessario della prassi del soggetto, non
rendendosi conto che ciò che aliena l'individuo non è
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l'oggettivazione in quanto tale, ma quell'oggettivazione negativa
e disumanizzante che è propria del lavoro operaio nella società
capitalistica.
In sintesi, Hegel non ha fotografato la storia vera ed il suo processo
concreto di alienazione e disalienazione, poiché si è limitato a descrivere una
storia ideale ed astratta, che si svolge tutta nel cerchio del puro pensiero e
che non presuppone degli interventi pratici sul mondo. Di conseguenza, la
teoria di Hegel non ha niente a che fare con l'alienazione e la disalienazione
effettiva, essendo piuttosto lo specchio mistificato di essa. Ma se
l'alienazione economica è un fatto reale, che sta alla base di tutte le altre
alienazioni, soprattutto di quella politica e di quella religiosa, l'unico modo
per abbatterla, secondo Marx, è l'atto reale, e non puramente pensato, della
rivoluzione e dell'instaurazione del socialismo, inteso come “umanismo
giunto al proprio compimento”.
5. La concezione materialistica della Storia
La decisiva scoperta del fondamento immotivato del principio della
proprietà privata posto a base delle teorie della economia politica classica
(Smith e Ricardo); l’essere venuto in chiaro circa la funzione costitutiva
dell’alienazione svolta dai rapporti economici propri dell’economia di mercato
capitalista, segnano il passaggio di Marx dall'umanismo al materialismo
storico, ovvero la transizione dall'antropologia speculativa e filosofica
dell’idealismo al “sapere reale” della storia. Il testo in cui si concretizza tale
processo è L'ideologia tedesca, scritta da Marx ed Engels insieme, con la
collaborazione di M. Hess, durante l'esilio di Bruxelles (1845-1846) e rimasta
inedita sino al 1932.
Il discorso scientifico storico-materialistico di Marx ed Engels, in merito
alla forma costituita della moderna alienazione, presuppone l’assunto che vi
sia una basilare contrapposizione fra due ordini dell’universo solitamente
designato come “sapere”: fra la “scienza reale e positiva” da un lato, e l’
51
“ideologia” dall’altro6.
Sotto il termine di “ideologia” sostanzialmente Marx ed Engels indicano
la “falsa rappresentazione” della realtà, e sottolineano come sia della
massima importanza intendere il processo per cui alla “comprensione
oggettiva” dei rapporti reali fra gli uomini, invariabilmente si sostituisca
un'immagine deformata di essi.
Evidentemente l'intento di Marx è quello di svelare, al di là delle
ideologie, la verità sulla storia, mediante il raggiungimento di un punto di
vista obbiettivo sulla società, che permetta di descrivere non ciò che gli
uomini “possono apparire nella rappresentazione propria o altrui, bensì quali
sono realmente” (L'ideologia tedesca, p. 12). Questo programma comporta,
ovviamente, la distruzione della vecchia filosofia idealistica e l'inaugurazione
di una nuova “scienza”.
Ma che cos'è l'umanità, intesa finalmente in modo scientifico e non
ideologico? Marx risponde che essa è una specie evoluta, composta di
individui associati, che in primo luogo sono chiamati a lottare per la propria
sopravvivenza. Di conseguenza, la storia non è, primariamente, una serie di
eventi spirituali, ma un processo materiale fondato sulla dialettica bisogno-
soddisfacimento.
Ed è proprio quest'azione “materiale” che umanizza l'uomo. Infatti,
commenta ironicamente Marx, si possono distinguere gli uomini dagli animali
per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole, ma essi
cominciarono di fatto a distinguersi dagli animali allorché, in virtù della
necessità, cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza. Alla base
della storia vi è dunque il lavoro, che Marx intende come creatore di civiltà e
di cultura e come ciò attraverso cui l'uomo si rende tale, emergendo
dall'animalità primitiva e distinguendosi dagli altri esseri viventi.
Nell'ambito di quella “produzione sociale dell'esistenza” che costituisce
la storia, bisogna distinguere, secondo Marx, due elementi di fondo: le forze
produttive da un lato e i rapporti di produzione dall’altro.
6 Il termine “ideologia” ala fine del Settecento aveva assunto in Francia il significato di un’analisi gnoseologico delle idee nel loro processo di derivazione delle sensazioni, ossia uno studio sulla base empirica del sapere socialmente accessibile agli uomini.
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Per forze produttive Marx intende tutti gli elementi necessari al
processo di produzione, ossia, fondamentalmente:
• gli uomini che producono (= la forza-lavoro);
• i mezzi (terra, macchine ecc.) che essi utilizzano per produrre (=
i mezzi di produzione);
• le conoscenze della tecnica e di tipo scientifico di cui si servono
per organizzare e migliorare la loro produzione.
Per rapporti di produzione Marx intende i rapporti che si instaurano fra
gli uomini nel corso della produzione e che regolano il possesso e l'impiego
dei mezzi di lavoro, nonché la ripartizione di ciò che tramite essi si produce.
I rapporti di produzione trovano la loro espressione giuridica nei rapporti di
proprietà.
Forze produttive e rapporti di produzione costituiscono, nella loro
globalità, il “modo di produzione” di un certo periodo. L'insieme dei rapporti
di produzione, o, più in generale, la base economica, quale si esprime nel
“modo di produzione” costituisce la struttura, ovvero lo scheletro economico,
della società, intesa come organismo complessivo.
Infatti, rispetto alla totalità sociale, la struttura rappresenta il
piedistallo concreto su cui si eleva una sovrastruttura giuridico-politico-
culturale. In altre parole, il termine sovrastruttura sta ad indicare che
secondo il materialismo storico i rapporti giuridici, le forze politiche, le
dottrine etiche, artistiche, religiose e filosofiche non debbono essere intese,
idealisticamente, come delle realtà a sé stanti ed indipendenti, ovvero come
libere produzioni della libera coscienza raziocinante, ma come delle
espressioni più o meno dirette dei rapporti che definiscono la struttura di
una certa società storica.
La mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per se stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell'esistenza; e che l'anatomia della società è da cercare nell'economia politica. Il risultato generale al quale arrivai e che, una volta acquisito, mi servì da filo conduttore nei miei studi, può essere brevemente formulato così: nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppò delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura
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economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva la sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza...7
Di conseguenza, non sono le leggi, lo Stato, le forze politiche, le
religioni, le filosofie ecc. che determinano la struttura economica della
società (= idealismo storico), ma è la struttura economica che determina le
leggi, lo Stato, le religioni, le filosofìe ecc. (= materialismo storico ossia, le
vere forze motrici della storia non sono di natura spirituale, come pensavano
per lo più i filosofi precedenti, bensì di natura socio-economica).
6. Storia dell’uomo come Storia Della Libertà
Forze produttive e rapporti di produzione, oltre che rappresentare la
chiave di lettura della statica della società, si configurano anche come lo
strumento interpretativo della sua dinamica, poiché si identificano con la
molla propulsiva del suo divenire, ovvero con la legge stessa della storia.
Marx ritiene infatti che ad un determinato grado di sviluppo delle forze
produttive tendano a corrispondere determinati rapporti di produzione e di
proprietà (ad esempio, rapporti di produzione di tipo feudale corrispondono a
forze produttive di tipo agricolo). Tuttavia i rapporti di produzione si
mantengono soltanto sino a quando favoriscono le forze produttive e
vengono distrutti quando si convertono in ostacoli o catene per le medesime.
Ora, poiché le forze produttive, in connessione con il progresso
tecnico, si sviluppano più rapidamente dei rapporti di produzione, che
esprimendo delle relazioni di proprietà tendono a rimanere statici, ne segue
periodicamente una situazione di frizione o di contraddizione dialettica fra i
due elementi, che genera "un'epoca di rivoluzione sociale”. Infatti, sostiene
Marx, le nuove forze produttive sono sempre incarnate da una classe in
ascesa, mentre i vecchi rapporti di proprietà sono sempre incarnati da una
classe dominante al tramonto.
Di conseguenza, risulta inevitabile lo scontro fra di esse, che si gioca
7 Prefazione a Per la critica dell’economia politica.
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non solo a livello sociale, ma anche politico e culturale (sotto forma, in
quest'ultimo caso, di “battaglia ideologica”). Alla fine finisce sempre per
trionfare la classe che risulta espressione delle nuove forze produttive, che
in tal modo riesce ad imporre la propria maniera di produrre e di distribuire
la ricchezza, nonché la sua specifica visione del mondo (ideologia), poiché
“le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè la
classe che è la potenza materiale dominante è in pari tempo la sua potenza
spirituale dominante”.
Questo modello teorico, secondo Marx, trova la sua tipica
esemplificazione, per quanto riguarda il tempo presente, nel capitalismo
moderno: nella sua forma economica si sta delineando una contraddizione
sempre più “esplosiva” fra forze produttive sociali e rapporti di produzione
privatistici. Infatti la fabbrica moderna, pur essendo proprietà di un
capitalista (o di un gruppo di azionisti), produce soltanto grazie al lavoro
collettivo di operai, tecnici, impiegati, dirigenti ecc. Ma se sociale è la
produzione della ricchezza, sociale deve essere, secondo Marx, la
distribuzione di essa. Ma questo significa che il capitalismo porta in sé, come
esigenza dialettica, il socialismo.
Marx afferma che il capitalismo pone le basi del socialismo, in quanto
genera, per la prima volta nella storia, le “condizioni oggettive” favorevoli ad
una rivoluzione socialista mondiale.
La legge della “corrispondenza” e della “contraddizione” tra forze
produttive e rapporti di produzione permette dunque a Marx di delineare un
quadro generale della, storia passata e presente, e di scandire il cammino
dell'umanità nel tempo secondo alcune grandi formazioni economico-sociali,
qualificate da determinati modi di produrre, da specifici rapporti di proprietà,
da peculiari istituzioni giuridico-politiche e da corrispondenti forme di
coscienza. Marx è convinto che la storia proceda dal comunismo primitivo
(comunque inteso o prospettato) al socialismo futuro, attraverso il momento
intermedio della società di classe, la quale si basa sulla divisione del lavoro e
sulla proprietà privata. Parimenti Marx è convinto che il diagramma storico
dello sviluppo della civiltà implichi di necessità il dovere considerare la storia
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umana come un cammino orientato ad una meta, che esso abbia una finalità
interna, ed infine che si debba considerare il socialismo come lo sbocco
inevitabile della dialettica storica.
L’autentico carattere dialettico del materialismo storico di Marx, ed il
suo persistente legame con Hegel risultano dunque evidenti. Infatti anche
per Marx, come per Hegel, la storia si configura - sul piano formale - come
una totalità processuale dominata dalla forza della contraddizione, e mette
capo ad un “risultato finale”. Però con questa notevole differenza di
contenuto: che Marx ritiene di aver fatto camminare la dialettica di Hegel
“sui piedi”, anziché sulla “testa”:
• in quanto il soggetto della dialettica storica non è più lo Spirito,
ma la struttura economica e le classi;
• in quanto la “dialettica” del processo storico è concepita come
“empiricamente” e scientificamente “osservabile” nei fatti stessi;
• in quanto le opposizioni che muovono la storia non sono astratte
e generiche, bensì concrete e determinate, pur riconducendosi
tutte a quella dialettica tra forze produttive e rapporti di
produzione che rappresenta il cuore ed il centro strategico di
tutta la scienza che Marx istituisce delle moderne società di
mercato.
7. A Lotta di Classe: Borghesia e proletariato
Nel testo de II Manifesto (1848), nel quale Marx si propone di esporre
“in faccia al mondo” gli scopi e i metodi dell'azione rivoluzionaria, viene
rappresenta una stringata ma efficace summa della concezione marxista del
mondo. I punti salienti di esso sono:
• l'analisi della funzione storica della borghesia;
• il concetto della storia come «lotta di classe» ed il rapporto fra
proletari e cultura socialista.
Nella prima parte del Manifesto Marx descrive, con un'eloquenza
brillante, la vicenda storica della borghesia, sintetizzandone, dal suo punto di
vista, meriti e limiti. A differenza delle classi che hanno dominato nel
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passato, che tendevano alla conservazione statica dei modi di produzione, la
borghesia, secondo Marx, non può esistere senza rivoluzionare
continuamente gli strumenti di produzione e tutto l'insieme dei rapporti
sociali. Di conseguenza, la borghesia appare una classe costituzionalmente
dinamica, che ha dissolto non solo le vecchie condizioni di vita, ma anche
idee e credenze tradizionali.
La borghesia ha modificato la faccia della terra in una misura che non
ha precedenti nella storia, mostrando ai popoli che cosa possa l'attività
umana. Ha compiuto ben altre meraviglie che le piramidi d'Egitto, gli
acquedotti di Roma e le cattedrali gotiche; ha portato a termine ben altre
spedizioni che gli spostamenti dei popoli e le Crociate in Terrasanta. La
borghesia ha realizzato per la prima volta l'unificazione del genere umano,
poiché il bisogno di una dimensione di scambio sempre più estesa per i suoi
prodotti l'ha spinta a percorrere tutto il globo terracqueo. Agevolando le
comunicazioni e trascinando nella civiltà tutti i paesi, assoggettando l'Oriente
all'Occidente, è riuscita a costruire un mercato mondiale e a porre le basi per
un reale cosmopolitismo.
Senonché questa borghesia, che ha evocato come per incanto forze
così gigantesche, non riesce più a dominare le potenze infernali da essa
evocate. Infatti le moderne forze produttive, sempre più sociali, si rivoltano
contro i vecchi rapporti di proprietà, ancora privatistici e sottomessi alla
logica del profitto personale, generando delle crisi terribili, che mettono in
forse l'esistenza stessa del capitalismo. Tanto che il proletariato, la classe
oppressa della società borghese, non può fare a meno di mettere in opera
una dura lotta di classe, volta al superamento del capitalismo e delle sue
forme istituzionali e ideologiche.
Mentre nell'Ideologia tedesca Marx pone come motore dello Sviluppo
sociale la dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione, nel
Manifesto individua, come soggetto autentico di storia, la lotta fra le classi.
La storia di ogni società, esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni
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volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta.
Marx si differenzia dai grandi teorici dell'economia borghese - da Smith
a Ricardo - soprattutto per il suo metodo storicistico-dialettico. Infatti, a
differenza di tali autori, Marx è convinto che:
• non esistano leggi universali dell'economia, e che ogni
formazione sociale abbia caratteri e leggi storiche specifiche (le
leggi che valgono per il feudalesimo, ad esempio, non valgono
per il capitalismo).
• In secondo luogo, Marx è convinto che la società borghese porti
in se stessa delle contraddizioni strutturali che ne minano la
solidità, ponendo le basi oggettive della sua fine.
• In terzo luogo, Marx è persuaso che l'economia debba far uso
dello schema dialettico (mutuato da Hegel) della totalità
organica, studiando il capitalismo come una struttura i cui
elementi risultano strettamente connessi.
Si noti infine che Il Capitale non è soltanto un libro di economia.
Infatti, poiché Marx vede nella sfera economica la chiave di spiegazione della
società nel suo insieme, con la sua elaborazione teorica egli non intende
studiare un segmento della vita reale, isolato dagli altri, ma dare invece una
fotografia critica della civiltà capitalistica, intesa come struttura complessiva.
8. Tendenze e Contradizioni del Capitalismo
Delineando un'analisi del capitalismo a sfondo tragico, Marx descrive le
varie strade imboccate da esso in vista del proprio auto-accrescimento,
mostrando come tale sistema generi una serie di contraddizioni e difficoltà,
che ne minano la sopravvivenza, preparandone la morte futura.
In un primo momento il capitale cerca di accrescere il plus-valore
aumentando la giornata lavorativa (poniamo sino a quindici ore). Ma questa
dilatazione d'orario, pur generando maggior plus-lavoro, e quindi maggior
plus-valore, presenta dei limiti invalicabili, poiché oltre un certo numero di
ore la forza-lavoro dell'operaio cessa di essere produttiva. Di conseguenza,
più che attraverso il prolungamento della giornata lavorativa (che Marx
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chiama plus-valore assoluto), il capitalismo punta alla riduzione della parte
di giornata lavorativa necessaria ad integrare il salario (che Marx chiama
plus-valore relativo). Infatti se l'operaio, anziché impiegare sei ore per
guadagnare il proprio salario ne impiega quattro, risulta evidente che il plus-
valore intascato dal capitalista è più grande. Ovviamente, tutto ciò si può
ottenere solo mediante una maggior produttività del lavoro. Da ciò discende
la necessità strutturale, per il capitalismo, di introdurre in continuazione
nuovi e più efficienti metodi e strumenti di lavoro.
Mettendosi dal punto di vista dei salariati, Marx denuncia i "costi
umani” dell'utilizzazione capitalistica delle macchine. Mentre nella
manifattura era l'operaio ad usare gli strumenti di lavoro, ora è piuttosto
“l'automa semovente” del macchinario di fabbrica ad usare il salariato, che
diviene solo un'appendice o un “servo” della macchina. Mentre prima donne
e bambini non erano forze concorrenti decisive, ora lo sono diventate,
favorendo il contenimento o l'abbassamento dei salari. Inoltre, la velocità dei
macchinari produce un'intensificazione del lavoro, distruggendo non solo
ogni creatività individuale, ma generando stress psico-fisico. Per tutti questi
motivi, fra lavoratore e macchina s’instaura un'inevitabile relazione di
ostilità.
Ma proprio l'aumento di produttività conseguito con l'uso delle
macchine genera, accanto alla conflittualità operaia, il fenomeno delle crisi
cicliche di sovrapproduzione proprie del capitalismo. Questo è dovuto al fatto
che il capitalismo (almeno quello “classico” dei tempi di Marx) risulta
caratterizzato dal fenomeno dell'anarchia della produzione, la quale fa sì che
i capitalisti si precipitino “alla cieca” nei settori dove il profitto è più alto,
facendo sì che, ad un certo punto, si verifichi un eccesso di produzione
rispetto alle esigenze di mercato. Tutto ciò genera la crisi, che ha come
effetti concomitanti sia la distruzione capitalistica dei beni (spesso proprio
quelli di cui avrebbero più bisogno le classi povere: caffè, frutta ecc.) sia la
disoccupazione, che va ad accrescere il cosiddetto “esercito industriale di
riserva”.
Marx tende a prospettare la situazione finale del capitalismo in termini
59
dualistico-dialettici: da un lato una minoranza industriale, dalla gigantesca
ricchezza e dall'immenso potere, dall'altro una maggioranza proletaria
sfruttata. Questa situazione, dato il carattere internazionale del capitalismo,
tende a prodursi su scala mondiale, denunciando il limite massimo cui è
pervenuta la contraddizione che sta alla base di tutte le altre contraddizioni
del capitalismo: il contrasto tra forze produttive sempre più sociali ed il
carattere privatistico dei rapporti di produzione e di proprietà. Da ciò il
celebre epilogo del I libro del Capitale: “La centralizzazione dei mezzi di
produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui
diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene
spezzato. Suona l'ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli
espropriatori vengono espropriati”.
A differenza delle tesi liberal-democratiche o di quelle del Socialismo
utopistico, Marx sostiene che non si tratta tanto di estendere a tutti la
proprietà, quanto di superare la proprietà privata come condizione e forma
dei rapporti fra gli uomini.
La società capitalista quindi, alimenta una contraddizione oggettiva,
insanabile, fra i proprietari dei mezzi di produzione e coloro che posseggono
solo la loro capacità di lavoro, tra borghesi e proletari. L'oggettività di tale
contraddizione sta nel fatto che l'imprenditore è costretto dalle leggi del
mercato a sfruttare al massimo la forza-lavoro, per essere competitivo,
quindi per non essere cacciato dal mercato ad opera di altri capitalisti
concorrenti. L'accumulazione capitalistica non dipende dalle volontà
individuali, ma da leggi oggettive.
La dialettica dell'economia si traduce, così, in una prospettiva storica
sulla quale riposa un progetto politico ultimo: la costruzione di una società
nuova.
Diritti dei capitalisti e diritti dei proletari sono, si è visto, formalmente
"uguali" davanti alla legge, mentre le condizioni di vita sono sostanzialmente
disuguali: di qui lo scontro fra le due classi, la lotta di classe nella quale
decidono solo i rapporti di forza. Per questo Marx non limita la sua attività ad
un ruolo puramente scientifico, di elaborazione teorica.
60
Come si è visto, la sua intera vita è stata impegnata e sacrificata ad un
compito eminentemente politico: la conquista del potere da parte della
classe operaia. Il conseguimento di questo obiettivo richiede per lui la
costruzione di un'organizzazione che aiuti il proletariato a combattere -
storicamente - le sue battaglie, facendo crescere la sua consapevolezza
critica e creando le basi per l'avvicinamento della prospettiva comunista.
Il comunismo è - per lui – lo stato dei rapporti fra gli uomini che sorge
solo quando le strutture materiali della società capitalistica vedono nei
rapporti proprietari che la costituiscono non una condizione di crescita, ma
un ostacolo, un impedimento per il loro ulteriore sviluppo.
9. La Concezione Materialistica della Storia: Struttura e
sovrastruttura
Nella Prefazione della sua opera - Per la critica dell’economia politica
(1859) – Marx traccia una spiegazione molto chiara del materialismo storico
imperniata sui concetti di struttura e sovrastruttura. La struttura è la base
economica di una società sulla quale si eleva sempre una sovrastruttura (che
comprende politica, diritto, morale, ecc.) ad essa funzionale. I cambiamenti
Il brano che segue è tratto dalla Prefazione scritta da K. Marx a “Per la
critica dell'economia politica”.
Il primo la voro intrapreso per sciogliere i dubbi che mi assalivano fu una revisione critica della filosofia del diritto di Hegel. La mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per se stessi, né spiegandoli con la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell'esistenza il cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo l'esempio degli inglesi e dei francesi del secolo XVIII, sotto il termine di «società civile»; e che l'anatomia della società civile è da cercare nell'economia politica. Il risultato generale al quale arrivai e che, una volta acquisito, mi servì da filo conduttore nei miei studi, può essere brevemente formulato così. Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono determinate forme sociali della coscienza. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza.
61
A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l'innanzi s'erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, in una parola le forme ideologiche, che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. Una formazione sociale, peraltro, non perisce finché non siano sviluppate tutte le forze produttive per la quale essa offra spazio sufficiente; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Pertanto l' umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione. I rapporti di produzione borghese sono l'ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che sorge dalle condizioni di vita sociali degli individui. Le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese [ gli operai, ovvero il proletariato] creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana.
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IV – MARTIN HEIDEGGER (1889 – 1976) (LA QUESTIONE DELLA TECNICA)
Abbiamo visto che, secondo Marx, era stato con la ricomposizione degli
utensili del periodo della manifattura nel macchinario azionato da energia
artificiale che si è realizzata la sottomissione effettiva, reale (wirlklich), del
lavoro al comando capitalistico.
Nel suo saggio – La questione della tecnica – Heidegger sostiene che
l’avvento dell’era moderna ha determinato una visione univoca del mondo,
in quanto, alla luce della scienza, i fenomeni della natura vengano
considerati unicamente in un ambito in cui sia resa possibile la loro riduzione
a calcolo matematico e sfruttamento economico.
Gli esseri viventi vegetali e animali sono connessi nel tutto, nel mondo,
quale naturale percezione rapporto. Invece, per l’essere umano, che nel
corso dei secoli si è sempre più caratterizzato in base alle capacità di
rappresentazione degli oggetti esterni nella coscienza, il rapporto con il
mondo è divenuto una sorta di “stare contro”, “stare di fronte”.
L’uomo in questo considerare il mondo innanzi a sé come qualcosa di
totalmente differente, si pone dinanzi a esso considerandolo a sua
disposizione e disponendo della natura come un proprio possesso. Tale
imposizione deliberata dell’oggettivazione è una forma di ciò che
denominiamo volere e che determina l’essenza dell’uomo moderno senza
che, a tutt’oggi, possa ancora capire in base a quale volontà – assurta a
essere dell’ente – questo volere voglia.
Proprio seguendo questo volere, tuttavia, l’uomo moderno s’impone in
qualsiasi relazione, come incanalasse la propria rivolta verso il dominio
universale tramite un fare/fabbricare incontrollato e schizofrenico. La
realizzazione del volere dell’uomo come imposizione totale di sé può
accadere solo dopo aver ridotto ciò che s’incontra alla propria sfera, quale
materiale della produzione “autoimponentesi”: tutto diviene materia prima
passibile di manipolazione, anche l’altro uomo, vicino o straniero.
Scrive Heidegger: “L’umanità dell’uomo e la cosità delle cose sono
63
dissolte – nel corso di una produzione che si impone incondizionatamente
nel valore di scambio di un mercato, che non soltanto trasforma la Terra in
mercato mondiale, ma che, in quanto volontà di volere, tien mercato nella
stessa essenza dell’essere, risolvendo cosí ogni ente in un affare di calcolo.”
L’uomo “autoimponentesi” è in ultima analisi un funzionario della tecnica.
L’apparente incondizionatezza del proprio volere come imposizione
deliberata e globale, che tende a dissolvere il mondo, giunge a minacciare
l’uomo stesso. Tale minaccia, secondo il filosofo, investe l’essenza dell’uomo
nel suo rapporto all’essere.
Inoltre, “proprio quando è sotto questa minaccia l’uomo si veste
orgogliosamente della figura di signore della terra. Così si viene diffondendo
l’apparenza che tutto ciò che s’incontra sussista solo in quanto è un prodotto
dell’uomo. Egli s’illude di non incontrare altri che se stesso, ovunque volga lo
sguardo. In realtà, argomenta il filosofo, proprio se stesso l’uomo di oggi
non incontra più in nessun luogo; non incontra più cioè la sua essenza.
L’essenza della tecnica moderna consiste nell’imposizione, Gestell.
Trattasi, secondo Heidegger, di una “volontà di potenza” alla Nietzsche, in
quanto riduce l’essere ad oggetto di dominio:“ormai l’epoca
[contemporanea] è caratterizzat dall’assenza di Dio, dalla “mancanza di Dio”
(...). La mancanza di Dio significa che non c’è più nessun Dio che raccolga in
sé, visibilmente e chiaramente, gli uomini e le cose, ordinando in questo
raccoglimento la storia universale e il soggiorno degli uomini in essa.8
Nell’epoca della tecnica le tracce di Dio si sono perse, nascoste o dimenticate
sotto il predominio della volontà dell’uomo sull’ente, che rende impossibile il
lasciar essere l’ente e l’apparire di Dio.
Il nostro essere senza protezione, in una condizione d’intrinseca
finitezza, dove la morte è la faccia della vita a noi opposta, ma
inevitabilmente sempre presente come possibilità più propria dell’uomo è
l’indicazione, che, se raccolta, ci permette di rivoltarci all’”Aperto” in un
rinnovato atteggiamento di percezione rapporto, Bezug, nel rispetto di una
Legge che ci sovrasta e nel medesimo tempo ci trova coinvolti, prima di ogni
8 M. HEIDEGGER, Perché i poeti?, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze, 1979, p. 247.
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nostro volere-sapere-decidere-fare-agire. La libertà umana stessa, pur nella
sua possibile grandezza, è limitata da ciò che gli uomini non possono
cambiare, da ciò che è comunque dato; anzi solo la consapevolezza e
l’accettazione di tale condizione umana può far sí che l’ambito in cui siamo
liberi di vivere, di trasformare e di agire possa preservarsi e mantenere le
sue promesse.
Tale rinata accettazione e rispetto dell’esteriore ci rimette in contatto
naturale con le profondità stesse della nostra interiorità, in ascolto
dell’esistenza incommensurabile che è in noi e fuori di noi.
La domanda che in questo contesto emerge con forza e urgenza
dinanzi al pensiero suonerebbe così: come mai siamo arrivati alla mancanza
di Dio, anzi, all’incapacità di percepire l’assenza come tale? Perché essa
costituisce un destino storico in cui è inserito l’uomo? Come siamo giunti a
non rintracciare più i sentieri verso l’”Aperto”, che conservavano memoria
del nostro esser-senza-protezione e ci mantenevano sulle orme del Sacro,
come siamo giunti a minacciare la nostra essenza umana e la possibilità
della sopravvivenza stessa della nostra forma di vita? In Heidegger queste
domande puntano verso quel segno che determina il centro del suo
pensiero: l’oblio dell’essere, l’oblio dell’oblio e il bisogno di un pensiero
dell’essere.
1. L’Oblio dell’Essere
La connessione tra il problema di Dio e la questione dell’essere
consiste nell’antecedenza dell’ultima nei confronti della prima; il che significa
che, sebbene il pensiero dell’essere ancora non possa pronunciarsi su Dio, è
imprescindibile e condiziona il riferimento dell’uomo a Dio. In questo senso è
prioritario un pensiero dell’essere in riferimento al sacro, e del sacro rispetto
a Dio.
Ma la problematica dell’essere, per Heidegger, è venuta meno già nello
sviluppo assunto dalla metafisica nella storia della cultura occidentale dai
greci in poi.
La metafisica, infatti, pone la problematica dell’essere nella ricerca
65
dell’essere stesso nell’ente, identificando, in tal modo, l’essere con l’ente,
senza che poi sia possibile trovare un ente cui corrisponda l’essere. Da
sempre — ritiene Heidegger — la metafisica si è caratterizzata come un
discorso teoretico razionale (è logia) incentrato sull’ente in quanto ente (è
ontologia), il quale si conclude con l’emergenza del discorso su Dio (è teo-
logia): la metafisica ha una costituzione onto-teo-logica.
Qui preme a Heidegger, innanzitutto, mettere in evidenza il significato
del termine logia, che accompagna comunemente la denominazione delle
scienze, indicando in tal modo che l’esercizio del pensiero, che di solito si
considera scientifico, è sotto la formalità di tale logia: nel suffisso -logia non
si nasconde soltanto la logicità nel senso del discorso conseguenziale, ed in
special modo del procedimento predicativo, che ordina, dirige, assicura e
comunica il sapere scientifico. -Logia è rispettivamente (jeweils) la totalità di
una connessione fondante, in cui l’oggetto delle scienze viene rappresentato
e concepito in rapporto al suo fondamento.
Logia indica una modalità del pensare — che oggi è diventata la forma
più rigorosa e quindi la modalità per eccellenza del pensare — che parte da
rappresentazioni del reale, in cui l’ente è colto nella sua verità tramite la sua
oggettivazione ed è espresso mediante la proposizione. Sulla base delle
rappresentazioni, la logia è anche processo logico che, grazie al discorso
conseguenziale, determina le cause-ragioni che spiegano l’ente oggettivato,
per finire con un’immagine completa e sistematica dell’ente articolata
secondo connessioni fondanti che rapportano l’ente al suo fondamento ed è
così giustificato e assicurato dal pensiero e per il pensiero. In quanto
assicurato dalla ratio l’ente diventa disponibile alla tecnica.
La metafisica in quanto onto-teo-logia risponde alla modalità del
pensiero logico: l’ontologia e la teologia sono ‘logie’, in quanto cercano la
spiegazione dell’ente in quanto tale e lo fondano nella totalità. Esse danno
ragione dell’essere come fondamento dell’ente. Esse rispondono al ‘logos’
(Rede stehen = lo corrispondono) e sono essenzialmente logos-conformi,
logoiformi; sono cioè la logica del logos.
Per Heidegger il carattere logico della metafisica costituisce una sua
66
nota essenziale, già presente sin dall’inizio della sua storia. Tuttavia,
l’autentica natura e la portata di tale carattere, per quanto riguarda il
pensiero dell’ente, dell’essere e, quindi, di Dio, si manifesta esplicitamente
soltanto con la modernità.
Inoltre, il pensiero logico, nel senso sopra indicato, come modalità del
pensiero scientifico, non limita il suo campo di applicazione all’ambito delle
scienze nel senso stretto; è diventato invece la formalità del pensiero che
domina preponderantemente la cultura occidentale in tutti i campi.
La natura del pensiero logico può essere conseguentemente enunciata
in modo sintetico tramite il “principio di ragione” formulato da Leibniz con
l’espressione nihil est sine ratione. Heidegger ritiene che il principio ora
enunciato agiva già da secoli nel profondo della cultura dell’occidente, e in
modo particolare nella metafisica, anche se solo con Leibniz venne messo in
luce esplicitamente.
Infatti, secondo questo principio, si segnala che l’intelletto umano in
quanto tale, ovunque e ogni qualvolta è in attività, mira subito a scovare il
fondamento in base al quale ciò che gli capita di incontrare è così com’è. Il
principio leibniziano è un principio del pensiero in quanto svela cosa significhi
in generale conoscere e che cosa si debba ritenere conoscenza valida e
verità accettabile.
Ma il principio di ragione, perché principio del pensiero, è anche un
principio dell’ente, giacché per Leibniz e per tutto il pensiero dell’età
moderna, il modo in cui l’ente ‘è’ poggia sull’oggettività degli oggetti.
L’oggettività dell’oggetto per il rappresentare comporta l’essere
rappresentato degli oggetti, il che significa infine che qualcosa ‘è’, e cioè si
dimostra un ente, soltanto se viene enunciato in una proposizione che
soddisfa il principio di ragione.
Secondo la dimensione ontica — e ad un tempo noetica — il principio è
anche esplicitato secondo la formula principium rationis=nihil est sine
ratione seu effectus sine causa. La tesi del fondamento si presenta come un
principio nella misura in cui determina il riferimento a tutto ciò che è,
accomunando così i termini ratio e causa (nihil est sine ratione, nihil est sine
67
causa), in quanto è ente soltanto ciò che è rappresentato e quindi la
ragione, il fondamento, è qualcosa che va fornito all’uomo che rappresenta e
che pensa.
Tenendo presente che solo ciò che si presenta al nostro rappresentare,
che ci viene-incontro (be-gegnet) in modo tale da risultare posto, posato, sul
proprio fondamento, vale come qualcosa che sta in modo sicuro, che sta di
fronte, e cioè come un oggetto (Gegenstand), e quindi che soltanto di ciò
che sta in questo modo possiamo dire con certezza: esso è; allora all’interno
del pensiero rappresentante-fondante si compie il passaggio fino a Dio come
ultima ratio rerum. Detto in termini estremi, ciò significa: Dio esiste soltanto
in quanto la tesi del fondamento è valida, e viceversa.9
Ogni ente è ora o il reale come oggetto o il realizzante come
rappresentazione oggettivante in cui si costituisce la oggettività dell’oggetto.
La rappresentazione oggettivante, rappresentando, subordina l’oggetto
all’ego cogito. In questa remissione, l’ego cogito rivela ciò che è in base alla
sua attività (la subordinazione rappresentativa), cioè si rivela come
subjectum. Il soggetto è soggetto a se stesso. L’essenza della conoscenza è
l’autocoscienza. Ogni ente è dunque o oggetto del soggetto o soggetto del
soggetto. In entrambi i casi l’essere dell’ente consiste in una
rappresentazione che è un porsi-innanzi-a-se-stesso e quindi in un imporsi.
All’interno della soggettività dell’ente l’uomo assurge a soggetto della sua
stessa essenza. L’uomo si costituisce nell’in-sorgere. Il mondo si muta in
oggetto.10
Oggettivare significa porre qualcosa dinanzi al soggetto (ob-iectum,
Gegen-stand) in modo tale che l’ente così posto resta comprensibile,
disponibile e assicurato dal e per il soggetto che rappresenta.
Heidegger interpreta l’essenza del rappresentare in quanto imporsi alla
luce della dottrina di Nietzsche della volontà di potenza, la quale
costituirebbe lo stato finale dello sviluppo del rappresentare moderno,
manifestando la natura definitiva di ciò che si contiene nella logia, nella
misura in cui l’oggettivare presuppone la decisione che l’ente vale come ente 9 Cfr. M. HEIDEGGER, Il principio di ragione, Adelphi, Milano, 1991, pp. 17-50 10 Cfr. M. HEIDEGGER, La sentenza di Nierzsche “Dio è morto”, in Sentieri interrotti, cit., p. 235.
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solo in quanto diventa oggetto per un soggetto.
L’ultima conseguenza è affermata da Heidegger con tutta la sua
radicalità: questo rapporto fra soggetto e oggetto vale come l’unico ambito
in cui si decide in merito all’ente rispetto al suo essere, in cui si decide, cioè,
dell’essere, ma sempre e soltanto in quanto oggettività dell’oggetto, e mai
dell’essere in quanto tale giacché l’essere è l’indisponibile simpliciter. Il
principio di ragione è l’ambito in cui l’essere in quanto tale non appare, si
sottrae, si dimentica. Il primato della ratio che corrisponde alla logia
condiziona l’oblio dell’essere.11 L’appartenenza di ratio, onto-teo-logia e oblio
dell’essere determina il modo in cui l’essere si è destinato alla metafisica e
condiziona la sua storia.
Come è stato detto, Heidegger conduce la sua analisi seguendo le
indicazioni del pensiero moderno giacché solo nel mondo moderno tutto ciò
comincia a palesarsi come il destino (Geschick) della verità dell’essere
dell’ente nel suo insieme. Ovvero, con la modernità diventa chiaro il sostrato
essenziale che guidava sin dall’inizio la storiadestino del pensiero metafisico,
in modo tale che, nella misura in cui pensare significa rappresentare l’ente in
quanto ente (sia come idea, come sostanza, come ente creato ocome
oggetto), il pensiero metafisico è onto-logia e null’altro12, cioè non è mai
pensiero dell’essere. La metafisica rappresenta l’ente nel suo essere, e
pensa così anche l’essere dell’ente. Ma essa non pensa l’essere come tale,
non pensa la differenza tra l’essere e l’ente.13
Nella misura in cui l’epoca moderna è l’epoca della massima
sottrazione dell’essere, in essa si svela totalmente il destino nichilista
nascosto della metafisica occidentale. Heidegger non ha dubbi circa la
vicendevole appartenenza dei termini onto, teo e logia, affermando che la
metafisica è teo-logia perché è onto-logia. Essa è questa, perché essa è
quella. Il che significa che il Dio della metafisica poggia sul nichilismo.
Il Dio dell’onto-teo-logia è, quindi, il Dio dell’oblio dell’essere, un Dio
che è raggiunto cercando ragioni-fondamenti nell’ambito della ratio
oggettivante sottoposta all’io che rappresenta e controllata da lui; un Dio 11Cfr. HEIDEGGER, Il principio di ragione, cit., p. 100. 12 Cfr. HEIDEGGER, La sentenza di Nietzsche “Dio è morto”, in Sentieri interrotti, cit., p. 192. 13 Cfr. M. HEIDEGGER, Lettera sull’”umanismo”, in Segnavia, Adelphi, Milano, 1987, p. 276.
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che costituisce perciò la ratio definitiva, la giustificazione finale, la causa
ultima (Ur-sache), l’Ente sommo.14
La comprensione dell’essere richiede dunque il superamento del
pensiero metafisico.
2. L’Oblio dell’Essere come Prodotto del Pensiero Moderno
Tuttavia, nonostante l’estraniazione dell’uomo contemporaneo dalla
problematica dell’essere, non si deve pensare ad una assenza di essere
nell’epoca moderna, poiché la dimenticanza dell’essere da parte dell’uomo è
un modo di essere dell’essere stesso, dal momento che nulla, per
definizione, può essere estraneo all’essere stesso.
L’essere, tuttavia, no si manifesta mai, nelle varie epoche della storia
dell’uomo, nella sua assoluta compiutezza; esso si disvela parzialmente
all’uomo per poi oscurarsi, senza mais essere ricompresso nella razionalità
dell’uomo.
Il pensiero dell’essere non dipende dalla volontà o capacità dell’uomo,
ma dal rivelarsi dell’essere stesso e dal suo oscuramento successivo all’uomo
stesso.
Nell’ente uomo può essere compreso l’essere, ma l’ente uomo può
comprendere questo disvelamento/nascondimento dell’essere come modo di
essere dell’essere stesso.
Pertanto, l’essere, è presupposto all’ente medesimo che ne può
comprendere le determinazioni nella sua limitata contingenza temporale.
Infatti, per Heidegger, è la morte a rivelare l’essere del nostro esserci
(essere nel mondo), in quanto nella prospettiva della morte si acquisisce la
coscienza della finitezza dell’esserci, di quell’“essere gettato” nel mondo,
ossia nelle contingenze del tempo, del caso, della possibilità.
Quindi se l’essere si rivela nella nostra contingenza temporale, che si
esaurisce con la limitata finitezza della nostra esistenza, che dall’”essere
gettato” si risolve nel nulla, anche la temporalità, e con essa l’essere, è
nulla.
14 Cfr. M. HEIDEGGER, La concezione onto-teo-logica della metafisica, in Identità e differenza II, “Teoresi”, 1967, pp. 224-226.
70
L’essere è compreso dall’uomo attraverso i suoi disvelamenti e
oscuramenti subitanei e contingenti, senza che possono essere rintracciati
nel divenire storico i suoi fondamenti e i suoi presupposti, per poi
comprendere le problematiche relative alle singole fasi storiche.
Non è possibile, secondo la visione dell’essere di Heidegger,
comprendere la logica interna dell’essere, i suoi sviluppi e le sue evoluzioni
che formano poi anche la logica della storia stessa. È proprio la concezione
della temporalità di Heidegger a rappresentare l’essere nella stregua di
mistiche apparizioni limitate e finite, in una dimensione della temporalità
dell’uomo che si risolve nel suo nulla così come il tempo stesso.
Questa frammentazione dell’essere, la cui conoscenza è legata alla
dimensione temporale dell’ente, è forse di per sé contradditoria: se l’essere
è tale, in quanto è al di là di ogni sua determinazione, ma comunque la sua
manifestazione è possibile mediante il processo conoscitivo dell’ente, l’essere
stesso è tale in quanto è definito dalla soggettività dell’ente.
Heidegger rovescia la concezione della temporalità storica
dell’idealismo di Hegel. In Hegel la temporalità storica, che si svolge
all’interno di una concezione ontologica e veritativa dell’essere, è
caratterizzata da un vero e proprio accrescimento dell’essere, inteso come
svolgimento di una storia dialettica romanzata della coscienza umana e della
sua lotta per il riconoscimento.
In Heidegger, al contrario, la temporalità storica è lo scenario di un
impoverimento dell’essere. Tutto ciò ovviamente non è casuale, ma dovuto a
cogenti ragioni storiche.
Scrivendo agli inizi dell’Ottocento, Hegel è inserito in un momento
storico caratterizzato da un certo ottimismo sulla possibilità di mantenere le
più positive acquisizioni dell’Illuminismo.
Heidegger scrive a metà del Novecento, in un periodo in cui l’uomo
sembra aver perso il controllo sugli stessi prodotti della propria prassi (ed è
questo il profondo significato della Tecnica intesa come Dispositivo anonimo
ed impersonale, Gestell). La parabola esistenziale di questo filosofo è, infatti,
costellata dalla presenza di tutte le passioni e le catastrofi di un intero
71
secolo: (Veda Appendice 1).
Il termine Essere indica soprattutto permanenza, e più esattamente
permanenza di un’unità e di una totalità unitaria pensata astrattamente.
Questo termine non esclude il movimento ma lo subordina alla riproduzione
dei suoi elementi strutturali fondamentali.
Nella tradizione filosofica occidentale, il termine di Essere è collegato al
(probabilmente) pitagorico Parmenide di Elea e, quindi, collegato all’idea di
permanenza della comunità politica e sociale contro le forze dissolutrici
(metaforizzate con il termine di Nulla, o di assenza di essere). L’essere
rimanda quindi metaforicamente ad una legislazione comunitaria perfetta ed
immutabile di tipo pitagorico, che non deve essere mutata per non cadere
nel Nulla, metafora della dissoluzione della comunità.
La natura (Physis) era l’origine, la causa ed il principio di tutte le cose,
ed attraverso di essa era pensata l’unità ideale di macrocosmo naturale e di
microcosmo sociale.
Il termine Essere in Parmenide è già quindi a tutti gli effetti una
“ontologia dell’essere sociale”, nella forma della preservazione dell’unità
politica e comunitaria della polis contro le forze che potrebbero corromperla
e favorire la dissoluzione (in primo luogo il Potere del denaro, nella forma
della schiavitù per debiti).
Heidegger strappa il termine verità (aletheia), che effettivamente
significa etimologicamente “disvelamento”, dalla sua concreta genesi storica,
comunitaria e sociale (vero, infatti, è prima di tutto ciò che garantisce la
riproduzione comunitaria, e “falso” è ciò che porta alla sua distruzione).
Una volta effettuato questo strappo, l’intera filosofia greca diventa
incomprensibile.
Platone, esattamente come Parmenide, è prima di tutto un pensatore
politico, e non è un caso che il suo principale dialogo “dialettico” si chiama
Parmenide, in cui cerca di conciliare l’unità e la molteplicità superando la
primitiva formulazione della teoria delle idee ed i limiti della separatezza
assoluta degli universali collegati con il molteplice unicamente dall’imitazione
e dalla partecipazione.
72
In Platone, in modo ancora più chiaro che in Parmenide (ma sulla sua
scia) l’Essere è ad un tempo l’Uno, il Bene e il Giusto. È del tutto chiaro che
(a differenza di come sostiene Heidegger) il concetto di Essere è
integramente sociale, ed allude alla permanenza, sia pure all’interno del
movimento storico, di alcune strutture “eterne” di convivenza umana, in
primo luogo la società e la solidarietà.
Nel passaggio della filosofia antica al cristianesimo era inevitabile che
le caratteristiche dell’Essere (permanenza eterna dell’Uno e del Bene nella
società comunitaria) venissero trasferite al Dio dell’antico e del nuovo
testamento.
Heidegger ha perfettamente ragione a sottolineare che l’importanza
storica di Cartesio sta nell’essere stato il primo ad avere coscientemente
tradotto il concetto di verità da conoscenza riflessiva sull’Essere in certezza
del soggetto, o più esattamente in certezza delle rappresentazioni del
soggetto stesso.
Ma ha torno nel costruire una narrazione continua che parte da Platone
per sostenere le tesi che la lunga storia della metafisica occidentale,
coronata da Nietzsche e nella sua volontà di potenza, non è che una lunga
storia dell’oblio dell’Essere.
Se si vuole individuare un elemento paradigmatico nella filosofia e nel
pensiero moderno lo si può trovare nel ruolo centrale che acquista il dubbio,
come il thaumazein dei greci, la meraviglia di fronte a ciò che è, lo era stato
nei secoli precedenti, da Platone e Aristotele fino all’età moderna: così il de
omnibus dubitandum est di Descartes può essere considerato una risposta
ad una nuova situazione.
Nel periodo che va, indicativamente, dalla pubblicazione del De
rivoluzionibus (1543) di Copernico all’opera di Newton Philosophiae Naturalis
Principia Mathematica (1687) vengono abbattuti i pilastri della cosmologia
aristotelico-tolemaica, anche se progressivamente, dopo duri conflitti e
cambiano in modo radicale la visione del mondo, dell’uomo e del sapere.
Niccolò Copernico fa del Sole il centro del mondo, spodestando la Terra e i
suoi abitanti; Tyco Brahe, pur nel suo anticopernicanesimo, elimina le sfere
73
materiali, che avrebbero con il loro moto trainato i pianeti, sostituendole con
la moderna idea di orbita; Johannes Kepler perfeziona la matematica del
sistema copernicano e abbandona l’idea del moto circolare naturale e
perfetto della cosmologia aristotelica, per sostenere il movimento ellittico dei
pianeti; Galileo Galilei mostra, fra l’altro, con l’utilizzo di nuovi strumenti, la
falsità dell’antica distinzione fra fisica terrestre e fisica celeste. Tali sforzi per
comprendere la dinamica dell’universo confluiranno nella nuova visione
sistematica di Isaac Newton, alla cui opera dobbiamo ciò che venne poi
definita la “fisica classica” e che tanta influenza ebbe sulla società umana.
Durante i centocinquant’anni fra Copernico e Newton, insieme alla
nuova visione astrofisica del mondo e al farsi avanti di una nuova immagine
della scienza, che si caratterizza come sperimentale, come costruzione
sempre perfettibile, e insieme ai conseguenti cambiamenti nei metodi di
formazione, di ricerca e di lavoro nelle istituzioni scientifiche, mutano i
rapporti d’influenza fra i risultati della scienza e l’organizzazione sociale, le
relazioni fra scienza e filosofia, fra sapere scientifico e fede religiosa; in
conclusione: nulla rimane staticamente inalterato, nemmeno l’idea di uomo.
Hannah Arendt, allieva originale di Heidegger, riflette su tali questioni
in particolare in Vita activa e osserva che dalle scoperte di Galileo, ad
esempio, non consegue solamente una sfida alla testimonianza dei sensi, ma
in un certo senso alla ragione stessa, in quanto “non era la ragione ma uno
strumento artificiale, il telescopio, che praticamente cambiava la visione del
mondo fisico; non era la contemplazione, l’osservazione e la speculazione
che conducevano alla nuova conoscenza, ma l’attivo procedere dell’homo
faber, del fare e del fabbricare.15”
La metafora degli occhi della mente, nata dalla fiducia che i sensi nel
loro complesso, governati e tenuti insieme dal senso comune, mettano
l’uomo in rapporto veritiero con la realtà che lo circonda, s’infrange ora sulla
consapevolezza che la visibilità non costituisce prova di realtà, avendo
dimostrato il movimento della terra, percepita immobile dall’occhio umano.
In tale nuova consapevolezza si giunge a pensare che l’intelligibilità stessa
15 H. ARENDT, Vita activa: la condizione umana, intr. e cura di A. Dal Lago, Bompiani, Milano, 1991, 3ª ed., p. 203.
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del mondo potrebbe non costituire prova di verità; viene così messo in crisi il
concetto tradizionale di verità, il quale si fondava sul presupposto che ciò
che è si manifesti in modo adeguato alle facoltà umane.
In tal modo il dubbio cartesiano si dilata senza più argini: nessun
pensiero, nessuna esperienza vi si sottrae, si propaga dalla testimonianza
dei sensi alla testimonianza della ragione e a quella della fede. Nasce
l’ipotesi o l’incubo, che non solo la realtà possa essere sogno, ma che uno
spirito maligno inganni volutamente l’uomo.
Se, però, nell’età moderna l’uomo perde la certezza di verità, di realtà,
di fede, rimane, comunque, ferma la convinzione che, come scrive Descartes
in una lettera a Henry More, sebbene la nostra mente potrebbe non essere
la misura delle cose o della verità rimane sicuramente la misura delle cose
che affermiamo o neghiamo. Ovvero, anche quando ogni realtà diventa
dubitabile rimane la certezza del dubitare, che è un modo del pensare del
soggetto. Quando si dubita di qualcosa, si è consapevoli di un processo di
dubbio che si svolge nella coscienza, e, quindi, si confida, per
generalizzazione logica, che i processi che si attivano nella mente abbiano
una propria certezza e possano essere indagati introspettivamente.
L’essere umano dunque trova la propria certezza dentro di sé; nella
dissoluzione della realtà oggettiva in stati soggettivi della mente, riafferma
la possibilità di conoscere almeno ciò che fa da se stesso. Il senso comune
diventa una facoltà interna: ciò che gli uomini hanno in comune è la
struttura della mente, indipendentemente dalle relazioni con il mondo. Per
tali ragioni, a partire dall’età moderna, l’ideale più alto di sapere diventa la
matematica, non più intesa come conoscenza di forme ideali date, ma come
conoscenza di forme prodotte dalla mente stessa dell’uomo.
Questo interiorizzarsi del senso comune, in seguito alla dissoluzione
della realtà oggettiva in stati soggettivi della mente, permette di credere che
si diano ancora saperi universalmente comunicabili, quali appunto la
matematica e la logica, le scienze moderne per eccellenza. E, nei percorsi
che dalla modernità hanno condotto alla contemporaneità, dopo che anche i
sistemi della matematica non euclidea hanno trovato conferma nella teoria
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di Einstein, si è portati a concludere che qualunque costruzione della
La prima lezione dopo la prima guerra mondiale tenuta da Heidegger
ha per titolo L’idea della filosofia e il problema della visione del mondo. Il
giovane libero docente intende prendere parte, con questo ciclo di lezioni,
alla disputa intellettuale scatenatasi dopo la conferenza di Max Weber La
vocazione interiore alla scienza. Il fulcro della questione riguardava il
problema del rapporto tra etica e scienza. Weber proponeva una netta
separazione tra il possesso del mondo, da una parte, e il rispetto del mistero
della persona, dall’altra. Per il sociologo Dio poteva sopravvivere
esclusivamente nell’anima del singolo il quale, però, doveva essere
disponibile “a compiere il sacrificio dell’intelletto” e credere in lui. Di
conseguenza una fede che si confonde con la scienza, o peggio, che istaura
un rapporto di concorrenza con essa. Nel 1924 Heidegger tiene una
conferenza per i teologi di Marburgo sul tema Il concetto di tempo. Per la
prima volta propone un’interpretazione della temporalità alla luce della
particolare curvatura della mortalità “L’esserci […] sa della sua morte […] E’
un percorrimento dell’esserci che va al suo non più”. Questo “non più” non
rappresentava però semplicemente l’evento morte, ma piuttosto il “‘come’
del mio puro e semplice esserci”.17
Nel 1931 il filosofo tedesco è rapito filosoficamente da Platone e
partecipa, sulle tracce di quest’ultimo e sorretto da un senso nuovo di
responsabilità politica e sociale, alla distruzione della democrazia. La prima
metà del corso su Platone, tenuto nel biennio 1931-32, è dedicata
all’interpretazione del mito della caverna tratto dalla Repubblica. In tale
dialogo il senso della giustizia, come ci dice lo stesso Platone, è racchiuso nel
giusto equilibrio dell’anima, sia nell’uomo che nella polis. Tale equilibrio è
strettamente legato alla natura dell’anima stessa che è fatta, come il cosmo,
di puro essere il quale, semplicemente permanendo, è in opposizione con il
divenire. Per Heidegger invece non c’è alcun ideale ontologico della
persistenza. Occorre, dunque, interpretare il pensiero di Platone meglio di
quanto lo abbia fatto Platone stesso. Il risultato di questa interpretazione è 17 Cfr. M. HEIDEGGER, Il concetto di tempo, Adelphi, Milano, 1998, pp. 27-28.
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l’individuazione di una distanza che si interpone tra l’uomo e la sua
percezione del mondo e di sé stesso, poiché esiste una parte di entrambe
che si mostra e un’altra che si sottrae. Ciò significa che esiste uno spazio di
gioco in cui risiede la libertà dell’uomo. Tale distanza è chiamata da
Heidegger “apertura”. Se quest’ “apertura” non ci fosse l’uomo non potrebbe
distinguersi né da ciò che lo circonda, né da se stesso. Di conseguenza non
potrebbe neanche esserci.
La crisi imperversa in Germania e il coacervo di problemi in gioco
rappresenta, per la debole democrazia di Weimar, un nodo inestricabile.
Ispirato da Platone, Heidegger si unisce a quelle forze nelle quali scorge una
reale volontà di ricominciare. Per il filosofo l’avvento del partito
nazionalsocialista non è un fatto meramente politico, rappresenta un atto
nuovo nella storia dell’essere.
Il 20 aprile del ’33, il giovane professore viene eletto rettore
dell’università di Friburgo dalla riunione plenaria. Il 27 maggio è il giorno del
discorso di rettorato. Il tema di tale discorso è L’autoaffermazione
dell’università tedesca. In questa sede propone una metafora in cui la
scienza è intesa come una lotta infinita del sapere contro l’oscurità dell’ente.
Quindi l’università deve conformarsi al modello della truppa d’assalto e, di
conseguenza, deve essere rifiutata una volta per tutte la concezione di una
scienza come mezzo attraverso il quale dare sfogo alle vanità personali e
attraverso il quale fare carriera e soldi.
A causa degli intrighi interni alla gerarchia nazista e all’amarezza di
vedere disilluse le sue ambizioni di generare una vera rivoluzione spirituale
attraverso il nazionalsocialismo, nell’aprile del ’34 Heidegger si dimette dalla
carica di rettore. L’allontanamento dall’ambito politico per un ritorno nel
mondo dello spirito è sottolineato dal cambio del tema del corso estivo.
Questo doveva trattare il tema “Lo Stato e la scienza”, invece il filosofo, alla
prima lezione, comincia a parlare di logica.
Il filosofo, attraverso l’opera - L’epoca dell’immagine del mondo –
pubblicato nel secondo dopo guerra, tenta di rielaborare la sua delusione per
la mancata realizzazione sul piano politico della rivoluzione metafisica. Si
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adopera in una diagnosi del mondo moderno che, sempre più, si manifesta
ai suoi occhi come l’epoca della mobilitazione totale. Di tale processo, però,
il nazionalsocialismo non rappresenta più il momento di rottura. La
rivoluzione, anzi, ne diviene l’esito più coerente poiché, nel
nazionalsocialismo, brucia, più che mai, il furore della modernità che si
esplica attraverso l’inautenticità sotto forma di “mobilitazione totale”.
Nel successivo corso intitolato Nietzsche e il nichilismo europeo
(1937/1938) Heidegger propone un’interpretazione sorprendente della
sconfitta bellica francese. Per il filosofo, infatti, non erano più l’America e la
Russia le potenze avanguardia della “desolante frenesia della tecnica
scatenata”. Era la Germania che vinceva poiché si era abbandonata più
efficacemente alla mostruosità della tecnica.
Nel 1945, l’amministrazione militare francese pretende dall’università
di Friburgo l’epurazione di tutti gli elementi politicamente più compromessi.