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Walter Bonatti - Le Mie Montagne

Oct 15, 2015

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Lucky1007

Walter Bonatti - Le Mie Montagne
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  • WALTER BONATTI.

    LE MIE MONTAGNE. VITTORIA SUL DRU

    Prefazione.Dal giorno in cui l'uomo ha scoperto in s l'impulso a cimentarsi con le vettedelle montagne, la scalata del Pilastro sud-ovest del Dru, nel Gruppo delMonte Bianco, ad opera di Walter Bonatti, senza dubbio da annoverarsi tra leconquiste pi prodigiose, perch si tratta di un'ascensione compiuta incondizioni che superano l'immaginazione pi ardita.

    Cinque giorni e cinque notti di lotta solitaria e settecentocinquanta metri diparete verticale sono elementi pi che sufficienti a dare la misura di questafolle impresa.Solo seguendo metro per metro il resoconto della lotta inumana che Bonattidovette sostenere contro l'asprezza della montagna si pu capire quali dotid'audacia, di resistenza, di tecnica e di appassionata volont possiedel'alpinista italiano, per essere riuscito a trionfare su un ininterrottosusseguirsi di difficolt tali da far apparire fino allora il Pilastrosud-ovest del Dru assolutamente inaccessibile.

    Fu cos che, il 22 agosto 1955, data fondamentale nella storia dell'alpinismo,"la montagna perfetta trovava finalmente il suo itinerario perfetto"; ilPilastro sud-ovest del Dru veniva per sempre associato al nome del suovincitore.Il racconto dell'impresa una pagina di cos intensa drammaticit daavvincere anche coloro che non sentono la passione per la montagna econsiderano l'alpinismo una pericolosa e gratuita sfida alla prudenza e albuon senso.

    Biografia dell'autore.

    Su WALTER BONATTI, uomo di pianura, nato nel 1930 a Bergamo da genitoriemiliani, le montagne che vedeva, lontano, sulla linea dell'orizzonte, hannoesercitato fin dall'infanzia un'attrazione irresistibile. Ragazzo, dedictutte le ore libere ad arrampicarsi sulla Grigna: questo gruppo dolomitico,sopra Lecco, divent la sua scuola d'alpinismo ed tuttora la sua palestrafavorita per gli allenamenti. Fattosi notare rapidamente fra i giovanialpinisti per il suo coraggio e l'eccezionale capacit tecnica, fu scelto, a23 anni, per partecipare alla spedizione al K2 (m 8611), la seconda vetta delmondo. L'avventura himalayana lo decise a dedicarsi intieramente allamontagna, abbandonando il suo lavoro cittadino di contabile pressoun'industria milanese. Trasferitosi al Pian dei Resinelli, nel gruppo della

  • Grigna, vi ottenne il brevetto di guida "ad honorem", ma si accorse ben prestoche l'attivit di guida professionale non rispondeva alla sua concezionedell'alpinismo, in cui egli vede soprattutto una scuola di conquistaspirituale, di vittoria della volont umana sulle difficolt della natura. ACourmayeur, dove si stabil nel 1956, con una pattuglia d'amici, di cui fece isuoi compagni migliori, inizi l'attivit alpinistica nel gruppo del MonteBianco, la cui parete Est, che domina il ghiacciaio della Brenva, gli apparvecome l'espressione pi completa dell'alpinismo quale egli lo concepisce.Innumerevoli e memorabili sono le sue scalate nel Gruppo del Bianco: la pareteEst del Grand Capucin, la Nord delle Grandes Jorasses, in prima invernale,tutte le vie pi difficili alla vetta del Bianco, spesso in prima ascensione,del lato della Brenva. Su tutte emerge, per difficolt e asprezza, la primascalata solitaria del Pilastro sud-ovest del Dru, di cui pubblichiamo ildrammatico resoconto.Fuori d'Europa, oltre alla scalata al K2, Bonatti partecip alle spedizioni alCerro Mariano Moreno, nella Cordigliera Patagonica Australe (1958); nellostesso anno, al Gasherbrum IV (m 7980, nell'Himalaya); nel 1961, al NevadoRondoy Nord (m 5800), nel Per; nel gennaio 1964 ha compiuto un viaggio distudio al Polo del Freddo, in Siberia (-65).Le mie montagne il suo primo libro e ha raggiunto la 4a edizione, con varietraduzioni in lingua straniera. Collabora come fotografo a vari periodiciitaliani e stranieri. Nel 1955 fu proclamato in Italia "Atleta dell'anno"dall'Associazione Amici di Emilio Colombo e nel gennaio del 1964 gli statoconferito il Prix de l'Acadmie des Sports di Parigi che lo proclama, a suavolta, "Atleta dell'anno".Gli sono state conferite due medaglie d'argento al valore civile, una persalvataggio alpino nel gruppo del Monte Bianco e una per il suo comportamentosul K2.

  • WALTER BONATTI.

    LE MIE MONTAGNE. VITTORIA SUL DRU.

    Giungendo a Chamonix dalla stupenda valle di Arve, l'occhio attrattogradatamente da uno dei pi austeri e fantastici scenari alpini: grandighiacciai e candide creste che fanno corona al Monte Bianco, l'incomparabilescenario delle aguzze Aiguilles de Chamonix ed infine il perfetto conoargenteo dell'Aiguille Verte, che visto da lontano, sembra un unico pinnacolodalle creste nevose e con una grande parete frontale di rocce scoscese. A manoa mano che ci si avvicina, l'Aiguille Verte sembra per trasformarsi e i suoiprofili nevosi si appiattiscono, si ritirano, quasi per ostentare ci chetenevano celato. Cos le sorti si invertono e, mentre l'Aiguille Verte pareallontanarsi, una grande rupe rossastra ingigantisce invece sempre pi, sino adiventare un'ossessione per chi l'ammira. il Dru, "la montagna francese pereccellenza, la gemma del diadema di Chamonix, l'orgoglio e la sfida deichamoniards, la disperazione per l'occhio di un alpinista".Volendo descrivere sommariamente la storia alpinistica del Dru, non c' dimeglio che affidarsi alle autorevoli parole del terzo volume della GuidaVallot, le quali incominciano cos: "Gigantesca piramide rocciosa, il Dru una delle pi pure meraviglie della catena del Monte Bianco. Essa presenta duecime vicine, il Grand Dru (3754 m) e il Petit Dru (3733 m)". Nonostante ciche questa definizione pu far supporre, non il Grand Dru quello che pone iproblemi alpinistici pi delicati. Le difficolt supreme, la grande sfida,sono in effetti l'appannaggio del Petit Dru, che, addossato al suo fratellopi grande, presenta tre facce d'una ripidezza eccezionale. Tre pareti, trescalate, tre momenti della storia e dell'evoluzione dell'alpinismo.29 agosto 1879. J. E. Charlet-Straton, P. Payot e F. Folliguet "hanno segnatouna data nella storia dell'alpinismo" raggiungendo per primi la vetta delPetit Dru, per il versante sud. Tale itinerario tuttora la via normale alDru, nonch una delle scalate pi classiche delle Alpi. 31 luglio e 1 agosto1935. P. Allain e R. Laininger vincono per primi la parete nord del Dru,risolvono uno dei pi grandi e contesi problemi dell'alpinismo moderno esfatano l'appellativo di "impossibile". Dall'1 al 5 e dal 17 al 19 luglio1952, quattro nomi di primo piano dell'alpinismo francese: G. Magnone, L.Berardini, A. Dagory e M. Lain, vincono, in due riprese, la formidabileparete ovest del Dru.Poche altre pareti furono tanto discusse quanto il lato occidentale del Dru.Il problema della sua scalata era troppo evidente per essere ignorato, eppuretalmente ardito da fare cadere ogni speranza in chi anelava alla suaconquista. Spesso, intorno a questa parete si cre un alone di inaccessibilite la convinzione dell'assurdit di simile impresa. Molto vi sarebbe daraccontare a questo proposito, ma fra tutte le definizioni, la pisignificativa, a mio avviso, quella che si legge nel libro di Pierre Allain,il vincitore della parete nord del Dru. Egli infatti, ancora mentre sta

  • concludendo la sua stupenda impresa del Dru, non appena il suo occhio pusfiorare il profilo della vicina parete ovest, cos sente di doverlagiudicare: "A destra, lo sguardo si tuffa negli abissi della parete ovest delDru. Laggi, la verticalit spaventosa, interrotta soltanto di quando inquando da enormi strapiombi. Immense pareti presentano, per cinquanta o centometri, una superficie liscia e senza alcuna screpolatura, il perfettoesemplare dell'impossibile. Qui l'alpinista perde i suoi diritti, solo deipioli cementati nella roccia o qualche altro procedimento dello stesso generegli possono essere d'aiuto; ci non sarebbe pi alpinismo, ma lavoro inmontagna. Su questo piano, tutto realizzabile, perfino una ferrovia internaa rampa elicoidale". E chi si espresse cos Pierre Allain, un autorevolecaposcuola dell'alpinismo francese. Tuttavia, evidente che Allain nonavrebbe mai immaginato che un giorno non lontano la parete ovest del Drupotesse essere vinta in maniera alpinisticamente ortodossa, senza l'impiego diquegli strumenti da lui giustamente deprecati.Dalle sue parole infatti affiora una grande verit, che io condividopienamente e che desidero sottolineare: non pi alpinismo scalare le pareticoi chiodi cementati nella roccia o qualche altro procedi mento del genere.A questo proposito vorrei accennare brevemente al mio concetto dell'alpinismo,che sempre alla base di ogni mia impresa. La scalata, quando non significaesplorazione e conquista materiale di un punto geografico, come fu per esempiola vittoria dell'Everest, del K2, ecc., secondo me, deve soprattuttorappresentare un motivo d'azione nel fantastico ambiente della montagna perprocurarsi sensazioni intense ed assurgere, vincendo la natura, alle conquisteinteriori dettate dal proprio spirito. Ne consegue che i mezzi di scalata sonocondizioni che lo scalatore, in armonia con la propria coscienza alpinistica,si pone per raggiungere la meta. Naturalmente il "mezzo" di scalata, che inquesti ultimi anni sembra l'oggetto di interesse generale nell'ambitoalpinistico, troppo soggettivo perch possa avere lo stesso valore per tuttigli alpinisti; diciamo allora che tutti i mezzi di scalata possono valere,ovvero possono essere giustificati, fino a quando non compromettonol'indispensabile equilibrio tra la prestazione fisica e quella spirituale.Ma ritorniamo alla parete ovest del Dru. Il Dru, che era rimasto fra tuttil'ultimo grande problema alpinistico insoluto, nel dopo guerra divenne prestol'attrattiva numero uno degli alpinisti del l'attuale generazione. superfluodire che anch'io anelavo a misurarmi coi suoi fianchi, ma tale era l'assedioche i Francesi, in particolar modo, davano a quella parete, che preferiiaccontentarmi di seguire i loro molteplici tentativi. Nell'estate del 1952, lavittoria dei Francesi, vittoria conseguita con i normali mezzi di scalata, fuuna impresa di sicuro valore, anche se (cosa che la fece giustamentecriticare) realizzata in due riprese. Con la terza ed ultima parete del Druera cos crollato ci che si considerava l'ultimo grande mito diinaccessibilit sulle Alpi.In quanto a me, non avrei mai immaginato che la vittoria dei Francesi mipotesse procurare un duplice motivo di gioia: primo, perch la loro vittoria

  • era anche quella di tutti gli scalatori che hanno la mia stessa concezionedell'alpinismo; secondo, perch i Francesi, pur avendo superato la pareteovest del Dru, avevano tutt'altro che risolto il vero problema del solenneversante che guarda Montenvers. Indubbiamente, il loro itinerario seguiva unavia logica, ma essa risult cos laterale, cos in margine alla parete nord,che ci valse a mettere ancor pi in evidenza il problema di scalata del suoPilastro sud-ovest: questa pura struttura che, messa in risalto dal vuotoallucinante della parete ovest, domina snella e prepotente tutto il versanteoccidentale della montagna e la caratterizza. Mancava ancora l'itinerarioperfetto a una montagna perfetta. Sentivo che, ben presto, sarebbe venuto perme il momento di cimentarmi col Pilastro sud-ovest del Dru.Alba del 15 agosto 1953. Con Mauri, il pi caro compagno di cordata, con cuiavevo compiuto le ascensioni invernali alle pareti nord di Lavaredo, stiamorisalendo faticosamente il conoide nevoso sottostante la parete occidentaledel Dru. Nel perfetto silenzio del l'alba, tozzo e opaco nella sua prospettivaancora nascosta ai raggi del sole, il Dru si erge come un gigantesco mostroaddormentato.Cauti e silenziosi, quasi per non rompere quell'incanto, ci leghiamo incordata e cominciamo la grande avventura. L'inizio subito violento, undifficile salto verticale di circa quaranta metri ci porta all'imbocco di untetro canalone ghiacciato dall'aspetto tutt'altro che invitante. Qui il Dru solito sfogare le sue furie, convogliando e incanalando tutto ci che sfuggeper forza di gravit a quei mille metri di appicco vertiginoso. Scivoliripidissimi di ghiaccio vivo si alternano a placche di granito levigato espesso frantumato dalle frane. Il timore di essere sorpresi da una di questeci fa accapponare la pelle, spingendoci a salire il pi possibile verso destralungo le difficili rocce.Sino a circa met canalone la via in comune con l'itinerario dei francesi,il resto invece prerogativa del Pilastro sud-ovest; pertanto, giunti aquesto punto, scartiamo quasi a malincuore le sicure e invitanti "terrazzeinferiori" della parete ovest, per continuare lungo il nostro snervantecanalone, che ancora non sappiamo dove ci condurr. Lentamente e inun'atmosfera di tensione morale, la scalata procede bene per tutta lamattinata, ma nel primo pomeriggio scoppia un temporale furioso che ciimmobilizza dove ci troviamo, riversandoci addosso una cateratta d'acqua.Addossati alle ripide pareti delle Flammes de Pierre, con la testa che spuntaappena fuori dai sacchi da bivacco, attendiamo che cessi la furia. Qualeorrore intorno a noi! Abbiamo raggiunto l'ampio anfiteatro, nel quale leprofonde gole del Dru convergono con quelle delle adiacenti Flammes de Pierreper tramutarsi poco sotto, da dove siamo venuti, in un unico stretto e viscidobudello che scola sino al ghiacciaio con un precipizio di quattrocento metri.Un vero imbuto tetro, gelido, opprimente, scavato da erosioni millenarie, masoprattutto dalla furia selvaggia delle valanghe. Intorno a noi non si vedonoche fughe di pareti ghiacciate che di fronte, in alto, culminano con la molegrigia e vertiginosa del Dru. Esso sembra elevarsi all'infinito, sino a

  • confondersi con le nebbie che ad un dato punto lo inghiottono. Non soltanto ilsole non ha mai sfiorato l'interno di questo imbuto, ma persino il cieloappare tanto limitato che ci d la sensazione di trovarci sospesi alle paretidi un profondo pozzo nel quale la poca luce possa filtrare solamentedall'alto, attraverso un foro dai bordi caliginosi e frastagliati. Solo asinistra, verso nord, compare una sottile striscia di cielo e ci fa apparirel'imbuto ancora pi profondo.Un bagliore improvviso illumina sinistramente la montagna, lo schianto chesegue pauroso e fa fremere le rocce sotto di noi. Segue una seconda folgore,poi una terza e subito tante altre ancora, accompagnate da una fittagrandinata che in breve genera ovunque candide cascate rumorose. E un quadroveramente impressionante eppure diabolicamente bello; un'esperienza che meritadi essere vissuta, se non altro per conoscere fino a che punto la montagna purivelarsi selvaggia. Non credo che esistano sulle Alpi altri luoghi comel'imbuto del Dru, in cui si possano trovare concentrate tutte queste orridebellezze.La grandine cede nuovamente a una fitta pioggia, un'ora dopo incomincia unsecondo temporale, poi fa una breve comparsa la neve a grandi falde, infinecessa ogni precipitazione ma, ahim, s' fatta sera e, prima del calare dellanotte, una nera e cupa nuvolaglia rinserra nuovamente il Dru sin quasi allanostra altezza.Piove per quasi tutta la notte e per tutto il mattino seguente. Non fa freddo,per siamo completamente fradici. Verso mezzo giorno la pioggia finalmentesmette, le nubi si sollevano e, naturalmente, riprendiamo a salire perch intutto questo tempo l'idea del ritorno non ci ha neppure sfiorati. Ilcosteggiare l'imbuto tenendoci il pi alti possibile, al margine delle rocceverticali, una operazione non da poco, che richiede la massima delicatezza,dovendo traversare sovente su esili placche di ghiaccio, ripidissime estaccate dalla roccia. Ancora una veloce traversata di un'ultima golaghiacciata per raggiungere le sospirate rocce compatte del nostro Pilastro.Che sollievo! La quota s'aggira sui 3100 metri, siamo ormai entrati nel vivodel problema, appena seicentocinquanta metri di strapiombi - ironia! - e poila vetta.Il Pilastro del Dru veramente unico in tutto, sia di forma sia dicostituzione. Le rocce sono di protogino puro, ruvido, raramente fessurato osolcato da profondi spacchi che determinano enormi placche dalla superficiecompatta e dai profili taglienti e regolari. La prima parte, prevalentementecostituita da rocce chiare, segno di recenti frane, considerata nell'insieme,non eccessivamente verticale anche se si presenta come una sparata continuadi placche, diedri, tetti e pilastri, ma sovente interrotta da grandi terrazziorizzontali. Invece, i quattrocento metri centrali, che rappresentano il veroproblema e che in seguito chiamer "Placche Rosse", sono ben pi cheimpressionanti. La parete appare incredibilmente compatta, liscia e di colorerossastro; la verticalit quasi assoluta, senza tregua, interrotta soltantoda lisci rigonfiamenti, il tutto poi coronato da una barriera di enormi

  • tetti e strapiombi, alcuni sporgenti per almeno cinque metri.Siamo decisamente sfortunati: non abbiamo ancora percorso trenta metri, chericomincia a piovere. Come il giorno innanzi, continua quasi ininterrottamenteper tutto il pomeriggio e fino a tarda notte. Ci preoccupa il fatto che sonostati consumati i viveri di due giorni, mentre ci troviamo soltanto all'iniziodelle vere difficolt. Per la prima volta, sentiamo l'opportunit diripiegare. Come una beffa, l'alba seguente preannuncia una giornata radiosa.Come si pu trovare il coraggio di scendere? I timori della notte passata cisembrano ora troppo poco convincenti, cos decidiamo di continuare. Dopo tredifficili sfilate di corda, su di un terrazzo ci attende una sorpresaveramente misteriosa: un mazzo di vecchi cunei di legno e un pacchetto difichi secchi ancora intatti si trovano qui, depositati chiss mai da chi e daquanto tempo. Tutto intorno nessun altro segno di passaggio, nessun chiodoocchieggia nei lunghi camini-diedro sovrastanti, che hanno tutta l'aria diessere ossi duri. Non ci risultava che qualcuno avesse gi tentato il Pilastrosud-ovest, certo comunque che ci avvenne e probabilmente questo fu il puntomassimo raggiunto dai nostri misteriosi predecessori. Superiamo il primocamino di dieci metri, che ci porta su una seconda terrazza, poi ilsovrastante diedro alto almeno venticinque metri, quindi, giunti sotto unarude spaccatura, dato che questa sembra accessibile ma ha tutta l'aria dicrollare da un momento all'altro, ho l'infelice ispirazione di compiere asinistra un aggira mento dell'ostacolo, che mi porta cos in aperta pareteliscia e compatta.Abbiamo raggiunto un comodo e aereo ballatoio, al disopra della rudespaccatura appena contornata e poco discosto dal filo del Pilastro. Sopra dinoi sfuggono le repulsive placche verticali del grande gendarme, la cui formada Montenvers assomiglia a un ramarro nell'atteggiamento di arrampicarsi sulDru. Ma soprattutto, unitamente a queste difficolt, ci prende unademoralizzazione totale.Riaffiorano moltiplicate le preoccupazioni della notte scorsa e cento altritimori, favoriti dalla stanchezza che comincia a farsi sentire e dall'ambienteche ci opprime. Sono momenti in cui difficile stabilire dove finisce lasaggezza e comincia la debolezza, quell'intima vigliaccheria protesa soltantoalla ricerca di un motivo valevole per giustificare l'inevitabile ritirata. Iltormento interiore in queste circostanze logora pi di qualsiasi difficoltdella montagna. In cuor mio ammiro Mauri che per primo ha l'onesto coraggio dipronunciare il fatidico: Torniamo indietro!.Ancora un triste sguardo all'inafferrabile "Ramarro", un muto saluto allePlacche Rosse che sembrano ancor pi lontane dalla realt, e uno dopo l'altroincominciamo a scivolare nel vuoto lungo le corde doppie che ci posano inbreve su un comodo terrazzo alla base del Pilastro. Per oggi basta cos, ilresto lo discenderemo do mani, quando il gelo della notte avr bloccato lescariche che da mezzogiorno circa rimbalzano furiosamente nell'imbuto epiombano nel canalone.L'anno seguente, il 1954, mi vede impegnato con la Spedizione Italiana

  • all'Himalaya per la conquista del K2, la montagna che senza dubbi mi riservle sensazioni pi intense della mia vita. L'estate del 1955 mi trova invecepsichicamente depresso: vorrei dimenticare la parentesi del K2, cos diversada come me l'ero sempre immaginata, e vorrei cancellare per sempre in me ilricordo di quella terribile notte di bivacco a 8000 metri, che come un incubocontinua invece a sconvolgere il mio spirito. E avvilente il pensare che inquesta stagione alpinistica ho realizzato scalate anche difficilissime sullaBarre des Ecrins, sull'Aile Froide, sulla Meije, sul Pic Coolidge, quasi senzaparteciparvi moralmente e poche volte di mia iniziativa, ma quasi sempre perla mia professione di guida alpina. Dove sono finiti gli entusiasmi, gliideali e la volont di vincere degli anni scorsi? E non tutto, perch arrivopersino a partire per il secondo tentativo di scalata al Pilastro del Dru, dame ormai considerato di poco valore, come qualsiasi altra cosa, soltanto perconcludere anche questa cosa gi incominciata e lasciata a met.Questa volta siamo in quattro: Mauri, Oggioni, Aiazzi ed io. Gi all'alba del24 luglio 1955, ancora sul conoide prima di attaccare il Dru, stiamo correndocome pazzi verso un grande masso per trovare riparo da una scarica fuoriorario, che sta rovinando gi per il canalone. Il resto della giornatatrascorre operoso e quasi senza importanti sorprese. Alla sera, per, mentrestiamo per raggiungere le gi note prime placche del Pilastro, piove! Ladisdetta quasi ironica e sembra proprio che il Dru l'abbia con noi. A malapena riusciamo ad adattarci tutti e quattro per il bivacco sul terrazzino cheil Pilastro offre all'inizio. Piove e nevica per tutta la notte mentrenell'imbuto un continuo rimbalzare di pietre e ghiaccioli, che soventearrivano a sfiorarci.Ancora una volta il mattino seguente non si parla di ritirarsi. Verso ledieci, approfittando di una breve schiarita, decidiamo di andare ad attendereil bel tempo il pi in alto possibile, al sicuro dalle scariche. Dopo un paiodi sfilate di corda, ci sorprende un'altra sinfonia: ora nevica bagnato e alarghe falde. Alla fine, a due ore dal precedente bivacco, abbiamo raggiuntola famosa cengia dei cunei misteriosi; qui ci infiliamo nuovamente nei sacchida bivacco e riprendiamo l'attesa accucciati l'uno di fianco all'altro. Siamovera mente bagnati fradici, per ci consola il fatto di essere al sicuro daogni caduta di pietre. Trascorriamo l'intero pomeriggio col solo diversivo dilasciare ammucchiare la neve sul sacco da bivacco per poterla scrollare via dicolpo. Sopraggiunge un'altra notte e gi stiamo appisolandoci, quandoimprovvisamente la montagna trema sotto di noi con un boato impressionante,che fende le tenebre e sembra non pi finire. Rimaniamo terrorizzati, incapacidi muoverci e di comprendere che cosa stia succedendo; ad un certo istante (celo diremo dopo) abbiamo persino la sensazione di precipitare insieme allamontagna. Solo quando la calma ritornata, ci rendiamo conto dell'accaduto:una frana di proporzioni ciclopiche si staccata poco distante da noi,abbattendosi nel canalone, che ha dragato e sconvolto letteralmente. Il Dru facile alle frane, notorio, ma ad un simile terremoto non avevo maiassistito. Sia ringraziata quell'ispirazione che ci ha portati quass, lontani

  • dal canalone! Continua a nevicare.Si pu dire che la luce del nuovo giorno ci colga gi in movimento, pronti perdiscendere; inizia una serie interminabile di calate a corda doppia veramentepenosa e, a volte, persino ai margini della tragedia. Il terrazzino su cuiavevamo bivaccato la prima notte completamente trasformato dal cataclismasubito, mentre la parete di duro ghiaccio, appena discosta, addirittura nonesiste pi. Tutto ci che le nebbie lasciano intravvedere ai nostri occhi,appare letteralmente sconvolto, levigato, polverizzato; migliaia di pietre diogni grandezza, che la frana ha disseminato lungo il suo corso, stanno inbilico, pronte a precipitare ad ogni momento o a farsi trascinare da altrepietre che possono cadere dall'alto. Se si vuol scendere, bisogna calarsilungo il canalone, bisogna giocare il tutto per tutto senza altra viad'uscita.Il fastidio di essere bagnati fradici niente in confronto alle difficoltche ci oppongono le corde: si irrigidiscono, si attorcigliano, non scorronopi sia durante la calata sia al momento del loro ricupero. Quante volterischiamo di rimanerne senza e quante altre volte ci sorprende una scaricaproprio mentre ci stiamo calando nel vuoto fra le nebbie! Moltissimi sono isassi che ci sentiamo fischiare intorno o che si schiantano appena sopra oaddirittura ci sfiorano vertiginosamente. La minore delle disgrazie possibiliaccade quando Oggioni viene colpito alla testa da un sasso di rimbalzo. Pochimetri sopra di me lo vedo accasciarsi contro la roccia; il sangue gli scorresubito copioso lungo tutto il collo e il braccio sinistro. Con quattrobracciate lungo la corda sono da lui, il colpo lo ha intontito, speriamo nonsia grave, impossibile sostare, bisogna calarsi ad ogni costo, lo fasciocome posso e continuiamo a scendere.Alle due pomeridiane, dopo otto interminabili ore di calata, tocchiamofinalmente il ghiacciaio del Dru.Un caotico ammasso di blocchi e detriti, che ha sconvolto il ghiacciaio pertrecento metri di lunghezza, testimonia sinistramente l'entit dellaspaventosa frana.Solo il giorno dopo, prima di abbandonare Montenvers, le nubi si sollevanoquel tanto da lasciarci intravvedere un Dru spietato e irriconoscibile sottola spessa coltre bianca. Ancora una volta, pronunciamo fra noi il ritualeRitorneremo!; dal canto mio, per, non ne sono affatto convinto.Prima di attaccare il Dru pensavo che poco mi sarebbe impor tata la vittoria;ora, invece, questa seconda sconfitta mi procura un grande abbattimento moraleche in realt solo la fatidica ultima goccia che fa traboccare un bicchieretroppo colmo di amarezze e delusioni che incominciarono ad accumularsi aimargini della conquista del K2. Da troppo tempo ormai dura la mia crisimorale. Da un anno si pu dire che non credo pi a niente e a nessuno, sononervoso e irascibile con tutti.Poi, finalmente, la resurrezione. Un giorno, improvvisamente, come una folleidea generata dalla depressione morale, penso di ritornare sul Dru, di vincereda solo e mi impongo di credere che non vero che sono un uomo finito.

  • Col passare dei giorni, quello che avevo definito un folle proposito divienevia via un raggio di luce, di speranza e infine di fede e, non molto tempodopo, si pu dire che nella mia mente non esiste altro pensiero che quello discalare il Dru da solo. Pi volte mi vedo sospeso sulle sue rocce, lungo ilsuo canalone, le placche del suo Ramarro e una fiducia quasi miracolosa mi facredere che ci possibile e che deve avvenire. Quasi per incanto, persino lePlacche Rosse non sono pi cos spaventose; riuscir dunque veramente ariscattare me stesso?Studio ogni cosa nei minimi particolari, dall'attrezzaturaall'equipaggiamento, alla logistica; poi fisso la data della partenza. Pensoche dovr informare almeno un amico di questa mia decisione e poich nessunomi tanto vicino come il professor Paolo Ceresa, decido di svelare a lui ilmio segreto. Com' mia abitudine, senza preamboli gli butto davanti la notizianuda e cruda, rassegnato nel contempo ad una sua reazione negativa. Ilprofessor Ceresa, invece, sembra addirittura preparato alla notizia e non simeraviglia affatto, anzi, con la massima schiettezza e comprensione mi chiedeogni ragguaglio, poi, vista la fondatezza del mio progetto, decide che luistesso mi accompagner all'attacco della parete.L'11 agosto sono a Montenvers pronto per partire, ma sopraggiunto ilmaltempo e per quattro giorni continui piove a dirotto. Alle due di notte del15 agosto, parto finalmente al debole lume di una lampadina tascabile. Sonocon me il professor Ceresa e un comune amico che mi accompagneranno fino allabase del Dru. La notte tremendamente buia. Verso l'alba, il cielo torna adoffuscarsi lasciando cadere qualche goccia, ma pi tardi il sole ha ilsopravvento e ritorna il sereno.Alle otto siamo alla base del canalone. Sotto di questo affiorano ancoraimpressionanti i resti della frana di venti giorni fa. Per la verit non soproprio come fare ad incominciare la salita; alle nove, finalmente, mi decido.La fatica diventa subito estenuante, tutto uniformemente ghiacciato,pericoloso e, dove la neve non ha potuto fare presa per la troppa verticalit,la roccia appare ricoperta da incrostazioni di ghiaccio oppure da un sottile einsidioso velo di verglas. Porto un bagaglio enorme, pesantissimo: 79 chiodi(l'ottantesimo l'avevo perduto per strada), 2 martelli, 15 moschettoni, 3staffe a tre pioli l'una, 2 corde da quaranta metri (una di nailon e l'altradi seta), una dozzina di spezzoni di cordino, 6 cunei di legno, una piccozza,viveri per cinque giorni, un fornelletto, una borraccia di alcool, indumentida bivacco e di ricambio, medicinali materiale fotografico ed infine unaradiolina portatile per mantenere il contatto coi miei amici. Il tutto contenuto in un grande sacco a cilindro, che mi ero fatto confezionareapposta. E alto quasi come me, pesa pi di trenta chili ed alquanto buffovedermelo sulle spalle. Senz'altro sarebbe pi adatto per un viaggio indiligenza che non per una scalata ai limiti dell'impossibile.Una corda mi lega a quel pesantissimo fardello che ogni pochi metri devotrascinare fino a me faticosamente, sulla roccia rugosa e non perfettamenteverticale. Spesso l'attrito ne raddoppia il peso o lo blocca a tal punto da

  • obbligare a calarmi per disincagliarlo. Malgrado tutto, per sette ore continuoa salire, a lottare duramente per innalzarmi soltanto di centocinquanta metridalla base. Poi incomincia a nevicare. Devo desistere. Per la terza volta sonosconfitto, ma non mi perdo d'animo e decido di attaccare da un'altra parte. Lasera stessa ritorno a Montenvers. E nuovamente sereno.Alleggerisco il sacco, sacrificando buona parte dei viveri nonch la radiolina(che in verit mi pareva un oltraggio alla mia etica alpinistica) e l'indomanimattina, accompagnato dagli stessi amici, riparto per il piccolo rifugioCharpoua con un nuovo programma: raggiunger la Brche delle Flammes de Pierrelungo la via normale del Dru. Quindi, con una serie di calate a corda doppiaper circa duecentocinquanta metri sul versante opposto, raggiunger primal'imbuto del canalone e per questo l'inizio del Pilastro sud ovest. Se dabasso non stato possibile, vi arriver cos dall'alto.Con l'aiuto del professor Ceresa, era mia intenzione trasportare entro seratutti i materiali il pi in alto possibile verso la Brche delle Flammes dePierre. Invece, la ricerca del passaggio per accedere al caotico ghiacciaiodella Charpoua ci richiede ben due ore di tempo prezioso e ci costringe atarda sera ad interrompere il nostro programma, abbandonando i materialiancora all'inizio del ghiacciaio.L'ora del crepuscolo, in questo ambiente freddo e severo, mi incute un sensoinfinito di timore, tornano i rimpianti e, per la prima volta, mi sento comeprigioniero delle decisioni da me prese. Invidio il professor Ceresa, chedomani andr via da questo inferno, e invidio pure tutti gli uomini che nonsentono come me la necessit di affrontare simile prova per ritrovare sestessi. Mentre, con questi pensieri mi accingo a ritornare al rifugio, vedouna povera farfalla portata fin qui dalla calda giornata, che con un ultimocolpo d'ali si abbatte sulla neve poco distante da me. Povero essere viventeche per sventura ti trovi a morire in un mondo crudele, di cui non avresti maisospettato neppure l'esistenza! In questo tuo ultimo battito d'ali io vedointerpretato un dramma quasi umano. Povero insetto, fratello mio di sventurain un luogo di morte, come mi sento simile a te in tutto! La tua tragedia lamia, ci che io vado cercando attraverso il superamento del Dru equivaleall'ebbrezza che ti ha trasportata fin quass e quel Dru che sto peraffrontare altro non per me che quell'ultimo raggio di sole che da poco haivisto tra montare! Se domani non riuscir a sorreggermi, far la tua stessafine.Con questi pensieri, non posso fare a meno di avvicinarmi con estrematenerezza alla farfalla, la raccolgo, la chiudo delicatamente nella manocalda, la porto con me, verso il rifugio, in luogo sicuro.Segue una notte terribile, ho in cuore lo stesso tumulto che pu provare uncondannato a morte nelle ultime ore che precedono l'esecuzione. Poco dopo lequattro del nuovo giorno, il 17 agosto, il congedo dagli amici una cosaveramente dolorosa; non appena chiudo dietro di me la cigolante porta delrifugio, mi impongo di correre verso il Dru per vincere le debolezze di unapartenza dalla quale ormai non posso e non devo esimermi. Quando raggiungo i

  • materiali lasciati ieri sera incomincia ad albeggiare. La traversata delcaotico ghiacciaio richiede una notevole quantit di tempo. All'inizio riescoa portare il pesantissimo zaino sulle spalle, ma presto, per essere pi liberoe leggero nei difficili movimenti, sono costretto a trascinarmelo appresso conla corda in una paurosa gimcana di ponti e seracchi, per fortuna gelati. Lostesso avviene al di l del ghiacciaio, lungo la parete del Dru che portasulla Brche delle Flammes de Pierre. Qui l'abbondante innevamento ha ridottola parete a un ripido scivolo nevoso, quasi ininterrotto fino alla Brche. Iltempo e la fatica che mi costa trascinare fino a me il sacco, ancorarlo inqualche modo perch non precipiti improvvisamente strappando via anche me,quindi ricuperarlo ancora ripetendo le stesse manovre, continuamente, ognipochi metri, veramente snervante, per, a differenza della notte passata,l'azione mi restituisce ora serenit e fiducia.Alle undici e trenta del mattino ho raggiunto la Brche. Mi prende ancora unaviva emozione nel rispondere al richiamo degli amici, che vedo comparire comepuntini accanto al rifugio. Con loro ho lasciato tutto il mio passato e ilcaldo sole che ancora per poco mi riscalder le membra. Dall'altra parte dellaBrche sta invece l'ignoto pi severo e repellente. Il vuoto veramentespaventoso, interrotto soltanto da gelide ombre e dal profilo tagliente evertiginoso del Pilastro sud-ovest. Nella mezz'ora di riposo che mi concedoprima di iniziare la scalata, vivo il momento forse pi importante di tutta lascalata. Fin qui la montagna ad ogni metro mi concedeva di poter ancoraritornare, oltre la Brche invece ci non potrebbe pi avvenire osignificherebbe almeno seicento metri di calate a corda doppia lungo paretiestremamente ghiacciate e fino in fondo al canalone. Quale contrasto fraquesti due versanti opposti, che tentazione di ritornare, e che lotta perresistere ancora una volta al dolce richiamo della debolezza!Verso mezzogiorno, mi decido a passare intorno a uno spuntone le due corde daquaranta metri dopo averle annodate insieme, quindi, legato il sacco alleestremit della doppia corda, lo calo nel vuoto per tutta la lunghezza dellafune. Un definitivo grido di saluto verso il Charpoua, quindi mi lascioscivolare per quaranta metri nel vuoto verso il pilastro del Dru. La paretemolto innevata e lo zaino eccessivamente pesante mi creano prestocomplicazioni costringendomi a fare manovre acrobatiche e a compiere calatenon superiori ai dieci metri. Per quanti chiodi abbia a disposizione, ogniqualvolta debbo ricorrere al loro impiego una voce mi dice che sar uno inmeno di cui potr disporre sul Dru.Ad un dato momento, mi vengo a trovare nella necessit di dover piantare unchiodo stando in posizione molto precaria, incastrato in uno stretto caminoche il disgelo pomeridiano ha ridotto una doccia ghiacciata. Operandodelicatamente, con la mano sinistra sorreggo il chiodo nella fessura, poi conla destra che impugna il martello batto uno, due, tre colpi, infine il quarto,che pi secco degli altri, sfugge dal chiodo per andare a schiacciarmi lapunta dell'anulare contro la roccia. Mi sento mancare dal dolore, il sangueesce subito a fiotti; con altri pochi colpi di martello fisso il chiodo

  • abbastanza da potermi sorreggere, mi aggancio ad esso e finalmente possoconstatare l'entit della ferita e provvedere alla medicazione. Il colpo stato cos forte che mi ha asportato completamente la punta del dito: un terzodi unghia con tutti i relativi tessuti. Passa almeno un'ora prima che possaarrestare il sangue e riprendere le calate col dito tamponato.Verso le sette pomeridiane, con una sola calata di una trentina di metri lungouna placca strapiombante, poso finalmente piede sul pendio di ghiaccio delgrande imbuto, ora completamente innevato. Invano cerco di ricuperare la cordadoppia; ormai completamente macera per l'acqua assorbita e non vuoleassolutamente scorrere nell'anello di corda che la trattiene lass al chiodo.Il tempo passa veloce e gi sono propenso a risalire tutta la corda col nodo"Prusik", quando, quasi di sorpresa, viene buio. Devo ras segnarmi a passarela notte sul pendio ghiacciato dell'imbuto. Di buona lena, a furia di colpicol martello da ghiaccio, cerco di scavare un buon gradino per trascorrervi lanotte accucciato; potessi almeno disporre della piccozza, che invece hoabbandonato sulla Brche per riprenderla al ritorno dalla via normale! Sonobagnato fradicio, senza corde e nel bel mezzo dell'imbuto del Dru; peggiorinizio non poteva capitarmi, in queste condizioni poi non sento neppure ildesiderio di mangiare A proposito di mangiare, gi ieri sera ho dovuto buttarvia pi della met dello scarso cibo che possedevo, grazie a un maledettochiodo che, nell'interno del sacco, ha perforato la borraccia dell'alcool, ilquale a sua volta ha impregnato e guastato tutti i viveri che vi si trovavano.Ora non mi sono rimasti che due pacchetti di biscotti, un tubetto di lattecondensato, quattro formaggini, una scatoletta di tonno, una di pat difegato, un po' di zucchero e frutta secca, un flaconcino di cognac e duescatole di birra. Prospettiva veramente poco allettante per essere ancora all'inizio della scalata, tanto pi che essendo rimasto senza alcool, non mi neppure possibile scaldarmi una bevanda per calmare l'arsura che gi mi bruciale labbra.In questo luogo triste e solitario come una tomba, il primo bivacco sembraeterno. Per tutta la notte non mi riesce di chiudere occhio.La corda che, pendendo dall'alto, si era scolata nella notte, prima di gelare,il mattino dopo si lascia ricuperare quasi con facilit. Presto raggiungol'inizio del Pilastro e intraprendo la vera scalata. A differenza delle altrevolte, il primo centinaio di metri appare innevatissimo e ghiacciato, ilmaltempo dei giorni scorsi ha insediato la neve ovunque, in ogni rugosit, epersino le pi piccole fessure appaiono otturate dalla neve e dal ghiaccio. Ilresto del Pilastro invece, che gode il privilegio di essere esposto al soleper buona parte del giorno, visto in queste condizioni pare persino invitante.Le difficolt da superare sono notevoli, il progredire lento e complicatosia per le manovre di autoassicurazione sia per il ricupero del sacco, chesembra divenire di volta in volta pi pesante.Nel primo pomeriggio raggiungo la nota "Cengia dei cunei misteriosi",completamente ricolma di neve; continuo lungo il difficile sistema di camini equesta volta, anzich aggirare ancora a sinistra la famosa malfida spaccatura,

  • l'affronto direttamente, quasi di slancio, sino a trovarmi sul terrazzino dadove Mauri ed io ripiegammo, nel 1953. Le pareti del sovrastante Ramarro nonpresentano nessun punto di riposo, non ancora sera ma per oggi basta cos,mi raccolgo sul terrazzino sgombrato dalla neve e, sgranocchiando ghiaccioliper dissetarmi, inizio il secondo bivacco.Nell'attesa silenziosa rivivo con la mente tutto quello che ho vissuto inquesti due giorni, penso a ci che ancora mi aspetta e il mio sguardo,istintivamente, accompagna ogni riflessione scorrendo a mano a mano dallaBrche all'imbuto, agli strapiombi sovrastanti. Il sole, questa sera, sembratramontare pi lentamente, poi si accendono le prime luci di Montenvers, eccoi segnali luminosi dei miei amici. Tutto procede bene! rispondo con ladebole pila e mentre le ore della notte trascorrono lente continua una riddadi nostalgie, di timori, di speranze che a poco a poco si fondono magicamentecol sonno e s'addormentano con me.Il superamento del Ramarro mi impegna a fondo con difficolt a volteesasperanti. All'inizio, il passaggio di una tremenda spacca turastrapiombante mi riesce soltanto con l'affidarmi completamente a tre cunei dilegno, i soli dalle dimensioni adatte, piantati e ripiantati pi volte. Allafine, quando ormai mi separa soltanto una decina di metri dalla sua sommit,mi vengo a trovare al disotto di un camino svasato che per il disciogliersidell'abbondante neve sovrastante si ridotto ad una colata di ghiaccio.Assicurato dal solo chiodo che mi riesce di conficcare nell'unica fessurarisparmiata dal ghiaccio, inizio un paziente e delicatissimo lavoro, che osodefinire di scultura, poich si tratta di incidere piccolissime ma saldetacche nel ghiaccio vivo che riveste le rocce del camino. Quando questo sichiude a strapiombo, con un'improvvisa strozzatura che ritorna ad aprirsisoltanto un metro pi in alto, la situazione sembra precipitare. Per un po' mene sto abbarbicato qua sotto a pensare sul da farsi, poi, quasi arrabbiato perl'imprevisto, metto in atto ci che l'istinto mi suggerisce. Sarebbe troppodover fallire l'impresa per un ostacolo saltuario e mutevole come questo,nonch improprio in questo genere di parete. A piccoli colpi di martellolibero quasi perfettamente la larga fessura della strozzatura, vi pianto uncuneo, passo la corda, appendo una staffa. Raccolte tutte le forze, miabbandono su questa, ma ancora non basta per giungere ad incastrarmi un metroal disopra della strozzatura, dove si riapre il camino. Il sostare cossospeso molto pericoloso poich so per esperienza che un chiodo o un cuneofissato in una fessura imbrattata di ghiaccio non reggono pi di due o treminuti. Pianto velocemente un secondo cuneo il pi alto possibile nellafessura ripulita alla bell'e meglio, ripeto l'operazione di primaagganciandovi corda e staffa e a questa mi abbandono un'altra volta, riuscendofinalmente nel l'intento di incastrarmi nel camino sovrastante. Mentrestriscio come una serpe sull'ultimo tratto di superfici ghiacciate, untintinnio sotto di me mi rivela la fuoruscita del secondo cuneo con agganciatala relativa staffa.Sul Ramarro vinto, mi posso finalmente riscaldare al sole e ristorare coricato

  • su una grande scaglia; sopra di me le Placche Rosse stanno ad attendermi liscee verticali. Come un sogno, odo improvvisamente un richiamo lontanissimo manitido, non c' dubbio: la voce del professor Ceresa. Non mi riesce discorgerlo ma certa mente deve trovarsi sulla morena del ghiacciaio del Dru.Tutto bene!, gli grido, ma quel suo richiamo risveglia in me un'ondata diricordi, di malinconie e la consapevolezza di quanto lontano io sia dal mondodegli uomini. Due giorni e mezzo sono passati da quando sono fuggito quelmattino dal rifugio Charpoua. Quasi non me ne sono accorto tanto sono statoimpegnato dalla scalata, eppure ora che ho sentito la voce del professorCeresa mi sembra trascorsa una eternit e mi sorprende persino l'udire la miastessa voce che risponde ai richiami dell'amico. Solo ora mi rendo conto cheda due giorni vivo, penso e ragiono senza dire una parola, nell'assolutosilenzio della natura vergine. Ci cos grande, cos assoluto, che ne sonointimorito.Prima di riprendere la scalata, decido di dissetarmi sacrificando una dellescatole di birra. Impugno il martello da ghiaccio dal becco lungo e sottile,sferro un colpo preciso sul barattolo ma, come un'esplosione, mi arriva involto un vero getto di birra. Invano cerco di tamponare il foro estraendo lapunta del martello, questa rimane impigliata sino all'ultimo nella latta equando cessa l'insolita doccia la birra quasi finita. Il terribile brucioreprodotto dalla bevanda sulle ferite delle mani e sulle screpolature del volto ancora maggiore del furore che mi arde dentro.A brevi tratti di corda, per facilitare il ricupero del sacco, mi innalzo,senza gravi difficolt, per una trentina di metri. La roccia salda,asciutta, quasi tiepida, per nell'aria va formandosi un mal tempo minaccioso.Ho da poco incominciato un difficile passaggio sui chiodi, quando il temporalescoppia violento. Ridiscendo fino al sacco, su una cengia, il pi rapidamentepossibile, ma vi arrivo, ahim, completamente inzuppato. Acqua e grandinescrosciano sulla parete, i fulmini squarciano il cielo ed io me ne sto sulterrazzo, chiuso nel sacco da bivacco, prima in piedi, nell'intento didissetarmi succhiando l'acqua che scorre lungo la parete, poi rannicchiato ilpi lontano possibile dai chiodi che temo attirino i fulmini.Come nella Sinfonia delle Alpi di Strauss, prima di sera ritorna la calma,ricompare il sole, ma i suoi deboli raggi ormai non hanno pi la forza diasciugarmi gli indumenti bagnati. Segue un gelido bivacco. Poi trascorre unanuova giornata di scalata intensa ma quasi monotona lungo le terribili PlaccheRosse. Da quando ho intrapreso questa ascensione non faccio che salire per unbreve tratto, piantare un chiodo, ricuperare e assicurare a questo la corda,ai cui capi sono legato io da una parte e il sacco dall'altra, calarmi lungodi essa fino al sacco e magari slegato se la corda non lunga a sufficienza,quindi ritornare a salire levando il maggior numero possibile dei chiodipiantati prima ed infine ricuperare il sacco fino a me. Quasi sempre ilricupero del sacco oppone serie difficolt per il peso gravoso che assume acausa dell'attrito contro la roccia, ma soprattutto perch spesso si impiglianelle sue rugosit; allora bisogna scendere nuova mente per disincagliarlo

  • una, due, pi volte ad ogni tratto di corda. Alla fine, facendo i conti, lamia scalata risulta compiuta almeno tre volte in salita e due in discesa. Losforzo e il logorio cui sono sottoposte le mani per sostenere sulle corde siame sia il sacco me le ha ridotte irriconoscibili, tanto sono scorticate esanguinanti.La solitudine che mi accompagna cos assoluta, allucinante, che pi volte misorprendo a parlare inconsciamente, a fare considerazioni ad alta voce, atradurre insomma in parole tutti i pensieri che attraversano la mia mente. Mitrovo persino a discorrere col sacco, come avesse un'anima, come fosse un verocompagno di cordata. In realt lo veramente ed paziente, generoso,prezioso nonch un perfetto sostegno nel caso di una mia eventuale caduta. Daieri mattina infatti, fra le stranissime manovre di autoassicurazioneimprovvisate sul momento, ne ho scoperta una in cui il sacco ha una parteimportantissima e da allora non sono pi salito di un metro senza prima averadottato questo sistema, che in seguito chiamer "a Z". Dopo aver assicurato aun chiodo il sacco attaccato a un capo della corda, mentre io sono attaccatoall'altro, riduco d'un terzo il tratto di corda che mi separa dal saccostesso, facendo un nodo che fisso alla cintura, sulla schiena. Questa manovrami permette di avanzare, quasi come se fossi attaccato a un compagno discalata perch, se cadessi, la mia caduta non potrebbe essere maggiore deldoppio del tratto di corda che mi lega al chiodo al quale sono ancorato, e ilsacco fungerebbe da contrappeso.Il quarto tramonto mi sorprende nel cuore delle Placche Rosse, poco sottol'impressionante barriera di tetti e strapiombi che sembrano precludere ognipossibilit di passaggio. La stanchezza incomincia ad affiorare dolorosa intutte le mie membra, specialmente nelle mani, ma soprattutto mi opprimel'incertezza del domani, la consapevolezza di essere ancora sovrastato dalpassaggio chiave dell'intera salita. Riuscir a risolvere il problema? Perquanto ancora dovr lottare? Non mi tradiranno le forze? Sono queste ledomande che mi affliggono. Per fortuna ho raggiunto un grande terrazzo sulquale, dopo averlo spianato, posso finalmente distendermi e l rattoppo con unchiodo e dello spago il sacco logorato dall'attrito sulla roccia, e cheminaccia di sfasciarsi. Quando mi avvolgo nel sacco da bivacco ormai buio,il profilo tagliente al centro del Pilastro, discosto pochi metri da me, miimpedisce di rispondere ai segnali luminosi che certamente stanno facendomigli amici da Montenvers; chiss quali timori li tormentano non vedendocomparire il mio lumicino, ma seppure ci fosse possibile, saprei di mentire,questa sera, col solito Tutto procede bene!Come sempre, l'alba che segue una notte di ansie e di attesa spasmodica apportatrice di nuove forze, di nuove speranze; sta mane, per, le cose sonocambiate e un nuovo motivo di preoccupazione va invece ad aggiungersi allealtre non meno gravi: le mani. Sono cos piagate e tumefatte che non possotoccare niente senza provare fitte di dolore lancinante, in particolar modosento martellare la punta dell'anulare sinistro, come vi fosse un processo dicancrena; l'inattivit della notte che mi ha ridotto cos. Per ridare alle

  • mani la sensibilit sufficiente da potermene servire, devo impormi unaginnastica preliminare che mi fa stringere veramente i denti. Quandofinalmente riesco a partire, il sole gi alto; dieci metri pi su ilproblema mi si presenta in tutte le sue caratteristiche: liscia intorno,rientrante al centro e immensamente strapiombante e a gronda al disopra, laparete si chiude innanzi a me come l'abside di una cattedrale. La soluzioneevidente sarebbe senz'altro quella di superare direttamente il grande tettonero dove un susseguirsi di rudi strapiombi sporgono per almeno cinque metri,ma la presenza di alcuni blocchi instabili che incombono a met dello stesso,unitamente alla scarsa assicurazione che mi impone la scalata solitaria, miinducono senz'altro ad evitare tale passaggio. Un liscio camino, che siinnalza sopra di me per alcuni metri e al di l del quale non si pu vedere,mi invita a tentare la sorte a sinistra. Giunto al disopra, mi rincuora ilconstatare la presenza di alcune rocce facili che portano fin sotto un'enormeplacca rossa verticale e compatta, alta almeno cinquanta metri. E terribile avedersi, per il pensiero che al disopra la parete tende ad inclinarsi miinduce a continuare per questa via. Attacco decisamente la placca riempiendodi chiodi una sottile fessura che, all'inizio, ha tutta l'aria di esseregenerosa; dopo una ventina di metri, per, le cose cambiano e non tanto per lacomparsa di piccoli tetti dall'aspetto bonario, quanto per il fatto che lafessura appare improvvisamente troppo larga per ricevere i chiodi e nelcontempo troppo stretta per i cunei di legno. Inoltre obliqua, strapiombantee cos per tutti i suoi rimanenti trenta metri. Non ci sono scappatoie.E quasi mezzogiorno, un rombo d'aereo mi distrae dal nuovo problema e pochiattimi dopo, quando un piccolo monomotore da turismo compare nel cielo,vicinissimo alla mia sinistra, arrivo persino a formulare un pensieroall'indirizzo del pilota. Che imprudente, penso, il caso di rischiare tantoper mostrare ai turisti ci che a loro proibito? Ma l'aereo ricompare ancorapi grande, tanto vicino che temo persino finisca contro il Dru. Mi assale undubbio, che per trova conferma quando l'aereo torna a ripassare una terzavolta; sta cercando me, per me che vola cos vicino alle rocce. Con un piedesu una staffa e una mano afferrata al chiodo che mi sostiene mi sporgocompletamente in fuori, agitando l'altro braccio, l'altra gamba, il berretto,faccio insomma tutto quello che mi possibile per rendermi visibile, ma ad untratto una bianca nube mi avvolge e presto odo l'aereo che si allontana. Miinvade una strana sensazione, come se quell'aereo fosse una parte viva di mestesso che ora sfugge, lacerandomi dentro. Mi accorgo che avrei preferito lasolitudine assoluta. Tutto ci che avvenuto in questo breve tempo mi apparecome un estremo tentativo di congiunzione con quella vita che sembra nonappartenermi pi. Quali terribili pensieri sono questi, se vissuti in unarealt ancora pi terribile! Quando e come uscir da questa parete? Quandofinir questo incantesimo? Mi prende la disperazione. Gi mi ero illuso ditrovarmi a soli trenta metri dalla fine del problema quando questo ad untratto mi si rivela insuperabile; dovr ritornare nella grande abside, alpunto di partenza, e intanto mezza giornata preziosissima se ne andata.

  • Da quando ho concluso l'ultima sfortunata calata a corda doppia che mi haposato in fondo all'imbuto, ho sempre usato una sola corda da quaranta metridi nailon, tenendo l'altra di seta dentro al sacco. Ora giunto il momento difare uso di tutte e due perch, dopo un attento esame, favorito dal luogo incui mi trovo, mi pare di aver intravisto una soluzione nel raggiungere conlunghi pendoli una lunga spaccatura che solca interamente tutto il lato destrodell'abside e continua ancora per almeno quaranta metri, forse fino araggiungere la zona di rocce rotte e inclinate, fallita da questa parte. Dopoaver schiodato tutta la sottostante fessura, lasciando infisso soltantol'ultimo chiodo, il pi alto e pi sicuro, inizio una serie di complicatissimemanovre di pendoli verso destra. Il primo di questi lunghissimo e mi riportafin dentro all'abside, sotto il grande tetto nero, ma quando ricupero le cordesento che non scorrono per il troppo attrito, cos devo ritornare indietro perrifare il passaggio con due pendoli. Il terzo pi che un pendolo unatraversata a corda quasi orizzontale, che mi consente di arrivare su una lungae sottile cengetta. Invano tento e ritento di alzarmi sulla liscia paretesoprastante per poter piantare un chiodo abbastanza in alto da consentirmiun'ultima pendolata. Allora provo a forzare una traversata orizzontale versodestra, ma dopo pochi metri resto allibito: tra me e la fessura si apreimprovviso un immenso vuoto rientrante, svasato e liscio come una mostruosaconchiglia. Ovunque lo sguardo si posi all'intorno, non fa che incontrarestrapiombi e liscioni insuperabili, il vuoto assoluto e ormai nauseante.Comprendo che non posso pi tornare indietro. Non posso scendere n salire.L'inizio della fessura l, a una dozzina di metri da me, irraggiungibilesull'abisso. Mi sento perduto, svuotato di ogni forza fisica e morale e peralmeno un'ora resto incapace di reagire, incollato all'unico chiodo chesostiene me e lo zaino in quell'isolamento totale. Ma di fronte alla certezzadi morire, le risorse umane si rivelano ben pi grandi di quando io stessocredevo. A poco a poco ritrovo il controllo di me stesso ed alla fine, forsepensando che non ci si pu rassegnare ad attendere inerti la morte quando percinque giorni si lottato disperatamente per vivere, si riaccende in me unlumicino di speranza e ritrovo il coraggio di affrontare quell'imponderabileche gi avevo accettato partendo per una simile impresa. Ai piedi della lungaspaccatura che dovevo raggiungere mediante le pendolate, si protendono dellescaglie di roccia fatte come una mano con le dita aperte. Penso di poterleprendere al volo con un laccio di corda per issarmi sino a loro. Ho deciso chefar cos.Ma sono dita dall'aspetto infido e presto mi avvedo che, prese al laccio, nonpossono sorreggermi. Allora al capo della fune fisso tanti anelli, tentacoli,nodi, come le "bolas" argentine, pensando che quella specie di piovra dicorda, lanciata sulle scaglie, dovrebbe ben finire con l'incastrarsi daqualche parte. Dopo una decina di lanci la corda sembra incastrarsi nelmigliore dei modi.Do uno strattone di prova, rabbrividisco: la corda si sgancia mollemente.Ritento pi volte, finch la piovra si aggancia di nuovo. Stavolta, tirando,

  • resiste. Ma io do strattoni laterali. Quando sar appeso alla funeverticalmente sotto le scaglie, i nodi e gli anelli non si sfileranno dallapresa? E le scaglie stesse, dall'aspetto cos precario, non si staccheranno?Meglio non pensarci, dato che non c' altra soluzione. Prendo le ultimeprecauzioni prima di lanciarmi nel vuoto. Legato all'altro capo della cordalanciata, v' il sacco: per poterlo ricuperare dall'alto, lo sgancio dalchiodo al quale sono anch'io ancorato, e delicatamente lo poso in bilico sullastretta cengia. Nell'anello del chiodo passo invece l'altra corda sino allasua met, dopo di che mi lego intorno alla vita i due capi. Questa costituirl'unica autoassicurazione possibile per l'insolito passaggio che mi attende.Guai per se accadesse di dover contare su di essa: significherebbe compiereuna caduta di oltre venti metri o quasi senza speranza che il piccolo chiodopossa resistere allo strappo. Ogni preparativo stato fatto. Ora non mirimane che giocare la sorte.Un'ultima, snervante esitazione, un'ultima intima invocazione di salvezza e,quando un tremore incontrollabile incomincia ad invadermi, prima che le forzemi vengano meno, chiudo gli occhi per un attimo, trattengo il respiro e milascio scivolare nel vuoto, aggrappato con le sole mani alla corda. Per unistante ho la sensazione di precipitare insieme alla corda, poi il volo inavanti lenta mente si smorza e quasi subito sento che sto oscillando indietro:l'ancoraggio ha tenuto!Sono attimi, questi, in cui cento ragionamenti si accavallano, eppure conassoluta chiarezza si imprimono nella mente per tutta una vita. Per ancoraqualche secondo mi lascio trasportare avanti e indietro nella vertiginosaaltalena, indi prima di incominciare a girare su me stesso nel vuoto, mi issosulle braccia lungo la corda. Ad ogni metro di salita il pericolo aumentaperch le oscillazioni che senza volerlo imprimo alla fune, si ripercuotonosempre pi fitte sull'aggancio che non so quanto sia solido. E uno sforzoestremo, tesissimo, a cui partecipo con tutto me stesso, ormai dominatosoltanto dall'istinto. Quando devo abbandonare la corda per aggrapparmi allescaglie, ho ancora un attimo di esitazione: temo che tutto mi debba crollareaddosso, lo penso e gi mi trovo a strisciare sulle sue asperit, facendomileggero il pi possibile. E andata bene. Lascio passare l'eccitazione che miha invaso, poi incomincio a ricuperare il sacco, la sua gigantesca pendolatanell'abisso mi impressiona. Quindi inizio a sfilare la corda che mi cingeva lavita e, quando ho la certezza che essa scorre liberamente nel chiodo, provo ungrande sollievo. Ora posso veramente considerarmi fuori dal "mauvais pas".Ripongo nel sacco la fune di seta, mi lego al capo dell'altra di nailon, a cui fissato il sacco, e tosto mi innalzo lungo blocchi insta bili per una decinadi metri sino a che la spaccatura diventa molto difficile. Qui pianto unchiodo, aggancio il sacco e, dopo aver di sposto il mio sistema diautoassicurazione "a Z", tento e ritento di superare una svasaturastrapiombante, sulla quale devo procedere in arrampicata libera. Alla fine viriesco, sorretto pi che altro dalla certezza di potermi assicurare con unchiodo subito sopra; invece, la fessura che avevo preso di mira risulta cieca

  • e il chiodo non entra. Sopra di me, quella che io avevo considerato unaspaccatura, si presenta nella realt pi simile a un camino aperto dallepareti verticali ed estremamente compatte e scivolose. Con uno slancio quasidisperato salgo di un altro metro, ancora per altri due, ma invece dellefessure trovo soltanto vene di quarzo compatto. Una miracolosa strozzatura sulfondo del camino mi permette di piantare in extremis alla bell'e meglio ungrosso cuneo di legno, sul quale, passata la corda e agganciata una staffa,posso almeno riprendere forza pur senza fidarmi di appendermici completamente.Ricomincio a strisciare, a contorcermi per innalzarmi. Ormai devo salire adogni costo, come prima mi alzo un metro dopo l'altro, sempre con la vanaillusione di riuscire a fissare un chiodo. Ad un certo momento la corda siesaurisce, fermarmi impossibile, allora senza esitare sciolgol'autoassicurazione "a Z" triplicando la disponibilit della corda e riprendoad innalzarmi. Tre metri dopo, la corda si incaglia, bloccandomi quasi dicolpo dove mi trovo. Credo di ansi mare come un moribondo tanto lo sforzo ela disperazione; fortuna vuole che sia giunto fin sotto a un piccolo tetto, inuna zona di roccia molle e sgretolabile come gesso, che mi consente dipiantare quattro o cinque chiodi. Poich potrebbero uscire con la stessafacilit con cui sono entrati, li lego tutti insieme con un cordino, ottenendocos un ancoraggio relativamente saldo. Slego la corda dalla cintura e lafisso a questo ancoraggio di fortuna, il che mi permette di ridi scendere finoal sacco che, alla partenza, avevo necessariamente lasciato agganciato alchiodo.Dopo l'esperienza appena fatta, scarto decisamente l'idea di continuare per laspaccatura, e dato che mi trovo ormai al disopra dei tetti dell'abside, decidodi forzare una traversata a sinistra tentando di qui il raggiungimento delleplacche rotte e inclinate. Anche questa manovra riesce, ma con difficoltestreme, date soprattutto dall'esecuzione di piccoli pendoli verso sinistrache mi consentono di attraversare placche verticali assolutamente compatte.Dopo aver chiuso quasi un cerchio col percorso fatto stamane, arrivofinalmente in prossimit delle benedettissime rocce rotte e facili, e talisembrano continuare per almeno cinquanta metri, poi... nuovamente tetti estrapiombi molto rotti ma anche molto pronunciati Mi accingo a ripetere latraversata in senso contrario per le solite operazioni di ricupero del sacco edei chiodi. Dapprincipio, le manovre contrarie dei pendoli appena compiuti misconfortano, ma alla fine, non so come, riesco ad arrivare al famoso grappolodi chiodi. Una staffa mi sfugge improvvisamente dalle mani, il mio sguardo sirifiuta di seguire la sua caduta e passano parecchi secondi prima di udirlarimbalzare lungo la parete. Per la terza volta mi accingo a ripetere lamanovra dei pendoli. La corda e le rocce circostanti appaiono tempestate dimacchie di sangue. Le mie povere mani sono veramente a brandelli, ipolpastrelli delle dita si aggrappano alla roccia addirittura sulla carneviva, ma il lavoro cui sono sottoposti tale che me li rende insensibili aldolore. Alla fine della terza fase dei pendoli prossima a calare la notte.Mi affretto a salire, a cercare almeno un esiguo terrazzino su cui passare il

  • mio quinto bivacco, e lo trovo quindici metri pi sopra. Quando discendo perschiodare il passaggio, buio fitto.All'inizio, il bivacco si prospetta pi drammatico di ieri notte, poiimprovvisamente mi raggiungono lontanissimi richiami e nella stessa direzionevedo distintamente muoversi dei lumicini. Sono i miei amici che, dal rifugioCharpoua, mi cercano e fanno segnalazioni. Rispondo immediatamente con quantofiato posseggo e affinch mi scorgano. (Per un inganno ottico essi mi pensanogi in discesa lungo la cresta della via normale).La sola presenza dei miei amici, seppure lontana e forse a me inutilematerialmente, esercita nel mio intimo un potere quasi miracoloso che mi faprovare ad un tratto la certezza di arrivare in cima al Dru e di ritornare aquella vita che in questi giorni mi era parsa gradatamente sempre pi lontana.Nulla mutato, materialmente, da pochi minuti a questa parte: il dolore allemani sempre acuto, la sete bruciante, l'ombra nera dei tetti che spuntasopra il capo continua ad essere repulsiva, eppure dentro di me si capovolta un'intera situazione, che mi porta a rivedere e a valutare le cosepassate in modo del tutto diverso da come via via avevo fatto in questigiorni. Solo ora sento di possedere una valida unit di misura per potercomprendere l'intensit di ci che ho vissuto quass. La montagna, le suerocce, il vuoto erano diventate cose cos vive in me da farmi giungerepersino, poco alla volta, a compenetrare in loro, a sentirle inconsciamenteparte di me stesso tanto da formare con esse un unico corpo. Ora invece, checome in un risveglio posso staccarmi da queste sensazioni e riconciliare iloro valori con la realt, mi sembra persino di aver sfiorato l'idea di essersempre vissuto su questa montagna, col solo scopo di soffrire e di salireverso la vetta eternamente irraggiungibile.Per la prima volta sento di avere in pugno il Pilastro del Dru, di avervarcato la barriera che mi separava dalla mia anima e provo un gran desideriodi piangere e di cantare.Il cielo comincia a sbiancarsi, sta per iniziare la sesta giornata di lotta,tutte le forze sono protese verso l'ultimo ostacolo che mi separa dalla vetta,ma le mani sembrano non voler pi rispondere all'ultimo disperato appello. Condolori atroci, durante la notte mi si sono gonfiate a tal punto che non riescopi a stringere il pugno n ad aprirlo, e la ginnastica che, come ierimattina, devo impormi per riattivarle, mi produce veri spasimi di sofferenza.Alcune voci mi raggiungono, poi compaiono tre uomini sulla Brche della vianormale. Emozionatissimo, rispondo ai loro richiami, riconosco soltanto lavoce del professor Ceresa, gli altri due parlano in francese. Bench gli amicicontinuino a rivolgermi gioviali incoraggiamenti, dai frammenti dei lorodialoghi che arrivano fino a me, affiora l'ansia e la preoccupazione chenutrono sulla mia sorte: mi pensano gi vittorioso, sulla via del ritorno. Pertranquillizzarli incomincio a salire soffrendo alle mani le pene dell'inferno.Poco dopo la voce del professor Ceresa mi comunica che saliranno in punta alDru per la via normale ad attendermi con i viveri.Un diedro obliquo verso sinistra mi porta ad innalzarmi stando quasi

  • perfettamente sul filo del Pilastro sud-ovest. Presto il quinto e il sestogrado cedono finalmente al quarto e persino al terzo e secondo grado, lospigolo si inclina, la roccia diviene sempre pi facile e veloce ilprogredire. A mezzogiorno sono a meno di cento metri dalla vetta, la roccia ormai facilissima e, per salire pi speditamente, decido di abbandonare tuttoci che mi di troppo, portandomi il sacco sulle spalle. Sto quasi persbarazzarmi anche della trentina di chiodi e delle due staffe di cui ancoradispongo, ma all'ultimo momento istintivamente li rimetto nel sacco senzasapere che cos facendo mi assicurer la possibilit di vincere l'ultimoinganno del Dru. Poco sopra, infatti, un profondo intaglio separa nettamenteil Pilastro dalla vetta del Dru la quale, inaspettata mente, presenta ancoraalmeno cinquanta metri di strapiombi. Fino a ieri ci forse avrebbe potutocostituire il colpo di grazia, ora invece affronto l'ostacolo in modo quasirabbioso, come se in cuor mio fossi certo che nulla ormai potrebbe arrestarmidalla vetta. Le mani sono ritornate indolori, i chiodi e le staffe entrano dinuovo in funzione in modo quasi brutale; un lastrone di granito di almeno unquintale di peso si stacca improvvisamente, mi investe di strisciotramortendomi la gamba sinistra, ma le mani saldamente afferrate nell'aereocamino non mollano la presa. Come animato da una forza soprannaturale,continuo a salire superando prominenti strapiombi anche in arrampicata libera.La roccia ritorna via via ad inclinarsi, sotto di me ricompaiono sulla vianormale gli amici i quali ormai sicuri della mia vittoria si arrestano peraspettarmi. Alle sedici e trentasette esatte sono in vetta al Dru. Uno sguardoveloce tutt'intorno e, quasi di corsa, con lo zaino sulle spalle, incomincio adiscendere.Un'ultima calata a corda doppia e dieci minuti dopo la vittoria abbracciocommosso il professor Ceresa e gli alpinisti francesi che lo accompagnano. Illoro nobile e simpatico gesto prova ancora una volta che la vera fraternitalpinistica non conosce frontiere.Le tenebre ci sorprendono presso la Brche delle Flammes de Pierre a quota3350 circa. Un sesto bivacco inevitabile, ma ormai, penso fra me, cheimporta soffrire ancora una notte quando di dentro ci si sente migliorati pertutta la vita?

    FINE.