l'Anima Dell'Uomo Sotto Il Socialismo
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L’ANIMA DELL’UOMO
SOTTO IL SOCIALISMO
OSCAR WILDE
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Il principale vantaggio che risulterà dall'instaurazione del socialismo è, senza dubbio, il fatto
che il socialismo ci solleverà da quella sordida necessità di vivere per gli altri che, dato l'attuale stato
di cose, grava così severamente su quasi tutti. In realtà, praticamente nessuno riesce a evitarla.
Di quando in quando, nel corso del secolo, un grande uomo di scienza, come Darwin, un
grande poeta, come Keats, un raffinato spirito critico, come Renan, un artista supremo, come
Flaubert, ha potuto isolarsi, tenersi lontano dalle insistenti pretese degli altri e rimanere "protetto
dal muro", per dirla con Platone,33 e così realizzare la perfezione di ciò che era in lui, per il suo
incomparabile profitto e per l'incomparabile e durevole profitto del mondo intero. Queste, però,
sono eccezioni. La più parte della gente rovina la propria vita con un malsano ed esagerato
altruismo; in verità, è costretta a rovinarla. Si trova circondata da una miseria spaventosa, da una
bruttezza spaventosa, da una fame spaventosa. E inevitabile che si senta fortemente commossa da
tutto ciò. Le emozioni agitano l'uomo più prontamente della sua intelligenza; e, come ho avuto
modo di sottolineare qualche tempo fa in un articolo sulla funzione della critica, è molto più facile
solidarizzare con la sofferenza che col pensiero. Per conseguenza, con ammirevoli benché sbagliate
intenzioni, essa molto seriamente e molto sentimentalmente si assume il compito di porre rimedio ai
mali che vede. Ma sono rimedi che non guariscono la malattia: la prolungano e basta. In realtà, quei
rimedi fanno parte della malattia.
Ad esempio, si cerca di risolvere il problema della povertà mantenendo in vita i poveri; o,
secondo l'opinione di una scuola assai più all'avanguardia, divertendoli.
Ma questa non è una soluzione: è un'aggravante della difficoltà. Lo scopo appropriato è di
cercare di ricostruire la società su fondamenti tali che la povertà risulti impossibile. E le virtù
altruistiche hanno sul serio impedito il raggiungimento di questo scopo. Proprio come i peggiori
schiavisti erano coloro che trattavano gentilmente i propri schiavi, per impedire che l'orrore del
sistema fosse compreso da coloro che lo subivano e capito da quelli che l'osservavano, così
nell'attuale stato di cose in Inghilterra, la gente che fa più danno è quella 'che si prova a fare il
sommo bene; e alla fine si è dato il caso di uomini che hanno studiato veramente il problema e
conoscono la vita - uomini colti che vivono nell'Éast End i quali si son fatti avanti implorando la
comunità di porre un freno ai suoi altruistici impulsi alla carità, alla beneficenza e simili. Essi l'han
fatto a ragione della convinzione che tale carità svilisce e demoralizza. Sono perfettamente nel
giusto. La carità crea una moltitudine di peccati.
E c'è anche questo da aggiungere. È immorale far uso della proprietà privata per alleviare gli
orribili mali che derivano dall'istituzione stessa della proprietà privata. E tanto immorale quanto
brutto.
Col socialismo tutto questo, naturalmente, muterà. Nessuno più vivrà in fetide topaie, si
vestirà di fetidi stracci, alleverà figli malaticci e smagriti dalla fame in un ambiente impossibile e
assolutamente disgustoso. La sicurezza della società non dipenderà, come adesso, dalle condizioni
meteorologiche. Se verrà il gelo non avremo centomila uomini disoccupati che vagano per le strade
in condizioni d'insopportabile miseria o implorano l'elemosina o s'accalcano alle porte di ripugnanti
ricoveri cercando di assicurarsi un tozzo di pane o uno sporco alloggio per la notte. Ciascun membro
della società condividerà la prosperità e la felicità generale della società e se verrà il gelo
praticamente nessuno starà peggio di un altro.
D'altro canto, il socialismo stesso sarà importante semplicemente perché condurrà
all'individualismo.
Il socialismo, il comunismo, o in qualsiasi altro modo si preferisca chiamarlo, convertendo la
proprietà privata in ricchezza pubblica e sostituendo alla competizione la cooperazione, ricondurrà la
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società alla sua peculiare condizione di organismo interamente sano e garantirà il benessere
materiale di ogni membro della comunità. Esso darà, sul serio, alla vita fondamento e ambiente
appropriati. Ma, affinché la vita raggiunga il pieno sviluppo della sua più elevata perfezione, è
necessario ancora qualcos'altro. Ciò che è necessario è l'individualismo. Se il socialismo sarà
autoritario; se vi saranno governi armati di potere economico come oggi lo sono di potere politico;
se, in una parola, avremo delle tirannie industriali, allora per l'uomo quest'ultima condizione sarà
peggiore della prima. Attualmente, in conseguenza dell'esistenza della proprietà privata, un gran
numero di persone ha la possibilità di sviluppare una certa, limitatissima, portata di individualismo.
Esse o non hanno la necessità di lavorare per vivere o possono scegliere la sfera di attività che è loro
realmente congeniale e li soddisfa maggiormente. Queste persone sono i poeti, i filosofi, gli uomini
di scienza, gli uomini di cultura... in una parola, gli uomini veri, gli uomini che hanno realizzato se
stessi e nei quali tutta l'umanità ottiene una parziale realizzazione. D'altra parte, esiste anche un
gran numero di persone che non possedendo alcuna proprietà privata ed essendo sempre sull'orlo
della più nera inedia, è costretto a lavorare come bestia da soma, a compiere dei lavori
assolutamente non congeniali, cui è obbligato dalla perentoria, irragionevole, degradante tirannia
del bisogno. Queste persone sono i poveri; e fra loro non esiste garbo, creanza, fascino di parola, di
civiltà, di cultura, raffinatezza di piaceri, gioia di vivere. Dalla loro forza collettiva l'umanità ottiene
molto in prosperità materiale. Ma ottiene soltanto il risultato materiale e l'uomo povero è in sé
totalmente di nessuna importanza. Egli è unicamente un atomo infinitesimale di una forza che, in
luogo di apprezzarlo, lo stritola. A dire il vero, preferisce stritolarlo, perché così è più ubbidiente.
Naturalmente, si potrebbe obiettare che l'individualismo generato nella proprietà privata
non è sempre, o non lo è di regola, di tipo eccellente o mirabile, e che il povero, pur non possedendo
né cultura né fascino, ha comunque molte virtù. Entrambe queste asserzioni sono vere. Il possesso
della proprietà privata molto spesso risulta estremamente demoralizzante, e questa è,
naturalmente, una delle ragioni per cui il socialismo vuole liberarsi di questa istituzione. Di fatto, la
proprietà è veramente una seccatura. Alcuni anni orsono si diffuse per il paese la convinzione che la
proprietà ha dei doveri. Fu ripetuta così spesso e così tediosamente che, alla fine, la Chiesa cominciò
a ripeterla. Adesso la si sente da tutti i pulpiti. È perfettamente vera. La proprietà non ha semplice-
mente dei doveri ma ne ha talmente tanti che il possederne oltre misura è una noia. Essa comporta
su una sola persona infinite pretese, infinite attenzioni agli affari, infiniti fastidi. Se la proprietà fosse
fonte soltanto di piaceri, potremmo sopportarla; ma i suoi doveri la rendono intollerabile. Nell'inte-
resse del ricco dobbiamo sbarazzarcene. Le virtù del povero, va prontamente ammesso, meritano
maggior rincrescimento. Spesso affermiamo che i poveri sono grati per la carità. Taluni di loro lo
sono, senza dubbio, ma i migliori rappresentanti non lo sono mai. Sono ingrati, scontenti, disobbe-
dienti e ribelli. Hanno completamente ragione di esserlo. Essi avvertono che la carità è un modo
ridicolmente inadeguato di restituzione parziale o un'elemosina sentimentale, di solito
accompagnata da parte del sentimentalista da qualche impertinente tentativo di tiranneggiare la
loro vita privata. Perché dovrebbero dimostrare gratitudine per le briciole che cadono dalla tavola
del ricco? Dovrebbero sedere al desco, e stanno cominciando a capirlo. In quanto all'essere sconten-
ti, un uomo che non palesasse il suo scontento per un tale ambiente e per un tale infimo modo di
vivere, non sarebbe che un perfetto bruto. La disobbedienza, agli occhi di qualunque persona che
conosca la storia, è la virtù originale dell'uomo. E per mezzo della disobbedienza che il progresso ha
potuto realizzarsi, per mezzo della disobbedienza e della ribellione. Talvolta si loda il povero per la
sua parsimoniosità. Ma raccomandare la parsimoniosità al povero è insieme grottesco e offensivo. E
come consigliare di mangiare meno a un uomo che muore di fame. Per un lavoratore della città o
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della campagna praticare la frugalità è assolutamente immorale. L'uomo non dovrebbe essere
disposto a dimostrare che riesce a vivere come un animale malnutrito. Dovrebbe rifiutarsi di vivere
in quel modo e dovrebbe o mettersi a rubare o vivere a carico delle imposte locali, cosa che taluni
considerano una forma di furto. In quanto alla mendicità, è più prudente mendicare che prendere
ma è meglio prendere che mendicare. No: un povero, ingrato, prodigo, scontento e ribelle è
probabilmente una vera personalità, che ha molto dentro di sé. In ogni caso egli costituisce una
salutare protesta. In quanto al povero virtuoso, lo si può compatire, naturalmente, ma non lo si può
assolutamente ammirare. E venuto a patti col nemico e ha venduto la sua primogenitura per una
pessima zuppa. Inoltre, dev'essere straordinariamente stupido. Io posso comprendere appieno un
uomo che accetta le leggi che proteggono la proprietà privata e ne ammettono l'accumulazione,
fintanto ch'egli può in simili condizioni attuare talune forme di vita bella e intellettuale. Ma mi risulta
quasi incredibile da capire come un uomo la cui vita è rovinata e resa spaventosa da tali leggi possa
proprio consentire alla loro perpetuazione.
Comunque, non è difficile trovarne la spiegazione. E semplicemente questa. La miseria e la
povertà sono così totalmente degradanti ed esercitano un effetto talmente paralizzante sulla natura
dell'uomo, che nessuna classe è mai realmente consapevole della propria sofferenza. Bisogna che
altri glielo dica e spesso senza riuscire a convincerla. Ciò che i grandi imprenditori dicono degli
agitatori è indiscutibilmente vero. Gli agitatori costituiscono una cricca di impiccioni ficcanaso che si
calano all'interno di qualche classe sociale perfettamente soddisfatta e vi seminano il germe del
malcontento. Questa è la ragione per cui gli agitatori sono assolutamente necessari. Senza di essi,
data l'imperfezione del nostro stato, non ci sarebbe alcun avanzamento verso la civiltà. In America fu
abolita la schiavitù non in conseguenza di un'azione da parte degli schiavi, o perché da parte loro vi
fosse un espresso desiderio di libertà. Fu abolita grazie all'evidente condotta illegale di certi agitatori
di Boston e d'altrove, che non erano né schiavi né proprietari di schiavi né avevano realmente nulla a
che fare con la questione. Furono, indubbiamente, gli abolizionisti che accesero la torcia e che
diedero inizio a tutta la faccenda. Ed è curioso notare che dagli schiavi stessi essi non ricevettero che
scarsissimo aiuto e quasi nessuna solidarietà; e quando alla fine della guerra gli schiavi si trovarono
liberi, davvero così liberi da essere anche liberi di morire di fame, molti di loro amaramente si
dolsero della loro nuova condizione. Per il pensatore, il più tragico fatto della Rivoluzione Francese
non è che Maria Antonietta venisse uccisa perché regina bensì che gli affamati contadini della
Vandea andassero volontariamente a morire per l'abominevole causa del feudalesimo.
E’ chiaro, allora, che nessun socialismo autoritario potrà farcela. Perché mentre con l'attuale
sistema un numero considerevolissimo di persone può condurre la vita con una certa quantità di
libertà, di espressione, di felicità, con un sistema da caserma industriale o di tirannia economica,
nessuno riuscirebbe ad avere neppure questa libertà. È deplorevole che una parte della nostra
comunità sia ridotta praticamente in schiavitù ma proporre per risolvere il problema di schiavizzare
la comunità intera è puerile. Ciascun uomo deve essere lasciato del tutto libero di scegliere il proprio
lavoro. Su di lui non deve essere esercitata nessuna forma di costrizione. Altrimenti, il suo lavoro non
sarà buono per lui, non sarà buono in sé e non lo sarà per gli altri. E per lavoro intendo sempli-
cemente qualsiasi genere di attività.
Mi riesce difficile pensare che al giorno d'oggi il socialista voglia seriamente proporre che un
ispettore si rechi tutte le mattine in ogni casa per verificare se ciascun cittadino si è alzato ed esegua
le sue otto ore di lavoro manuale. L'umanità ha superato questo stadio e riserva una simile forma di
vita a coloro che, in maniera assai arbitraria, suole definire criminali. Ma debbo confessare che molte
delle idee socialiste che ho avuto modo di esaminare, mi sembrano contaminate da idee autoritarie,
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se non di effettiva coercizione. Naturalmente, autorità e coercizione son fuori discussione. Ogni
associazione deve essere del tutto volontaria. E soltanto nell'associazione volontaria che l'uomo si
dimostra valente.
Ma ci si può domandare in che modo l'individualismo, che più o meno per il suo sviluppo
dipende dall'esistenza della proprietà privata, beneficerà dell'abolizione di tale proprietà privata. La
risposta è molto semplice. E vero che, nelle condizioni esistenti, pochi uomini, che potevano valersi
di mezzi di loro proprietà, uomini come Byron, Shelley, Browning, Victor Hugo, Baudelaire e altri,
hanno potuto realizzare la loro personalità più o meno completamente. Nessuno di questi uomini
ebbe mai bisogno di lavorare salariato un solo giorno. Erano esentati dalla povertà. Possedevano un
immenso vantaggio. La questione è se per il bene dell'individualismo sarebbe meglio togliere un
simile vantaggio. Supponiamo di sì. Che accadrebbe allora all'individualismo? Come ne
beneficerebbe?
Ne beneficerebbe in questo modo. Con le nuove condizioni l'individualismo sarebbe assai più
libero, molto più bello e dei poeti che ho ricordato bensì del grande individualismo effettivo, latente
molto più intenso di quanto sia oggi. Non sto parlando del grande individualismo immaginario e
potenziale in tutto il genere umano. Perché il riconoscimento della proprietà privata ha realmente
nuociuto all'individualismo e lo ha offuscato confondendo un uomo con quel che possiede. Cosi
l’individualismo è andato completamente fuori strada: per scopo si è dato il guadagno, non il
progresso. Di conseguenza, l'uomo ritenne che fosse importante l'avere, ignorando che invece era
l'essere. La vera perfezione dell'uomo consiste non in ciò che egli ha ma in ciò che egli è. La proprietà
privata ha frantumato il vero individualismo, sostituendolo con un individualismo falso. Ha impedito
a una parte della comunità di essere individuale affamandola. Ha impedito all'altra parte di essere
individuale ponendola sulla strada sbagliata e ostacolandola. In verità, la personalità dell'uomo è
stata a tal punto assorbita dal possesso che la legge inglese ha sempre trattato con assai maggiore
severità le offese contro la proprietà che quelle contro la persona, e la proprietà è sempre il metro di
valutazione per la perfetta cittadinanza. L'operosità necessaria per far denaro è anche molto
demoralizzante. In una comunità come la nostra, dove la proprietà conferisce un'immensa
distinzione, posizione sociale, onore, rispetto, titoli e altre consimili piacevoli cose, l'uomo che è
naturalmente ambizioso, si prefigge di accumulare questa proprietà e procede faticosamente e
tediosamente ad accumularla ben oltre il segno di ciò che gli bisogna, o possa usare o godere o forse
anche conoscere. L'uomo per assicurarsi la proprietà si ucciderà per eccesso di lavoro e, considerati
gli enormi vantaggi ch'essa comporta, c'è veramente poco di cui sorprendersi. E deplorevole che la
società sia costruita su fondamenti tali da costringere l'uomo in una routine che non gli consenta di
sviluppare liberamente quanto è in lui di meraviglioso, di affascinante, di piacevole e nella quale, di
fatto, egli perde il vero piacere e la gioia di vivere. Nelle attuali condizioni, egli è anche molto
esposto all'insicurezza. Un mercante enormemente ricco può essere (e spesso è) in ogni istante della
sua vita alla mercé di cose che sfuggono al suo controllo. Se vento rinforza troppo, o il tempo muta
all'improvviso, o se accade una qualsiasi banalità, la sua nave può affondare, le sue speculazioni
fallire ed egli ritrovarsi un poveruomo che non ha più la sua posizione sociale. Ora, nulla dovrebbe
essere in grado di arrecar danno a un uomo se non se stesso. Nulla dovrebbe essere in grado di
derubare un uomo. Ciò che un uomo realmente ha, è ciò che è in luì. Quel che è al di fuori" di lui non
dovrebbe rivestire nessuna importanza.
Con l'abolizione della proprietà privata, quindi, noi avremo il vero, bello e sano
individualismo. Nessuno sprecherà la sua vita nell'accumulare cose e simboli di cose. Si vivrà. Vivere
è la cosa più rara del mondo. La più parte della gente esiste, questo è tutto.
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Se si sia mai vista la piena espressione di una personalità oltre il piano immaginativo
dell'arte, è un problema. In azione, mai. Cesare, asserisce Mommsen, fu un uomo completo e
perfetto. Ma quanto tragicamente precario fu Cesare! Ovunque ci sia un uomo che esercita
l'autorità, c'è anche un uomo che resiste all'autorità. Cesare fu perfettissimo, ma la sua perfezione
percorse una strada troppo pericolosa. Fu Marco Aurelio, dice Renan, l'uomo perfetto. Sì, il grande
imperatore fu un uomo perfetto. Ma come erano intollerabili le incessanti proteste al suo indirizzo!
Vacillava sotto il fardello dell'impetro. Egli era consapevole di quanto fosse inadeguato un solo uomo
per sostenere il peso di quel globo troppo vasto e titanico. Quel che intendo per uomo perfetto è
colui che si sviluppa all'interno di condizioni perfette: un uomo che non è ferito, preoccupato,
mutilato, minacciato. La maggioranza delle personalità sono state obbligate a essere ribelli. La metà
della loro forza è andata sprecata negli attriti. La personalità di Byron, per esempio, andò
terribilmente sprecata nella sua battaglia contro la stupidità, l'ipocrisia, il filisteismo degli inglesi.
Simili battaglie non sempre intensificano la forza; spesso, invece, esagerano la debolezza. Byron non
riuscì mai a darci quanto avrebbe potuto darci. A Shelley andò meglio. Come Byron lasciò
l'Inghilterra il più presto possibile; ma non era altrettanto conosciuto. Se gli inglesi avessero capito
qual grande poeta egli realmente fosse, gli si sarebbero avventati addosso con zanne e artigli e gli
avrebbero reso la vita la più insopportabile possibile. Ma in società la sua non era una presenza
considerevole e, di conseguenza, in una certa misura riuscì a scamparla. Tuttavia, persino in Shelley
la nota della ribellione è talvolta troppo forte. La nota della personalità perfetta non è la ribellione
ma la pace.
Sarà una cosa meravigliosa - la vera personalità [dell'uomo - quando la vedremo. Essa
crescerà naturalmente e semplicemente, come un fiore, o un albero,. Non sarà disarmonica. Non
discuterà o litigherà mai. Non dimostrerà nulla e saprà tutto, senza tuttavia occuparsi del sapere.
Avrà la sapienza. Il suo valore non sarà misurato da cose materiali. Non possederà nulla; Eppure avrà
tutto e di qualsiasi cosa la si possa privare, essa ne avrà ancora e comunque, tanto sarà ricca. Non si
interesserà sempre degli altri né chiederà loro di essere come lei. Li amerà a ragione della loro
diversità. E pur senza impicciarsi degli altri, tutti aiuterà, come una cosa bella ci aiuta proprio perché
lo è. La personalità dell'uomo sarà meravigliosa, meravigliosa quanto quella di un bambino.
Nel suo sviluppo essa sarà assistita dal Cristianesimo, se gli uomini lo desidereranno; ma se gli
uomini non lo desidereranno, non si svilupperà con minor sicurezza. Perché non si angustierà col
passato né le importerà se certe cose sono accadute oppure no. Non accetterà legge se non la sua;
né autorità oltre la sua. Tuttavia amerà coloro che si provarono a intensificarla e di loro parlerà
spesso. E Cristo fu uno di quelli.
"Conosci te stesso" era scritto sull'architrave d'ingresso del mondo antico. Su quella del
nuovo mondo sarà scritto "Sii te stesso". E il messaggio di Cristo all'uomo non fu altro che "Sii te
stesso". Questo è il segreto di Cristo.
Quando Gesù parla dei poveri egli semplicemente intende personalità, proprio come quando
parla dei ricchi egli semplicemente intende coloro che non hanno sviluppato le loro personalità.
Gesù visse in una comunità che permetteva l'accumulazione della proprietà privata proprio come fa
la nostra, e il vangelo ch'egli predicava non affermava che in una simile comunità fosse vantaggioso
per l'uomo nutrirsi di scarso e guasto cibo, vestirsi d'abiti stracciati e luridi, dormire in orride e
malsane abitazioni, e fosse uno svantaggio per l'uomo vivere in sane, piacevoli e decenti condizioni.
Una concezione del genere sarebbe stata sbagliata lì e allora e, naturalmente, lo sarebbe ancor di più
adesso e in Inghilterra; perché quanto più l'uomo sale al nord tanto più le necessità materiali della
vita divengono di maggiore importanza, e la nostra società è infinitamente più complessa e
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manifesta con assai più rilevanza il divario tra lusso e miseria di qualsiasi società del mondo antico.
Ciò che Gesù intendeva era questo. Egli disse all'uomo: "Tu possiedi una personalità meravigliosa.
Sviluppala. Sii te stesso. Non credere che la tua perfezione risieda nell’accumulare o nel possedere
cose esteriori T. A perfezione è dentro di te. Se lo capissi, non vorresti diventare ricco. I comuni ricchi
possono venir derubati da un uomo. I ricchi veri no. Nella stanza del tesoro della tua anima, ci sono
cose infinitamente preziose, che non possono esserti tolte. E quindi, cerca di modellare la tua vita in
modo che le cose esteriori non ti nuocciano. È cerca anche di sbarazzarti della proprietà personale.
Essa comporta sordide preoccupazioni, laboriosità infinite, mali continui. La proprietà personale
ostacola l'individualismo a ogni passo." Va detto che Gesù non afferma mai che la gente povera sia
necessariamente buona, o che i ricchi siano necessariamente cattivi. Non sarebbe stato vero. La
gente ricca, in quanto classe, è migliore della povera: più morale, più intellettuale, più beneducata.
Nella comunità esiste una sola classe che pensa al denaro più di quanto facciano i ricchi: i poveri.
I poveri non possono pensare a null'altro. E questa è l'autentica miseria del povero. Quanto dice
Gesù è che l'uomo raggiunge la sua perfezione non per quel che ha né per quel che fa ma soltanto
per quel che è. E così il giovane ricco che andò da Gesù è rappresentato come un ottimo cittadino,
che non ha infranto nessuna delle leggi del suo stato e nessuno dei comandamenti della sua
religione. E assolutamente rispettabile, nel senso ordinario di questa straordinaria parola. Gesù gli
dice: "Liberati del tuo. Esso ti impedisce di raggiungere la tua perfezione. E un freno. E un peso. La
tua personalità non ne ha bisogno. E dentro di te e non fuori di te che troverai quel che sei
realmente e quel che vuoi realmente". Ai suoi stessi amici egli diceva la medesima cosa. Diceva loro
di essere se stessi e di non angustiarsi sempre per altre cose. Che importanza hanno le altre cose?
L'uomo è completo in sé. Quando andranno nel mondo, avranno il mondo contro. E inevitabile. Il
mondo odia l'individualismo. Ma non dovranno preoccuparsene. Dovranno restare calmi e
concentrati su se stessi. Se qualcuno li deruba del mantello, essi glielo donino per dimostrare che le
cose materiali sono prive di importanza. Se la gente li ingiuria, essi non reagiscano. Che significa? Le
cose che la gente dice di un uomo non modificano l'uomo. Egli è ciò che è. L'opinione pubblica non
ha alcun valore. Anche se la gente ricorre alla violenza, essi non risponderanno con la violenza.
Significherebbe scadere al medesimo basso livello. Dopo tutto, persino in prigione, un uomo può
essere completamente libero. L'anima sua può essere libera. La sua personalità può rimanere
imperturbata. Può vivere in pace. E, soprattutto, essi non dovranno interferire nella vita degli altri o
esprimere giudizi di alcun tipo. La personalità è una cosa assai misteriosa. Un uomo non può sempre
venir valutato da ciò che fa. Può attenersi alla legge e tuttavia essere indegno. Può infrangere la
legge e tuttavia essere eccellente. Può essere cattivo senza aver mai compiuto nulla di male. Può
commettere peccato nei confronti della società e tuttavia tramite quel peccato raggiungere la sua
autentica perfezione.
Una donna fu colta in peccato di adulterio. Noi non conosciamo la storia del suo amore ma
quell'amore dev'essere stato molto grande; perché Gesù disse che i suoi peccati erano perdonati,
non a ragione del suo pentimento ma della meravigliosa intensità del suo amore. In seguito, poco
prima della morte, mentre Gesù sedeva a un convito, la donna venne e cosparse di costose essenze i
suoi capelli. I suoi amici cercarono di intervenire dicendole che quella era una stravaganza e che il
denaro del profumo avrebbe dovuto impiegarlo in caritatevole sollievo dei bisognosi, o in qualcosa di
simile. Gesù non condivise questa opinione. Egli richiamò l'attenzione sul fatto che le necessità
materiali dell'uomo son grandi e permanenti; ma che le necessità spirituali dell'uomo son ancor più
grandi e che in un solo istante divino e scegliendo il proprio modo di espressione, una personalità
può farsi perfetta. Il mondo adora quella donna, anche oggi, come una santa.
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Sì; nell'individualismo vi sono cose suggestive. Il socialismo, per esempio, annienta la vita
familiare. Con l'abolizione della proprietà privata, il matrimonio nella sua forma attuale scomparirà.
Fa parte del programma. L'individualismo lo accetta e lo raffina. Esso converte l'abolizione della
restrizione legale in una forma di libertà che aiuterà il pieno sviluppo della personalità, e renderà
l’amore dell’uomo e della donna più mirabile, più bello e più nobile. Gesù lo sapeva. Egli respinse le
pretese della vita familiare, benché ai suoi tempi e nella sua società fossero assai radicate. "Chi è mia
madre? Chi sono i miei fratelli?" egli domandò quando gli fu detto ch'essi desideravano parlargli.
Quando uno dei suoi seguaci gli chiese di poter andare a seppellire il padre, "Lasciate che i morti
seppelliscano i morti", fu la sua terribile risposta. Non permetteva che si avanzassero pretese di
qualsiasi genere alla personalità.
E quindi colui che vuole condurre una vita simile a quella del Cristo è quello che è
perfettamente e assolutamente se stesso. Può essere un grande poeta, o un grande scienziato; o un
giovane studente universitario, o un guardiano di pecore nella brughiera; o un drammaturgo, come
Shakespeare, o un pensatore che rifletta su Dio, come Spinoza; o un bimbo che gioca in giardino, o
un pescatore che getta la rete nel mare. Non ha importanza ciò che è, purché realizzi la perfezione
dell'anima che è dentro di lui. Ogni imitazione nella morale e nella vita è sbagliata. Oggi per Te strade
di Gerusalemme si trascina un pazzo che porta sulle spalle una croce di legno. Egli è il simbolo delle
vite guastate dall'imitazione. Padre Damiano35 fu simile a Cristo quando andò a vivere coi lebbrosi,
perché in tal modo egli attuava appieno quanto di meglio c'era in lui. Non era più simile a Cristo di
Wagner quando attuò l'anima sua nella musica; o di Shelley, quando attuò la sua nel canto poetico.
Non esiste un tipo unico di uomo. Esistono tante perfezioni per quanti sono gli uomini imperfetti. E
mentre alle richieste della carità un uomo può sottomettersi e rimanere comunque libero, a quelle
della conformità nessun uomo può sottomettersi senza rinunciare alla libertà.
L'individualismo, dunque, è quanto otterremo per tramite del socialismo. Come risultato
naturale lo stato rinuncerà all'idea di governare. Dovrà rinunciarvi perché, come disse un saggio
vissuto molti secoli prima di Cristo, abbandonare l'umanità a se stessa è possibile governarla no.
Tutte le forme di governo sono sbagliate. Il dispotismo è ingiusto verso tutti, despota compreso, che
probabilmente era destinato a miglior cose. Le oligarchie sono ingiuste per la maggioranza e le
oclocrazie lo sono per la minoranza. Grandi speranze furono riposte un tempo nella democrazia; ma
democrazia significa semplicemente la soverchieria del popolo fatta dal popolo per il popolo. Lo si è
scoperto. E debbo dire che era tempo, perché ogni forma di autorità è degradante. Degrada chi la
esercita e degrada coloro su cui è esercitata. Quando è messa in atto con violenza, con brutalità, con
crudeltà dà buoni effetti, credendo o comunque portando alla luce lo spirito di rivolta e di
individualismo che l'ucciderà. Quando è applicata con un certo grado di gentilezza e accompagnata
da premi e ricompense è spaventosamente demoralizzante. Il popolo, in questo caso, è meno
cosciente dell'orribile pressione su di esso esercitata, e pertanto trascorre la propria vita in una
specie di grossolana agiatezza, come animali addomesticati, senza mai rendersi conto di star
probabilmente pensando col pensiero di altri, vivendo secondo il modello di altri, indossando quel
che si possono definire gli abiti usati di altri e senza mai essere neppure per un istante se stesso..
"Chi vuole essere libero", afferma uno squisito pensatore, "non deve uniformarsi". E l'autorità,
inducendo la gente a uniformarsi, produce fra noi ima volgarissima specie di barbarie
sovralimentata.
Assieme all'autorità scomparirà anche la punizione. Questo costituirà un grande guadagno,
un miglioramento di incalcolabile valore. Se si legge la storia, non nelle edizioni espurgate per scolari
e maturandi, ma attraverso le parole degli autentici esperti d'ogni tempo, si resterà totalmente
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nauseati non tanto dai crimini commessi dai malvagi ma dai castighi inflitti dai buoni; e una comunità
è infinitamente più abbrutita dall'impiego abituale del castigo che dalla ricorrenza del delitto. Ne
consegue ovviamente che più si punisce più aumenta il delitto, e la più parte della legislazione
moderna lo ha chiaramente capito assumendosi il compito di diminuire la punizione quanto più
reputano possibile. Ovunque è stata diminuita, i risultati sono stati sempre estremamente buoni.
Meno punizione, meno crimine. Quando non ci sarà più punizione anche il crimine cesserà di
esistere, o se si verificherà, sarà considerato dai medici come una forma di demenza assai penosa, da
curarsi con attenzione e gentilezza. Perché coloro che oggi son detti criminali non lo sono affatto. La
fame, non il peccato è all'origine del crimine modèrno. E questa è in realtà la ragione per cui i nostri
delinquenti sono, come categoria, così totalmente privi di interesse da qualsiasi punto di vista
psicologico. Non sono né il meraviglioso Macbeth né il terribile Vautrin.36 Sono semplicemente ciò
che la gente comune, ordinaria e rispettabile sarebbe stata se non avesse avuto da mangiare a
sufficienza. Quando la proprietà privata sarà abolita non ci sarà bisogno del crimine, non sarà più
necessario e cesserà di esistere. Naturalmente, non tutti i delitti sono contro la proprietà, sebbene
sian questi i delitti che la legge inglese, valutando ciò che un uomo possiede più di quel che un uomo
è, punisce con la più rigorosa e terribile severità (se si eccettua l'omicidio, per il quale la pena
capitale è considerata peggiore della detenzione, un'opinione sulla quale i nostri criminali
dissentono, io credo). Ma anche se un delitto può non essere contro la proprietà, può comunque
scaturire dalla miseria, dall'ira, dalla depressione prodotte dal nostro sbagliato sistema di possesso
proprietario e quindi, quando quel sistema sarà abolito, il delitto scomparirà. Quando ciascun
componente la società avrà a sufficienza di ciò che gli occorre e non sarà più ostacolato dal suo
prossimo, non costituirà più suo motivo d'interesse ostacolare la vita di chiunque altro. La gelosia,
che è una straordinaria fonte di crimine nella vita moderna, è un'emozione strettamente connessa
alla nostra concezione di proprietà e col socialismo e l'individualismo non avrà più ragione d'essere.
È considerevole che nelle tribù dove vige la comunanza dei beni la gelosia è del tutto sconosciuta.
Ora, poiché lo stato non governerà più, ci si può domandare cosa farà lo stato. Lo stato
costituirà un'associazione volontaria che organizzerà il lavoro e sarà il produttore e il distributore
delle merci d'uso indispensabili. Lo stato deve fare ciò che è utile. L'individuo ciò che è bello. E
poiché ho menzionato la parola lavoro, non posso esimermi dal dichiarare che una buona dose di
sciocchezze son scritte e dette al giorno d'oggi in merito alla dignità del lavoro manuale. Non c'è
nulla di necessariamente dignitoso nel lavoro manuale, e la più parte di esso è assolutamente
degradante. È moralmente e mentalmente offensivo per l'uomo fare qualcosa nella quale non trovi
piacere, e molte forme di lavoro sono attività totalmente prive di piacere, e dovrebbero essere
considerate tali. Spazzare un crocevia fangoso per otto ore al giorno mentre soffia il vento di levante
è un'occupazione disgustosa. Spazzarlo con gioia sarebbe spaventoso. L'uomo è fatto per qualcosa di
meglio che rimestare dello sporco. Tutti i lavori di ¡quel tipo dovrebbero esser fatti da una macchina.
E non dubito che così sarà. Fino a oggi, l'uomo è stato, in una certa misura, lo schiavo della
macchina; e v'è qualcosa di tragico nel fatto che non appena l'uomo ha inventato una macchina
perché lo sostituisse nel lavoro egli ha iniziato a morire di fame. Ciò, naturalmente, non è comunque
che il risultato del nostro sistema di proprietà e del nostro sistema competitivo. Un uomo possiede
una macchina che compie il lavoro di cinquecento uomini. Cinquecento uomini, di conseguenza,
perdono il loro posto e, non avendo lavoro, diventano degli affamati e cominciano a rubare. Quel
solo uomo si assicura il prodotto della macchina e se lo tiene e possiede cinquecento volte di più di
quanto dovrebbe avere, e probabilmente, cosa che è di importanza ancor maggiore, assai di più di
quanto realmente gli occorra. Se la proprietà di quella macchina fosse di tutti, ciascuno ne
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beneficerebbe. Sarebbe di immenso vantaggio per la comunità. Tutto il lavoro non intellettuale,
tutto il lavoro monotono e ottuso, tutto il lavoro che deve occuparsi di cose orribili e comporta
condizioni spiacevoli, dev'essere fatto dalla macchina. La macchina lavorerà per noi nelle miniere di
carbone, assolverà tutti i compiti igienici, sarà il fochista nei vapori, pulirà le strade, farà le
commissioni nelle giornate di maltempo e si occuperà di tutto ciò che è noioso, faticoso, penoso.
Attualmente la macchina fa concorrenza all'uomo. Nelle appropriate condizioni, la macchina servirà
l'uomo. Non v'è alcun dubbio che questo sarà il futuro della macchina; e proprio come gli alberi
crescono mentre il signore di campagna dorme, così l'umanità si divertirà o godrà di raffinati agi, che
sono - e non il lavoro - Io scopo dell'uomo, o compirà belle cose, ó lèggerà belle cose, o
semplicemente contemplerà il mondo con ammirazione e delizia, mentre la macchina si occuperà di
tutte le mansioni necessarie e spiacevoli. Il fatto è che la civiltà esige degli schiavi. I greci avevano
completamente ragione. A meno che non esistano degli schiavi che eseguano il lavoro brutto,
orribile e privo d'interesse, la cultura e la contemplazione divengono quasi impossibili. La schiavitù
umana è sbagliata, insicura e demoralizzante. Dalla schiavitù meccanica, dalla schiavitù delle
macchine dipende il futuro del mondo. E quando agli uomini di scienza non sarà più chiesto di recarsi
in uno sconfortante East End a distribuire cattivo cacao e peggiori coperte alla gente che muore di
fame, essi godranno di un dilettevole agio nel quale concepire cose portentose e meravigliose per la
loro gioia e per la gioia di tutti. Vi saranno grandi riserve energetiche per ogni città e per ogni casa
che ne avrà necessità; e questa energia l'uomo convertirà in calore, luce, moto, secondo le sue
esigenze. E Utopia? Una mappa del mondo che non includa il paese di Utopia non merita neppure
un'occhiata, perché tralascia l'unica terra cui l'umanità sia sempre approdata. E quando l'umanità vi
sbarca, subito guarda al largo e scorgendovi terra migliore nuovamente arma le vele. Il progresso è la
realizzazione delle utopie.
Ora, ho detto che la società, per mezzo dell'organizzazione della macchina, si doterà delle
cose utili e che le cose belle saranno opera dell'individuo. Ciò non è semplicemente necessario ma è
l'unico modo possibile per avere sia l'una cosa che l'altra. Un individuo costretto a fare cose utili ad
altri, tenendo conto dei loro desideri e voleri, non lavora con interesse e di conseguenza non può
trasfondere il meglio di sé nella sua opera. D'altro canto, ogniqualvolta una società o una potente
parte di essa, o un qualsivoglia governo, si prova a imporre all'artista ciò che dovrebbe fare, l'arte
scompare del tutto, o diviene stereotipata, o degenera in una forma bassa e ignobile di mestiere.
Un'opera d'arte è il risultato unico di un unico temperamento. La sua bellezza deriva dal fatto che
l'autore è ciò che è. Non ha nulla a che fare coi desideri altrui. Davvero, nell'istante in cui l'artista
tiene conto di ciò che desiderano gli altri e cerca di soddisfarne la richiesta, egli cessa di essere
artista per divenire un artigiano monotono oppure sollazzevole, un commerciante onesto oppure
disonesto. Non ha più diritto di essere considerato un artista. L'arte è la forma più intensa di
individualismo che il mondo abbia conosciuto. Inclino anzi a dire che è l'unica forma reale di
individualismo che ;il mondo abbia conosciuto. Il delitto che, date certe condizioni, può dar
l'impressione di aver creato l'individualismo, deve prendere atto di altre persone e averci a che fare.
Esso pertiene alla sfera dell'azione. Ma da sola, senza nessun contatto con ciò che lo circonda, senza
nessuna commistione con altri, l'artista può dar vita a qualcosa di bello; e se non lo fa unicamente
per il proprio piacere non è un artista.
E bisogna far osservare che se il pubblico cerca di esercitare sull'arte un'autorità tanto
immorale quanto ridicola e tanto corruttrice quanto spregevole è proprio perché l'arte è questa
intensa forma di individualismo. La colpa non è interamente del pubblico. Il pubblico è stato sempre
e in ogni tempo malamente educato. Esso ha continuamente chiesto all'arte di essere popolare, di
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compiacere la sua carenza di gusto, di adulare la sua assurda vanità, di ripetergli ciò che gli era già
stato detto, di mostrargli ciò che dovrebbe essere stanco di vedere, di divertirlo quando si sente
appesantito da un pasto troppo abbondante, e di distrargli la mente quando è affaticata dalla
propria stupidità. L'arte, invece, non dovrebbe mai cercare di essere popolare. Il pubblico dovrebbe
cercare di essere artistico. C'è una differenza grandissima. Se a un uomo di scienza fosse detto che i
risultati dei suoi esperimenti e le conclusioni cui è pervenuto debbono essere tali da non sconvolgere
le nozioni comunemente diffuse e accettate in materia, o da non disturbare il pregiudizio popolare, o
da non offendere la sensibilità di coloro che nulla sanno a proposito di scienza; se a un filosofo fosse
detto che egli ha pieno diritto di speculare nelle più alte sfere del pensiero, a patto ch'egli giunga alle
medesime conclusioni cui pervennero coloro che mai meditarono su cosa alcuna, ebbene,
oggigiorno lo scienziato e il filosofo si divertirebbero assai. Tuttavia, non sono passati che pochi anni
da quando la scienza e la filosofia subivano il brutale controllo popolare, di fatto erano soggette
all'autorità, l'autorità espressa dalla generale ignoranza della società, o dal terrore e dall'ingordigia di
potere di una classe ecclesiastica o governativa. Naturalmente, ci siamo in gran misura liberati dei
tentativi da parte della società, della Chiesa, del governo di impicciarsi dell'individualismo del
pensiero speculativo; ma il tentativo di impicciarsi dell'individualismo dell'arte ancora sussiste. In
realtà, non si limita a sussistere; è aggressivo, offensivo, brutale.
In Inghilterra, le arti che son riuscite a scamparla meglio sono quelle in cui il pubblico non ha
alcun interesse. La poesia è esemplare di quanto sostengo. L'Inghilterra è stata capace di esprimere
della poesia eccellente perché il pubblico non la legge e di conseguenza non l'influenza. Il pubblico
ama oltraggiare i poeti perché sono individualisti, ma una volta insultati, li lascia in pace. Nel caso del
romanzo e del dramma, arti delle quali il pubblico s'interessa, il risultato dell'esercizio dell'autorità
popolare è stato assolutamente ridicolo. Nessun altro paese produce come l'Inghilterra tanta cattiva
narrazione, tanti tediosi e rozzi romanzi, tanti stupidi e volgari drammi. Così dev'essere
necessariamente. Il livello popolare è tale che nessun artista può raggiungerlo. E al tempo stesso
troppo facile e troppo difficile essere un narratore popolare. È troppo facile, perché ciò che richiede
il pubblico per quanto riguarda trama, stile, psicologia, visione della vita e interpretazione letteraria
sono alla portata della più mediocre capacità e della meno coltivata delle menti. E troppo difficile,
perché per venire incontro a simili richieste l'artista dovrebbe far violenza al proprio temperamento,
dovrebbe scrivere non per la gioia artistica di scrivere bensì per il divertimento di gente
culturalmente impreparata, e pertanto dovrebbe sopprimere il proprio individualismo, dimenticare
la propria cultura, annichilire il suo stile e rinunciare a tutto ciò che in lui ha valore. Nel caso del
dramma, le cose vanno un po' meglio: il pubblicò che frequenta i teatri ama l'ovvio, è vero, ma non il
tedioso; e l'opera burlesca e la farsesca, le due forme più popolari, sono due considerevoli forme
d'arte. Nei moduli burleschi e farseschi si possono rappresentare opere deliziose; e in questo genere
di lavori l'artista gode in Inghilterra di una grande libertà. È quando si raggiungono le più alte forme
drammatiche che si può osservare l'effetto dell'influenza del pubblico. Se c'è una cosa che il pubblico
non gradisce è la novità. Qualsiasi tentativo di estendere la materia dell'arte è estremamente
spiacevole per il pubblico; e tuttavia, la vitalità e il progresso artistico dipendono in gran parte dalla
continua espansione della materia dell'arte. Al pubblico la novità non piace perché ne ha paura. Essa
rappresenta un'espressione di individualismo, un'affermazione da parte dell'artista che ha scelto il
proprio soggetto e lo tratta come preferisce. Il pubblico ha perfettamente ragione ad assumere
quest'atteggiamento. L'arte è individualismo e l'individualismo è una forza che allarma perché
disintegra. In ciò è il suo immenso valore. Perché ciò che tende a scompigliare è la monotonia del
tipo, la schiavitù della moda, la tirannia dell'abitudine e la degradazione dell'uomo al livello della
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macchina. In arte, il pubblico accetta ciò che è stato, perché non ha più la possibilità di alterarlo, non
perche lo apprezzi. Butta giù i suoi classici d'un colpo, non li gusta mai. Li sopporta come l'inevitabile
e poiché non può guastarli, ne parla enfaticamente. Abbastanza stranamente, o per nulla
stranamente, secondo il punto di vista, questa accettazione dei classici provoca grave danno. La
acritica ammirazione per la Bibbia e per Shakespeare in Inghilterra è esemplare di quanto sostengo.
Per quanto riguarda la Bibbia, considerazioni di autori ecclesiastici entrano nella questione, cosicché
io non ho bisogno di soffermarmi su questo punto.
Ma nel caso di Shakespeare è del tutto evidente che il pubblico davvero non vede né le
bellezze né i difetti delle sue opere. Se ne vede le bellezze, non ha motivo di obiettare allo sviluppo
del dramma; e se ne vede i difetti, non obietta comunque allo sviluppo del dramma. Il fatto è che il
pubblico si serve dei classici di un paese come di un mezzo per arrestare il progresso dell'arte.
Degrada i classici ad autorità. Li adopera come randelli per impedire le libere manifestazioni della
bellezza in nuove forme. Chiede sempre allo scrittore perché non scriva come qualcun altro, o al
pittore perché non dipinga come qualcun altro, completamente dimentico del fatto che se uno di
essi facesse qualcosa del genere, cesserebbe di essere un artista. Una nuova forma di bellezza gli
risulta assolutamente disgustosa, e ovunque gli compaia dinnanzi ne resta così arrabbiato e
sbalordito che adopera sempre due stupide espressioni: l'una, è che quell'opera d'arte è di una
inintelligibilità madornale, l'altra, che quell'opera d'arte è di una immoralità madornale. Quel che il
pubblico intende con simili espressioni a me sembra questo. Quando dice che il tale lavoro è
inintelligibile, significa che l'artista ha detto o fatto una cosa bella e nuova; quando descrive il tale
lavoro come immorale, significa che l'artista ha detto o fatto una tosa bella che è vera. La prima
espressione fa riferimento allo stile; la seconda, al contenuto. Ma esso probabilmente usa queste
espressioni con molta imprecisione, così come la plebaglia comune si serve del sasso già pronto della
pavimentatone stradale. Non esiste, per esempio, un solo vero poeta o ¡prosatore di questo secolo,
cui il pubblico inglese non abbia solennemente conferito il diploma di immoralità; e questo diploma
praticamente sostituisce, presso di noi, ciò che in Francia è il formale riconoscimento per far parte
dell'Accademia delle Lettere e, fortunatamente, rende la fondazione di una consimile istituzione in
Inghilterra del tutto inutile. Naturalmente, il pubblico assegna con grande noncuranza una tale
patente. Che definisse Wordsworth un poeta immorale, c'era semplicemente da aspettarselo.
Wordsworth era un poeta. Ma che abbia bollato Charles Kingsley37 col titolo di romanziere immorale
è sorprendente. La prosa di Kingsley non è di gran qualità. Eppure, c'è quell'espressione e il pubblico
l'adopera come meglio può. Un artista, naturalmente, non ne è disturbato. Il vero artista è un uomo
che crede assolutamente in se stesso, perché egli è assolutamente se stesso.
Ma io posso immaginare che se un artista in Inghilterra producesse un'opera d'arte che venisse al
suo apparire immediatamente riconosciuta dal pubblico, grazie al suo intermediario, cioè la stampa
nazionale, come un'opera intelligibile e altamente morale, egli comincerebbe seriamente a chiedersi
se nella sua creazione sia stato veramente se stesso fino in fondo e, di conseguenza, se l'opera non
sia completamente indegna di lui e non sia o di secondo ordine o priva di qualsiasi valore artistico.
In questi ultimi anni due altri aggettivi, va detto, sono andati ad arricchire l'assai esiguo
vocabolario dell'insulto all'arte a disposizione del pubblico. Uno è la parola "malsano"; l'altro la
parola "esotico". Quest'ultima esprime semplicemente la collera dell'effimero fungo contro
l'immortale, incantevole e mirabilmente bella orchidea. E un omaggio, ma è un omaggio di nessuna
importanza. La parola "malsano", comunque, dà adito all'analisi. È una parola alquanto interessante.
Infatti, è così interessante che la gente che la usa non sa cosa significhi.
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Cosa significa? Cos'è un'opera d'arte sana o malsana? Tutti i termini applicati a un'opera
d'arte - purché impiegati razionalmente - fanno riferimento o al suo stile o al suo soggetto o a
entrambi. Dal punto di vista dello stile, un'opera d'arte sana è quella nel cui stile si ravvisa la bellezza
del materiale impiegato, sia codesto materiale di parole o di bronzo, di colore ó di avorio, e adopera
quella bellezza come un elemento di produzione dell'effetto estetico. Dal punto di vista del soggetto,
un'opera d'arte sana è quella in cui la scelta del soggetto è condizionata dal temperamento
dell'artista e deriva direttamente da esso. Insomma, un'opera d'arte sana è quella che possiede sia
perfezione che personalità. Naturalmente, forma e sostanza non possono essere separate in
un'opera d'arte: sono sempre un tutt'uno. Ma a scopo di analisi e lasciando da parte per un
momento la totalità dell'impressione estetica, possiamo intellettualmente separarle. Un'opera d'arte
malsana, d'altro canto, è un'opera il cui stile è scontato, vecchio e ordinario; e il cui soggetto è
deliberatamente scelto, non perché l'artista vi prenda un qualsiasi piacere ma perché pensa che il
pubblico glielo pagherà. Difatti, il romanzo popolare, che il pubblico definisce sano, è sempre una
produzione totalmente malsana; e ciò che il pubblico definisce un romanzo malsano è sempre
un'opera d'arte bella e sana.
Forse, però, faccio torto al pubblico limitandone la capacità espressiva a parole come
"immorale", "inintelligibile", "esotico" e "malsano". C'è un'altra parola che impiega. Questa parola è
"morboso". Non l'adopra spesso. Il significato del termine è così semplice che ha paura di usarla.
Nondimeno, talvolta l'adopera e, occasionalmente, capita d'incontrarla nei quotidiani popolari.
Naturalmente, si tratta di una parola ridicola applicata a opere d'arte. Perché cos'è la morbosità se
non una disposizione emotiva o un tipo di pensiero che non si può esprimere? Tutto il pubblico è
morboso, perché il pubblico non riesce mai a trovare espressione a nulla. L'artista non è mai
morboso. Egli esprime tutto. Egli resta fuori dal suo soggetto e per suo mezzo produce incomparabili
effetti artistici. Definire morboso un artista perché fa della morbosità il contenuto della sua opera è
tanto idiota quanto definire Shakespeare pazzo perché scrisse Re Lear.
Tutto sommato, un artista in Inghilterra guadagna sempre qualcosa dall'essere attaccato. La
sua individualità è rinforzata. Egli diviene vieppiù se stesso. Naturalmente, gli attacchi sono assai
grossolani, assai impertinenti e assai spregevoli. Ma nessun artista si aspetta grazia dalle menti
volgari o stile dall'intelletto suburbano. La volgarità e la stupidità costituiscono due componenti assai
vive della vita moderna. Ce ne rammarichiamo, ovviamente; ma così è. Son soggetti di studio come
qualsiasi altro. E bisogna riconoscere che, a proposito di giornalisti moderni, essi in privato si scusano
sempre con colui che hanno attaccato per iscritto pubblicamente.
E quasi superfluo dire che io non deploro, neppure per un istante, il fatto che il pubblico e la stampa
abusino di queste parole. Non capisco come, vista la loro mancanza di comprensione di cosa sia
l'arte, essi potrebbero adoperarle nel senso appropriato. Mi limito semplicemente a rilevare l'abuso;
e per quanto concerne l'origine dell'abuso e del significato da esso adombrato, la spiegazione è
molto facile. Derivano da una concezione barbara dell'autorità. Derivano dalla naturale incapacità di
una società corrotta dall'autorità a comprendere o ad apprezzare l'individualismo. In una parola,
derivano da quella cosa mostruosa e ignorante detta opinione pubblica, che malvagia e bene
intenzionata come è quando cerca di controllare l'azione, diviene infame e male intenzionata
quando cerca di controllare il pensiero o l'arte.
In realtà, c'è molto più da dire in favore della forza fisica del pubblico che non ci sia in favore
dell'opinione pubblica. La prima può essere bella. La seconda dev'essere stupida. Si è spesso detto
che la forza non è un argomento. Ciò, comunque, dipende interamente da cosa si vuole provare.
Molti dei più importanti problemi degli ultimi secoli, come la continuazione del governo personale in
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Inghilterra o del feudalesimo in Francia, son stati radicalmente risolti per mezzo della forza fisica. La
totale violenza di una rivoluzione può rendere il pubblico grandioso e splendido per un istante. Fu un
giorno fatale quello in cui il pubblico scoprì che la penna è più potente del sasso e che può far male
quanto una mattonata. Subito si mise alla ricerca del giornalista, lo coltivò, lo sviluppò e ne fece il
suo industrioso e ben pagato servo. C'è da rammaricarsene amaramente, per il bene di entrambi.
Dietro la barricata può esservi qualcosa di molto eroico e di molto nobile. Ma dietro un editoriale
cosa può esservi se non pregiudizio, stupidità, ipocrisia e ciarlataneria? E quando queste quattro
componenti si uniscono assieme formano una forza terribile e costituiscono la nuova autorità.
Nei tempi antichi gli uomini si servivano dei tormenti della ruota. Oggi di quelli della stampa.
È un miglioramento, senz'altro. Ma è ancora una cosa molto cattiva, sbagliata, demoralizzante.
Qualcuno (Burke?)38 definì il giornalismo il quarto potere. Cosa vera allora, indubbiamente. Ma
attualmente esso costituisce sul serio l'unico potere. Si è mangiato gli altri tre. I Pari temporali
tacciono, i Pari spirituali non hanno nulla da dire, e la Camera dei Comuni non ha nulla da dire e lo
dice. Noi siamo dominati dal giornalismo. In America il presidente regna per quattro anni e il
giornalismo nei secoli dei secoli. Fortunatamente, in America, il giornalismo ha spinto la sua autorità
al limite massimo di grossolanità e brutalità. Come naturale conseguenza, ha preso a creare uno
spirito di rivolta. Il popolo ne è divertito o disgustato, secondo gli umori. Ma non sarà più la vera
forza che era. Non è trattato seriamente. In Inghilterra, salvo alcuni ben noti esempi, il giornalismo,
non essendo giunto a tali eccessi di brutalità, è ancora un grande elemento, un potere veramente
notevole. La tirannia che si propone di esercitare sulla vita privata dei cittadini a me sembra del tutto
straordinaria. Il fatto è che il pubblico possiede una insaziabile curiosità di conoscere ogni cosa, a
eccezione di ciò che merita essere conosciuto. Il giornalismo, conscio di questo e avendo propensioni
bottegaie, soddisfa la richiesta. Nei secoli precedenti al nostro, il pubblico inchiodava le orecchie dei
giornalisti alla gogna. Una cosa assolutamente esecrabile. In questo secolo, i giornalisti si sono
inchiodati le orecchie al buco della serratura. Una cosa assai peggiore. E ciò che aggrava il guaio è
che i giornalisti più biasimevoli non sono quelli divertenti che scrivono per i cosiddetti giornali
mondani. Il danno è opera dei giornalisti seri, pensosi, coscienziosi, i quali con solennità, come
attualmente fanno, trascinano dinnanzi agli occhi del pubblico qualche avvenimento della vita
privata di un grande statista, di un uomo che è il maggior esponente di un pensiero politico e il
creatore di una forza politica, e invitano il pubblico a discutere su quell'avvenimento, a esercitare in
proposito la propria autorità, a esprimere le proprie opinioni, e non soltanto a esprimerle ma a
tradurle in atto, a imporre all'uomo soprattutto altri scopi, a imporli al suo partito, a imporli al suo
paese; in realtà, a rendersi ridicolo, offensivo e dannoso. Le vite private degli uomini e delle donne
non dovrebbero essere raccontate al pubblico. Il pubblico con esse non ha nulla a che fare.
In Francia simili faccende son trattate meglio. Non è consentito che i particolari delle cause
di divorzio vengano pubblicati per il divertimento o la critica del pubblico. Tutto ciò che al pubblico è
consentito sapere è se il divorzio sia stato promosso e accordato su richiesta dell'una parte o
dell'altra o di entrambe. In Francia, infatti, si limita il giornalista e si permette all'artista una libertà
quasi totale. Da noi è concessa massima libertà al giornalista e minima all'artista. L'opinione pubblica
inglese, va detto, cerca di costringere, ostacolare e curvare l'uomo che fa cose belle, e obbliga il
giornalista a vendere al dettaglio cose che son brutte, disgustose o rivoltanti, cosicché il nostro paese
vanta i giornalisti più seri del mondo e i giornali più indecenti. Non è esagerato parlare di
coercizione. Probabilmente esistono alcuni giornalisti che godono veramente nel pubblicare cose
orribili,, o che, essendo poveri, fanno affidamento sugli scandali per formarsi una specie di base
permanente di reddito. Ma esistono altri giornalisti, ne sono certo, uomini colti ed educati, ai quali
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dispiace veramente pubblicare tali cose, che sanno quanto sia sbagliato farlo e che lo fanno soltanto
perché le incerte condizioni in cui si svolge la loro occupazione, li obbliga a fornire al pubblico ciò che
il pubblico vuole e a competere con altri giornalisti per rendére quanto viene loro richiesto il più
completo e soddisfacente possibile per il volgare palato popolare. Si tratta di una posizione
estremamente degradante per chiunque abbia cultura ed educazione e io non dubito che la più
parte di essi ne soffra intensamente.
In ogni modo, lasciamo da parte il lato veramente meschino della faccenda, e torniamo alla
questione del controllo popolare sull'arte, che io intendo svolto dall'opinione pubblica quando
impone all'artista la forma che deve usare, il modo in cui la deve usare, e i materiali coi quali deve
lavorare. Ho fatto notare che le arti che in Inghilterra l'hanno meglio scampata son quelle che non
riscuotono l'interesse del pubblico. Il quale, però, s'interessa al dramma; e poiché negli ultimi dieci o
quindici anni ve stato un certo progresso nella drammaturgia, è importante sottolineare il fatto che
questo progresso è totalmente dovuto a un pugno di artisti isolati, che si rifiutano di accettare come
modello la diffusa mancanza di gusto e si rifiutano di considerare l'arte come una mera faccenda di
domanda e offerta. Con la sua meravigliosa e vivida personalità, con uno stile che veramente
possiede in sé un autentico elemento coloristico, col suo straordinario potere, non soltanto mimico
ma anche immaginativo e intellettuale, il signor Irving39 - fosse stato il suo solo obiettivo quello di
dare al pubblicò ciò che voleva - avrebbe messo in scena le rappresentazioni più banali nella maniera
più ordinaria e ottenuto più successo e denaro di quanto un uomo possa desiderare. Ma il suo scopo
non era quello. Il suo scopo era realizzare la propria perfezione di artista, secondo certe condizioni e
certe forme d'arte. Sulle prime si rivolse a pochi; adesso ne ha istruiti molti. Egli ha creato gusto e
carattere nel pubblico. Il pubblico apprezza il suo successo artistico immensamente. Mi sono spesso
chiesto, però, se il pubblico comprende che quel successo è interamente dovuto al fatto ch'egli non
accettò il modello che il pubblico gli imponeva, ma realizzò il suo. Col modello del pubblico, il Lyceum
sarebbe stato una specie di squallido capanno, come alcuni popolari teatri di Londra attualmente.
Che il pubblico l'abbia capito o meno, il fatto rimane: in una certa misura si sono creati in esso gusto
e carattere, e la capacità di svilupparli. Il problema allora è: perché il pubblico non diventa più civile?
Ne ha la capacità. Cosa glielo impedisce?
Ciò che glielo impedisce, va detto nuovamente, è il desiderio di esercitare autorità sull'artista
e sulle opere d'arte. Talvolta, come per il Lyceum o l'Haymarket, il pubblico pare adeguato ai teatri.
In entrambi questi due teatri vi sono stati singoli artisti che sono riusciti a creare nel loro pubblico (e
ogni teatro di Londra ha il suo particolare pubblico) il carattere cui l'arte fa appello. E qual è questo
carattere? Quello della ricettività. Questo è tutto.
Se ci si avvicina a un'opera d'arte desiderando in qualche misura di esercitare su essa e
sull'artista la propria autorità, ci si avvicina con uno spirito tale che non se ne riceverà alcuna
impressione artistica. L'opera d'arte deve dominare lo spettatore non viceversa. Lo spettatore ha da
essere ricettivo. Dev'essere il violino suonato dal maestro. E più compiutamente egli sopprime i
propri sciocchi punti di vista, i propri stupidi pregiudizi, le proprie assurde idee su ciò che l'arte do-
vrebbe o non dovrebbe essere, più verosimilmente egli riuscirà a comprendere e ad apprezzare
l'opera d'arte in questione. Naturalmente, questo è ovvio nel caso della rozza platea inglese d'ambo i
sessi. Ma è egualmente vero per il cosiddetto pubblico colto. Perché per una persona colta le idee
d'arte derivano spontaneamente da ciò che l'arte è stata, laddove la nuova opera d'arte è bella a
ragione del suo essere ciò che l'arte non è mai stata; e misurarla col modello del passato significa
misurarla con un modello dal cui rifiuto dipende la sua vera perfezione. Un temperamento capace di
ricevere, tramite un mezzo immaginativo e a condizioni immaginative, impressioni nuove e belle, è
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l'unico temperamento capace di apprezzare un'opera d'arte. E se questo è vero quando si apprezza
la scultura e la pittura, è ancor più vero quando si apprezza un'espressione artistica come il dramma.
Perché un quadro o una statua non sono in guerra col tempo: non tengono in alcun conto la sua
successione. La loro unità può essere percepita in un istante. Nel caso della letteratura è diverso. Il
tempo deve trascorrere prima che l'unità dell'effetto si compia. E così, nel dramma, nel primo atto
può accadere qualcosa il cui valore artistico autentico non sarà evidente allo spettatore finché non si
è raggiunto il terzo o il quarto atto. Lo sciocco dovrà per questo arrabbiarsi, protestare,
interrompere la rappresentazione e disturbare gli attori? No. L'uomo dabbene continuerà a
restarsene seduto tranquillo e proverà le deliziose emozioni della meraviglia, della curiosità e
dell'incertezza. Egli non si è recato a teatro per dar sfogo al basso istinto. Egli si è recato a teatro per
realizzare un temperamento artistico. Egli si è recato a teatro per acquisire un temperamento
artistico. Egli non è l'arbitro dell'opera d'arte. Egli è uno che è stato ammesso a contemplare l'opera
d'arte e se l'opera è bella a obliare nella sua contemplazione tutto l'egotismo che lo guasta,
l'egotismo della sua ignoranza oppure l'egotismo della sua informazione. Lo scopo del dramma non
è, mi pare, sufficientemente apprezzato. Comprendo perfettamente che se Macbeth fosse messo in
scena per la prima volta dinnanzi al pubblico londinese attuale, molti tra i presenti obietterebbero
con forza e vigore all'introduzione delle streghe nel primo atto, a ragione delle loro espressioni
grottesche e delle loro parole ridicole. Ma allorché il dramma si compie si capisce che la risata delle
streghe nel Macbeth è tanto terribile quanto il riso dettato dalla follia nel Lear, più terribile del riso
di Jago nella tragedia del Moro. Nessun osservatore di arte necessita di una maggior ricettività dello
spettatore di un dramma. Nell'istante in cui egli cerca di esercitare la sua autorità, si trasforma nel
nemico dichiarato dell'arte e di se stesso. L'arte non se ne cura; chi ne soffre è lui.
Col romanzo è la stessa cosa. L'autorità popolare e l'apprezzamento dell'autorità popolare
sono letali. VEsmond del Thackeray è una bella opera d'arte perché egli la scrisse per suo piacere.
Negli altri suoi romanzi, in Pendennis, in Philip, perfino in Vanity Fair, a volte, egli è troppo conscio
del pubblico e rovina l'opera sua appellandosi direttamente alla comprensione del pubblico o
direttamente scimmiottandolo. Un artista autentico non tiene in alcun conto il pubblico; per lui il
pubblico non esiste. Egli non ha oppiacei o torte al miele con cui addormentare o saziare il mostro.
Ciò spetta al romanziere popolare. Noi abbiamo oggi in Inghilterra un incomparabile romanziere:
George Meredith. In Francia ci sono artisti migliori; ma la Francia non ne vanta uno la cui visione
della vita sia altrettanto grande, varia, immaginativamente vera. Vi sono dei narratori in Russia che
possiedono un senso più vivo di quel che può essere il dolore nell'opera d'invenzione. Ma a Meredith
pertiene la filosofia. I suoi personaggi non si limitano a vivere, vivono anche nel pensiero. Li si
possono considerare da innumerevoli punti di vista. Sono suggestivi. In essi e intorno a essi c'è
anima. Sono interpretativi e simbolici. E il loro artefice, colui che dette vita a quelle meravigliose e
vivacissime figure, le volle per il proprio piacere, senza mai chiedere al pubblico cosa desiderasse,
senza mai curarsi di sapere cosa desiderasse, senza mai permettere al pubblico di dargli ordini o
d'influenzarlo in qualsiasi modo; ma ha proseguito rafforzando la propria personalità e producendo
la sua personale opera. Dapprincipio nessuno s'interessò di lui. La qual cosa non era importante. Poi,
alcuni gli si avvicinarono. La qual cosa non lo mutò. Adesso i più lo seguono. Ed egli è sempre il
medesimo: un incomparabile romanziere.
Con le arti decorative non va diversamente. Il pubblico si aggrappava con tenacia veramente
patetica a ciò ch'io credo fossero le dirette tradizioni della Grande Esposizione della volgarità
internazionale; tradizioni talmente spaventose che le abitazioni risultavano adatte soltanto per un
popolo di ciechi. Si incominciarono a fare delle cose belle, bei colori uscirono dalle mani del tintore,
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bei modelli dalla mente dell'artista, e l'uso delle cose belle e il loro valore e la loro importanza
cominciarono a prendere piede. Il pubblico ne fu profondamente indignato. Perse le staffe e disse
cose sciocche. Nessuno se ne occupò. Tutti se ne infischiarono. Nessuno accettò l'autorità
dell'opinione pubblica. E adesso è quasi impossibile entrare in una qualsiasi moderna abitazione
senza vedervi qualche riconoscimento al buon gusto, qualche riconoscimento al valore di un
ambiente attraente, qualche segno di apprezzamento nei confronti della bellezza. In effetti, oggi, le
abitazioni sono solitamente assai piacevoli. La gente si è in larga misura incivilita. E giusto, però,
affermare che lo straordinario successo della rivoluzione nella decorazione della casa,
nell'arredamento e simili non è nella maggioranza dei casi in verità dovuto allo sviluppo del buon
gusto. Lo si deve principalmente al fatto che gli artigiani tanto godettero del piacere di fare cose
belle, ed ebbero una così chiara consapevolezza dell'orrore e della volgarità di quanto la gente aveva
loro precedentemente chiesto, ch'essi semplicemente incrociarono le braccia dinnanzi alle pretese
del pubblico. Adesso sarebbe veramente impossibile arredare una stanza come venivano arredate
qualche anno orsono, a meno di non recarsi per ciascun oggetto alle vendite all'asta di arredi di
seconda mano provenienti da camere d'affitto mobiliate di terz'ordine. Quelle cose non sono più
fabbricate. Per quanto vi si possa opporre, la gente oggi ha per forza qualcosa di attraente
nell'ambiente in cui vive. Fortunatamente per il pubblico, le sue asserzioni di autorità in tali questioni
d'arte fallirono completamente.
E’ evidente, quindi, che qualsiasi forma di autorità in simili cose è un male. Talvolta la gente
si domanda qual forma di governo sarebbe più consona all'artista. A questa domanda c'è una sola
risposta. La forma di governo più consona all'artista è la mancanza di governo. L'autorità su di lui c la
sua arte è ridicola. Si è detto che sotto il dispotismo gli artisti produssero cose mirabili. Non è affatto
così. Gli artisti frequentavano i despoti non come sudditi che dovevano essere tirannizzati bensì
come erranti artefici di meraviglie, come affascinanti personalità vagabonde, per essere loro deliziati
ospiti, cui era concesso di starsene in pace a creare liberamente. In favore del despota c'è da dir
questo, che egli, essendo un individuo, può avere una cultura, mentre la folla, essendo un mostro,
non ne ha nessuna. Colui che è imperatore e re può chinarsi a raccogliere il pennello di un pittore,
mentre quando è la democrazia a chinarsi lo fa soltanto per gettare fango. Eppure la democrazia non
deve abbassarsi tanto quanto l'imperatore. In realtà, quando vuole gettare del fango non ha
neppure bisogno di abbassarsi. Ma non è necessario separare il monarca dalla plebe; tutta l'autorità
è ugualmente cattiva.
Esistono tre generi di despota. C'è il despota che tirannizza il corpo. C'è il despota che
tirannizza l'anima. C'è il despota che tirannizza corpo e anima. Il primo è detto Principe. Il secondo,
Papa. Il terzo, Popolo. Il principe può essere colto. Molti principi lo sono stati. Tuttavia, nel principe
c'è il pericolo. Si pensi a Dante all'amaro banchetto di Verona, a Tasso nella sua cella di pazzo a
Ferrara. Per l'artista è meglio non vivere coi principi. Il papa può essere colto. Molti papi lo sono
stati; quelli cattivi di certo. I papi cattivi amarono la bellezza, quasi altrettanto appassionatamente,
anzi, con la stessa passione con cui i papi buoni odiarono il pensiero. Alla malvagità del papato
l'umanità deve molto. La bontà del papato comporta un terribile debito per l'umanità. Tuttavia,
benché il Vaticano abbia mantenuto la retorica dei suoi tuoni e perduto la verga dei suoi fulmini, per
l'artista è meglio non vivere coi papi. Vi fu un papa che durante un conclave di cardinali disse a Cellini
che le leggi comuni e l'autorità comune non erano fatte per uomini del suo calibro; ma fu anche il
papa che gettò Cellini in prigione e ve lo tenne finché la mente di questi non fu sconvolta dall'ira e
prese a crearsi visioni irreali: vide il sole dorato penetrare nella sua cella e se ne innamorò a tal
punto da tentare la fuga; scivolò di torre in torre e precipitò nella vertiginosa aria dell'alba, storpian-
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dosi; venne raccolto e ricoperto di pampini da un vignaiolo e trasportato su un carro da uno che
essendo amante delle cose belle ne ebbe cura. Nei papi c'è il pericolo. E in quanto al popolo, che dire
di esso e della sua autorità? Forse se n è parlato a sufficienza. La sua autorità è una cosa cieca, sorda,
orrenda, grottesca, tragica, spassosa, grave e oscena. Per l'artista è impossibile vivere col Popolo.
Tutti i despoti corrompono. Il popolo corrompe e abbrutisce. Chi gli ha detto di esercitare l'autorità?
Esso fu fatto per vivere, ascoltare e amare. Qualcuno gli ha fatto un gran torto. Si è guastato
imitando i suoi superiori. Ha preso lo scettro del principe; come potrebbe servirsene? Ha preso la
triplice tiara del papa; come potrebbe sopportarne il fardello? E come un pagliaccio col cuore
infranto; come un sacerdote la cui anima non è ancora nata. Che tutti coloro che amano la bellezza
lo compatiscano. Benché esso non ami la bellezza, che compatisca se stesso. Chi gli ha insegnato il
trucco della tirannia?
Vi sono molte altre cose che si potrebbero mettere in rilievo. Si potrebbe notare la
grandezza del Rinascimento, che non cercò di risolvere i problemi sociali e non si affaccendò in simili
cose ma permise all'individuo di svilupparsi liberamente, armoniosamente e naturalmente, avendo
così grandi personalità artistiche e grandi personalità umane. Si potrebbe notare come Luigi XIV per
creare lo stato moderno distrusse l'individualismo dell'artista, e rese mostruose tutte le cose con la
loro ripetitiva monotonia e spregevoli nella loro conformità alla regola, e distrusse in tutta la Francia
tutte quelle belle libertà espressive che avevano rinnovato in bellezza la tradizione e fuso le nuove
maniere all'antica forma. Ma il passato non ha alcuna importanza. Il presente non ha alcuna
importanza. E del futuro che dobbiamo occuparci. Perché il passato è ciò che l'uomo non dovrebbe
essere stato; il presente è ciò che l'uomo non dovrebbe essere; e il futuro è ciò che gli artisti sono.
Si dirà, naturalmente, che un simile programma è del tutto privo di praticità e va contro
l'umana natura. E perfettamente vero: non è pratico e va contro la natura umana. Ed è proprio il
motivo per cui è degno di proposta e di attuazione. Perché, cos'è un programma pratico? Un
programma pratico o è un programma che già esiste o è un programma che potrebbe essere attuato
nelle condizioni esistenti. Ma è esattamente a queste condizioni esistenti che ci si oppone; e qua-
lunque programma che vi si uniformasse sarebbe assurdo e sciocco, sopprimiamo le condizioni e la
natura umana cambierà. L'unica cosa che si può veramente sapere sulla natura umana è che essa
cambia. Il cambiamento è la sola qualità che possiamo predire di essa. I sistemi che falliscono sono
quelli che contano sulla stabilità della natura umana e non sulla sua crescita e sul suo sviluppo.
L'errore di Luigi XIV fu quello di ritenere che la natura umana sarebbe stata sempre la stessa. L'esito
di quest'errore fu la Rivoluzione francese. Un esito ammirevole. Tutti gli sbagli dei governi hanno
esiti profondamente ammirevoli.
Va fatto notare che l'individualismo non si offre all'uomo con nauseanti frasi fatte sul
dovere, che semplicemente significano fare ciò che gli altri vogliono perché lo vogliono; oppure con
spaventosi luoghi comuni sull'abnegazione, che è semplicemente una sopravvivenza delle
mutilazioni selvagge. In realtà, l'individualismo si offre all'uomo senza alcuna pretesa. Esso proviene
naturalmente e inevitabilmente dall'uomo. E la meta verso cui tende ogni sviluppo. E la diffe-
renziazione verso cui tutti gli organismi progrediscono. È la perfezione inerente a ogni forma di vita e
verso cui ogni forma di vita si affretta. E pertanto l'individualismo non esercita nessuna costrizione
sull'uomo. Al contrario, dice all'uomo che non dovrebbe tollerare nessun genere di coercizione.
L'individualismo non cerca di costringere la gente a essere buona. Esso sa che la gente è buona
quando è lasciata per proprio conto. L'uomo svilupperà l'individualismo dal proprio intimo. Lo sta
sviluppando adesso. Chiedere se l'individualismo sia pratico è come chiedere se l'evoluzione è prati-
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ca. L'evoluzione è la legge della vita e non v'è evoluzione se non verso l'individualismo. Laddove
questa tendenza non si manifesta, si ha un caso di arresto artificiale della crescita,
di malattia, o di morte.
L'individualismo sarà inoltre altruista e spontaneo. È stato rilevato che uno degli esiti della
straordinaria tirannia dell'autorità è che le parole vengono del tutto distorte rispetto al loro
significato chiaro e precipuo e sono usate per esprimere il contrario del loro esatto significato. Quel
che è vero per l'arte è vero per la vita. Al giorno d'oggi, un uomo è considerato ricercato se si veste
come preferisce. Ma nel suo agire si comporta in modo perfettamente naturale. La ricercatezza, la
posa, in faccende di questo genere, consiste nel vestirsi secondo
criteri del prossimo, criteri che, essendo quelli della maggioranza, saranno probabilmente
estremamente stupidi. Oppure è detto egoista l'uomo che vive nel modo che a lui pare più adatto
per la piena realizzazione della propria personalità; sè, di fatto, lo scopo principale della sua vita è
l'autosvilluppo. Ma questo è il modo in cui ciascuno dovrebbe vivere. L'egoismo non è vivere come
desideriamo bensì è chiedere agli altri di vivere come desideriamo noi. E l'altruismo è lasciar vivere
gli altri in pace, senza interferire con la loro vita. L'egoismo mira sempre a creare intorno a sé
un'assoluta uniformità di tipo. L'altruismo considera l'infinita varietà dei tipi come una cosa molto
piacevole, l'accetta, vi acconsente, ne gioisce. Non è egoismo pensare a se stessi. Un uomo che non
pensa a sé non pensa affatto. È di un egoismo grossolano pretendere dal prossimo che pensi come
noi e abbia le nostre stesse opinioni. Perché dovrebbe? Se è capace di pensare, probabilmente
penserà in maniera diversa. Se non ne è capace, è mostruoso pretendere da lui un pensiero di
qualsivoglia genere. Una rosa rossa non è egoista perché vuole essere una rosa rossa; lo sarebbe
terribilmente se volesse che tutti gli altri fiori del giardino fossero tutte rose e tutte rosse. Con
l'individualismo la gente sarà del tutto naturale e assolutamente altruista, conoscerà il significato di
quelle parole e lo attuerà nella vita bella e libera. Né gli uomini saranno egocentrici come lo sono
adesso. Perché l'egotista è colui che esige dagli altri; l'individualista non ne avrà desiderio. Non ne
avrebbe piacere. Quando l'uomo sarà giunto all'individualismo, avrà raggiunto anche la
comprensione e la eserciterà liberamente e spontaneamente. Fino a ora l'uomo non ha quasi mai
coltivato la comprensione. Egli partecipa il dolore; ma la partecipazione al dolore non è la forma più
alta di comprensione. Ogni forma di comprensione è bella; ma la comprensione della sofferenza è la
meno bella. E alterata dall'egotismo. Tende a farsi morbosa. In essa vi è un certo elemento di terrore
per la nostra personale sicurezza. Temiamo che anche a noi potrebbe toccare la sorte del lebbroso o
del cieco e che nessuno avrebbe cura di noi. La comprensione è anche stranamente limitata. Si
dovrebbe compartecipare all'interezza della vita, non soltanto alle sue afflizioni e alle sue malattie,
bensì alla gioia della vita, alla sua bellezza, alla sua energia, alla sua salute, alla sua libertà. La
comprensione più ampia è, naturalmente, la più difficile. Richiede maggiore altruismo. Chiunque può
partecipare alle sofferenze di un amico; ma bisogna possedere una natura assai bella - la natura di
un individualista autentico - per partecipare al successo di un amico.
La moderna tensione competitiva e la moderna lotta per emergere rendono naturalmente
rara una simile partecipazione; ed è anche in gran parte asfissiata dall'ideale immorale
dell'uniformità di tipo e dalla conformità alla regola ovunque prevalenti, e forse vieppiù riprovevoli
in Inghilterra che altrove.
La comprensione del dolore, naturalmente, è sempre esistita. È uno dei primi istinti
dell'uomo. Gli animali che possiedono individualità, cioè gli animali superiori, l'hanno in comune con
noi. Ma bisogna ricordarsi che mentre la partecipazione alla gioia intensifica la somma della gioia nel
mondo, la partecipazione al dolore non diminuisce affatto l'ammontare del dolore. Potrà rendere
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l'uomo più adatto a sopportare il male ma il male rimane. Compatire chi è malato di tisi non guarisce
la tisi; a questo pensa la scienza. E quando il socialismo avrà risolto il problema della povertà e la
scienza quello della malattia, il campo d'azione dei sentimentalisti si ridurrà e la compartecipazione
umana diverrà grande, sana e spontanea. L'uomo gioirà nel contemplare la vita gioiosa dei suoi
simili.
Perché sarà per mezzo della gioia che l'individualismo dell'avvenire si svilupperà. Cristo non
tentò di ricostruire la società, e pertanto l'individualismo ch'egli predicava poteva attuarsi soltanto
nel dolore o nella solitudine. Gli ideali che dobbiamo a Cristo sono quelli dell'uomo che abbandona
completamente la società o dell'uomo che si oppone totalmente alla società. Ma l'uomo è per sua
natura sociale. Persino la Tebaide alla fine si popolò. E benché il cenobita riesca a realizzare la
propria personalità, spesso è una personalità impoverita quella che porta a compimento. D'altra
parte, la terribile verità che il dolore è un modo tramite il quale l'uomo può finalmente comprendersi
esercita un fascino meraviglioso sul mondo. Vacui oratori e vacui pensatori da pulpiti e tribune
parlano spesso contro la venerazione del piacere praticata nel mondo e se ne lagnano. Ma. nella
storia del mondo è raro che un suo ideale sia stato ai gioia e di bellezza. La venerazione del dolore ha
dominato il mondo assai più spesso. Lo spirito del Medioevo, con i suoi santi e i suoi martiri, il suo
amore per l'autosupplizio, la sua sfrenata passione per le ferite, gli sfregi, le flagellazioni è il
Cristianesimo vero e il Cristo medievale è il Cristo vero. Quando il Rinascimento albeggiò sul mondo
recando con sé i nuovi ideali della bellezza della vita e della gioia di vivere, gli uomini non riuscirono
più a capire Cristo. Anche l'arte ce lo dimostra. I pittori del Rinascimento raffigurano Cristo come un
fanciullo che gioca con un altro fanciullo in un palazzo o in un giardino, oppure in bracciò alla madre
sorridendo a lei o a un fiore o a un uccello dai colori brillanti; o come una nobile, maestosa figura che
avanza nel mondo con incedere solenne; o come una figura meravigliosa che in una specie di
rapimento risorge dalla morte in vita. Persino quando lo raffigurarono crocifisso, lo dipinsero come
un bel Dio fatto bersaglio delle crudeltà dei malvagi. Ma non è che quella figura assorbisse la loro
attenzione completamente. Ciò che li deliziò fu dipingere gli uomini e le donne ch'essi ammiravano e
mostrare le bellezze di questa bella terra. Dipinsero molti quadri con soggetto religioso, anzi, ne
dipinsero troppi, e la monotonia del genere e del motivo è stancante ed è per l'arte dannosa. Fu la
deplorevole conseguenza dell'autorità del pubblico in materia d'arte. Ma l'anima degli artisti era
estranea al soggetto. Raffaello fu grande quando ritrasse il papa; ma quando dipinse le sue Madonne
e i suoi Gesù bambini, non lo fu per nulla. Il messaggio di Cristo restò assente nel Rinascimento, che
fu meraviglioso perché portò con sé un ideale discordante da quello cristiano. Per trovare la
raffigurazione reale del Cristo dobbiamo risalire all'arte medioevale, dove egli è rappresentato
storpio e sfigurato. Un Cristo che non è piacevole da vedere, perché la bellezza è gioia; un Cristo
senza belle vesti, perché anch'esse possono comunicare gioia: egli è un mendicante con un'anima
stupefacente, è un lebbroso dall'anima divina, che non necessita né di ricchezza né di salute, è un
Dio che compie la sua perfezione attraverso il dolore.
L'evoluzione dell'uomo è lenta. L'ingiustizia degli uomini è grande. Fu necessario che il dolore
venisse promosso a mezzo di autorealizzazione. Ancor oggi, in talune parti del mondo il messaggio di
Cristo è necessario. Nessuno che viva nella Russia moderna probabilmente potrebbe arrivare alla
perfezione senza l'esperienza del dolore. Sono pochi gli artisti russi che si sono realizzati nell'arte; in
una narrativa di carattere medioevale, perché la nota dominante è la compiutezza dell'uomo
attraverso la sofferenza. Ma per coloro che non sono artisti e per i quali non c'è altro modo di vita
che la vita reale dei fatti, il dolore è l'unica porta che conduce alla perfezione. Un russo che viva
felicemente sotto l'attuale sistema di governo del suo paese, deve credere che l'uomo non possegga
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un'anima, oppure che, se ce l'ha, non meriti svilupparla. Un nichilista che rifiuti ogni forma di
autorità perché sa che l'autorità è male e accetta di buon grado tutto il dolore, perché per suo mezzo
realizza la propria personalità, è un autentico cristiano. Per costui l'ideale cristiano è una cosa vera.
Ma Cristo non si ribellò all'autorità. Egli accettò l'autorità imperiale dell'Impero romano e i
suoi tributi. Egli tollerò l'autorità ecclesiastica della Chiesa ebraica e non volle opporre alla sua
violenza la propria. Egli non possedeva, come ho già detto, nessun programma di ricostruzione della
società. Ma il mondo moderno programmi ne ha. Esso propone di eliminare la povertà e la
sofferenza ch'essa implica. Esso desidera sbarazzarsi del dolore e della sofferenza ch'esso implica.
Come suoi metodi ripone fiducia nel socialismo e nella scienza. Ciò a cui mira "è un individualismo
che si esprima attraverso la gioia. Questo individualismo sarà più grande, più pieno, più bello di
qualsiasi individualismo precedentemente esistito. Il dolore non è il mezzo definitivo per raggiungere
la perfezione; è semplicemente provvisorio e di protesta. Esso rimanda ad ambienti sbagliati,
malsani, ingiusti. Quando l'errore, la malattia, l'ingiustizia saranno rimossi, non avrà più ragione di
essere. Ha avuto un grande compito ma è ormai quasi esaurito. La sua sfera diminuisce giorno dopo
giorno.
Né l'uomo ne sentirà la mancanza, perché ciò che l'uomo ha cercato non è, in verità, né il
dolore né il piacere bensì, semplicemente, la vita. L'uomo ha cercato di vivere intensamente,
pienamente, perfettamente. Quando potrà farlo senza esercitare limitazioni sugli altri o senza
soffrirne, e tutte le sue attività gli saranno piacevoli, egli sarà più sano nella mente e nel corpo, più
civile, più se stesso. Il piacere è il criterio di valutazione della natura, il suo segno di approvazione.
Quando l'uomo è felice, egli è in armonia con se stesso e con ciò che lo circonda. Il nuovo
individualismo, al cui servizio, volente o nolente, il socialismo lavora, sarà armonia perfetta. Sarà
quel che cercarono i greci ma che non riuscirono a realizzare completamente salvo che nel pensiero,
perché avevano gli schiavi e li nutrivano. Sarà quel che cercò il Rinascimento ma che non riuscì a
realizzare completamente salvo che nell'arte, perché aveva gli schiavi e li lasciava morire d'inedia.
Sarà completo e per suo mezzo ogni uomo giungerà alla sua perfezione. Il nuovo Individualismo è il
nuovo Ellenismo.
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