Università di Trieste - Dipartimento di Studi Umanistici
Anno Accademico 17/18
Letteratura Spagnola I
prof. G. Ferracuti
Dispensa integrativa del testo base (Profilo storico della
letteratura spagnola)
QUADRO STORICO
Nel 711 d. C., nel corso della guerra civile tra cristiani
ariani e cristiani cattolici, scoppiata nel regno visigoto nella
Penisola Iberica, sia per conflitti dinastici sia a seguito della
conversione al cattolicesimo del re Recaredo, un piccolo esercito
arabo e berbero entra in Spagna a sostegno della fazione ariana,
determinando in breve il completo tracollo del regno e
l’instaurazione di un nuovo assetto politico e sociale. Il
territorio della Penisola, con l’eccezione di una piccola fascia a
settentrione, sull’Atlantico e i Pirenei, va a costituire
l’al-Ándalus musulmano, al cui interno convivono con una
sostanziale tolleranza culturale e religiosa i cristiani di
Hispania e gli ebrei di Sefarad: tre nomi per un Paese unico, la
Spagna delle tre culture.
Nel 773, abd al-Rahmán I dà vita all’emirato di Cordova,
paragonabile a un regno nella terminologia politica cristiana;
successivamente, nel 929, si costituisce il califfato, sotto la
guida di abd al-Rahmán III [Abd ar-Rahman ibn Muhammad (891-961)]:
all’autorità politica si aggiunge ora l’autorità spirituale e
religiosa musulmana.[footnoteRef:1] Il califfato dura fino al 1010,
quando una guerra civile per la successione al trono causa la sua
frammentazione in piccoli regni di taifas (famiglie, dinastie)
militarmente molto deboli, ma di grande splendore culturale. Il
recupero di Toledo da parte delle truppe cristiane (1085) spinge i
musulmani di Spagna a chiedere aiuto agli almoravidi del Nord
Africa:[footnoteRef:2] questi penetrano nella Penisola Iberica e
cercano di riorganizzare lo stato in senso centralista e con un
accentuato militarismo, ma non godono del consenso della
popolazione di al-Ándalus, che si ribella in varie occasioni e dà
nuovamente vita a una frammentazione del regno, appoggiando poi
contro di loro l’arrivo nella Penisola degli
almohadi.[footnoteRef:3] Gli almohadi, dopo iniziali vittorie
contro le truppe cristiane, in particolare nella battaglia di
Alarcos nel 1195, subiscono una pesante sconfitta a Las Navas de
Tolosa nel 1212: è l’inizio della crisi del loro vasto ma effimero
impero e l’avvio della fase finale della conquista cristiana dei
territori musulmani.[footnoteRef:4] [1: ʿAbd al-Raḥmān ibn
Muʿāwiya, detto al-Dākhil (731-788), ovvero l’immigrato,
apparteneva alla famiglia omayyade, dinastia califfale siriana
sterminata nel 750 dalla rivolta abbaside: si narra che sia
scampato al massacro attraversando a nuoto l’Eufrate; recatosi poi
in Palestina, sarebbe giunto in al-Ándalus nel 755, occupando
Siviglia e Cordova l’anno successivo. Prende possesso di Saragozza
dopo che i baschi sconfiggono nel 778 la retroguardia di Carlomagno
a Roncisvalle. Inizia i lavori di costruzione della grande moschea
di Cordova, probabilmente ampliando una basilica che i musulmani
avevano condiviso con i cristiani ariani visigoti.Di origine basca
per parte di madre, ʿAbd al-Raḥmān III viene descritto come di
pelle bianca, occhi azzurri e capelli rossicci e aveva legami di
parentela coi re di León e Navarra. Restaura l’autorità dell’emiro
in al-Ándalus, per poi proclamarsi successore del profeta e
principe dei credenti (califfo), in quanto discendente della
famiglia califfale omayyade di Damasco. La proclamazione segna
anche l’inizio di una serie di campagne militari nel nord della
Penisola, per recuperare i territori riconquistati dai cristiani.
Durante il suo lungo regno dà un forte impulso allo sviluppo degli
studi e fa di Cordova una delle città più splendide dell’epoca.]
[2: Gli almoravidi furono una dinastia musulmana di origine
berbera, caratterizzata da un forte rigorismo religioso, ed
estesero il loro dominio, tra XI e XII secolo, a Marocco, Algeria e
Spagna. Cfr. la voce dell’Enciclopedia Italiana, disponibile online
all’URL:.] [3: Dinastia berbera musulmana ostile
all’interpretazione letterale del Corano sostenuta dagli
almoravidi, e influenzata piuttosto dal sufismo di al-Ghazali, a
orientamento mistico e aperto a interpretazioni allegoriche del
testo sacro. Cfr. la voce dell’Enciclopedia italiana: .] [4: Cfr.
Gianni Ferracuti, Don Chisciotte e l’islam, seguito da al-Ándalus,
Hispania, Sefarad, la Spagna delle tre culture, Mediterránea -
Centro di Studi Interculturali, Dipartimento di Studi Umanistici,
Università di Trieste 2016, disponibile online: . Cfr. anche: Titus
Burckhardt (1977), La civilización hispano-árabe, trad. esp.,
Alianza, Madrid 2005; Alessandro Vanoli, La Spagna delle tre
culture: ebrei, cristiani e musulmani tra storia e mito, Viella,
Roma 2006.]
La Spagna musulmana
La versione leggendaria della perdita della Spagna
Non esistono testimonianze storiche contemporanee alla «perdita»
della Spagna a seguito dell’invasione araba. La versione più nota
degli eventi è affidata a una leggenda che ha dato vita a molti
testi letterari, tra cui un ciclo di romances di pregevole
fattura.[footnoteRef:5] Tutto viene ricondotto alla violenza che
Cava, figlia del conte don Julián, subisce dal re visigoto Rodrigo:
per vendicare tale violenza, Julián chiede aiuto agli arabi e
spiana loro l’ingresso nella Penisola. Il romance che segue
descrive Cava con le sue donzelle che si bagnano a una fonte,
spiate nascostamente dal re: [5: I romances sono ballate trasmesse
inizialmente ad opera di giullari e della tradizione orale.
Nascono, almeno nella grande maggioranza dei casi, come frammenti
di poemi epici più estesi. Successivamente, soprattutto grazie alla
trasmissione orale, acquistano caratteristiche formali stabili e di
grande effetto lirico, e diventano un genere poetico coltivato dai
principali poeti di lingua spagnola, fino ai giorni nostri.]
De una torre de palacio
se salió por un postigo
la Cava con sus doncellas
con gran fiesta y regocijo.
Metiéronse en un jardín
cerca de un espeso ombrío
de jazmines y arrayanes,
de pámpanos y racimos.
Junto a una fuente que vierte
por seis caños de oro fino
cristal y perlas sonoras
entre espadañas y lirios,
reposaron las doncellas
buscando solaz y alivio
al fuego de mocedad
y a los ardores de estío.
Daban al agua sus brazos,
y tentada de su frío,
fue la Cava la primera
que desnudó sus vestidos.
En la sombreada alberca
su cuerpo brilla tan lindo
que al de todas las demás
como sol ha oscurecido.
Pensó la Cava estar sola,
pero la ventura quiso
que entre unas espesas yedras
la miraba el rey Rodrigo.
Puso la ocasión el fuego
en el corazón altivo,
y amor, batiendo sus alas,
abrasóle de improviso.
De la pérdida de España
fue aquí funesto principio
una mujer sin ventura
y un hombre de amor rendido.
Florinda perdió su flor,
el rey padeció el castigo;
ella dice que hubo fuerza,
él que gusto consentido.
Si dicen quién de los dos
la mayor culpa ha tenido,
digan los hombres: la Cava
y las mujeres: Rodrigo
Rodrigo si dichiara alla fanciulla, ottenendo un garbato
rifiuto, e allora si impone con la violenza. Delicatamente, il
romance non descrive il dramma, ma si ferma poco prima, lasciandolo
intuire:
Amores trata Rodrigo,
descubierto ha su cuidado;
a la Cava se lo dice,
de quien anda enamorado.
Miraba su lindo cuerpo,
mira su rostro alindado,
sus lindas y blancas manos
él se las está loando.
-Sepas mi querida Cava,
de ti estoy apasionado:
pido que me des remedio,
yo estaría a tu mandado;
mira lo que el rey pide
ha de ser por fuerza o grado.
La Cava, como discreta,
en risa lo ha echado:
-Pienso que burla tu alteza
o quiere probar el vado;
no me lo mandéis, señor,
que perderé gran ditado.
El rey le hace juramento
que de veras se lo ha hablado;
ella aún lo disimula
y burlando se ha excusado.
Fuese el rey dormir la siesta;
por la Cava ha enviado,
la Cava muy descuidada
fuese do el rey la ha llamado.
Consumato il crimine, Rodrigo viene svegliato da Fortuna che gli
annuncia la vendetta di Julián e la tragedia della sua gente:
Los vientos eran contrarios,
la luna estaba crecida,
los peces daban gemidos
por el mal tiempo que hacía,
cuando el rey don Rodrigo
junto a la Cava dormía,
dentro de una rica tienda
de oro bien guarnecida.
Trescientas cuerdas de plata
que la tienda sostenían,
dentro había doncellas
vestidas a maravilla;
las cincuenta están tañendo
con muy extraña armonía,
las cincuenta están cantando
con muy dulce melodía.
Allí hablara una doncella
que Fortuna se decía:
`Si duermes don Rodrigo,
despierta por cortesía,
y verás tus malos hados,
tu peor postrimería,
y verás tus gentes muertas
y tu batalla rompida,
y tus villas y ciudades
destruidas en un día:
tus castillos, fortalezas,
otro señor los regía.
Si me pides quién lo ha hecho
yo muy bien te lo diría:
ese conde don Julián
por amores de su hija,
porque se la deshonraste
y más de ella no tenía.
Juramento viene echando
que te ha de costar la vida.'
Despertó muy congojado
con aquella voz que oía
con cara triste y penosa
de esta suerte respondía:
`Mercedes a ti, Fortuna,
de esta tu mensajería.'
Estando en esto allegó
uno que nuevas traía:
como el conde don Julián
las tierras le destruía.
Infatti Julián, che si trova a Ceuta, sulla costa africana, ha
chiesto aiuto ai mori, impegnandosi a consegnare loro l’intera
Spagna:
En Ceuta está don Julián,
en Ceuta la bien nombrada:
para las partes de allende
quiere enviar su embajada:
moro viejo la escribía,
y el conde se la notaba;
después de haberla escrito
al moro luego matara.
Embajada es de dolor,
dolor para toda España:
las cartas van al rey moro
en las cuales le juraba
que si le daba aparejo
le dará por suya España.
Madre España, ¡ay de ti!
en el mundo tan nombrada,
de las partidas la mejor,
la mejor y más ufana,
donde nace el fino oro
y la plata no faltaba,
dotada de hermosura
y en proezas extremada;
por un perverso traidor
toda eres abrasada,
todas tus ricas ciudades
con su gente tan galana
las domeñan hoy los moros
por nuestra culpa malvada,
si no fueran las Asturias
por ser la tierra tan brava.
El triste rey don Rodrigo,
el que entonces te mandaba,
viendo sus reinos perdidos
sale a la campal batalla,
el cual en grave dolor
enseña su fuerza brava;
mas tantos eran los moros
que han vencido la batalla.
No parece el rey Rodrigo,
ni nadie sabe dó estaba.
Maldito de ti, don Orpas,
obispo de mala andanza:
en esta negra conseja
uno a otro se ayudaba.
¡Oh dolor sobre manera!
¡Oh cosa nunca ciudada!
que por sola una doncella
la cual Cava se llamaba
que España sea domeñada,
y perdido el rey señor
sin nunca dél saber nada.
Così avviene: le truppe di Rodrigo sono distrutte nella
battaglia del Guadalete:
Las huestes de don Rodrigo
desmayaban y huían
cuando en la octava batalla
sus enemigos vencían.
Rodrigo deja sus tiendas
y del real se salía;
solo va el desventurado,
que no lleva compañía.
El caballo, de cansado,
ya mudar no se podía;
camina por donde quiere,
que no le estorba la vía.
El rey va tan desmayado
que sentido no tenía;
muerto va de sed y hambre
que de velle era mancilla;
iba tan tinto de sangre
que una brasa parecía.
Las armas lleva abolladas,
que eran de gran pedrería;
la espada lleva hecha sierra
de los golpes que tenía;
el almete, de abollado,
en la cabeza se hundía;
la cara llevaba hinchada
del trabajo que sufría.
Subióse encima de un cerro,
el más alto que veía,
desde allí mira su gente
como iba de vencida;
de allí mira sus banderas
y estandartes que tenía,
como están todos pisados,
que la tierra los cubría;
mira por los capitanes,
que ninguno parescía;
mira el campo tinto en sangre
la cual arroyos corría.
El triste, de ver aquesto,
gran mancilla en sí tenía;
llorando de los sus ojos
de esta manera decía:
-Ayer era rey de España,
hoy no lo soy de una villa;
ayer villas y castillos,
hoy ninguno poseía;
ayer tenía criados,
hoy ninguno me servía;
hoy no tengo una almena
que pueda decir que es mía.
¡Desdichada fue la hora,
desdichado fue aquel día
en que nací y heredé
la tan grande señoría,
pues lo había de perder
todo junto y en un día!
¡Oh muerte!¿Por qué no vienes
y llevas esta alma mía
de aqueste cuerpo mezquino,
pues se te agradecería?
Questa bella leggenda ha pochi elementi storici, per non dire
uno solo: l’ultimo re visigoto si chiamava effettivamente Rodrigo.
Il resto è bella letteratura. Se vogliamo capire cosa è veramente
successo, dobbiamo ricorrere a un’altra versione della vicenda, dal
carattere più storico, almeno in apparenza, ma dovremmo fare una
critica di questa seconda versione che, presa alla lettera, è
insensata. Perciò conviene prima gettare uno sguardo sul mondo
visigoto[footnoteRef:6]. [6: In ogni caso non cessa di stupire il
fatto che, anche nella versione leggendaria, la perdita della
Spagna viene attribuita a una colpa dei visigoti e non a cattiveria
o cupidigia degli invasori.]
L’invasione araba secondo la storiografia tradizionale
Secondo la storiografia tradizionale, la Spagna viene invasa nel
711, appena conclusa la conquista musulmana del Nord Africa e prima
che si realizzi una vera assimilazione delle popolazioni berbere
pre-islamiche. In Spagna regna il visigoto Roderic (Rodrigo), alle
prese con una serie di conflitti interni scatenatisi alla morte del
suo predecessore Witiza, i cui figli rivendicano la successione al
trono. Il governatore arabo Musa ibn Nusair, conoscendo lo stato di
crisi del regno visigoto, avrebbe mandato nel 710 un piccolo corpo
di spedizione in Spagna, episodio su cui non c’è consenso unanime
degli storici; questa piccola spedizione avrebbe raccolto
sufficienti indizi della debolezza del regno e si sarebbe avvalsa
dell’aiuto logistico di don Julián, governatore Ceuta. Nel 711 Musa
organizza una spedizione più consistente, al comando di Táriq ibn
Ziyad, governatore di Tangeri. Attraversato lo stretto di
Gibilterra, Táriq conquista Algeciras e successivamente sconfigge
Rodrigo, il 19 luglio 711, nella battaglia di Guadalete.
Ṭāriq ibn Ziyād (Táriq nella trascrizione tradizionale
spagnola) è un generale berbero, morto nel 720, il cui nome
significherebbe «Il Castigatore». Dal suo nome deriverebbe quello
dell’attuale Gibilterra, Gibraltar (Yabal Táriq, la rocca di
Táriq). È possibile che Táriq, i cui soldati erano in maggioranza
berberi cristiani o poco islamizzati, sia stato aiutato da nobili
visigoti, ma di fatto la sua situazione sembra essere stata
piuttosto precaria: si dice che potesse contare su un esercito di
circa 7.000 uomini. Per la battaglia di Guadalete avrebbe avuto un
rinforzo di 5.000 uomini. Táriq sconfigge la nobiltà gota in una
seconda battaglia a Ecija, lascia quindi parte delle truppe a
Malaga, Granata e Cordova, e si reca a Toledo in attesa di
rinforzi. Musa, avrebbe attraversato lo stretto di Gibilterra con
18.000 uomini nel 713, muovendosi senza incontrare alcuna
resistenza; seguono vittoriose spedizioni a Saragozza, Tarragona,
Pamplona, e fino alla Galizia. Alla fine del 714 Musa e Táriq si
sarebbero recati a Damasco per rendere conto della loro gestione
della conquista. Da questo momento non si hanno più notizie di
Táriq.
Secondo Ignacio Olagüe Videla, di cui riparleremo ancora più
avanti, Táriq, con il suffisso -ik, significherebbe «figlio di
Tar», secondo molti esempi germanici, e dunque Táriq sarebbe un
governatore visigoto: il suo rientro in Spagna con un esercito
sarebbe avvenuto in difesa dei figli di Witiza e contro
Rodrigo.
In ogni caso, la conquista della Spagna visigota si rivela poco
più di una passeggiata: alcune città cadono subito, come Cordova,
altre si arrendono immediatamente, come Granada e Malaga, o si
consegnano come Medina-Sidonia, Carmona e Siviglia: è possibile che
alla base di questa apertura all’invasore vi fosse la ribellione
degli ispano-romani e di parte della stessa nobiltà visigota contro
il potere centrale. Favorito dalle lotte intestine al regno, Musa
stabilisce accordi di capitolazione con i nobili goti, ai quali
garantisce la conservazione del potere, dei beni, la libertà di
culto, in cambio del riconoscimento della sovranità politica del
wali (governatore) della Spagna. Musa avrebbe lasciato intatto il
sistema di riscossione delle imposte, migliorando sia la condizione
dei nobili sia quella dei meno abbienti. Avrebbe inoltre eliminato
le leggi antiebraiche imposte dai visigoti.
I problemi per la conquista della Spagna sarebbero
paradossalmente venuti dai conflitti interni al mondo musulmano:
l’uccisione di Abd-al-Aziz, figlio di Musa, nel 716 apre un periodo
di instabilità durato circa quarant’anni, senza tuttavia fermare
l’espansione: nel 719 capitolano Pamplona e Barcellona e le ultime
forze superstiti del regno visigoto sono costrette a rifugiarsi
nelle montagne cantabriche o nei Pirenei. Un ulteriore tentativo di
espansione arabo in Francia viene fermato a Poitiers nel 732 (anche
se è molto probabile che si sia trattato di un tentativo, da parte
araba, di vedere fino a che punto si poteva penetrare senza
incontrare resistenza: non è chiaro quale fosse il loro interesse a
spingersi nei Pirenei). Verso Nord l’espansione sarebbe stata
fermata sulla costa cantabrica nella battaglia di Covadonga, ad
opera di «un certo» don Pelayo nel 718: a seguito di questa
vittoria si sarebbe costituito il regno di Asturias, rivendicando
la continuità con le istituzioni visigote. Per la storiografia
attuale la battaglia di Covadonga o è un’invenzione completa o si è
trattato un episodio irrilevante.
Le principali fonti rimaste per ricostruire la storia
dell’invasione sono le seguenti:
- Il trattato di Teodomiro, la cui datazione tradizionale è il 5
aprile 713, ma del quale abbiamo solo versioni posteriori.
- La Crónica de Alfonso III (883)
- La Crónica del Moro Rasis, cioè Ahmed al Rasi-Atariji, datata
X sec., di cui si conserva una traduzione dal portoghese al
castigliano. La traduzione portoghese dell’originale arabo sarebbe
stata realizzata grazie alla traduzione di un intermediario arabo
fatta a voce alta.
- Cronaca di ibn al Kotija (fine X o inizio XI sec.).
- Ajbar Machmua (inizi XI sec.).
Secondo la storiografia tradizionale, gli arabi avevano
conquistato Alessandria nel 646 e da qui avevano iniziato una
decisa espansione nel Nord-Africa. Venti anni dopo Uqba ben Nafi,
arriva a Tunisi e sulla costa atlantica, dove avrebbe conosciuto il
conte don Julián, chiamato Ilyán nelle fonti arabe. Nel 698 viene
conquistata Cartagine ad opera di Musa ben Nusayr, e da questa
città iniziano le scorrerie musulmane nel Mediterraneo, con
incursioni contro la Sicilia, la Sardegna, le Baleari e
al-Ándalus.
Le fonti arabe (molto tardive rispetto ai fatti, come quelle
cristiane) parlano di negoziati tra Julián e Musa, piuttosto
logici, sia se si vede in Julián un governatore bizantino
interessato all’alleanza coi nuovi arrivati per recuperare
territori nella costa spagnola, sia se lo si vede come un visigoto
legato alla fazione ariana, tuttavia è verosimile che Julián non
sia mai esistito, e si tratti della trasformazione in nome proprio
della carica istituzionale di comes iulianis, sostanzialmente un
governatore visigoto della provincia di Ceuta.
Come si diceva, non si ha certezza sulla prima incursione di
Tarif nel 710, con 400 uomini e 100 cavalli, anche se è plausibile
che lo sbarco di Táriq del 711 sia stato pianificato. Secondo le
fonti arabe, sarebbe avvenuto in varie fasi con al massimo 12.000
uomini, in maggioranza berberi, popolazione non ancora bene
islamizzata e spesso ribelle agli occupanti arabi. Non è certo che
sia avvenuto a Gibilterra, data la sfavorevole conformazione del
territorio.
Nel 714 Musa e Táriq si recano, dunque, a Damasco, lasciando il
comando della spedizione al figlio di Musa, Abd al-Aziz, che si
stabilisce a Siviglia. La tradizione riporta la notizia del
matrimonio di Aziz con la vedova di Rodrigo o con una sua figlia, e
questa notizia, se è vera, indica che, accanto agli episodi
militari, peraltro di rilievo relativamente piccolo, la conquista
di al-Ándalus si svolge soprattutto attraverso l’iniziativa
politica. Certo è che Aziz viene assassinato nel 716. Pochi mesi
dopo la direzione dell’operazione viene assunta dall’emiro di
Qayrawan, sulla costa africana, al-Hurr, che trasferisce la
capitale a Cordova. Da qui vengono dirette le spedizioni militari
che arrivano fino a Bordeaux, e sono fermate a Poitiers da Carlo
Martello nel 732.
Al tempo della conquista la religione islamica si basa
soprattutto sul Corano e su interpretazioni orali: il lavoro
teologico e interpretativo è appena agli inizi, così come la
tradizione giuridica musulmana. Lo stesso testo del Corano,
trascritto senza segni diacritici né vocali brevi, subisce
molteplici interpretazioni. L’incontro tra cristianesimo e islam
nell’VIII secolo non è paragonabile al confronto odierno tra queste
due tradizioni religiose, ora consolidatesi e strutturate (o
sclerotizzate) da una riflessione plurisecolare. Inoltre è
comprensibile che i musulmani potessero contare sull’appoggio degli
ebrei, che avevano subito dure discriminazioni da parte dei
visigoti, particolarmente dalla fazione cattolica attraverso una
legislazione fortemente discriminatoria promulgata nei concili di
Toledo: si era iniziato con l’obbligo di battezzare i figli dei
matrimoni misti, con misure di controllo sui convertiti,
proseguendo poi con la proibizione di commerciare coi cristiani, e
con vere e proprie persecuzioni, fino al sequestro dei beni e
all’obbligo di battezzare i figli di età inferiore a sette anni. Di
fronte a ciò, il Corano ammette la libertà di culto delle religioni
rivelate e, anche se attribuisce un valore superiore al
cristianesimo rispetto all’ebraismo, non consente discriminazioni
nella vita quotidiana.
Il Corano non ammette conversioni forzate e chiede alle
popolazioni di altre fedi il pagamento del tributo di capitolazione
o chizya. Sotto il regno di Umar II il Santo (717-720), durante la
conquista della Spagna, viene chiarito che tale tributo non deve
essere pagato più da coloro che si convertono all’islam, e questa
misura non è certo priva di conseguenze. Ma a parte questo, il
principio coranico del tributo di capitolazione consente che un
conte visigoto resti al potere nel suo contado, riscuotendo la
tassa e versandola poi ai musulmani: sembra anche che questo abbia
rappresentato per i popolani un notevole risparmio rispetto alle
tasse pagate in precedenza.
Sostanzialmente l'occupazione musulmana non è una
militarizzazione del Paese, ma è una sostituzione della classe
dirigente, prevalentemente a seguito di un accordo politico.
Risulta significativo il testo pervenuto della capitolazione di
Teodomiro, che controllava un vasto territorio nel sud della
Penisola, perché vi si legittima l’autorità locale visigota,
inglobandola senza grossi cambiamenti nel nuovo assetto
istituzionale. Successivamente, attraverso una trasformazione
graduale, i nobili visigoti sarebbero anche stati accolti
nell’amministrazione del nuovo stato, conservando il ruolo
preminente delle loro famiglie.
In una fase successiva, man mano che si precisa la formulazione
della legge coranica, viene proibito agli infedeli, o dimmíes di
esercitare l’autorità sui musulmani, ma viene lasciata loro piena
autonomia per ogni problema interno alla loro tradizione religiosa:
amministrazione del diritto civile e, in parte, penale, imposizione
fiscale, pratica della loro fede… e in al-Ándalus, curiosamente, la
domenica resta giorno festivo, nonostante l’affermazione del Corano
che Dio, essendo onnipotente, non aveva avuto bisogno di riposare
il settimo giorno.[footnoteRef:7] [7: Cfr. Manuela Marín, Últimas
teorías, in Aa. Vv. La invasión árabe de España, in ; Évariste
Lévi-Provençal, Histoire de l’Espagne musulmane, Maisonneuve &
Larose, Paris, 1950, 3 voll; cfr. anche España musulmana hasta la
caída del califato de Córdoba, tradotto da Emilio García Gómez
nella Historia de España diretta da Ramón Menéndez Pidal,
Espasa-Calpe, Madrid 1965) accetta il racconto delle fonti arabe e
spiega la velocità della conquista con la debolezza dello stato
visigoto, ormai in dissoluzione. Vero è, però, che non ci sono
fonti importanti per ricostruire la storia dell’ultimo periodo
della monarchia visigota. Cfr. anche Pierre Guichard, al-Ándalus.
Estructura antropológica de una sociedad islámica en Occidente,
Barcelona, 1986.]
L’islamizzazione[footnoteRef:8] [8: Per questo paragrafo cfr.
Juan Vernet, La islamización, in Aa. Vv. La invasión árabe de
España, cit., .]
Nel 1948, Américo Castro pubblica España en su historia.
Cristianos, moros y judíos.[footnoteRef:9] Castro parte dall’idea
fondamentale che, prima della conquista musulmana, la Spagna come
tale non esistesse, ed anzi è proprio con la conquista che inizia
il processo storico che avrebbe portato nel tempo alla costruzione
dell’idea stessa di Spagna: la convivenza delle tre religioni e il
ruolo centrale dell’islam condizionano tutto lo sviluppo storico
posteriore della penisola: non sarebbe mai esistito quell’orgoglio
nazionale manifestatosi nella battaglia di Covadonga e nella
volontà di reconquista. [9: Cfr. l’edizione Grijalbo, Barcelona
1996; il testo viene ripubblicato, con varie modifiche, col titolo
La realidad histórica de España, a partire dal 1954.]
Le idee di Castro sono generalmente accettate dagli arabisti,
mentre vengono contestate da un grande medievalista spagnolo,
Claudio Sánchez Albornoz, che nel 1956 pubblica España, un enigma
histórico.[footnoteRef:10] Per Sánchez Albornoz l’irruzione
dell’islam rappresenta una deviazione dal cammino che la storia
della Spagna stava seguendo e avrebbe seguito, e tuttavia l’islam
avrebbe rappresentato una cultura sovrapposta a quella già
esistente, senza modificare la forma di vita delle città e delle
popolazioni. [10: Editorial Edhasa, Barcelona 2000.]
La storiografia posteriore cerca di revisionare i dati
conosciuti, ricorrendo anche a fonti arabe. Ad esempio, nel 1967
l’arabista Joaquín Vallvé pubblica in un articolo intitolato «Sobre
algunos problemas de la invasión musulmana»[footnoteRef:11] e in
altri successivi sostiene che Julián non fosse governatore di
Ceuta, ma di Cadige e che al-Ándalus non significherebbe l’isola
dei vandali, ma farebbe riferimento ad Atlantide, atlantico. Le
conoscenze geografiche degli arabi all’epoca si basano su fonti
greco-latine e ne riportano gli equivoci. Inoltre tenta
un’interpretazione critica di leggende e dati tradizionali nel
tentativo di identificare fatti e personaggi reali. Questa
interpretazione storico-filologica, pur discutibile in molte
questioni singole, fa emergere in primo piano un fondo culturale
pre-islamico che sarebbe continuato, con nomi diversi, in forma di
mito o leggenda, peraltro senza mai mettere in questione il
significato della conquista per la storia della Spagna. Nel
1969 viene pubblicata in francese l’opera di Ignacio Olagüe Les
arabes n'ont jamais envahi l'Espagne (poi ampliata nella versione
spagnola La revolución islámica de Occidente[footnoteRef:12]). Ne
parliamo più avanti. [11: Anuario de Estudios Medievales, IV,
361-367.] [12: La revolución islámica de Occidente, Fundación Juan
March, Barcelona, 1974.]
Chi sono gli arabi?
In teoria gli arabi sono gli abitanti dell'Arabia prima
della predicazione di Muhammad, tuttavia nell’espansione dell’islam
il significato del termine tende ad ampliarsi, in quanto
l’islamizzazione coincide in parte con l’arabizzazione (almeno con
lo studio della lingua araba in cui è scritto il Corano).
Degli arabi prima della predicazione del Corano sappiamo molto
poco, anche se abbiamo notizie sporadiche a partire dal IX sec.
a.C. Arabaya fu una satrapia organizzata dai persiani (539 a.C.) e
poi una provincia romana. Gli autori antichi chiamavano i loro
abitanti «arabi che vivono nelle tende»; furono poi detti sarakenoi
in greco e saraceni in latino. Erano considerati nomadi, e questo è
tutt’ora il significato dell’espressione al arab.
La vita del deserto si basa prevalentemente sulla pastorizia,
l’allevamento di cammelli e il commercio. Le difficoltà di
sopravvivenza conducono da un lato a sviluppare un forte senso di
solidarietà (familiare, etnica, di clan o di alleanza), e
dall’altro alla frequente razzia. Si forma una visione giuridica
basata sulla legge del taglione la quale, oltre ad avere una certa
efficacia, decentralizza l’amministrazio-ne della giustizia e
lascia un ampio margine alla trattativa giuridica (ad esempio per
sostituire una pena corporale con un risarcimento economico).
Queste popolazioni arabe prima della predicazione del Profeta
non avevano un sentimento nazionalista, essendo l’unità sociale
fondamentale la famiglia, il clan o la tribù, tuttavia avevano
usanze comuni e soprattutto una lingua: sia pure attraverso vari
dialetti che venivano compresi tra loro, essa permetteva di
distinguere tra «coloro che parlano chiaro» e «coloro che parlano
confusamente», ovvero gli stranieri. Gli arabi del sud, stabilitisi
nello Yemen, avevano dato vita a una millenaria civiltà basata
sugli affari.
In Arabia l’agricoltura si praticava in prossimità delle oasi.
In una di queste era situata la capitale Medina (Yathrib). Lo
sviluppo della città era stato creato dagli ebrei: gli arabi vi
giungono in un secondo momento, ma assumono il controllo politico
della zona. Gli ebrei sono presenti, e a volte predominanti, in
altre oasi: conservano la loro religione, ma adottano i costumi
arabi, e non si esclude che alcuni gruppi fossero arabi convertiti
all’ebraismo. Poco prima della predicazione del Corano, tra
l’Arabia e lo Yemen è diffuso anche il cristianesimo: gli arabi
hanno relazioni commerciali stabili con l’impero bizantino e quello
abissino, entrambi cristiani. Sembra fossero presenti forme di
paganesimo, che ammettono tuttavia un dio supremo al di sopra degli
altri dèi. È del tutto priva di fondamento l’idea che la
predicazione del Corano sia stata rivolta a popolazioni barbariche
e ignoranti, dotate di scarso dinamismo sociale e poca capacità
organizzativa, nonché inconsapevoli di una loro unità
culturale.
La tradizione indica nel 570 d.C. l’anno di nascita del profeta
Muhammad alla Mecca, dove diventa commerciante ed ha una normale
vita familiare e professionale fino alla rivelazione, che avviene
quando il profeta ha quarant’anni, e inizia la predicazione, in un
clima di crescente ostilità. Islam significa sottomissione a Dio, e
il primo messaggio si racchiude nell’accettazione dell’unico Dio e
nel richiamo al suo giudizio. La diffusione della nuova fede presso
i ceti popolari e la morte di uno zio che lo protegge, favoriscono
la nascita di complotti contro Muhammad, che è costretto a fuggire
a Medina nel 622: è la higra o egira, l’inizio di una nuova epoca,
a partire dalla quale il mondo mussulmano inizia il computo degli
anni. Dopo vari combattimenti il profeta torna vittorioso alla
Mecca, che rapidamente si converte all’islam.
Il primo messaggio coranico è molto concreto, e afferma la
necessità dell’onestà negli affari, la condanna dell’usura, il
diritto dei poveri sui beni dei ricchi, la difesa di coloro che non
appartengono a nessuna tribù, e degli stranieri rimasti senza
alcuna protezione nella Penisola; così sono proprio i ceti popolari
a fornire inizialmente il maggior numero di proseliti alla nuova
religione. Dei primi compagni del profeta cinque sono schiavi:
Bilal, Khabab, Suhaib, Ammar e sua madre Sumaya. Muhammad ebbe a
dire: «Io sono il primo degli arabi, Salman è il primo dei
persiani, Bilal il primo degli etiopi e Suhaib il primo dei greci».
Successivamente entrano nell’islam i ceti sociali più benestanti,
forse anche per neutralizzarne le tendenze più radicali: se il
primo califfo dopo la morte del profeta è Abu Bakr, commerciante
che usa tutto il suo denaro, fino alla rovina, per l’organizzazione
dell’islam, il terzo califfo è ‘Osman ibn ‘Affan, del clan degli
Umaya, ostili a Muhammad, e ricchi commercianti.
Con l’occupazione di Medina, che non viene saccheggiata, inizia
una strategia di conversione graduale, di inserimento dell’islam
nelle strutture sociali esistenti, che verranno poi trasformate
dall’interno: l’organizzazione sociale pre-islamica viene
rivitalizzata da una nuova idea di solidarietà, radicata ora su un
fondamento religioso. I rapporti tribali di parentela vengono
superati dalla fratellanza tra tutti i musulmani, di ogni lingua e
razza. L’ultimo discorso del profeta insiste sull’uguaglianza tra
arabi e non arabi entro l’islam.
Che l’espansione rapida dell’islam sia il frutto di una feroce
conquista operata da truci guerrieri con il Corano in un mano e la
spada nell’altro è una favola a cui non si può credere, se non nel
quadro di una storiografia psichedelica. L’idea di un’occupazione
militare di territori vastissimi nel giro di pochi anni, viene
sostituita oggi dalla visione di un processo che, pur avvalendosi
di episodi militari, è sostanzialmente un processo di
islamizzazione o espansione religiosa e politica. Attaccata la
Siria nel 635, nel 642 erano già conquistati Palestina, Iraq,
Persia ed Egitto, praticamente senza neanche l’esistenza di un
esercito organizzato e rifornito! È più ovvio pensare che singoli
episodi militari, peraltro di dimensioni relativamente ridotte,
siano lo strumento al servizio di una intelligente strategia
politica che si inserisce in società spesso indebolite da forti
contraddizioni e conflitti. Far consistere la sottomissione in un
tributo, che lascia inalterata la struttura sociale, è stata l’arma
vincente per creare la cornice politica entro cui sviluppare un
processo culturale e sociale di islamizzazione.
Conquistato l’Egitto, l’espansione si dirige verso occidente,
arrivando alla Libia e a Tunisi, nelle cui vicinanze viene fondata
l’importante città di Qayrawan. Con la sottomissione dei berberi,
un eccellente popolo guerriero è incorporato al disegno politico
islamico. Naturalmente, la leggenda molto posteriore delle
conquiste militari travolgenti e delle grandi imprese della
cavalleria araba conveniva sia ai vincitori che agli sconfitti. Nel
caso dell’invasione della Spagna, oltre alla bella figura militare,
c’erano le aspirazioni di Cordova ad accrescere il proprio peso
politico e il convergente interesse dei cristiani a usare il mito
della conquista della Spagna come giustificazione della loro
riconquista.
Critica della ricostruzione storiografica tradizionale
Come ha osservato Olagüe, secondo la versione storiografica
tradizionale, un ridotto numero di arabi sbarca dalle parti di
Gibilterra a gruppi di cinquanta per volta, e, invece di essere
facilmente rigettato a mare, trasforma l’intera Penisola: i
cristiani diventano musulmani, i monogami diventano poligami,
cambiano abiti, costumi, tradizioni, tecniche di costruzione,
divertimenti, e un tizio di etnia omayyade sbarca a Cordova con
l’idea di diventare califfo, a dispetto degli occhi azzurri e dei
capelli biondi che la tradizione gli attribuisce. 25.000 arabi
sottomettono vari milioni di spagnoli cristiani fanatizzati o
fanatizzabili dai loro vescovi. Poco importa che questi 25.000 non
siano tutti arabi, ma copti, berberi, siriani, gente raccolta en
passant, i cui cavalli non si preoccupano di riserve d’acqua e di
biada. Questi 25.000 non parlano l’arabo ed è dubbio che tutti
conoscano il Corano. Li comanda un gruppo di pastori che, fino al
giorno prima, conosceva la transumanza più che l’arte della guerra,
e doveva fare una vita poco diversa da quella dei beduini che
portano a spasso in cammello i turisti occidentali.
Per operare nei terreni in cui si è svolta la conquista, ogni
cavallo ha bisogno di 40 litri di acqua al giorno, che non si
trovano facilmente nel deserto; i cavalli arabi dell’epoca non
hanno i ferri e non esistono selle: dunque la mitica cavalleria
araba cavalca a pelo bestie con le zampe distrutte. E comunque pare
che i cavalli non sappiano convivere con i cammelli: sono razze
poco compatibili e ciascuna è irritata dall’odore dell’altra. Per
attraversare lo stretto di Gibilterra con quattro lance messe a
disposizione di Julián gli uomini di Táriq avrebbero impiegato tre
mesi, e i visigoti li avrebbero eliminati con facilità.
La prospettiva cambia se l’intervento di Táriq viene visto nel
quadro della guerra civile visigota tra cattolici romani e
ariani.
Ario era stato scomunicato dal concilio di Nicea del 325. La sua
idea-forza è l’unità assoluta di Dio, del quale, di conseguenza,
Cristo sarebbe solo un profeta e il dogma della Trinità viene
negato. L’arianismo si radica con forza in Asia minore, costituendo
il sostrato su cui successivamente s’innesta l’islam. In Spagna,
quando inizia la diffusione dell’islam, non c’è una compattezza
religiosa, ma esistono una presenza del paganesimo, un’importante
comunità ebraica monoteista, una comunità gnostica e sincretista
creata da Prisciliano, la maggioranza dei visigoti legati
all’unitarismo ariano, e la componente cristiana trinitaria o
cattolico romana. Va inoltre ricordato l’influsso, a seguito della
presenza bizantina, di forme del cristianesimo orientale, al
momento ancora non separato dal grande scisma d’occidente, e
tuttavia già fornito di una sensibilità piuttosto diversa da quella
del mondo romano. Quando viene sconfitto don Rodrigo,
rappresentante del cattolicesimo trinitario romano, l’ideologia
culturale politico-religiosa della fazione vittoriosa si può
sintetizzare in questi punti: Dio è uno, Cristo è un profeta;
quanto alla poligamia, è ammessa dall’arianesimo, dall’ebraismo e
dalle antiche comunità iberiche. Questo quadro dottrinario evolve
in direzione dell’islam, come avviene in Asia minore.
La ricerca di Olagüe mette in discussione le modalità della
conquista araba del Nord-Africa, che secondo la tradizione sarebbe
avvenuta attraverso varie scorrerie tra il 647 e il 701; in realtà
la situazione nel Nord-Africa si stabilizza molto tempo dopo e
ancora nell’VIII secolo ci sono ribellioni dei berberi che sembrano
riconquistare buona parte del loro vecchio territorio. Di fatto,
senza una situazione tranquilla in Maghreb, era molto difficile
partire alla conquista della Spagna nel 711. 25.000 arabi
occupanti, significa più o meno un arabo ogni 23 kmq: un po’ poco
per islamizzare un Paese. Peraltro, si tratta di uomini
appartenenti a molte tribù, che iniziano subito a farsi guerra tra
loro. La Spagna visigota dovrebbe aver avuto circa cinque milioni
di abitanti: non pare che ispano-romani e visigoti anti-trinitari
fossero tanto interessati a liberarsi dell’invasore. D’altra parte
non si risolve alcun problema ipotizzando l’invasione di un
esercito più numeroso e poderoso, tale da realizzare realmente
un’occupazione militare del territorio. In primo luogo un esercito
del genere non esisteva; in secondo luogo, non c’era la possibilità
reale di fargli attraversare il deserto libico a piedi o a cavallo,
per di più in un territorio ostile, né esisteva una flotta capace
di trasportarlo. Secondo ciò che sappiamo, la ferratura dei cavalli
appare in Gallia in epoca merovingia e fino al secolo IX si
cavalcava a pelo: in queste condizioni la traversata del deserto è
impossibile.
Ricostruzione del contesto religioso
Nel 400, nel primo concilio di Toledo, alla presenza di 19
vescovi, si ha la proclamazione del dogma trinitario, in linea con
la posizione del Concilio di Nicea. La questione trinitaria è
centrale in questa fase della storia del cristianesimo, data la
forte resistenza ad accettare l’idea della duplice natura, umana e
divina, di Gesù di Nazareth, e la difficoltà di formularla restando
all’interno di un rigido monoteismo. La formula della trinità
adottata a Nicea impone di fatto la separazione delle comunità
cristiane in due bandi: i trinitari e gli unitari.
Il I concilio di Toledo era stato convocato per condannare
Priscilliano, cui viene attribuito un insegnamento di tipo
gnostico, considerato molto pericoloso dalle gerarchie cattoliche.
Tuttavia all’epoca la religione ufficiale dello stato visigoto è
ancora l’arianesimo, e tale resterà fino alla conversione di
Recaredo nel 589 (concilio III di Toledo): il re abiura
l’arianesimo a nome suo personale e dell’intera della stirpe gota,
ut tam de eius conversione quam de gentis Gothorum innovatione,
scatenando forti ribellioni.[footnoteRef:13] [13: L’importanza di
Priscilliano è enorme. Riguardo al problema della trinità aveva
adottato la formula: Gloria Patri et Filio, Spiritu Santo.
L’eliminazione della seconda et suggerisce la fusione della seconda
e terza persona della trinità. Un concilio ariano riunito a Toledo
nel 580 adotta una formula senza preposizioni: Gloria Patri, Filio,
Spiritu Santo. Viene abolita la necessità di un nuovo battesimo
ariano per quanti si convertivano dal cattolicesimo romano (romana
religio): de romana religione ad nostram Catholicam fidem. Nel 582,
viene adottata una nuova formula, ancor più vicina a quella romana:
Gloria Patri per Filium in Spiritu Santo. Sembra che questo
atteggiamento ariano abbia stimolato un flusso di conversioni, a
cui mette fine la guerra civile scoppiata per l’abiura di
Recaredo.]
I testi teologici cattolici della fine VII sec. - inizio IX non
fanno menzione di Maometto né della sua dottrina, anche se sono
scritti in gran parte per combattere posizioni eretiche. Se
all’inizio dell’VIII secolo gran parte del Mediterraneo si fosse
trovata dentro la fede islamica, sarebbe stato ovvio che i teologi
cristiani attaccassero proprio l’islam come nemico per antonomasia.
La novità del momento era invece l’adozionismo, cioè la concezione
secondo cui Cristo era stato adottato da Dio Padre - tesi sostenuta
tra l’altro dal vescovo di Toledo.
Le prime notizie sull’islam in ambito cristiano, a Cordova, sono
attestate solo nella metà dell’800, quando un autore cristiano di
Cordova, Eulogio, viene a sapere, stando all’estero, dell’esistenza
di Maometto. Trovandosi sui Pirenei per affari personali, Eulogio
non può attraversarli a causa della guerra tra ‘Abd al-Rahmân II e
Carlo il Calvo. Si reca allora a Pamplona, dove viene per la prima
volta a sapere dell’esistenza di Maometto.
Le due rive dello stretto di Gibilterra erano di fatto
territorio visigoto, il che implica comunicazioni regolari e
frequenti tra popolazioni che vivono in un comune contesto
culturale. Peraltro questa comunicazione è attestata in tempi molto
antichi. Di conseguenza l’intervento di Táriq nella guerra civile
visigota non avrebbe niente di straordinario. L’unico personaggio
arabo di una certa importanza sarebbe dunque Musa, sul quale, però,
i dati tradizionali sono piuttosto confusi. Secondo le cronache
arabe, sarebbe nato a La Mecca nel 640, e avrebbe dunque avuto 71
anni all’epoca dell’invasione. Non è chiaro come avrebbe potuto
costituire il suo esercito ed è un’esagerazione pensare che abbia
occupato la Penisola Iberica in poco più di tre anni. Ammesso che
non sia un personaggio favoloso, le fonti berbere lo caratterizzano
con tratti di profeta, di cui in seguito sarebbe stato accentuato
il carattere militare.
al-Ándalus
La composizione etnica e culturale di al-Ándalus è molto
complessa e include visigoti, berberi, arabi, ispano-romani,
schiavi bianchi e neri; le tre grandi religioni monoteiste
convivono con culti minori e residui di culture pre-islamiche e
pre-cristiane. Inizialmente i musulmani sono in numero ridotto, e
quando la loro consistenza numerica aumenta con le immigrazioni, si
complica ulteriormente il quadro etnico.
Gli arabi costituiscono la classe di governo dal 711 alla fine
della dinastia Omeya (secondo la trascrizione spagnola; Ommayyade,
nella trascrizione italiana), nel 1031.[footnoteRef:14] Occupano le
posizioni predominanti nella vita sociale, economica, politica e
culturale del Paese. Diffondono l’islam anche presso le altre
etnie, e l’arabo diviene la lingua di cultura, usata anche da ebrei
e cristiani. La lingua araba era allora in una fase di continua
trasformazione, e il linguaggio parlato era probabilmente assai
vicino a quello coranico. In al-Ándalus la situazione linguistica
avrebbe ostacolato un’arabizzazione forzata: nel Paese si parlano
il latino, l’ebraico, i dialetti romanzi, e gli stessi berberi
erano privi di una uniformità linguistica. [14: Cronologia di
al-Ándalus:711-732: Penetrazione musulmana 756-929: Emirato di
Cordova 929-1031: Califfato di Cordova1039-1085: Primi regni di
taifas1085-1145: Arrivo degli Almoravidi 1144-1170: Segundi regni
di taifas1147-1226: Arrivo degli Almohadi 1226-1238: Terzi regni di
taifas1238-1492: Regno di Granada ]
Gli arabi di al-Ándalus praticano senza problemi matrimoni misti
e accolgono al loro servizio molti cristiani, che adottano nomi,
costumi e anche genealogie arabe. Restano tuttavia sempre divisi al
loro interno e conservano le loro tradizionali rivalità tribali. I
berberi sono il gruppo più importante nelle prime spedizioni
militari in terra di Spagna. È possibile che usare un corpo di
spedizione berbero sia stato un’abile mossa politica per
alleggerire le ostilità degli stessi berberi contro gli arabi nella
costa africana - ostilità che non cessano all’interno di
al-Ándalus, dato che i berberi sono delusi della parte di bottino
loro assegnata. I berberi amministrano in modo sostanzialmente
autonomo i territori di Badajoz, Toledo, Malaga, Granada e
Algeciras. Non si integrano pienamente con gli arabi e si dividono
sul territorio, stabilendosi gli uni sulle montagne e gli altri
nelle pianure. La loro organizzazione è di tipo tribale e risente
di molte divisioni e conflitti interni. Il loro legame con gli
arabi è dato dall’islam e, in misura minore, dalla lingua. Dotati
di un forte spirito di indipendenza, nell’XI secolo prendono il
potere in al-Ándalus e lo conservano fino all’arrivo degli
almoravidi e degli almohadi. Questi conflitti, però, non intaccano
la comune fede nell’islam, né hanno riflessi significativi sugli
usi, i costumi, la lingua, la cultura.
Dell’islam spagnolo o andaluso fanno parte muladíes e musalimah,
cioè musulmani di origine spagnola. Si tratta di due gruppi
distinti dagli autori musulmani. I muladíes (muwalladun), che per
gli spagnoli cristiani sono dei rinnegati, sono figli di matrimoni
misti: padri arabi o berberi sposati con donne cristiane. I
musalimah sono invece cristiani convertiti, per fede o per
convenienza. Con l’andare del tempo, i muladíes diventano la
maggioranza della comunità islamica di al-Ándalus. Adottano
costumi, usanze, mode e lingua araba e arabizzano il loro nome.
Notevole è poi la presenza di saqalibah (schiavi). Sono prigionieri
di guerra o schiavi comprati nei mercati e provenienti dalle
regioni più diverse; in genere assimilano rapidamente la cultura
islamica. Non è raro il caso di schiavi saliti a posizioni di
grande influenza o che acquisiscono grandi ricchezze. Restano
fedeli alla dinastia ommayyade e, dopo la presa del potere dei
berberi, allontanati dai posti di comando, fondano alcune entità
politiche autonome, come a Tolosa, Valencia e nelle Baleari.
In al-Ándalus i non musulmani diventano una minoranza il cui
stato giuridico è analogo a quello di altri paesi islamici.
Cristiani ed ebrei sono trattati favorevolmente, in quanto fedeli
di una religione del Libro (ahl al-Kitab, genti del libro, o ahl
al-dhimmah, genti del contratto): l’islam considera l’Antico e il
Nuovo Testamento come rivelazioni parziali in un percorso profetico
che culmina nel Corano; il Corano contiene la rivelazione completa
e le chiavi di lettura dei testi precedenti, ai quali viene
comunque riconosciuta l’ispirazione divina. In base a ciò,
cristiani ed ebrei godono di una protezione, basata sui precetti
coranici, e possono svolgere il loro culto. Diversi nella fede,
essi diventano comunque arabizzati nei costumi, al punto che
esteriormente non sono distinguibili dai musulmani. Le loro
pratiche sono permesse e hanno una giurisdizione autonoma su
matrimoni, divorzi, regime alimentare e questioni di diritto
civile; possono avere proprietà e svolgere qualunque mestiere.
Viene però proibita la propaganda religiosa e non possono portare
armi. Nelle cause giuridiche che coinvolgono dei musulmani la loro
testimonianza non viene ammessa. In teoria non possono edificare
nuove chiese o sinagoghe, ma nella pratica questo divieto viene
aggirato abbastanza facilmente. In compenso cristiani ed ebrei
ottengono anche la carica di ministri o consiglieri del
sovrano.
Vi sono periodi in cui prevale temporaneamente un fanatismo
musulmano che conduce a restrizioni delle libertà concesse a
cristiani ed ebrei (ad esempio durante il governo almoravide);
tuttavia non si verificano mai persecuzioni analoghe a quelle
praticate nella Spagna visigota, e in altre parti del mondo
cristiano, contro gli ebrei. Nell’essenziale, la tolleranza
musulmana non viene mai meno e la partecipazione dei non musulmani
alla vita sociale è attiva e proficua: la collaborazione tra ebrei
e musulmani è massima ed è uno dei motori dello splendore culturale
ed economico di al-Ándalus. In Siria, in Palestina, in Egitto,
oltre che in Spagna, gli ebrei avevano accolto gli arabi come
liberatori, perché sotto il loro governo cessavano di essere una
comunità emarginata e perseguitata. In seguito si arabizzano a tal
punto nei costumi che un importante esponente della comunità
ebraica egiziana, Sa'adya Gaon (m. 942), sente il bisogno di
tradurre la Bibbia in arabo per i suoi correligionari. Anche per i
cristiani di al-Ándalus è necessario tradurre in arabo il Vangelo.
Ebrei e musulmani collaborano finché non diventano entrambi vittime
della repressione nei territori riconquistati dalla Spagna
cattolica nel XV secolo e gli ebrei, quando vengono espulsi nel
1492, si rifugiano nei paesi islamici. Convertiti all’islam, o
seguaci della propria fede, gli ebrei si islamizzano completamente
dal punto di vista culturale, al punto che è difficile
differenziare tra arabi ed ebrei nel campo della filosofia, della
letteratura, delle scienze. Yahuda ibn Dawud scrive in arabo la
prima grammatica della lingua ebraica con criteri scientifici,
usando la grammatica araba come modello.
Mozárabes sono i cristoani che vivono nel territorio di
al-Ándalus. Una parte di loro si converte all’islam, ma un nucleo
importante rimane fedele al cristianesimo, arabizzandosi nella
lingua, nei costumi e nella cultura: da qui la loro denominazione
(mozárabes da al-Musta'ribun).[footnoteRef:15] Vivono in armonia
con i musulmani e nelle città, dove hanno i loro quartieri, possono
circolare liberamente; hanno, come si è detto, un’autonomia
giuridica e amministrativa e sono governati da un conte (comes,
qumis) che funge anche da intermediario con il governo centrale.
Conservano in vigore il loro diritto visigoto, in particolare il
codice detto Fuero juzgo. [15: Cfr. E. Vanoli, La Spagna delle tre
culture, cit., 75: «Il termine “mozarabo” [...] non fu mai
utilizzato durante il periodo della dominazione araba. La parola,
certo, deriva dall’arabo, musta’rib, cioè “arabizzato”, ma non
compare che agli inizi del secolo XII. Inoltre la troviamo solo in
ambiente latino: già nelle prima leggi cittadine concesse ai
toledani dai nuovi monarchi cristiani. Per secoli i governanti
musulmani, invece, preferiranno rimanere sul generico, definendo i
cristiani come mu‘âhidûn, “coloro che hanno stabilito un patto”».
Naturalmente, se la parola viene usata in un testo scritto, per di
più a carattere giuridico, vuol dire che essa era usata in
precedenza nella lingua orale, dove aveva un significato univoco e
preciso. Ed è difficile pensare che l’uso di questo termine abbia
inizio nei territori cristiani: gli antichi etimologisti,
Covarrubias in prima fila, non assegnano al termine un’origine
araba, ma latina, da mixtiarabes (Sebastián de Covarrubias Orozco,
Tesoro de la lengua castellana o española, ed. Felipe C. R.
Maldonado, Castalia, Madrid 1995, s.v.). Solo un uso preesistente
nei territori di al-Ándalus spiega che il termine sia diffuso in
zona cristiana, ma che non se ne conosca l’origine.]
Sotto il regno di ‘Abd al-Rahmân II alcuni mozárabes vengono
istigati da chierici fanatici al martirio, cercato insultando
pubblicamente il profeta Muhammad, e questa strategia di
provocazione è la scintilla che provoca alcune ribellioni; tuttavia
dal punto di vista teologico una tale pratica era immorale e le
autorità ecclesiastiche si impegnano per farla cessare.
Molto spesso i mozárabes si arruolano nell’esercito musulmano, e
quindi combattono contro i cristiani del nord impegnati nella
conquista dei territori andalusi. In altri casi raggiungono posti
di rilievo nella gerarchia sociale. Non sono rari i matrimoni di
cristiane con musulmani che permettono alle mogli di continuare a
praticare la religione cristiana: spesso i membri di una stessa
famiglia sono seguaci di religioni diverse. In questi casi la
conoscenza dell’arabo e della lingua romanza, consente di stabilire
un ponte ideale tra il mondo islamico e quello cristiano,
attraverso il quale passa la trasmissione della cultura araba
all’Europa. Nella società andalusa i mozárabes sono eccellenti
artigiani, costruttori, funzionari pubblici e intellettuali.
Purtroppo non è sufficientemente studiato il loro contributo alla
letteratura e agli studi scientifici in arabo, che certamente non
fu insignificante. È noto il caso del vescovo Recemundo, conosciuto
dagli arabi come Rabi ibn Zayd al-Usquf al-Qurtubi, che fu grande
scienziato e autore di trattati di astronomia.
La situazione dei cristiani di al-Ándalus, tuttavia, tende a
peggiorare man mano che i cristiani del nord occupano i territori
musulmani. Il progredire della conquista cristiana diventa un
fattore di divisione dei mozárabes, causando tensione sociale e
intolleranza religiosa. In seguito a ciò, almoravidi e almohadi
adottano misure restrittive, tuttavia senza arrivare agli eccessi
usati in seguito nei regni cristiani verso i musulmani che si
ritrovano a vivere nelle terre riconquistate.
I musulmani nelle fonti spagnole vengono chiamati moros, termine
derivato probabilmente da Mauritania (nord-est dell’Africa); più
precisamente, moros erano i berberi, mentre gli arabi erano
chiamati alárabes. Nei territori riconquistati, i musulmani rimasti
in terra cristiana sono chiamati mudéjares, dalla parola araba
mudachchan, «colui al quale è permesso di rimanere». Inizialmente,
viene consentito loro di restare in territorio cristiano in cambio
di una tassa: ciò permette di utilizzarne le eccellenti abilità nel
commercio, nell’industria, nell’architettura, nelle arti; hanno
libertà di culto, costumi propri e autonomia giuridica. Ma dopo la
caduta del regno di Granada nel 1492 vengono imposte misure sempre
più gravi di pulizia etnica, volte a deislamizzare il Paese. Si
ricorre al battesimo forzato, che viene considerato comunque
valido, indipendentemente dalla volontà e dalle convinzioni del
battezzato: a seguito di ciò, il mudéjar viene considerato a tutti
gli effetti cristiano cattolico, e viene chiamato morisco, o
cristiano nuevo de moros. Come avviene per gli ebrei, qualora lo si
sorprenda a praticare la sua antica religione, viene considerato
apostata, e quindi passibile di condanna a morte.
Cordova
La creazione dell’emirato di Cordova (756, fino al 929) permette
di avviare relazioni stabili con gli altri paesi islamici e di
introdurre in al-Ándalus le opere maestre della letteratura e del
sapere arabo. Sugli inizi di una produzione letteraria autoctona
non siamo molto informati. I primi scritti andalusi in prosa araba
sono costituiti da testi di oratoria o epistolari, legati
all’attualità religiosa o politica. L’oratoria, già presente nel
periodo pre-islamico, era particolarmente apprezzata, e l’oratore
(jatib) era un personaggio molto stimato: la sua arte aveva regole
ben precise relative alla forma del discorso, alla disposizione del
contenuto, all’atteggiamento nella declamazione, ecc. Diviene
abituale fare uso di una prosa rimata di grande livello
letterario.
La prosa è uno dei principali veicoli dell’educazione (adab)
islamica (àdab significa sia educazione, sia ampiezza di conoscenze
che un uomo colto dovrebbe avere). Adab e ‘ilm (sapere) procedono
insieme. Queste conoscenze riguardano la religione, la grammatica e
la lessicografia arabe, la poesia, la storia, le massime, le
scienze speculative e naturali, ma anche lo sport e i giochi,
l’etichetta nel mangiare, nel bere e nella condotta sociale. I
testi relativi a questo tipo di educazione vengono selezionati e
raccolti in antologie, e vanno a costituire la letteratura
dell’adab.
Uno schema approssimativo della struttura sociale andalusa
potrebbe dare luogo alla seguente piramide:
Al vertice il re: vicario del Profeta, dunque situato idealmente
fuori dalla struttura sociale, e membro di una famiglia per quanto
possibile prossima a quella del Profeta. Il re ha il compito di
governare la società. Contrariamente a quanto si è detto talvolta,
i re andalusi usavano il trono e seguivano un protocollo che li
distingueva dalla nobiltà.
Attorno al re la nobiltà: nell’emirato era la famiglia degli
Omeya (ahl al-Qurays). L’aristocrazia ha beni propri, che
amministra attraverso funzionari nominati per competenza e non per
origine o sangue. Accanto a questa aristocrazia familiare sta
un’aristocrazia funzionale, formata da capi, amministratori,
dirigenti di alto rango che, nonostante le differenze giuridiche
rispetto all’aristocrazia, erano di fatto considerati nobili.
A un livello più basso c’è una classe di notabili (a'yan):
letterati, grandi artigiani, ricchi commercianti, proprietari
terrieri, in maggioranza di origine muladí, che conservano i loro
nomi o li traducono in arabo. Questa classe sociale rimane potente
anche dopo la caduta dell’emirato e arriva sino alla fine di
al-Ándalus. Vive generalmente nelle città e, quando si sposta in
campagna, viene assimilata alla nobiltà nella considerazione
generale. Molti notabili in effetti sono innalzati al rango di
nobili durante i regni di taifas (nati dalla frammentazione del
califfato, dopo il 1031) o all’epoca della monarchia nasri (o
nazarí, nelle trascrizioni spagnole), che arriva fino alla caduta
del regno di Granada.
Al di sotto sta la massa degli uomini liberi (‘amma): artigiani
di basso livello, piccoli commercianti, servi, impiegati, contadini
(quasi tutti di origine muladí), braccianti.
Dal punto di vista formale, cristiani ed ebrei non fanno parte
della società islamica, tuttavia la loro articolazione nella
società riflette i rapporti economici e di potere reali. Ad
esempio, un musulmano povero, in teoria, non dovrebbe essere
giuridicamente sottomesso alla nobiltà mozárabe, ma di fatto questo
non si verifica, e la nobiltà mozárabe ha maggiore considerazione
della massa islamica.
L’articolazione sociale dei mozárabes vede al vertice la nobiltà
(comprendente anche l’alto clero), poi i notabili con il basso
clero, quindi il popolo minuto e i servi. Se si tiene conto di
alcune critiche di parte cristiana al comportamento dei mozárabes,
bisogna concludere che i loro ceti più elevati non avevano niente
da invidiare alla nobiltà musulmana.
La struttura della comunità mozárabe si disarticola dopo la
caduta degli Ommayyadi, alla fine del califfato, e la conquista di
Toledo ad opera di Alfonso VI (1085), che suscita un fenomeno di
migrazione verso le terre cristiane.
La situazione sociale degli ebrei è simile a quella dei
mozárabes dal punto di vista giuridico, ma l’articolazione e la
struttura della loro comunità è diversa. Gli ebrei non hanno una
classe nobiliare paragonabile a quella araba o cristiana, e
assegnano un ruolo sociale più elevato alle guide spirituali,
rabbini o maestri illuminati. Il resto della comunità è articolato
dal punto di vista economico in ricchi, benestanti e poveri. Non
possono possedere schiavi e hanno un forte legame religioso con la
sinagoga. Conservano la memoria della loro terra d’origine, come
popolo di Israele in esilio, ma di fatto la loro situazione in
al-Ándalus (che in ebraico è denominata Sefarad) è positiva e il
rimpianto di Gerusalemme ha spesso un valore retorico.
La vita quotidiana delle classi privilegiate è lussuosa e
raffinata, si svolge in palazzi eleganti, nei giardini, nei bagni
pubblici (hammam). La Cordova del X sec. è la città più cosmopolita
e sofisticata del mondo musulmano e la sua architettura viene
imitata in tutti i paesi islamici. Secondo le fonti arabe ha 1600
moschee, 900 bagni pubblici, oltre duecentomila case di abitazione,
sessantamila ville e ottantamila negozi, il che dovrebbe
significare un milione circa di abitanti. È possibile che si tratti
di cifre esagerate, tuttavia l’esagerazione deve sottintendere un
eccezionale sviluppo della vita urbana e dell’economia della
Cordova musulmana, che non ha eguali nell’Europa del tempo.
Le case di abitazione sono costruite generalmente su due piani e
hanno giardini e acqua corrente. È segno di distinzione destinare
una stanza a biblioteca. I palazzi pubblici sono spesso dei veri e
propri quartieri con uffici, dormitori, magazzini, luoghi di
ricreazione e giardini. I bagni sono importanti luoghi di
socializzazione ben organizzati. Normalmente aprono al mattino per
le donne e il pomeriggio per gli uomini. Sono frequenti, laddove le
condizioni economiche lo permettono, riunioni letterarie o di
intrattenimento, per bere vino, ascoltare musica, giocare a scacchi
e altro. Si tratta di comportamenti formalmente proibiti dalle
leggi, ma praticati comunemente.
La vita familiare è centrata sul matrimonio, il cui rituale è
uguale a quello in uso nel Maghreb o nell’oriente musulmano. La
richiesta matrimoniale (jitba) include una discussione
sull’ammontare della dote (mahr), che lo sposo paga alla futura
sposa, e del corredo che questa porta da casa. La data delle nozze
viene stabilita con la consulenza di un astrologo (munayyim).
L’accordo è siglato alla presenza di due testimoni e i
festeggiamenti durano una settimana, prima in casa della sposa poi,
dopo una processione in pompa magna, in casa dello sposo, dove si
svolge il pranzo di nozze (walima).
Dalle poesie femminili e dalle biografie sembra che le donne
andaluse abbiano goduto di ampia libertà, potendo uscire
liberamente in strada e partecipare a riunioni di ogni genere:
sembra anzi che questa libertà fosse maggiore di quella che la
donna godeva negli altri paesi islamici ed è significativo che, nel
caso di un matrimonio misto, la donna cristiana continui a
praticare la sua religione.
Nelle classi alte, la donna andalusa dedica molto tempo alla
cura della propria bellezza e alle visite di amiche, che incontra
anche nei bagni pubblici; il venerdì è tradizionalmente riservato
al culto dei defunti con la visita al luogo della sepoltura. È
abituale fare gite familiari soprattutto in occasione delle feste.
La donna della classe media o popolare lavora abitualmente in casa,
filando e tessendo.
La conversione all’islam richiede al neofita l’accettazione
della formula fondamentale del monoteismo islamico e alcune
pratiche abbastanza semplici. La professione di fede comporta la
liberazione, se si è in condizione di schiavitù, e, inizialmente,
l’esenzione dalle imposte, che erano pagate dagli adepti alle altre
religioni. L’apostasia dall’islam era proibita e teoricamente
punita con la condanna a morte, così come avveniva all’interno del
cristianesimo e dell’ebraismo. È da notare che il Corano comanda il
rispetto per i popoli sconfitti e proibisce le conversioni forzate
o di massa.
Dopo le guerre civili del 711, i musulmani di seconda
generazione nascono da matrimoni misti o sono spesso di sangue
ispano, per così dire. Indipendentemente dalla conversione, molti
cristiani colti adottano l’arabo come lingua di distinzione, mentre
a livello popolare ci si intende in dialetto romanzo o in un arabo
volgare arricchito da molte espressioni castigliane che lo rendono
incomprensibile ai musulmani provenienti dall’oriente.
La scienza ispano-araba
Gli arabi del VII secolo sono discepoli diretti di greci e
alessandrini, con il tramite della Siria, dove già nel VI secolo si
sviluppa un’importante scuola di medicina, successivamente protetta
dai musulmani. I califfi di Bagdad, Hārūn ar-Raschīd, il califfo
delle Mille e una notte, e suo figlio Almamún (813-833), fondano
scuole di scienza e filosofia. Nella Bagdad del X secolo sono
numerose le biblioteche, le accademie e gli studi umanistici, che
trasformano la città in uno dei maggiori centri culturali del
mondo. Bagdad è un modello da imitare, e certamente il suo esempio
viene seguito da Cordova.
Nelle scuole e nelle corti musulmane si incontrano e convivono
sapienti di varie tradizioni: arabi, siriani, ebrei, indiani,
iraniani, latini, in un tessuto sociale in cui, pur predominando
l’islam, sono presenti comunità cristiane ed ebraiche, ma anche
induiste e zoroastriane. Molti sapienti sono bilingue e trilingue e
abbondano le traduzioni in arabo, che diventa la lingua comune agli
intellettuali del tempo. Sulla base del sostrato alessandrino, la
cultura è organizzata in discipline, anche se all’epoca la
formazione ha un carattere enciclopedico. Ne troviamo un esempio
nella Disciplina clericalis di Pedro Alfonso, che fu traduttore e
maestro di scienza araba nella Spagna del XII sec. Le arti liberali
sono Dialettica, Aritmetica, Geometria, Musica, Fisica, Astronomia
e Negromanzia (oppure Filosofia, o Grammatica). La Fisica include
la Medicina e l’Alchimia, nonché l’interpretazione dei sogni,
mentre la Matematica include la costruzione degli strumenti
musicali e le opere tecniche. Oltre a raccogliere la scienza
alessandrina, gli arabi recuperano la Matematica e l’Astronomia
indiana, l’Aritmetica egiziana e la Medicina persiana e iraniana, e
apprendono dai cinesi la fabbricazione della carta, che rivoluziona
la diffusione della cultura. Sono eccellenti e metodici cultori
della sperimentazione. Il loro perfezionamento del linguaggio
matematico permette lo sviluppo dell’Algebra e della Trigonometria,
che non esistevano presso i greci. Il loro lavoro nell’astronomia è
enorme e include l’invenzione di strumenti per l’osservazione e la
misurazione dei fenomeni. Il sistema tolemaico era scelto per il
suo carattere pratico, ma non era considerato un dogma.
L’Astrologia viene coltivata nelle scuole, anche se molti
astronomi non hanno in essa alcuna fede. Più rigorosa è
l’attenzione verso l’Alchimia. Gli alchimisti arabi elaborano molti
strumenti poi rimasti nei laboratori moderni, come gli alambicchi,
e scoprono sostanze come gli acidi sulfurici, l’ammoniaca, il
vetriolo, ecc. Pur essendo l’Alchimia una scienza regia, mirante
alla trasformazione esoterica della persona, viene sviluppata la
sperimentazione in laboratorio.
Uno sviluppo eccezionale ha l’Ottica, disciplina avanzatissima e
nettamente superiore alle teorie greche. La Fisica applicata porta
a un enorme sviluppo dell’ingegneria e della tecnica delle
costruzioni, con soluzioni molto avanzate nella realizzazione dei
giardini e degli impianti idraulici.
Lo sviluppo della Medicina conduce alla realizzazione di
ospedali assai progrediti e di tecniche terapeutiche che ricorrono
anche alla psicologia e al rapporto interpersonale tra medico e
ammalato. Non vi sono progressi sensibili nell'Anatomia, perché la
religione non permette la dissezione dei cadaveri. Si presta invece
grande attenzione allo sviluppo della chirurgia e dell’igiene.
Gli arabi coltivano con grande sapienza la botanica e
l’agricoltura, classificando piante e animali con criteri che si
avvicinano a quelli della scienza moderna. In al-Ándalus
l’agricoltura è molto più sviluppata che nei regni cristiani ed è
un importante fattore di differenziazione nella diffusione del
benessere economico.
Dall’emirato al califfato
Nel 756 giunge a Cordova un Ommayyade esule da Bagdad, ‘Abd
al-Rahmân I, che dà un forte impulso alla prosperità dell’Andalusia
e alla raffinatezza della corte di Cordova. ‘Abd al-Rahmân I si
rende indipendente dal califfato di Damasco, dando vita all’emirato
di Cordova. Sotto la dinastia da lui fondata prosegue la prosperità
del paese, grazie anche a un periodo di pace, sotto il suo
successore ‘Abd al-Rahmân II (821-852), che introduce a Cordova lo
splendore culturale di Bagdad. Questa influenza orientale viene
recepita in modo attivo, e non soltanto importando e ripetendo
mode, e l’Andalusia si differenzia dalle altre regioni musulmane
negli stili artistici e nei costumi, ad esempio assegnando una
maggiore libertà alla donna. Bisogna anche considerare, tra i tanti
veicoli della diffusione culturale e dell’introduzione in Andalusia
della scienza orientale il ruolo dei pellegrini andalusi che, in
obbedienza a uno degli obblighi dell’islam, si recano alla Mecca
per il loro pellegrinaggio e tornano portando libri e
documenti.
Lo splendore di al-Ándalus raggiunge il culmine sotto la guida
di ‘Abd al-Rahmân III (912-961), intellettuale colto e raffinato,
che nel 929 proclama il califfato di Cordova, dichiarando la
propria indipendenza religiosa da Bagdad. In questo periodo i re
cristiani cercano spesso la mediazione musulmana o si rivolgono
alla corte andalusa per avere architetti e medici. Nella Cordova
del X secolo, con il califfo Alhakem II (961-976), la biblioteca di
palazzo raggiunge i 400.000 volumi. In Andalusia soggiorna e studia
il futuro papa Silvestro II, che sarà il primo, nell’Europa
cristiana, a usare tecniche matematiche arabe e che probabilmente
dagli arabi apprende il pensiero greco che i latini avevano
perduto.
A seguito di questo forte impulso al sapere, l’Andalusia
comincia a produrre scienziati autoctoni, inizialmente nel campo
della medicina, dell’astronomia e della matematica, poi delle
scienze naturali e dell’alchimia.
Il quadro cambia con l’avvento di Almanzor (Muhammad ibn Abī
‘Āmir), guerriero animato da uno spirito anti-intellettuale e da
una politica militarista. Alla sua morte il califfato si smembra in
39 piccoli regni detti taifas, mentre sul fronte nemico si assiste
alla riorganizzazione degli stati cristiani e all’inizio di una
sistematica conquista di al-Ándalus. La debolezza politica
dell’Andalusia ha come contrappeso il recupero dello splendore
culturale, e i centri di studio fioriscono, oltre a Cordova, anche
in altre città come Toledo, Siviglia, Saragozza, Valencia, Murcia,
Granada, in un singolare contrasto tra crisi politica e
raffinatezza.
Pur nella debolezza politica, la reazione intellettuale al clima
oscurantista provocato dall’invasione almoravide è molto forte. Si
segnala la personalità di ibn Tufayl, conosciuto col nome latino di
Abubácer (Abu Bakr Muhammad ibn Abd al-Malik ibn Muhammad ibn
Tufail al-Qaisi al-Andalusi, nato a Guadix, in provincia di
Granada, tra il 1100 e il 1110), che critica fortemente la
concezione tolemaica dell’universo. Suo discepolo è il grande
Averroè (1126-1198), nato a Cordova, che introduce il pensiero di
Aristotele nell’Europa del XIII secolo. Si intensifica anche
l’attività di traduzione, cosa che avviene anche nella Sicilia
musulmana. Toledo ne è il centro principale, grazie anche
all’impulso dato a questa attività dal suo vescovo Raimundo. I
principali intellettuali europei guardano con interesse a ciò che
avviene nella città, o vi si recano personalmente per studiare e
cercare testi. Gerardo di Cremona, che vi giunge ventenne nel 1135
e vi si ferma, traducendo più di ottanta opere scientifiche.
L’attività di traduzione di Toledo, città riconquistata dai
cristiani, si intensifica a seguito proprio del fanatismo
almoravide, grazie al contributo di mozarabi ed ebrei fuggiti da
al-Ándalus per sottrarsi alle persecuzioni. Purtroppo il fanatismo
almoravide costringe molti studiosi a lasciare la Penisola Iberica.
L’esempio più illustre è quello di Maimonide, il più grande
pensatore ebreo del tempo, nato a Cordova (1135-1204), che si
rifugia al Cairo, alla corte di Saladino il Grande, sultano che
proteggeva le arti e la cultura, analogamente all’imperatore
Federico II o al vescovo Raimundo.
Il processo di assimilazione della scienza araba ha un grande
impulso anche grazie all’opera di re Alfonso X, el Sabio
(1252-1284), quando ormai le più importanti città andaluse sono
state conquistate. Le traduzioni realizzate alla sua corte sono
considerate eccellenti e di enorme importanza è il lavoro svolto
per adattare alle esigenze scientifiche la lingua romanza, quando
si comincia a realizzare traduzioni non più in latino, ma in
castigliano. Il sovrano coordina personalmente il lavoro
intellettuale e, in alcuni casi, vi partecipa direttamente come
autore.
Tutta questa attività è la base dei grandi studi realizzati da
intellettuali cristiani come Ruggero Bacone, sant’Alberto Magno o
Ramón Llull (Raimondo Lullo), eccellente arabista nato a Palma de
Mayorca. Lullo ammira la cultura araba e in arabo scrive alcune
opere. Rappresenta una corrente cristiana ostile all’idea di
crociata e favorevole a una evangelizzazione basata sul dialogo
intellettuale. Né va dimenticato il contributo dato dal catalano
Arnaldo de Villanova (1234-1311).
La scienza araba è ancora vitale e creativa nel Trecento. In
occasione di una terribile pestilenza ad Almería, i medici locali
affrontano l’emergenza in termini scientifici, ignorando la
credenza allora generale, sia nel mondo cristiano che nel mondo
musulmano, secondo cui la peste era un castigo divino. Studiano per
la prima volta il contagio (concetto sconosciuto anche alla scienza
greca), fornendone spiegazioni eccellenti e molto avanzate.
Tuttavia nel corso del secolo la cultura musulmana entra in
decadenza, non solo per i progressi della riconquista, ma anche per
la caduta del califfato di Bagdad, invaso da Gengis Kan, e per
l’invasione dei mamelucchi nel Nord-Africa. Di fatto Granada rimane
l’ultimo rifugio della scienza araba. Purtroppo la crisi del sapere
musulmano non ha come conseguenza l’emergere di centri di sapere
cristiano, che avviene, con un certo sfalsamento temporale, solo a
seguito del rinascimento.
Letteratura ispano-araba
La letteratura ispano-araba ha caratteristiche diverse da
quella cristiana e ha maggiore affinità con quella ebraica.
È interessante notare che la letteratura araba non era molto
sviluppata al momento dell’ingresso in Spagna nel 711, anche se
sappiamo che le tribù pre-islamiche coltivavano un’importante
poesia a trasmissione orale. Uno dei primi generi a diffondersi
nella Penisola è la casida, un componimento monorimo senza
divisione in strofe, legato ai temi della vita del deserto, sulla
cui base si sviluppa la successiva poesia musulmana, legata alla
Poetica di Aristotele, al gusto per la metafora, all’amore di
ispirazione platonica, ma anche al canto dei piaceri e del vino,
con poeti come Sîbawayhi (m.792), al-Jalîl (m.786) o ibn
al-Muqaffâ´ (m.759), traduttore del Calila y Dimna. A noi sono
giunte poche testimonianze di questa prima fioritura poetica
ispano-araba, che doveva essere molto ricca ed esuberante. Lo
stesso ‘Abd al-Rahmân I, scrive versi in cui traspone la sua
nostalgia per la Siria, suo paese natale. Si arricchiscono le
tematiche che includono anche argomenti satirici: di Abû-l-Majšî,
si racconta che l’emiro gli fa tagliare la lingua per i suoi versi,
ma questa gli sarebbe ricresciuta in breve tempo. Da tutto il mondo
musulmano poeti e letterati si recano ad al-Ándalus, man mano che
la sua fama si diffonde. Questa dimensione internazionale produce
una fase di poesia moderna, cui segue un recupero classicheggiante
della casida.
Se questa produzione poetica si muove sul terreno colto, gli
arabi non disdegnano la poesia popolare, come è noto grazie alle
jarchas. La poesia popolare, a differenza della casida, adotta la
divisione in strofe. La forma più caratteristica è la moaxaja
(muwashasha) che usa espressioni colloquiali e si conclude con un
ritornello in dialetto romanzo mozarabe, appunto la jarcha
(conclusione). La tradizione ne attribuisce l’invenzione al poeta
cieco di Cabra Muqaddam ibn Muafá (m. 912), o Muhammad ibn Mahmud,
di probabile origine ispanica.
La maturità letteraria di al-Ándalus viene raggiunta quando, nel
929, ‘Abd al-Rahmân III, si proclama califfo: viene dato spazio
alla libertà creativa e alla mescolanza di versi e prosa (in
particolare nel genere dell’adab, che ha uno scopo didattico,
fortemente orientato alla vita pratica). Non sarebbe affatto fuori
luogo immaginare una linea diretta che va dalla metafora e dalla
varietà di temi della poesia andalusa fino a Góngora, poeta barocco
che dell’Andalusia era originario: non a caso un poeta della corte
di Almanzor, ibn Darrây al-Qastallî (Jaén, 958-1030), viene
considerato quasi gongorino, con un interessante anacronismo.
Ovviamente questa fioritura letteraria ha influenza sui mozarabi
cristiani: non è raro che le autorità ecclesiastiche si rivolgano
loro in lingua araba, e vi sono traduzioni in arabo dei canoni
ecclesiastici. Verso la metà del X sec. la stessa Bibbia viene
tradotta in arabo. È coltivata anche la storiografia, e si conserva
la traduzione della Cronaca del Moro Rasis, che riporta notizie
sull’invasione del 711.[footnoteRef:16] Figura di estrema
importanza anche per lo sviluppo della letteratura cristiana è il
citato ibn Hazm di Cordova (994-1063), autore del testo noto in
occidente come Il collare della colomba,[footnoteRef:17] scritto
verso il 1020, che diffonde la tematica conosciuta in occidente
come amor cortese. [16: Ahmad ibn Muhammmad ibn Musà al-Razì,
Crónica del Moro Rasis (Ajbār mulūk Al-Andalus), ed. Diego Catalán
y María Soledad de Andrés, Gredos, Madrid 1975.] [17: ibn Hazm de
Córdoba, El collar de la paloma, ed. Emilio García Gómez, pról.
José Ortega y Gasset, Alianza, Madrid 2001 (Il collare della
colomba, Hoepli, Milano 2008).]
L’ingresso degli almoravidi induce un cambio nella sensibilità e
nei gusti, e porta a una poesia più austera nei componimenti
accademici. Forse per reazione, nella poesia più popolare,
aumentano i temi di evasione e il ricorso all’osceno. Abii-1-`Abbás
al-A'má al-Tutili, poeta cieco di Tudela (m. 1126) è un
rappresentante di questa corrente, insieme a ibn Quzmân
(1086-1160)[footnoteRef:18], maestro dello zéjel, composizione in
strofe con metrica sillabica, simile alla moaxaja. Nel suo
canzoniere (Diwân) inserisce molte parole romanze ed esprime un
aperto disprezzo verso la rozzezza degli almoravidi. [18: ibn
Quzmân, Cancionero andalusí, Hiperión, Madrid 1996.]
In epoca almohade si diffonde nella Penisola un genere nato sul
finire del X sec. a Bagdad, la maqâma, che consiste nella
narrazione delle vicende di un personaggio emarginato, con molti
tratti in comune con il pícaro della letteratura spagnola
posteriore. Nella Penisola questo nome va a designare una scrittura
epistolare divisa in capitoli (è curioso che anche il Lazarillo de
Tormes abbia questa struttura). Posteriore all’epoca almoravide
sembra essere anche un romanzo di avventure, Ziyad, el de Quinena,
considerato un antecedente della letteratura cavalleresca spagnola.
Altro autore di sicura influenza nella letteratura cristiana è il
sufi ibn al-‘Arabî di Murcia (1165-1240), grande mistico e autore
di poesia erotico-mistica.
Filosofi arabi
ibn Hazm (Abû Mwhâmmad ‘Alî ibn Ahmad ibn Sa’îd ibn Hazm
al-Ándalusí al-Zahirí), poeta e storico, di famiglia aristocratica,
nasce a Cordova nel 994 e muore a Huelva nel 1063. La sua opera più
famosa, or ora ricordata, Il collare della colomba, in realtà è un
testo giovanile: ibn Hazm è autore di alcune opere molto
importanti: una Storia critica delle idee religiose, una Epistola
apologetica di al-Ándalus, che è una prima breve storia letteraria
andalusa, ed altri testi teologici e scientifici.
Il collare della colomba, trattato sull’amore e gli amanti (Tawq
al-hamâna), scritto verso il 1022, ha per tema la natura e le forme
dell’amore, illustrate con ricordi autobiografici che dànno un
quadro molto vivace della vita sentimentale andalusa. Il testo è in
prosa, ma è vivacizzato da molte citazioni di poesie, quasi tutte
dello stesso autore. L’importanza di quest’opera, oltre al fascino
e alla bellezza del testo in sé, si deve alla presenza, per la
prima volta, delle teorizzazioni dell’amor cortese, che saranno poi
al centro della poesia provenzale.
Il tema del sapere e delle scienze è trattato da ibn Hazm
nell’opera Marâtib al-’ulûm (Categorie delle Scienze) e nel Kitâb
al-ajlâq (Libro della Condotta), dove condanna l’ignoranza ed
elogia il sapere come strumento per migliorare la propria vita
quotidiana.
Abû-l-Walid Mohammad ibn Ahmâd ibn Rushd, filosofo e poeta,
nasce a Cordova nel 1126 e muore a Marrakesh nel 1198. Il suo nome
latino di Averroè deriva da ibn Rushd, che significa «il nipote»,
per distinguerlo dal nonno omonimo. Ha un’eccellente formazione
negli studi islamici e in quelli giuridici, guadagnandosi una buona
fama già da giovane. Successivamente si dedica alla filosofia e le
sue opere più importanti vengono conosciute anche nell’Europa
cristiana, grazie alle traduzioni latine, dalle quali si sviluppa
la corrente nota come averroismo, nella scolastica del XIII
sec.
Fondamentale è il suo Gran commentario ad Aristotele, composto
nella seconda metà del XII sec., che lo rende giustamente famoso
nella sua epoca. A noi è pervenuto attraverso traduzioni latine o
parziali traduzioni ebraiche, e d’altronde il testo di Aristotele
utilizzato per l’opera era una interpretazione araba di una
traduzione siriana dell’originale greco.
Il pensiero di Aristotele è visto alla luce della cultura
alessandrina e del neoplatonismo. Dio è atto puro, come in
Aristotele, e il mondo esiste dall’eterno, in quanto ha un motore
che opera dall’eterno e che è Dio stesso. Non è governato dalla
provvidenza divina, perché altrimenti non si spiegherebbe il male.
Averroè unifica l’intelletto attivo e il passivo di Aristotele in
un unico intelletto, comune a tutti gli uomini: è un’unica anima
intellettiva a cui ciascun uomo partecipa grazie alla sua anima
sensitiva individuale, tuttavia questa partecipazione non produce
una unità: l’anima intellettiva resta unica e separata. Ciò non
impedisce tuttavia l’immortalità personale, che si ottiene grazie
alla facoltà del cuore di intuire Allah e di abbandonarsi a lui. Da
qui una dualità nella conoscenza, data dalla via filosofica e dalla
rivelazione. Però questi due cammini arrivano alla stessa verità,
non esistendo nessuna opposizione tra loro.
La difesa della filosofia e della sua compatibilità con l’islam
è molto netta, e risponde all’attacco che, in nome dell’ortodossia
islamica, era stato sferrato da al-Gazâlî contro i filosofi.
Averroè ritiene che il Corano sia stato scritto per tutti gli
uomini, e dunque utilizzi diverse forme di comunicazione, dalle
espressioni allegoriche a quelle più complesse, che richiedono
un’analisi razionale per venire alla luce. Questa concezione viene
interpretata dai latini come teoria della doppia verità delle
Scritture, anche se Averroè non intendeva affatto una cosa simile.
L’idea secondo cui le forme religiose sono per gli individui
ingenui, mentre gli individui colti credono nella scienza, non
appartiene al pensiero di Averroè. Per lui, il testo rivelato è
un’allegoria che si può comprendere con la ragione; per al-Gazâlî,
la ragione non giunge fino alla comprensione ultima, riservata alla
mistica, ed è possibilissimo che un credente privo di formazione
filosofica sia più favorito nel conseguire questo livello di
comprensione.[footnoteRef:19] al-Gazâlî aveva scritto una
Distruzione dei filosofi. Averroè risponde con una Distruzione
della Distruzione. [19: Averroè, L’accordo della legge divina con
la filosofia, Marietti, Milano 1996; Id., L’incoerenza
dell’incoerenza dei filosofi, UTET, Torino 1997.]
Di Abubacer (o ibn Tufayl) non si hanno dati relativi alla
formazione. Medico famoso a Granada, diviene un uomo di grande
prestigio, assai stimato presso il sultano: è lui a raccomandare
Averroè e a farlo ricevere a corte. Si sono perse molte sue opere
mediche e un trattato di metafisica menzionati da Averroè e altri
dotti famosi del tempo: l’unica sua opera conservata fino a noi è
il romanzo filosofico Hayy ibn Yaqzan, tradotto in latino come
Philosophus Autodidactus. Il titolo completo originale era: Risalat
Hayy ibn Yaqzan fi asrar al-hikma al-masriqiyya (Carta del Vivente
figlio del Vegliante sui segreti della sapienza orientale). L’opera
viene tradotta in ebraico nel 1349.
Il testo ha un carattere mistico, più che filosofico. Nella
prima parte contiene una rassegna della storia della filosofia in
al-Ándalus, che in linea generale gli piace meno della filosofia
araba orientale: è molto affascinato e influenzato dal misticismo
di Avicenna. Al termine dell’opera arriva alla conclusione che non
esiste contraddizione tra ragione e fede. Protagonista del racconto
è Hayy ibn Yaqzan, abbandonato in un’isola deserta e allevato da
una gazzella, un essere umano totalmente naturale, la cui
conoscenza evolve senza l’influenza della società e della
tradizione, fino alla scoperta della religione, mediante la sola
ragione umana. In seguito entra in contatto con Absal, che
rappresenta l’interpretazione simbolica del testo sacro, e Salaman,
che rappresenta la sua interpretazione letteralista. Per il primo
sono importanti il ritiro e la meditazione, per il secondo è
importante la vita in società. Hayy si trova perfettamente
d’accordo con Absal, anche se non capisce il suo ricorso a parabole
e simboli, mentre non gli risulta possibile insegnare le sue verità
a Salaman e alla città che questi governa.
Come ha scritto Garaudy, ibn Tufayl «cercava di dimostrare come
un essere umano, novello Adamo, non avendo a portata di mano né il
contatto con gli uomini, né la loro cultura, né la loro fede,
potesse realmente riuscire a scoprire da solo le leggi fondamentali
della scienza, della morale e della religione. ibn Tufayl è stato
il primo ad essersi proposto questo obiettivo partendo
dall’isolamento assoluto. [...] Questo progetto attaccava le
obiezioni di al-Ghazali che escludeva la filosofia dalle vie di
accesso alla fede».[footnoteRef:20] [20: Roger Garaudy, ibn
Thofail, in www.webislam.com. Cfr. anche Abentofail, El filósofo
autodidacto, ed. Ángel González Palencia, edicione digitale
completa in
http://www.ilbolerodiravel.org/vetriolo/abentofail-filosofoautodidacto.pdf.]
Sefarad
La presenza degli ebrei nella Penisola Iberica (Sefarad) rimonta
a tempi remoti e alla leggenda. Distrutta Gerusalemme, nuclei di
ebrei si stabiliscono in Nord Africa e da qui passano nell’Hispania
a seguito dei vandali di Genserico (400-477), stabilendosi sulla
costa mediterrane