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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO DIPARTIMENTO DI CULTURE, POLITICA E SOCIETÀ CORSO DI LAUREA IN COMUNICAZIONE INTERCULTURALE TESI DI LAUREA TRIENNALE IN ANTROPOLOGIA CULTURALE “COMANDARE UBBIDENDO” LA LOTTA DEL POPOLO DI MAIS: DONNE ZAPATISTE IN RESISTENZA Relatore Prof. Alberto Guaraldo Candidata LECCESE VERONICA MATRICOLA 704462 ANNO ACCADEMICO 2012/2013
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"Comandare ubbidendo" : la lotta del popolo di mais. Donne zapatiste in resistenza.

Apr 09, 2023

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Giuliano Bobba
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Page 1: "Comandare ubbidendo" : la lotta del popolo di mais. Donne zapatiste in resistenza.

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO

DIPARTIMENTO DI CULTURE, POLITICA E SOCIETÀ CORSO DI LAUREA IN COMUNICAZIONE INTERCULTURALE

TESI DI LAUREA TRIENNALE IN ANTROPOLOGIA CULTURALE

“COMANDARE UBBIDENDO”

LA LOTTA DEL POPOLO DI MAIS: DONNE ZAPATISTE IN RESISTENZA

Relatore Prof. Alberto Guaraldo

Candidata

LECCESE VERONICA MATRICOLA 704462

ANNO ACCADEMICO 2012/2013

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SOMMARIO

1. IL POPOLO DI MAIS

1.1. INTRODUZIONE________________________________ pag.2

1.2. CONTESTO ECONOMICO________________________ pag.7

1.3. CONTESTO SOCIALE___________________________ pag.10

1.4. CONTESTO STORICO-POLITICO___________________pag.11

1.5. DAL MAIS AL PASSAMONTAGNA: NASCITA E

STRUTTURA DEL MOVIMENTO ZAPATISTA_________ pag.14

2. DONNE ZAPATISTE IN RESISTENZA

2.1. UNA RIVOLUZIONE NELLA RIVOLUZIONE___________pag.20

2.1.1. ESPERIENZA DI VIAGGIO: L’ANNIVERSARIO DI

HUITEPEC _________________________________ pag.27

2.2. DONNE DI MAIS_________________________________pag.29

2.2.1. ESPERIENZA DI VIAGGIO: L’ALTRA METÀ DELLA

SELVA_____________________________________ pag.33

2.3. SAN CRISTOBAL DE LAS CASAS__________________ pag.36

2.4. FAMIGLIA INDIGENA E ISTRUZIONE SCOLASTICA____pag.38

2.4.1. ESPERIENZA DI VIAGGIO: IN UNA CASA DI

BOLOMAJAW________________________________pag.41

3. CONCLUSIONI

3.1. LA DIGNITÀ DI UN POPOLO E LA “SINDROME DI

CENERENTOLA”________________________________pag.43

3.2. LO ZAPATISMO OGGI____________________________pag.46

3.3. CONSIDERAZIONI FINALI_________________________pag.51

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA__________________________pag.53

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1. IL POPOLO DI MAIS

1.1 INTRODUZIONE

Quando il mondo dormiva e non si voleva svegliare, i grandi dèi fecero

un’assemblea per mettersi d’accordo sui lavori che bisognava fare e

decisero di fare il mondo, gli uomini e le donne. E gli dèi pensarono

soprattutto di fare il mondo e le persone. Allora pensarono di fare i popoli

e di farli molto belli e che durassero, per cui i primi popoli furono fatti

d’oro, e gli dèi rimasero contenti perché questi popoli erano brillanti e

forti. Ma gli dèi si accorsero che i popoli d’oro non si muovevano, se ne

stavano senza camminare e senza lavorare perché erano molto pesanti.

Allora tutti gli dèi si riunirono per trovare un accordo sul modo di risolvere

il problema e decisero di fare altri popoli e li fecero di legno e vi

lavorarono molto e molto si diedero da fare e rimasero nuovamente

contenti, perché l’uomo adesso lavorava e camminava; e già erano sul

punto di festeggiare, quando si accorsero che i popoli d’oro stavano

obbligando i popoli di legno a portarli sulle spalle e lavorare per loro. Gli

dèi capirono allora che ciò che avevano fatto era male, per cui cercarono

un nuovo accordo per fare i popoli di mais, i popoli buoni, gli uomini e le

donne veri, e se ne andarono a dormire lasciando i popoli di mais a

cercare di rimediare le cose, mentre gli dèi dormivano. E i popoli di mais

parlarono la lingua vera per mettersi d’accordo tra di loro e andarono in

montagna per vedere di indicare una buona strada per tutti i popoli

(Benenati, Storia del Chiapas).

Questa leggenda Maya fu raccontata al subcomandante Marcos dal

Vecchio Antonio, uno degli abitanti delle comunità nei quali i primi

zapatisti si insediarono. «Il Vecchio Antonio mi diceva – scrisse Marcos

in uno dei suoi primi comunicati – che la gente d’oro erano i ricchi, quelli

con la pelle bianca, e che la gente di legno erano i poveri, quelli con la

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pelle scura. Quando gli chiesi di che colore era la pelle degli uomini di

mais, mi mostrò vari tipi di mais, di distinti colori, e mi disse che avevano

ogni tipo di pelle, ma nessuno lo sapeva bene perché la gente di mais, le

persone veritiere, non avevano volto..»1

Questi “uomini di mais” sono stati i soggetti di una mia ricerca sul campo

svolta nel marzo del 2013 in Chiapas, stato del Messico nel quale questi

“uomini senza volto” (siamo abituati, infatti, a vederli nelle foto e nei video

coperti dall’ormai famoso passamontagna nero) vivono e lavorano con

semplicità, resistendo in modo pacifico alla corruzione che li circonda. In

due comunità in particolare ho rivestito il ruolo di Osservatore dei Diritti

Umani a nome dell’associazione Fray Bartolomè de Las Casas, che si

occupa di difendere e di controllare l’effettivo rispetto dei diritti

fondamentali dell’essere umano. Le comunità da me osservate si trovano

nelle zone di Huitepec e di Bolom Ajaw.

A circa mezz’ora da San

Cristobal si trova il monte

Huitepec, ai piedi del

quale si sviluppa una

piccola comunità di circa

60 famiglie appartenenti al

gruppo tzotzil di

discendenza maya. In

questa zona, poco sopra

la comunità, si sviluppa

una vasta area boschiva. Sul versante che dà sulla città di San Cristobal,

lo Stato ha creato una riserva naturale a pagamento, mentre dal 2007

rivendica il possesso dei restanti 100 ettari adiacenti che, invece, si

affacciano sulla piccola comunità di nome Huitepec Alcanfores. Il

progetto del governo è quello di disboscare l’area per creare 74

1 Le citazioni di Marcos provengono dai suoi numerosi comunicati (reperibili al sito www.enlacezapatista.ezln.org.mx).

Cartello all'entrata della riserva zapatista di Huitepec

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multiproprietà. Questo ha provocato la reazione di una parte del villaggio,

che ha trovato un appoggio nel movimento zapatista. Dal 2007 la zona

contesa passa sotto l’amministrazione del caracol2 di Oventic, che in

quella zona ha posto quindi una base d’appoggio zapatista. Ma il

governo non si ferma. Sono costanti e continue le pressioni su questo

territorio, che intanto è “occupato” dagli zapatisti i quali, invece,

intendono impiegare quella zona per la coltivazione.

La comunità di Bolom

Ajaw, invece, si trova

approssimativamente a 2,5

km di distanza dalla zona

di Agua Azul, dov’è ubicato

il sito turistico che porta lo

stesso nome. BolomAjaw è

occupato da indigeni

appartenenti al gruppo

tzeltal, sempre di

discendenza maya, ma fa riferimento al caracol di Morelia. Per la

bellezza della zona e per la sua attrattività turistica (passa infatti da lì il

fiume Tulija, di un turchese stupendo, che dà origine a cascate

mozzafiato), la contesa tra il governo (che vuole farne un parco a

pagamento, continuazione del parco di Agua Azul) e gli indigeni (che in

quella zona vogliono vivere e coltivare) è sempre stata molto aspra.

Dichiarata zona protetta dal caracol di Morelia nel 1994, dal 12 marzo del

2003 si sono insediati degli indigeni provenienti dalle zone circostanti,

dando vita ad una comunità composta da 26 famiglie. La vita dura e le

continue minacce dello Stato (accompagnate, dall’altro lato, da regali e

promesse per chi decide di non appoggiare gli zapatisti) hanno

scoraggiato negli anni molte di queste famiglie, tanto che oggi sono solo

2 Si tratta delle cinque comunità (Oventic, La Garrucha, Morelia, La Realidad, Roberto Barrios) alle quali, dal 2003, tutti i villaggi zapatisti fanno riferimento. Letteralmente caracol significa «chiocciola».

Due bambini tzeltal sul fiume Tulija nella comunità di BolomAjaw

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5

6 quelle che resistono. La gestione della terra è comunitaria: gli uomini

coltivano il proprio appezzamento (in passato hanno cercato di gestire le

terre in comune, ma sono nati litigi e tensioni) mentre le donne

gestiscono insieme gli animali.

All’interno dell’ elaborato sono presenti tre capitoli intitolati “esperienza di

viaggio”, i quali fanno riferimento a dei racconti di viaggio annotati nel

diario da me redatto durante la permanenza nelle comunità sopra

descritte. Per la brevità del tempo trascorso sul campo la mia non si può

indicare come una ricerca etnografica vera e propria, ma ho comunque

ritenuto importante ed interessante annotare alcune personali esperienze

(inerenti ai temi trattati nei vari capitoli) nel tentativo di dare uno spaccato

di una realtà da me vissuta, al di là di quanto tratto dalla bibliografia.

Non c’è qualcuno che ringrazierei di più e qualcuno meno. Ognuno mi ha

aiutata a suo modo. A partire dai miei genitori, che hanno messo da

parte le loro preoccupazioni e mi hanno appoggiata in questa

esperienza. Al mio amico, confidente ma soprattutto stupendo compagno

di viaggio, che per tre mesi mi ha regalato solo sorrisi, anche nei

momenti più difficili. A Renza, mia personalissima “guru”, che mi ha

indicato la strada giusta, e che con la sua saggezza e infinita pazienza

mi ha preparata a dovere a questo viaggio. A Pablo, un compa di

Huitepec, che ci ha aperto le porte di casa sua, regalandoci un’ospitalità

e un affetto paterno. E infine (ma non sicuramente per importanza) a mia

sorella, la quale mi ha regalato la gioia di diventare per la seconda volta

zia mentre ero in viaggio. Elisa, la mia nipotina, è stata la mia forza

soprattutto in una, per fortuna breve, brutta esperienza a Bolom Ajaw.

Tutto ciò che ho visto, toccato, assaporato, vissuto durante questo

viaggio mi accompagnerà per tutta la vita.

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6

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1.2 CONTESTO ECONOMICO

Lo stato federato del Chiapas si trova nell’estremo Sud del Messico e

confina a est con il Guatemala, a nord con il Tabasco, a ovest con il

Veracruz e l’Oaxaca ed a sud con l’Oceano Pacifico. Con un’ estensione

di circa 75 mila kmq, il Chiapas è, per grandezza, l’ottavo stato del

Messico, ma è anche una delle regioni più povere della nazione,

nonostante la vastissima disponibilità di materie prime e biodiversità. Alla

fine degli anni Settanta, infatti, il Chiapas e il vicino stato di Tabasco

producevano l’80% del petrolio nazionale, diventando così i principali

fornitori del Nord America rappresentando il 28% delle importazioni

petrolifere degli USA. Il Chiapas divenne presto una regione strategica,

non solo per i giacimenti di idrocarburi, ma anche perché i suoi bacini

idroelettrici forniscono più della metà dell’energia elettrica consumata

dalla nazione (Zibechi, Il paradosso zapatista, pag.40). Tutto questo

andò ad influire pesantemente sul ritmo e il livello di vita dei contadini e

degli allevatori, a causa della subordinazione degli interessi regionali a

favore di quelli nazionali e per il crescente inquinamento delle falde

acquifere e dei terreni, che compromise la produttività delle loro terre.

Fino ad allora, l’organizzazione economica e sociale del territorio era

stata molto influenzata non solo dalla Rivoluzione messicana del 1910,

ma anche dal presidente Lázaro Cárdenas, il quale, negli anni ’30, oltre

ad attuare una distribuzione agraria, promosse anche la

nazionalizzazione del petrolio (fino ad allora in mano a compagnie

straniere). In particolare, già nella Rivoluzione del 1910 si posero le basi

dell’articolo 27 della Costituzione, che dichiarava come proprietà

originaria della nazione tutte le terre e le acque comprese entro il

territorio nazionale. Si stabilirono così tre tipi di proprietà: privata, ejidal3

e comunitaria. Questo “contratto sociale” rispondeva alla necessità di

3 Ejido: proprietà rurale di uso collettivo.

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eliminare i latifondi e i grandi proprietari terrieri (Benenati, Storia del

Chiapas).

Con la crescita economica del Paese negli anni successivi, inizia a farsi

strada un atteggiamento neoliberista che guarda al modello statunitense,

il quale impone nuovi modelli produttivi rivolti verso la globalizzazione e il

capitalismo. L’economia contadina viene colpita duramente dalle riforme

neoliberiste attuate dal presidente Salinas de Gortari (in carica dal 1988

al 1994), il quale considera la popolazione rurale e contadina arcaica e

improduttiva: gli ejidos e le comunità agrarie, non potendo essere

vendute o comprate poiché appartenevano allo Stato, non erano utili nel

mercato sottoposto alle regole della domanda e dell’offerta. Questi

modelli non rispondevano, in sostanza, alle nuove esigenze competitive

del mercato mondiale. Sulla base di queste critiche si crearono i primi

interventi, che avevano come obbiettivi la liberalizzazione del mercato in

Messico e il rendere competitivo il mercato agrario messicano sul

mercato internazionale. Questi interventi economici rientravano nel

modello neoliberista. Per quanto riguarda la liberalizzazione del mercato

in Messico, la linea adottata da Salinas prevedeva la riforma dell’articolo

27 della Costituzione, e in particolare intendeva: a) rendere possibile la

conversione della proprietà sociale dell’ ejido in proprietà privata; in

questo modo l’ejidatario può trasferire i suoi diritti d’uso, vendere la terra

o darla come garanzia di credito, trasformandola in una merce con una

domanda e un’offerta; b) rendere possibile l’associazione tra settore

sociale e capitale privato, il quale potrà, in questo modo, approfittare

delle risorse e della mano d’opera degli ejidatarios; c) abbattere i limiti

della piccola proprietà e concentrare grandi quantità di terra nelle mani di

poche persone (GRA, La leggenda dei sette arcobaleni). Per rendere

competitivo il mercato agrario messicano, Salinas de Gortari seguì anche

a livello internazionale una linea economicamente neoliberista,

decidendo di firmare con gli Stati Uniti e il Canada il Trattato del Libero

Commercio (TLC, chiamato anche NAFTA dall’acronimo di North

American Free Trade Agreement), che prevedeva la riduzione dei dazi

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sulle importazioni. L’obbiettivo era quello di far entrare il Messico nel

Primo Mondo. Secondo questo trattato, il Messico avrebbe dovuto ridurre

del 40% le tasse sull’importazione dei prodotti americani, mentre per

USA e Canada i prodotti messicani importati avrebbero goduto di una

riduzione dell’80%. Inoltre, essendo la manodopera messicana meno

costosa, molti produttori americani potevano avere libero accesso allo

sfruttamento dei lavoratori e dei territori messicani, avvalendosi anche

del fatto che in Messico molte sostanze per l’agricoltura, ritenute illegali

in America (insetticidi e pesticidi considerati tossici) sono invece

permesse. La competizione di mercato che nacque da queste nuove

prospettive economiche rese impossibile la partecipazione della maggior

parte dei contadini messicani, che si ritrovarono quindi in una situazione

di precarietà ancora più grave che in precedenza. In molte zone rurali le

condizioni economiche e di vita peggiorarono, provocando una

situazione di indigenza per una buona parte della popolazione (L’altra

metà della selva, pag. 117)

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1.3 CONTESTO SOCIALE

Il movimento zapatista nasce e si sviluppa nello stato del Chiapas, nel

Sud del Messico. In questa parte del Paese vivono popolazioni indigene

numerose (un terzo della popolazione appartiene ad uno dei sette gruppi

etnici precolombiani di discendenza maya: tzotzil, tzeltal, zoque,

ch'ol, tojolabal, mame, lacandòn). Il contesto sociale del Chiapas

presenta una povertà diffusa. Il 49% della popolazione vive in zone

urbane, mentre il 51% in zone rurali, composte per un terzo da indios; più

di 10.000 comunità indigene, circa il 75%, non hanno acqua potabile,

fognature, elettricità, buone strade (quelle asfaltate sono il 20%),

comunicazioni e abitazioni adeguate; le case sono generalmente

piccolissime capanne con pavimento in terra battuta nelle quali vivono in

media sei o più persone; la maggior parte delle comunità si trova in punti

inaccessibili. Più della metà degli occupati si dedica all'agricoltura; il 40%

della popolazione guadagna meno di 30 pesos al giorno (meno di 2

euro), un altro 21% meno di 60 pesos. La mortalità infantile è altissima,

tra il 12% e il 18%, dovuta a malattie curabili, tubercolosi e denutrizione4.

Uno dei tristi primati del Chiapas è quello della violazione dei diritti

umani, denunciato da Amnesty Internacional, soprattutto a danno delle

popolazioni indigene e dei contadini.

Gli indigeni chiamano i secoli che sono trascorsi dal genocidio inflitto

dagli europei a oggi la larga noche de los 500 años («la lunga notte dei

500 anni»), per indicare il periodo oscuro e buio che li ha coinvolti e

decimati. Ma, come a tutte le notti, segue il giorno. Il sole, per gli indios,

si è levato il primo gennaio del 1994, giorno nel quale dal profondo di una

delle zone più povere e sfruttate del Messico è salito un grido di

rivendicazione al suono di ¡ya basta ! («ora basta»).

4 Fonte: www.ceieg.chiapas.gob.mx (fonte governativa ufficiale).

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1.4 CONTESTO STORICO-POLITICO

A fine Ottocento la politica agraria del Chiapas volgeva a favore dei

grandi proprietari terrieri grazie ai privilegi a loro destinati dalle scelte del

governatore Rabasa. Anche a livello nazionale le scelte dell’allora

presidente Porfirio Diaz (1876-1911) concedevano privilegi a grandi

investitori sia messicani che stranieri. Nei successivi anni vennero create

in Chiapas grandi zone di produzione di caffè, caucciù, gomma e legna,

allargando le terre di proprietà privata, tanto da spingere gli indigeni a

cercare terre altrove. Molti finirono alle dipendenze dei grandi proprietari

in un rapporto di debiti e doveri tipici del vassallaggio. La dittatura di Diaz

finì con la Rivoluzione del 1910, che vide come protagonisti, tra gli altri,

Pancho Villa ed Emiliano Zapata (che saranno poi le figure di riferimento

del movimento zapatista di fine Novecento).

Anche se le misere condizioni degli indios non cambiarono con la

Rivoluzione messicana di inizio Novecento, essa pose comunque le basi

per la formazione di una nuova identità che fu essenziale per i successivi

avvenimenti. Per la continua mancanza di terre, gli indigeni iniziarono a

spostarsi nell’inospitale Selva Lacandona, nella parte est del Chiapas,

già dagli anni ’30. In un contesto così particolare nasce e si sviluppa il

concetto di “comunità”: là dove esistono etnie indigene, ciò che le

mantiene unite più di qualsiasi altra cosa è la necessità. In un habitat

ostile come la selva, le famiglie isolate sono condannate al fallimento e

alla morte. Iniziano quindi ad esserci aggregazioni di solidarietà mirate

alla sopravvivenza. Negli anni ’60 la migrazione nella selva raggiunge

l’apice, con la presenza di persone migrate per necessità o per volontà.

Da luogo inospitale e quasi del tutto spopolato, la Selva Lacandona

divenne, alla fine degli anni ’60, un insieme di insediamenti che in dieci

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anni raggiunse un aumento della popolazione del 150% (Zibechi, Il

paradosso zapatista).

Negli anni ’70 questo popolamento della selva iniziò a preoccupare

l’allora presidente del Messico, Luís Echiverría (1970-1976) il quale

temeva che la continua migrazione spontanea verso quella zona e il

nascente movimento contadino potessero espandersi fino ad occupare

tutto il territorio del Chiapas. Lo Stato riuscì ad “entrare” nella selva

attraverso due strade: controllando la coltivazione del caffè prodotto da

ejidatarios attraverso l’Istituto Messicano del Caffè (INMECAFE); e

monopolizzando l’attività forestale fino a controllarne completamente

l’estrazione del legname. Per far fronte al crescente peggioramento delle

condizioni di vita nella Selva i contadini iniziarono ad organizzarsi in

gruppi, scesero in piazza con cortei e manifestazioni per far conoscere la

loro lotta e la loro disperazione, spesso fermati con atti di repressione e

di violenza. Seguendo una retorica populista già impiegata da

Echeverria, il governatore del Chiapas Velasco Suárez (1970-1976)

convocò il Congresso Indigeno per mitigare i rapporti tra stato e indios

che si stavano inasprendo (il motivo ufficiale era il festeggiamento del

quinto centenario della nascita di fray Bartolomè de las Casas, il frate

domenicano difensore degli indigeni). Il ruolo della diocesi di San

Cristóbal, in questo caso, fu essenziale. Il Congresso fu organizzato

dall’allora vescovo di San Cristóbal Samuel Ruiz García, il quale decise

di accettare l’incarico solo a patto di avere sei mesi per la preparazione.

In questo lasso di tempo egli mobilitò gran parte della diocesi per

insegnare agli indigeni i rudimenti della lettura e della scrittura, informarli

sulle leggi agrarie che li interessavano e dar loro delle informazioni

generali di carattere storico ed economico. In questo modo gli indios

acquisirono un’identità e delle conoscenze che prima non avevano. Se lo

Stato sperava, attraverso questa manifestazione, di cooptare nuovi

leader indigeni, il Congresso si trasformò invece in una scuola e in una

presa di coscienza da parte della popolazione emarginata. Il Congresso

Indigeno si svolse nell’ottobre del 1974 a San Cristobal. Vi parteciparono

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327 comunità, rappresentate da 587 delegati tzeltales, 330 tzotziles, 152

tojolabales e 161 choles. Da questo Congresso nacquero le prime

richieste da parte degli indios, tanto che fu disconosciuto dallo Stato

(Benenati, Storia del Chiapas).

Gli anni che seguirono furono una fucina che portò alla nascita di nuovi e

sempre più consapevoli movimenti, provocando in concomitanza una

sempre crescente presenza delle forze armate sul territorio. Le

organizzazioni contadine del Chiapas avevano, ognuna a suo modo,

intrapreso dei percorsi per migliorare le proprie condizioni, per porre fine

alla corruzione e alla violenza e per far adottare una politica di

distribuzione delle terre. A metà degli anni ’90 molte di queste

organizzazioni si ritrovarono a convergere e a chiedere le stesse cose: il

riconoscimento di un’identità indigena e la propria autonomia. La prima

azione di rivendicazione fu la marcia chiamata Xi’ Nich («formica» in

lingua maya) nel marzo del 1992, promossa da quattro diverse

organizzazioni (il Comitato di difesa delle libertà indigene, il Congresso

indipendente tzeltal, l’Unione dei contadini e degli indigeni della Selva del

Chiapas), che percorsero in 50 giorni una distanza di 1100 chilometri (da

Palenque a Città del Messico): da allora il movimento ebbe l’appoggio di

comunità di diversi stati e l’attenzione della stampa internazionale. Il

Chiapas non era più solo.

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1.5 DAL MAIS AL PASSAMONTAGNA: NASCITA E

STRUTTURA DEL MOVIMENTO ZAPATISTA

In un terreno così fertile per la sollevazione popolare come la Selva

Lacandona dell’ultimo secolo, un elemento si rivelò più decisivo di altri. A

partire dagli anni Settanta fecero il loro ingresso nella selva anche

guerilleros che avevano partecipato ad azioni sovversive in America

Latina. Questi, cercando riparo in zone di difficile accesso, iniziarono a

conoscere la situazione di quei contadini oppressi e sfruttati da secoli, e

unendo le loro conoscenze militari crearono la base per la nascita di un

esercito vero e proprio, insegnando agli indigeni varie tecniche di

combattimento (Baldoni, Marcos)

Il primo gennaio del 1994 migliaia di indigeni appartenenti all’EZLN

(Ejercito Zapatista de Liberación Nacional, nato ufficialmente il 17

novembre 1983 come “evoluzione” del movimento di Fuerzas de

Liberacion Nacional) si sollevarono contro la politica repressiva del

governo per chiedere democrazia, libertà e giustizia. Con il volto coperto

da un passamontagna nero o da un paliacate (un fazzoletto rosso con

decorazioni), armati (anche se molti erano in possesso solo di fucili di

legno), con una pila, una borsa di pelle, tortillas, una siringa e una garza

per le ferite, occuparono i municipi di San Cristóbal de las Casas,

Altamirano, Las Margaritas, Ocosingo, Oxchuc, Huixtan e Chanal, oltre a

quelli di altri villaggi minori del Chiapas. Sarà l’unico atto di protesta in cui

impiegheranno le armi (Benenati, Storia del Chiapas).

Da San Cristóbal il subcomandante Marcos (il loro leader) rese note le

intenzioni degli zapatisti, attraverso la “Prima dichiarazione della Selva

Lacandona” che, in un passo saliente, dice:

«[…]Per fermare tutto ciò e come nostra ultima speranza, dopo aver

tentato di utilizzare ogni possibile mezzo legale basato sulla nostra Carta

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Magna, torniamo ancora ad essa, alla nostra Costituzione, per applicare

l'articolo 39, che dice: "La Sovranità Nazionale ha la sua origine ed

essenza nel popolo. Tutto il potere politico emana dal popolo e si

costituisce per il beneficio del popolo. Il popolo ha, in ogni momento,

l'inalienabile diritto di cambiare o modificare la forma del suo governo."»5

Il riferimento alla Costituzione inserisce il movimento in un contesto

legale che attira molte simpatie da parte della società civile: gli insorti

non chiedono una scissione dallo Stato, ma l’applicazione dell’articolo 39

della Costituzione che pone lo Stato in subordine rispetto al popolo, cosa

che, soprattutto nel caso degli indigeni, non è mai avvenuta. Dei ribelli

hanno dimostrato legittimità e legalità dove il governo si è macchiato di

mancanza di democrazia.

Dopo il primo gennaio 1994 iniziarono le trattative di pace tra gli zapatisti

e il governo, allora rappresentato da Salinas de Gortari, trattative

destinate però a vita breve: nel 1996 gli zapatisti fermarono ogni tentativo

di dialogo con lo Stato, poiché non erano stati rispettati gli accordi di San

Andrés, che prevedevano maggiore riconoscimento e libertà della cultura

indigena. La situazione si fece ancora più aspra nel 1997: il 22 dicembre

45 indios (tra cui molte donne e bambini) furono massacrati ad Acteal, un

villaggio vicino ad Oventic. Le vittime erano a messa quando,

all’improvviso, dei paramilitari entrarono nella piccola chiesa di legno e

fecero fuoco. Spararono e cacciarono gli indios per sette ore, fino a

quando non credettero di aver ucciso tutti. L’orrore cresce nel sapere che

alcune delle vittime erano donne incinte, uccise e sventrare, private del

feto che portavano in grembo. In una girandola di colpe e indignazioni,

praticamente nessuno fu punito e nessuno rivendicò l’azione. Motivo di

sconcerto è sapere che quella piccola comunità non faceva parte del

movimento zapatista: erano persone che si proclamavano pacifiste, che

non negavano i contatti con l’ EZLN ma che se ne dichiaravano fuori.

5 Per tutte le dichiarazioni della Selva Lacandona tradotte in italiano rimando al sito www.ipsnet.it.

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16

Perché quindi un atto così efferato? Se il movimento zapatista non è

stato preso da subito sul serio (spesso i candidati alla presidenza

promettevano una risoluzione del “caso zapatismo” in pochissimi giorni,

come se fosse cosa da niente), dopo l’impossibilità di scendere a

compromessi con il fallimento degli accordi di San Andrés, si è rivelato

per quello che era: il risultato di frustrazioni e umiliazioni durate secoli. E

ha iniziato a fare paura. Il movimento ha cominciato ad espandersi a

macchia d’olio, e il governo si è ritrovato a dover fare qualcosa. Ancora

oggi il PRI (il partito al governo) fornisce protezione, materiali per

costruire case e beni di consumo per tutti coloro che non appoggiano il

movimento. Ma nel pieno della rivolta questo non bastava: il massacro di

Acteal serviva come esempio a tutti coloro che erano “nel mezzo”, che

non avevano ancora preso una decisione ma che erano comunque

pericolosamente rivolti verso gli zapatisti. Inoltre, un atto così

sanguinoso sperava di suscitare una reazione da parte dell’EZLN, che

presidiava la zona intorno ad Oventic. I ribelli, invece, non intervennero e

non fecero ricorso alle armi per vendetta. Farlo sarebbe stato

condannarsi a morte: una risposta violenta avrebbe reso legittima una

persecuzione del movimento e una repressione sanguinosa. Dopo

questo triste episodio, i dialoghi tra stato e ribelli non poterono che

peggiorare.

Nei successivi anni quella che si manifestò fu una “guerra a bassa

intensità”: ormai gli occhi di tutto il mondo erano puntati sul Chiapas, e

non si poteva quindi risolvere il problema della rivolta con atti

dichiaratamente repressivi. Si sviluppò quindi una guerra subdola,

combattuta spesso dagli stessi indigeni “comprati” dallo Stato (chiamati

paramilitari), che fanno la guerra e uccidono i loro stessi fratelli. Molte

furono le morti impunite, e molti ancora furono i desaparecidos

(«scomparsi»).

Nel 2003 gli zapatisti si reinventano a livello sociale e politico: nascono i

5 caracoles autonomi (Oventic, Roberto Barrios, La Garrucha, La

Page 18: "Comandare ubbidendo" : la lotta del popolo di mais. Donne zapatiste in resistenza.

17

Realidad, Morelia, che sostituiscono i precedenti Aguascalientes), ossia i

centri di resistenza a cui ogni comunità fa riferimento rispetto alla propria

posizione sul territorio. Ogni caracol possiede una Junta de buen

gobierno, il primo organo formale di amministrazione dei municipi

autonomi, che ha il compito di risolvere i problemi della comunità e di

gestire i contatti tra questa e l’esterno. Le Juntas devono, inoltre, vigilare

sulla realizzazione dei progetti e dei compiti comunitari nei municipi

autonomi; promuovere l’appoggio ai progetti comunitari; fare in modo che

siano rispettate le leggi emanate dagli zapatisti; assistere e guidare la

società civile nelle visite alle zone ribelli; promuovere progetti produttivi;

insediare accampamenti di pace; svolgere ricerche a vantaggio delle

comunità ecc. Il secondo articolo della Costituzione prevede la

possibilità, per gli indios, di organizzarsi a livello politico e sociale come

meglio credono, secondo le loro tradizioni e le loro credenze (GRA, La

leggenda dei sette arcobaleni). Essi fondano questo loro diritto sulla

collettività: i membri delle Juntas cambiano ogni 15 giorni, per dare a tutti

la possibilità di “comandare ubbidendo” (è questo uno dei motti più

famosi degli zapatisti e dello stesso subcomandante Marcos).

Comandare ubbidendo significa ricoprire cariche di prestigio senza però

dimenticarsi di essere subordinati a chi veramente comanda, cioè il

popolo.

Il movimento zapatista si articola in due settori: uno politico e uno

militare. La struttura politica si basa su assemblee comunitarie, nelle

quali non predominano le decisioni per maggioranza ma quelle per

unanimità. Tutte le assemblee, di solito, durano parecchie ore, a volte

anche giorni, durante i quali si parte da un insieme caotico di voci che si

coprono una con l’altra, dove tutti dicono la propria idea sull’argomento

oggetto di discussione, fino a quando non esce fuori un’unica voce, che è

quella del consenso. Non c’è una regola per partecipare alle assemblee,

tutti possono prenderne parte, anche i bambini, i quali, se riescono a

rimanere svegli per tutta la durata dell’assemblea, sono considerati

abbastanza grandi da poter prendere parte attivamente alle decisioni.

Page 19: "Comandare ubbidendo" : la lotta del popolo di mais. Donne zapatiste in resistenza.

18

L’organo politico più importante è il Comité Clandestino Revolucionario

Indígeno (Ccri), che unisce i rappresentanti indigeni di diverse etnie (è

composto da circa una ventina di individui e il subcomandante Marcos

non può appartenervi in quanto meticcio). Nei municipi autonomi (i

caracoles) gli incarichi principali da rivestire sono: presidente municipale,

supplente, segretario e tesoriere. Come già detto, tutti i membri della

comunità prima o poi rivestono il ruolo di autorità, anche secondo un

principio di ridistribuzione. Chi riveste cariche importanti, infatti, deve

provvedere ad esempio ad organizzare le feste e tutte le altre attività

destinate al benessere della comunità utilizzando le proprie risorse

economiche; per questo di solito vengono proclamate autorità quelle

persone che stanno avendo maggiore fortuna economica. Il rituale

simbolico che viene praticato quando viene designata una nuova autorità

è quello di lanciare pietre contro la casa del nuovo eletto. Ricoprire

cariche importanti non è quindi visto come un privilegio ma come

un’enorme responsabilità, e questo serve per non cristallizzare i ruoli di

reggenza (Zibechi, Il paradosso zapatista).

La struttura militare è invece subordinata

a quella politica. Nonostante si presenti

come un’organizzazione gerarchica, non

rispetta la struttura classica intesa in

questo senso: all’apice, infatti, non si

trova una direzione ma la comunità

stessa. È quest’ultima che, attraverso le

assemblee, nominano i loro comandanti i

quali devono far riferimento alla comunità

anche per quanto riguarda le decisioni di

natura strategica. La struttura militare è

diretta dal Subcomandante Insurgente

Marcos, il quale è la massima autorità gerarchica dell’esercito. Prima di

qualsiasi azione (tra cui rientrano anche le pubblicazioni di lettere o

articoli da parte del movimento o i discorsi fatti in pubblico), Marcos deve

Page 20: "Comandare ubbidendo" : la lotta del popolo di mais. Donne zapatiste in resistenza.

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ricevere le direttive o l’autorizzazione del CCRI: in questo senso egli è

considerato il “traduttore” del pensiero indigeno. In alcune occasioni il

CCRI consegna il «bastone del comando» al Subcomandate, un atto

simbolico per indicare che il comando politico cede ogni decisione, civile

e militare, nelle mani del comando militare. È quello che è accaduto nel

gennaio del 1994. Quando sono state sospese le azioni militari e sono

iniziate le trattative con lo stato, Marcos ha riconsegnato il bastone alle

autorità politiche. Il bastone ha sette colori ed è tipico della tradizione

indigena maya. Ogni colore rappresenta una forza (essi li chiamano i

sette dei) che ora simboleggiano la bandiera nazionale, la bandiera dell’

EZLN, l’arma, il sangue, il proiettile, il mais e la terra.

Nell’esercito esistono due tipi di combattenti: gli insorti (insurgentes) e i

miliziani. I primi formano l’esercito regolare e vivono nelle montagne,

vestono pantaloni neri e berretto color caffè, portano armi e hanno

abbandonato le loro comunità per entrare a far parte in tutto e per tutto

della struttura militare. Sono eletti dalla comunità e sono mantenuti da

quest’ultima. I miliziani, invece, rimangono nella loro comunità ma

ricevono un’istruzione militare; hanno pantaloni e berretto verde oliva e

spesso posseggono armi molto rudimentali. Entrambe le fazioni hanno

preso parte all’occupazione delle città il primo gennaio 1994 (ibid).

Il cartello, posto sulla strada che porta al caracol di Morelia, cita così: «Vi trovate in territorio zapatista in rivolta. Qui comanda il popolo e il governo obbedisce»

Page 21: "Comandare ubbidendo" : la lotta del popolo di mais. Donne zapatiste in resistenza.

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2. DONNE ZAPATISTE IN RESISTENZA

2.1 UNA RIVOLUZIONE NELLA RIVOLUZIONE

Quella del primo gennaio 1994, però, non fu la prima rivoluzione

all’interno delle comunità indigene. Un’altra le percorse a partire

ufficialmente dal 1993 e fu combattuta e vinta dalle donne indigene, che

fecero della parola la loro arma vincente. Non ci furono né feriti né morti.

“Solo” un cambiamento radicale.

Quelle delle donne indigene fu sempre una situazione difficile.

Considerate le ultime tra gli ultimi, non avevano la possibilità neanche di

scegliere se sposarsi e con chi. Spesso venivano date in sposa molto

piccole e in cambio di cibo e animali, secondo la tradizione del “valore

della sposa”, erano comprate in base a quanto il padre dichiarava di aver

speso per mantenere la figlia fino a quel momento. La donna diventava

un oggetto di appartenenza del marito. Come dicono I choles, «c’era un

tempo in cui nel mondo maya regnava una dualità composta da padre-

madre che in una oscurità liquida avevano dato la luce al mondo»

(Rovira, Donne di mais, pag14). Con l’arrivo degli spagnoli questa dualità

si trasformò a livello religioso, ma non solo: l’entità divenne una, il Dio,

rendendo marginale e “inferiore” tutto ciò che si allontanava dall’essenza

di questa nuova divinità, a partire dal sesso. L’unica protagonista

femminile rimase la Vergine di Guadalupe, la quale aveva come triste

scopo quello di rendere la cristanizzazione una pillola più facile da

ingerire. La figura del Cristo e la sua crocifissione, infatti, era troppo

“violenta”. La Vergine venne quindi usata come vessillo per una più

“dolce” conversione cristiana. Ma questo non aiutò a migliorare la figura

Page 22: "Comandare ubbidendo" : la lotta del popolo di mais. Donne zapatiste in resistenza.

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della donna. La società che nacque fu basata sul maschilismo che portò

ad una rapida decadenza della figura femminile (che tra i maya, invece,

godeva di una consolidata importanza). E durante la larga noche de los

500 años la situazione non fece altro che peggiorare. Furono molte le

donne indigene venditrici di oggetti artigianali che a San Cristobal de las

Casas vennero violentate, picchiate e derubate. Ma le condizioni più

disumane le vivevano le donne che stavano al servizio nelle tenute di

meticci o bianchi ricchi. In un suo romanzo Rosario Castellanos,

poetessa e giornalista messicana, ci dà un esempio di questi

cinquecento anni di colonizzazione scrivendo di un fatto accaduto tra una

padrona bianca e una donna india:

«Quando Idolina nacque io non avevo latte […]. Vivevamo nella tenuta

del mio primo marito. Un posto sperdutissimo. Fummo bloccati lì dalle

piogge e per me arrivò il momento critico. Era la prima volta che

partorivo […]. Tra gli indios ci sono delle levatrici con molta esperienza e

una di loro mi diede assistenza. Risolsi le mie preoccupazioni senza altri

impicci. Le difficoltà iniziarono dopo. Idolina piangeva dalla fame… Venni

a sapere che lì vicino c’era una donna che aveva appena partorito come

me, Teresa. Ordinai che me la portassero. Le offrii le perle della Vergine

perché facesse da balia a Idolina. Disse di no. Era magra, tremante.

Sosteneva che il suo latte non sarebbe bastato per due bocche.

Addirittura fuggì dalla tenuta. Ma io ordinai ai vaccari di andarla a

cercare. Sul monte fecero una vera e propria battuta di caccia. Trovarono

Teresa rintanata in una grotta, abbracciata alla sua creatura. Non ci fu

altro modo che trascinarla di peso per portarla alla casa grande. […]. Per

farsi liberare finse di accettare quel che si comandava. Poi scoprii che

dava meno latte a Idolina per darlo a sua figlia. Dovetti separarle. »

«E l’altra creatura?»

«Morì. Perché non doveva morire? Aveva qualche santo in paradiso lei?

Teresa non è altro che una india. E anche sua figlia era una india.»

(Rovira, Donne di mais, pp. 13).

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22

Una donna indigena si sveglia, di solito, alle tre di notte per preparare la

colazione a suo marito che, verso le cinque, si sveglia per andare a

lavorare nei campi. La loro dieta si basa quasi esclusivamente sul mais:

le donne ne macinano i grani, ne fanno delle palline, le appiattiscono in

focacce sottili (tortillas) e poi le cuociono sulla piastra, attività che porta

via loro, durante l’intera giornata, dalle tre alle cinque ore. Molte si

svegliano addirittura all’una di notte, vanno a fare la legna, accendono il

fuoco, prendono l’acqua, fanno le tortillas e, se necessario, all’alba vanno

alla milpa a prendere quello che serve. E questo è ciò che fanno dal

lunedì alla domenica. Gli uomini almeno hanno la domenica per

riposarsi, per divertirsi e avere un po’ di tempo per loro. Le donne spesso

finiscono i loro lavori tardissimo, perché dopo cena molte volte vanno a

lavare i panni al fiume, poiché durante il giorno non ne hanno avuto il

tempo. Le bambine vengono cresciute in questo ambiente, e già da

molto piccole si prendono cura dei fratellini e aiutano sempre la mamma

nelle faccende di casa. Ma tutte queste attività non permettono loro di

andare a scuola; per questo, di solito è molto raro trovare nel Chiapas

delle donne indigene che parlano anche spagnolo (ibid).

Il movimento zapatista si propone di attuare dei cambiamenti per la

popolazione indigena intesa nella sua totalità, nella quale sono quindi

comprese anche le donne. Quest’ultime iniziarono a prendere coscienza

della loro situazione di sfruttamento quando entrarono in contatto con

l’EZLN, e si organizzarono in modo tale da ottenere dei miglioramenti.

Nell’ esercito zapatista di liberazione nazionale, infatti, sono presenti

anche le donne, con fucili e passamontagna. Attraverso i contatti con la

società civile, presto molte donne dei villaggi capirono che per loro

poteva esserci un’alternativa: potevano arruolarsi e combattere, fino a

rivestire ruoli importanti all’interno dell’esercito. Non più sofferenze e

sacrifici, ma libertà e presa di coscienza. Ma anche chi non si voleva

arruolare ora possedeva gli strumenti per poter attuare un cambiamento.

Lo sforzo delle donne dell’EZLN fu notevole: andando tra le varie

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comunità facevano capire alle mujeres indigenes che potevano esigere

rispetto dai mariti appartenenti ad una società maschilista ereditata da

cinquecento anni di conquista. Organizzarono diversi corsi informativi in

tutte le comunità su temi come la salute, il sesso, i diritti umani e

costituzionali delle donne e molti altri. Ma lo sforzo più significativo lo

fecero le comandanti Suzana, Ramona e la maggiore Ana Maria,

incaricate di andare in tutte le comunità indigene zapatiste per

raccogliere le volontà e le richieste delle donne. Questo sforzo culminò

l’otto marzo 1993 in una dichiarazione delle donne espressa e sottoposta

a giudizio del Comitato Clandestino Rivoluzionario Indigeno, quando la

comandante Suzana lesse quella Legge rivoluzionaria delle donne che

avrebbe stupito più avanti una nazione intera (L’altra metà della selva).

Queste leggi si articolavano in dieci punti:

1) Le donne, senza che abbiano importanza la razza e il credo,

colore o filiazione politica, hanno diritto a partecipare alla lotta

rivoluzionaria nel ruolo e grado che la loro volontà e capacità

determinano.

2) Le donne hanno diritto a lavorare e a ricevere un salario giusto.

3) Le donne hanno diritto a decidere il numero di figli che possono

avere e di cui possono prendersi cura.

4) Le donne hanno diritto a partecipare alle questioni della comunità

e ad avere incarichi se sono elette in modo libero e democratico.

5) Le donne e i propri figli hanno diritto ad una attenzione primaria in

fatto di salute e alimentazione.

6) Le donne hanno diritto all’educazione.

7) Le donne hanno diritto a scegliere il proprio compagno e non

devono essere costrette con la forza a contrarre matrimonio.

8) Nessuna donna potrà essere picchiata o maltrattata fisicamente

né da familiari né da estranei. I reati di tentato stupro o stupro

saranno severamente castigati.

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9) Le donne potranno occupare cariche di direzione

nell’organizzazione e avere gradi militari nelle forze armate

rivoluzionarie.

10) Le donne avranno tutti i diritti e gli obblighi previsti dalle leggi e

regolamenti rivoluzionari (Marcos, Mujeres, indigenas, rebeldes,

zapatistas).

Queste leggi sono volte a migliorare la condizione delle indigene,

soprattutto per quanto riguarda la questione dei figli. Tra le comunità,

infatti, l’aborto è ancor considerato illegale (soprattutto per la tradizione),

quindi si cerca di sensibilizzare sui metodi contraccettivi e sulla

pianificazione famigliare. Le donne che invece hanno scelto di prendere

la strada dell’esercito, di solito adottano l’astensione volontaria: per una

insurgente che deve tutti i giorni muoversi sarebbe impossibile badare ad

un bambino. L’esercito zapatista, infatti, si muove e controlla il territorio

stando tra le montagne, e non fa praticamente mai ritorno a casa. La sua

vita è esclusivamente riservata alla lotta. Ci sono invece le miliziane che

scelgono di essere addestrate dall’esercito a combattere ma rimangono

nei loro villaggi. Sono molte le bambine che già da piccole decidono di

voler entrare, un giorno, nell’esercito. Lì, infatti, esiste realmente una

situazione di parità, e tutti, indistintamente, vengono istruiti. Un altro

fattore che spinge molte donne ad entrare a far parte dell’esercito è che,

a differenza delle comunità più conservatrici, permettono a chiunque di

sposarsi con chi vuole. Quando un o una insurgente vuole unirsi in

matrimonio con un suo/una sua compagno/a di lotta, deve chiedere il

permesso al comandante (che può essere donna come uomo) e, se

ricevuto il permesso, la cerimonia viene svolta nell’accampamento dove i

novelli sposi passano sotto un arco creato dai compagni con i fucili. La

nuova coppia così formatasi può comunque decidere di avere figli: in

questo caso il bambino verrà lasciato crescere nel villaggio della madre,

poiché quest’ultima difficilmente decide di rinunciare all’esercito (e già

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questo fa capire quanto stiano meglio rispetto a vivere nelle comunità,

dove il loro destino è quello di fare da mamma e da moglie).

Strettamente legata al punto otto è invece un’altra richiesta avanzata

successivamente: il boicottaggio dell’alcool (ma anche delle droghe,

consumate comunque generalmente meno). La causa principale di

maltrattamenti, infatti, è proprio l’alcool: il posh, un’acquavite di canna ad

altissima gradazione, compie vere e proprie stragi nell’organismo degli

indigeni denutriti e provoca stati di alterazione che portano spesso gli

uomini ad essere violenti. Lo stato si rende partecipe di questo

assassinio legale e comodo, una sorta di strumento per il controllo

sociale. Non è raro trovare per strada uomini indigeni ubriachi, seguiti a

ruota da moglie e figli che cercano di riportarlo a casa. Per questo nelle

comunità indigene le donne misero il divieto di bere, decisione

appoggiata e condivisa anche dall’EZLN: l’alcool porta ad alzare le mani

più facilmente e può essere pericoloso per la guerriglia, poiché non si è

lucidi e affidabili. Questa dell’alcool fu una vittoria per le donne, ma fu

difficile farla accettare da tutti. Esse dovettero superare gli iniziali sorrisi

degli uomini durante le assemblee nelle comunità, alle quali iniziarono a

partecipare anche le donne con le loro richieste. Il loro ruolo venne

riconosciuto e non più discusso una volta per tutte dopo la sollevazione

del 1994, durante la quale soprattutto le donne si distinsero per il

coraggio durante l’occupazione dei diversi municipi. Da allora la loro

importanza non fu mai più messa in discussione (L’altra metà della

selva).

Una delle figure più carismatiche fu quella della comandante Ramona,

rappresentante dei gruppi di donne delle comunità indigene, scomparsa

per un tumore nel 2006. Da giovane ha dovuto lasciare il suo villaggio

per necessità, perché non c’era di che vivere. Arrivata in città si rese

conto che la situazione era diversa rispetto alla campagna, soprattutto

per le donne. Decise quindi di tornare al suo villaggio per far capire a

tutte che non era giusto essere sfruttate e maltrattate, che era necessario

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organizzarsi. Ramona fu una delle prime donne ad entrare nell’EZLN.

Durante i vari anni si dedicò ad organizzare e difendere le donne

artigiane, fino a quando fu eletta per far parte del Ccri. Questo significò

una svolta: le donne pretendevano ed ottenevano di essere anch’esse le

protagoniste di quel cambiamento che stava avvenendo grazie

all’organizzazione armata, che a sua volta si rese disponibile a questo

ulteriore cambiamento. Fu grazie al suo esempio e a quello di altre

donne che molte decisero di risvegliarsi e di cambiare le cose (ibid).

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2.1.1 ESPERIENZA DI VIAGGIO: L’ANNIVERSARIO DI HUITEPEC.

Durante la notte a Huitepec fa veramente freddo. Non aiuta la casetta

in cui dormiamo, fatta di pali di legno, abbastanza distanziati gli uni

dagli altri da far passare parecchia aria gelida. Siamo in cinque

Osservatori, e tre di noi dormono su assi di legno considerati letti,

mentre due hanno la fortuna di dormire nella loro amaca. La vestizione

per andare a dormire è sempre molto comica: maglie (molte maglie)

una sopra l’altra, giacca, sciarpe, calze (anche più di un paio), guanti,

cappellini di lana ecc. E quando è tutto completato, le gesta acrobatiche

per infilarsi dentro il sacco a pelo o, ancora peggio, dentro l’amaca.

Questa attività ci porta via parecchio tempo, ma non importa: non c’è

molto da fare qui. Tutto ciò avviene comunque sempre abbastanza

presto, appena dopo cena. In una di queste sere, dopo mille peripezie,

andiamo a dormire veramente presto, saranno state le nove. Facciamo

appena in tempo a darci la buona notte, infagottati come siamo nei

nostri scomodi ma caldi giacigli, che qualcuno bussa alla porta. Sono i

compas 6 tzotziles che in quei giorni stanno facendo i turni di guardia

per controllare la riserva, e che hanno la casetta vicino alla nostra. Ci

chiedono scusa e ci invitano a seguirli. Un po’ straniti, usciamo come

possibile dai nostri bozzoli e ci vestiamo il più velocemente possibile.

Raggiungiamo la loro casetta e troviamo tre giovani intorno al fuoco che

ci fanno segno di sederci. Il mistero ci è subito svelato: è il tredici

marzo, sesto anniversario della riserva zapatista di Huitepec. Ci

tenevano a festeggiare con noi, e dopo averci dato del pane dolce e del

caffè, ci fanno alzare per seguirli. Il tragitto sarà molto breve. A venti

metri dietro di noi, infatti, c’è una sorta di chiesetta costruita da loro. Più

che una chiesetta, un altarino. Tre pareti (una dietro e due ai lati più

una specie di tettuccio) circondano una statua abbastanza grande della

Vergine di Guadalupe, protettrice dei popoli indigeni. Ai piedi della

statua delle candele gialle in onore della Madre Terra, e bianche per il

Cielo, ci dicono, accompagnate da un braciere con dell’incenso dentro.

Nelle pareti di legno molte bandiere di vari eroi nazionali e non, tra i

6 Abbreviazione di compañeros (compagni), appellativo con cui tutti gli zapatisti si chiamano tra di loro (e che utilizzano anche quando si rivolgono agli osservatori dei diritti umani).

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quali spiccano più di tutti i faccioni di Emiliano Zapata ed Ernesto Che

Guevara. Ovunque scritte che inneggiano all’EZLN e allo zapatismo.

Una “caricatura” si staglia dietro la Vergine e rappresenta quest’ultima

vestita come una miliziana: fasce di pallottole incrociate sul petto e

vestito color verde oliva. Ci raccogliamo intorno all’altarino e

osserviamo con attenzione, incuriositi. Uno dei compas prende un

bicchierino piccolo di vetro, uno di quelli che si usano per i chupitos

(bicchierini di liquore), e ingoia velocemente una bevanda scura.

Pensiamo tutti la stessa cosa: ma non era proibito bere alcolici nelle

comunità zapatiste? Il ragazzo ci guarda e ci chiede se ne vogliamo

uno anche noi. Nessuno si osa. Ma uno dei suoi amici gli dice di sì, e

allora lui riempie di nuovo il bicchierino. Da dietro il tavolino su cui è

appoggiata la statua della Vergine tira fuori un bottiglione di Coca Cola

e ne versa un po’ del contenuto nel bicchiere. Sì, Coca Cola. Nelle

comunità, effettivamente, è vietato bere, e per il festeggiamento di

ricorrenze religiose o pagane che siano, il surrogato dell’alcool è

proprio la bibita gassata. Questa scelta, in realtà, risponde ad una

credenza tutta indigena: la Coca Cola viene considerata una bibita

sacra dagli indios, poiché provoca in chi la beve delle fuoriuscite di gas.

Il fatto che sia una bibita gassata (quindi questo discorso vale per tutte

le bevande che hanno questa caratteristica, anche se la Coca Cola

viene consumata tantissimo in Chiapas, perché costa quasi meno

dell’acqua) la rende importante, perché si pensa che facendo uscire i

gas il corpo si purifichi e, parallelamente, si farebbe uscire in questo

modo anche il maligno. Questa è un’usanza che si svolge anche al di

fuori delle comunità zapatiste, anche se, in questi casi, la pratica è

accompagnata da grandissime quantità di posh, anch’essa considerata

bevanda sacra (collegato all’estasi come ravvicinamento con il divino,

che può avvenire tramite droghe o alcool). Con la legge delle donne

zapatiste questa usanza venne abbandonata (sarebbe disastroso

ubriacarsi durante il festeggiamento dell’anniversario della riserva,

perché i paramilitari potrebbero essere lì vicino e approfittarne) e oggi,

per festeggiare, osserviamo questi giovani ingurgitare molti litri di Coca

Cola, bevendo ad una velocità impressionante un bicchierino dietro

l’altro.

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2.2 DONNE DI MAIS

Il ruolo del Subcomandante Marcos non è così centrale come si potrebbe

pensare. Egli si propone come il portavoce della questione indigena, ma

il suo obiettivo è quello di portare gli indios ad avere l’attenzione che si

meritano.

Dopo anni di silenzio, nel 2001 partì una grandissima carovana diretta

verso Città del Messico per richiedere la liberazione di detenuti zapatisti,

il ritiro delle forze armate in sette comunità, e per riprendere gli accordi di

San Andrés. L’allora presidente Fox invitò gli zapatisti a parlare e ad

esporre le loro richieste in Parlamento. L’attenzione mondiale mediatica

era tutta rivolta verso questo avvenimento, anche e soprattutto perché si

aspettava un’entrata trionfale dell’oratore emblematico Marcos. Ma chi

aspettava questo rimase deluso: a fare da portavoce del movimento fu

una minuta donna tzeltal, la comandante Esther, la quale prese la parola

spiegando con lucidità e determinazione i desideri e le aspettative degli

zapatisti. «Il subcomandante – disse – non è altro che questo: un

subcomandante», e come tale si è sottratto alla logica della passerella

nel momento più opportuno. Come scrive La Jornada7 il 28 maggio 2001

«ci sono assenze che trionfano, e quella di Marcos ha trionfato». Esther

per prima parlò al mondo intero di una situazione che molti non

conoscono, della condizione di oppressi tra gli oppressi: quella delle

donne.

«Signori deputati e signore deputate Senatori e senatrici,

voglio spiegarvi la situazione di noi donne indigene che viviamo nelle

nostre comunità […] La situazione è molto dura. Da moltissimi anni

7 La Jornada è uno dei più importanti giornali messicani di sinistra che seguì da vicino e scrupolosamente le vicende zapatiste.

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soffriamo il dolore, l'oblio, il disprezzo, l'emarginazione e l'oppressione.

Soffriamo l'oblio perché nessuno si ricorda di noi. Ci hanno mandato a

vivere nelle più lontane montagne del Paese affinché nessuno venisse a

visitarci o a vedere come viviamo. Intanto non abbiamo acqua potabile,

luce elettrica, scuole, case dignitose, strade, cliniche, tanto meno

ospedali. Intanto molte delle nostre sorelle, donne, bambini ed anziani

muoiono di malattie curabili, denutrizione e di parto perché non ci sono

cliniche né ospedali che ci assistano. Solo in città, dove vivono i ricchi, ci

sono ospedali con una buona assistenza e tutti i servizi. Anche se ce ne

sono in città, noi non ne beneficiamo per niente, perché non abbiamo

denaro, non c'è modo di andarci e se c'è non riusciamo a raggiungere la

città, durante il percorso moriamo.

In particolare le donne, che soffrono il dolore del parto, si vedono morire i

propri figli tra le braccia per denutrizione, mancanza di assistenza.

Vedono i loro figli scalzi, senza vestiti perché non hanno soldi per

comprarli, perché sono loro, le donne, che si curano della casa e vedono

tutto quello che manca per la loro alimentazione.

Trasportano anche l'acqua con le brocche con 2 o 3 ore di cammino

caricandosi il proprio figlio e svolgono tutti i lavori di cucina. Fin da molto

piccole impariamo a lavorare facendo cose semplici. Da grandi andiamo

a lavorare nei campi, a seminare, pulire e carichiamo i nostri bambini.

Intanto gli uomini vanno a lavorare nelle piantagioni di caffè e di canna

da zucchero per guadagnare un po' di denaro per poter sopravvivere con

la propria famiglia, a volte non ritornano perché muoiono per malattie.

Non c'è tempo per tornare a casa o se ritornano, ritornano malati, senza

denaro, a volte già morti. Così la donna soffre ancora di più perché resta

sola ad accudire i propri figli.

Soffriamo anche il disprezzo e l'emarginazione fin dalla nascita perché

non ci curano bene. Siccome siamo bambine, pensano che non valiamo

niente, che non sappiamo pensare, né lavorare, né come vivere la nostra

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vita. Per questo molte di noi donne sono analfabete, perché non abbiamo

avuto l'opportunità di frequentare la scuola. Quando siamo un poco più

grandi, i nostri padri ci obbligano a sposarci a forza, non importa se noi

non vogliamo, non chiedono il nostro consenso. Non rispettano le nostre

decisioni. Perché donne ci picchiano, i nostri mariti o famigliari ci

maltrattano e non possiamo dire nulla perché ci dicono che non abbiamo

nessun diritto di difenderci. I meticci ed i ricchi si burlano di noi donne

indigene per il nostro modo di vestire, di parlare, per la nostra lingua, per

il nostro modo di pregare e di curare e per il nostro colore, che è il colore

della terra che lavoriamo […] Ci dicono che siamo sudice, che non ci

laviamo perché siamo indigene.

Noi donne indigene non abbiamo le stesse opportunità degli uomini, che

hanno tutto il diritto di decidere su tutto. Solo loro hanno diritto alla terra,

mentre la donna non ne ha diritto come se non potessimo lavorare anche

noi la terra e come se non fossimo esseri umani8. Soffriamo la

disuguaglianza. Tutta questa situazione è stata introdotta dai cattivi

governi. Noi donne indigene non abbiamo una buona alimentazione, non

abbiamo una casa dignitosa, non abbiamo né un centro di salute, né

studi. Non abbiamo un progetto di lavoro e così sopravviviamo nella

miseria e questa povertà è dovuta all'abbandono del governo che non si

è mai curato di noi come indigene e non ci ha mai preso in

considerazione, ci ha trattato come una cosa qualsiasi. Dice che ci

manda aiuti […] ma lo fa con l'intento di distruggerci e dividerci. Questa è

la vita e la morte di noi donne indigene […]. È la legge attuale che

permette la nostra emarginazione e la nostra umiliazione. Per questo noi

abbiamo deciso di organizzarci per lottare come donne zapatiste. Per

cambiare la situazione, perché siamo ormai stanche di tanta sofferenza

senza i nostri diritti. Non vi racconto tutto questo per avere la vostra pietà

o perché ci veniate a salvare da questi abusi. Noi donne abbiamo lottato

per cambiare questo e continueremo a farlo. Ma abbiamo bisogno che si

8 Le terre, infatti, sono ereditate solo dai figli maschi.

Page 33: "Comandare ubbidendo" : la lotta del popolo di mais. Donne zapatiste in resistenza.

32

riconosca per legge la nostra lotta perché fino ad ora non è stata

riconosciuta […]

Noi oltre che donne siamo indigene e come tali non siamo riconosciute.

Noi donne sappiamo quali usi e costumi sono buoni e quali sono cattivi.

Cattivi sono pagare e picchiare la donna, venderla e comprarla, sposarla

a forza senza il suo consenso9, proibirle la partecipazione alle

assemblee, impedirle di uscire di casa. Per questo vogliamo che si

approvi la legge per i diritti e la cultura indigeni, è molto importante per

noi, per le donne indigene di tutto il Messico. Servirà affinché siamo

riconosciute e rispettate come donne e come indigene quali siamo.

Questo vuol dire che vogliamo che siano riconosciuti il nostro modo di

vestire, di parlare, di governare, di organizzarci, di pregare, di curare, il

nostro modo di lavorare collettivamente, di rispettare la terra e di

intendere la vita, che è la natura e noi ne siamo parte.»10

Questa era la situazione delle donne per la prima volta raccontata al

mondo intero.

9 È usanza, in molte comunità, “vendere” la figlia in cambio di una dote (che di solito consta in cibo e alcool). E’ la tradizionale istituzione del “prezzo della sposa”. 10 www.ecn.org

Page 34: "Comandare ubbidendo" : la lotta del popolo di mais. Donne zapatiste in resistenza.

33

2.2.1 ESPERIENZA DI VIAGGIO: L’ALTRA METÀ DELLA SELVA

Mariasol è la prima persona che ci viene a fare visita appena arriviamo

nell’accampamento di Huitepec. Ha 33 anni, capelli lunghi e neri (come

praticamente tutte le donne indie), vestiti tradizionali (una lunga gonna a

tubino e un camiciotto) e un bambino dietro la schiena. Ha quattro

sorelle e due fratelli, e quello che ha dietro la schiena, trasportato nel

classico scialle che qui tutte usano per trasportare i neonati, è il suo

quarto figlio. Ingenuamente le chiedo come si chiama il bambino, ma lei

non risponde. Dice che non ha nome. Qui, tra gli indigeni, tutti i bambini

fino ai due anni non hanno nome. La ragione è facilmente

comprensibile: sono pochi i bambini che superano i primi anni di vita, e

come scongiuro le madri non danno un nome ai propri figli, forse un po’

per ingannare la morte e un po’ per non dare “realtà” ad un essere che

potrebbe presto essere portato via da malattie, denutrizione, mancanza

di igiene e chissà quant’altro.

Mariasol ci segue quando, impacciatamente, cerchiamo di prendere

l’acqua dal “pozzo” (in realtà un buco profondissimo nel terreno che ci

permette di prendere, con un secchio e una lunghissima corda, un po’ di

acqua fangosa) e, ridacchiando, ci aiuta a riempire e a portare le nostre

taniche fino all’accampamento, sempre con il suo bambino dietro la

schiena, che nonostante gli strattoni e i sobbalzamenti, non si lamenta

neanche una volta. Il rapporto che hanno le madri con i propri bambini è

molto particolare. Abituati ad essere portati costantemente sulla

schiena, tra i bambini e le mamme si sviluppa fin dai primi giorni una

complicità e una sensibilità fisica impressionante. I bisogni del bambino

sono percepiti dalla madre, la quale sente il corpo del piccolo prima

ancora dei suoi lamenti, che non ha quindi necessità di emettere perché

tutti i suoi bisogni sono soddisfatti ancora prima che li manifesti. I due

corpi stanno sempre e costantemente in contatto, tanto che la madre

impara da subito a capire quando il piccolo si muove in un certo modo

Page 35: "Comandare ubbidendo" : la lotta del popolo di mais. Donne zapatiste in resistenza.

34

perché deve fare la pipì, quando si sveglia e quindi quando deve

mangiare, oppure quando deve cambiare posizione ecc.11

Di donne con bambini se ne vedono tantissime nelle vie di San

Cristobal. Arrivano la mattina presto su affollatissime camionette per

vendere i loro prodotti ai turisti, e non è raro vederle la sera tardi

distrutte, infreddolite, accucciate agli angoli delle strade per riposarsi.

Non è ancora l’ora di tornare a casa, ci sono troppi turisti che potrebbero

ancora comprare. Ma la stanchezza è tanta, come anche il freddo, e

allora anche un angolino di marciapiede può essere apprezzato come

giaciglio.

La vita delle donne indigene qui è molto dura, ma con il movimento

zapatista sono diventate le protagoniste di un cambiamento che ha

sorpreso un po’ tutti, anche loro. Ce ne rendiamo conto quando a

Huitepec, una sera, noi Osservatori dei Diritti Umani (siamo quattro

donne e un uomo) veniamo invitati nella casupola accanto alla nostra,

dove un gruppo di zapatisti (meticci) stava trascorrendo la sua settimana

di controllo del territorio, che avveniva a rotazione tra persone del posto

e persone che invece arrivavano da altre città, le quali davano la loro

disponibilità a fare presidi di settimane nelle zone che dovevano essere

costantemente controllate per evitare che venissero prese dai

paramilitari. Accettiamo volentieri il loro invito. Ci fanno accomodare

intorno ad un fuoco e ci offrono l’atole, una bevanda a base di riso (ma

ne esistono diverse varianti) tipica messicana. Di solito ogni notte ne

rimangono svegli almeno due, perché con il buio è più facile che i

paramilitari arrivino. Ma per l’occasione, quella sera sono quasi tutti

svegli. Quelli con cui si presentano sono nomi di battaglia: Santana,

come il famoso chitarrista, Pablo, come Picasso ecc. I loro veri nomi

rimarranno per noi un mistero, come molte altre cose. L’imbarazzo dura

poco, e subito veniamo catturati dai loro discorsi e dalle canzoni che ci

dedicano. Un signore in particolare, con una voce stupenda, intona versi

e parla d’amore. Si rivolge a noi quattro donne. In un’atmosfera così

magica: alla sola luce del fuoco, immersi in una rada nebbia, guardiamo

11 Rimando a tal proposito al concetto di sociosensualità presente nel libro di Montagu, Il buon selvaggio. Educare alla non aggressività (pag.21).

Page 36: "Comandare ubbidendo" : la lotta del popolo di mais. Donne zapatiste in resistenza.

35

ed ascoltiamo questo signore sulla sessantina, che con le sue mani da

campesino (contadino) tiene un ritmo soave facendole volteggiare

nell’aria, come se stesse suonando uno strumento invisibile. Siamo

talmente catturati, che ci sfugge il motivo di tutto ciò. È l’otto marzo. La

festa della donna. Una festa dimenticata durante i cinquecento anni

della conquista, ma tornata ad essere una festa importante con l’arrivo

del movimento zapatista. Uno di loro ci spiega che le donne sono la vera

forza del movimento, l’altra metà essenziale, e che senza di loro lo

zapatismo non esisterebbe. In quel momento siamo noi, in quanto

donne, al centro dell’attenzione. Di sicuro un otto marzo che non

dimenticherò mai.

Page 37: "Comandare ubbidendo" : la lotta del popolo di mais. Donne zapatiste in resistenza.

36

2.3 SAN CRISTOBAL DE LAS CASAS

I maya credono che, quando nasce una persona, nasca anche un

animale nei monti che sarà il suo nagual, legato a lui per tutta la vita e col

quale condividerà fama, malattia, potere, dolore e morte. Secondo gli

tzotziles questi animali vivono nelle montagne e sono divisi per famiglie.

Quando una donna si unisce in matrimonio, il suo nagual abbandona la

montagna in cui sta per andare a vivere in quella del marito. Se una

donna o un uomo indigeni vanno a vivere in città e abbandonano le loro

tradizioni, il loro animale va a vivere da un’altra parte lontana, e gli indios

non li riconosceranno più come uno di loro, perché il suo animale vive da

un’altra parte (Rovira, Donne di mais, pag. 89).

Quando gli spagnoli

conquistarono il

Chiapas, Diego de

Mazariegos fondò, nel

1528, la Ciudad Real,

chiamata ora San

Cristobal de las Casas,

una delle città più

antiche non solo del

Messico ma di tutto il

continente americano. I

conquistatori che vi si insediarono inizialmente furono settanta, e per

difendersi dagli indios che si trovavano tra le montagne lì intorno,

regalarono le terre che circondavano la città ad alleati di altri paesi.

Quando l’organizzazione e la primordiale urbanistica della città fu

completata, nel 1529 gli abitanti chiesero il permesso di importate

duecento donne indigene per popolare la città. Da allora in poi ci fu

San Cristobal (in lontananza) vista dal monte Huitepec. Sulla sinistra, donne tzotziles

Page 38: "Comandare ubbidendo" : la lotta del popolo di mais. Donne zapatiste in resistenza.

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un’eccedenza di popolazione femminile, tanto che furono creati dei

conventi e, duecento anni dopo, delle case chiuse, per far fronte alla

moltitudine di donne rimaste senza compagno. Gli uomini erano spesso

nei campi, o in guerra, o in altri stati per cercare lavoro, mentre alle

donne rimaneva la gestione della casa e, di fatto, della città. Nacque da

qui il mito della donna matriarca, la coleta (dall’uso del colletto bianco

tipico del loro vestiario), con sangue misto “pulito” da secoli di

cittadinanza. Ma neanche per loro la vita era facile: rimaste spesso

vedove o abbandonate, si davano alla guerra tra povere, al brigantaggio,

e spinte dalla disperazione derubavano le indigene che, scendendo dai

monti, cercavano di vendere i loro prodotti al mercato. Per molti secoli,

San Cristobal rappresentò una città comoda per gli uomini, che potevano

così avere più donne, amanti…e serve. Sì, perché in un contesto così

disperato, le donne svilupparono un cultura di concessioni. Per paura di

perdere il marito, di cui avevano bisogno per sopravvivere, scesero a

compromessi e si sottomisero alle loro volontà, rinunciando alla ricerca

dell’eguaglianza. Le cronache del tempo (conservate nell’archivio storico

della Diocesi di San Cristobal) raccontano di maltrattamenti e soprusi.

Davanti alla sollevazione delle loro “sorellastre” indigene del 1994, le

coletas non nascosero il loro stupore, accompagnato però da

indignazione e disprezzo. Le ragioni di questo sentimento aspro sono da

ricercare nell’immaginario collettivo sottoposto a cinquecento anni di

cambiamenti. La classe media dei coletos è politicamente schierata nella

destra del PRI (il partito conservatore al governo) e ricopre anche ruoli

d’importanza. Ciò che li lega a quegli indios tanto odiati è un passato che

si perde nella notte dei tempi, al quale non vogliono essere più legati. Si

sentono migliori perché “civilizzati” e non vogliono in nessuno modo

essere associati a quegli indigeni così simili fisicamente a loro ma così

culturalmente lontani. Le loro sono storie di povertà e sofferenze vissute

in parallelo, ma che hanno avuto risvolti diversi (Rovira, Donne di mais).

Page 39: "Comandare ubbidendo" : la lotta del popolo di mais. Donne zapatiste in resistenza.

38

2.4 FAMIGLIA INDIGENA E ISTRUZIONE SCOLASTICA

Nelle comunità indigene del Chiapas le coppie che si uniscono in

matrimonio sono virilocali: dopo la cerimonia (spesso cristiana) i giovani

si stabiliscono nella comunità dei genitori dell’uomo (dove quest’ultimo è

nato e cresciuto), mentre la donna avrà l’obbligo di rispettare e servire i

suoceri come se fossero i suoi genitori. Le donne non vengono scelte per

la loro intelligenza, bellezza o simpatia, ma per le loro abilità nelle

faccende domestiche: una brava moglie deve cucinare, rassettare casa,

badare ai figli, fare vestiti, e non lamentarsi mai. Il nuovo nucleo familiare

che così si crea ha lo scopo di dare al mondo figli che hanno il destino

bene o male già segnato: i maschi andranno ad aiutare i padri nei campi

mentre le bambine aiuteranno la madre nei lavori domestici e

nell’accudimento dei fratelli e delle sorelle più piccoli. Le nuove famiglie

si possono creare in vari modi: nella maggior parte dei casi l’uomo paga

una dote (il “prezzo della sposa”) per la donna e molto più raramente le

unioni matrimoniali sono scelte da entrambi i coniugi.

Non è raro però che la nuove unioni avvengano ancora in un terzo e

triste modo. All’interno delle stesse comunità accadono anche violenze

sessuali che, spesso, non sono senza conseguenze. Le donne che in

questo modo rimangono incinte sono molte, e gli indios affrontano questo

disonore in qualche modo “premiando” il violentatore. L’uomo in

questione viene cercato per responsabilizzarlo delle proprie azioni e

viene obbligato a sposare la donna e a badare al figlio, senza essere

punito in nessun altro modo. È la donna, anzi, ad essere vista come una

poco di buono e ad essere punita perché incinta.

Nelle comunità il parto è seguito dalle levatrici le quali, di solito, sono

donne anziane con molti figli e nipoti. Strettamente legata al parto è la

Luna: ad essa vengono destinate le preghiere per far sì che il bambino

nasca sano e forte ed è anche il riferimento per calcolare il periodo di

gestazione. Gli indios tzotziles sono quelli che più di tutti hanno

Page 40: "Comandare ubbidendo" : la lotta del popolo di mais. Donne zapatiste in resistenza.

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conservato le loro tradizioni rendendo inaccessibile molte pratiche che, in

questo modo, non sono state influenzate e cambiate dal mondo esterno:

ai parti, ad esempio, non possono assistere gli estranei (e gli stranieri),

ma solo i famigliari. Durante la nascita del nuovo nato si fa una vera e

propria cerimonia rituale, accompagnata da alcool, incensi e candele di

vari colori (ognuno dei quali corrisponde ad una specifica richiesta). Le

donne partoriscono nella casa, completamente vestite, e raramente

vengono fatte sdraiare. Di solito partoriscono in piedi, appese al collo del

marito il quale, in questo modo, contribuisce allo sforzo fisico del parto.

La tradizione varia da un villaggio all’altro: in alcuni, il cordone ombelicale

viene tagliato e appeso ad un albero vicino dalla levatrice, mentre la

placenta viene bruciata nel fuoco della casa. Il bimbo viene lavato con

acqua tiepida e il padre mastica del peperoncino che poi metterà sulle

labbra del neonato per impedire che rimangano nere. Per venti giorni la

madre berrà acqua tiepida e verrà considerata debole. Con la migrazione

di molti indios nella Selva Lacandona, questi riti e usanze vennero rese

più pericolose dal nuovo ed inospitale luogo, e le prime donne che

dovettero partorire si trovarono a dover affrontare una condizione che

non conoscevano, lontano da tutte le loro abitudini. In realtà, questa

ricerca di nuove terre da coltivare e la successiva migrazione nelle terre

della selva ha messo in crisi molte pratiche tradizionali, ed è anche per

questa ragione che nelle comunità della selva prima che da ogni altra

parte il movimento zapatista ha avuto terreno fertile. Le comunità nate in

seguito alla migrazione, infatti, sono meno rigide, dato che il nuovo

spostamento di massa ha rotto le tradizionali strutture gerarchiche,

organizzando un tipo di comunità meno verticale e più partecipativo

(ibid).

Crescendo nelle comunità, i bambini devono affrontare un’infanzia e poi

un’adolescenza non molto facile: sono tantissimi i giovani costretti a

lavorare, senza avere la possibilità di istruirsi. Per i genitori, infatti, sono

molto più utili in casa o nei campi. Sono tantissime soprattutto le

Page 41: "Comandare ubbidendo" : la lotta del popolo di mais. Donne zapatiste in resistenza.

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bambine indigene che a San Cristóbal vendono i loro prodotti artigianali

senza avere poi il tempo non solo di andare a scuola, ma anche di

giocare e di vivere la propria infanzia: nascono già donne. Per quanto

riguarda l’istruzione scolastica, soprattutto le figlie femmine non sono

incoraggiate dalla famiglia a studiare, poiché ci si preoccupa delle

violenze sessuali che potrebbero subire sia nella comunità stessa che

nelle città più grandi, dove si trovano scuole medie e superiori. Di solito

le figlie frequentano la scuola elementare che è presente nella comunità,

la quale però presenta molti problemi. Innanzi tutto è altissimo il tasso di

assenteismo da parte dei maestri, che si presentano spesso solo dal

martedì al giovedì, dato che sfiora lo scandalo, come anche i loro miseri

stipendi. Inoltre i docenti sono spesso poco preparati all’insegnamento e

adottano tecniche di apprendimento obsolete e svantaggiose per gli

alunni. Tendono, infatti, a fare lezione agli studenti solo nella lingua

indigena di appartenenza, e quando insegnano lo spagnolo (materia

obbligatoria) fanno leggere agli allievi dei testi senza spiegare loro cosa

significhino. Il risultato è una conoscenza dello spagnolo scritto, ma non

un apprendimento del significato di quelle parole. Dall’altro lato, nelle

città si insegna invece soltanto lo spagnolo, non lasciando spazio al

bilinguismo, essenziale per il mantenimento della cultura. Un’altra scuola

di pensiero appoggia la decisione di penalizzare l’istruzione delle donne

per dare la possibilità a quest’ultime di essere le depositarie della cultura

e delle tradizioni dei loro villaggi che si perderebbero se tutti andassero

in città a studiare. Un brutto modo di giustificare il tentativo di rendere le

donne più facilmente sottomettibili. Nel dicembre del 1994 una delle

prime misure prese dai contadini zapatisti fu quella di impedire l’entrata

dei maestri finché non si fosse definito un piano di istruzione integrale

approvato dalle comunità in base alle necessità della cultura indigena

(ibid).

Page 42: "Comandare ubbidendo" : la lotta del popolo di mais. Donne zapatiste in resistenza.

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2.4.1 ESPERIENZA DI VIAGGIO: IN UNA CASA DI BOLOMAJAW

Nella comunità di BolomAjaw il ruolo di noi Osservatori dei diritti umani è

quello di stare nel piccolo villaggio (composto da sei casupole, una

chiesa e una scuola) per controllare che nessun estraneo commetta

soprusi o violenze contro la comunità. Intanto, durante la giornata, ci

occupiamo delle cose fondamentali: accendere il fuoco, andare a

prendere l’acqua (in una fonte d’acqua pulita distante mezz’oretta

dall’accampamento) e, soprattutto, combattere il terribile caldo tropicale

con lunghi e rinfrescanti bagni nel fiume stupendo sul quale si trova

BolomAjaw (che significa, in lingua tzeltal, “grande cascata”). La casetta

destinata agli Osservatori (tre pareti di legno, un tetto anch’esso di legno

e nessuna parete davanti, particolare che dà libero accesso a qualsiasi

tipo di animale durante la notte, da maiali a insetti di ogni genere) si

trova lungo il sentierino che attraversa tutta la comunità, tra le capanne

degli altri abitanti. Poco più avanti, sulla nostra destra, c’è la casa di

Fermín, il “rappresentante” della comunità, mentre dall’altro lato si trova

la capanna di Margarita.

Margarita non avrà più di trent’anni, e si occupa di portarci ogni giorno

delle tortillas fatte da lei. E’ molto socievole e parla con noi volentieri.

Uno dei suoi tre figli maschi mi invita a casa sua, composta da due

costruzioni adiacenti, una dove è allestita la cucina e una destinata a

dormire. Mi fa accomodare nella cucina, su una specie di panca

attaccata ad un tavolo. La cucina è molto piccola, il pavimento è di terra

battuta e per terra scorrazzano molti piccoli di tacchino e due gatti. Sul

fondo della cucina si trova un braciere parecchio grosso, sul quale sono

appoggiate varie pietre che servono come piano cottura e, a lato, una

macchina per schiacciare le tortillas. Margarita non si aspetta una mia

visita (è infatti suo figlio che mi ha invitata, col quale stavo giocando fino

a qualche minuto prima), e appena entro si affretta a mettere in ordine la

cucina, raccogliendo delle cose da terra, e rimproverando in tzeltal suo

figlio (o almeno così mi è parso). È molto ospitale e subito mi offre delle

pannocchie di mais abbrustolite che divoro perché deliziose. Mi racconta

che le piace stare a BolomAjaw, ma la vita è dura, e che proprio qualche

Page 43: "Comandare ubbidendo" : la lotta del popolo di mais. Donne zapatiste in resistenza.

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settimana prima una famiglia ha deciso di andarsene (davanti alla nostra

capanna ci sono infatti resti di un recinto e di qualche parete di legno).

La nostra conversazione è breve, ma il giorno dopo mi invita di nuovo a

casa sua, anche se questa volta sono presenti altri due miei compagni e

una parte della sua famiglia. Non sono presenti le sue due figlie

femmine, poiché a turno tutti i giovani passano delle settimane nel

caracol di Morelia (al quale BolomAjaw appartiene), e nemmeno il figlio

più grande, che è a lavorare in qualche campo. Ci sono però, oltre al

bambino che il giorno prima mi aveva invitata a casa loro, anche un altro

figlio di diciotto anni, un nipotino di circa quattro anni e il marito di

Margarita. Mentre lei prepara l’atole e la cena, il marito si siede davanti

a noi e ci parla. Ha trent’anni, ma sembra molto più anziano, e ci

stupisce quando ci dice che è già nonno. Risponde sorridendo alle

nostre domande, e sgrida spesso i bambini (ma non li picchia). È

appena tornato dal lavoro (tutti gli uomini della comunità sono impegnati

a costruire una strada abbastanza grande da far passare macchine o

camion per collegare il villaggio alla strada principale, poiché per adesso

c’è solo una stradina che permette a malapena ad una persona di

passare) ed è molto stanco. Si intrattiene comunque con noi parecchio,

e ci spiega qualcosa in più della sua famiglia. Lui e Margarita hanno

scelto di sposarsi (in questo caso, quindi, sembra che la donna non sia

stata obbligata) e dopo aver pagato la dote, hanno celebrato una

cerimonio cattolica. Nel 2003 hanno deciso, con altre venticinque

famiglie, di cercare un posto dove dar vita ad un nuovo insediamento, e

hanno trovato la possibilità di andare a vivere in un luogo già dichiarato

protetto dagli zapatisti nel 1994. Mentre il marito parla, Margarita

continua a lavorare sodo, dando da mangiare e da bere a noi, ai suoi

famigliari e ai gatti. In particolare mentre stava dando da mangiare del

mais a quest’ultimi, per attirare la loro attenzione li chiama in tzeltal

«michooo». Sorrido, e mi affretto subito a chiederle se quella parola che

ha appena pronunciato nella sua lingua significa gatto. Sono molto

sorpresi e divertiti nel sapere che anche in italiano gatto si dice “micio”:

non credo capitino molte volte queste coincidenze linguistiche!

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3 CONCLUSIONI

3.1 LA DIGNITÀ DI UN POPOLO E LA “SINDROME DI

CENERENTOLA”

Nel luglio del 2003 Marcos scrive:

«Noi non vi rimproveriamo nulla, sappiamo che rischiate molto per venirci

a trovare e portare aiuti umanitari ai civili di queste parti. Ciò che ci

addolora non è la nostra carenza, è vedere in altri quello che gli altri non

vedono, la stessa orfanità di libertà e democrazia, la stessa mancanza di

giustizia […]. Dei benefici che la nostra gente ha tratto da questa guerra,

conservo un esempio di “aiuto umanitario” per gli indigeni chiapanechi,

arrivato alcune settimane or sono: una scarpetta d’importazione col tacco

alto di color rosa, numero sei e mezzo, senza l’altra per fare il paio. La

porto sempre nel mio zaino, tra interviste, fotografie, reportages per

ricordare a me stesso ciò che siamo per il Paese dopo il primo gennaio:

una cenerentola […]. Questa brava gente che con sincerità ci manda una

scarpetta rosa d’importazione con il tacco alto, del numero sei e mezzo,

spaiata, pensando che, siccome siamo poveri, dobbiamo accettare

qualsiasi cosa, carità ed elemosina. Come dire a tutta questa brava

gente di no, che non vogliamo più continuare a vivere la vergogna del

Messico? […]. No, non vogliamo più vivere così. Questo successe

nell’aprile del ’94. Allora pensavamo che fosse questione di tempo, che

la gente avrebbe capito che gli indigeni zapatisti avevano dignità e che

non cercavano l’elemosina bensì il rispetto. L’altra scarpetta rosa non è

mai arrivata e il paio è rimasto incompleto, e negli Aguascalientes si

accumularono computer inutili, medicinali scaduti, indumenti stravaganti

che non sono buoni nemmeno per le rappresentazioni teatrali e, certo,

scarpe spaiate. E continuano ad arrivare cose di questo tipo, come se

quella gente dicesse: “Poverini, sono molto bisognosi, perciò gli può

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servire qualsiasi genere di cose, e a me questo avanza”. Non solo, ma

esiste anche una elemosina più sofisticata. È quella praticata da alcune

Ong e da organismi internazionali. Consiste, grosso modo, nel fatto che

costoro decidono di che cosa hanno bisogno le comunità e senza

consultare nessuno impongono non soltanto determinati progetti, ma

anche i tempi e i modi della loro realizzazione. Immaginatevi la

disperazione di una comunità che ha bisogno di acqua potabile e invece

le affibbiano una biblioteca, che necessita di una scuola per bambini e

invece le propinano un corso di erboristeria.» (La tredicesima Stele,

parte II, 25 luglio 2003).

L’EZLN propone un nuovo modo di

procedere verso le trasformazioni

sociali rivoluzionarie, collegato anche

alle tradizioni indigene comunitarie.

Quello che viene chiamato dallo stesso

Marcos “neozapatismo” risponde alla

logica di non cadere nella

cristallizzazione di concetti così come di

poteri. All’alba del 1994 queste persone

avevano elaborato un loro concetto di

zapatismo ed erano pronti a

condividerlo con il mondo intero

aspettandosi due diverse reazioni: o la massima condivisione e

partecipazione (ed è questo a cui aspiravano, poiché il loro si voleva

proporre come un movimento di lotta globale contro il malgoverno e gli

abusi di potere, problemi che non interessano il solo Chiapas) o

indifferenza e contrapposizione. La società civile, invece, rispose ancora

in un terzo modo: la maggior parte della popolazione appoggiò le idee

ma non intervenne nel senso stretto della parola. Quella degli zapatisti

venne vista più che altro come una lotta indigena per dei motivi giusti, e

come tale ricevette la simpatia di molti ma l’impegno di pochi. Per questo

venne coniato il termine neozapatismo. Le persone aiutarono a dare dei

Uno dei compas di Huitepec

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confini e dei limiti nuovi al movimento, il quale si evolse nel tempo. Dallo

zapatismo vero e proprio si è quindi subito passati a quello che loro

stessi chiamano neozapatismo, anche se questo termine è ancora oggi

aperto a cambiamenti e, soprattutto, rinnovamenti.

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3.2 LO ZAPATISMO OGGI

Se quello che ci si chiede oggi è se il movimento zapatista sia concluso,

la risposta è no. Ancora una volta, quando ormai l’attenzione è calata e si

inizia a vociferare della sconfitta dello zapatismo e dell’uscita di scena

del subcomandante Marcos (è infatti ormai da parecchi anni che non fa

apparizioni pubbliche, e alcune notizie tutt’altro che fondate lo vorrebbero

malato a farsi curare in Europa), sono le donne e gli uomini indigeni che

ripropongono una presa di posizione ancora non vista e di ampio respiro.

Se all’inizio della loro lotta gli stessi zapatisti erano ben contenti di

condividere e di spiegare le loro idee ai migliaia di curiosi accorsi in

Chiapas per vedere da vicino cosa stesse succedendo, dopo vari anni la

situazione cambiò. Erano ormai sempre di più quelli che aderivano alla

logica commerciale dello zapaturismo, disinteressati a capire seriamente

cosa significava la loro lotta; questo provocò un’inevitabile chiusura degli

indigeni rispetto a tutti coloro che erano mossi da compassione e che li

vedevano come poveri che lottavano per un tozzo di pane, senza

rendersi conto che il movimento zapatista significa molto di più e vuole

essere un esempio per il mondo intero. Per parecchi anni fu quindi molto

difficile entrare in contatto con gli autentici zapatisti, e per accontentare le

ondate di turisti curiosi, il caracol di Oventic (vicino a San Cristobal),

divenne quello più turistico, aperto a tutti e costellato da negozi e

negozietti dai quali era praticamente obbligatorio passare. Così tutti

potevano dire di aver visto gli zapatisti, ignari di come potessero vivere e

pensare in realtà. Dopo anni di chiusura e di difficile accesso nella loro

realtà, nel 2013 il movimento si reinventò e lanciò una nuova sfida: la

escuelita [la piccola scuola] zapatista. Il progetto veniva seguito già da

parecchi mesi, ma è stato concretizzato solo nell’agosto di quest’anno.

L’obiettivo era quello di rendere consapevoli tutti coloro che volevano

conoscere più da vicino la realtà indigena zapatista, dando la possibilità

di prendere parte ad una vera e propria scuola di vita. Per partecipare

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all’escuelita bisognava iscriversi all’università autonoma di San Cristobal,

e per quattro giorni (dall’11 al 15 agosto) si avrebbe avuto la possibilità di

vivere con una famiglia di una delle comunità zapatiste. Ogni gruppo di

persone era seguito da un interprete indigeno (un “guardiano”), che

avrebbe fatto da tramite tra la famiglia (che spesso parla in lingua maya)

e “gli alunni” (ai quali veniva tradotto tutto in spagnolo). Ad ogni

partecipante (se ne contarono più di 1500) furono consegnati quattro libri

(scritti da esponenti della Junta) e due dvd, mentre i trasporti furono

offerti dagli indios, i quali si preoccuparono di portare i vari gruppi di

persone nelle comunità designate. In questo modo i partecipanti

(provenienti da tutto il mondo, ma per la maggior parte messicani) hanno

avuto la possibilità di vedere la realtà nella loro quotidianità e semplicità.

Il significato di questa iniziativa è molto chiaro: gli indios zapatisti non

chiedono né di essere salvati né di essere aiutati economicamente. Non

hanno bisogno della bigotta umanità di chi spedisce scarpe con il tacco o

medicinali scaduti. Hanno qualcosa da insegnare e da condividere,

hanno la consapevolezza di aver appreso la loro condizione di

emarginazione e vogliono svegliare il mondo. Attraverso la loro lotta

sperano di riattivare il senso di indignazione che molti popoli possiedono,

anche se non hanno il coraggio di combattere. Sono uomini e donne che

rischiano la vita per il semplice fatto di aver detto basta allo sfruttamento,

che esigono dignità, rispetto e giustizia. Gli zapatisti non cercano la gloria

ma chiedono di non essere dimenticati. L’escuelita, che avrà altri corsi in

autunno e in dicembre, ha come compito quello di creare una resistenza

quotidiana fatta di condivisione, per non far dimenticare che aqui

estamos, lento pero avanzamos («siamo qui, lenti ma avanziamo»).

Dopo l’esperienza dell’ escuelita la voce di Marcos non si è fatta

attendere, e a novembre ha scritto un comunicato per tirare le somme sia

in senso economico che “umano”:

«Alle/Agli student@ che hanno frequentato o vogliono frequentare il

primo livello della Escuelita Zapatista:

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A chi di competenza:

Compagni e compagne

Come al solito, hanno incaricato me di darvi le brutte notizie. Eccole qua.

PRIMO.- I conti (controllate bene le somme, sottrazioni e divisioni perché

la matematica non è il mio forte, voglio dire, proprio non lo è) […]

Totale delle spese delle comunità zapatiste per il corso di primo livello di

agosto 2013 per 1281 alunni: $479, 778.27 (27.221,80 euro).

[…]

Spesa media per allievo: $374.53 (21,25 euro).

Entrate della Escuelita Zapatista:

Entrate per l’iscrizione (il contenitore installato al CIDECI): $ 409,955.00

(23.260,2 euro).

Entrate medie per il pagamento dell’iscrizione di ogni allievo: $320.02

(18,16 euro).

SECONDO.- Riassunto e conseguenze:

In media, ogni allievo è costato $54.51 (3,10 euro), che sono stati coperti

grazie alle donazioni solidali. Cioè, gli allievi si sono aiutati tra loro.

Cioè, come si dice, i conti non tornano, compas. È stato grazie al fatto

che qualche allievo ha versato più dei cento pesos obbligatori (alcuni non

hanno versato nulla) ed alle donazioni di persone generose, che siamo

riusciti appena ad andare alla pari.

Ringraziamo di cuore coloro che hanno dato di più e chi ha fatto queste

donazioni straordinarie. E dovrebbero ringraziarli anche quelli che non

hanno versato tutti i cento pesos o non hanno dato assolutamente

niente.

Sappiamo che difficilmente si ripeterà che qualche partecipante paghi il

corso per altri, quindi ci troviamo di fronte alle seguenti opzioni:

a).- Chiudiamo la escuelita.

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b).- Riduciamo il numero a quello che possiamo coprire noi zapatisti. Il

Subcomandante Insurgente Moisés mi dice che sarebbero circa 100

per caracol, 500 in totale.

c).- Aumentiamo il costo e lo rendiamo obbligatorio.

Crediamo che non si debba chiudere la escuelita, perché ci ha permesso

di conoscere e farci conoscere da persone che prima non conoscevamo

né ci conoscevano.

Pensiamo anche che se riduciamo il numero dei partecipanti, molti si

irriteranno o si arrabbieranno perché hanno già preparato tutto per

partecipare e potrebbero restare fuori. Soprattutto ora che sanno che

l’essenza del corso sta nelle comunità e nei guardiani. E poi, siccome

toccherebbe a me dare la notizia, sarei inondato di insulti.

Quindi non resta che chiedervi di pagare per le vostre spese di trasporto

e vitto. Sappiamo che questo, oltre ad infastidire qualcuno, può lasciarne

fuori altri. Per questo vi avvisiamo per tempo affinché troviate il modo di

provvedere al pagamento per voi o per i vostri compas che vogliono e

possono partecipare ma non riescono a provvedere al pagamento.

[…]

Ah, e venite ad ascoltare ed imparare, perché c’è chi è venuto ad

impartire lezioni di femminismo, vegetarianismo, marxismo ed altri

“ismo”. Ed ora sono arrabbiati perché gli zapatisti non obbediscono a

quello che sono venuti ad insegnare, tipo: che dobbiamo cambiare la

legge rivoluzionaria delle donne come dicono loro e non come decidano

le zapatiste; che non capiamo i vantaggi della marijuana; che non

dobbiamo fare le case di cemento perché sono meglio con fango e

paglia; di non usare le scarpe perché camminando scalzi siamo più a

contatto con la madre terra. Infine, di obbedire a quello che ci vengono

ad ordinare… cioè, di non essere zapatisti […]»12

12 www.chiapasbg.wordpress.com

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Il progetto dell’escuelita continuerà, anche se con qualche cambiamento

(ogni partecipante dovrà preoccuparsi economicamente del proprio

sostentamento) e sono state da poco aperte le iscrizioni per i turni di

dicembre e gennaio (anche se in realtà l’affluenza è stata talmente

elevata che i posti disponibili sono già esauriti!). Dal comunicato di

Marcos è evidente che gli zapatisti rimangono ancora, adesso come

allora, lontani dai tentativi di conversione che li vorrebbero più simili a

qualcosa di già conosciuto. In questo senso lo zapatismo non è morto:

non ha ceduto alla corruzione e non ha cambiato il suo modo d’essere e

di intendere la lotta. Saranno anche meno rispetto a vent’anni fa (molti

infatti hanno deciso di abbandonare lo zapatismo e di “vendersi” al

governo per avere dei privilegi), ma continuano a creare una rete che

tenta di coinvolgere anche persone straniere interessate a conoscerli

seriamente. Per quelli che sono rimasti, assistere alla nascita di una

seconda generazione di zapatisti, nati e cresciuti nella lotta, dà speranza

a tutti coloro che non si sono arresi. Per adesso, non si sono ancora

stancati e non hanno nessuna intenzione di smettere di urlare «¡Zapata

vive!¡La lucha sigue!» (Zapata vive! La lotta continua!).

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3.2 CONSIDERAZIONI FINALI

La questione delle donne zapatiste non può trascendere dal contesto

sociale a cui appartiene. Come il Chiapas non pretende la scissione dallo

stato messicano, come l’EZLN non aspira ad essere un nuovo organo

governativo, così le donne zapatiste non chiedono la sottomissione degli

uomini, ma parità e giustizia e, soprattutto, chiedono la possibilità di

scegliere. Lo zapatismo significa questo per le donne indigene: una

possibilità di vita. In una società dove il destino delle donne è sempre

stato segnato fin dalla nascita dall’ obbligo di essere una brava figlia

prima ed una brava moglie dopo, la presa di coscienza e l’idea di poter

essere altro oltre quello, ha portato a dare vita ad una splendida

dimostrazione di orgoglio indigeno che vuole essere un esempio non

solo per tutte quelle donne culturalmente sottomesse, ma per tutto il

mondo.

Se si guarda alla questione delle donne indigene come a qualcosa di

molto lontano dall’emancipazione occidentale, quasi come si trattasse di

qualcosa di talmente esotico da non poterci appartenere, si cade, a mio

avviso, in un grave errore. Liberandosi, infatti, di questo velo etnocentrico

che rischia di farci vedere tutto il resto come qualcosa di tremendamente

retorico e “inferiore” (quanti, infatti, associano la mancata emancipazione

delle donne ad una società considerata minore rispetto a quella

occidentale), ci rendiamo conto che il discorso vale a livello universale, e

non solo per le donne, ma per tutte quelle parti di popolazione sfruttate

ed emarginate. La condizione delle donne non è infatti da ricollegare al

suo (socialmente costruito) status di sesso debole, ma ad un tentativo di

provocare una guerra tra poveri che crei dei vincitori e dei vinti all’interno

dello stesso strato sociale emarginato. In questo modo non c’è coesione

e non c’è vittoria. Il movimento zapatista abbatte questa divisione per un

bene più comune: la libertà. Non si tratta più di uomini e donne, di

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emancipazione e di presa di potere, ma di sopravvivenza e di esigenza di

rispetto. Le donne zapatiste non vogliono più sentirsi “altro” rispetto ai

propri compagni, non vogliono rappresentare la popolazione passiva che

subisce ed è vittima dei cambiamenti. Vogliono formare insieme a tutti gli

altri in quanto persone, e non in quanto appartenenti ad un sesso invece

che ad un altro, un’ alternativa. E questo, se si ragiona un attimo, non è

poi da noi così lontano.

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BIBLIOGRAFIA & SITOGRAFIA

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