A marriage of true minds: Nicola Chiaromonte e Melanie von Nagel. Nicola Chiaromonte 1 e Melanie von Nagel intrecciarono le loro vite nel 1957, poco prima che quest’ultima con il nome di Sister Jerome si ritirasse nel convento di Regina Laudis, presso Bethelem, piccola località della contea di Litchfield, in un angolo del Connecticut nord-occidentale. Il loro primo incontro avvenne a Roma, dove Melanie Nagel era in visita alla sorella minore, Ludovica, 2 per un ultimo soggiorno in Italia prima del suo ingresso come novizia nell’ordine benedettino. Fu proprio Ludovica Nagel – segretaria editoriale fra il 1946 e il 1948 all’Einaudi di Roma e di Milano dove ebbe modo di stringere amicizia con vari einaudiani 3 – a fornirne l’occasione. La più giovane delle tre sorelle Nagel – oltre a Ludovica, nata nel 1918, Melanie aveva un’altra sorella, Alexandra, nata nel 1913 – era infatti una buona amica di Nicola Chiaromonte e di sua moglie Miriam: ne frequentava regolarmente la casa di via Adda a Roma – viveva peraltro a pochi isolati di distanza – e aveva con loro in comune varie conoscenze e amicizie. Così come regolari erano gli scambi epistolari fra loro, quando la lontananza veniva a interrompere quella consuetudine: ne fanno fede le lettere di Chiaromonte conservate da Ludovica Nagel dove questi mostrava di seguirne premurosamente l’attività di traduttrice, aiutandola per quanto poteva con consigli e indicazioni. Quello fra Nicola Chiaromonte e Ludovica Nagel era almeno indirettamente un legame di lunga data. È in un certo senso possibile farlo risalire agli anni dell’esilio americano di Chiaromonte. Trasferitasi a New York nel 1948 – la madre delle sorelle Nagel, la statunitense Mabel Dillon Nesmith apparteneva a una importante famiglia newyorchese – Ludovica Nagel si era avvicinata alla comunità degli intellettuali italiani emigrati negli Stati Uniti durante il fascismo. Fu allora, a un ricevimento dell’Ambasciata italiana, che conobbe lo scrittore italo- russo Niccolò Tucci, certo una delle personalità più singolari di quegli ambienti, che le parlò per la prima volta di Chiaromonte. E in termini talmente entusiastici – Tucci aveva fatto parte del gruppo dei collaboratori di «politics» – da divenire da quel momento una assidua lettrice degli articoli che Chiaromonte, rientrato nel frattempo in Europa, andava pubblicando sulla «Partisan Review». Fu sempre Tucci – probabilmente – a favorire 1 Per la biografia di Nicola Chiaromonte (Rapolla, Potenza 1905 – Roma 1972) cfr. Gino Bianco, Nicola Chiaromonte e il tempo della malafede, Lacaita, Manduria-Bari-Roma 1999; Piero Craveri, Nicola Chiaromonte, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 24°, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma 1980; p. 600. Su Chiaromonte cfr. anche Goffredo Fofi -Vittorio Giacopini-Monica Nonno (a cura di), Nicola Chiaromonte, Ignazio Silone. L’eredità di «Tempo presente», Fahreneit 451, Roma 2000, in cui compaiono saggi su Chiaromonte di Goffredo Fofi, Vittorio Giacopini, Giancarlo Gaeta, Federica Bellincanta, Filippo La Porta, Marino Sinibaldi; cfr. la sezione dedicata a Chiaromonte nel numero di agosto/settembre 2011 di «Lo Straniero», a. XV, n. 134/135, Nicola Chiaromonte nel tempo della malafede con saggi di Federica Belllincanta, Marco Bresciani, Marco Cicala, Francesco De Core, Stefano Fedele, Goffredo Fofi, Giancarlo Gaeta, Vittorio Giacopini, Nicola Lagioia, Cesare Panizza, Gregory Sumner, Antonio Tricomi; Pietro Adamo, «La prima cosa è dire no!»: Nicola Chiaromonte tra ragione, storia e utopia, in Dedicato a Nicola Chiaromonte nel trentennale della morte, «Quaderni dell’Altra tradizione», Una città, Forlì 2002; Vittorio Giacopini, Nicola Chiaromonte: una solitudine senza isolamento in id., Scrittori contro la politica, Bollati Boringhieri, Torino 1999; Filippo La Porta, Le evidenze del mondo. Nicola Chiaromonte (1905-1972), in Maestri irregolari, Bollati Boringhieri, Torino 2007; cfr. le singole introduzioni ai volumi che raccolgono i suoi scritti: quella di M. McCarthy a Scritti sul teatro, a cura di Miriam Chiaromonte, Einaudi, Torino 1975; di Leo Valiani a Scritti politici e civili, a cura di M. Chiaromonte, Bompiani, Milano 1976; di Gustav Herling a Il tarlo della coscienza, a cura di Miriam Chiaromonte, Il Mulino, Bologna 1972; di Gene Pampaloni, Credere e non credere, Il Mulino, Bologna 1993 (prima edizione del 1971); di Wojciech Karpinski, Che cosa rimane. Taccuini 1955-1971, a cura di Miriam Chiaromonte, Il Mulino, Bologna 1995; di Stefano Fedele a Le verità inutili, a cura dello stesso Fedele, L’Ancora, Napoli 2001. 2 Debbo queste informazioni alla stessa Ludovica Nagel che ha condiviso con me questi e altri ricordi, mettendomi peraltro a disposizione le lettere inviatele da Nicola Chiaromonte. Debbo un inoltre un ulteriore doveroso ringraziamento anche all’avvocato luganese Giancarlo Viscardi che ha organizzato il nostro incontro, avvenuto nel suo studio legale il 9 ottobre 2012, a Lugano. 3 Qualche anno fa Carlo Ginzburg ha pubblicato con il titolo Lettere a Ludovica (Archinto, Milano, 2008) le lettere inviate a Ludovica Nagel da Cesare Pavese, Felice Balbo e Natalia Ginzburg.
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A marriage of true minds: Nicola Chiaromonte e Melanie von Nagel introduzione a Nicola Chiaromonte, Fra te e me la verità. Lettere di Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel, Fondazione
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A marriage of true minds: Nicola Chiaromonte e Melanie von Nagel.
Nicola Chiaromonte1 e Melanie von Nagel intrecciarono le loro vite nel 1957, poco prima che
quest’ultima con il nome di Sister Jerome si ritirasse nel convento di Regina Laudis, presso Bethelem, piccola
località della contea di Litchfield, in un angolo del Connecticut nord-occidentale. Il loro primo incontro avvenne
a Roma, dove Melanie Nagel era in visita alla sorella minore, Ludovica,2 per un ultimo soggiorno in Italia prima
del suo ingresso come novizia nell’ordine benedettino. Fu proprio Ludovica Nagel – segretaria editoriale fra il
1946 e il 1948 all’Einaudi di Roma e di Milano dove ebbe modo di stringere amicizia con vari einaudiani3 – a
fornirne l’occasione. La più giovane delle tre sorelle Nagel – oltre a Ludovica, nata nel 1918, Melanie aveva
un’altra sorella, Alexandra, nata nel 1913 – era infatti una buona amica di Nicola Chiaromonte e di sua moglie
Miriam: ne frequentava regolarmente la casa di via Adda a Roma – viveva peraltro a pochi isolati di distanza – e
aveva con loro in comune varie conoscenze e amicizie. Così come regolari erano gli scambi epistolari fra loro,
quando la lontananza veniva a interrompere quella consuetudine: ne fanno fede le lettere di Chiaromonte
conservate da Ludovica Nagel dove questi mostrava di seguirne premurosamente l’attività di traduttrice,
aiutandola per quanto poteva con consigli e indicazioni.
Quello fra Nicola Chiaromonte e Ludovica Nagel era almeno indirettamente un legame di lunga data. È
in un certo senso possibile farlo risalire agli anni dell’esilio americano di Chiaromonte. Trasferitasi a New York
nel 1948 – la madre delle sorelle Nagel, la statunitense Mabel Dillon Nesmith apparteneva a una importante
famiglia newyorchese – Ludovica Nagel si era avvicinata alla comunità degli intellettuali italiani emigrati negli
Stati Uniti durante il fascismo. Fu allora, a un ricevimento dell’Ambasciata italiana, che conobbe lo scrittore italo-
russo Niccolò Tucci, certo una delle personalità più singolari di quegli ambienti, che le parlò per la prima volta di
Chiaromonte. E in termini talmente entusiastici – Tucci aveva fatto parte del gruppo dei collaboratori di
«politics» – da divenire da quel momento una assidua lettrice degli articoli che Chiaromonte, rientrato nel
frattempo in Europa, andava pubblicando sulla «Partisan Review». Fu sempre Tucci – probabilmente – a favorire
1 Per la biografia di Nicola Chiaromonte (Rapolla, Potenza 1905 – Roma 1972) cfr. Gino Bianco, Nicola Chiaromonte e il tempo
della malafede, Lacaita, Manduria-Bari-Roma 1999; Piero Craveri, Nicola Chiaromonte, in Dizionario biografico degli italiani, vol.
24°, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma 1980; p. 600. Su Chiaromonte cfr. anche Goffredo Fofi-Vittorio Giacopini-Monica
Nonno (a cura di), Nicola Chiaromonte, Ignazio Silone. L’eredità di «Tempo presente», Fahreneit 451, Roma 2000, in cui compaiono
saggi su Chiaromonte di Goffredo Fofi, Vittorio Giacopini, Giancarlo Gaeta, Federica Bellincanta, Filippo La Porta, Marino
Sinibaldi; cfr. la sezione dedicata a Chiaromonte nel numero di agosto/settembre 2011 di «Lo Straniero», a. XV, n. 134/135, Nicola
Chiaromonte nel tempo della malafede con saggi di Federica Belllincanta, Marco Bresciani, Marco Cicala, Francesco De Core,
Tricomi; Pietro Adamo, «La prima cosa è dire no!»: Nicola Chiaromonte tra ragione, storia e utopia, in Dedicato a Nicola
Chiaromonte nel trentennale della morte, «Quaderni dell’Altra tradizione», Una città, Forlì 2002; Vittorio Giacopini, Nicola
Chiaromonte: una solitudine senza isolamento in id., Scrittori contro la politica, Bollati Boringhieri, Torino 1999; Filippo La Porta,
Le evidenze del mondo. Nicola Chiaromonte (1905-1972), in Maestri irregolari, Bollati Boringhieri, Torino 2007; cfr. le singole
introduzioni ai volumi che raccolgono i suoi scritti: quella di M. McCarthy a Scritti sul teatro, a cura di Miriam Chiaromonte,
Einaudi, Torino 1975; di Leo Valiani a Scritti politici e civili, a cura di M. Chiaromonte, Bompiani, Milano 1976; di Gustav Herling
a Il tarlo della coscienza, a cura di Miriam Chiaromonte, Il Mulino, Bologna 1972; di Gene Pampaloni, Credere e non credere, Il
Mulino, Bologna 1993 (prima edizione del 1971); di Wojciech Karpinski, Che cosa rimane. Taccuini 1955-1971, a cura di Miriam
Chiaromonte, Il Mulino, Bologna 1995; di Stefano Fedele a Le verità inutili, a cura dello stesso Fedele, L’Ancora, Napoli 2001. 2 Debbo queste informazioni alla stessa Ludovica Nagel che ha condiviso con me questi e altri ricordi, mettendomi peraltro a
disposizione le lettere inviatele da Nicola Chiaromonte. Debbo un inoltre un ulteriore doveroso ringraziamento anche all’avvocato
luganese Giancarlo Viscardi che ha organizzato il nostro incontro, avvenuto nel suo studio legale il 9 ottobre 2012, a Lugano. 3 Qualche anno fa Carlo Ginzburg ha pubblicato con il titolo Lettere a Ludovica (Archinto, Milano, 2008) le lettere inviate a
Ludovica Nagel da Cesare Pavese, Felice Balbo e Natalia Ginzburg.
la loro conoscenza diretta, avvenuta nel 1954 o ’55, allorché Ludovica Nagel tornò a vivere in Italia, trasferendosi
nuovamente a Roma.
Una curiosità quella per il mondo degli intellettuali europei in terra americana – che aveva peraltro nella
casa di Tucci uno dei suoi punti di connessione principali – e per gli autori e le riviste “liberal” americane,
non del tutto condivisa dalla sorella maggiore Melanie, trasferitasi per prima negli Stati Uniti subito dopo la fine
del conflitto, con l’intento di salvare quanto rimaneva del patrimonio familiare. L’aveva raggiunta in un momento
in cui certo non era ancora agevole viaggiare, il pittore Halil-beg Mussayassul (1896), sposato a Monaco di
Baviera, città in cui Melanie aveva trascorso i primi anni di vita, nel 1944. Rifugiatosi in Germania dall’Unione
Sovietica, era questi appartenente a una piccola minoranza etnica, gli Avari del Caucaso, popolazione
mussulmana abitante perlopiù le alture del Daghestan. Alcuni suoi quadri – il cui soggetto era spesso
rappresentato da scene di vita della terra natale rese attraverso vivaci accostamenti cromatici – sono oggi esposti
al Metropitan Museum di New York.
Chiaromonte e Melanie von Nagel vissero dunque simultaneamente – ancorché per pochi anni – senza
conoscersi, nella stessa città, nella New York dell’immediato dopoguerra, dove erano giunti entrambi, per ragioni
e in momenti differenti, con la speranza di ricomporvi un’esistenza lacerata dalle traversie vissute durante la
guerra. Era un primo punto di incontro fra percorsi biografici in verità molto diversi, per contesti sociali e
precedenti esperienze di vita. Per farsene un’idea, basti pensare alle rispettive origini famigliari, al fatto che
Melanie von Nagel, per parte di padre, apparteneva all’aristocrazia bavarese, mentre Chiaromonte proveniva da
una famiglia certo non di estrazione popolare – il padre, Rocco, era medico chirurgo – ma tutt’altro che di
condizione “agiata”, e che per consolidare la propria condizione sociale aveva affrontato l’esperienza della
migrazione interna, trasferendosi dalla campagna lucana – i Chiaromonte erano originari del potentino – alla
capitale, dove Nicola aveva trascorso tutta la sua giovinezza, pur rimanendo legatissimo nel ricordo alla terra
natale.
Non sarebbe però neppure soddisfacente affermare semplicisticamente che la loro affinità risiedesse
nell’essere stati entrambi gravemente offesi negli affetti più cari dalla Storia. Le sorelle Nagel furono infatti
private ancora nell’infanzia del padre, il generale maggiore Karl Freiherr von Nagel zu Aichberg,
comandante del primo reggimento della cavalleria pesante bavarese, ucciso il primo maggio 1919, nei
combattimenti che a Monaco posero fine alla breve esperienza della Repubblica dei Consigli. Un dolore a cui nel
caso di Melanie si aggiunse successivamente quello per la morte naturale – per una cardiopatia– ma precoce, del
marito, nel 1949, alla cui travagliata malattia non fu forse estranea la nostalgia per la terra d’origine. Una vicenda
che può ricordare quella ben più drammatica vissuta da Chiaromonte in occasione della morte della prima
moglie, la pittrice Annie Pohl, che minata nel fisico dalla tubercolosi non resistette alla fuga precipitosa verso il
sud della Francia cui la coppia fu costretta al momento dell’invasione tedesca del giugno 1940. Un dolore
straziante – «non ho mai osato chiederglielo, ma so per certo, da un suo amico, che ha dovuto scavarle lui stesso
la fossa» scrisse Mary McCarthy4 – che si andava sommando a quelli procuratigli dall’esilio. Esperienze dunque
traumatiche purtroppo però – non dimentichiamolo – certo non eccezionali per la loro generazione.
4 Mary Mc Carthy, Nicola l’utopista in Nicola Chiaromonte, Lettere agli amici di Bari, Schena, Fasano, 1995; pag. 13.
La loro affinità stava semmai su un piano più profondo, come sembra emergere dalle lettere che qui
pubblichiamo, nelle forme in cui avevano rielaborato quelle esperienze: entrambi – per dirla con Chiaromonte –
erano stati duramente messi alla prova dalla vita e avevano appreso l’insegnamento a vivere per il senso delle
cose e non per la loro apparenza, «giacché solo ciò che dura vale la pena di essere perseguito e rispettato».5 Da
tante traversie era derivato poi ad entrambi anche uno spirito fortemente cosmopolita, nutrito da una
inestinguibile curiosità intellettuale. In Melanie Nagel quasi naturalmente, per effetto del carattere transnazionale
della sua famiglia – conosceva e parlava cinque lingue (inglese, tedesco, francese, italiano e russo) – e dell’aver
risieduto fin dall’infanzia in paesi diversi, fra cui e a lungo l’Italia – aveva trascorso gran parte della giovinezza in
Toscana, dove le sorelle Nagel vivevano in località Castello, vicino Firenze, in una villa signorile lungo lo
stradone per Sesto Fiorentino; in Chiaromonte invece come adattamento a quella sensazione di sradicamento che
sempre lo accompagnava, l’impressione di essere ovunque – anche una volta ritornato a Roma – “fuori luogo” e
“senza patria”, dovuta a un vissuto così tragicamente segnato da un duplice esilio, dall’Italia e poi dall’Europa.
È così probabile che nel 1957, quando le forti passioni che le divisioni politiche e culturali di quegli anni
avevano suscitato in lui durante la giovinezza si erano ormai stemperate, Chiaromonte abbia riconosciuto
nell’accidentato percorso di Melanie Nagel – pur così differente dal suo – il segno di uno stesso destino.
Quell’incontro, ancora “mondano”, non cioè come i successivi al riparo del chiostro, lasciò in entrambi
una profonda impressione che sorprese e colpì anche Ludovica Nagel – e forse un certo turbamento emotivo –,
ma almeno per il momento non diede luogo a quella assiduità epistolare che caratterizzerà invece i loro successivi
rapporti a distanza.6 Stando alla contabilità della stessa Melanie von Nagel, infatti, dal 1957 al 1966, Chiaromonte
le inviò appena 38 lettere, mentre stimava di averne ricevute dal 1967 al gennaio del 1972 più di 600, per una
media di 120-125 lettere all’anno, più o meno cioè una ogni tre giorni!7 E probabilmente altrettante furono quelle
spedite da Melanie – come suggerisce la struttura appunto dialogica delle lettere che qui pubblichiamo e un
esplicito accenno di Chiaromonte8 – il che presuppone l’abitudine a rispondere alle lettere dell’altro
immediatamente, senza lasciar passare nemmeno un giorno, per non interrompere la bramata «conversatio». Un
ritmo più serrato è difficilmente immaginabile.
A dare l’abbrivio a questo dialogo epistolare pressoché quotidiano fu un nuovo incontro – o forse più
probabilmente una serie di incontri – avvenuto appunto alla fine del 1966, quando Chiaromonte insieme alla
moglie Miriam trascorse un lungo periodo di lavoro negli Stati Uniti. Aveva infatti accettato l’invito rivoltogli
dall’Università di Princeton – distante poco più di 250 chilometri dal Regina Laudis – a tenere una serie di lectures
sul rapporto fra l’individuo e la storia. Ne nacque The paradox of history, l’unico libro non antologico di
Chiaromonte (sebbene sia anch’esso in parte un montaggio di testi precedenti), che nella successiva versione
italiana avrebbe avuto per titolo Credere e non credere.
5 Lettera di Nicola Chiaromonte a Melanie Nagel del 30 luglio 1969; cfr. infra pag. 6 Si veda per es. quanto scrive a proposito di cosa avesse significato per lui la conoscenza di Melanie: «Ricordo certe mattine d'aprile
a Villa Borghese – solo – una gioia impossibile: l'universo intero mi entrava nell'animo e io non riuscivo a farcelo stare – era
"incontenibile", letteralmente.
Ebbene, direi che questa facoltà – o capacità – creduta tante volte perduta per sempre, ogni tanto è tornata e l'ultima volta per te,
grazie a te – molto "grave" questa volta – e grazie a te, per te, durevole. È bello assai». Lettera dell’8 settembre 1967. 7 Vedi lettera di Melanie von Nagel a Miriam Chiaromonte del 19 maggio 1980; pag. 8 Lettera del 7 luglio 1967
Tutti gli indizi contenuti nel carteggio – per quanto chi scrive, come il lettore, non abbia potuto leggere
che una selezione delle lettere di Chiaromonte e nessuna invece di quelle scritte da Melanie Nagel – fanno
pensare che quell’incontro sia stato per tutti e due straordinariamente coinvolgente.9 In esso si strinse un vincolo
reciproco fortissimo, un desiderio prepotente di condivisione intellettuale e umana – nel rispetto assoluto della
situazione molto particolare di entrambi – esteso nei suoi aspetti affettivi anche a Miriam Chiaromonte.
Si trattò di una conversazione ininterrotta – nonostante la lontananza, ma che di quella lontananza si
sarebbe in fondo alimentata –, di un vero e proprio «marriage of true minds»10 come la definì lo stesso
Chiaromonte citando un sonetto di Shakespeare.
Possiamo immaginare che entrambi si siano sentiti legati da un’affinità elettiva, solo ora pienamente
confessabile l’uno all’altro – con il chiostro e l’età infondo a difesa dalla forza di quel sentimento –, dalla
subitanea consapevolezza di aver trovato l’uno nell’altro – in un altro così estraneo socialmente, e così diverso
culturalmente e per scelte di vita – uno spirito in grado di offrire la possibilità di una condivisione totale. E
quindi con cui in prospettiva costruire un luogo in cui comunicare nella certezza di essere compresi, al riparo
dallo scorrere del tempo e dalla volgarità del mondo.
Questo luogo è quel giardino di Paros così spesso evocato da Chiaromonte nelle sue lettere e che fu
probabilmente al tempo stesso un angolo reale del convento di Regina Laudis, dove Melanie Nagel coltivava le
piante officinali per quegli infusi che premurosamente raccomandava e inviava ai coniugi Chiaromonte, e un
luogo immaginario, dell’anima, l’unico in cui potesse darsi un dialogo che si voleva sospeso nello spazio e nel
tempo, dove si potesse manifestare liberamente il logos che vivificava la loro relazione.
«Tu mi dici tante cose, e così "giuste" di te e di noi – e mi parli, di quest’“opera comune” che dovrebbe
compiersi. Io non faccio che pensare a questo – attraverso te – e a te attraverso questo interrogativo che è
l’esistenza nostra. Ma è possibile "compiere" una tal cosa? Non è forse compiuta ogni volta che tu mi parli e che
una mia parola ti tocca davvero? Si può davvero sperare di più? Non sarebbe troppo? Non so. So che nulla mi
basta. Ma tu sì».11
Amor platonico, certo, eros come procedimento razionale e unione amorosa nella ricerca. Non a caso
Platone – che Chiaromonte rileggeva incessantemente e che ebbe premura di far “scoprire” o riscoprire a
Melanie Nagel – ricorre spesso in queste lettere, quasi costituisse un naturale punto di incontro fra loro,
trattandosi di tenere insieme indagine razionale e linguaggio poetico, riconoscimento del divino nel mondo e
ostinata ricerca di una verità umana. Ma nel senso corretto in cui quella espressione va intesa, certo non di una
relazione disincarnata si trattava, ovvero di una relazione completamente appagata dalla pura dimensione
intellettuale. Giacché, almeno per Chiaromonte, essa soffriva dell’impossibilità della compresenza fisica,
9 Ve ne è conferma anche nelle lettere di Chiaromonte a Ludovica Nagel che quest’ultima mi ha concesso di leggere. In esse si
registra un profondo mutamento di prospettiva rispetto alla monacazione di Melanie in seguito a quell’incontro. Pochi mesi prima di
partire per l’America infatti Nicola aveva scritto a Ludovica di «ammirare» la scelta di Melanie, ma di non poterla in fondo
considerare «giusta» giacché nata dal rifiuto di «riconoscere che di mondi ce n’è uno solo». Lettera di Nicola Chiaromonte a
Ludovica Nagel del 30 aprile 1966. 10 Lettera di Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel del 30 marzo 1967, cfr. infra pag. 11 Lettera di Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel del 21 maggio 1967, cfr. infra pag…
compensata a stento dalle reciproche effusioni o premure, come quei piccoli oggetti o fiori o quelle immagini che
accompagnavano le loro lettere.12 La scrittura era per lui solo un «Ersatz di un Ersatz».13
«Ma, ora, subito, col rammarico anzi di queste poche righe e pochi momenti frammessi, devo dirti che
doni come la lettera che mi è giunta stamane – pochi minuti fa – sono così grandi – quasi insperati – eppure
proprio quello che da te aspetto e di te so. Tessute del tuo essere più bello e più forte (vorrei dire anche "più
altero" – comunque più nobile) sono le tue parole. E mi fai paura quando dici della tentazione che hai avuta, di
strapparla, una tale lettera! Perché? Sai, anch'io vorrei a volte dirti molto più di quello che dico – lasciarmi andare
al trasporto irresistibile verso di te che è diventato come il mio fuoco interiore. Non lo faccio perché so che tu
senti nelle mie parole tutto quello che c'è – e anche un po’ per un certo sentimento che ho di ritegno quasi direi
"rituale" o forse la parola giusta sarebbe "cortese" […] è questo sentimento "cortese" che ho verso di te che mi
trattiene dalle effusioni – le lascio alla tua grazia – perché tu sai trovare la misura nello slancio, e nel tuo slancio
c'è un'infinita "cortesia" appunto e gentilezza».14
Desiderio inappagato di assoluta condivisione che dunque come nell’amor cortese si alimentava della sua
stessa irrealizzabilità – proiettando la donna amata in una sfera quasi inattingibile – «creatura di grazia venuta a
me per grazia»15 – sottratta dalle mura del chiostro allo sguardo del mondo – e divenendo per questa sua stessa
natura percorso di elevazione spirituale.16 E tale era per Chiaromonte che non a caso sosteneva che le parole di
Melanie generassero in lui la sensazione di essere in presenza di qualcosa di numinoso, quasi respirasse l’aria di
Cuma, di Delfi,17 mentre l’atto dello scriverle assumeva i caratteri del «rito» di purificazione, preceduto da «delle
abluzioni morali».18 Purificazione dalle volgarità del mondo – dal «fango» – ma anche premura nei confronti di
“Mushka”, il soprannome datole in famiglia con cui egli le si rivolgeva abitualmente a sottolineare non solo
l’intimità di un rapporto, intonato innanzitutto a dolcezza, ma anche la consapevolezza della fragilità – quasi
infantile – di una creatura siffatta.19 E quindi a conferma di una intenzione amorevolmente protettiva, che si
spingeva fino a desiderare di sollevarla dal peso del suo stesso vissuto,20 nonostante Melanie – divenuta sister
Jerome – avesse fornito l’esempio di una totale radicalità nelle proprie scelte di vita di fronte alla quale talvolta
12 Si veda per es. l’incipit della lettera datata 11 marzo 1967: «Mushka carissima, tu mi dici delle cose che mi fanno tremare (di gioia
– ma anche come di una ribellione di tutto l'essere alla distanza che ci separa – tanto la parola scritta finisce per parermi
insufficiente)». cfr. infra pag… 13 Lettera di Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel del 4 aprile 1967, cfr. infra pag… 14 Lettera di Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel del 18 gennaio 1968, cfr. infra pag… 15 Lettera di Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel del 3 aprile 1968, cfr. infra pag… 16 «Sì, è vero, solo perché tu sei monaca è possibile sentire l’uno verso l'altro come sentiamo e parlarci come ci parliamo. Ma, per
me, la tua veste di monaca è veste regale – davvero». Lettera di Nicola Chiaromonte e Melanie von Nagel del 18 gennaio 1968, cfr.
infra pag. 17 Lettera di Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel del 23 giugno 1967, , cfr. infra pag… 18 Lettera di Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel dell’8 aprile 1967, cfr. infra pag. 19 In una lettera a Ludovica Nagel, del 17 aprile 1967, successiva al loro incontro a Bethelem, Chiaromonte scrisse: « Il mondo
“civile” essendo quello che è, dove potrebbe un essere raro come Mushka trovare rifugio e protezione, insomma il minimo per vivere
senza essere continuamente ferita e senza sentirsi continuamente “oltraggiata”? Questa è la domanda che mi faccio ogni giorno da
quando vidi sua sorella lassù, in quella specie di deserto, ma che appunto per questo, forse, lei sente come un rifugio». Il concetto è
ribadito sempre a Ludovica Nagel qualche anno dopo, al ritorno dal suo ultimo soggiorno negli Stati Uniti, in una lettera dell’8 marzo
1970. «Le assicuro, cara Ludovica, che io non giungo a nessuna conclusione sicura su Mushka. È un essere così singolare, delicato e
difficile. Ma il fatto è che io non vedo, proprio non vedo, dove Mushka potrebbe trovare rifugio e protezione. Certo io (e parecchie
altre persone penso) farei il possibile e l’impossibile. Ma il mondo d’oggi è semplicemente nemico, questo è il fatto» 20 Nella lettera datata 3 aprile 1967, (cfr. infra pag. ) Nicola le scriveva dopo aver letto una sua lettera piena di preoccupazioni e
tristezze di aver pensato doverle dire «che la sua vita così semplice e spoglia è bene sia accompagnata da pensieri e cure altrettanto
semplici e spogli. Più libera sarà dal passato e dai suoi pesi, più leggera sarà e più pronta ad accogliere i doni che le verranno dal
futuro, e specialmente dalla poesia, così come lei l'intende» ma di non avere lui – così travolto dalle preoccupazioni del mondo –
diritto a darle un simile consiglio.
Chiaromonte provava soggezione.21 «C'è in Mushka qualcosa che io non ho ancora ben capito, ben visto – ben
conosciuto. Ha a che fare con la sua natura ‘imperiosa’ – con un orgoglio segreto, con quello che lei mi dice dei
momenti in cui si sentiva ‘più grande di se stessa’ – qualcosa di veramente singolare – anzi singolo. Bisogna che
lo capisca meglio – che la senta meglio – prima di poter dire qualunque cosa».22 Un mistero quello della natura
numinosa di Mushka che si poteva sciogliere solo nella dimensione poetica. «Sì, lo sento, quel che c'è di
misterioso in te – e non c'è dubbio che viene da qualcosa di ancestrale: antiche correnti… Ma non so parlarne.
So solo che è la tua natura più profonda e più incantevole. Parla nelle tue poesie, si esprime nei moti della tua
persona, e in questo gran dono che mi fai parlandomi. C'è qualcosa di un po' terribile – sì – come in una figura di
antiche saghe – o in una statua arcaica – in un immagine di mosaico, tutta splendida e impenetrabile».23
Se è vero che entrambi erano l’una lo specchio dell’altro, nutrimento e complemento spirituale («mi porti
quello che mi manca» scriveva Chiaromonte),24 è anche vero che mentre Mushka era il rifugio di Nicola dal
secolo, dalla stupidità e dalla violenza, sperimentate quotidianamente – e da quella paura dell’insensatezza del
mondo, e della morte, che vi si affacciava – Nicola era l’unico o almeno il principale sguardo – «vedo – cerco di
vedere – le cose con gli occhi tuoi e di fartele vedere attraverso i miei» 25 – profondo e acuto quanto protettivo
– che Melanie conservasse sul mondo esterno. Perché Melanie – come testimonia anche il suo riferirsi –
nell’identità scelta all’atto dei voti – a Girolamo, esempio di perfezione monastica, ma anche grande intellettuale e
primo traduttore della Bibbia in latino – non sembrava intendere la ricerca di Dio – e la conoscenza di se stessa –
come rinuncia a comunicare con il mondo. Il silenzio del chiostro – la ricerca dell’armonia spirituale nella
contemplazione della bellezza e nell’ascesi – era infatti per lei la condizione per l’esistenza stessa del giardino di
Paros, ove ritrovare il vero significato delle parole e ristabilire la possibilità stessa di una comunicazione
significativa con l’altro – la «parola alata» – nella ricerca della verità e dell’essenzialità delle cose. Era questo il
«lavoro comune» cui Chiaromonte e Melanie Nagel si accingevano insieme, ciascuno nelle forme che gli erano
proprie, che nel caso della seconda erano innanzitutto rappresentate dalla creazione artistica e dal linguaggio
poetico, una dimensione invece negata a Chiaromonte26 (successivamente alla morte di Chiaromonte Melanie
Nagel ha pubblicato alcune raccolte di poesie per una piccola editrice del Maine).27
Non dobbiamo pertanto stupirci che Chiaromonte – lui, l’autore del Gesuita – vedesse nella scelta della
vita monacale operata da Mushka una strada in fondo non così diversa da quella che egli stesso aveva cercato di
percorrere. Vi leggeva infatti un gesto di ribellione, a suo modo un atto di genuina “eresia” – anche se
21 Nella lettera del 28 marzo 1966 (cfr. infra pag. )Chiaromonte pensando a Melanie Nagel cita significativamente un passo di
Gregorio di Nazianzio in onore di Basilio che recita «tu solo ci desti l'esempio di una vita eguale alle tue parole, e di parole eguali
alla tua vita» 22 Lettera di Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel del 3 aprile 1967, cfr. infra pag. . 23 Lettera di Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel del 3 aprile 1967, cfr. infra pag. 24 Lettera di Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel 23 giugno 1967, cfr. infra pag. 25 Lettera di Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel 21 giugno 1968, cfr. infra pag. 26 «Dopodiché dirò che molto manca a me la possibilità di parlarti in poesia. Sarebbe l'unico modo di dirti certe cose che altrimenti
non arrivo neppure a formulare: cose che sento di te fortissimamente. Ma dette "in prosa" non avrebbero nessun valore –
diventerebbero cattiva "psicologia" (e io alla "psicologia" non ci credo affatto) oppure "filosofemi" – considerazioni astratte. Ma non
posso darti che quello che ho – e spero di poterti dare almeno qualcosa di meglio che "filosofemi": dei pensieri ben formati – e questi
– come la poesia – non c'è bisogno che siano "personali"». Lettera di Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel del 4 aprile 1967, ,
cfr. infra pag… 27 Things that Surround Us, Puckerbrush Press, Orono (Maine) 1987; Elements, Puckerbrush Press, Orono (Maine), 1990; Letters to
the interior, Puckerbrush Press, Orono (Maine), 1996. Subito dopo la Seconda guerra mondiale Melanie Nagel aveva anche
pubblicato un libro di racconti, Das gelbe Haus, Krüger, Hamburg, 1946.
paradossalmente consumato all’ombra dell’ortodossia cattolica –, perché nato dal rifiuto di accettare il mondo
così com’è.28 Significativamente, a Ludovica Nagel, dopo il loro incontro a Bethelem, scrisse della scelta di sua
sorella in questi termini: «Come una donna così impetuosa, così ricca d’affetti, così fremente, possa essersi ridotta
in prigionia volontaria, credo non lo si possa capire altro che pensando a quello che Mushka soffrirebbe se dovesse
vivere una vita “normale” (ossia normalmente schiava) in una qualunque delle metropoli occidentali».29 Una scelta che gli
ricorda – istituendo un accostamento per tanti versi apparentemente sorprendente e quasi iconoclastico – quella
a suo tempo compiuta dal suo «unico maestro» Andrea Caffi, ma portata avanti con una diversa forza d’animo e
con più consequenzialità, senza cioè quel lasciarsi andare dovuto allo «scoraggiamento» e all’«isolamento»,30 che
nel ricordo ora in fondo gli sembrava ne caratterizzasse la personalità.
In questo senso, la sua relazione a distanza con Melanie Nagel assumeva – almeno per Chiaromonte –
anche un valore implicitamente politico – se per politica intendiamo platonicamente – come intendeva
Chiaromonte – quell’arte che ha cura della salute dell’anima e che preso atto, come l’antico filosofo ateniese nella
Lettera VII, dell’impossibilità nell’immediato di dare alla società un ordinamento giusto concentra la propria
azione nella “paideia”, nella ricerca associata e nell’educazione reciproca. Come Caffi, anche Melanie31 sembrava
infatti credere che ogni speranza dovesse essere riposta nella creazione di comunità per lo più informali, la cui
legge fosse agire come se la società fosse regolata secondo giustizia e i cui aderenti dessero prova di condividere
una rinnovata socievolezza. Tali associazioni, che per Chiaromonte non abbisognavano appunto di una
dimensione organizzata, né tantomeno più di segretezza, avrebbero rappresentato gli agenti di umanizzazione di
un universo sociale a parere di entrambi ormai sconvolto da quella «disintegrazione dell’atomo umano»32 fatale
prodotto di forze che la civiltà stessa aveva suscitato nell’illusione di poterle addomesticare nel nome del
“progresso”. Costituite di quei pochi devoti che “vi si riconosceranno, vi si ritroveranno e raggrupperanno”33 –
non perché pensassero la ricerca della verità fosse appannaggio di una élite, ma perché le condizioni di quella
ricerca lo disponevano necessariamente – esse offrendo un punto di resistenza alla brutalità e alle violenza di un
mondo ormai interamente “meccanizzato” e “fuori misura”, avrebbero atteso – inconsapevolmente? – a indicare
di nuovo «le proporzioni giuste»34 alla società. Per tale ragione la loro azione avrebbe dovuto avere per terreno di
elezione non la politica e neppure in un certo senso la cultura, ma le strutture profonde – se così possiamo dire –
della vita associata, ciò che innanzitutto tiene assieme gli uomini: la religione – nel senso dell’insieme dei valori e
delle idee credute e accettate per vere – e il linguaggio – ossia «il mondo della parola» «l’unico pienamente umano
28 Si veda per es. un passo della lettera di Chiaromonte del 21 giugno 1967: « In questi giorni – come avrai sentito dalle mie ultime
lettere – sono assillato dal desiderio di solitudine, di silenzio, di non partecipare a un'esistenza che trovo più che altro stupida, nel
senso più forte della parola (da "stupeo"...). Partecipandovi, ci si istupidisce, in parte almeno, inevitabilmente anche noi:
partecipando, per esempio, a discorsi stupidi. Ma, standoci in mezzo, sarebbe d'altra parte artificioso, e anche ipocrita, non
parteciparvi – o pretendere di essere immuni di una maledizione che riguarda non questo o quello, bensì noi. No, niente di particolare
mi è accaduto. Anzi, appunto: è la "solita" vita che, a tratti, pesa (e dalla quale le tue parole mi aiutano a sollevarmi). Ma non vorrei,
come al solito, dimenticare i dettagli. Perciò comincio da questi. Primo: αι ̀́ρεσις significa, prima che "separazione", "scelta" – allora,
vedi, mi posso dire "eretico" tranquillamente – e forse anche tu lo puoi». Vedi infra, pag. 29 Lettera di Nicola Chiaromonte a Ludovica Nagel del 17 aprile 1966. 30 Lettera di Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel del 18 ottobre 1969, cfr. infra pag. 31 Nella lettera del 28 marzo 1967 Chiaromonte scrive a questo proposito: «Perché tu capisci Caffi molto bene – e non accade a molti,
sai. È proprio quello il centro di tutto il pensiero di Caffi: la "comunità" – o la "società" ristretta, come lui la concepiva e sognava –
ritrovandone i frammenti solo in qualche gruppo di socialisti (mensceviki) russi o di "franc-maçons"». Cfr. infra pag. 32 Lettera di Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel del 25 agosto 1969, cfr. infra pag. 33 Lettera di Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel del 12 ottobre 1969, cfr. infra pag. 34 Idem
– perché solo la parola dà luogo a "discorso" e solo dal "discorso" (e dal "dialogo") nasce l'ordine, e con l'ordine
la possibilità d'armonia».35 Un interesse in particolare quello per la funzione e la natura del linguaggio
testimoniato anche dai costanti riferimenti alle teorie strutturaliste – con cui Chiaromonte si confrontava
criticamente – rintracciabili in queste lettere, all’opera di Lévi-Strauss letta giustamente nella sua relazione con il
Cours de linguistique générale di Ferdinand de Saussure, ma che prendeva anche la forma giocosa della ricerca
etimologica e filologica cui Chiaromonte si prestava – quasi si trattasse di offrire a Melanie un bouquet di parole –
nel rintracciare somiglianze e istituire differenze semantiche fra le diverse lingue indoeuropee, procedendo a
ritroso nel tempo, da quelle contemporanee alle antiche, fino al sanscrito. Il linguaggio – del cui destino in una
società delle comunicazioni di massa ormai completamente dispiegata, Chiaromonte e Nagel mostravano di
essere tanto preoccupati – era infatti ben più che una metafora del legame sociale, pareva infatti a Chiaromonte
custodisse la chiave stessa per comprendere il rapporto fra l’io e il mondo. Patrimonio ereditato – tradito – dal
passato, esso è al tempo stesso creazione collettiva a cui ogni giorno quotidianamente – e in un certo qual senso
liberamente – ciascuno partecipa, e un universo dato per l’individuo, con leggi che nessuno ha stabilito. Gli
sembrava vi si manifestasse quel fondo oscuro della società – quella sua legge imperscrutabile che fa si che anche
nella più perfetta solitudine l’individuo non possa astrarre dall’esperienza degli altri, così come appunto non
potrebbe pensare se stesso senza il ricorso al linguaggio. È precisamente questo – l’indissolubilità del legame
sociale – ciò che – scriveva Chiaromonte – tratteneva lui, ma anche Melanie, «nella confusione» del mondo loro
contemporaneo, che rendeva impossibile volgergli completamente le spalle, senza annichilire in fondo anche se
stessi.
Anche per questa ragione la comunità informale – ma vivente – di cui Chiaromonte e Melanie Nagel con
il loro dialogo volevano costituire una delle cellule generative non poteva e non doveva pensarsi come separata
dal mondo – non era più certo il tempo dei «cenobi»36 – ma come un’oasi – o come Chiaromonte scriveva, con il
suo caratteristico pessimismo circa la storia umana – in queste sue lettere talvolta accentuato da qualche amara
considerazione personale – un’«arca»37 in vista di un nuovo diluvio, in fondo già da tempo in corso – accessibile a
tutti gli uomini di buona volontà. E offerta innanzitutto ai giovani cui – verrebbe da dire secondo un modello
socratico – entrambi guardavano con interesse e curiosità, psicologicamente motivata – almeno nel caso di
Chiaromonte – anche dalla propria storia personale e posizionalità generazionale di uomo maturo, a suo tempo
anch’egli giovane in rivolta, che non si riconosceva in quell’ordine sociale contestato dalle nuove generazioni. Se
vi era infatti un’eco delle coeve vicende storiche che riecheggiava in questo carteggio è proprio quello della
ribellione studentesca del Sessantotto di cui peraltro Chiaromonte offriva anche in questa sede “privata” la
lettura ambivalente affidata ai suoi articoli per la stampa. Se vi riconobbe all’inizio e in alcune sue espressioni una
genuina carica liberatrice – anche se certo fin dalle origini confusa – da un autoritarismo vuoto e insensato, vi
vide però con preoccupazione e per tempo precipitarvi antiche dinamiche e riprodursi quella costellazione di
problemi – la pania in cui finisce inevitabilmente qualsiasi azione politica che si pretende rivoluzionaria – che
avevano caratterizzato tutto il Novecento: il feticismo per la storia e per il successo come unica misura di
35 Lettera di Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel dell’8 settembre 1967, cfr. infra pag. 36 Lettera di Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel del 12 ottobre 1969, cfr. infra pag. 37 Lettera di Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel del 22 agosto 1968, cfr. infra pag.
valutazione dell’agire umano e il culto delle ideologie e della violenza che ne derivava. Era insomma la sindrome
che aveva condotto alla diffusione delle mentalità totalitarie – a nuovi conformismi soffocatori di ogni autonomia
individuale di cui anche l’ovest, il “mondo libero”, dava esempio, seppure in misura non comparabile,
qualitativamente non comparabile, con quanto accadeva al di là della “cortina di ferro” – e che nasceva dal
fallimento della politica come arte della convivenza fra gli uomini orientata dall’interrogazione attorno alla
giustizia. Come per Arendt, anche per Chiaromonte «ciò che era andato storto era la politica», ma come per
Arendt, anche per lui, sebbene forse – almeno qui – con un tono più pessimista – gli uomini conservavano
intatta la possibilità – a partire dalla filosofia, dalla produzione di valori spirituali – di pensare la politica
diversamente, di porre nuovamente al centro della polis l’autonomia della coscienza individuale – il sentimento
della sua inviolabile dignità –, la libertà dell’individuo e il tema del suo rapporto con gli altri, così facilmente
obliterato – e mistificato – dalle ideologie politiche novecentesche. Che ciò fosse possibile lo dimostravano
eloquentemente gli scrittori e gli intellettuali dissidenti dell’Europa dell’est – Solženicyn, Julij Markovič Daniėl',
sua moglie Larisa Iosifovna Bogoraz, Andrei Sinyavsky o Anatoli Marchenko, esempi di una «ostinata resistenza
individuale»38 che lo riempivano di entusiasmo – con la loro sofferenza e con la loro scelta di un’opposizione a
viso aperto e non violenta al sistema.
Per questa sua in fondo irriducibile fiducia nell’uomo Chiaromonte non perse la speranza – condivisa e
sollecitata come è facile immaginare dai cenni contenuti in questo stesso carteggio anche da Melanie e
confermata dagli incontri coi giovani che ella stessa andava cercando – che quell’effervescenza giovanile cui si
stava assistendo non producesse solo un nuovo conformismo, di segno opposto ma di natura non diversa da
quello della società dei padri, ma anche delle energie genuinamente nuove, dei fermenti di effettivo rinnovamento
“spirituale”. Ne ravvisava i segni in esperienze apparentemente molto lontane dalla politica ma che per lui
avevano un valore inequivocabilmente politico. In particolare in quei gruppi teatrali costituiti da giovani della cui
scoperta scriveva con tanta partecipazione a Melanie, intravvedendo la possibilità di instaurare con loro un
dialogo reale, quello che altrimenti non gli sarebbe stato possibile allacciare, se non attraverso fortunati incontri.
Non si trattava infatti solo dell’entusiasmo del critico teatrale commosso da una dimostrazione di amore
disinteressato per il teatro. Quei giovani, ai suoi occhi, gli restituivano il suo significato autentico, quel valore
catartico che ne aveva caratterizzato le forme originarie. Il teatro era infatti l’atto espressivo – e “sacro” – in cui
la società interrogava se stessa, il “rito” in cui se ne rivelava la struttura profonda, la natura “divina” e oscura – il
destino per gli antichi – che ne regolava le leggi al di là della apparenza, al di là delle convenzioni sociali. Esso –
come scrisse nell’introduzione a La situazione drammatica – è il luogo in cui si giudica «il diritto degli uomini ad
agire come agiscono, e il giudizio che vi si esprime è il giudizio che una società porta su se stessa. […] Il teatro è
quella istituzione pubblica che ha funzione di liberare la vita associata dalle fermentazioni segrete, dalla
confusione e dalla schiavitù dell’esistenza privata. A quelli che parlano di un teatro religioso, si deve rispondere
che, per il semplice fatto di chiamare la comunità a considerare il significato delle azioni umane e a valutare i
propri modi d’essere secondo questo significato, il teatro conferma e rafforza quella coesione e comunicazione
38 Lettera di Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel del 25 agosto 1969, cfr. infra pag.
delle coscienze nell’immagine di un destino comune di cui essenzialmente si alimenta il senso di ciò che nella vita
è sacro e di ciò che non lo è».39
In questo senso il teatro autentico – «religioso» – oltre che antidoto alla volgarità che si era impossessata
di altri linguaggi, era uno strumento di riflessione insostituibile e offriva il modello – se vogliamo – per quelle
comunità spirituali cui Chiaromonte aspirava: un gruppo di persone, gli attori, che fanno atto di separazione, di
distinzione, dal mondo, offrendosi al tempo stesso ad esso, al pubblico, attraverso la parola. Esso permetteva
dunque di illuminare ben altrimenti dalla politica come veniva comunemente intesa, la vera questione che era al
fondo del malessere dei contemporanei, come cioè «il mondo macchinale in cui viviamo pretend[a] appunto
questo: che il rapporto fra l'individuo e il mondo – il fatto più intimo e geloso di ogni altro – sia invece un affare
di calcolo, di ragione "obbiettiva", di "utilità" sociale e via dicendo. È proprio da queste cosiddette "ragioni
obbiettive" calcoli, utilità, promesse di "welfare" che viene la separazione fatale: 1) dell'individuo dal cosmo, 2)
dell'individuo dai suoi simili, e più ancora dal fatto di vivere in comune, con tutto ciò che ne deriva anche quanto
a sentimento del divino (che non può mai essere esclusivamente personale), e, a tutto quello che riguarda i ritmi e
le armonie "naturali", cominciando dai gesti espressivi e finendo ai riti religiosi e alle opere d'arte».40
Non deve dunque essere motivo di stupore il fatto che nel diagnosticare i mali della società a lui
contemporanea – ma si tratta di qualcosa che affondava le radici ovviamente in processi assai più remoti nel
tempo – il “laico” Chiaromonte indicasse proprio nella rimozione dell’esperienza del sacro il nodo su cui era più
urgente riflettere. Con una disfatta per la tradizione dell’umanesimo, quasi un contrappasso di quella ύβρις di cui
in parte aveva dato prova, il venir meno delle religioni storiche quale orizzonte di senso delle società non aveva
prodotto una religione umana – l’instaurarsi del regno della filosofia – ma al contrario una nuova forma di
superstizione – altrettanto e forse più odiosa delle antiche giacché contrariamente alle prime in evidente
«malafede» –, la religione dell’«al di qua delle cose – del momento che passa – dell'oblio di sé nella distrazione
continua dall'esistenza di un mondo – dal fatto della mortalità – e persino dalla gioia profonda – perché la gioia
chiede "altro" – rimanda a un significato splendente e nascosto».41 Era questa superstizione che Chiaromonte e
Nagel rifiutavano ad aver generato «un mondo vissuto alla terza persona […] nel quale tutto è costretto, fatale,
preordinato – e tutto è caotico. Il mondo della violenza e della paura».42 Ed è contro di essa che in fin dei conti i
giovani si rivoltavano, facendo esperienza in massa di un sentimento che anche la generazione di Chiaromonte
aveva conosciuto ma solo in una minoranza intellettuale. «Io credo in fin dei conti cerchino non il comunismo,
ma Dio. Solo non hanno la più lontana idea che si possa cercare una tal cosa – comunque: l'Assoluto».43
Era dunque in ultima analisi esplorare le possibilità di una genuina restaurazione del «sentimento del
divino» nel mondo – e della nozione dell’«anima» per l’uomo – il «lavoro» che Nicola e Melanie attribuiscono alla
loro ricerca, nel tentativo se non di formulare una risposta comune – non si tratta certo di “convertire” l’uno alla
fede dell’altro – di tracciare un cammino che potesse essere percorso assieme, da chi aveva fede in un Dio
39 Nicola Chiaromonte, La situazione drammatica, Bompiani, Milano 1960; pag. 8. 40 Lettera di Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel del 4 luglio 1967, cfr. infra pag. 41 Lettera Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel del 20 agosto 1968, cfr. infra pag. 42 Idem 43 Lettera di Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel del 4 marzo 1969, ; cfr. infra pag..
trascendente e personale e da chi invece dell’assolutezza di quella fede era privo, ma non mancasse di avvertire in
sé la dimensione del sacro.44 «Tu dici giustamente che il senso del sacro non si raggiunge con l'intelligenza; infatti
il "sacro" è il non intelligibile. Tuttavia vorrei dirti due cose. La prima è che, pensa e ripensa, se si vuole essere
semplici, il senso del sacro non è altro che il senso del "limite" – il sentimento (e la coscienza chiara) della μοίρα,
della "parte" – ossia di essere parte di un tutto che non si conosce. Fermarsi al limite vuol dire riconoscere il
sacro – e il divino – piegare il capo – inchinarsi. Fermarsi prima del limite è mediocre saggezza. È in questa zona
che sta quello che i più chiamano "ragione" – "ratio" (che è sempre "ragion pratica"). Ma l'intelligenza – il νούς è
altra cosa: è il limite estremo cui può giungere l'uomo – e non esclude il cuore, anzi».45
Ritroviamo dunque in questo carteggio, la cui stesura fu contemporanea a quella di Credere e non credere,
molti dei principali elementi di tutta la riflessione matura di Chiaromonte che qui – come in Che cosa rimane –
prese soprattutto la forma di una appassionata riflessione sulla nozione di limite, di «misura», che si offre – quasi
spontaneamente – all’individuo quando questi arrivi «in fondo – alla regione che tu esplori: "il sacro"».46 Di
questa concezione della condizione umana egli trovava traccia nella religione naturale degli antichi greci, in quel
loro spontaneo aderire alla natura delle cose – accettandone il «labile», «l’effimero», il «mortale»47 – pur senza
rinunciare a porre l’uomo a sua misura, facendo così del mondo un cosmo ordinato. E non a caso – e qui sta
uno dei tanti elementi di interesse documentari di questo carteggio – nelle lettere di Chiaromonte abbondano le
riflessioni, nutrite di precisi riferimenti storico-antropologici, sull’antica civiltà ellenica e sul ruolo che in essa era
assegnato alla religione e al racconto mitico. Nel recupero di questa antica e ascetica sapienza del limite trovava
anche quiete provvisoriamente – giacché di fronte al sacro «non bisogna aspettarsi risposte né soluzioni: solo
altre domande, e assai più tormentose di quelle che oggi ci tormentano»48 e in questa conclusione sta
naturalmente la più evidente differenza rispetto alla sua interlocutrice – quell’interrogazione sul senso ultimo del
mondo e della vita che accompagnava angosciosamente Chiaromonte fin dalla prima giovinezza, quando
appunto avvenne il distacco – emotivamente violento – dalla religione cattolica in cui lo avevano educato i suoi
genitori. Tema quello dell’assenza del sacro e del suo inaspettato ritorno in forma diversa da quella delle religioni
tradizionali che fu certo interrogativo comune – va sottolineato – alla sua generazione – in queste pagine
ritroviamo per esempio in tal senso una eco dell’esperienza del parigino Collège de sociologie49 –, a chi cioè negli
anni della propria formazione si era dovuto confrontare con il fenomeno della sacralizzazione della politica (su
cui non a caso Chiaromonte aveva insistito come chiave di lettura dei totalitarismi e più in generale della politica
nel Novecento). Si pensi per fare un altro esempio a lui vicino, al Carlo Levi di Paura della libertà. Questa
riflessione – nel suo caso veramente ininterrotta – fu però assai più strettamente che per altri intrecciata al vissuto
personale. Contribuisce a chiarirlo proprio il suo rapporto con Melanie Nagel, peraltro contemporaneo – le due
cose forse non furono l’uno senza effetto sull’altra – al riavvicinamento al fratello Mauro, avvenuto poco prima
che questi morisse, di un anno di lui più giovane, il sacerdote ispiratore della figura di padre Martelli de Il gesuita,
44 «l'uomo davanti al "sacro", libero di abbandonarsi e libero di frenarsi – ma libero soprattutto di manifestare il fondo del proprio
essere, quello che precisamente è il "divino" in lui. Sarebbe questa la mia "utopia". Lettera del 17 gennaio 1968. 45 Lettera di Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel del 22 settembre 1969, cfr. infra pag. 46 Lettera di Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel del 25 agosto 1969; cfr. infra pag. 47 Lettera di Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel dell’8 ottobre 1968; cfr. infra pag. 48 Lettera di Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel del 25 agosto 1969, ; cfr. infra pag.. 49 Si veda a questo proposito il saggio di Chiaromonte, rimasto a lungo inedito, A proposito di “fatto sociale”, mito e sacro
pubblicato in «Quaderni dell’altra tradizione. Dedicato a Nicola Chiaromonte nel trentennale della morte», Una Città, Forlì, 2002.
con cui i rapporti si erano interrotti ancor prima della militanza antifascista di Chiaromonte per l’evidente – e
significativamente speculare a dimostrazione di un legame in realtà emotivamente molto forte – difformità nelle
scelte di vita e nelle opzioni ideologiche e culturali.
Per le caratteristiche che ebbe quella relazione epistolare, queste lettere di Nicola Chiaromonte possono
essere in fondo lette anche come un dialogo con se stesso. E certo l’assenza della voce di Melanie von Nagel non
potrà che amplificare questa impressione nel lettore. Su questo punto è necessaria una precisazione: non si è
trattata di una scelta deliberata, ma della volontà di concludere un progetto editoriale che Miriam Chiaromonte
concepì senza però poterlo vedere realizzato. Le 104 lettere di Nicola Chiaromonte a Melanie Nagel che qui
pubblichiamo provengono dal fondo Chiaromonte depositato presso la Beinecke Library dell’Università di Yale a
cui dopo la morte del marito Miriam Rosenthal aveva destinato le sue carte personali. A partire da un corpus –
come si è visto – ben più vasto, esse vennero selezionate in vista della loro pubblicazione all’inizio degli anni
Ottanta dalla vedova Chiaromonte e dalla stessa Melanie Nagel, alla quale la prima aveva inviato tutte le lettere in
suo possesso. L’intero carteggio – sia le lettere di Chiaromonte a Melanie Nagel sia quindi quelle di Melanie
Nagel a Chiaromonte – è infatti custodito presso il Regina Laudis, fra le carte – non inventariate – di sister
Jerome.
Non è dunque possibile asserire nulla di preciso circa i criteri che orientarono la loro selezione, se non
basandoci sui cenni in tal senso fatti in una lettera inviata da Miriam Chiaromonte a Melanie Nagel che qui
riproduciamo, in cui sembrano convenire per la pubblicazione di un numero relativamente limitato di lettere di
Chiaromonte, sostanzialmente scelte da Melanie Nagel per il loro carattere meno privato e per il loro interesse
speculativo, in considerazione anche della minore o maggiore organicità tematica da esse presentate.50
Anche con questa limitazione, questo carteggio deve essere considerato quale un unicum nella pur ricca
corrispondenza di Chiaromonte. Non vi è stato infatti altro corrispondente – con la sola eccezione di Andrea
Caffi – con cui egli si svelasse – e si mettesse in discussione – con tanta franchezza. Non nel senso di raccontare
il proprio vissuto, che entrava a far parte del suo dialogo con Melanie in fondo solo come elemento di contesto
della loro «conversatio» o come esemplificazione di altro, spesso sotto forma di un dettaglio di vita quotidiana
apparentemente poco significativo, ma in realtà rivelatore, assai più di tante altre vicende ritenute dai
contemporanei di fondamentale importanza, dei cambiamenti che avvenivano nel mondo a loro circostante. Ma
nel senso dell’immediatezza – e dell’autenticità – con cui in quelle lettere Chiaromonte trasponeva il proprio
mondo interiore, non celando nulla dei momenti di difficoltà e scoramento, tanto più in una fase della sua vita
amareggiata dall’infelice conclusione, nel 1968, dell’avventura di «Tempo presente».
Chi conosca i suoi scritti non potrà che cogliere la somiglianza fra queste pagine e quelle di quei taccuini
in cui fin da giovanissimo annotava pensieri e impressioni, note ai suoi lettori grazie alla preziosa antologia
tematica – per forza di cose molto parziale – che quasi vent’anni fa la moglie Miriam realizzò per il Mulino (Che
cosa rimane. Taccuini 1955-1971). Non solo i temi attorno a cui Chiaromonte rifletteva (e ci propone ancora oggi di
riflettere) sono gli stessi, ma anche il timbro della sua voce è in fondo lo stesso, sollevato – appunto – dalle
incombenze del mondo, dalla contingenza politica e culturale, che invece inevitabilmente pesava nei suoi scritti
50 Lettera di Melanie von Nagel a Miriam Chiaromonte del 19 maggio 1980, vedi infra, pag.
“essoterici” del cui successo mondano, in termini di consenso riscosso, per la verità, in realtà assai poco si
curava, convinto come l’Antigone di Sofocle che ciò che conta sia «piacere a quelli cui debbo piacere».
Questo non vuol dire che fra il contenuto di queste lettere e la sua contemporanea attività di saggista e
critico teatrale non vi fosse rapporto alcuno. Tutt’altro. Il lettore vi ritroverà un’evidente circolarità con quanto
andava scrivendo in quegli anni non solo su «Tempo presente», ma anche su «Sipario», «La Stampa» o
«l’Espresso», non fosse altro perché alcuni dei temi di cui si occupava regolarmente per la carta stampata
rappresentavano per lui un vero rovello. E vi leggerà una eloquente – se ve n’è bisogno – dimostrazione di come
quei problemi – quelli che abbiamo qui richiamati, ma anche altri – fossero per Chiaromonte, naturalmente,
problemi sempre aperti, su cui è necessario cioè – socraticamente – continuare a interrogarsi e a discutere
incessantemente. E primo fra questi il problema politico che per l’impolitico – si è visto in che senso –
Chiaromonte era innanzitutto rappresentato dall’esigenza intellettuale di discutere le possibilità di una “società
giusta”, in cui cioè etica e politica, coscienza individuale e obbligazione sociale non siano fra loro in continuo
conflitto, pur sapendo che essa non può essere che un modello ideale cui tendere.
Fu dunque infine immateriale, tessuto di parole, il rifugio «altrettanto sicuro e meno costrittivo»51
rispetto alle dure regole del chiostro che Nicola Chiaromonte poté offrire a Melanie von Nagel, sebbene
coltivasse in sé la speranza che ella accettasse o richiedesse – proprio per esserne agevolata nel suo lavoro
intellettuale, nella prosecuzione di quella sua vita activa che tutto lascia pensare si nutrisse di un sottile equilibrio
fra ricerca della solitudine e apertura al mondo52 – una destinazione diversa dal Regina Laudis, magari nella stessa
Roma.53 Forse fu proprio con questo spirito che Chiaromonte si recò nel marzo del 1970 per l’ultima volta a
Bethelem.54
Il loro «lavoro comune» interrotto dalla morte di Chiaromonte, nel gennaio del 1972, sarebbe stato
continuato – e a lungo giacché morì solo nel 2006 – da Melanie von Nagel, come testimonierebbero
probabilmente le sue carte custodite presso il Regina Laudis che è auspicabile possano essere riordinate e rese
così fruibili ad eventuali studiosi. Quella sua riflessione sulla vita e sul mondo, affidata principalmente al
linguaggio poetico, avrebbe infatti seguito ad alimentarsi dialogicamente dopo la morte di Chiaromonte – e certo
anche nel suo ricordo – di altri incontri. In particolare delle suggestioni di un'altra, controversa, personalità
intellettuale, Ivan Illich, che coinvolse attivamente, allacciando anche in questo caso una consuetudine epistolare,
Melanie von Nagel nel suo quanto mai eterodosso percorso di ricerca spirituale.
51 Lettera di Nicola Chiaromonte a Ludovica von Nagel del 17 aprile 1967. 52 Non a caso le scriveva «Quello che so è che tu devi darti alla poesia come ti sei data alla religione – non ci dev’essere differenza
perché certamente si tratta, in te, dello stesso movimento». Lettera di Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel del 3 aprile 1967, cfr.
infra pag. 53 A Ludovica, l’8 agosto del 1971, scrisse di essere preoccupato per l’eccesso di lavoro, anche fisico, cui Melanie si sottoponeva e di
sperare la mandassero infine in missione in Italia. «Nell’ultima sua lettere mi chiede informazioni sulla Herziana, il che combina con
quello che lei mi dice». 54 Almeno stando a quanto scriveva a Ludovica Nagel prima di rientrare in Italia dagli Stati Uniti (lettera di Nicola Chiaromonte a