E’ chiaro che Ulisse si presenta come l’eroe dell’astuzia e
dell’intelligenza, doti però ambigue e diversamente leggibili e
interpretabili come ci conferma un rapidissimo sguardo ai grandi
auctores latini:
1) Orazio, Seneca ne parlano come di un uomo
desideroso, sopra ogni cosa, di conoscenza. Così dice di
lui Orazio, nella seconda epistola del I libro (vv.
17-22):
Si propone, come utile esempio di ciò che possono virtú e
saggezza (quid virtus et quid sapientia possit), Ulisse, che dopo
aver vinto Troia, si preoccupò di conoscere le città e i
costumi di molte genti (multorum providus urbes, et mores
hominum inspexit), mentre sull'ampia distesa del mare, cercando il
ritorno per sé e per i suoi, soffrì travagli d'ogni genere, senza
lasciarsi mai sommergere dai marosi dell'avversa fortuna.
E Seneca, in un passo del De constantia
sapientis (II, 2), per elogiare la saggezza di Catone
l’Uticense, ricorda che nei tempi antichi altrettanto saggio era
ritenuto Ulisse:
(…) quanto a Catone, gli dei immortali ci hanno dato un esempio
di uomo sapiente ancora più alto di quello che ci avevano dato con
Ercole e Ulisse nei secoli precedenti. Questi ultimi
infatti vennero dichiarati sapienti dai nostri (maestri)
stoici, perché invincibili nelle fatiche, sprezzanti del
piacere e vincitori di tutte le paure (sapientes
pronuntiaverunt, invictos laboribus et contemptores voluptatis et
victores omnium terrorum).
Diversamente Ovidio, nel libro XIII delle Metamorfosi,
nel riportare la contesa per ereditare le armi di Achille fra Aiace
ed Ulisse (contesa vinta da Ulisse grazie all’abilità della
parola), lo chiama hortator scelerum, istigatore di
scelleratezze.
Per Virgilio il cui obiettivo ci dice Servio era “ Homerum
imitari”, Ulisse è “scelerum inventus” “fandi fictor “ 9, 602
E sarà credo, proprio il modello virgiliano, amplificato dal
commento serviano, come suggerisce l’immagine, che segnerà la
lettura proposta da Benoit che arricchisce gli scarni elementi
forniti da Ditti per costruire un vero e proprio racconto
dell’ultimo segmento di vita dell’eroe:
Molti sono i luoghi che potremmo citare per mostrare le
nefandezze di Ulisse
Vediamo che intanto l’attenzione su Ulisse si concentra nel
momento del ritorno come l’Eneide e l’Odissea:
Intorno a questa figura di cui Ditti ci narra le gesta l’autore
si inserisce per commentare e chiosare:
Ensi com jo vos ai conté
E com es Livre ai trové
Avint de cest destruiement,
Des ore orreiz com faitement
Ravindrent lor grant encombrier
E lor damage grant e fier,
des ore orreiz lor destinees:
quant jos voi avrai recontees,
ne direiz pas qu’a nule gent
avenist onc plus malement.
Tuit alerent puis, ço lison,
a duel e a perdicion. (Vv, 26590-26602)
La distruzione di Troia avvenne come vi ho descritto e come ho
trovato scritto nei libri. D’ora in poi udirete quali altri grandi
ostacoli e quali grandi e terribili lutti affronteranno i greci.
D’ora in poi udirete quali furono i loro destini : dopo che ve li
avrò raccontati , direte certamente che a nessuno mai sono capitate
sofferenze più terribili
Per Benoit invece Ulisse è tramatore di inganni e in questo è il
modello virgiliano ad agire con forza e a suggerire anche
l’aggettivazione, è l’Ulisse FOTO
Per Virgilio il cui obiettivo ci dice Servio era “ Homerum
imitari”. Ulisse era “scelerum inventus” è a lui la colpa di avere
condotto troia alla rovina. E’ lui, e cito un episodio poi ripreso
da Benoit a tramare contro Palamede, come ricorda Sinone En 2,
81-96 e adisputare con Aiace le armi di Achille in un modo che
ricorda il Palladio e il famoso inganno del cavallo.
Ed ecco nel romanzo francese, dove la dialogia si fa occasione
di ampliamento prospettico, l’astuzia di Ulisse farsi oggetto di
dibattito
veda (vv. 26639 ss) la disputa sul Palladio, statuetta di
Minerva, occasione per contrapporre al tramatore d’inganni un Aiace
combattente. Alla laconica osservazione di Ditti
Ditti, libro V, cap. 14
Ma un’aspra quistione insorse tra i capitani a cagione del
Palladio, domandato avendolo Ajace Telamonio in premio di quanto
colle opere del braccio suo valoroso e della sua sagacità avea
fatto (…) Rimasero contendenti Ulisse ed Ajace ognuno dei quali
faceva somma forza per averlo, mettendo innanzi entrambi quanto
aveano fatto.
Si trasforma in contrapposizione polifonia: Ulisse rivendica la
sua capacità di astuzia come un valore positivo che urradia i suoi
esiti su tutti i greci
Sos bosoignassent mes conseiz,
Si come il ont fait autre feiz,
Quant jo vos trovai si afliz
E si atainz e si guenchiz triade agg
« Que par force e par estoveir,
Ne fust mon sens e mon saveir,
Vos en covenist toz aler, —
Affrontereste la questione in modo diverso se aveste ancora
bisogno dei miei consigli, che vi sono stati utili in tante
occasioni, quando vi ho trovato così affranti e così mal ridotti e
così scoraggiati che, senza il mio acume e la mia intelligenza,
sareste stati costretti ad andarvene tutti quanti.
e invece Aiace ribalta la posizione richiamando il peso di una
vittoria ottenuta a prezzo del tradimento:
«Dont vos ici faites vantance
Ne dont vos tant cuidez valeir
Que il vos deie remaneir.
Por ço, se vos estes trichiere
26710 E decevere e losengiere,
(E por ço que, par vostre fait,
Nos sera mais toz jorz retrait
Que parjures somes e faus
E mençongiers e desleiaus,
26715 «Bien nos avez apareilliez,
Bien en devez estre preisiez,
Que ço que faire deusson
Par proëce, senz traison,
Ço nos avez a ço torné
26720 Dont toz jorz mais serons blasmé,
Por c'est bien dreiz qu'il vos remaigne?
Cent dahez ait la vostre ovraigne ! (vv. 26706-26722)
E’ una cosa davvero ignobile e davvero vile quella di cui vi
state vantando e per cui credete di essere così tanto valoroso
perché il Palladio spetti a voi. Per cui sarebbe un valido motivo
perché il Palladio spetti a voi? Il fatto che* siete un baro, un
imbroglione e un lestofante, e che per colpa vostra ci verrà
rinfacciato per sempre di essere spergiuri, falsi, bugiardi e
sleali? Ma che bell’aiuto ci avete dato, bisogna proprio lodarvi
per aver trasformato in un motivo di eterno biasimo un’impresa che
avremmo dovuto compiere grazie al nostro valore, senza ingannare
nessuno. Sia cento volte maledetto il vostro inganno!
E dopo aver ribadito che di fronte ad Achille tutti sono
secondi, Aiace conclude:
«Plus amisseiz, n'en dot de rien,
27030 Le mal eslire que le bien ;
De vos n'eissi onques conseiz
Qui fust leiaus, dreiz ne feeiz.
Ne devez ja en lieu parler
O jo seie, ne demander
27035 Chose ou jo bé. Ne vos hauceiz,
Quar ço n'est pas reisons ne dreiz.
Non ho alcun dubbio che avreste preferito scegliere il male al
posto del bene; da parte vostra non è mai giunto un consiglio
leale, giusto e corretto. Quando ci sono io non dovete proprio
parlare o rivendicare una cosa che desidero io. Non celebratevi da
solo perché è una cosa ingiusta e insensata.
Il Palladio viene alla fine assegnato a Ulisse e Aiace, la
notte, viene brutalmente assassinato e non si suicida come in altra
parte della storia. Si sospetta della morte Ulisse che, sentendosi
braccato, fugge.
ma nella linea proposta è interessante il caso dell’inganno
perpetrato ai danni del prode Palamede.
L’episodio, di cui in Ditti si narra soltanto la tragica
conclusione:
II, XV
Nello stesso tempo Diomede e Ulisse s’intesero insieme per
togliere di mezzo Palamede (…) avendo finto di voler dividere con
lui un tesoro, che dicevano trovarsi in un certo pozzo, allontanato
ogni altro, proposero a lui che discendesse per primo; dove,
siccome non temeva di fraude, si fece calare con una corda; ma
appena fu al fondo, tolti a gran furia i sassi ch’erano sparsi
all’intorno, là giù l’oppressero.
Si sviluppa in Benoit con la narrazione delle false lettere:
Ulisse che era un uomo malvagio fino a tal punto odiava davvero
a morte Palamede perché era ben consapevole che l’esercito greco
non avrebbe mai fatto nulla, nessuna grande impresa, né in positivo
né in negativo se non glielo avesse ordinato, comandato e suggerito
Palamede. Perciò Ulisse lo odiava e gli voleva male e tramava
contro di lui. Ora udite che trappola gli tese a tradimento.
Scrisse due lettere con due diverse calligrafie e nei messaggi vi
era dunque la prova che Palamede si era messo d’accordo con i
troiani per tradire l’esercito greco in cambio di una ricompensa:
questo era scritto.
In filigrana ecco affiorare l’Ulisse virgiliano, che roso
dall’invidia trama contro Palamede, come ricorda Sinone En 2, 81-96
che riporta con l’aiuto dell’esegesi serviana l’intero episodio, si
vedano quanto scrive Servio che ritroviamo glossato nel vat lat
2761:
Servio non solo ricostruisce con cura le ragioni dell’odio fra
Palamede e Ulisse ma sottolinea il tarlo dell’invidia 2, 80:
FANDO ALIQVOD SI FORTE TVAS PERVENIT AD AVRES ‘dum dicitur’. Et
utitur bona arte mendacii, ut praemittat vera et sic falsa
subiungat. Nam quod de Palamede dicit verum est, quod de se
subiungit falsum. Et sciendum ex hac historia partem dici, partem
supprimi, partem intellegentibus linqui. Nam Palamedes, septimo
gradu a Belo originem ducens, ut Apollonius dicit, cum dilectum per
Graeciam ageret, simulantem insaniam Vlixen duxit invitum. Cum enim
ille iunctis dissimilis naturae animalibus salem sereret, filium ei
Palamedes opposuit, quo viso Vlixes aratra suspendit, et ad bellum
ductus habuit iustam causam doloris. Postea, cum Vlixes frumentatum
missus ad Thraciam nihil advexisset, a Palamede est vehementer
increpitus. Et cum diceret adeo non esse neglegentiam suam ut ne
ipse quidem, si pergeret, quicquam posset advehere, profectus
Palamedes infinita frumenta devexit. Qua invidia Vlixes auctis
inimicitiis fictam epistolam Priami nomine ad Palamedem, per quam
agebat gratias proditionis et commemorabat secretum auri pondus
esse transmissum, dedit captivo, et eum in itinere fecit occidi.
Haec inventa more militiae regi allata est et lecta principibus
convocatis. Tunc Vlixes, cum se Palamedi adesse simularet, ait ‘si
verum esse creditis, in tentorio eius aurum quaeratur’. Quo facto
invento auro, quod ipse per noctem corruptis servis absconderat,
Palamedes lapidibus interemptus est. Hunc autem constat fuisse
prudentem[footnoteRef:1]. [1: E’ nei margini dell’Eneide che si
deposita l’antica saggezza, Palamede tradito da una falsa lettera,
o la disputa sul Palladio narrato in E, 7 189, cioè una statuetta
di Atena rapita da Ulisse e Diomede ]
Intanto Ulisse continua la sua fuga finché giunge da Idomeneo re
di Creta. Questi chiede ragione delle misere condizioni in cui
versa Ulisse e questi allora « ... li a conté / Tot en ordre la
vérité, / Com c'a esté ne ou ço fu / E com ço li est avenu »
(28591-28594).
Ecco allora che, ancora una volta Ulisse, come già nell’Odissea,
si fa cantore del suo viaggio, un viaggio le cui tappe sono
rapidamente ricordate da Ditti
5
Percontantique Idomeneo, quibus ex causis in tantas miserias
devenisset, erroris initium narrare occipit: quo pacto adpulsus
Ismarum multa inde per bellum quaesita praeda navigaverit
adpulsusque ad Lotophagos atque adversa usus fortuna devenerit in
Siciliam, ubi per Cyclopa et Laestrygona fratres multa indigna
expertus ad postremum ab eorum filiis Antiphate et Polyphemo
plurimos sociorum amiserit. Dein per misericordiam Polyphemi in
amicitiam receptus filiam regis Arenen, postquam Alphenoris socii
eius amore deperibat, rapere conatus.
Approdò circa quel tempo stesso in Creta Ulisse con due navi
fenicie prese da lui a nolo(…) E domandandogli Idomeneo per quali
cagioni foss’egli venuto in anta miseria , incominciò a narrargli i
suoi errori; come approdato ad Ismaro, molta preda guerreggiando
avesse ivi fatta, e portata seco; e capitato poi nel paese de
Lotofagi e per contraria fortuna di là balzato in Sicilia molti
pericoli avesse incontrati per parte de’fratelli Ciclopo e
Lestrigone e de loro figlioli Antifate e Polifemo, perdendovi la
maggior parte de’ suoi compagni. Indi per commiserazione di
Polifemo, prese da questi in amicizia, avea tentato di rapire Arene
figliuola del re innamorata di Elpenore di lui compagno…
Riprendendo la scansione degli eventi Benoit li arricchisce di
“movimenti del cuore” indugiando sull’amore fra Elpenore e il
compagno di Ulisse e Arene sorella di Polifemo. Ma soprattutto, si
veda come questo semplice accenno all’amore si faccia occasione per
narrare la dinamica dell’innamoramento, per altro capovolto perché
è l’amico ad amare, come in altri luoghi in Benoit che rapidamente
vedremo da cui è impossibile separarsi:
Por Arenain le vit morir:
Ne s’en poüst ja mais partir
Que morz ne fust senz nul retor,
Tant par est espris de s’amor. (vv. 28655-58)
Ulisse vide che Elpenore stava morendo d’amore per Arene: non
sarebbe mai stato capace di separarsi da lei, al punto che sarebbe
senz’altro morto, tanto ardeva d’amore per lei(…)
Indugiare sulle emozioni e sull’amore è un tratto certo
caratteristico del romanzo, ma anche in questo caso questi
personaggi arrivano carichi delle lecturae che nel tempo li hanno
trasformate in icone e tra queste un posto speciale spetta
all’inquietante figlia del sole, Circe (Aen 7, 10-24)
Il viaggio, racconta Ulisse, continua con l’incontro con Circe e
Calipso, regina delle isole abitanti di terre periferiche che nella
mitologia rcaica le relega in quella zona di marginalità dove abita
il caos, il disordine che è anche disordine dei sensi:
Vbi res cognita est, interventu parentis puella ablata per vim,
exactus per Aeoli insulas devenerit ad Circen atque inde ad Calypso
utramque reginam insularum, in quis morabantur, ex quibusdam
inlecebris animos hospitum ad amorem sui inlicientes. Inde
liberatus pervenerit ad eum locum, in quo exhibitis quibusdam
sacris futura defunctorum animis dinoscerentur. Post quae adpulsus
Sirenarum scopulis, ubi per industriam liberatus sit. Ad postremum
inter Scyllam et Charybdim mare saevissimum et inlata sorbere
solitum plurimas navium cum sociis amiserit. Ita se cum residuis in
manus Phoenicum per maria praedantium incurrisse atque ab his per
misericordiam reservatum. Igitur, uti voluerat, acceptis ab rege
nostro duabus navibus donatusque multa praeda ad Alcinoum regem
Phaeacum remittitur. (Ditti, VI, XV)
Di là spinto alle isole Eolie era capitato da Circe indi da
Calipso, entrambe regine delle isole che abitavano e donne che con
vezzi e carezze loro proprie potentemente innamoravano i loro
ospiti.
Ancora una volta il rapido cenno di Ditti alle due regine
seduttrici si sviluppa e distende in un’occasione di riflessione
intorno alla potenza di amore e la magia simbolo della potenza
distruttrice di eros capace di condurre gli uomini alla follia:
Après redit com faitement
Le démena oré e vent
Par mi les isles d'Eoli:
La furent il bien recoilli,
Quar dous reines i aveit,
Que nus si beles ne saveit.
Dames esteient del pais,
De grant richece e de grant pris:
Ço ert Circès e Calipsa.
Ja mais nus hom parler n'orra
De dous femmes de lor porchaz;
Nule mençonge nos en faz.
Ço dit e conte li Autors,
Qu'eles n'aveient pas seignors,
Mais li repaire des erranz
Qui par mer erent trespassanz —
Jo di reis, princes e demeines —
Erent por eles en teus peines
Que mieuz vousissent estre morz.
*Des arz saveient e des sorz:
Al herbergier les convioënt,
Après si les enebareoënt
Que sempres erent si sorpris
E si de lor amor espris espris de s’amor
Qu'en eus n'aveit reison ne sen. (vv. -28701-28725)
Nessuno sentirà mai parlare di due donne altrettanto abili nella
seduzione; non sto inventando nessuna bugia a riguardo. L’autore
afferma e narra che non avevano dei mariti e dei signori, ma a
causa loro la sosta dei naviganti di passaggio-parlo di re,
comandanti e vassalli-era talmente pericolosa che questi ultimi
avrebbero preferito essere morti. Le due donne conoscevano bene le
arti magiche e le divinazioni: invitavano i naviganti a fermarsi,
poi li ammaliavano prendendoli alla sprovvista e facendoli ardere
d’amore al punto che questi uomini non avevano più un briciolo di
senno o di razionalità.
Se li trésors Oteviën
Fust lor, si lor donassent il
Ensi en ont servi a mil.
De partir d'eles ert neienz.
Trop par ert griés li lor tormenz.
Cil qui entre lor mains chaeit
Estoit sovent a mort destreit,
Quar tant ert d'eles embeüz
E tant par esteit deceûz
Qu'il ne pensast ja mais aillors.
Griefment vendeient lor amors.
Legiers esteit periz de mer
Avers le lor a trespasser.
Tot devoroënt, tot preneient;
De rien vivant merci n'aveient,
Que maint riche home e maint manant
Faiseient povre e pain querant. (vv. 28726-42)
Era impossibile separarsi da loro. Chi cadeva nelle loro mani si
trovava spesso stretto in una morsa mortale, perché era talmente
infatuato di loro e talmente abbindolato da non pensare più a
nient’altro.
Gli ingredienti dell’amore passione ci sono tutti: un amore
pericoloso perché come mettono in guardia i Padri della chiesa
l’amore travolge e sconvolge la ragione e incatena l’uomo in una
morsa mortale. Ed ecco allora Benoit segnare il confine fra questo
vendere il proprio corpo e la fin amor:
O eles cochoënt plusor,
Mais n'i esteit pas fine amor,
Que traïson e decevance :
Grief esteit mout la desevrance.
Iço retrait danz Ulixès,
Que il chaï es mains Circès,
Mais ne li pot pas eschaper. (vv. 28743-49)
Molti andarono a letto con loro, ma la loro non era fin amor,
era solo inganno e tradimento, era molto difficile separarsi da
loro. Ser Ulisse raccontò di essere caduto nelle mani di Circe, ma
di essere stato incapace di sfuggirle.
Ancora una volta Servio, commentatore di Virgilio, approfondisce
e sottolinea la potenza della libido esercitata da questa donna che
non esita a definire meretrix:
Servius, Aen 7, 10.24 DEA SAEVA aut per se, aut herbis
potentibus saeva. Circe autem ideo Solis fingitur filia, quia
clarissima meretrix fuit et nihil est sole clarius. Haec libidine
sua et blandimentis homines in ferinam vitam ab humana deducebat ut
libidini et voluptatibus operam darent, unde datus est locus
fabulae. Aperte Horatius «sub domina meretrice fuisset turpis et
excors».
Ma, l’amore, la letteratura ce lo insegna, spesso distribuisce
male i suoi pesi, così se grazie alle sue magie Circe può ottenere
dall’eroe i piaceri della carne, tuttavia s’innamora e non vorrebbe
separarsi mai da lui, si noti come sempre Benoit insista su questa
impossibilità di separarsi:
Bien en aveit oï parler,
E el de lui, maint jor aveit:
Quant de si grant beauté le veit,
Pense qu'o sei le retendra,
Ja mais de li ne partira.
Ses sorceries, ses essaies
A fait por lui e sescharaies;
Fort sont li art a li conjure,
Auques le torne a sa mesure.
O sei le couche: mout li plaist
Qu'illa joïsse e qu'il la baist;
E si fait il, c'est la verté. (vv. 28750-59)
Aveva già sentito molte volte parlare di lei e lei di lui,
quando Circe vide che Ulisse era così bello, decise di tenerlo lì
con sé, non si sarebbe mai separato da lei. Gli fece le sue
stregonerie i suoi incantesimi e le sue fatture; le arti magiche
dei sortilegi furono efficaci; per qualche tempo gli fece fare
quello che voleva. Se lo portò a letto le piaceva molto quando lui
la carezzava e la baciava e lui dunque lo faceva, è la verità.
Ainz que li meis fust trespassé,
Fu ele de lui grosse e preinz:
Fors sol adonc, ne puis ne ainz,
N'ot ele de nului enfant,
Que l’om sache ne truist lisant.
Cist fu en fiere hore engendrez
E en plus fiere refu nez :
Bien dirons al definement
En quel sen ne com faitement
Mais ici vos dirons après. (vv. 28760- 70)
Ancora una volta la secca affermazione di Ditti “« per Aeoli
Ínsulas devenerit ad Circem atque inde ad Calypso utramque reginam
insularum, in quis morabantur, ex quibusdam inlecebris ánimos
hospitum ad amorem sui inficientes” [footnoteRef:2] [2: Hatzantonis
Emmanuel. Circe, redenta d'amore, nel Roman de Troie, in Romania,
t. 94 n°373, 1973. pp. 91-102.]
Diventa semplice traccia a partire dalla quale raccontare lo
strazio e paura della separazione che patisce Circe, per altro in
attesa di un figlio, Circe che come Medea, ma come Merlino è là a
raccontare che nulla può la magia contro la forza d’amore. E per
raccontare il dolore di Circe soccorrono ancora altri libri,
depositati sul tavolo del nostro Benoit, una storia di libri
sedimentati intorno a lei, personaggio complesso che occupa
un’estesa sezione dei racconti di Ulisse alla reggia dei Feaci e
tre interi canti dell’Odissea, fino alla profezia della dea nel
libro 12 (vv. 33-141)[footnoteRef:3] [3: Ambiguità e mistero velano
l’affascinante statura di questa donna, multiforme come gli
antidoti (φάρμακα72) che prepara con perizia; impossibile è
descrivere con esattezza la natura della sua indole. Si tratta,
infatti, di). Paradigmatico il suo modus operandi per trasformare
in maiali i compagni di Ulisse (10, 233-236): Nel contesto del
primo sbarco di Ulisse sull’isola, Circe è descritta come una
perfida dea, a cui sono associati però gli epiteti αὐδήεσσα, che
delinea la capacità canora umana come strumento di seduzione ed
ἐυπλόκαμος, «dai riccioli belli»; dotata di un’aura potente, ella
comunica coi mortali senza il bisogno di intermediari. La sua
fisionomia la fa assomigliare ad un’altra eroina abbandonata, cioè
la ninfa di Ogigia (cfr M. Bettini- C. Franco, Il mito di Circe.
Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Torino, 2010; p]
Così Circe riaffiora in tanti autori latini come l’archetipo
stereotipo della maga di nobile lignaggio, in quanto figlia del dio
Helios e di Perse (o Persa), figlia di Oceano: Virgilio sceglierà
di imitare il carmen nell’ottava egloga (vv.68-71)
e nell’Ars Amatoria (2, 99-104) Circe sarà menzionata insieme ad
un’altra celebre strega Medea, simbolo, sin dalla tradizione
tragica greca, di femminilità ferita e frustrata.
Ma ancora più nteressante il caso dei Remedia amoris
(vv.261-288) dove il monologo di Circe, dominato dal pathos, si
muove sulla scorta dei monologhi dell’Arianna catulliana e della
Didone virgiliana
E’ da Circe , lo ricorda Babbi, che si genera la causa della sua
fine, lei infatti attende un figlio da Ulisse, e con dolore vede
partire l’amato
Donc conut bien e vit Circès
Que poi sot envers Ulixès,
Maistre a trové a sa mesure
Tel qui ne crient sort ne conjure (vv. 28789-93)
Così Circe vide e capì chiaramente di saperne poco di magia
rispetto a Ulisse, aveva trovato qualcuno alla sua altezza, che non
temeva incantesimi o sortilegi.
Al departir fust li dueus grant
Que fist Circès, nel pot müer,
Quant Ulixès en vit aler.
Al momento di separarsi Circe fece una scenata disperata, quando
vide che Ulisse se ne andava, non poté farci nulla.
E se Ulisse presto dimentica la seducente maga , Ulisse invece
attraversa altre esperienze erotiche con Calipso dove la battaglia
investe amore e sapienza:
Lei giocò con lui una partita a scacchi in cui non era lui a
condurre il gioco; con lui fece quello che voleva perché era di
grande sapienza (…) ma a lui le cose andavano bene perché Calipso
era più bella di qualsiasi altra donna : la sua compagnia sarebbe
stata davvero gradevole ei l suo corpo davvero dilettevole se non
li avesse venduti a così caro prezzo. Non avrebbe potuto fare
nient’altro perché quella era la sua natura.
E poi con le sirene
28843
Tra i pericoli del mare , le sirene sono il peggiore: sono molto
malvagie e infide: hanno voci limpide e angeliche il loro canto è
più bello di qualsiasi altro. Chi le ode non riesce a fare più
nient’altro e non è in grado di difendersi da loro. Nel punto dove
le si sente cantare sono presenti tutti i pericoli del mare. Non si
prova alcuna paura e non si desidera udire nient’altro che la loro
voce….
il cui potere seduttivo era divenuto proverbiale. Così Cicerone,
in un passo del De finibus bonorum et malorum (V,
18)::
Non vediamo forse che chi si diletta degli studi e delle arti
non tiene conto né della salute né degli interessi familiari e
tutto sopporta, preso dalla conoscenza e dal sapere, e trova un
compenso delle grandissime fatiche nel piacere che prova
nell’imparare? Tanto che a me sembra che Omero abbia concepito
qualcosa di questo genere in quei versi che ha composto sui canti
delle Sirene. Non mi sembra infatti che fossero solite attirare
coloro che passavano con la dolcezza della voce o con la novità e
la bellezza del canto, ma perché dichiaravano di sapere molte
cose, così che gli uomini andavano a sbattere contro i loro scogli
per bramosia di sapere. Così infatti attirano Ulisse (…) Omero capì
che la storia non poteva essere creduta se un uomo tanto grande
fosse stato attirato con delle canzoni; è la conoscenza che
(le Sirene) promettono, e non è incredibile che questa fosse più
cara della patria per un uomo bramoso di sapienza (cupido
sapientiae).
Ma proprio Cicerone ci serve ancora per raccontare l’ultimo
capitolo di questa storia. In Oratore 5 Cicerone esalta tra i
tragediografi latini Pacuvio il cui merito sarebbe quello di fare
propria la lezione di Sofocle il più grande tragediografo greco.
Non è facile comprendere l’equità del giudizio su Pacuvio dai pochi
frammenti rimasti e dagli scarsi frammenti trasmessici dai
grammatici. Qui ci interessa solo che ciò che Cicerone esalta nella
tragedia Niptra di Pacuvio è proprio la capacità di mostrare
rispetto al modello di Sofocle un Ulisse che, colpito a morte da
Telegono, il figlio avuto da Circe, non lamenta il suo destino, ma
uomo dignitoso nel dolore.
Ecco allora che il riferimento Ciceroniano ci conduce a quella
morte di Ulisse che i nostri testi raccontano, caricandoli di quel
pathos volto ad attivare la memoria. In tutta l’ultima parte della
storia la morte allunga le sue ombre, una morte preparata da una
catena di morti tutte familliari: Clitennestra uccide Agamennone,
Oreste la madre Clitennestra gettandola in pasto ai lupi. Ma qui
Benoit sembra voler riscattare lo scaltro Ulisse raccontando un
altro personaggio, un uomo che, pur ormai tornato a casa, è
chiamato ancora a fare i conti con il suo destino
Per preparare la chiusa prende la parola, denuncia la fatica del
narratore
D'eus vos porrions mout retraire,
Mais dès or voudrai a chief traire
De ceste uevre: nos merveilliez,
Qu'auques sui las e travailliez.
Ore entendez ici après
Com faitement danz Ulixès
Fu morz e trespassez de vie:
Tel merveille n’iert mais oie. (vv. 29811 -18)
Potremmo riferirvi molte altre cose su di loro, ma ora
desidererei portare a termine ques’opera: non stupitevi se sono un
po’ stanco e affaticato.Ora state per ascoltare in che modo venne
ucciso e perse la vita ser Ulisse: nessuno udirà mai una storia
altrettanto straordinaria
Ditti in poche e scarne parole ci racconta un Ulisse, che ormai
tornato a Itaca, viene spaventato da una voce che tormenta il suo
sonno, voce che a un tempo spaventa e seduce crea orrore e
respinge:
Per idem tempus Ulixes territus crebris auguriis somniisque
adversis omnes undique regionis eius interpretandi somnia
peritissimos conducit. Hisque refert inter cetera visum sibi
saepius simulacrum quoddam inter humanum divinumque vultum formae
perlaudabilis ex eodem loco repente edi. Quod complecti summo
desiderio cupienti sibi porrigentique manus responsum ab eo humana
voce sceleratum huiusmodi coniunctionem quippe eiusdem sanguinis
atque originis , namque ex eo alterum alterius opera interiturum.
VI. XIV
Nel medesimo tempo Ulisse atterrito dai frequenti pronostici e
sogni sinistri che lo tormentavano, da ogni parte chiamò a sé chi
sapesse interpretarli; ed a codesti indovini si mise a riferire
come fra le altre cose più volte gli era parso di vedere un
simulacro di volto fra l’umano e il divino, stupendamente bello
venirgli innanzi da uno stesso luogo, il quale avendo egli sommo
desiderio di abbracciarlo e porgendogli le braccia gli aveva
risposto con voce umana, essere sacrilego tale abbraccio poiché
erano wbtrambi dello stesso sangue e della stessa origine e che uno
dei due doveva morire per opera dell’altro. E pensando egli sempre
più vivamente e desiderando di sapere la cagione di tale cosa …
Ma si osservi come l’“Ulixes territus crebris auguriis” si
distenda in un nuovo testo che da un lato amplifica e enfatizza la
paura che coglie Ulisse che diviene in un crescendo: angosciato
pauroso sospettoso
Entrepris fu e angoisssos,
Paoros, pensis e dotos
De songes e d'auguremenz.
Assembler fist les sages genz
E les devins de totes parz,
E ceus qui saveient les arz;
29825 Dist lor qu'en un lit ert couchiez
Trestoz joios e toz haitiez :
A vis li ert qu'une semblance
De tel beauté, de tel poissance
Que forme, ymage ne peinture
Ne chose d'umaine nature (vv. 29819-31)
Era preoccupato e angosciato, impaurito pensieroso e dubbioso a
causa di sogni e presagi. Fece radunare da ogni dove saggi e
indovini e esperti di arti magiche. Disse loro che un giorno se ne
stava a letto tutto felice e contento: gli era apparsa una figura
così bella, così magnifica che mai nessuna opera di fattura umana
poteva essere così bella;
E dall’altro si osservi l’immagine umana e divina che come un
demone incubo rompe il suo sonno si presenti nuovamente come
seducente sirena che alletta i sensi e sembra invitare a un
abbraccio
Ne pot estre de sa beauté, —
Bien poeit estre entre home e dé;
Nature humaine trespassot
Mais as deus ne s'apareiliot;
Meins beaus esteit, mais, ço sai bien,
Forme d'ome n'i montot rien;
Entre la nature devine
E l'umaine ert la soë fine,
Resplendissant plus a merveilles
Que li soleiz ne les esteiles ; —
«Itel esteit, itel la vi :
Merveillai m'en e esfreï
Dont ço veneit si sodement
En une hore e en un moment.
«A une part de la maison
Estot, Ço m’ert en avison ;
Ne s'aproismot pas près de mei :
Por tant en ere en tel esfrei
Que co m’en a vis maintenant,
De desirer e de talant
De lui embracier e tenir,
Que me deust li cuers partir. ( 29831-52)
La sua natura pura si collocava tra quella divina e quella
umana, era straordinariamente più lucente del sole e delle stelle.
“Era fatta così, io proprio così l’ho vista: mi sono spaventata e
mi sono chiesto con stupore da dove fosse giunta così
all’improvviso, tutto ad un tratto e in un attimo. Avevo
l’impressione che si trovasse in un angolo della casa, non mi si è
affatto avvicinata: per quanto fossi sbigottito a causa sua , ho
avvertito subito il desiderio e la voglia di abbracciarla e di
stringerla, tanto che per poco non mi si è scoppiato il cuore
Lo slancio sessuale, sottolineato dalla potenza del desiderio,
si tinge di ombre a un tempo perverse e luttuose dove aleggia il
tabù dell’incesto
Mout doucement li depreioë
Qu'il m'embraçast: ço desiroë.
De mei se traeit auques
E si me diseit: «Ulixès,
Saches ceste conjoncion,
Cist voleirs, ceste assembleison,
Que de mei e de tei desires,
Ço sont duel mortel, plor e ires. 29865
C'est chose de bien esloigniee,
Maudite e escomenüee.
One plus dolorose asemblee
Ne fu retraite ne contée.
Des paroles ere destreiz;
L’ho pregata molto dolcemente di abbracciarmi era questo ciò che
desideravo. Mi è venuta un po’ più vicino e mi ha detto: “Ulisse,
sappi che questo incontro, questo desiderio, questa unione che
desideri tra me e te significa dolore mortale, pianto e rabbia. E’
una cosa lontana dal bene, maledetta e scomunicata. Non è mai stato
raccontato , né descritto un legame più doloroso”
«Preioë li par maintes feiz
Que ço m'enseignast a saveir
E m'en feïst aparceveïr:
A ço covint moût grant preiere.
Puis me mostrot une manière
D'un signe itel com vos dirai:
Bien m'en membre, bien l'avisai.
Dedesus le fer d'une lance —
Bien l'ai ancore en remembrance —
Portot une torete ovree
D'os de peisson de mer salée :
Ço me mostrot, mais ne saveie,
Ne autrement ne l'enquerreie,
Que c'ert ne que senefiot
Ne que tel chose demostrot.
Puis me disei tal départir,
O duel, o lermes, o sospir,
Que c'ert d'empire conoissance
E si aperte demostrance
Que par ço serions devis
E si très morteus anemis
Que l’uns par l'autre perireit
E l'uns par l’autre fenireit.
Tant me diseit, ne plus ne meins.
Angoissos fui e d'ire pleins,
Que jo ne soi que ço voust dire. (vv. 29870-95)
Poi andandosene mi ha detto in maniera sofferta con lacrime e
sospiri che quello era il simbolo del potere e mi ha spiegato
chiaramente che per colpa di quel simbolo sulla lancia saremmo
diventati mortali nemici tanto che uno sarebbe perito a causa
dell’altro e uno sarebbe stato ridotto in fin di vita a causa
dell’altro. Così mi ha detto, né più né meno. Sono rimansto
angosciato e pieno di rabbia perché non sapevo che cosa volesse
dire.
Ulisse riunisce gli indovini per scoprire l’arcana profezia, e
comprende come molti eroi che il suo destino è morire per mano del
figlio, l’ombra di Edipo affiora e dunque chiude il figlio
amatissimo in una prigione inaccessibile:
Cil sera mis druz e mis sire,
Qu’il me savra entrepreter
Senz deceveir e senz fauser.»
A ço n'ot nul delaiement :
29900 Tuit li distrent comunaument
Que ço senefiot dolor,
Eissil, damage e deshonor.
Ensorquetot, sor tote rien,
Crensist son cors e guardast bien
29905 Des aguaiz son fil, çoli diënt;
Moût l'en manacent e desfiënt.
Ulixès fu sospeçonos,
Paoros, pensis e dotos
De l'augure des visions:
29910 Son fil prist, si com nos lisons,
Teleniacus, sil fist mener
En Cephalania sor mer.
La fu si fort emprisonez
E en si forz buies rivez,
29915 E si guardez par tel maistric
De cens en cui il plus se fie,
Si faitement, ja mais n'en isse
Ne a lui adeser ne puisse
En nés un sen ne en nul art.
29920 Rien ne crient mais de celé part :
En si granz buies fu roilliez
E a teus guardes fu bailliez
Que ja mar en criembra nul Jor.
Si ne fu onques graindre amor
29925 De père a fil, ne n'iert ja mais,
Que aveit o lui Ulixès,
Mais guarder vueut que ço n'avienge,
Que i'om li dit qu'il guart e crienge .
Ecco ancora una volta che il romanzo è chiamato ad amplificare
l’assertivo Ditti e dare voce al dolore, allo strazio del figlio di
cui nulla ci dice Ditti
Duel fait Telemacus li beaus,
Quant en buies e en aneaus
Veit qu'ensi est mis e fermez.
De son père se plaint assez;
Dit que trop grant honte li fait,
Senz ço qu'il ait vers lui mesfait
Ne en penser ne en voleir :
Mal li mostre qu'il seit son heir. (vv. 29929-36)
Il bel Telemaco si disperò quando vide che veniva imprigionato e
messo ai ferri e catene. Si lamentò molto di suo padre , disse che
gli stava infliggendo un disonore enorme senza che lui gli avesse
mai fatto nulla di male, né col pensieri né con l’intenzione: non
era quello il modo di mostrargli che era lui il suo erede.
Rinnegando il suo essere un figlio si prepara lui il saggio ad
essere ingannato da un altro figlio avuto da una donna che solo in
lui ha riconosciuto il suo dru, il suo amato. Ulisse è ormai
assediato inseguito dagli incubi di quella visione,
E se Ditti ci dice solo
”Ulisse medesimo per evitare il pronostico di sì cattivi
sogniandò a rimpiattarsi in luoghi solinghi e assai remoti”
Ecco allora la prigionia in cui si relega il nostro Ulisse,
murato vivo separato dai suoi affetti più cari, lui l’eroe non può
proteggersi dal destino che lo attende. Nulla sa del giovane
Telegono avuto da Circe, quella strega seduttiva trasformata in una
donna fedele e innamorata e in madre amorevole:
29740 Fiere parole en ont tenue
Par le règne la gent menue.
Ulixès crienst mout e dota,
29940 Que pas ne s'en aseura.
Eschiver voust cez visions
E cez interpretacions;
En un lieu sol, soutil de gent,
Ou rien n'aveit conversement,
29945 S'en ala tôt por ceste ovraigne
O mout escharie compaigne :
N'i ot home d'autre contrée,
Fors solement sa gent privée.
El plus fort lieu qu'il pot choisir,
29950 N'ou faiseit plus mal a venir,
Fist ses maisons faire e fermer
E de bons murs avironer
Sor granz fossez, sor granz terriers,
Gloses de murs e de viviers,
29955 O heriçons, o plaisseïz
E o riches ponz torneïz,
O bretesches, o chaafauz
Armez e batailliez e hauz.
En tôt le mont, mien escient,
29960 N'ot tel repaire ne si gent.
Les portes a si comandees,
Les eissues e les entrées,
Que closes seient nuit e jor :
Por parenté ne por amor
29965 Qu'il ait o rien de char vivant,
Ne l'en laissent venir avant.
La scarna narrazione di Ditti racconta del figlio Telegono che
cerca di penetrare in casa:
Per idem tempus Telegonus, quem Circe editum ex Vlixe apud
Aeaeam insulam educaverat, ubi adolevit, ad inquisitionem patris
profectus Ithacam venit gerens manibus quoddam hastile, cui
summitas marinae turturis osse armabatur, scilicet insigne insulae
eius in qua genitus erat. Dein edoctus, ubi Vlixes ageret, ad eum
venit. Ibi per custodes agri patrio aditu prohibitus, ubi
vehementius perstat et e diverso repellitur, clamare occipit
indignum facinus prohiberi se a parentis complexu. Ita credito
Telemachum ad inferendam vim regi adventare acrius resistitur,
nulli quippe compertum esse alterum etiam Vlixi filium. Dein
iuvenis ubi se vehementius et per vim repelli videt, dolore elatus
multos custodum interficit aut graviter vulneratos debilitat. Quae
postquam Vlixi cognita sunt, existimans iuvenem a Telemacho
inmissum egressus lanceam, quam ob tutelam sui gerere consueverat,
adversum Telegonum iaculatur. Sed postquam huiusmodi ictum iuvenis
casu quodam intercipit, ipse in parentem insigne iaculum emittit
infelicissimum casum vulneri contemplatus. At ubi ictu eo Vlixes
concidit, gratulari cum fortuna confiterique optime secum actum,
quod per vim externi hominis interemptus parricidii scelere
Telemachum carissimum sibi liberavisset. Dein reliquum adhuc
retentans spiritum iuvenem percontari quisnam et ex quo ortus loco
se domi belloque inclitum Vlixem Laertae filium interficere ausus
esset. Tunc Telegonus cognito parentem esse utraque manu dilanians
caput fletum edit quam miserabilem maxime discruciatus ob inlatam
per se patri necem. Itaque Vlixi, uti voluerat, nomen suum atque
matris, insulam, in qua ortus erat et ad postremum insigne iaculi
ostendit. Ita Vlixes ubi vim ingruentium somniorum praedictumque ab
interpretibus vitae exitum animo recordatus est, vulneratus ab eo,
quem minime crediderat, triduo post mortem obiit senior iam
provectae aetatis neque tamen invalidus virium.
Por ço qu'il l'a fait embuier
Emprisoner e ferleier;
30125 Quide de veir, e sin est fis,
Que il celui i aittramis
Lui ocire de maintenant.
Prent une lance mout trenchant,
Reide, forbie e aceree,
30130 Que il aveit maint jor guardee ;
A la meslee vint les sauz,
D'ire desvez, vermeiz e chauz.
Le dameisel de loinz choisist,
— Ne sot qu'il li apartenist;
30135 Veit ses homes qu'il li a morz,
De que li est granz desconforz;
Quide qu'il ait cuer e talant
De faire de lui autretant;
— D'ansdous les mains li a lanciee
30140 La lance reide e aguisiee
De tel aïr que les costez
Ot sempres toz ensanglentez.
Se il ne fust un poi guenchiz,
En petit d'ore fust feniz.
E’ l’incontro non di un padre de figlio ma di due uomini
spaventati che si sentono minacciati e aggrediti:
Telegonus ot grant esfrei,
Grant crieme e grant paor de sei:
En son cler sanc sovent se mueille,
Ne trueve qui en pais l’acueille.
La lance a saisie a dous mains :
Toz forsenez e d'ire pleins,
Son père fiert par mi le cors,
Qui de maint péril ert estors
E de mainte bataille dure;
Mais itel esteit s'aventure.
A la terre jut toz envers,
Ensanglentez, pales e pers. (vv. 30145-56)
.
Ulisse ingannatore e fraudolento sembra così gioire per avere
ancora una volta di avere vinto l’oracolo, l’uomo che lo ha ucciso
non è l’amato figlio. Ma non è così. Prima di spirare chiede chi
sia colui che ha ucciso Ulisse:
Veit qu'il est morz: mout est haitiez
E mout se fait joios e liez
De ço que les devinemenz,
Les songes, les auguremenz
A engeigniez e sormontez
E qu'il ne sont pas avérez
Sor son chier fil Telemacus
Nule rien ne quereit il plus,
Ne mais que en lui n'enchaïst
Ne parrecide n'i feïst.
Joie a qu'il en est quite e sain
E qu'autre hom a mis en lui main,
Dès qu'ensi ert a avenir.
El n'i aveit mais del morir,
Quant il retint son esperit;
A grant peine parole e dit:
«Qui iés,» fait il, «e dont es nez
N'en quel terre est tis parentez
Ne quel non as ne dont venis,
Qu'ensi as Ulixès ocis,
Le très sage, le coneu,
Celui qui tanz biens a eu,
Tantes honors e tantes gloires, (vv. 30157-79)
Capì che stava morendo ne fu fu risollevato e si mostrò assai
felice e contento per aver eluso e smentito le premonizioni, i
sogni e gli oracoli dato che non si erano avverati quelli
riguardanti il suo amato figlio Telemaco. Non c’era cosa che
desiderasse di più del fatto di non esserrsi imbattuto in Telemaco
e che questi non avrebbe commesso un parricidio.
Disperata è la scoperta del figlio quando comprende che invece
di riunirsi a suo padre è lui involtario assassino:
Così Ditti:
Tunc Telegonus cognito parentem esse utraque manu dilanians
caput fletum edit quam miserabilem maxime discruciatus ob inlatam
per se patri necem. Itaque Vlixi, uti voluerat, nomen suum atque
matris, insulam, in qua ortus erat et ad postremum insigne iaculi
ostendit.
Telegonus veit e entent
Qu'il a espleitié malement,
Son père a ocis par pechié:
Del lot se tient a engeignié,
Plore des ieuz e brait e crie,
Requiert e vueut que l'om l'ocie.
Ses cheveus blonz ront e detrait,
Tote la chiere se desfait;
En mi la place chiet pasmez:
Onques nus hom de mère nez
Si doloros duel mais ne fist. (30189-99)
30200 A Ulixès parla e dist :
«Sire dous, sire chiers, aaiis,
En si male hore vos ai quis
E en si estrange vos vei!
Por quel ne part li cuers de mei,
Quant morir vos vei par mon fait?
Trop par a ci doloros plait.
« Père, » fait il a Ulixès,
Vos m'engendrastes en Circès,
En la reine, en la vaillant,
En celi que vos ama tant.
Vostre fîz sui Telegonus,
Mais jo ne quier or vivre plus,
Quar ja mais joie nen avrai,
Dès que ensi ocis vos ai.
De l'isle dont il esteit nez
Li a les entreseinz mostrez,
Puis se repasme e chiet a denz,
Si que n'en ist espiremenz.
Ulixès sot qu'ensi esteit
30220 E que veir ert ço qu'il diseit. (vv. 30200-20)
Telegono udì e comprese di avere fatto un errore aveva ucciso
suo padre per sbaglio: capì di essersi totalmente ingannato, pianse
calde lacrime e e gemette e gridò chiedeva e voleva che lo
uccidessero. Si strappò e si tirò i capelli biondi, si sfigurò
tutto il viso, cadde a terra svenuto (...)
Si rivolse a Ulisse e disse: “Mio amato signore, mio caro
signore, amico mio, vi ho cercato proprio in un momento
sfavorevole, vi vedo in circostanze terribili! Perché non si spezza
il cuore vedendovi morire a causa mia? Questa è una situazione
davvero tragica. Padre- disse ad Ulisse- Voi mi avete generato con
la valorosa regina Circe, colei che vi ha tanto amato. Sono vostro
figlio Telegono, ma ora non voglio più vivere, perché dopo avervi
ucciso in questo modo non proverò più alcuna gioia.”
L’Ulisse crudele artefice d’inganni sembra ora cedere il posto
ad un uomo diverso pronto ad accogliere il destino e pur sofferente
ad abbracciare e perdonare il figlio nato da Circe:
Ainz que l’ame s’en fust alee,
ot mout joï Telegonus;
e acolé cent feiz e plus
e conforté mout bonement. (vv. 30230-33)
Prima che l’anima di Ulisse volasse via, questi salutò con gioia
Telegono; e lo abbracciò più di cento volte e lo consolò con grande
affetto
Ne puet l’om dire ne retraire
L'estrange duel desmesuré
Que font la gent de son régné
E sis chiers fiz Telegonus.
3o25o Treis jorz vesqui e neient plus:
Ensi morut com vos oëz.
Mout par esteit granz sis aez,
Maint jor e maint an ot vescu:
Por quant si ert de grant vertu
E de grant force ancore al jor.
Seveliz fu a grant honor.
En Achaie l'en ont porté:
La fu enoint e embasmé,
La li firent un tel tombel
Qu'en tot le siegle n'ot si bel.
A merveilles jut hautement ;
Plainz e plorez fu longement. (30246-62)
Al parricidio il Roman de Troie oppone e amplifica la pace
fraterna fra i figli di Ulisse come già fra i figli di Ettore, e
Telemaco e telegono sembrano ereditare la saggezza ma non l’arte
dell’inganno:
Telemacus reçut l'empire,
Après sa mort fu del tot sire ;
Coronez fu a grant hautece.
Grant valor ot e grant proëce ;
Sages fu mout e dreituriers ;
Quatre vinz anz régna entiers.
Son frère tint Telegonus
Ensemble o lui un an e plus;
De ses plaies le fist guarir:
Mires ot buens a son plaisir.
Puis en fist chevalier novel:
Meillor, plus sage ne plus bel
N'ot en nul lieu, ço sai de veir.
Puis eissirent de lui tel heir,
Qui furent haut home e preisié
E el siegle mout essaucié. (vv. 30263-78)
(…)
Circe però riesce a ritagliarsi uno spazio fra le eroine
redente, l’amore per Ulisse unico amore della sua vita
Circès, sa mère o le cler vis,
30285 Ot longement plaint e ploré:
Bien li esteit dit e conté
Com faitement l'uevre ert alee;
Tote saveit la destinée.
Cremeit Teiegonus fust mort:
30290 Ne bien ne joie ne confort
N'aveit eu, puis qu'elel sot.
Quant el le vit, tel joie en ot,
Tote entroblia la dolor.
Por quant onc puis ne vesqui jor
30295 Que d'Ulixès ne li pesast
E qu'a ses dous ieuz nel plorast.
Assez vesqui Teiegonus ;
Seisante anz tint l'empire e plus.
Mout ot, mout conquist, mout valut,
Mout s'essauca e mout s'escrut.
Così Benoit chiude la vicenda del multiforme Ulisse πολύτροπος,
capace di affrontare i πολλὰ ἄλγεα “molti dolori” e se un’altra
sarà la fine di Ulisse che un grande poeta come Dante riuscirà a
imporre, può valer la pena osservare che questa storia viene da
lontano, ha camminato attraversando tempi luoghi testi per arrivare
con il suo fardello di scorie.