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fallimento delle politiche di austerity
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Vladimiro Giacch: La secular stagnation e ilfallimento delle
politiche di austerity
La secular stagnation e il fallimento delle politiche
diausteritydi Vladimiro Giacch
In un suo recente contributo sulla stagnazione
secolarenelleurozona, Paul De Grauwe, dopo aver osservato chedalla
Crisi Globale del 2007/8 gran parte dei paesi sviluppatinon sono
stati in grado di tornare ai livelli di crescita pre-crisi, ha
rilevato per come da nessuna parte nel mondosviluppato lipotesi
della stagnazione secolare sia meglioconfermata che nelleurozona.
Lo stesso (ri)scopritore delconcetto di secular stagnation,
Laurence Summers, ha ineffetti ricordato che nella zona delleuro il
pil reale circadel 15 per cento inferiore a quello stimato nel
2008, eanche il prodotto potenziale stato rivisto al ribasso
diquasi il 10 per cento. Ma torniamo a De Grauwe: lostudioso belga
osserva che, se gi prima della crisi il pilreale delleurozona
evidenziava dinamiche di crescita
inferiori a quelle degli Stati Uniti e degli stessi paesi
dellUnione Europea che non fanno parte dellareamonetaria, dalla
crisi del 2008 in poi questa divergenza si accresciuta
ulteriormente (v. grafico 1).
Luned 16 Marzo 2015 21:29
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Questo perch il pil reale delleurozona risultato stagnante, e
ancora pi basso nel 2014 di quanto lo fossenel 2008. De Grauwe si
chiede quindi: perch leurozona unisola di stagnazione nel mondo
sviluppato?. Lasua risposta che questo non invidiabile primato ha
molto a che fare con il fatto che gli squilibri esterni tra ipaesi
delleurozona sono stati corretti in modo asimmetrico. Prima della
crisi, i paesi periferici delleurozona(paesi del sud pi Irlanda)
avevano accumulato deficit delle partite correnti, mentre i paesi
del norddelleurozona (Austria, Belgio, Finlandia, Germania e
Olanda) avevano accumulato dei surplus. Questo ha resoil primo
gruppo di paesi debitore, il secondo creditore. Quando la crisi ha
determinato un blocco della liquidit, ipaesi debitori hanno chiesto
aiuto ai paesi creditori. E lhanno ottenuto, ma solo al prezzo di
gravosi programmidi austerity che hanno li hanno costretti a
pesanti tagli di spesa e li hanno spinti in forte recessione. In
questocontesto, la Commissione Europea ha accettato di diventare
lagente delle nazioni creditrici dellEurozona promuovendo politiche
di austerity quale strumento per salvaguardare gli interessi di
queste nazioni.
Leconomista belga giustamente osserva come sarebbe stato
possibile un diverso approccio, che muovessedallovvia circostanza
che le responsabilit per gli squilibri di bilancia delle partite
correnti sono ripartite tranazioni creditrici e nazioni debitrici,
e che in effetti per ogni debitore irresponsabile deve esserci un
creditoreirresponsabile. Invece si scelto di non adottare questo
approccio riguardo ai creditori e ai debitoridelleurozona,
ritenendo che i primi abbiano seguito politiche virtuose, i secondi
politiche sconsiderate. Incoerenza con questo assunto, le nazioni
debitrici sono state costrette a sopportare lintero
oneredellaggiustamento. E quindi, in assenza della possibilit di
svalutare la moneta, le nazioni debitrici sonostate costrette a
ridurre salari e prezzi rispetto ai paesi creditori (a effettuare
una svalutazione interna) senzache tale riduzione fosse compensata
da un incremento di salari e prezzi nei paesi creditori
(rivalutazioniinterne). Questo stato ottenuto attraverso
significativi programmi di austerit nel sud effettuati senza
lacompensazione di manovre espansive al nord.
Nel secondo grafico proposto da De Grauwe si pu osservare come
il costo relativo del lavoro per unit diprodotto in Irlanda,
Spagna, Grecia e misura minore in Portogallo e Italia abbia
conosciuto un brusco calodal 2008/2009 (grafico 2).
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Paul de Grauwe osserva che queste svalutazioni interne hanno
avuto un costo elevato in termini di perdita diprodotto e di
occupazione nei paesi debitori soprattutto perch gli effetti di
tali svalutazioni interne in termini diriduzione della spesa sono
stati maggiori degli effetti in termini riorientamento della spesa
(competitivit).
Inoltre, non vi stato un simmetrico aggiustamento (cio una
rivalutazione) da parte dei paesi creditori: in questiultimi,
infatti, il costo del lavoro relativo per unit di prodotto ha
conosciuto variazioni ben poco significative,come si pu vedere dal
grafico 3.
Ad avviso di De Grauwe la stagnazione nelleurozona precisamente
leffetto di questo aggiustamentoasimmetrico. Il fatto che il peso
del riaggiustamento sia stato caricato unicamente sulle spalle dei
paesi debitoriha creato una tendenza deflazionistica che spiega
come mai leurozona sia stata ricacciata in una doppiarecessione nel
2012-2013, e come mai il pil reale sia stato stagnante dal 2008, a
differenza di quanto avvenutonei paesi UE che non fanno parte
delleurozona e negli Stati Uniti.
Altri effetti di questo processo sono rappresentati secondo De
Grauwe dal passaggio dellintera eurozona dal
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deficit delle partite correnti in essere nel 2008 a un surplus
pari a circa il 3% del pil nel 2014 e da un bruscocalo
dellinflazione, che a fine 2014 divenuta negativa per leurozona nel
suo complesso (grafico 4).
Detto per inciso, questultimo grafico testimonia anche la
clamorosa inosservanza dei propri obblighi statutari daparte della
BCE: infatti passano ben due anni di inflazione al di sotto del
target del 2% prima che la BCEintervenga, in modo certamente
tardivo e meno efficace di unazione tempestiva per il contrasto
delladeflazione.
Ma a De Grauwe interessa unaltra implicazione di quanto
avvenuto: tutti i fenomeni associati allipotesi dellastagnazione
secolare sono presenti nelleurozona in forme significativamente pi
accentuate di quanto avvenganegli Stati Uniti e negli altri paesi
dellUnione Europea. E oggi leurozona sembra essere bloccata in
unequilibrio di bassa crescita e alta disoccupazione.
Infine, De Grauwe traccia un interessante parallelo storico: Nel
corso degli anni Trenta diversi stati europeidecisero di ancorarsi
alloro e di mantenere fissi i loro tassi di cambio. Questo
costrinse tali paesi ad adottarepolitiche di domanda
deflazionistiche al fine di riportare in equilibrio la bilancia dei
pagamenti. Di conseguenzamancarono la ripresa e le loro performance
economiche risultarono significativamente peggiori rispetto ai
paesiche si erano sganciati dalloro e avevano svalutato la propria
moneta In eurozona dalla Grande Recessione inpoi accaduto qualcosa
di molto simile.
Secular stagnation: un problema non solo europeo
Lanalisi di De Grauwe senzaltro condivisibile: il nesso tra la
particolare gravit della situazione economicadelleurozona e le
politiche di austerity innegabile. Per quanto riguarda
specificamente lItalia, chi scrive avevaosservato gi allatto della
prima manovra varata dal governo Monti quanto segue: il risultato
sar undrammatico calo della domanda e dei consumi. Con il risultato
di una compressione, anche molto prolungata,del prodotto interno
lordo appena il caso di ripetere che il calo del prodotto interno
lordo del nostro Paesepeggiorer il rapporto debito/pil e quindi far
fare allItalia un altro passo nel tunnel greco. Questultimo
aspettonon presente nelle pagine sopra citate di De Grauwe, la cui
attenzione si appunta in particolare sullaconseguenze deflattive
dellaggiustamento asimmetrico dei salari, ma era tra i motivi che
avevano indotto
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analisti finanziari di tutto il mondo, gi nellestate 2011, a
contestare le politiche di austerity che si venivanodecidendo a
livello europeo, e che avrebbero trovato una condensazione nel
fiscal compact. La circostanza fuironicamente rilevata da una
giornalista del Financial Times, che il 22 agosto 2011 osserv
nelledizione onlinedel quotidiano: interessante notare che mentre
la politica si fa sempre pi cauta e diciamolo reazionaria,alcuni
tra i personaggi pi influenti del mondo economico e finanziario se
ne escono con proposte che li fannosembrare dei comunisti rispetto
alla maggior parte degli uomini di governo.
Da allora, come noto, abbiamo assistito a rettifiche a
ripetizione delle previsioni effettuate da parte delle piimportanti
istituzioni finanziarie internazionali. Rettifiche delle previsioni
della crescita conseguente alle politichedi austerity
(sovrastimata) e degli effetti negativi del moltiplicatore fiscale
(sottostimati), che sono sfociate inqualche caso (a proposito della
Grecia) in un vero e proprio mea culpa, ad esempio, da parte del
FondoMonetario Internazionale. Rettifiche e autocritiche purtroppo
tardive.
Dal punto di vista della crescita globale dellEurozona
(mediamente inferiore a quella delle altre areeeconomiche) il
fallimento delle politiche di austerity indiscutibile. un
fallimento che fa apparire a posterioricome degli ottimisti
visionari anche analisti molto prudenti. il caso di Jim ONeill, il
quale recentemente haaffermato: Solo leurozona ha deluso malamente
negli ultimi anni. Quando feci le mie previsioni nel 2010
partiidallidea che i problemi demografici e la bassa produttivit di
questa regione le avrebbe impedito di crescere aun ritmo superiore
all1,5% allanno. Invece riuscita a crescere soltanto di uno
stentato 0,3%. Quanto allItalia,come sappiamo, la situazione
peggiore, e di gran lunga.
Ma dobbiamo allargare lo sguardo. Ci aiuta proprio il concetto
di secular stagnation, o meglio ci che questoconcetto implica.
In primo luogo una situazione globale almeno per quanto riguarda
i paesi a capitalismo maturo cheSummers ha descritto facendo
presente che, per quanti sforzi le autorit monetarie abbiano fatto
negli StatiUniti e altrove, portando i tassi dinteresse a zero e
adottando misure non convenzionali di politica monetaria(quali
lacquisto di titoli di Stato e di altri assets finanziari da parte
delle banche centrali), il risultato in termini dicrescita stato
deludente: in particolare, la crescita economica media negli Stati
Uniti stata appena del 2 percento negli ultimi 5 anni, a dispetto
del fatto di partire da una situazione estremamente depressa a
causa dellacrisi.
Quanto al futuro? Le cose non dovrebbero cambiare di molto.
Secondo Paul Krugman lipotesi della secularstagnation prevede che
periodi come gli ultimi 5 anni e oltre, in cui anche una politica
di tassi dinteresse azero non in grado di ricreare una situazione
di piena occupazione, sono destinati ad essere molto pi frequentiin
futuro. Anche ad avviso di Summers se negli anni a venire si vorr
mantenere la piena occupazione, i tassidinteresse reali nel mondo
industrializzato dovranno probabilmente essere mantenuti pi bassi
di quanto losiano stati storicamente, e conseguenza importante
tutto questo pu avere implicazioni importanti per lastabilit
finanziaria.
Qual il motivo di questa sorta di maledizione, che ci accompagna
da quando scoppiata la crisi? SecondoSummers, il fatto che gi prima
della crisi il modello di crescita era insostenibile, in quanto
basato sulla finanza esul debito: purtroppo, chiaro che la
difficolt emersa negli ultimi anni quanto al raggiungimento di
unacrescita adeguata era gi presente da molto tempo, ma era stata
occultata da una finanziarizzazioneinsostenibile. Questo riguarda
tanto gli Stati Uniti che lEuropa. Quanto ai primi, Summers osserva
che dacirca 20 anni che negli Stati Uniti leconomia non cresce pi a
un ritmo sano e sostenuta da una finanzasostenibile (si tratta di
unosservazione tanto pi significativa in quanto lo stesso Summers,
nella funzione disegretario al Tesoro del governo Clinton, contribu
attivamente alla deregulation del settore finanziariostatunitense).
Ma le cose non stanno in modo molto diverso per quanto riguarda
lEuropa: anche in questo caso
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retrospettivamente chiaro che molta della forza che avevano le
economie della periferia prima del 2010 erabasata sulla
disponibilit di credito eccessivamente a buon prezzo, e che gran
parte della forza delle economiedel nord Europa derivava da
esportazioni [verso i paesi periferici, NdR] finanziate in modo
alla lungainsostenibile.
Lanalisi di Summers si ricollega cos idealmente a quella di De
Grauwe, ma formulando una sintesi pigenerale: la crescita
pre-crisi, negli Stati Uniti come in Europa, stata pagata con gli
squilibri finanziari chehanno poi fatto da detonatore alla
crisi.
La crisi: fine di un modello di sviluppo basato sulla finanza e
sul debito
Come noto, linnesco della crisi nel 2007 rappresentato dal
collasso del modello di consumo degli Stati Uniti,basato
sullindebitamento privato, che consentiva di mantenere consumi
elevati nonostante stipendi in caloormai da decenni. Ma questa
soltanto la punta delliceberg. In verit la crisi che ha chiuso lo
scorso decennioha rappresentato, pi in generale, il punto di
approdo di oltre un trentennio di crescita asfittica, di
stentatavalorizzazione del capitale, a cui si risposto con la
finanziarizzazione su larga scala. Per almeno tre decenni,la
risposta al pericolo della stagnazione economica stata
rappresentata dalla crescita del debito e dellafinanza.
Una crescita il cui ritmo impressionante ben sintetizzato da
poche cifre pubblicate anni fa dalla societ diconsulenza McKinsey.
Queste: Nel 1980, il valore complessivo delle attivit finanziarie a
livello mondiale eragrosso modo equivalente al PIL mondiale; a fine
2007, il grado di intensit finanziaria a livello mondiale
(worldfinancial depth), ossia la proporzione di queste attivit
rispetto al prodotto interno lordo, era del 356%.
importante osservare il nesso tra questa esplosione della
finanza e del debito e landamento del saggio diprofitto.
La pi completa ricerca in materia dimostra una tendenza generale
al calo del saggio di profitto negli ultimidecenni e il suo
convergere su livelli simili nei principali Paesi dellOccidente
industrializzato, sia pure conandamenti tra loro non uniformi.
Particolarmente eloquenti i dati riguardanti Germania, Francia e
Italia, cheevidenziano un dimezzamento del saggio di profitto tra i
primi anni Sessanta e i primi anni del nuovo millennio.
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Dopo la crisi, a una moderata ripresa in Germania hanno fatto
riscontro dati molto deludenti in Francia esoprattutto in Italia.
Il Giappone, che muoveva da livelli relativamente pi elevati del
saggio di profitto, evidenziauna diminuzione ancora maggiore dal
1970 a oggi.
Stati Uniti e Gran Bretagna, che muovevano invece da livelli pi
bassi, sembrano evidenziare una relativaripresa dagli anni Ottanta
al 2007. Per, a dispetto di una diffusa convinzione, negli ultimi
decenni neppure gliStati Uniti hanno conosciuto un boom dei
profitti. Tuttaltro. Se si considerano i profitti medi delle
impreseamericane prima delle tasse dopo il 1940, si osserva una
costante diminuzione: dal 1941 al 1956 il saggio diprofitto era del
28 per cento, dal 1957 al 1980 stato del 20 per cento, per scendere
ancora al 14 per cento nelperiodo 1981-2004, sia pure con un
andamento che alterna anni di crescita ad anni di calo.
Si tratta di dati che fanno giustizia di tanti frettolosi
giudizi circa le presunte smentite definitive della storia
alleteorie di Marx. Ma non questo che interessa in questa sede.
Quei dati vanno ricordati soprattutto per un altromotivo: perch la
finanziarizzazione va inserita in questo contesto. La
finanziarizzazione ha avuto una triplice,importantissima funzione:
mitigare le conseguenze della riduzione dei redditi da lavoro sui
consumi, puntellare isettori industriali afflitti da un eccesso di
capacit produttiva e fornire alternative pi redditizie rispetto
agliinvestimenti nel settore manifatturiero.
In questo modo, dagli anni Ottanta in poi, essa ha
effettivamente rallentato la tendenza alla caduta del saggio
diprofitto, in parallelo alla crescita della quota dei profitti
legati alla finanza entro i profitti totali. Negli Stati Uniti,
incui nei primi anni Ottanta il settore finanziario vantava il 10%
dei profitti totali, la proporzione cresce sino al 40%del 2007. Nel
Regno Unito tale proporzione raggiunge nel 2008 addirittura l80%. E
vale la pena di notare cheproprio nel Regno Unito tra il 1987 e il
2008 lacquisto di asset finanziari da parte di imprese non
finanziarie stato del 20% pi elevato rispetto allacquisto di attivi
fissi (macchinari ecc.).
Con la crisi del 2007/2008 si rompe precisamente questo modello
di sviluppo. Ed emergono sovrapproduzione esovraccapacit produttiva
di proporzioni imponenti, per di pi accresciute ulteriormente dalla
semiparalisifinanziaria che si verifica a livello mondiale tra fine
2008 e inizio 2009, e poi dalla restrizione creditizia che comedi
consueto accompagna la crisi.
Dopo la crisi: business as usual?
La risposta politica alla crisi si compone di due principali
elementi: una socializzazione delle perdite didimensioni inedite e
politiche monetarie ultraespansive.
In primo luogo, al fine di impedire il collasso del sistema
finanziario internazionale, viene effettuato un
massicciotrasferimento di debito privato a carico della
collettivit. degno di nota in proposito che, a dispetto di
unadiffusa convinzione, la socializzazione delle perdite bancarie
avvenuta allinterno dellUnione Europea sia statasuperiore a quella
che ha avuto luogo negli Stati Uniti. Il grafico 6 mostra lentit
dei capitali pubblicieffettivamente spesi o impegnati in Europa per
salvare le banche nei diversi paesi. Sono numeri che nonrichiedono
particolari parole di commento, se non per rilevare la circostanza
che il sistema bancario oggigiudicato pi fragile in Europa quello
italiano sia anche quello che ha ricevuto meno aiuti di Stato dal
2008 inpoi.
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La seconda componente della risposta alla crisi consiste in
politiche monetarie ultraespansive, convenzionali(abbassamento dei
tassi) e non (acquisti massicci di asset finanziari da parte delle
banche centrali).
Alla base di queste due componenti della risposta alla crisi vi
la convinzione (comune alle autorit europee estatunitensi, e a
quanto sembra anche ai teorici della secular stagnation) che sia
possibile tornare al businessas usual: ossia che il modello di
sviluppo basato sulla finanza e sul debito possa essere aggiustato
e, una voltarimesso in moto, possa tornare a funzionare come
prima.
Diversi dati di fatto, per, inducono a pensare che le cose non
stiano in questo modo.
In primo luogo, dagli anni della crisi ad oggi non vi stato
alcun deleveraging, alcuna riduzione del debito suscala mondiale.
successo il contrario: secondo un recente studio di McKinsey, dal
2007 al 2014 il debito alivello mondiale cresciuto di 57 trilioni
di dollari, a un ritmo superiore alla crescita del pil mondiale,
portandoperci il rapporto debito/pil dal 269% al 286% (vedi grafico
7). E questo nonostante la ingente distruzione dicapitale operata
dalla Grande Recessione.
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Unico dato positivo laumento della solidit patrimoniale nel
settore finanziario (peraltro non in Italia). Incompenso, nessuna
delle economie maggiori (e solo 5 economie emergenti) hanno ridotto
il rapporto debito/pilnelleconomia reale (famiglie, imprese non
finanziarie, governi). 14 di esse hanno visto crescere il
rapportodebito/pil complessivo di oltre il 50% (e tra questi paesi
c lItalia).
Il solo debito pubblico nelle economie avanzate cresciuto di 19
trilioni di dollari tra il 2007 e il secondotrimestre del 2014.
Ovviamente, il dato relativo allaumento del debito pubblico anche
laltra faccia dellamedaglia del miglioramento della
patrimonializzazione delle banche. Pi in generale, evidente la
funzione diammortizzatore del debito privato assunta dal debito
pubblico dalla crisi in poi (grafico 8).
In ogni caso, quale che sia la composizione del debito globale,
abbastanza chiaro che la sua dinamica dicrescita su scala mondiale
rappresenta un trend insostenibile.
Il secondo aspetto che fa dubitare della possibilit di tornare
al mondo di prima della crisi riguarda le politichemonetarie
espansive. Esse, come abbiamo visto, sono state di limitata
efficacia dal punto di vista della crescitae sono potenzialmente
destabilizzanti dal punto di vista finanziario. Ma c di pi: esse
non sono neutrali n intermini sociali (allinterno dei paesi
interessati), n sul piano internazionale. In altri termini: queste
politichehanno vinti e vincitori, o per dirlo in termini pi brutali
chi ne beneficia e chi le paga, anche se il gioco non
necessariamente a somma zero (in quanto benefici e danni non sono
matematicamente equivalenti).
Unaltra ricerca di McKinsey ha provato a effettuare una stima
dellimpatto (positivo e negativo) di questemisure: i risultati,
riferiti al ribasso dei tassi dinteresse sino al 2012 (e quindi
fortemente sottostimati rispetto allasituazione attuale), sono
sintetizzati nel grafico 9.
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21/03/15 22:54Vladimiro Giacch: La secular stagnation e il
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Se prendiamo gli Stati Uniti, tra i vincitori abbiamo il governo
americano, che dal 2007 al 2012 ha guadagnato900 miliardi di
dollari, soprattutto in termini di minori interessi pagati sui
titoli di Stato (si tratta di una cifra pari aisoldi spesi dal
governo Usa nel peggiore anno di crisi per salvare banche, societ
assicurative e impresemanifatturiere); e poi le grandi imprese non
finanziarie, alle quali i minori interessi hanno consentito di
pagare dimeno i debiti che avevano e di emettere nuovo debito a
condizioni pi favorevoli, con un guadagno di 310miliardi di dollari
(cifra pari 20 per cento dei loro maggiori profitti dal 2007 in
poi), poi le banche con 150 miliardidi dollari, perlopi ottenuti a
spese dei depositanti (che hanno visto crollare il tasso di
interesse riconosciuto ailoro depositi). E ovviamente gli
investitori di borsa. Quanto a questi ultimi, riferendosi al
quantitative easing(ossia allacquisto di assets finanziari tra cui
titoli di Stato da parte della Fed), Richard Fisher, presidente
dellaFederal Reserve di Dallas, si espresso in termini piuttosto
brutali: non credo vi sia alcun dubbio che ilquantitative easing
abbia giovato ai ricchi. stato un regalo di grandi proporzioni La
cosa era voluta, nelsenso che speravamo di creare leffetto
ricchezza Ovviamente spero che si possa giungere ad
affermarelegittimamente che leffetto ricchezza risultato in ultima
analisi meglio distribuito. Ne dubito. Fisher ha ragionea essere
scettico sul punto: la crisi prima, le misure anticrisi dopo, hanno
infatti allargato la forbice delladisuguaglianza allinterno della
popolazione americana. Il motivo stato sintetizzato in poche parole
da dueeconomisti di Morgan Stanley, Charles Goodhart e Philipp
Erfurt, in un recente contributo: la Crisi Globale hacolpito
soprattutto i poveri, in particolare coloro cui stata pignorata la
casa, mentre della politica dicompensazione effettuata per mezzo
dellespansione monetaria hanno beneficiato in primo luogo i
ricchi.
Tra i perdenti, negli Stati Uniti abbiamo le compagnie
assicurative, che hanno perduto 270 miliardi di dollari,soprattutto
perch gli investimenti in titoli di Stato Usa sono risultati
negativi in termini reali (gli interessi pagatidal governo
americano sono cio risultati inferiori allinflazione). Ancora pi
generoso il contributo delle famiglieamericane che avevano titoli
di Stato statunitensi in portafoglio, che per lo stesso motivo
hanno perso 360miliardi di dollari.
Infine, il pagatore involontariamente pi generoso: il resto del
mondo, che ha perso 480 miliardi di dollari. Laricerca di McKinsey
si limita ad accennare a questo pagatore, ma quello che dovrebbe
interessarci di pi. Ilcinese Pingfan Hong, Responsabile dellufficio
monitoraggio economico globale presso le Nazioni Unite, hasostenuto
che le economie avanzate con le loro politiche monetarie espansive
hanno accumulato una quantit
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notevole di signoraggio internazionale proveniente dai paesi in
via di sviluppo.
Questo in quanto, espandendo la loro base monetaria, i paesi le
cui monete sono valute internazionali di riservascaricano il costo
della loro politica monetaria espansiva sui paesi emergenti, che
sono costretti ad adoperarequelle valute per gli scambi
internazionali. Inoltre, rendendo negativi in termini reali i tassi
dinteresse sui proprititoli di Stato, il costo delloperazione viene
scaricato su chi li ha comprati. Come noto, la Cina il paese cheha
pi titoli di Stato americani in portafoglio (per un valore di 1,3
trilioni di dollari), ma in verit ogni altro paesedel mondo ha
titoli di Stato americani in portafoglio.
Le cifre complessive riportate da Pingfan Hong che per
comprendono non soltanto il ribasso dei tassidinteresse
statunitensi ma anche il QE, negli Usa come nellUe e in Giappone
sono molto pi elevate diquelle stimate da McKinsey: a suo giudizio
infatti qualcosa come 3.700 miliardi di dollari di valore
sarebberostati trasferiti in questo modo dai paesi in via di
sviluppo ai paesi pi ricchi del pianeta.
Infine, le politiche di bassi tassi dinteresse e di QE condotte
dalla Fed e dalle altre principali banche centrali delmondo
esportano instabilit finanziaria nei paesi emergenti, sotto forma
di flussi di capitale che si riversano inquei Paesi in concomitanza
con le politiche monetarie espansive dei paesi avanzati per
uscirne, in manieraaltrettanto rapida, a ogni accenno di
restrizione delle politiche monetarie: ad esempio, a met 2013 vi
stato unnotevole deflusso di capitali dai Paesi emergenti quando la
Fed ha accennato alla possibilit di interrompere lepolitiche di
QE.
Le implicazioni di tutto questo sono molto importanti: le
politiche monetarie ultra-espansive, danneggiando ipaesi emergenti,
rappresentano infatti per essi e in particolare per la Cina un
incentivo al superamentodellattuale sistema monetario
internazionale. Non un caso che negli ultimi anni si siano
moltiplicati gli accordibilaterali stipulati dal governo cinese con
altri Stati per regolare le transazioni commerciali in yuan: da
ognuno diquesti accordi viene un poco eroso il ruolo di valuta
internazionale di riserva del dollaro (e delleuro). Gi soloper
questo motivo impensabile che le politiche monetarie espansive
siano destinate a durare allinfinito.
Politiche di austerity e distruzione mirata di capitali
Se la ripresa della crescita e della profittabilit non
soddisfacente (e soprattutto in Europa come abbiamo vistonon lo ),
se le politiche di espansione monetaria non sono sufficienti a
rilanciare leconomia (e questosoprattutto in Europa sinora non
accaduto), se, pi in generale, non sembra ipotizzabile il puro e
sempliceripristino del modello di crescita a debito pre-crisi se
tutto questo vero, allora dovrebbe essere attivo eoperante il
meccanismo tradizionale attraverso il quale le crisi rilanciano i
profitti: ossia la distruzione di quelcapitale in eccesso che
impedisce al capitale di valorizzarsi adeguatamente.
E questo precisamente ci che si sta verificando in Europa. In
una configurazione specifica: nella forma di unadistruzione di
capacit produttiva localizzata in alcuni paesi e non in altri.
Per capire di cosa stiamo parlando sufficiente fare riferimento
a un grafico relativo alla produzionemetalmeccanica nellUnione
Europea pubblicato sul Sole 24 Ore del 5 febbraio scorso (grafico
10). Da essoemerge come nel 2014 la produzione metalmeccanica
rispetto al periodo pre-crisi risulti ridotta appena dello0,7% in
Germania e dell1,6% nel Regno Unito (che come noto non fa parte
delleurozona), ma sia crollataaddirittura del 21,4% in Francia, del
32,6% in Italia e del 36,6% in Spagna.
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In una recente analisi focalizzata sul potenziale
manifatturiero, Sergio De Nardis di Nomisma ha confermatoquesto
quadro.
Ecco gli elementi salienti della sua analisi: per quanto
riguarda lItalia stimiamo che la produzione
potenzialemanifatturiera ovvero quella ottenibile quando la capacit
produttiva pienamente utilizzata si sia contrattadel 18% tra il
2007 e il 2014. I tre quarti di tale caduta (-13%) si sono
realizzati nel corso della seconda e pilunga recessione. LItalia
non sola nel ridimensionamento della base industriale: in Spagna la
flessione statadel 24% (-14% tra il 2010 e il 2014), in Grecia del
20% (-12%), in Portogallo del 6,5% (-2,5%), in Franciadell11%
(-6%). Questi paesi (con la parziale eccezione della Francia)
condividono con lItalia il fatto di averesperimentato dal 2007 due
recessioni, un forte calo della domanda interna, uno sforzo pi o
meno intenso direcupero competitivo nei confronti della Germania e
degli altri paesi core. In questultime economie gliandamenti sono
stati opposti. Il potenziale manifatturiero cresciuto in Germania
di quasi l8% nel corso dellacrisi, con i tre quinti dellincremento
verificatisi tra il 2010 e il 2014 (+5%).
Ancora: prima della crisi, la divaricazione tra i paesi del Nord
e i paesi mediterranei (inclusa la Francia)delleurozona era
principalmente alimentata dallandamento crescente del potenziale
pro-capite dei paesi eurodel nord, mentre larea mediterranea
sperimentava una sostanziale stabilit rispetto ai valori di inizio
decennio.Dopo il 2007 il divario si amplia perch i paesi
mediterranei prendono a calare in modo significativo, a fronte diun
trend sempre crescente di quelli del nord.
Impressionante in particolare il confronto Germania-Italia: il
nostro Paese aveva allinizio della moneta unicauna capacit
manifatturiera per abitante superiore alleconomia tedesca. Secondo
questa misura, dunque,lItalia era pi industrializzata della
Germania in rapporto alla popolazione. Tale vantaggio si annullato
a metdello scorso decennio, per la sostanziale stabilit del
potenziale italiano e laumento di quello tedesco. A partiredal
2007, con lesplodere della crisi, il gap divenuto negativo,
allargandosi sempre di pi nel corso degli anni,principalmente a
seguito della caduta dellindustria italiana. La capacit
manifatturiera per abitante dellItalia nel 2014 1,5 volte pi
piccola rispetto alla Germania (vedi grafico 11).
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De Nardis nel suo contributo si sofferma anche sulla diminuzione
del numero dei produttori manifatturieri, calatidi qualcosa come
10.600 unit (-2,4%) allanno tra il 2008 e il 2012 (per il 2013 non
esistono ancorainformazioni, ma certo che lemorragia sia
continuata).
Di questo dato, precisa De Nardis, si pu dare una duplice
lettura. La prima ha carattere positivo: la manifatturaitaliana ha
subito una riduzione di potenziale grazie alleliminazione
delleccesso di capacit di produzione,realizzata riducendo i
produttori e contraendo il capitale in eccesso nelle imprese
rimaste operative. Unamanifattura, quindi, ripulita e resa pi
efficiente che sarebbe pronta a cavalcare la fase di ripresa non
appenaquesta si verificasse. La seconda lettura, pur non escludendo
questo effetto di selezione insito in ognirecessione, meno
positiva: la riduzione di potenziale, guidata dalla straordinaria
contrazione del mercatointerno e dalla rarefazione del credito,
stata molto forte ed andata oltre il processo di pulizia dei
segmentiinefficienti, finendo col coinvolgere un numero eccessivo
di produttori e col colpire la capacit di produzioneanche delle
imprese in grado di rimanere operative. In questa visione la
ripresa trova unindustriaeccessivamente ridimensionata.
Ma ovviamente, si pu chiosare, ci che eccessivo dal nostro punto
di vista, razionale nel contesto pigenerale di una ristrutturazione
del comparto manifatturiero delleurozona che conduca alla
soppressione dellacapacit produttiva complessivamente (cio a
livello continentale) in eccesso evidenziata dalla crisi.
In questo senso le politiche di austerity, il riaggiustamento
unilaterale dellEurozona che hanno condotto a unastraordinaria
contrazione del mercato interno dei paesi interessati non possono
essere considerate come unfallimento. E questo senzaltro anche il
punto di vista dei produttori europei dei paesi del Nord che
hannoeliminato concorrenti che operavano nei paesi
mediterranei.
Che questo processo sia stato voluto o meno un problema di
secondaria importanza. Lessenziale intenderne loggettivit. Il
risultato effettivo del processo questo: la distruzione
capitalisticamente necessaria disovracapacit produttiva stata
localizzata regionalmente allinterno delleurozona, modificando in
profondit (ein modo irreversibile?) la mappa della produzione
manifatturiera in Europa (grafico 12).
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I tre modi, i due vincoli e lunica soluzione
I rischi che il nostro sistema economico corre sono facili a
intendersi. I modi per accrescere la competitivit, infondo, non
sono molti: sono essenzialmente tre. Svalutazione della moneta,
svalutazione dei salari (lacosiddetta svalutazione interna) e
miglioramento della produttivit del lavoro per mezzo di
investimenti.
La moneta unica ha introdotto un vincolo che impedisce di
adoperare il primo modo, la crisi ha inibito gliinvestimenti
privati e attenzione le politiche di austerity hanno introdotto un
ulteriore vincolo che impedisceche siano effettuati investimenti
pubblici (non per caso anche nellultima legge di stabilit le spese
pubblicheper investimenti sono state ridotte), e quindi anche il
terzo modo precluso. Il risultato che per competere nonresta che il
secondo modo: la svalutazione dei salari, ossia la riduzione del
costo del lavoro per unit diprodotto.
Ma la riduzione dei salari, che pu interessare il salario
diretto (la busta paga), indiretto (le spese sociali) odifferito
(le pensioni), e che pu essere anche leffetto del semplice aumento
delle tasse (nel qual caso non vi neppure alcun effetto positivo
sulla competitivit), porta con s altre due conseguenze.
La prima la distruzione della domanda interna (per citare
unintervista di Mario Monti alla Cnn rimastagiustamente famosa):
ottima per riequilibrare la bilancia commerciale tramite riduzione
delle importazioni, madistruttiva per tutte quelle imprese che
producono soltanto per il mercato interno (o che comunque
realizzano inItalia la maggior parte del proprio fatturato).
La seconda linnesco di una tendenza deflattiva (tanto pi grave
quanto pi la svalutazione interna necessaria maggiore a motivo del
rifiuto, da parte dei paesi in avanzo commerciale, di rivalutare i
propri salari): ilprocesso rilevato da De Grauwe nellarticolo da
cui siamo partiti. Un processo che, siccome la deflazione
facrescere il valore reale del debito, per lItalia comporta il
rischio concreto dellinsostenibilit di un debito pubblicoche ha gi
superato il 132% del pil.
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Scenari possibili
Se prolunghiamo il trend che abbiamo visto in opera in questi
ultimi anni, lo scenario praticamente obbligato perla nostra
economia quello di una deindustrializzazione irrecuperabile, o la
sua trasformazione in unaeconomia di filiali (Filialkonomie), con
conseguente scivolamento verso il basso nella divisione
internazionaledel lavoro.
In Europa esiste un precedente piuttosto recente: quanto accadde
ai territori della ex-Repubblica DemocraticaTedesca a seguito
dellunificazione della Germania. Circa la possibilit di
unestensione continentale di questomodello va per osservato che in
quel caso la trasformazione morfologica del panorama industriale
del paese(sostanziale deindustrializzazione, distruzione della
grande industria, acquisizione delle parti maggiormentefungibili
dei Kombinate dellEst e loro utilizzo quali filiali/succursali di
imprese dellOvest) ha comportato lanecessit di ingenti
trasferimenti dallOvest tuttora in corso per finanziare consumi e
investimenti. E, ancheal di l del fatto che a distanza di un quarto
di secolo questi trasferimenti non sono stati in grado di colmare
ilgap di reddito pro capite e produttivit del lavoro tra le due
parti della Germania, poche cose sono chiare comelindisponibilit
del governo tedesco a replicare questa seconda parte del
modello-Rdt nel caso dellEuropa.
Esistono scenari alternativi a questo sbocco? A questo riguardo
le ipotesi possibili sono tre:
1) un recupero della nostra economia trainato dal commercio
estero extra-Ue. Sono in molti oggi a sperare cheleffetto combinato
del calo del prezzo dei prodotti petroliferi, della svalutazione
delleuro rispetto al dollaro edelle politiche antideflazioniste
della Bce possano fare questo miracolo. lecito dubitarne, e per
diversi motivi. Ilprimo che quei tre elementi positivi del quadro
attuale sono contingenti. In particolare, possibile una
ripresaalmeno a medio termine del prezzo dei prodotti petroliferi,
e una ripresa di valore delleuro addiritturaprobabile: difficile
infatti che il resto del mondo tolleri una svalutazione nel lungo
periodo delleuro, che bene non dimenticarlo la moneta adottata da
paesi che nel loro insieme vantano gi un significativo
surpluscommerciale nei confronti del resto del mondo. Il secondo
che anche quegli elementi positivi hanno effetticollaterali non
piacevoli: il calo del prezzo dei prodotti petroliferi, ad esempio,
porta con s un calo dellexportnei confronti dei paesi produttori di
petrolio. Il terzo che in particolare le politiche della Bce sono
senzaltrotardive, e comunque di efficacia limitata.
2) La fine del vincolo fiscale, ossia delle politiche di
austerity. Neanche questa soluzione sembra di per ssufficiente a
risolvere i problemi. Al contrario, se essa avviene in assenza di
reflazione in Germania, leffettosar un miglioramento di breve
periodo della domanda interna, ma al prezzo di tornare ad
alimentare squilibridella bilancia commerciale (perch il maggiore
denaro disponibile sar speso per comprare prodotti picompetitivi
importati dallestero). La stessa proposta di De Grauwe di
effettuare investimenti infrastrutturali inGermania (una sorta di
surrogato della reflazione salariale che la Germania in questi anni
non ha voluto fare)viene incontro solo apparentemente e nel breve
periodo al nostro problema: infatti, sebbene questi
investimentirilancerebbero la domanda interna tedesca lasciando
spazio per maggiori esportazioni verso quel paese, daltrolato nel
lungo periodo essi determinerebbero un ampliamento del gap
competitivo di cui gode la Germania e perquesta via una ripresa e
consolidamento degli squilibri della bilancia commerciale
nelleurozona.
3) Il terzo scenario possibile rappresentato dalla fine del
vincolo monetario. Essa determinerebbe il riacquistoimmediato della
flessibilit del cambio, e per questa via un rapido riequilibrio
delle bilance commerciali inEuropa. La necessit di distruggere
capacit produttiva in eccesso in Europa, evidenziata dalla crisi,
nonverrebbe meno: ma tale distruzione sarebbe meno concentrata
geograficamente.
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Quali game changers allorizzonte?
Tutto questo lascia impregiudicata una domanda di fondo, che
travalica lo stesso scenario europeo: assumendoche il modello della
crescita a debito non sia pi ripristinabile, possibile oggi un
ritorno duraturo allaprofittabilit del capitale che non si fondi
principalmente sulla compressione del prezzo della
forza-lavoro?
Credo che in fondo sia questa la domanda cruciale sottesa (ma
taciuta) alle teorizzazioni sulla secularstagnation. In effetti,
non si rende giustizia a Summers se non si ricorda che oltre allo
scenario inerziale (senegli anni a venire si vorr mantenere la
piena occupazione, i tassi dinteresse reali nel mondo
industrializzatodovranno probabilmente essere mantenuti pi bassi di
quanto lo siano stati storicamente, e tutto questo puavere
implicazioni importanti per la stabilit finanziaria) egli accenna
anche a uno scenario differente: AlvinHansen enunci il rischio di
una stagnazione secolare alla fine degli anni Trenta, in tempo per
assistere al boomeconomico contemporaneo e successivo alla seconda
guerra mondiale. senzaltro possibile che si producaqualche evento
esogeno di grande portata in grado di aumentare la spesa o di
ridurre il risparmio in misura taleda accrescere il tasso di
interesse reale da piena occupazione nel mondo industriale e da
rendere irrilevanti lepreoccupazioni che ho espresso. Guerra a
parte, non chiaro quali eventi del genere possano verificarsi.
Chequalcuno negli ultimi tempi abbia cominciato a riflettere
seriamente sulla praticabilit di questo game changer misembra fuori
di dubbio.
Una soluzione del tutto diversa troviamo in Marx: essa
compendiabile nellesigenza di unsuperamentodellattualemodo di
produzione superiore allattuale. Precisamente in questo senso Marx
asserisce che le crisiper un verso sono soluzioni (ancorch soltanto
temporanee) delle contraddizioni esistenti del modo diproduzione
capitalistico, eruzioni violente che servono a ristabilire
lequilibrio turbato, ma daltra parte sono unsintomo
dellinadeguatezza dellattuale modo di produzione: Nelle
contraddizioni, crisi e convulsioni acute simanifesta la crescente
inadeguatezza dello sviluppo produttivo della societ rispetto ai
rapporti di produzioneche ha avuto finora. La distruzione violenta
di capitale, non in seguito a circostanze esterne a esso, ma
comecondizione della sua autoconservazione, la forma pi evidente in
cui gli si rende noto che ha fatto il propriotempo e che deve far
posto a un livello superiore di produzione sociale.
Negli ultimi decenni, in particolare dopo la fine dellUnione
Sovietica e delle democrazie popolari dellEsteuropeo, la possibilit
stessa di un livello superiore di produzione sociale stata
rifiutata quale astrattoutopismo, tendenzialmente totalitario. per
la realt stessa del modo di produzione capitalistico e delle
suecontraddizioni a riproporre lesigenza invocata da Marx.
Come tradurla in pratica oggi? Non possibile dare una risposta a
questa domanda senza tornare al grandedibattito (rimosso e
dimenticato dopo l89) sul confronto tra economia di piano ed
economia di mercato e alleconcrete forme di economia pianificata
sperimentate nel Novecento. Alla ricerca non di modelli, ma
diinsegnamenti per loggi: in particolare sulla possibilit di
combinare la programmazione ex ante della vitaeconomica con gli
aggiustamenti ex post determinati dalle forze di mercato.
addirittura ovvio che si tratta di una direzione alternativa al
fondamentalismo di mercato oggi imperante, unareligione che ha
nella libert assoluta dei movimenti di capitale il suo principale
articolo di fede e nel dogmadella banca centrale indipendente il
tratto distintivo della sua variante ultraortodossa europea.
Oggi quella direzione alternativa, senza sognare unimpossibile
fuga dal mercato mondiale (la sostanzialeemarginazione dal quale fu
decisiva per decretare linsuccesso delle economie pianificate
dellUrss e dellEsteuropeo), deve prevedere un ampliamento della
sfera pubblica delleconomia e forme di socializzazione
degliinvestimenti tali da condurre a una forma di economia mista in
cui le scelte strategiche di sviluppo sianosottratte alla logica
del profitto privato.
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21/03/15 22:54Vladimiro Giacch: La secular stagnation e il
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oggi duso, soprattutto a sinistra, chiedersi se questo possa
conseguirsi allinterno di uneconomia nazionale.Si tratta di un
interrogativo che spesso brandito come unarma polemica, non
diversamente dallappellativo diprotezionista (cio fautore di
barriere, tariffarie e non, agli scambi sul mercato) affibbiato a
chiunque nonritenga un tab la fine dellarea valutaria delleuro (cio
il ripristino anche in Europa del mercato dei cambi). comunque un
interrogativo che va preso sul serio, e al quale non si pu
rispondere in astratto, senza ciodisegnare i contorni del modello
sociale che si intende realizzare e il livello conseguentemente
consideratoottimale di apertura delleconomia.
senzaltro pi facile dare risposta a un diverso interrrogativo:
se questo si possa realisticamente conseguireallinterno dellattuale
cornice istituzionale europea. E in questo caso la risposta non pu
non essere nettamentenegativa.
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