"Comandare ubbidendo" : la lotta del popolo di mais. Donne zapatiste in resistenza.
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO
DIPARTIMENTO DI CULTURE, POLITICA E SOCIETÀ CORSO DI LAUREA IN COMUNICAZIONE INTERCULTURALE
TESI DI LAUREA TRIENNALE IN ANTROPOLOGIA CULTURALE
“COMANDARE UBBIDENDO”
LA LOTTA DEL POPOLO DI MAIS: DONNE ZAPATISTE IN RESISTENZA
Relatore Prof. Alberto Guaraldo
Candidata
LECCESE VERONICA MATRICOLA 704462
ANNO ACCADEMICO 2012/2013
1
SOMMARIO
1. IL POPOLO DI MAIS
1.1. INTRODUZIONE________________________________ pag.2
1.2. CONTESTO ECONOMICO________________________ pag.7
1.3. CONTESTO SOCIALE___________________________ pag.10
1.4. CONTESTO STORICO-POLITICO___________________pag.11
1.5. DAL MAIS AL PASSAMONTAGNA: NASCITA E
STRUTTURA DEL MOVIMENTO ZAPATISTA_________ pag.14
2. DONNE ZAPATISTE IN RESISTENZA
2.1. UNA RIVOLUZIONE NELLA RIVOLUZIONE___________pag.20
2.1.1. ESPERIENZA DI VIAGGIO: L’ANNIVERSARIO DI
HUITEPEC _________________________________ pag.27
2.2. DONNE DI MAIS_________________________________pag.29
2.2.1. ESPERIENZA DI VIAGGIO: L’ALTRA METÀ DELLA
SELVA_____________________________________ pag.33
2.3. SAN CRISTOBAL DE LAS CASAS__________________ pag.36
2.4. FAMIGLIA INDIGENA E ISTRUZIONE SCOLASTICA____pag.38
2.4.1. ESPERIENZA DI VIAGGIO: IN UNA CASA DI
BOLOMAJAW________________________________pag.41
3. CONCLUSIONI
3.1. LA DIGNITÀ DI UN POPOLO E LA “SINDROME DI
CENERENTOLA”________________________________pag.43
3.2. LO ZAPATISMO OGGI____________________________pag.46
3.3. CONSIDERAZIONI FINALI_________________________pag.51
BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA__________________________pag.53
2
1. IL POPOLO DI MAIS
1.1 INTRODUZIONE
Quando il mondo dormiva e non si voleva svegliare, i grandi dèi fecero
un’assemblea per mettersi d’accordo sui lavori che bisognava fare e
decisero di fare il mondo, gli uomini e le donne. E gli dèi pensarono
soprattutto di fare il mondo e le persone. Allora pensarono di fare i popoli
e di farli molto belli e che durassero, per cui i primi popoli furono fatti
d’oro, e gli dèi rimasero contenti perché questi popoli erano brillanti e
forti. Ma gli dèi si accorsero che i popoli d’oro non si muovevano, se ne
stavano senza camminare e senza lavorare perché erano molto pesanti.
Allora tutti gli dèi si riunirono per trovare un accordo sul modo di risolvere
il problema e decisero di fare altri popoli e li fecero di legno e vi
lavorarono molto e molto si diedero da fare e rimasero nuovamente
contenti, perché l’uomo adesso lavorava e camminava; e già erano sul
punto di festeggiare, quando si accorsero che i popoli d’oro stavano
obbligando i popoli di legno a portarli sulle spalle e lavorare per loro. Gli
dèi capirono allora che ciò che avevano fatto era male, per cui cercarono
un nuovo accordo per fare i popoli di mais, i popoli buoni, gli uomini e le
donne veri, e se ne andarono a dormire lasciando i popoli di mais a
cercare di rimediare le cose, mentre gli dèi dormivano. E i popoli di mais
parlarono la lingua vera per mettersi d’accordo tra di loro e andarono in
montagna per vedere di indicare una buona strada per tutti i popoli
(Benenati, Storia del Chiapas).
Questa leggenda Maya fu raccontata al subcomandante Marcos dal
Vecchio Antonio, uno degli abitanti delle comunità nei quali i primi
zapatisti si insediarono. «Il Vecchio Antonio mi diceva – scrisse Marcos
in uno dei suoi primi comunicati – che la gente d’oro erano i ricchi, quelli
con la pelle bianca, e che la gente di legno erano i poveri, quelli con la
3
pelle scura. Quando gli chiesi di che colore era la pelle degli uomini di
mais, mi mostrò vari tipi di mais, di distinti colori, e mi disse che avevano
ogni tipo di pelle, ma nessuno lo sapeva bene perché la gente di mais, le
persone veritiere, non avevano volto..»1
Questi “uomini di mais” sono stati i soggetti di una mia ricerca sul campo
svolta nel marzo del 2013 in Chiapas, stato del Messico nel quale questi
“uomini senza volto” (siamo abituati, infatti, a vederli nelle foto e nei video
coperti dall’ormai famoso passamontagna nero) vivono e lavorano con
semplicità, resistendo in modo pacifico alla corruzione che li circonda. In
due comunità in particolare ho rivestito il ruolo di Osservatore dei Diritti
Umani a nome dell’associazione Fray Bartolomè de Las Casas, che si
occupa di difendere e di controllare l’effettivo rispetto dei diritti
fondamentali dell’essere umano. Le comunità da me osservate si trovano
nelle zone di Huitepec e di Bolom Ajaw.
A circa mezz’ora da San
Cristobal si trova il monte
Huitepec, ai piedi del
quale si sviluppa una
piccola comunità di circa
60 famiglie appartenenti al
gruppo tzotzil di
discendenza maya. In
questa zona, poco sopra
la comunità, si sviluppa
una vasta area boschiva. Sul versante che dà sulla città di San Cristobal,
lo Stato ha creato una riserva naturale a pagamento, mentre dal 2007
rivendica il possesso dei restanti 100 ettari adiacenti che, invece, si
affacciano sulla piccola comunità di nome Huitepec Alcanfores. Il
progetto del governo è quello di disboscare l’area per creare 74
1 Le citazioni di Marcos provengono dai suoi numerosi comunicati (reperibili al sito www.enlacezapatista.ezln.org.mx).
Cartello all'entrata della riserva zapatista di Huitepec
4
multiproprietà. Questo ha provocato la reazione di una parte del villaggio,
che ha trovato un appoggio nel movimento zapatista. Dal 2007 la zona
contesa passa sotto l’amministrazione del caracol2 di Oventic, che in
quella zona ha posto quindi una base d’appoggio zapatista. Ma il
governo non si ferma. Sono costanti e continue le pressioni su questo
territorio, che intanto è “occupato” dagli zapatisti i quali, invece,
intendono impiegare quella zona per la coltivazione.
La comunità di Bolom
Ajaw, invece, si trova
approssimativamente a 2,5
km di distanza dalla zona
di Agua Azul, dov’è ubicato
il sito turistico che porta lo
stesso nome. BolomAjaw è
occupato da indigeni
appartenenti al gruppo
tzeltal, sempre di
discendenza maya, ma fa riferimento al caracol di Morelia. Per la
bellezza della zona e per la sua attrattività turistica (passa infatti da lì il
fiume Tulija, di un turchese stupendo, che dà origine a cascate
mozzafiato), la contesa tra il governo (che vuole farne un parco a
pagamento, continuazione del parco di Agua Azul) e gli indigeni (che in
quella zona vogliono vivere e coltivare) è sempre stata molto aspra.
Dichiarata zona protetta dal caracol di Morelia nel 1994, dal 12 marzo del
2003 si sono insediati degli indigeni provenienti dalle zone circostanti,
dando vita ad una comunità composta da 26 famiglie. La vita dura e le
continue minacce dello Stato (accompagnate, dall’altro lato, da regali e
promesse per chi decide di non appoggiare gli zapatisti) hanno
scoraggiato negli anni molte di queste famiglie, tanto che oggi sono solo
2 Si tratta delle cinque comunità (Oventic, La Garrucha, Morelia, La Realidad, Roberto Barrios) alle quali, dal 2003, tutti i villaggi zapatisti fanno riferimento. Letteralmente caracol significa «chiocciola».
Due bambini tzeltal sul fiume Tulija nella comunità di BolomAjaw
5
6 quelle che resistono. La gestione della terra è comunitaria: gli uomini
coltivano il proprio appezzamento (in passato hanno cercato di gestire le
terre in comune, ma sono nati litigi e tensioni) mentre le donne
gestiscono insieme gli animali.
All’interno dell’ elaborato sono presenti tre capitoli intitolati “esperienza di
viaggio”, i quali fanno riferimento a dei racconti di viaggio annotati nel
diario da me redatto durante la permanenza nelle comunità sopra
descritte. Per la brevità del tempo trascorso sul campo la mia non si può
indicare come una ricerca etnografica vera e propria, ma ho comunque
ritenuto importante ed interessante annotare alcune personali esperienze
(inerenti ai temi trattati nei vari capitoli) nel tentativo di dare uno spaccato
di una realtà da me vissuta, al di là di quanto tratto dalla bibliografia.
Non c’è qualcuno che ringrazierei di più e qualcuno meno. Ognuno mi ha
aiutata a suo modo. A partire dai miei genitori, che hanno messo da
parte le loro preoccupazioni e mi hanno appoggiata in questa
esperienza. Al mio amico, confidente ma soprattutto stupendo compagno
di viaggio, che per tre mesi mi ha regalato solo sorrisi, anche nei
momenti più difficili. A Renza, mia personalissima “guru”, che mi ha
indicato la strada giusta, e che con la sua saggezza e infinita pazienza
mi ha preparata a dovere a questo viaggio. A Pablo, un compa di
Huitepec, che ci ha aperto le porte di casa sua, regalandoci un’ospitalità
e un affetto paterno. E infine (ma non sicuramente per importanza) a mia
sorella, la quale mi ha regalato la gioia di diventare per la seconda volta
zia mentre ero in viaggio. Elisa, la mia nipotina, è stata la mia forza
soprattutto in una, per fortuna breve, brutta esperienza a Bolom Ajaw.
Tutto ciò che ho visto, toccato, assaporato, vissuto durante questo
viaggio mi accompagnerà per tutta la vita.
7
1.2 CONTESTO ECONOMICO
Lo stato federato del Chiapas si trova nell’estremo Sud del Messico e
confina a est con il Guatemala, a nord con il Tabasco, a ovest con il
Veracruz e l’Oaxaca ed a sud con l’Oceano Pacifico. Con un’ estensione
di circa 75 mila kmq, il Chiapas è, per grandezza, l’ottavo stato del
Messico, ma è anche una delle regioni più povere della nazione,
nonostante la vastissima disponibilità di materie prime e biodiversità. Alla
fine degli anni Settanta, infatti, il Chiapas e il vicino stato di Tabasco
producevano l’80% del petrolio nazionale, diventando così i principali
fornitori del Nord America rappresentando il 28% delle importazioni
petrolifere degli USA. Il Chiapas divenne presto una regione strategica,
non solo per i giacimenti di idrocarburi, ma anche perché i suoi bacini
idroelettrici forniscono più della metà dell’energia elettrica consumata
dalla nazione (Zibechi, Il paradosso zapatista, pag.40). Tutto questo
andò ad influire pesantemente sul ritmo e il livello di vita dei contadini e
degli allevatori, a causa della subordinazione degli interessi regionali a
favore di quelli nazionali e per il crescente inquinamento delle falde
acquifere e dei terreni, che compromise la produttività delle loro terre.
Fino ad allora, l’organizzazione economica e sociale del territorio era
stata molto influenzata non solo dalla Rivoluzione messicana del 1910,
ma anche dal presidente Lázaro Cárdenas, il quale, negli anni ’30, oltre
ad attuare una distribuzione agraria, promosse anche la
nazionalizzazione del petrolio (fino ad allora in mano a compagnie
straniere). In particolare, già nella Rivoluzione del 1910 si posero le basi
dell’articolo 27 della Costituzione, che dichiarava come proprietà
originaria della nazione tutte le terre e le acque comprese entro il
territorio nazionale. Si stabilirono così tre tipi di proprietà: privata, ejidal3
e comunitaria. Questo “contratto sociale” rispondeva alla necessità di
3 Ejido: proprietà rurale di uso collettivo.
8
eliminare i latifondi e i grandi proprietari terrieri (Benenati, Storia del
Chiapas).
Con la crescita economica del Paese negli anni successivi, inizia a farsi
strada un atteggiamento neoliberista che guarda al modello statunitense,
il quale impone nuovi modelli produttivi rivolti verso la globalizzazione e il
capitalismo. L’economia contadina viene colpita duramente dalle riforme
neoliberiste attuate dal presidente Salinas de Gortari (in carica dal 1988
al 1994), il quale considera la popolazione rurale e contadina arcaica e
improduttiva: gli ejidos e le comunità agrarie, non potendo essere
vendute o comprate poiché appartenevano allo Stato, non erano utili nel
mercato sottoposto alle regole della domanda e dell’offerta. Questi
modelli non rispondevano, in sostanza, alle nuove esigenze competitive
del mercato mondiale. Sulla base di queste critiche si crearono i primi
interventi, che avevano come obbiettivi la liberalizzazione del mercato in
Messico e il rendere competitivo il mercato agrario messicano sul
mercato internazionale. Questi interventi economici rientravano nel
modello neoliberista. Per quanto riguarda la liberalizzazione del mercato
in Messico, la linea adottata da Salinas prevedeva la riforma dell’articolo
27 della Costituzione, e in particolare intendeva: a) rendere possibile la
conversione della proprietà sociale dell’ ejido in proprietà privata; in
questo modo l’ejidatario può trasferire i suoi diritti d’uso, vendere la terra
o darla come garanzia di credito, trasformandola in una merce con una
domanda e un’offerta; b) rendere possibile l’associazione tra settore
sociale e capitale privato, il quale potrà, in questo modo, approfittare
delle risorse e della mano d’opera degli ejidatarios; c) abbattere i limiti
della piccola proprietà e concentrare grandi quantità di terra nelle mani di
poche persone (GRA, La leggenda dei sette arcobaleni). Per rendere
competitivo il mercato agrario messicano, Salinas de Gortari seguì anche
a livello internazionale una linea economicamente neoliberista,
decidendo di firmare con gli Stati Uniti e il Canada il Trattato del Libero
Commercio (TLC, chiamato anche NAFTA dall’acronimo di North
American Free Trade Agreement), che prevedeva la riduzione dei dazi
9
sulle importazioni. L’obbiettivo era quello di far entrare il Messico nel
Primo Mondo. Secondo questo trattato, il Messico avrebbe dovuto ridurre
del 40% le tasse sull’importazione dei prodotti americani, mentre per
USA e Canada i prodotti messicani importati avrebbero goduto di una
riduzione dell’80%. Inoltre, essendo la manodopera messicana meno
costosa, molti produttori americani potevano avere libero accesso allo
sfruttamento dei lavoratori e dei territori messicani, avvalendosi anche
del fatto che in Messico molte sostanze per l’agricoltura, ritenute illegali
in America (insetticidi e pesticidi considerati tossici) sono invece
permesse. La competizione di mercato che nacque da queste nuove
prospettive economiche rese impossibile la partecipazione della maggior
parte dei contadini messicani, che si ritrovarono quindi in una situazione
di precarietà ancora più grave che in precedenza. In molte zone rurali le
condizioni economiche e di vita peggiorarono, provocando una
situazione di indigenza per una buona parte della popolazione (L’altra
metà della selva, pag. 117)
10
1.3 CONTESTO SOCIALE
Il movimento zapatista nasce e si sviluppa nello stato del Chiapas, nel
Sud del Messico. In questa parte del Paese vivono popolazioni indigene
numerose (un terzo della popolazione appartiene ad uno dei sette gruppi
etnici precolombiani di discendenza maya: tzotzil, tzeltal, zoque,
ch'ol, tojolabal, mame, lacandòn). Il contesto sociale del Chiapas
presenta una povertà diffusa. Il 49% della popolazione vive in zone
urbane, mentre il 51% in zone rurali, composte per un terzo da indios; più
di 10.000 comunità indigene, circa il 75%, non hanno acqua potabile,
fognature, elettricità, buone strade (quelle asfaltate sono il 20%),
comunicazioni e abitazioni adeguate; le case sono generalmente
piccolissime capanne con pavimento in terra battuta nelle quali vivono in
media sei o più persone; la maggior parte delle comunità si trova in punti
inaccessibili. Più della metà degli occupati si dedica all'agricoltura; il 40%
della popolazione guadagna meno di 30 pesos al giorno (meno di 2
euro), un altro 21% meno di 60 pesos. La mortalità infantile è altissima,
tra il 12% e il 18%, dovuta a malattie curabili, tubercolosi e denutrizione4.
Uno dei tristi primati del Chiapas è quello della violazione dei diritti
umani, denunciato da Amnesty Internacional, soprattutto a danno delle
popolazioni indigene e dei contadini.
Gli indigeni chiamano i secoli che sono trascorsi dal genocidio inflitto
dagli europei a oggi la larga noche de los 500 años («la lunga notte dei
500 anni»), per indicare il periodo oscuro e buio che li ha coinvolti e
decimati. Ma, come a tutte le notti, segue il giorno. Il sole, per gli indios,
si è levato il primo gennaio del 1994, giorno nel quale dal profondo di una
delle zone più povere e sfruttate del Messico è salito un grido di
rivendicazione al suono di ¡ya basta ! («ora basta»).
4 Fonte: www.ceieg.chiapas.gob.mx (fonte governativa ufficiale).
11
1.4 CONTESTO STORICO-POLITICO
A fine Ottocento la politica agraria del Chiapas volgeva a favore dei
grandi proprietari terrieri grazie ai privilegi a loro destinati dalle scelte del
governatore Rabasa. Anche a livello nazionale le scelte dell’allora
presidente Porfirio Diaz (1876-1911) concedevano privilegi a grandi
investitori sia messicani che stranieri. Nei successivi anni vennero create
in Chiapas grandi zone di produzione di caffè, caucciù, gomma e legna,
allargando le terre di proprietà privata, tanto da spingere gli indigeni a
cercare terre altrove. Molti finirono alle dipendenze dei grandi proprietari
in un rapporto di debiti e doveri tipici del vassallaggio. La dittatura di Diaz
finì con la Rivoluzione del 1910, che vide come protagonisti, tra gli altri,
Pancho Villa ed Emiliano Zapata (che saranno poi le figure di riferimento
del movimento zapatista di fine Novecento).
Anche se le misere condizioni degli indios non cambiarono con la
Rivoluzione messicana di inizio Novecento, essa pose comunque le basi
per la formazione di una nuova identità che fu essenziale per i successivi
avvenimenti. Per la continua mancanza di terre, gli indigeni iniziarono a
spostarsi nell’inospitale Selva Lacandona, nella parte est del Chiapas,
già dagli anni ’30. In un contesto così particolare nasce e si sviluppa il
concetto di “comunità”: là dove esistono etnie indigene, ciò che le
mantiene unite più di qualsiasi altra cosa è la necessità. In un habitat
ostile come la selva, le famiglie isolate sono condannate al fallimento e
alla morte. Iniziano quindi ad esserci aggregazioni di solidarietà mirate
alla sopravvivenza. Negli anni ’60 la migrazione nella selva raggiunge
l’apice, con la presenza di persone migrate per necessità o per volontà.
Da luogo inospitale e quasi del tutto spopolato, la Selva Lacandona
divenne, alla fine degli anni ’60, un insieme di insediamenti che in dieci
12
anni raggiunse un aumento della popolazione del 150% (Zibechi, Il
paradosso zapatista).
Negli anni ’70 questo popolamento della selva iniziò a preoccupare
l’allora presidente del Messico, Luís Echiverría (1970-1976) il quale
temeva che la continua migrazione spontanea verso quella zona e il
nascente movimento contadino potessero espandersi fino ad occupare
tutto il territorio del Chiapas. Lo Stato riuscì ad “entrare” nella selva
attraverso due strade: controllando la coltivazione del caffè prodotto da
ejidatarios attraverso l’Istituto Messicano del Caffè (INMECAFE); e
monopolizzando l’attività forestale fino a controllarne completamente
l’estrazione del legname. Per far fronte al crescente peggioramento delle
condizioni di vita nella Selva i contadini iniziarono ad organizzarsi in
gruppi, scesero in piazza con cortei e manifestazioni per far conoscere la
loro lotta e la loro disperazione, spesso fermati con atti di repressione e
di violenza. Seguendo una retorica populista già impiegata da
Echeverria, il governatore del Chiapas Velasco Suárez (1970-1976)
convocò il Congresso Indigeno per mitigare i rapporti tra stato e indios
che si stavano inasprendo (il motivo ufficiale era il festeggiamento del
quinto centenario della nascita di fray Bartolomè de las Casas, il frate
domenicano difensore degli indigeni). Il ruolo della diocesi di San
Cristóbal, in questo caso, fu essenziale. Il Congresso fu organizzato
dall’allora vescovo di San Cristóbal Samuel Ruiz García, il quale decise
di accettare l’incarico solo a patto di avere sei mesi per la preparazione.
In questo lasso di tempo egli mobilitò gran parte della diocesi per
insegnare agli indigeni i rudimenti della lettura e della scrittura, informarli
sulle leggi agrarie che li interessavano e dar loro delle informazioni
generali di carattere storico ed economico. In questo modo gli indios
acquisirono un’identità e delle conoscenze che prima non avevano. Se lo
Stato sperava, attraverso questa manifestazione, di cooptare nuovi
leader indigeni, il Congresso si trasformò invece in una scuola e in una
presa di coscienza da parte della popolazione emarginata. Il Congresso
Indigeno si svolse nell’ottobre del 1974 a San Cristobal. Vi parteciparono
13
327 comunità, rappresentate da 587 delegati tzeltales, 330 tzotziles, 152
tojolabales e 161 choles. Da questo Congresso nacquero le prime
richieste da parte degli indios, tanto che fu disconosciuto dallo Stato
(Benenati, Storia del Chiapas).
Gli anni che seguirono furono una fucina che portò alla nascita di nuovi e
sempre più consapevoli movimenti, provocando in concomitanza una
sempre crescente presenza delle forze armate sul territorio. Le
organizzazioni contadine del Chiapas avevano, ognuna a suo modo,
intrapreso dei percorsi per migliorare le proprie condizioni, per porre fine
alla corruzione e alla violenza e per far adottare una politica di
distribuzione delle terre. A metà degli anni ’90 molte di queste
organizzazioni si ritrovarono a convergere e a chiedere le stesse cose: il
riconoscimento di un’identità indigena e la propria autonomia. La prima
azione di rivendicazione fu la marcia chiamata Xi’ Nich («formica» in
lingua maya) nel marzo del 1992, promossa da quattro diverse
organizzazioni (il Comitato di difesa delle libertà indigene, il Congresso
indipendente tzeltal, l’Unione dei contadini e degli indigeni della Selva del
Chiapas), che percorsero in 50 giorni una distanza di 1100 chilometri (da
Palenque a Città del Messico): da allora il movimento ebbe l’appoggio di
comunità di diversi stati e l’attenzione della stampa internazionale. Il
Chiapas non era più solo.
14
1.5 DAL MAIS AL PASSAMONTAGNA: NASCITA E
STRUTTURA DEL MOVIMENTO ZAPATISTA
In un terreno così fertile per la sollevazione popolare come la Selva
Lacandona dell’ultimo secolo, un elemento si rivelò più decisivo di altri. A
partire dagli anni Settanta fecero il loro ingresso nella selva anche
guerilleros che avevano partecipato ad azioni sovversive in America
Latina. Questi, cercando riparo in zone di difficile accesso, iniziarono a
conoscere la situazione di quei contadini oppressi e sfruttati da secoli, e
unendo le loro conoscenze militari crearono la base per la nascita di un
esercito vero e proprio, insegnando agli indigeni varie tecniche di
combattimento (Baldoni, Marcos)
Il primo gennaio del 1994 migliaia di indigeni appartenenti all’EZLN
(Ejercito Zapatista de Liberación Nacional, nato ufficialmente il 17
novembre 1983 come “evoluzione” del movimento di Fuerzas de
Liberacion Nacional) si sollevarono contro la politica repressiva del
governo per chiedere democrazia, libertà e giustizia. Con il volto coperto
da un passamontagna nero o da un paliacate (un fazzoletto rosso con
decorazioni), armati (anche se molti erano in possesso solo di fucili di
legno), con una pila, una borsa di pelle, tortillas, una siringa e una garza
per le ferite, occuparono i municipi di San Cristóbal de las Casas,
Altamirano, Las Margaritas, Ocosingo, Oxchuc, Huixtan e Chanal, oltre a
quelli di altri villaggi minori del Chiapas. Sarà l’unico atto di protesta in cui
impiegheranno le armi (Benenati, Storia del Chiapas).
Da San Cristóbal il subcomandante Marcos (il loro leader) rese note le
intenzioni degli zapatisti, attraverso la “Prima dichiarazione della Selva
Lacandona” che, in un passo saliente, dice:
«[…]Per fermare tutto ciò e come nostra ultima speranza, dopo aver
tentato di utilizzare ogni possibile mezzo legale basato sulla nostra Carta
15
Magna, torniamo ancora ad essa, alla nostra Costituzione, per applicare
l'articolo 39, che dice: "La Sovranità Nazionale ha la sua origine ed
essenza nel popolo. Tutto il potere politico emana dal popolo e si
costituisce per il beneficio del popolo. Il popolo ha, in ogni momento,
l'inalienabile diritto di cambiare o modificare la forma del suo governo."»5
Il riferimento alla Costituzione inserisce il movimento in un contesto
legale che attira molte simpatie da parte della società civile: gli insorti
non chiedono una scissione dallo Stato, ma l’applicazione dell’articolo 39
della Costituzione che pone lo Stato in subordine rispetto al popolo, cosa
che, soprattutto nel caso degli indigeni, non è mai avvenuta. Dei ribelli
hanno dimostrato legittimità e legalità dove il governo si è macchiato di
mancanza di democrazia.
Dopo il primo gennaio 1994 iniziarono le trattative di pace tra gli zapatisti
e il governo, allora rappresentato da Salinas de Gortari, trattative
destinate però a vita breve: nel 1996 gli zapatisti fermarono ogni tentativo
di dialogo con lo Stato, poiché non erano stati rispettati gli accordi di San
Andrés, che prevedevano maggiore riconoscimento e libertà della cultura
indigena. La situazione si fece ancora più aspra nel 1997: il 22 dicembre
45 indios (tra cui molte donne e bambini) furono massacrati ad Acteal, un
villaggio vicino ad Oventic. Le vittime erano a messa quando,
all’improvviso, dei paramilitari entrarono nella piccola chiesa di legno e
fecero fuoco. Spararono e cacciarono gli indios per sette ore, fino a
quando non credettero di aver ucciso tutti. L’orrore cresce nel sapere che
alcune delle vittime erano donne incinte, uccise e sventrare, private del
feto che portavano in grembo. In una girandola di colpe e indignazioni,
praticamente nessuno fu punito e nessuno rivendicò l’azione. Motivo di
sconcerto è sapere che quella piccola comunità non faceva parte del
movimento zapatista: erano persone che si proclamavano pacifiste, che
non negavano i contatti con l’ EZLN ma che se ne dichiaravano fuori.
5 Per tutte le dichiarazioni della Selva Lacandona tradotte in italiano rimando al sito www.ipsnet.it.
16
Perché quindi un atto così efferato? Se il movimento zapatista non è
stato preso da subito sul serio (spesso i candidati alla presidenza
promettevano una risoluzione del “caso zapatismo” in pochissimi giorni,
come se fosse cosa da niente), dopo l’impossibilità di scendere a
compromessi con il fallimento degli accordi di San Andrés, si è rivelato
per quello che era: il risultato di frustrazioni e umiliazioni durate secoli. E
ha iniziato a fare paura. Il movimento ha cominciato ad espandersi a
macchia d’olio, e il governo si è ritrovato a dover fare qualcosa. Ancora
oggi il PRI (il partito al governo) fornisce protezione, materiali per
costruire case e beni di consumo per tutti coloro che non appoggiano il
movimento. Ma nel pieno della rivolta questo non bastava: il massacro di
Acteal serviva come esempio a tutti coloro che erano “nel mezzo”, che
non avevano ancora preso una decisione ma che erano comunque
pericolosamente rivolti verso gli zapatisti. Inoltre, un atto così
sanguinoso sperava di suscitare una reazione da parte dell’EZLN, che
presidiava la zona intorno ad Oventic. I ribelli, invece, non intervennero e
non fecero ricorso alle armi per vendetta. Farlo sarebbe stato
condannarsi a morte: una risposta violenta avrebbe reso legittima una
persecuzione del movimento e una repressione sanguinosa. Dopo
questo triste episodio, i dialoghi tra stato e ribelli non poterono che
peggiorare.
Nei successivi anni quella che si manifestò fu una “guerra a bassa
intensità”: ormai gli occhi di tutto il mondo erano puntati sul Chiapas, e
non si poteva quindi risolvere il problema della rivolta con atti
dichiaratamente repressivi. Si sviluppò quindi una guerra subdola,
combattuta spesso dagli stessi indigeni “comprati” dallo Stato (chiamati
paramilitari), che fanno la guerra e uccidono i loro stessi fratelli. Molte
furono le morti impunite, e molti ancora furono i desaparecidos
(«scomparsi»).
Nel 2003 gli zapatisti si reinventano a livello sociale e politico: nascono i
5 caracoles autonomi (Oventic, Roberto Barrios, La Garrucha, La
17
Realidad, Morelia, che sostituiscono i precedenti Aguascalientes), ossia i
centri di resistenza a cui ogni comunità fa riferimento rispetto alla propria
posizione sul territorio. Ogni caracol possiede una Junta de buen
gobierno, il primo organo formale di amministrazione dei municipi
autonomi, che ha il compito di risolvere i problemi della comunità e di
gestire i contatti tra questa e l’esterno. Le Juntas devono, inoltre, vigilare
sulla realizzazione dei progetti e dei compiti comunitari nei municipi
autonomi; promuovere l’appoggio ai progetti comunitari; fare in modo che
siano rispettate le leggi emanate dagli zapatisti; assistere e guidare la
società civile nelle visite alle zone ribelli; promuovere progetti produttivi;
insediare accampamenti di pace; svolgere ricerche a vantaggio delle
comunità ecc. Il secondo articolo della Costituzione prevede la
possibilità, per gli indios, di organizzarsi a livello politico e sociale come
meglio credono, secondo le loro tradizioni e le loro credenze (GRA, La
leggenda dei sette arcobaleni). Essi fondano questo loro diritto sulla
collettività: i membri delle Juntas cambiano ogni 15 giorni, per dare a tutti
la possibilità di “comandare ubbidendo” (è questo uno dei motti più
famosi degli zapatisti e dello stesso subcomandante Marcos).
Comandare ubbidendo significa ricoprire cariche di prestigio senza però
dimenticarsi di essere subordinati a chi veramente comanda, cioè il
popolo.
Il movimento zapatista si articola in due settori: uno politico e uno
militare. La struttura politica si basa su assemblee comunitarie, nelle
quali non predominano le decisioni per maggioranza ma quelle per
unanimità. Tutte le assemblee, di solito, durano parecchie ore, a volte
anche giorni, durante i quali si parte da un insieme caotico di voci che si
coprono una con l’altra, dove tutti dicono la propria idea sull’argomento
oggetto di discussione, fino a quando non esce fuori un’unica voce, che è
quella del consenso. Non c’è una regola per partecipare alle assemblee,
tutti possono prenderne parte, anche i bambini, i quali, se riescono a
rimanere svegli per tutta la durata dell’assemblea, sono considerati
abbastanza grandi da poter prendere parte attivamente alle decisioni.
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L’organo politico più importante è il Comité Clandestino Revolucionario
Indígeno (Ccri), che unisce i rappresentanti indigeni di diverse etnie (è
composto da circa una ventina di individui e il subcomandante Marcos
non può appartenervi in quanto meticcio). Nei municipi autonomi (i
caracoles) gli incarichi principali da rivestire sono: presidente municipale,
supplente, segretario e tesoriere. Come già detto, tutti i membri della
comunità prima o poi rivestono il ruolo di autorità, anche secondo un
principio di ridistribuzione. Chi riveste cariche importanti, infatti, deve
provvedere ad esempio ad organizzare le feste e tutte le altre attività
destinate al benessere della comunità utilizzando le proprie risorse
economiche; per questo di solito vengono proclamate autorità quelle
persone che stanno avendo maggiore fortuna economica. Il rituale
simbolico che viene praticato quando viene designata una nuova autorità
è quello di lanciare pietre contro la casa del nuovo eletto. Ricoprire
cariche importanti non è quindi visto come un privilegio ma come
un’enorme responsabilità, e questo serve per non cristallizzare i ruoli di
reggenza (Zibechi, Il paradosso zapatista).
La struttura militare è invece subordinata
a quella politica. Nonostante si presenti
come un’organizzazione gerarchica, non
rispetta la struttura classica intesa in
questo senso: all’apice, infatti, non si
trova una direzione ma la comunità
stessa. È quest’ultima che, attraverso le
assemblee, nominano i loro comandanti i
quali devono far riferimento alla comunità
anche per quanto riguarda le decisioni di
natura strategica. La struttura militare è
diretta dal Subcomandante Insurgente
Marcos, il quale è la massima autorità gerarchica dell’esercito. Prima di
qualsiasi azione (tra cui rientrano anche le pubblicazioni di lettere o
articoli da parte del movimento o i discorsi fatti in pubblico), Marcos deve
19
ricevere le direttive o l’autorizzazione del CCRI: in questo senso egli è
considerato il “traduttore” del pensiero indigeno. In alcune occasioni il
CCRI consegna il «bastone del comando» al Subcomandate, un atto
simbolico per indicare che il comando politico cede ogni decisione, civile
e militare, nelle mani del comando militare. È quello che è accaduto nel
gennaio del 1994. Quando sono state sospese le azioni militari e sono
iniziate le trattative con lo stato, Marcos ha riconsegnato il bastone alle
autorità politiche. Il bastone ha sette colori ed è tipico della tradizione
indigena maya. Ogni colore rappresenta una forza (essi li chiamano i
sette dei) che ora simboleggiano la bandiera nazionale, la bandiera dell’
EZLN, l’arma, il sangue, il proiettile, il mais e la terra.
Nell’esercito esistono due tipi di combattenti: gli insorti (insurgentes) e i
miliziani. I primi formano l’esercito regolare e vivono nelle montagne,
vestono pantaloni neri e berretto color caffè, portano armi e hanno
abbandonato le loro comunità per entrare a far parte in tutto e per tutto
della struttura militare. Sono eletti dalla comunità e sono mantenuti da
quest’ultima. I miliziani, invece, rimangono nella loro comunità ma
ricevono un’istruzione militare; hanno pantaloni e berretto verde oliva e
spesso posseggono armi molto rudimentali. Entrambe le fazioni hanno
preso parte all’occupazione delle città il primo gennaio 1994 (ibid).
Il cartello, posto sulla strada che porta al caracol di Morelia, cita così: «Vi trovate in territorio zapatista in rivolta. Qui comanda il popolo e il governo obbedisce»
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2. DONNE ZAPATISTE IN RESISTENZA
2.1 UNA RIVOLUZIONE NELLA RIVOLUZIONE
Quella del primo gennaio 1994, però, non fu la prima rivoluzione
all’interno delle comunità indigene. Un’altra le percorse a partire
ufficialmente dal 1993 e fu combattuta e vinta dalle donne indigene, che
fecero della parola la loro arma vincente. Non ci furono né feriti né morti.
“Solo” un cambiamento radicale.
Quelle delle donne indigene fu sempre una situazione difficile.
Considerate le ultime tra gli ultimi, non avevano la possibilità neanche di
scegliere se sposarsi e con chi. Spesso venivano date in sposa molto
piccole e in cambio di cibo e animali, secondo la tradizione del “valore
della sposa”, erano comprate in base a quanto il padre dichiarava di aver
speso per mantenere la figlia fino a quel momento. La donna diventava
un oggetto di appartenenza del marito. Come dicono I choles, «c’era un
tempo in cui nel mondo maya regnava una dualità composta da padre-
madre che in una oscurità liquida avevano dato la luce al mondo»
(Rovira, Donne di mais, pag14). Con l’arrivo degli spagnoli questa dualità
si trasformò a livello religioso, ma non solo: l’entità divenne una, il Dio,
rendendo marginale e “inferiore” tutto ciò che si allontanava dall’essenza
di questa nuova divinità, a partire dal sesso. L’unica protagonista
femminile rimase la Vergine di Guadalupe, la quale aveva come triste
scopo quello di rendere la cristanizzazione una pillola più facile da
ingerire. La figura del Cristo e la sua crocifissione, infatti, era troppo
“violenta”. La Vergine venne quindi usata come vessillo per una più
“dolce” conversione cristiana. Ma questo non aiutò a migliorare la figura
21
della donna. La società che nacque fu basata sul maschilismo che portò
ad una rapida decadenza della figura femminile (che tra i maya, invece,
godeva di una consolidata importanza). E durante la larga noche de los
500 años la situazione non fece altro che peggiorare. Furono molte le
donne indigene venditrici di oggetti artigianali che a San Cristobal de las
Casas vennero violentate, picchiate e derubate. Ma le condizioni più
disumane le vivevano le donne che stavano al servizio nelle tenute di
meticci o bianchi ricchi. In un suo romanzo Rosario Castellanos,
poetessa e giornalista messicana, ci dà un esempio di questi
cinquecento anni di colonizzazione scrivendo di un fatto accaduto tra una
padrona bianca e una donna india:
«Quando Idolina nacque io non avevo latte […]. Vivevamo nella tenuta
del mio primo marito. Un posto sperdutissimo. Fummo bloccati lì dalle
piogge e per me arrivò il momento critico. Era la prima volta che
partorivo […]. Tra gli indios ci sono delle levatrici con molta esperienza e
una di loro mi diede assistenza. Risolsi le mie preoccupazioni senza altri
impicci. Le difficoltà iniziarono dopo. Idolina piangeva dalla fame… Venni
a sapere che lì vicino c’era una donna che aveva appena partorito come
me, Teresa. Ordinai che me la portassero. Le offrii le perle della Vergine
perché facesse da balia a Idolina. Disse di no. Era magra, tremante.
Sosteneva che il suo latte non sarebbe bastato per due bocche.
Addirittura fuggì dalla tenuta. Ma io ordinai ai vaccari di andarla a
cercare. Sul monte fecero una vera e propria battuta di caccia. Trovarono
Teresa rintanata in una grotta, abbracciata alla sua creatura. Non ci fu
altro modo che trascinarla di peso per portarla alla casa grande. […]. Per
farsi liberare finse di accettare quel che si comandava. Poi scoprii che
dava meno latte a Idolina per darlo a sua figlia. Dovetti separarle. »
«E l’altra creatura?»
«Morì. Perché non doveva morire? Aveva qualche santo in paradiso lei?
Teresa non è altro che una india. E anche sua figlia era una india.»
(Rovira, Donne di mais, pp. 13).
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Una donna indigena si sveglia, di solito, alle tre di notte per preparare la
colazione a suo marito che, verso le cinque, si sveglia per andare a
lavorare nei campi. La loro dieta si basa quasi esclusivamente sul mais:
le donne ne macinano i grani, ne fanno delle palline, le appiattiscono in
focacce sottili (tortillas) e poi le cuociono sulla piastra, attività che porta
via loro, durante l’intera giornata, dalle tre alle cinque ore. Molte si
svegliano addirittura all’una di notte, vanno a fare la legna, accendono il
fuoco, prendono l’acqua, fanno le tortillas e, se necessario, all’alba vanno
alla milpa a prendere quello che serve. E questo è ciò che fanno dal
lunedì alla domenica. Gli uomini almeno hanno la domenica per
riposarsi, per divertirsi e avere un po’ di tempo per loro. Le donne spesso
finiscono i loro lavori tardissimo, perché dopo cena molte volte vanno a
lavare i panni al fiume, poiché durante il giorno non ne hanno avuto il
tempo. Le bambine vengono cresciute in questo ambiente, e già da
molto piccole si prendono cura dei fratellini e aiutano sempre la mamma
nelle faccende di casa. Ma tutte queste attività non permettono loro di
andare a scuola; per questo, di solito è molto raro trovare nel Chiapas
delle donne indigene che parlano anche spagnolo (ibid).
Il movimento zapatista si propone di attuare dei cambiamenti per la
popolazione indigena intesa nella sua totalità, nella quale sono quindi
comprese anche le donne. Quest’ultime iniziarono a prendere coscienza
della loro situazione di sfruttamento quando entrarono in contatto con
l’EZLN, e si organizzarono in modo tale da ottenere dei miglioramenti.
Nell’ esercito zapatista di liberazione nazionale, infatti, sono presenti
anche le donne, con fucili e passamontagna. Attraverso i contatti con la
società civile, presto molte donne dei villaggi capirono che per loro
poteva esserci un’alternativa: potevano arruolarsi e combattere, fino a
rivestire ruoli importanti all’interno dell’esercito. Non più sofferenze e
sacrifici, ma libertà e presa di coscienza. Ma anche chi non si voleva
arruolare ora possedeva gli strumenti per poter attuare un cambiamento.
Lo sforzo delle donne dell’EZLN fu notevole: andando tra le varie
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comunità facevano capire alle mujeres indigenes che potevano esigere
rispetto dai mariti appartenenti ad una società maschilista ereditata da
cinquecento anni di conquista. Organizzarono diversi corsi informativi in
tutte le comunità su temi come la salute, il sesso, i diritti umani e
costituzionali delle donne e molti altri. Ma lo sforzo più significativo lo
fecero le comandanti Suzana, Ramona e la maggiore Ana Maria,
incaricate di andare in tutte le comunità indigene zapatiste per
raccogliere le volontà e le richieste delle donne. Questo sforzo culminò
l’otto marzo 1993 in una dichiarazione delle donne espressa e sottoposta
a giudizio del Comitato Clandestino Rivoluzionario Indigeno, quando la
comandante Suzana lesse quella Legge rivoluzionaria delle donne che
avrebbe stupito più avanti una nazione intera (L’altra metà della selva).
Queste leggi si articolavano in dieci punti:
1) Le donne, senza che abbiano importanza la razza e il credo,
colore o filiazione politica, hanno diritto a partecipare alla lotta
rivoluzionaria nel ruolo e grado che la loro volontà e capacità
determinano.
2) Le donne hanno diritto a lavorare e a ricevere un salario giusto.
3) Le donne hanno diritto a decidere il numero di figli che possono
avere e di cui possono prendersi cura.
4) Le donne hanno diritto a partecipare alle questioni della comunità
e ad avere incarichi se sono elette in modo libero e democratico.
5) Le donne e i propri figli hanno diritto ad una attenzione primaria in
fatto di salute e alimentazione.
6) Le donne hanno diritto all’educazione.
7) Le donne hanno diritto a scegliere il proprio compagno e non
devono essere costrette con la forza a contrarre matrimonio.
8) Nessuna donna potrà essere picchiata o maltrattata fisicamente
né da familiari né da estranei. I reati di tentato stupro o stupro
saranno severamente castigati.
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9) Le donne potranno occupare cariche di direzione
nell’organizzazione e avere gradi militari nelle forze armate
rivoluzionarie.
10) Le donne avranno tutti i diritti e gli obblighi previsti dalle leggi e
regolamenti rivoluzionari (Marcos, Mujeres, indigenas, rebeldes,
zapatistas).
Queste leggi sono volte a migliorare la condizione delle indigene,
soprattutto per quanto riguarda la questione dei figli. Tra le comunità,
infatti, l’aborto è ancor considerato illegale (soprattutto per la tradizione),
quindi si cerca di sensibilizzare sui metodi contraccettivi e sulla
pianificazione famigliare. Le donne che invece hanno scelto di prendere
la strada dell’esercito, di solito adottano l’astensione volontaria: per una
insurgente che deve tutti i giorni muoversi sarebbe impossibile badare ad
un bambino. L’esercito zapatista, infatti, si muove e controlla il territorio
stando tra le montagne, e non fa praticamente mai ritorno a casa. La sua
vita è esclusivamente riservata alla lotta. Ci sono invece le miliziane che
scelgono di essere addestrate dall’esercito a combattere ma rimangono
nei loro villaggi. Sono molte le bambine che già da piccole decidono di
voler entrare, un giorno, nell’esercito. Lì, infatti, esiste realmente una
situazione di parità, e tutti, indistintamente, vengono istruiti. Un altro
fattore che spinge molte donne ad entrare a far parte dell’esercito è che,
a differenza delle comunità più conservatrici, permettono a chiunque di
sposarsi con chi vuole. Quando un o una insurgente vuole unirsi in
matrimonio con un suo/una sua compagno/a di lotta, deve chiedere il
permesso al comandante (che può essere donna come uomo) e, se
ricevuto il permesso, la cerimonia viene svolta nell’accampamento dove i
novelli sposi passano sotto un arco creato dai compagni con i fucili. La
nuova coppia così formatasi può comunque decidere di avere figli: in
questo caso il bambino verrà lasciato crescere nel villaggio della madre,
poiché quest’ultima difficilmente decide di rinunciare all’esercito (e già
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questo fa capire quanto stiano meglio rispetto a vivere nelle comunità,
dove il loro destino è quello di fare da mamma e da moglie).
Strettamente legata al punto otto è invece un’altra richiesta avanzata
successivamente: il boicottaggio dell’alcool (ma anche delle droghe,
consumate comunque generalmente meno). La causa principale di
maltrattamenti, infatti, è proprio l’alcool: il posh, un’acquavite di canna ad
altissima gradazione, compie vere e proprie stragi nell’organismo degli
indigeni denutriti e provoca stati di alterazione che portano spesso gli
uomini ad essere violenti. Lo stato si rende partecipe di questo
assassinio legale e comodo, una sorta di strumento per il controllo
sociale. Non è raro trovare per strada uomini indigeni ubriachi, seguiti a
ruota da moglie e figli che cercano di riportarlo a casa. Per questo nelle
comunità indigene le donne misero il divieto di bere, decisione
appoggiata e condivisa anche dall’EZLN: l’alcool porta ad alzare le mani
più facilmente e può essere pericoloso per la guerriglia, poiché non si è
lucidi e affidabili. Questa dell’alcool fu una vittoria per le donne, ma fu
difficile farla accettare da tutti. Esse dovettero superare gli iniziali sorrisi
degli uomini durante le assemblee nelle comunità, alle quali iniziarono a
partecipare anche le donne con le loro richieste. Il loro ruolo venne
riconosciuto e non più discusso una volta per tutte dopo la sollevazione
del 1994, durante la quale soprattutto le donne si distinsero per il
coraggio durante l’occupazione dei diversi municipi. Da allora la loro
importanza non fu mai più messa in discussione (L’altra metà della
selva).
Una delle figure più carismatiche fu quella della comandante Ramona,
rappresentante dei gruppi di donne delle comunità indigene, scomparsa
per un tumore nel 2006. Da giovane ha dovuto lasciare il suo villaggio
per necessità, perché non c’era di che vivere. Arrivata in città si rese
conto che la situazione era diversa rispetto alla campagna, soprattutto
per le donne. Decise quindi di tornare al suo villaggio per far capire a
tutte che non era giusto essere sfruttate e maltrattate, che era necessario
26
organizzarsi. Ramona fu una delle prime donne ad entrare nell’EZLN.
Durante i vari anni si dedicò ad organizzare e difendere le donne
artigiane, fino a quando fu eletta per far parte del Ccri. Questo significò
una svolta: le donne pretendevano ed ottenevano di essere anch’esse le
protagoniste di quel cambiamento che stava avvenendo grazie
all’organizzazione armata, che a sua volta si rese disponibile a questo
ulteriore cambiamento. Fu grazie al suo esempio e a quello di altre
donne che molte decisero di risvegliarsi e di cambiare le cose (ibid).
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2.1.1 ESPERIENZA DI VIAGGIO: L’ANNIVERSARIO DI HUITEPEC.
Durante la notte a Huitepec fa veramente freddo. Non aiuta la casetta
in cui dormiamo, fatta di pali di legno, abbastanza distanziati gli uni
dagli altri da far passare parecchia aria gelida. Siamo in cinque
Osservatori, e tre di noi dormono su assi di legno considerati letti,
mentre due hanno la fortuna di dormire nella loro amaca. La vestizione
per andare a dormire è sempre molto comica: maglie (molte maglie)
una sopra l’altra, giacca, sciarpe, calze (anche più di un paio), guanti,
cappellini di lana ecc. E quando è tutto completato, le gesta acrobatiche
per infilarsi dentro il sacco a pelo o, ancora peggio, dentro l’amaca.
Questa attività ci porta via parecchio tempo, ma non importa: non c’è
molto da fare qui. Tutto ciò avviene comunque sempre abbastanza
presto, appena dopo cena. In una di queste sere, dopo mille peripezie,
andiamo a dormire veramente presto, saranno state le nove. Facciamo
appena in tempo a darci la buona notte, infagottati come siamo nei
nostri scomodi ma caldi giacigli, che qualcuno bussa alla porta. Sono i
compas 6 tzotziles che in quei giorni stanno facendo i turni di guardia
per controllare la riserva, e che hanno la casetta vicino alla nostra. Ci
chiedono scusa e ci invitano a seguirli. Un po’ straniti, usciamo come
possibile dai nostri bozzoli e ci vestiamo il più velocemente possibile.
Raggiungiamo la loro casetta e troviamo tre giovani intorno al fuoco che
ci fanno segno di sederci. Il mistero ci è subito svelato: è il tredici
marzo, sesto anniversario della riserva zapatista di Huitepec. Ci
tenevano a festeggiare con noi, e dopo averci dato del pane dolce e del
caffè, ci fanno alzare per seguirli. Il tragitto sarà molto breve. A venti
metri dietro di noi, infatti, c’è una sorta di chiesetta costruita da loro. Più
che una chiesetta, un altarino. Tre pareti (una dietro e due ai lati più
una specie di tettuccio) circondano una statua abbastanza grande della
Vergine di Guadalupe, protettrice dei popoli indigeni. Ai piedi della
statua delle candele gialle in onore della Madre Terra, e bianche per il
Cielo, ci dicono, accompagnate da un braciere con dell’incenso dentro.
Nelle pareti di legno molte bandiere di vari eroi nazionali e non, tra i
6 Abbreviazione di compañeros (compagni), appellativo con cui tutti gli zapatisti si chiamano tra di loro (e che utilizzano anche quando si rivolgono agli osservatori dei diritti umani).
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quali spiccano più di tutti i faccioni di Emiliano Zapata ed Ernesto Che
Guevara. Ovunque scritte che inneggiano all’EZLN e allo zapatismo.
Una “caricatura” si staglia dietro la Vergine e rappresenta quest’ultima
vestita come una miliziana: fasce di pallottole incrociate sul petto e
vestito color verde oliva. Ci raccogliamo intorno all’altarino e
osserviamo con attenzione, incuriositi. Uno dei compas prende un
bicchierino piccolo di vetro, uno di quelli che si usano per i chupitos
(bicchierini di liquore), e ingoia velocemente una bevanda scura.
Pensiamo tutti la stessa cosa: ma non era proibito bere alcolici nelle
comunità zapatiste? Il ragazzo ci guarda e ci chiede se ne vogliamo
uno anche noi. Nessuno si osa. Ma uno dei suoi amici gli dice di sì, e
allora lui riempie di nuovo il bicchierino. Da dietro il tavolino su cui è
appoggiata la statua della Vergine tira fuori un bottiglione di Coca Cola
e ne versa un po’ del contenuto nel bicchiere. Sì, Coca Cola. Nelle
comunità, effettivamente, è vietato bere, e per il festeggiamento di
ricorrenze religiose o pagane che siano, il surrogato dell’alcool è
proprio la bibita gassata. Questa scelta, in realtà, risponde ad una
credenza tutta indigena: la Coca Cola viene considerata una bibita
sacra dagli indios, poiché provoca in chi la beve delle fuoriuscite di gas.
Il fatto che sia una bibita gassata (quindi questo discorso vale per tutte
le bevande che hanno questa caratteristica, anche se la Coca Cola
viene consumata tantissimo in Chiapas, perché costa quasi meno
dell’acqua) la rende importante, perché si pensa che facendo uscire i
gas il corpo si purifichi e, parallelamente, si farebbe uscire in questo
modo anche il maligno. Questa è un’usanza che si svolge anche al di
fuori delle comunità zapatiste, anche se, in questi casi, la pratica è
accompagnata da grandissime quantità di posh, anch’essa considerata
bevanda sacra (collegato all’estasi come ravvicinamento con il divino,
che può avvenire tramite droghe o alcool). Con la legge delle donne
zapatiste questa usanza venne abbandonata (sarebbe disastroso
ubriacarsi durante il festeggiamento dell’anniversario della riserva,
perché i paramilitari potrebbero essere lì vicino e approfittarne) e oggi,
per festeggiare, osserviamo questi giovani ingurgitare molti litri di Coca
Cola, bevendo ad una velocità impressionante un bicchierino dietro
l’altro.
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2.2 DONNE DI MAIS
Il ruolo del Subcomandante Marcos non è così centrale come si potrebbe
pensare. Egli si propone come il portavoce della questione indigena, ma
il suo obiettivo è quello di portare gli indios ad avere l’attenzione che si
meritano.
Dopo anni di silenzio, nel 2001 partì una grandissima carovana diretta
verso Città del Messico per richiedere la liberazione di detenuti zapatisti,
il ritiro delle forze armate in sette comunità, e per riprendere gli accordi di
San Andrés. L’allora presidente Fox invitò gli zapatisti a parlare e ad
esporre le loro richieste in Parlamento. L’attenzione mondiale mediatica
era tutta rivolta verso questo avvenimento, anche e soprattutto perché si
aspettava un’entrata trionfale dell’oratore emblematico Marcos. Ma chi
aspettava questo rimase deluso: a fare da portavoce del movimento fu
una minuta donna tzeltal, la comandante Esther, la quale prese la parola
spiegando con lucidità e determinazione i desideri e le aspettative degli
zapatisti. «Il subcomandante – disse – non è altro che questo: un
subcomandante», e come tale si è sottratto alla logica della passerella
nel momento più opportuno. Come scrive La Jornada7 il 28 maggio 2001
«ci sono assenze che trionfano, e quella di Marcos ha trionfato». Esther
per prima parlò al mondo intero di una situazione che molti non
conoscono, della condizione di oppressi tra gli oppressi: quella delle
donne.
«Signori deputati e signore deputate Senatori e senatrici,
voglio spiegarvi la situazione di noi donne indigene che viviamo nelle
nostre comunità […] La situazione è molto dura. Da moltissimi anni
7 La Jornada è uno dei più importanti giornali messicani di sinistra che seguì da vicino e scrupolosamente le vicende zapatiste.
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soffriamo il dolore, l'oblio, il disprezzo, l'emarginazione e l'oppressione.
Soffriamo l'oblio perché nessuno si ricorda di noi. Ci hanno mandato a
vivere nelle più lontane montagne del Paese affinché nessuno venisse a
visitarci o a vedere come viviamo. Intanto non abbiamo acqua potabile,
luce elettrica, scuole, case dignitose, strade, cliniche, tanto meno
ospedali. Intanto molte delle nostre sorelle, donne, bambini ed anziani
muoiono di malattie curabili, denutrizione e di parto perché non ci sono
cliniche né ospedali che ci assistano. Solo in città, dove vivono i ricchi, ci
sono ospedali con una buona assistenza e tutti i servizi. Anche se ce ne
sono in città, noi non ne beneficiamo per niente, perché non abbiamo
denaro, non c'è modo di andarci e se c'è non riusciamo a raggiungere la
città, durante il percorso moriamo.
In particolare le donne, che soffrono il dolore del parto, si vedono morire i
propri figli tra le braccia per denutrizione, mancanza di assistenza.
Vedono i loro figli scalzi, senza vestiti perché non hanno soldi per
comprarli, perché sono loro, le donne, che si curano della casa e vedono
tutto quello che manca per la loro alimentazione.
Trasportano anche l'acqua con le brocche con 2 o 3 ore di cammino
caricandosi il proprio figlio e svolgono tutti i lavori di cucina. Fin da molto
piccole impariamo a lavorare facendo cose semplici. Da grandi andiamo
a lavorare nei campi, a seminare, pulire e carichiamo i nostri bambini.
Intanto gli uomini vanno a lavorare nelle piantagioni di caffè e di canna
da zucchero per guadagnare un po' di denaro per poter sopravvivere con
la propria famiglia, a volte non ritornano perché muoiono per malattie.
Non c'è tempo per tornare a casa o se ritornano, ritornano malati, senza
denaro, a volte già morti. Così la donna soffre ancora di più perché resta
sola ad accudire i propri figli.
Soffriamo anche il disprezzo e l'emarginazione fin dalla nascita perché
non ci curano bene. Siccome siamo bambine, pensano che non valiamo
niente, che non sappiamo pensare, né lavorare, né come vivere la nostra
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vita. Per questo molte di noi donne sono analfabete, perché non abbiamo
avuto l'opportunità di frequentare la scuola. Quando siamo un poco più
grandi, i nostri padri ci obbligano a sposarci a forza, non importa se noi
non vogliamo, non chiedono il nostro consenso. Non rispettano le nostre
decisioni. Perché donne ci picchiano, i nostri mariti o famigliari ci
maltrattano e non possiamo dire nulla perché ci dicono che non abbiamo
nessun diritto di difenderci. I meticci ed i ricchi si burlano di noi donne
indigene per il nostro modo di vestire, di parlare, per la nostra lingua, per
il nostro modo di pregare e di curare e per il nostro colore, che è il colore
della terra che lavoriamo […] Ci dicono che siamo sudice, che non ci
laviamo perché siamo indigene.
Noi donne indigene non abbiamo le stesse opportunità degli uomini, che
hanno tutto il diritto di decidere su tutto. Solo loro hanno diritto alla terra,
mentre la donna non ne ha diritto come se non potessimo lavorare anche
noi la terra e come se non fossimo esseri umani8. Soffriamo la
disuguaglianza. Tutta questa situazione è stata introdotta dai cattivi
governi. Noi donne indigene non abbiamo una buona alimentazione, non
abbiamo una casa dignitosa, non abbiamo né un centro di salute, né
studi. Non abbiamo un progetto di lavoro e così sopravviviamo nella
miseria e questa povertà è dovuta all'abbandono del governo che non si
è mai curato di noi come indigene e non ci ha mai preso in
considerazione, ci ha trattato come una cosa qualsiasi. Dice che ci
manda aiuti […] ma lo fa con l'intento di distruggerci e dividerci. Questa è
la vita e la morte di noi donne indigene […]. È la legge attuale che
permette la nostra emarginazione e la nostra umiliazione. Per questo noi
abbiamo deciso di organizzarci per lottare come donne zapatiste. Per
cambiare la situazione, perché siamo ormai stanche di tanta sofferenza
senza i nostri diritti. Non vi racconto tutto questo per avere la vostra pietà
o perché ci veniate a salvare da questi abusi. Noi donne abbiamo lottato
per cambiare questo e continueremo a farlo. Ma abbiamo bisogno che si
8 Le terre, infatti, sono ereditate solo dai figli maschi.
32
riconosca per legge la nostra lotta perché fino ad ora non è stata
riconosciuta […]
Noi oltre che donne siamo indigene e come tali non siamo riconosciute.
Noi donne sappiamo quali usi e costumi sono buoni e quali sono cattivi.
Cattivi sono pagare e picchiare la donna, venderla e comprarla, sposarla
a forza senza il suo consenso9, proibirle la partecipazione alle
assemblee, impedirle di uscire di casa. Per questo vogliamo che si
approvi la legge per i diritti e la cultura indigeni, è molto importante per
noi, per le donne indigene di tutto il Messico. Servirà affinché siamo
riconosciute e rispettate come donne e come indigene quali siamo.
Questo vuol dire che vogliamo che siano riconosciuti il nostro modo di
vestire, di parlare, di governare, di organizzarci, di pregare, di curare, il
nostro modo di lavorare collettivamente, di rispettare la terra e di
intendere la vita, che è la natura e noi ne siamo parte.»10
Questa era la situazione delle donne per la prima volta raccontata al
mondo intero.
9 È usanza, in molte comunità, “vendere” la figlia in cambio di una dote (che di solito consta in cibo e alcool). E’ la tradizionale istituzione del “prezzo della sposa”. 10 www.ecn.org
33
2.2.1 ESPERIENZA DI VIAGGIO: L’ALTRA METÀ DELLA SELVA
Mariasol è la prima persona che ci viene a fare visita appena arriviamo
nell’accampamento di Huitepec. Ha 33 anni, capelli lunghi e neri (come
praticamente tutte le donne indie), vestiti tradizionali (una lunga gonna a
tubino e un camiciotto) e un bambino dietro la schiena. Ha quattro
sorelle e due fratelli, e quello che ha dietro la schiena, trasportato nel
classico scialle che qui tutte usano per trasportare i neonati, è il suo
quarto figlio. Ingenuamente le chiedo come si chiama il bambino, ma lei
non risponde. Dice che non ha nome. Qui, tra gli indigeni, tutti i bambini
fino ai due anni non hanno nome. La ragione è facilmente
comprensibile: sono pochi i bambini che superano i primi anni di vita, e
come scongiuro le madri non danno un nome ai propri figli, forse un po’
per ingannare la morte e un po’ per non dare “realtà” ad un essere che
potrebbe presto essere portato via da malattie, denutrizione, mancanza
di igiene e chissà quant’altro.
Mariasol ci segue quando, impacciatamente, cerchiamo di prendere
l’acqua dal “pozzo” (in realtà un buco profondissimo nel terreno che ci
permette di prendere, con un secchio e una lunghissima corda, un po’ di
acqua fangosa) e, ridacchiando, ci aiuta a riempire e a portare le nostre
taniche fino all’accampamento, sempre con il suo bambino dietro la
schiena, che nonostante gli strattoni e i sobbalzamenti, non si lamenta
neanche una volta. Il rapporto che hanno le madri con i propri bambini è
molto particolare. Abituati ad essere portati costantemente sulla
schiena, tra i bambini e le mamme si sviluppa fin dai primi giorni una
complicità e una sensibilità fisica impressionante. I bisogni del bambino
sono percepiti dalla madre, la quale sente il corpo del piccolo prima
ancora dei suoi lamenti, che non ha quindi necessità di emettere perché
tutti i suoi bisogni sono soddisfatti ancora prima che li manifesti. I due
corpi stanno sempre e costantemente in contatto, tanto che la madre
impara da subito a capire quando il piccolo si muove in un certo modo
34
perché deve fare la pipì, quando si sveglia e quindi quando deve
mangiare, oppure quando deve cambiare posizione ecc.11
Di donne con bambini se ne vedono tantissime nelle vie di San
Cristobal. Arrivano la mattina presto su affollatissime camionette per
vendere i loro prodotti ai turisti, e non è raro vederle la sera tardi
distrutte, infreddolite, accucciate agli angoli delle strade per riposarsi.
Non è ancora l’ora di tornare a casa, ci sono troppi turisti che potrebbero
ancora comprare. Ma la stanchezza è tanta, come anche il freddo, e
allora anche un angolino di marciapiede può essere apprezzato come
giaciglio.
La vita delle donne indigene qui è molto dura, ma con il movimento
zapatista sono diventate le protagoniste di un cambiamento che ha
sorpreso un po’ tutti, anche loro. Ce ne rendiamo conto quando a
Huitepec, una sera, noi Osservatori dei Diritti Umani (siamo quattro
donne e un uomo) veniamo invitati nella casupola accanto alla nostra,
dove un gruppo di zapatisti (meticci) stava trascorrendo la sua settimana
di controllo del territorio, che avveniva a rotazione tra persone del posto
e persone che invece arrivavano da altre città, le quali davano la loro
disponibilità a fare presidi di settimane nelle zone che dovevano essere
costantemente controllate per evitare che venissero prese dai
paramilitari. Accettiamo volentieri il loro invito. Ci fanno accomodare
intorno ad un fuoco e ci offrono l’atole, una bevanda a base di riso (ma
ne esistono diverse varianti) tipica messicana. Di solito ogni notte ne
rimangono svegli almeno due, perché con il buio è più facile che i
paramilitari arrivino. Ma per l’occasione, quella sera sono quasi tutti
svegli. Quelli con cui si presentano sono nomi di battaglia: Santana,
come il famoso chitarrista, Pablo, come Picasso ecc. I loro veri nomi
rimarranno per noi un mistero, come molte altre cose. L’imbarazzo dura
poco, e subito veniamo catturati dai loro discorsi e dalle canzoni che ci
dedicano. Un signore in particolare, con una voce stupenda, intona versi
e parla d’amore. Si rivolge a noi quattro donne. In un’atmosfera così
magica: alla sola luce del fuoco, immersi in una rada nebbia, guardiamo
11 Rimando a tal proposito al concetto di sociosensualità presente nel libro di Montagu, Il buon selvaggio. Educare alla non aggressività (pag.21).
35
ed ascoltiamo questo signore sulla sessantina, che con le sue mani da
campesino (contadino) tiene un ritmo soave facendole volteggiare
nell’aria, come se stesse suonando uno strumento invisibile. Siamo
talmente catturati, che ci sfugge il motivo di tutto ciò. È l’otto marzo. La
festa della donna. Una festa dimenticata durante i cinquecento anni
della conquista, ma tornata ad essere una festa importante con l’arrivo
del movimento zapatista. Uno di loro ci spiega che le donne sono la vera
forza del movimento, l’altra metà essenziale, e che senza di loro lo
zapatismo non esisterebbe. In quel momento siamo noi, in quanto
donne, al centro dell’attenzione. Di sicuro un otto marzo che non
dimenticherò mai.
36
2.3 SAN CRISTOBAL DE LAS CASAS
I maya credono che, quando nasce una persona, nasca anche un
animale nei monti che sarà il suo nagual, legato a lui per tutta la vita e col
quale condividerà fama, malattia, potere, dolore e morte. Secondo gli
tzotziles questi animali vivono nelle montagne e sono divisi per famiglie.
Quando una donna si unisce in matrimonio, il suo nagual abbandona la
montagna in cui sta per andare a vivere in quella del marito. Se una
donna o un uomo indigeni vanno a vivere in città e abbandonano le loro
tradizioni, il loro animale va a vivere da un’altra parte lontana, e gli indios
non li riconosceranno più come uno di loro, perché il suo animale vive da
un’altra parte (Rovira, Donne di mais, pag. 89).
Quando gli spagnoli
conquistarono il
Chiapas, Diego de
Mazariegos fondò, nel
1528, la Ciudad Real,
chiamata ora San
Cristobal de las Casas,
una delle città più
antiche non solo del
Messico ma di tutto il
continente americano. I
conquistatori che vi si insediarono inizialmente furono settanta, e per
difendersi dagli indios che si trovavano tra le montagne lì intorno,
regalarono le terre che circondavano la città ad alleati di altri paesi.
Quando l’organizzazione e la primordiale urbanistica della città fu
completata, nel 1529 gli abitanti chiesero il permesso di importate
duecento donne indigene per popolare la città. Da allora in poi ci fu
San Cristobal (in lontananza) vista dal monte Huitepec. Sulla sinistra, donne tzotziles
37
un’eccedenza di popolazione femminile, tanto che furono creati dei
conventi e, duecento anni dopo, delle case chiuse, per far fronte alla
moltitudine di donne rimaste senza compagno. Gli uomini erano spesso
nei campi, o in guerra, o in altri stati per cercare lavoro, mentre alle
donne rimaneva la gestione della casa e, di fatto, della città. Nacque da
qui il mito della donna matriarca, la coleta (dall’uso del colletto bianco
tipico del loro vestiario), con sangue misto “pulito” da secoli di
cittadinanza. Ma neanche per loro la vita era facile: rimaste spesso
vedove o abbandonate, si davano alla guerra tra povere, al brigantaggio,
e spinte dalla disperazione derubavano le indigene che, scendendo dai
monti, cercavano di vendere i loro prodotti al mercato. Per molti secoli,
San Cristobal rappresentò una città comoda per gli uomini, che potevano
così avere più donne, amanti…e serve. Sì, perché in un contesto così
disperato, le donne svilupparono un cultura di concessioni. Per paura di
perdere il marito, di cui avevano bisogno per sopravvivere, scesero a
compromessi e si sottomisero alle loro volontà, rinunciando alla ricerca
dell’eguaglianza. Le cronache del tempo (conservate nell’archivio storico
della Diocesi di San Cristobal) raccontano di maltrattamenti e soprusi.
Davanti alla sollevazione delle loro “sorellastre” indigene del 1994, le
coletas non nascosero il loro stupore, accompagnato però da
indignazione e disprezzo. Le ragioni di questo sentimento aspro sono da
ricercare nell’immaginario collettivo sottoposto a cinquecento anni di
cambiamenti. La classe media dei coletos è politicamente schierata nella
destra del PRI (il partito conservatore al governo) e ricopre anche ruoli
d’importanza. Ciò che li lega a quegli indios tanto odiati è un passato che
si perde nella notte dei tempi, al quale non vogliono essere più legati. Si
sentono migliori perché “civilizzati” e non vogliono in nessuno modo
essere associati a quegli indigeni così simili fisicamente a loro ma così
culturalmente lontani. Le loro sono storie di povertà e sofferenze vissute
in parallelo, ma che hanno avuto risvolti diversi (Rovira, Donne di mais).
38
2.4 FAMIGLIA INDIGENA E ISTRUZIONE SCOLASTICA
Nelle comunità indigene del Chiapas le coppie che si uniscono in
matrimonio sono virilocali: dopo la cerimonia (spesso cristiana) i giovani
si stabiliscono nella comunità dei genitori dell’uomo (dove quest’ultimo è
nato e cresciuto), mentre la donna avrà l’obbligo di rispettare e servire i
suoceri come se fossero i suoi genitori. Le donne non vengono scelte per
la loro intelligenza, bellezza o simpatia, ma per le loro abilità nelle
faccende domestiche: una brava moglie deve cucinare, rassettare casa,
badare ai figli, fare vestiti, e non lamentarsi mai. Il nuovo nucleo familiare
che così si crea ha lo scopo di dare al mondo figli che hanno il destino
bene o male già segnato: i maschi andranno ad aiutare i padri nei campi
mentre le bambine aiuteranno la madre nei lavori domestici e
nell’accudimento dei fratelli e delle sorelle più piccoli. Le nuove famiglie
si possono creare in vari modi: nella maggior parte dei casi l’uomo paga
una dote (il “prezzo della sposa”) per la donna e molto più raramente le
unioni matrimoniali sono scelte da entrambi i coniugi.
Non è raro però che la nuove unioni avvengano ancora in un terzo e
triste modo. All’interno delle stesse comunità accadono anche violenze
sessuali che, spesso, non sono senza conseguenze. Le donne che in
questo modo rimangono incinte sono molte, e gli indios affrontano questo
disonore in qualche modo “premiando” il violentatore. L’uomo in
questione viene cercato per responsabilizzarlo delle proprie azioni e
viene obbligato a sposare la donna e a badare al figlio, senza essere
punito in nessun altro modo. È la donna, anzi, ad essere vista come una
poco di buono e ad essere punita perché incinta.
Nelle comunità il parto è seguito dalle levatrici le quali, di solito, sono
donne anziane con molti figli e nipoti. Strettamente legata al parto è la
Luna: ad essa vengono destinate le preghiere per far sì che il bambino
nasca sano e forte ed è anche il riferimento per calcolare il periodo di
gestazione. Gli indios tzotziles sono quelli che più di tutti hanno
39
conservato le loro tradizioni rendendo inaccessibile molte pratiche che, in
questo modo, non sono state influenzate e cambiate dal mondo esterno:
ai parti, ad esempio, non possono assistere gli estranei (e gli stranieri),
ma solo i famigliari. Durante la nascita del nuovo nato si fa una vera e
propria cerimonia rituale, accompagnata da alcool, incensi e candele di
vari colori (ognuno dei quali corrisponde ad una specifica richiesta). Le
donne partoriscono nella casa, completamente vestite, e raramente
vengono fatte sdraiare. Di solito partoriscono in piedi, appese al collo del
marito il quale, in questo modo, contribuisce allo sforzo fisico del parto.
La tradizione varia da un villaggio all’altro: in alcuni, il cordone ombelicale
viene tagliato e appeso ad un albero vicino dalla levatrice, mentre la
placenta viene bruciata nel fuoco della casa. Il bimbo viene lavato con
acqua tiepida e il padre mastica del peperoncino che poi metterà sulle
labbra del neonato per impedire che rimangano nere. Per venti giorni la
madre berrà acqua tiepida e verrà considerata debole. Con la migrazione
di molti indios nella Selva Lacandona, questi riti e usanze vennero rese
più pericolose dal nuovo ed inospitale luogo, e le prime donne che
dovettero partorire si trovarono a dover affrontare una condizione che
non conoscevano, lontano da tutte le loro abitudini. In realtà, questa
ricerca di nuove terre da coltivare e la successiva migrazione nelle terre
della selva ha messo in crisi molte pratiche tradizionali, ed è anche per
questa ragione che nelle comunità della selva prima che da ogni altra
parte il movimento zapatista ha avuto terreno fertile. Le comunità nate in
seguito alla migrazione, infatti, sono meno rigide, dato che il nuovo
spostamento di massa ha rotto le tradizionali strutture gerarchiche,
organizzando un tipo di comunità meno verticale e più partecipativo
(ibid).
Crescendo nelle comunità, i bambini devono affrontare un’infanzia e poi
un’adolescenza non molto facile: sono tantissimi i giovani costretti a
lavorare, senza avere la possibilità di istruirsi. Per i genitori, infatti, sono
molto più utili in casa o nei campi. Sono tantissime soprattutto le
40
bambine indigene che a San Cristóbal vendono i loro prodotti artigianali
senza avere poi il tempo non solo di andare a scuola, ma anche di
giocare e di vivere la propria infanzia: nascono già donne. Per quanto
riguarda l’istruzione scolastica, soprattutto le figlie femmine non sono
incoraggiate dalla famiglia a studiare, poiché ci si preoccupa delle
violenze sessuali che potrebbero subire sia nella comunità stessa che
nelle città più grandi, dove si trovano scuole medie e superiori. Di solito
le figlie frequentano la scuola elementare che è presente nella comunità,
la quale però presenta molti problemi. Innanzi tutto è altissimo il tasso di
assenteismo da parte dei maestri, che si presentano spesso solo dal
martedì al giovedì, dato che sfiora lo scandalo, come anche i loro miseri
stipendi. Inoltre i docenti sono spesso poco preparati all’insegnamento e
adottano tecniche di apprendimento obsolete e svantaggiose per gli
alunni. Tendono, infatti, a fare lezione agli studenti solo nella lingua
indigena di appartenenza, e quando insegnano lo spagnolo (materia
obbligatoria) fanno leggere agli allievi dei testi senza spiegare loro cosa
significhino. Il risultato è una conoscenza dello spagnolo scritto, ma non
un apprendimento del significato di quelle parole. Dall’altro lato, nelle
città si insegna invece soltanto lo spagnolo, non lasciando spazio al
bilinguismo, essenziale per il mantenimento della cultura. Un’altra scuola
di pensiero appoggia la decisione di penalizzare l’istruzione delle donne
per dare la possibilità a quest’ultime di essere le depositarie della cultura
e delle tradizioni dei loro villaggi che si perderebbero se tutti andassero
in città a studiare. Un brutto modo di giustificare il tentativo di rendere le
donne più facilmente sottomettibili. Nel dicembre del 1994 una delle
prime misure prese dai contadini zapatisti fu quella di impedire l’entrata
dei maestri finché non si fosse definito un piano di istruzione integrale
approvato dalle comunità in base alle necessità della cultura indigena
(ibid).
41
2.4.1 ESPERIENZA DI VIAGGIO: IN UNA CASA DI BOLOMAJAW
Nella comunità di BolomAjaw il ruolo di noi Osservatori dei diritti umani è
quello di stare nel piccolo villaggio (composto da sei casupole, una
chiesa e una scuola) per controllare che nessun estraneo commetta
soprusi o violenze contro la comunità. Intanto, durante la giornata, ci
occupiamo delle cose fondamentali: accendere il fuoco, andare a
prendere l’acqua (in una fonte d’acqua pulita distante mezz’oretta
dall’accampamento) e, soprattutto, combattere il terribile caldo tropicale
con lunghi e rinfrescanti bagni nel fiume stupendo sul quale si trova
BolomAjaw (che significa, in lingua tzeltal, “grande cascata”). La casetta
destinata agli Osservatori (tre pareti di legno, un tetto anch’esso di legno
e nessuna parete davanti, particolare che dà libero accesso a qualsiasi
tipo di animale durante la notte, da maiali a insetti di ogni genere) si
trova lungo il sentierino che attraversa tutta la comunità, tra le capanne
degli altri abitanti. Poco più avanti, sulla nostra destra, c’è la casa di
Fermín, il “rappresentante” della comunità, mentre dall’altro lato si trova
la capanna di Margarita.
Margarita non avrà più di trent’anni, e si occupa di portarci ogni giorno
delle tortillas fatte da lei. E’ molto socievole e parla con noi volentieri.
Uno dei suoi tre figli maschi mi invita a casa sua, composta da due
costruzioni adiacenti, una dove è allestita la cucina e una destinata a
dormire. Mi fa accomodare nella cucina, su una specie di panca
attaccata ad un tavolo. La cucina è molto piccola, il pavimento è di terra
battuta e per terra scorrazzano molti piccoli di tacchino e due gatti. Sul
fondo della cucina si trova un braciere parecchio grosso, sul quale sono
appoggiate varie pietre che servono come piano cottura e, a lato, una
macchina per schiacciare le tortillas. Margarita non si aspetta una mia
visita (è infatti suo figlio che mi ha invitata, col quale stavo giocando fino
a qualche minuto prima), e appena entro si affretta a mettere in ordine la
cucina, raccogliendo delle cose da terra, e rimproverando in tzeltal suo
figlio (o almeno così mi è parso). È molto ospitale e subito mi offre delle
pannocchie di mais abbrustolite che divoro perché deliziose. Mi racconta
che le piace stare a BolomAjaw, ma la vita è dura, e che proprio qualche
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settimana prima una famiglia ha deciso di andarsene (davanti alla nostra
capanna ci sono infatti resti di un recinto e di qualche parete di legno).
La nostra conversazione è breve, ma il giorno dopo mi invita di nuovo a
casa sua, anche se questa volta sono presenti altri due miei compagni e
una parte della sua famiglia. Non sono presenti le sue due figlie
femmine, poiché a turno tutti i giovani passano delle settimane nel
caracol di Morelia (al quale BolomAjaw appartiene), e nemmeno il figlio
più grande, che è a lavorare in qualche campo. Ci sono però, oltre al
bambino che il giorno prima mi aveva invitata a casa loro, anche un altro
figlio di diciotto anni, un nipotino di circa quattro anni e il marito di
Margarita. Mentre lei prepara l’atole e la cena, il marito si siede davanti
a noi e ci parla. Ha trent’anni, ma sembra molto più anziano, e ci
stupisce quando ci dice che è già nonno. Risponde sorridendo alle
nostre domande, e sgrida spesso i bambini (ma non li picchia). È
appena tornato dal lavoro (tutti gli uomini della comunità sono impegnati
a costruire una strada abbastanza grande da far passare macchine o
camion per collegare il villaggio alla strada principale, poiché per adesso
c’è solo una stradina che permette a malapena ad una persona di
passare) ed è molto stanco. Si intrattiene comunque con noi parecchio,
e ci spiega qualcosa in più della sua famiglia. Lui e Margarita hanno
scelto di sposarsi (in questo caso, quindi, sembra che la donna non sia
stata obbligata) e dopo aver pagato la dote, hanno celebrato una
cerimonio cattolica. Nel 2003 hanno deciso, con altre venticinque
famiglie, di cercare un posto dove dar vita ad un nuovo insediamento, e
hanno trovato la possibilità di andare a vivere in un luogo già dichiarato
protetto dagli zapatisti nel 1994. Mentre il marito parla, Margarita
continua a lavorare sodo, dando da mangiare e da bere a noi, ai suoi
famigliari e ai gatti. In particolare mentre stava dando da mangiare del
mais a quest’ultimi, per attirare la loro attenzione li chiama in tzeltal
«michooo». Sorrido, e mi affretto subito a chiederle se quella parola che
ha appena pronunciato nella sua lingua significa gatto. Sono molto
sorpresi e divertiti nel sapere che anche in italiano gatto si dice “micio”:
non credo capitino molte volte queste coincidenze linguistiche!
43
3 CONCLUSIONI
3.1 LA DIGNITÀ DI UN POPOLO E LA “SINDROME DI
CENERENTOLA”
Nel luglio del 2003 Marcos scrive:
«Noi non vi rimproveriamo nulla, sappiamo che rischiate molto per venirci
a trovare e portare aiuti umanitari ai civili di queste parti. Ciò che ci
addolora non è la nostra carenza, è vedere in altri quello che gli altri non
vedono, la stessa orfanità di libertà e democrazia, la stessa mancanza di
giustizia […]. Dei benefici che la nostra gente ha tratto da questa guerra,
conservo un esempio di “aiuto umanitario” per gli indigeni chiapanechi,
arrivato alcune settimane or sono: una scarpetta d’importazione col tacco
alto di color rosa, numero sei e mezzo, senza l’altra per fare il paio. La
porto sempre nel mio zaino, tra interviste, fotografie, reportages per
ricordare a me stesso ciò che siamo per il Paese dopo il primo gennaio:
una cenerentola […]. Questa brava gente che con sincerità ci manda una
scarpetta rosa d’importazione con il tacco alto, del numero sei e mezzo,
spaiata, pensando che, siccome siamo poveri, dobbiamo accettare
qualsiasi cosa, carità ed elemosina. Come dire a tutta questa brava
gente di no, che non vogliamo più continuare a vivere la vergogna del
Messico? […]. No, non vogliamo più vivere così. Questo successe
nell’aprile del ’94. Allora pensavamo che fosse questione di tempo, che
la gente avrebbe capito che gli indigeni zapatisti avevano dignità e che
non cercavano l’elemosina bensì il rispetto. L’altra scarpetta rosa non è
mai arrivata e il paio è rimasto incompleto, e negli Aguascalientes si
accumularono computer inutili, medicinali scaduti, indumenti stravaganti
che non sono buoni nemmeno per le rappresentazioni teatrali e, certo,
scarpe spaiate. E continuano ad arrivare cose di questo tipo, come se
quella gente dicesse: “Poverini, sono molto bisognosi, perciò gli può
44
servire qualsiasi genere di cose, e a me questo avanza”. Non solo, ma
esiste anche una elemosina più sofisticata. È quella praticata da alcune
Ong e da organismi internazionali. Consiste, grosso modo, nel fatto che
costoro decidono di che cosa hanno bisogno le comunità e senza
consultare nessuno impongono non soltanto determinati progetti, ma
anche i tempi e i modi della loro realizzazione. Immaginatevi la
disperazione di una comunità che ha bisogno di acqua potabile e invece
le affibbiano una biblioteca, che necessita di una scuola per bambini e
invece le propinano un corso di erboristeria.» (La tredicesima Stele,
parte II, 25 luglio 2003).
L’EZLN propone un nuovo modo di
procedere verso le trasformazioni
sociali rivoluzionarie, collegato anche
alle tradizioni indigene comunitarie.
Quello che viene chiamato dallo stesso
Marcos “neozapatismo” risponde alla
logica di non cadere nella
cristallizzazione di concetti così come di
poteri. All’alba del 1994 queste persone
avevano elaborato un loro concetto di
zapatismo ed erano pronti a
condividerlo con il mondo intero
aspettandosi due diverse reazioni: o la massima condivisione e
partecipazione (ed è questo a cui aspiravano, poiché il loro si voleva
proporre come un movimento di lotta globale contro il malgoverno e gli
abusi di potere, problemi che non interessano il solo Chiapas) o
indifferenza e contrapposizione. La società civile, invece, rispose ancora
in un terzo modo: la maggior parte della popolazione appoggiò le idee
ma non intervenne nel senso stretto della parola. Quella degli zapatisti
venne vista più che altro come una lotta indigena per dei motivi giusti, e
come tale ricevette la simpatia di molti ma l’impegno di pochi. Per questo
venne coniato il termine neozapatismo. Le persone aiutarono a dare dei
Uno dei compas di Huitepec
45
confini e dei limiti nuovi al movimento, il quale si evolse nel tempo. Dallo
zapatismo vero e proprio si è quindi subito passati a quello che loro
stessi chiamano neozapatismo, anche se questo termine è ancora oggi
aperto a cambiamenti e, soprattutto, rinnovamenti.
46
3.2 LO ZAPATISMO OGGI
Se quello che ci si chiede oggi è se il movimento zapatista sia concluso,
la risposta è no. Ancora una volta, quando ormai l’attenzione è calata e si
inizia a vociferare della sconfitta dello zapatismo e dell’uscita di scena
del subcomandante Marcos (è infatti ormai da parecchi anni che non fa
apparizioni pubbliche, e alcune notizie tutt’altro che fondate lo vorrebbero
malato a farsi curare in Europa), sono le donne e gli uomini indigeni che
ripropongono una presa di posizione ancora non vista e di ampio respiro.
Se all’inizio della loro lotta gli stessi zapatisti erano ben contenti di
condividere e di spiegare le loro idee ai migliaia di curiosi accorsi in
Chiapas per vedere da vicino cosa stesse succedendo, dopo vari anni la
situazione cambiò. Erano ormai sempre di più quelli che aderivano alla
logica commerciale dello zapaturismo, disinteressati a capire seriamente
cosa significava la loro lotta; questo provocò un’inevitabile chiusura degli
indigeni rispetto a tutti coloro che erano mossi da compassione e che li
vedevano come poveri che lottavano per un tozzo di pane, senza
rendersi conto che il movimento zapatista significa molto di più e vuole
essere un esempio per il mondo intero. Per parecchi anni fu quindi molto
difficile entrare in contatto con gli autentici zapatisti, e per accontentare le
ondate di turisti curiosi, il caracol di Oventic (vicino a San Cristobal),
divenne quello più turistico, aperto a tutti e costellato da negozi e
negozietti dai quali era praticamente obbligatorio passare. Così tutti
potevano dire di aver visto gli zapatisti, ignari di come potessero vivere e
pensare in realtà. Dopo anni di chiusura e di difficile accesso nella loro
realtà, nel 2013 il movimento si reinventò e lanciò una nuova sfida: la
escuelita [la piccola scuola] zapatista. Il progetto veniva seguito già da
parecchi mesi, ma è stato concretizzato solo nell’agosto di quest’anno.
L’obiettivo era quello di rendere consapevoli tutti coloro che volevano
conoscere più da vicino la realtà indigena zapatista, dando la possibilità
di prendere parte ad una vera e propria scuola di vita. Per partecipare
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all’escuelita bisognava iscriversi all’università autonoma di San Cristobal,
e per quattro giorni (dall’11 al 15 agosto) si avrebbe avuto la possibilità di
vivere con una famiglia di una delle comunità zapatiste. Ogni gruppo di
persone era seguito da un interprete indigeno (un “guardiano”), che
avrebbe fatto da tramite tra la famiglia (che spesso parla in lingua maya)
e “gli alunni” (ai quali veniva tradotto tutto in spagnolo). Ad ogni
partecipante (se ne contarono più di 1500) furono consegnati quattro libri
(scritti da esponenti della Junta) e due dvd, mentre i trasporti furono
offerti dagli indios, i quali si preoccuparono di portare i vari gruppi di
persone nelle comunità designate. In questo modo i partecipanti
(provenienti da tutto il mondo, ma per la maggior parte messicani) hanno
avuto la possibilità di vedere la realtà nella loro quotidianità e semplicità.
Il significato di questa iniziativa è molto chiaro: gli indios zapatisti non
chiedono né di essere salvati né di essere aiutati economicamente. Non
hanno bisogno della bigotta umanità di chi spedisce scarpe con il tacco o
medicinali scaduti. Hanno qualcosa da insegnare e da condividere,
hanno la consapevolezza di aver appreso la loro condizione di
emarginazione e vogliono svegliare il mondo. Attraverso la loro lotta
sperano di riattivare il senso di indignazione che molti popoli possiedono,
anche se non hanno il coraggio di combattere. Sono uomini e donne che
rischiano la vita per il semplice fatto di aver detto basta allo sfruttamento,
che esigono dignità, rispetto e giustizia. Gli zapatisti non cercano la gloria
ma chiedono di non essere dimenticati. L’escuelita, che avrà altri corsi in
autunno e in dicembre, ha come compito quello di creare una resistenza
quotidiana fatta di condivisione, per non far dimenticare che aqui
estamos, lento pero avanzamos («siamo qui, lenti ma avanziamo»).
Dopo l’esperienza dell’ escuelita la voce di Marcos non si è fatta
attendere, e a novembre ha scritto un comunicato per tirare le somme sia
in senso economico che “umano”:
«Alle/Agli student@ che hanno frequentato o vogliono frequentare il
primo livello della Escuelita Zapatista:
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A chi di competenza:
Compagni e compagne
Come al solito, hanno incaricato me di darvi le brutte notizie. Eccole qua.
PRIMO.- I conti (controllate bene le somme, sottrazioni e divisioni perché
la matematica non è il mio forte, voglio dire, proprio non lo è) […]
Totale delle spese delle comunità zapatiste per il corso di primo livello di
agosto 2013 per 1281 alunni: $479, 778.27 (27.221,80 euro).
[…]
Spesa media per allievo: $374.53 (21,25 euro).
Entrate della Escuelita Zapatista:
Entrate per l’iscrizione (il contenitore installato al CIDECI): $ 409,955.00
(23.260,2 euro).
Entrate medie per il pagamento dell’iscrizione di ogni allievo: $320.02
(18,16 euro).
SECONDO.- Riassunto e conseguenze:
In media, ogni allievo è costato $54.51 (3,10 euro), che sono stati coperti
grazie alle donazioni solidali. Cioè, gli allievi si sono aiutati tra loro.
Cioè, come si dice, i conti non tornano, compas. È stato grazie al fatto
che qualche allievo ha versato più dei cento pesos obbligatori (alcuni non
hanno versato nulla) ed alle donazioni di persone generose, che siamo
riusciti appena ad andare alla pari.
Ringraziamo di cuore coloro che hanno dato di più e chi ha fatto queste
donazioni straordinarie. E dovrebbero ringraziarli anche quelli che non
hanno versato tutti i cento pesos o non hanno dato assolutamente
niente.
Sappiamo che difficilmente si ripeterà che qualche partecipante paghi il
corso per altri, quindi ci troviamo di fronte alle seguenti opzioni:
a).- Chiudiamo la escuelita.
49
b).- Riduciamo il numero a quello che possiamo coprire noi zapatisti. Il
Subcomandante Insurgente Moisés mi dice che sarebbero circa 100
per caracol, 500 in totale.
c).- Aumentiamo il costo e lo rendiamo obbligatorio.
Crediamo che non si debba chiudere la escuelita, perché ci ha permesso
di conoscere e farci conoscere da persone che prima non conoscevamo
né ci conoscevano.
Pensiamo anche che se riduciamo il numero dei partecipanti, molti si
irriteranno o si arrabbieranno perché hanno già preparato tutto per
partecipare e potrebbero restare fuori. Soprattutto ora che sanno che
l’essenza del corso sta nelle comunità e nei guardiani. E poi, siccome
toccherebbe a me dare la notizia, sarei inondato di insulti.
Quindi non resta che chiedervi di pagare per le vostre spese di trasporto
e vitto. Sappiamo che questo, oltre ad infastidire qualcuno, può lasciarne
fuori altri. Per questo vi avvisiamo per tempo affinché troviate il modo di
provvedere al pagamento per voi o per i vostri compas che vogliono e
possono partecipare ma non riescono a provvedere al pagamento.
[…]
Ah, e venite ad ascoltare ed imparare, perché c’è chi è venuto ad
impartire lezioni di femminismo, vegetarianismo, marxismo ed altri
“ismo”. Ed ora sono arrabbiati perché gli zapatisti non obbediscono a
quello che sono venuti ad insegnare, tipo: che dobbiamo cambiare la
legge rivoluzionaria delle donne come dicono loro e non come decidano
le zapatiste; che non capiamo i vantaggi della marijuana; che non
dobbiamo fare le case di cemento perché sono meglio con fango e
paglia; di non usare le scarpe perché camminando scalzi siamo più a
contatto con la madre terra. Infine, di obbedire a quello che ci vengono
ad ordinare… cioè, di non essere zapatisti […]»12
12 www.chiapasbg.wordpress.com
50
Il progetto dell’escuelita continuerà, anche se con qualche cambiamento
(ogni partecipante dovrà preoccuparsi economicamente del proprio
sostentamento) e sono state da poco aperte le iscrizioni per i turni di
dicembre e gennaio (anche se in realtà l’affluenza è stata talmente
elevata che i posti disponibili sono già esauriti!). Dal comunicato di
Marcos è evidente che gli zapatisti rimangono ancora, adesso come
allora, lontani dai tentativi di conversione che li vorrebbero più simili a
qualcosa di già conosciuto. In questo senso lo zapatismo non è morto:
non ha ceduto alla corruzione e non ha cambiato il suo modo d’essere e
di intendere la lotta. Saranno anche meno rispetto a vent’anni fa (molti
infatti hanno deciso di abbandonare lo zapatismo e di “vendersi” al
governo per avere dei privilegi), ma continuano a creare una rete che
tenta di coinvolgere anche persone straniere interessate a conoscerli
seriamente. Per quelli che sono rimasti, assistere alla nascita di una
seconda generazione di zapatisti, nati e cresciuti nella lotta, dà speranza
a tutti coloro che non si sono arresi. Per adesso, non si sono ancora
stancati e non hanno nessuna intenzione di smettere di urlare «¡Zapata
vive!¡La lucha sigue!» (Zapata vive! La lotta continua!).
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3.2 CONSIDERAZIONI FINALI
La questione delle donne zapatiste non può trascendere dal contesto
sociale a cui appartiene. Come il Chiapas non pretende la scissione dallo
stato messicano, come l’EZLN non aspira ad essere un nuovo organo
governativo, così le donne zapatiste non chiedono la sottomissione degli
uomini, ma parità e giustizia e, soprattutto, chiedono la possibilità di
scegliere. Lo zapatismo significa questo per le donne indigene: una
possibilità di vita. In una società dove il destino delle donne è sempre
stato segnato fin dalla nascita dall’ obbligo di essere una brava figlia
prima ed una brava moglie dopo, la presa di coscienza e l’idea di poter
essere altro oltre quello, ha portato a dare vita ad una splendida
dimostrazione di orgoglio indigeno che vuole essere un esempio non
solo per tutte quelle donne culturalmente sottomesse, ma per tutto il
mondo.
Se si guarda alla questione delle donne indigene come a qualcosa di
molto lontano dall’emancipazione occidentale, quasi come si trattasse di
qualcosa di talmente esotico da non poterci appartenere, si cade, a mio
avviso, in un grave errore. Liberandosi, infatti, di questo velo etnocentrico
che rischia di farci vedere tutto il resto come qualcosa di tremendamente
retorico e “inferiore” (quanti, infatti, associano la mancata emancipazione
delle donne ad una società considerata minore rispetto a quella
occidentale), ci rendiamo conto che il discorso vale a livello universale, e
non solo per le donne, ma per tutte quelle parti di popolazione sfruttate
ed emarginate. La condizione delle donne non è infatti da ricollegare al
suo (socialmente costruito) status di sesso debole, ma ad un tentativo di
provocare una guerra tra poveri che crei dei vincitori e dei vinti all’interno
dello stesso strato sociale emarginato. In questo modo non c’è coesione
e non c’è vittoria. Il movimento zapatista abbatte questa divisione per un
bene più comune: la libertà. Non si tratta più di uomini e donne, di
52
emancipazione e di presa di potere, ma di sopravvivenza e di esigenza di
rispetto. Le donne zapatiste non vogliono più sentirsi “altro” rispetto ai
propri compagni, non vogliono rappresentare la popolazione passiva che
subisce ed è vittima dei cambiamenti. Vogliono formare insieme a tutti gli
altri in quanto persone, e non in quanto appartenenti ad un sesso invece
che ad un altro, un’ alternativa. E questo, se si ragiona un attimo, non è
poi da noi così lontano.
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BIBLIOGRAFIA & SITOGRAFIA
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