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zo de cale

Mar 23, 2016

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Franco Pucci

Giù per la calle, in versi e pensieri.
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Franco Pucci Nato in un paesino della Bergamasca, dopo aver

frequentato le Scuole Tecniche con un profitto senza

infamia e senza lode, decide di comunicare con il mondo

esterno attraverso immagini e segni entrando così nel

mondo della grafica. Un corso serale triennale di Grafica

Pubblicitaria, tenuto da Albert Steiner presso la Scuola

Umanitaria, il lavoro e la passione per il mondo della

comunicazione lo assorbono totalmente non

impedendogli però di sposarsi e di contribuire a mettere

al mondo quattro figli. Un’esperienza di 4 anni come

disegnatore tecnico presso aziende e studi di ingegneria e

architettura e poi il salto nel mondo della grafica pura. La

sirena della pubblicità e della televisione lo cattura

definitivamente e per oltre un trentennio si occupa di

creatività nella comunicazione come Direttore Creativo di

agenzie e strutture promozionali nazionali e

internazionali. Pubblica le sue poesie e i suoi scritti sul

blog www.francopucci-bricole.blogspot.it e sul sito

www.rossovenexiano.com

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Acqua alta

oggi non scrivo, dipingo pensieri chiudo gli occhi

e sogno gabbiani e velieri chiudo gli occhi

e ascolto il respiro del mare dei tuoi occhi ricordo solo il colore [oggi non scrivo, il tempo uggioso spinge alla noia, chiama il riposo mentre attendo che ritorni la luna ascolto le voci della laguna] oggi non scrivo, dipingo pensieri chiudo gli occhi

e vedo un mondo a colori chiudo gli occhi

e sento rumore di pioggia tra mare e cielo il saluto di Chioggia [oggi non scrivo, c’è acqua alta i miei pensieri vagano in barca nella laguna è rimasto un airone ad occhi aperti non c’è emozione] oggi non scrivo, ho sbiaditi pensieri tutta quest’acqua ha sciolto i colori ho chiuso gli occhi, vado a dormire ma domani li apro e torno a sognare

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Anche le vongole sorridono Dapprima fu un sibilo. Quasi un sospiro umido, colmo di sabbia poi lentamente le valve si atteggiarono e tutto mi fu più chiaro, lampante: anche le vongole sorridono. Poi lo stupore. Giocherellavo tra le dita il bivalve spiaggiato suo malgrado. Pensieroso, malaccorto dell’evento rimiravo il solito frullare d’ali. Convenni infine: “alla prossima fermata dello sgangherato autobus della vita scenderò al convitto dei matti!” Amabilmente sorrisi alla vongola. Non so perché, ma ancora sorrido…

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Astu visto? “Tasi mona de un cocai!” Certo che ho visto mio gabbiano saccente avessi le tue ali non morirei così al tramonto tra il mare che nereggia e il sole che strazia le ultime pennellate d’azzurro che respiriamo. Ho visto l’ultimo bragozzo rientrare ansando e il nugolo bianco di famelici becchi seguire mentre braccia stanche gettavano in mare relitti d’argento per un banchetto annunciato. Ho visto il saluto rubato sulle labbra al molo mentre il legno salpava e la speranza ardeva il cuore e l’attesa della donna tra le reti stese come velari nel pudore di una muta preghiera. Ho visto piovere col sereno a scolorire il vino del vecchio seduto sulla pietra della banchina occhi persi nel mare piangeva un antico dolore stringendo forte tra le mani una piccola croce. …ho visto il mare amico mio, ho visto…

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Chioggia, esagerata femmina ostenti la tua bellezza come una poesia sfacciata aspra pungi col salmastro delle reti stese sui bragozzi in sonno impudica ammicchi tra i gabbiani rubando il verde alla laguna forte sfidi il mare nell’attesa senza lacrimar i tuoi uomini schietta dichiari il tuo amore per la vita senza mezze misure …donna!

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Chioggia Chioggia, come lisca di sogliola spiaggiata nell’incanto della laguna riarsa dal sole e levigata dal vento abbaglia il nuovo arrivato e lo cattura con la magia del suo cuore antico. Allegro brulicare di voci cantilenanti in altalena lungo la spina dorsale che sfuma lentamente verso le calli attirato dal richiamo dei pescatori e lo stridore dei gabbiani nei canali. L’orgoglio antico di chi sfida il mare a guardia lassù, issato in piazza Vigo, racconta la sapienza, il coraggio innato di chi ha attraversato secoli di storia piegando la natura al suo cammino. Diversa da tutto quello che ti aspetti offre stupori ogni giorno a chi vi arriva a chi la percorre su e giù per le calli a chi la spedisce verso altri lidi lontani a me che l’ho scelta ha offerto il cuore.

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Domani farà bello, hanno detto… "...i avarave ciamà belo per doman…" Quel repentino, lattiginoso strato di nebbia sembrava bambagia sfilacciata tra le dita che saliva silenziosa posandosi sulla laguna e come algido sicario ne affogava i colori. Testarda una lama di luce bucava la bruma, creando sull’acqua trasparenti arabeschi, mentre il peschereccio si perdeva nel limbo la sirena urlava il suo commiato dal molo. L’orizzonte m’apparve come sogno concreto che da tempo rincorrevo e protesi la mano, solo stracci di nebbia rimasero appesi alle dita. Con la voce arrochita dall’umido salmastro bestemmiai alla caligine la mia delusione. "…i avarave ciamà belo per doman…" Straziò la voce stridula ma ne riconobbi il tono, lo schioccar del becco e il frullar d’ali felpato lacerarono come artigli il velo dell’amarezza e nella laguna ovattata rispecchiai il mio sorriso. …come sempre avrai ragione tu amico mio.

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…e il mare dintorno… Una fitta lancinante, uno stropicciato fruscio e il mio volo traverso muore su questa bricola. Osservo, il capo reclinato, l’insolito planare della penna timoniera che si avvita lentamente e dolce va ad ammarrare sul crespo delle onde. Il mio timone, la mia guida sicura lassù nel cielo, improvviso mi ha lasciato orbo dei suoi occhi. Ora lieve, come stranito e inconsueto naviglio, solca dondolando e senza alcun rumore il mare. Seguo rassegnato il suo mutevole navigare mentre allontana inesorabilmente la speranza di futuri voli con rotte sicure, così senza governo. L’illogica linea che laggiù recita l’inizio dell’infinito attende il piccolo relitto per fagocitarne l’arrivo. Il cielo incendia l’orizzonte e la vampa proietta una piccola ombra che piano scolora nel cobalto. Chiudo gli occhi feriti dal furore dei riflessi ramati, mentre artiglio nel sonno il mio incerto domani. …e il mare dintorno…

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Fa diesis alcune rotolavano sul bianco del lenzuolo steso al sole ad asciugare tra rossi gerani un gentile garbino lo tendeva come vela di un legno salpato in crociera visionaria altre saltellavano tra le volte dei portici, note ribelli che l’uomo liberava assorto adulando con l’archetto il vecchio violino ma sorda l’indifferenza scorreva accanto senza una guida, un rigo di pentagramma nell’anarchia assoluta dipingevano canti dolcemente il violino spegneva il respiro e l’uomo socchiudendo gli occhi assopiva lo trovarono sotto un sorriso addormentato scarmigliato l’archetto, reclinato sul violino un pugno di note incatenate tra le corde sognava libertà, nuovi cieli da incantare …Fa diesis si risvegliò tra i gerani…

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Fiori di loto, acqua e sale Stamattina ho raccolto stupendi fiori di loto migranti sulla laguna. Non ci credete? Fate bene, non è vero. Oggi le sue acque indifferenti mi propinano solo alghe putrescenti. In queste acque mi specchio e l’immagine che mi torna, seppure spezzettata dai riflessi, mi parla di nuove storie, di nuova vita. Ho lavato in laguna le mie ferite e l’acqua salata le ha cicatrizzate definitivamente. Ora il sole provvederà ad asciugarle, le ho stese accanto alla mia anima, appese ad un filo che unisce il mio cuore a queste parole. Così, mentre mi perdo con passo più leggero tra calli e ponti, respiro a pieni polmoni la magia di quest’isola che non c’è e, come un Peter Pan un po’ acciaccato, attendo l’arrivo di Campanellino discutendo coi gabbiani del più e del meno. Anche per oggi la mia cura a base di fiori di loto, acqua e sale, produrrà i suoi effetti benefici, devo solo stare attento a non esagerare con le dosi, i fiori stanno finendo…

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Flamingo Bar Le ombre allungano i fiori stampati sulle tovaglie, il brusio accaldato scioglie il ghiaccio negli aperitivi. La professoressa interroga le amiche, e il ragioniere assorto annota colombi persi tra le noccioline. Tre vecchi leggono i capitoli della vita contando ad alta voce le rughe sui loro visi. Il vociare dei tacchi sul selciato del Corso è consueto commento allo “struscio” serale, mentre i rintocchi delle campane inseguono il morire del sole nella laguna. L’incanto è un attimo, la bolla di silenzio ondeggia sospesa, poi s’infrange sul muro di voci, richiami, risate.

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Lo scampanellio delle biciclette, la brezza del mare, scompigliano, accendono i toni. …e le nostre parole rimbalzano mute sui cristalli aranciati nell’imbrunire di un pomeriggio al Flamingo Bar.

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Grigio airone Cinereo acrobata librato tra opaline coltri d’ovatta e liquida lastra di grigio riflesso d’inquieti umori, come aliante circospetto silente sorvola planando. Mimetico, tono su tono, nulla, se non un fruscio, una tenue bava di vento che accarezza le canne e corruccia lieve il piano, rivela la sua presenza. [un bagliore argenteo lungo un istante, laggiù... brillano gli occhi rapaci, e il becco, lama di falce] Un tuffo, un colpo felpato buca il fermo immagine di una trama monocolore. Arruffa l’apatica scena, protagonista della recita, il sicario coatto della vita. L’airone, nel grigio.

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I pescatori de Ciosa l’andatura ciondolante ad anche aperte cappellini di lana grezza calzati sulle ciglia occhi cerulei taglienti di sguardi fissi al mare visi come pietre erose dal sale e dalla bora la sigaretta eternamente spenta pone l’accento sul sorriso che accompagna il saluto amico le parole dondolando sottolineano la cadenza del parlare altalenante come il rollio della barca li incontro ogni mattina sul Canal Lombardo gente schiva, dal fare ruvido come le mani che troppe volte hanno tirato a secco reti vuote e ogni giorno santifica il mestiere di Pietro la lunga teoria di pescherecci attraccati al molo lo stridio dei gabbiani eccitati dall’odore penetrante gesti misurati dall’esperienza che il mare insegna voci arrochite dal fumo che si rincorrono musicali e il dondolare cadenzato del dialetto chioggiotto che timbra inconfondibilmente il levare del sole

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Ieri, un fiocco di nuvola L’urlo disperato di un gabbiano, forse troppo in alto e troppo solo, falciò come erba gramigna il piccolo campo di nuvole che andava rosseggiando all’Est. Fiocchi d’incredibile neve spolverarono il crespo tranquillo del blu all’orizzonte e il sole scopertosi nudo decise che non avrebbe atteso il canto del gallo. Un nuovo giorno. Una nuova stagione. La lama di luce ferì i miei occhi mentre il riflesso dorato si spezzettava in miriade di piccoli diamanti sul mare. Decisi allora che l’emozione valeva il tentativo di sollecitare la memoria ornai disusa a contenere le emozioni e le pulsioni che il cuore provava ciclicamente. Affannosa ricerca di un lapis, di un lembo di carta. Nulla. Nulla di tutto quello che sgorgava dal cuore e mi turbinava nella mente, sarebbe potuto essere annotato, scritto, tramandato. Angoscia. Il gabbiano smorzò il suo canto sgraziato producendosi in un’ardita quanto improbabile evoluzione e ammarrò poco distante. L’ultimo fiocco di nuvola planò dolcemente tra la neve che da tempo incorona il mio capo. Fu allora che decisi di violentare la memoria e scolpii nella mente il nome di quell’emozione: poesia. Sì, poesia, un banalissimo e scontato appunto nel block notes dei sentimenti, sottolineato con la matita blu dell’emozione. Ora è lì, campeggia solitario nel bianco. Lo spazio vuoto che le siede accanto attende da tempo che il fiocco di nuvola sciogliendosi porti via scolorando la neve degli antichi ricordi e le dita riprendano a inseguire il ticchettio delle parole. Lo stridio sgraziato del gabbiano ferì di nuovo il silenzio, era tornato lassù, in un cielo ormai senza nuvole. Troppo in alto, troppo solo. Un delirio, un sogno, chissà. Forse solo il desiderio di scrivere, ma l’urlo straziante della vita che falcia come grano fuori stagione uomini inermi, senza ali, in attesa di

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un’alba restia a mostrare il sorriso, rimbomba nelle orecchie. Guardo il cielo. Si sta annuvolando, il gabbiano è sparito. Straccio il foglio degli appunti, la poesia si accartoccia, la memoria resetta. Troverò un altro titolo.

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Il faro Vivido l’arancio inattinico della luce guardiana proietta ombre cremisi all’incendio del tramonto mentre riflessi rosso sangue graffiando il mare rimandano messaggi luminosi al buio incipiente. Ritornano i legni sparsi all’orizzonte al richiamo stridono le catene degli argani corrosi dal sale, i gabbiani scortano famelici il gratuito banchetto e danzano mille ali al ritmo colorato delle ombre. Orfano si oppone al cobalto della notte il chiarore della piccola torre solitaria, stanco il cuore pulsa, mentre la sua solitudine piange lacrime d’arancio un diadema di zaffiri incorona una luna vanitosa. [luci della ribalta per una pièce in eterna replica]

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Il gabbiano dagli occhi di falco Sono arrivato sin quassù con volo arcuato, ora aggrappato a questo lembo stracciato di nuvola riposerò le stanche ali di gabbiano mistificatore scruterò il palcoscenico con i miei occhi da falco. Stanco d’istrioniche esibizioni nel circo della vita dopo la superbia degli improbabili voli senza rete mentre con l’arroganza negli anni piombavo le ali ho trovato rifugio quassù, ai margini dell’immenso. Aspettami stanotte, scenderò e verrò a prenderti anche se l’amica luna fosse senza respiro e il buio fosse pece impenetrabile, come radar i miei occhi guideranno il nostro volo, sarà il clou della serata. Indifferenti agli applausi di un pubblico ipocrita, abbracciati nell’ultimo atto della nostra esibizione fianco a fianco appesi sulla nuvola vedrai l’amore nei miei occhi di falco, mentre laggiù il sipario cala.

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Il mare racconta se sai ascoltare il dolce sorriso nel declinar delle sere muta del mattino l’aspro raccontare allorquando le parole paiono sincere e i versi cantano l’ascoltar del mare [rotolando raccontano l’alitar dei venti abbracciano trepidi sospiri di amanti sciogliendo al sole parole inclementi trasformano in onde lacrime di pianti] col retino allora da provetto pescatore catturo ogni dire, ogni piccolo pensiero descrivo il suo canto rubandogli l’amore e le parole giuste per raccontar sincero

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Il respiro calmo della laguna A guardarla bene, la laguna pare un rifugio di cristallo per creature fiabesche, una boccia verdeazzurro incastonata nel cuore dell’isola, in attesa di una mano ansiosa che la scuota per interrogarla sul futuro, come si fa con le classiche sfere di vetro delle indovine. Oggi non mi va, non m’importa del futuro, voglio stare così, seduto sulla panchina, perso nei miei pensieri, occhi distratti sui riflessi improvvisi che i gabbiani in volo concedono alla lastra riflettente. Forse l’improvviso apparire di una magica creatura mi scuoterebbe dal mio inutile, quanto masochistico rimuginare. Ma tant’è, oggi ho riaperto uno dei miei zaini che regolarmente mi carico sulle spalle, quello dei ricordi, dei rimpianti, delle leggerezze. “Potresti evitarlo, sai che non lo sopporti, lascia stare” una voce dentro di me ammoniva con tono sarcastico. Lo scorrere impetuoso dei miei pensieri si ferma improvviso, la mano scorre automatica verso le spalle a incontrare il nulla, gli occhi cercano invano in ogni anfratto della panchina, nulla. All’appello manca il mio zaino preferito, quello che abitualmente riempio delle cose più belle, poche in verità ma importanti, fondamentali, due su tutte: l’amore e la poesia. Non c’è, nulla. Eppure ero convinto di averlo portato con me. Il rumore improvviso dell’alzarsi in volo di un gabbiano attira la mia attenzione, fisso il punto della laguna ora increspato dal piccolo gorgo d’acqua ed ecco che vedo apparire una massa scura, dapprima indistinta che si avvicina lentamente verso la riva. Viene verso me, con tutta evidenza, sospinta da chissà quale corrente o vento favorevole. Dapprima irriconoscibile, poi a mano a mano più precisa, inconfondibile: il mio zaino! Sì, quel mio piccolo, indispensabile ricettacolo della parte migliore di me.

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Sorridendo, ma stupito, mi chino e lo raccolgo. Mentre gocce verdeazzurro bagnano la panchina, uno sciabordio contro la riva attira la mia attenzione. Una voce severa, ma nel contempo rassicurante, mi lascia a bocca aperta con un senso di inquietudine tuttavia mitigato da una strana serenità, sicurezza: “Imperdonabile pessimista autodistruttivo, eccoti il tuo zaino. Portalo sempre con te. Non disturbarmi oltre”. L’aria ora è più tersa, l’azzurro del cielo si fonde magicamente col verde della laguna. Ora il respiro è più calmo.

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Il rumore del sorriso La nuvola bianca di gabbiani chiassosi e festanti insegue il bragozzo al morire del dì di pesca, m’interroga lo sguardo assetato di rosso tramonto catturandomi le labbra, aprendole al sorriso. Mille ali con ardite evoluzioni planano sulla spuma nella argentea scia, ospiti voraci del banchetto che il consueto operare del pescatore offre ogni giorno alla pervicacia del lacerante richiamo. Il passare del traghetto scompiglia la tavolata, torna la nuvola bianca e macchia l’azzurro morente mentre gli occhi ebbri del sole che si tuffa nel mare catturano lo stupore del muto volteggiar di ali. [nel silenzio, il rumore del sorriso]

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Io, il gufo e quattro topi sub La campana ha bussato tre volte, il gabbiano vestito da gufo vola rasente le calli alla ricerca di topi dislessici in tenuta da sub… Meglio tornare a letto e riprendere il filo di un discorso perso tra i sogni disperati di un’età avanzata. [La casa che solitamente li ospita ora mi appare improvvisamente ostile troppi inquilini volteggiano alti nei suoi cieli, abili rapaci vissuti tra pagine ingiallite colme di conoscenza e di sapere guatano da lassù laddove un ingenuo gabbiano trasformista non osa arrivare col suo volo.] Così, dismessi i sogni, torno a rasentare le calli vestito da gufo, beandomi della mia abilità e, fottendomene altamente di quei quattro topi pasciuti tra la polvere di vecchie pagine stinte, lascio sul selciato quattro mute da sommozzatore.

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La calle delle vedove Finestre come sorrisi spenti che la notte illumina mentre il brusio sale per la calle, le ombre cinesi si rincorrono sui muri scrostati inseguendosi ratte in pose invereconde dimentiche degli anni andati. Colori incredibili di chiome ridipinte ridono al vento, l’abile paraninfo che spazza la polvere dalle voglie, promette frenetiche danze al ritmo di antichi respiri che di notte si fondono sciogliendo amori mai sopiti. Mentre il canto indecente rimbalza sull’acciottolato i sorrisi piano si spengono, le finestre come bocche serrate disegnano il sonno nella calle delle vedove e il mare richiama le onde sbarazzine, il vento tace. E il mio sorriso ancora acceso…

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La nave va… La luce fioca della lampada traballante al vento danza le ombre, il lampione arrugginito si piega come fuscello al verde, le lastre sconnesse del selciato giocano a rimpiattino su e giù. Chiazze di acqua sporca nascondono insidie di piovre tentacolari il barattolo rotola urlando metallo duro a spaventare i gabbiani mani in tasca, bavero alzato, ciondolo disarticolato, indeciso. La panchina è sempre là in attesa, come ogni sera, alcova materna mentre inciampo in una nuvola e mollo gli ormeggi, la nave va… Ormai è largo mare, il riflesso argento della luna attira e confonde, vento in poppa la fantasia naviga, controllo la rotta facilmente, da vecchio lupo di mare, esperienza navigata presso tutti i porti della vita, angiporti fetidi, bettole infrequentabili, scorie ormai. Ora è mare aperto, la laguna è un ricordo, da lassù l’ancora fende le nuvole, sorrido soddisfatto mentre accosto. Seduto sulla panchina osservo con tristezza la nave disancorata che veleggia lentamente tra nuvole di perla allontanandosi… Ciondolo stancamente evitando tentacoli di piovre fameliche, mentre l’urlo metallico del barattolo come sirena ne sottolinea la partenza. Un ultimo sguardo alle nuvole lassù, la nave va…

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La saggezza dei gabbiani “Tutt’al più saranno la fame o gli amori incombenti della specie amico mio non chiedere oltre perché complicarsi la vita?” Un nuovo stridio, un frullo repentino ed ecco due piccole ali maestose lasciare veloci le acque del molo e la mia irrequietezza irrisolta. Sarà, ma nella mia specie uno stridere univoco non s’era mai udito diverse pulsioni, molteplici risposte da cucirsi addosso come più ci aggrada. Amico gabbiano torna stasera, ho altre domande per la tua saggezza.

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La sottile linea rossa tra il cielo e il mare ero morto ieri quando il maestrale lo urlò una nube di ali indecise improvvisa decise la rotta e mille aquiloni le fecero corona laggiù, laggiù dove il mare si scioglie nel cielo una sottile linea rossa attese di infuocare il tempo e una terra aspra aprì il suo ventre il legno prezzolato trasportò il corpo alieno sconosciuto ai battiti del mio cuore nel ventre raggomitolò e si acconciò all’attesa del sapere sono nato oggi quando la risacca ha vomitato sul livido litorale grigia cenere la linea rossa avea cremato infine l’arroganza dell’alieno mistificatore la brezza ora canta gli aquiloni hanno sconfitto il tempo miriadi di voli anarchici ricamano il cielo e accompagnando note in libertà rimandano navigati vagiti come do di petto

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Là, oltre il limite del colle, la laguna attende E’ un lungo trascinare l’anima pei campi, aridi solchi dove il grano germoglia annoiato ai piedi del colle che lo assiste accigliato c’è quel sentiero che allarga l’orizzonte. Sali a cogliere l’azzurro, abbandoni il solco, oltre il limitare del tuo sguardo, tra i castagni, il sole sta morendo, ma tu non te ne accorgi. Al dolore del richiamo risponde l’ignavia e la ragione non ti interpella, il cuore non mente è quasi inutile la fuga verso l’approdo sicuro. Il verde acqua attende, silenziosa compagna ha pronte nasse e reti acconce alla bisogna mentre la laguna dà sapore ad ogni mutamento e bianchi fiori di loto fagocitano il sale dei ricordi. Là, oltre il limite del colle, dove lo sguardo insiste, là dove il giallo grano muta colore fondendo l’azzurro e la ruggine delle foglie scolora, mentre la tua insicurezza si inabissa nel fuoco liquido del rosso orizzonte là, oltre il limite del colle, protagonista di una nuova recita metterai in scena un’inverosimile farsa della vita, ed il sipario calerà sull’ipocrisia della tua maschera. [getto le reti, mentre l’oro del grano ammalia i gabbiani]

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Lacrime di laguna e perle di cristallo L’onda s’infranse contro il muretto che recinge e delimita la laguna del Lusenzo. Miriadi di goccioline come piccole, coloratissime perle di cristallo istoriate di magici riflessi rotolarono sparse sui sampietrini che attoniti assistevano all’evento. Pareva fosse un moto di stizza, di rabbia, chissà. Forse il passaggio continuo dei motoscafi e dei motori, rompendo in continuazione la calma e la serenità dell’istante avevano provocato quella reazione. Improvvisa ma contenuta, tutto sommato, seppure energica. Seduto sulla solita panchina, che ormai conoscendomi a fondo non si stupisce più delle mie assurde ed improvvide considerazioni, osservavo l’evento. Fui preso dalla incontenibile, assurda voglia di catturare qualcuna di quelle piccole perle iridescenti. Volevo farne una collana, affinché tu mi perdonassi delle mie continue assenze. Sarebbe stata benissimo sul tuo collo, un mirabile e unico gioiello da far invidia alle murrine di Murano. Incredibile! Si può essere gelose di una laguna? Certo che si può, quando la natura sfodera tutta la sua magica bellezza. Così dentro di me speravo nel nuovo passaggio di qualche stupido e rombante motore che avrebbe sicuramente prodotto l’effetto sperato: la rabbia della verde azzurra fata e la conseguente onda. Mi lesse nel pensiero e, nel silenzio più assoluto e benché niente potesse giustificare una sia pur lieve increspatura dell’acqua, innanzi a me venne a infrangersi una piccola, gentilissima onda che mi regalò una miriade di minuscole, iridescenti, perle di cristallo.

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“Grazie” – sussurrai- attonito. Una voce ormai a me nota rispose: “Non sono perle, vecchio credulone ma lacrime” In quel momento il rombo di un motoscafo ferì la magia dell’istante e un’orrida e untuosa macchia di petrolio venne a lordare il muretto, picchiettando di nero pece il cotto dei sampietrini. “Lacrime, ricordalo, lacrime”, mi sussurrò la voce nell’infrangersi dolorosamente contro la riva. Ne conservo ancora una nel mio fazzoletto, ogni tanto trasluce tra lo sporco di petrolio. La collana di perle che ti ho regalato non è la stessa cosa.

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Laggiù Laggiù, laggiù dove lo sguardo si perde il mare si confonde con l’erba della valle e il cielo sprofonda dietro l’ultimo scoglio mentre il verde si fa ruggine al tramonto. Nella gran confusione mentale il vecchio non riconosce stagioni, mistifica gli anni, confonde la realtà col sogno di un amore soffice coperta con cui scaldare il cuore. L’ingiuria degli anni ormai l’accompagna e cammina accanto al suo passo incerto, ma sorride il vecchio al bimbo che lesto gli ruba la mano reclamando il suo tempo. Laggiù, laggiù dove lo sguardo si perde il mare attende inquieto la tua vela antica carica delle foglie arrugginite dall’autunno bianca di neve e sale sul cassero stanco. Avvampa il cielo mentre il blu va a morire il bimbo ha perso la tua mano e ora corre a piedi nudi sul verde prato del tuo sogno tra realtà e fantasia si perde nella poesia. Laggiù, dove i vecchi torneranno bambini.

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L’ultima bricola, poi è mare aperto ho lasciato l’ultimo paio di ali appese, appiccicate al muro con uno sputo di cera Icaro non è mai stato l’eroe dei miei fumetti e le metafore sono alibi per versi senza parole non sono un gabbiano né tantomeno poeta ho provato a volare finché la cera ha tenuto ho nuotato nel veleno che avevo inghiottito evitando le secche e seguendo le rotte che le bricole saggiamente mi indicavano …ora è mare aperto… un sottile senso di angoscia mi affonda appesantisce il respiro volgendomi a oriente la catena rossa che fin qui mi ha trattenuto sospeso tra sogno e realtà, si allontana pencola come filo spezzato dalle nuvole poche bracciate ancora, l’infinito è laggiù le ultime parole rotolano senza rumore lungo la calle indaffarata, un leggero alito le sospinge straziandole a morire nel canale …forse era poesia…

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Messaggio in bottiglia (una notte di fine Ottobre) [un tonfo inatteso stanotte ha straziato il silenzio con un fragore assurdo è rotolato nella calle] I sampietrini rimandavano echi di note spezzate gelide rimbalzavano come cubetti di ghiaccio sull’acciottolato inseguendo lo scorrere dell’acqua. Lo stridente rumore di questa notte frantumata lacerava come rasoio affilato un’anima intorpidita dalla lunga agonia di una apatica dimenticanza. [brillava di luce sinistra il vetro nella notte lunatica feriva lo sguardo il suo lucore riflesso nel dondolio] Fu un lampo la discesa in strada, breve la rincorsa e fiato mozzato la presa al collo della bottiglia ma il contenuto pietrificò la mia insonne ingordigia. Mentre l’acqua moriva la sua corsa senza gemito l’urlo di un gatto innamorato avverso alla luna sfiniva le attese di una quiete altrimenti abusata. Le parole scolorirono nel foglio tra le mani tremanti. quando la luna beffarda ingiallì in un ghigno sdentato. Passò un’allegra processione illuminando il canale, mille lucciole ondeggianti irrisero la mia stupidità e il messaggio fu risata che arrossì i battiti del cuore. …vuoto a perdere…

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Nella rete i pescherecci attraccati al molo questa sera sono scheletri che l’onda fa dinoccolare legni dai colori sgargianti erosi dal mare reti, sartiame e ferro, odor di pece nera ombre riflettono sull’acqua tremolante gabbiani in lite che volano a bassa quota osservo rapito sfiorar le ossa al natante ma cado nella rete di un’altra notte vuota

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Non era ancora neve (un Natale anzitempo) non era ancora neve qualche fiocco in libera uscita giocava a rimpiattino tra le calli è stata l’emozione di un attimo, poi il bianco si è slavato nella laguna un quarto alle tre i rintocchi hanno prodotto una eco che rotolando sui sampietrini ha svegliato stanchi guaiti di cani e il gatto si è infilato tra gomitoli di reti chi parte e chi torna rumoroso andirivieni di pescherecci che attraccano o salpano pensosi richiami cantilenanti di voci arrochite guidano manovre di stanche braccia non era ancora neve improvviso il vento ha riproposto uno scherzo di tormenta in miniatura nel silenzio irreale del canale imbiancato un rumore conosciuto mi ha spinto al poggiolo quattro zoccoli rossi una piccola renna dispettosa sfuggita chissà da dove alle redini correva allegra sui sampietrini della riva sollevando polverosi ricami di neve non era ancora neve

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Oltre il canneto Il nero seppia della notte colava come densa pece sulle canne che a fatica alzavano, tra grovigli inestricabili, sibili di dolore trasportati dal vento. Il rumore dei passi concitati a spezzare giovani vite, deflorava il silenzio rabbioso di un cielo impotente. [oltre il canneto, là in una piccola oasi, ove ogni espressione della natura era regolata da un tempo magico, il mio cuore in attesa contava i passi danzando il rumore delle canne spezzate] Con un lacerante grido di dolore il vento mi portò l’ansimare dei tuoi capelli sciolti nella corsa affannosa e il candore del sorriso che sbiadiva il nero della notte, mentre le canne si levavano in volo, vestite di stupendi colori, come falene improvvise. [furono le ultime immagini, prima che il sogno svanisse oltre il canneto]

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Orme e dintorni Strane impronte le nostre, schive, convesse, abili nel respingere qualsiasi velleitario tentativo di memoria, restie al trattenere il più recondito ricordo dei nostri passi. Strane impronte le nostre, niente viene raccolto, tutto sfugge via, lasciando irrisolte le azzardate premesse. Ah, la concavità! Superbo ricettacolo di umori, passioni e ricordi a cui attingere a piene mani alla bisogna. Camminiamo circospetti sulla rena di un mondo alieno, convesso, capovolti a cercare un cielo che ci accolga, finalmente amico mentre anche i dintorni non raccolgono orme e la vita scivola, scivola…

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Orme abbiamo camminato insieme a lungo sulla sabbia non v’è traccia del passato, il mare ha cancellato il cammino percorso dimentico dei passi perduti, continuo a camminare con te al mio fianco vite parallele che cercano di incontrarsi ingannando la geometria il vento e il mare giustificano questa speranza cancellando i nostri sbagli come passi nella sabbia

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Polena, lignea falena Galleggiava altera e impettita, a volte rotolando s’immergeva e scompariva per riapparire capovolta. Il viso bruciato raccontava il sale di mille mari avversi mentre piano, dondolando lentamente, si avvicinava. Improvvisa nel gorgo s’inabissò per riapparire vicina, il suo sguardo ligneo e fiero m’interrogava divertito. L’ultima capriola rese i resti della sua bellezza antica, dea giunonica scolpita dalla vanità degli uomini. Il sorriso riarso si spense in una smorfia sghemba rotolò nuovamente e s’immerse per non riapparire. Lentamente alzai lo sguardo all’orizzonte, dondolando in lontananza un pezzo di legno galleggiava distratto. Si allontanò inseguendo docile i capricci della corrente. L’immagine di quel sorriso spentosi improvvisamente è rimasta scolpita nel mio cuore come stele a monito della caducità della bellezza, effimero volo del tempo.

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Quelle sere Non so se hai presente quelle sere guardando il mare in cui la tristezza sale piano al cuore e la fa da padrona, una di quelle sere di straziante bellezza dove le luci delle stelle nel cielo sembrano lacrime appese nel buio. [e tu sei lì, accucciato nell’angusto spazio dell’anima che la tua melanconia ha ricavato tra i suoi anfratti e ascolti distrattamente i lamenti che la calle rimanda] L’urlo strozzato del solitario gabbiano in amore che da troppe sere insegue una compagna qualsiasi, il lamento metallico dei pescherecci ormai vetusti, che come crocchiare di scheletriche ossa, tutto avvolge. [e tu piangi, non sai perché, ma piangi] Lacrime asciutte, come rasoi affilatissimi, ora sezionano le emozioni soffocate che affiorano dall’apnea dei ricordi. Lentamente, un falso sorriso tra i denti, chiudi gli occhi mentre con l’ultimo sospiro una lacrima infine scende. Non so se hai presente, ma quelle sere io piango.

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Riflessi e riflessioni La laguna ora è immobile, pare una lastra di vetro riflettente verdeazzurro. Aironi e ibis come spiedini infilzati nella rena a testa ingiù cenano allegramente. Acqua falsamente morta, senza alcuna increspatura, regala serenità ipocrita. Placidamente seduti, respiriamo a pieni polmoni una tranquillità altrove negata. Come in slow-motion il film della nostra vita scorre sulla traslucida superficie, sorridiamo mentre le mani stringono ricordi di vita pienamente vissuta. Ecco, chissà perché ora rasserenati, come due giovani i cuori si stringono. L’abbraccio della laguna avvinghia, sfrontatamente ma serenamente propone amore. Amore, affetto, che importa, quando il passo è unico e il battito ha lo stesso ritmo. Un airone cinerino litiga la sua preda con un gabbiano prepotente, sorrido, sorridiamo. Mano nella mano la laguna scompare alle nostre spalle mentre ci allontaniamo. L’incedere è lento, continua la slow-motion: il verdeazzurro riflette le nostre immagini. A testa ingiù, come due aironi. Spiedini infilzati nella rena della vita a caccia di sogni.

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Stanotte vado a pescare ho stracciato i miei pensieri in tanti piccoli, minuscoli pezzettini ho gettato i coriandoli delle mie angosce nel canale sotto casa e mi sono fermato ad ascoltare il motore dei pescherecci in partenza hanno galleggiato a lungo nello scuro dell’acqua, ho atteso invano che il mulinello li inghiottisse, niente da fare sono rimasti lì irrispettosi, vendicativi frammenti di pensieri notturni indesiderati e stancamente abortiti ho chiesto un passaggio ed ho preso al volo un peschereccio stanotte lascio che le mie angosce affoghino nelle acque del porto su un battello chiamato “poesia” vado a pescare, non aspettatemi

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Struscio d’anime Escono alle cinque quando le ombre si allungano sul corso e l’antico acciottolato sopporta in silenzio il continuo logorio. Anime irrequiete che si sfiorano annusandosi come randagi, sgranano insulse parole come rosari rimandati a memoria, con falsa meraviglia motteggiano sorpresi l’incontro fortuito e sorrisi inebetiti, nascondono ataviche asociali indifferenze. Mentre l’opportunità bara al tavolo della comune convivenza echi di noia provinciale bruciano narici come zaffate sulfuree e ammantano le anime discinte imbellettandole orridamente. Lo spettacolo rutilante di falso perbenismo continua alla sera calze a rete, guepiere licenziose divinano rotondità eccessive nessuna vergogna è ammessa nell’eterno gioco dell’apparire. Anime in mutande di lana caprina che celano virtù indecenti.

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Tre piccole rose gialle La macchia gialla in lontananza ondeggiava piano, il verde acqua della laguna la inghiottiva e risputava. Così, in un gioco a rimpiattino, con i suoi riflessi argentati la luna mi rimandava una strana danza colorata, catturando la mia attenzione altrimenti addormentata. Scrollandomi di dosso una noia abbarbicata come cozza mi alzai in piedi pronto al un nuovo gioco, alla sfida. Solo tre pietre, pensai, solo tre per colpire il giallo… La macchia gialla appariva e scompariva. La prima pietra fuggì lontano, un tonfo sordo ne salutò l’arrivo .La macchia riapparve ondeggiando, irridente ora si avvicinava. La seconda si inabissò assai vicino ed il rumore fu gemello. Ancora una, pensai, ancora una. So far di meglio. La macchia riapparve, la terza pietra mi scappò quasi di mano. Arrivò a destinazione. Il giallo scomparve nell’acqua, gemendo. Mi avvicinai alla sponda con un senso di angosciosa attesa: tre piccole rose gialle dondolavano nell’argenteo riflesso della luna. Una era screziata di rosso. Di nuovo quel gemito.

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Tutto normale, maledettamente normale [il caffè delle sette che ricorda disperatamente quello delle tre il conato di vomito a incenerire il led rosso dello stand-by della tv il rifugiarsi tra i cedevoli servi muti della tastiera davanti al monitor il quotidiano esibirsi di maestri e legulei che vendono aria scritta] Arresto il sistema. Spengo il computer. Attendo la compagna mentre rimpiango le attese dell’amore. Il vociare cialtronesco e irritante che rimbalza nel porticato copre a fatica l’eco metallico delle ruote del carrello sull’acciottolato, la spesa alla Coop sotto casa, oggi come ieri, domani ad libitum. <<Gli sconti! Dai compriamo, che non si arriva a fine settimana>> Il “tre per due” che non fa mai “sei” con buona pace del Marketing e il mio disagio nella consapevolezza d’aver passato anni a creare impossibili bugie mistificando con la creatività inutili consumi. E infine lui. Oggi, come sempre. Lo incontro tutte le mattine appoggiato al muro o seduto al tavolino del bar che cristianamente lo accoglie come in chiesa.Tutti lo conoscono, forse lui non si riconosce chissà…Una colonna di fumo nero soffoca la calle. Gente che corre, urla. Alte lingue di fuoco distruggono il magazzino dove l’uomo vive e minacciano una scuola dappresso. Sirene, concitazione. Lui fuma, fissa un punto lontano, la cosa pare non riguardarlo, seduto al solito posto, lo sguardo perso nella sua serena normalità. …tutto normale, maledettamente normale…

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Vola basso, mi raccomando! non guardarmi così sarà l’euforia che guida questi miei maldestri tentativi di prendere le misure all’azzurro sconfinato scavando tra le nuvole ancora implume ho piccoli tentativi da spendere nell’impresa ho avuto fretta, lo so d’altronde la gestazione è stata lunga e tempo si è perso illudendosi nell’inseguire traiettorie improponibili a chi privo di ali arrogava il diritto di alzarsi in volo senza averne conoscenza alcuna ho sorriso infine quando ormai appesantito due moncherini hanno visto la luce non ho atteso che la natura compisse il suo percorso credendomi già gabbiano ho sfidato l’inevitabile imperizia dell’arroganza ora attendo che l’azzurro sia clemente e mi dia cura di lenire le ferite nel frattempo fammi da guida e insegnami a volare amico miole ali sono ancora piccole e le piume della modestia stanno crescendo volerò basso, te lo prometto!

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“zo de cale” Non è uno zefiro gentile quello che preme le spalle stasera e affretta i passi sotto i portici. Racconta l’antica storia del mare sui volti terracotta dei pescatori, sibila tra nasse stese ad asciugare. [non mettermi fretta, ho capito torno a casa, ecco, giro l’angolo] No, non è uno zefiro gentile. Mentre la calle muore nel canale folate irose bucano come spine. Il vento ha accartocciato la notte dai lembi briciole di stelle fuggono e il cielo pare avere il morbillo. [gocce di luce giocano a gibigiana sulla carta argentata della laguna] “zo de cale”, il vento è magia. *(giù per la calle)

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