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VIAGGIO DI SOLA ANDATA L’ ORDINARIA DISPERSIONE DEL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO TUSCANESE FATTI E PERSONAGGI A cura di STEFANO BOCCI - RICCARDO FIORETTI - ALESSANDRO TIZI.
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VIAGGIO DI SOLA ANDATA. L'ordinaria dispersione del patrimonio archeologico di Tuscania, 2014

Apr 21, 2023

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VIAGGIO DI SOLA ANDATA

L’ ORDINARIA DISPERSIONE DEL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO TUSCANESE FATTI E PERSONAGGI

A cura di STEFANO BOCCI - RICCARDO FIORETTI - ALESSANDRO TIZI.

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INDICE PREFAZIONE LA “CONFRATERNITA DEL PICCONE” LA GUERRA D’ETRURIA L’ODISSEA DEL “RE LEONE” 1896, LO SCAVO DIMENTICATO 1866, LA NECROPOLI DEI POGGI ALTI I MARCHESI LAVAGGI, SIGNORI DI MONTEBELLO IL TERRITORIO DI MONTEBELLO NELL’ANTICHITA’ LA GRANDE RAZZIA: I NUMERI DI UNA CATASTROFE BIBLIOGRAFIA

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In ricordo della Dott.sa Antonella Romualdi, Direttrice del Dipartimento di Antichità Classica della Galleria degli Uffizi. Il suo sincero apprezzamento per il nostro impegno in archeologia, per anni è stato la base della nostra amicizia e collaborazione e rimane, per noi, il suo lascito più grande. La città di Firenze, a compenso del costante impegno volto in tutti questi anni nell’attività di tutela e di studio delle opere d’arte, le ha intitolato la sala dei marmi ellenistici dei Nuovi Uffizi. Noi, molto più umilmente, le dedichiamo questo nostro lavoro sicuri di strappargli un sorriso dal suo angolo di cielo.

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PRESENTAZIONE Quando un cittadino mostra amore per la propria città, curiosità intellettuale e serietà nella ricerca dà un apporto fondamentale alla cultura di tutti noi. E il caso dei nostri autori uniti dalla comune appartenenza ad una associazione di volontariato archeologico che ha appena superato il mezzo secolo di vita e dalla “cittadinanza” tuscanese. Il libro è la dimostrazione che non solo dai professionisti di settore possono venire contributi utili alla ricerca archeologica ma anche da appassionati seri e motivati; del resto il nostro fondatore Ludovico Magrini ne è stato per anni il testimone e insieme il propugnatore. Tuscania come Corneto (ribattezzata poi Tarquinia negli anni tra le due guerre), come tanti centri della Tuscia etrusca e romana, è stata oggetto, come giustamente sottolineano gli autori, di saccheggi, culturali prima che materiali, di testimonianze del proprio passato che sono andate ad abbellire musei collezione in Italia e in Europa prima in America poi. Ricucire il filo spezzato delle proprie radici è pertanto non soltanto utile alla ricerca archeologica ma fondamentale per la storia di una comunità. Come giustamente notava Ludovico Magrini la Tuscia ha vissuto inoltre decenni di occupazione culturale che ne ha mutato spesso l’essenza. Gli Etruschi ,invece di essere riscoperti attraverso una analisi storica che non interrompesse il filo della memoria collettiva di comunità costituitesi nel loro aspetto attuale nel Medioevo, sono stati sovrapposti e imposti nel secolo scorso come elemento culturale principale di quelle stesse comunità, che hanno visto persino cambiare il loro nome per tornare fittiziamente a quello etrusco e romano. Questa operazione ha creato un senso di estraneità da parte dei cittadini nei riguardi di testimonianze archeologiche in cui non si potevano riconoscere come memoria e che quindi vivevano solo come tesori ( di conseguenza saccheggiabili con più facilità, o sfruttabili solo a livello economico) Riflettere su questo fenomeno ci farebbe capire meglio la ragione di tante situazioni riguardanti il nostro patrimonio culturale. I nostri autori hanno scelto il percorso corretto; la ricerca storica di una dispersione unisce idealmente la memoria collettiva della comunità a un epoca che attraverso un romanticismo imperante si accingeva a interrompere il filo della memoria di intere popolazioni, in un certo senso ricuce una ferita. Tanti di questi studi spesso “bollati” come antiquari servono alla ricostruzione storica prima che alla ricomposizione archeologica e sono quindi utili alle comunità. Questa è stata sempre la nostra priorità che unisce tecnici di settore e appassionati in un’unica fondamentale missione culturale. Il Presidente del Gruppo Archeologico Romano Gianfranco Gazzetti

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Premessa “Qual' è il dovere morale, prima che culturale, dell’archeologo? E’ quello di raccogliere i frammenti, in sé privi di significato, che giacciono sparsi in quelle borse dell’esperienza umana di cui è composto il nostro sottosuolo, per comporli in un grande racconto. Ciò implica valorizzare il noto, colmando anche le sue lacune, in modo da restituire il senso delle vite passate… non bisogna credere di essere portatori di verità assolute – sempre irraggiungibili – ma porre problemi e avanzare soluzioni, cioè ipotesi più o meno probabili, i cui risultati sono provvisori, esito dello sforzo di sintesi che oggi siamo in grado di fare.” (Prof. Andrea Carandini) Partendo da questo illuminante concetto espresso da uno dei più grandi archeologi italiani viventi, abbiamo fortemente voluto intraprendere questa nuova ricerca mirante, come la precedente “ Gli Statlane e il Museo Archeologico di Firenze. Una storia dimenticata”, a fare luce su alcuni aspetti riguardanti le vicende legate agli scavi archeologici effettuati a Tuscania dopo la metà del XIX secolo e che ebbero come protagonisti diversi personaggi, più o meno conosciuti, i quali contribuirono in maniera determinante alla dispersione del patrimonio archeologico della nostra città. Pur trattandosi di ritrovamenti di certo non straordinari e quindi degni di un vasto eco internazionale, tuttavia essi rappresentano l’esempio più tangibile della ricchezza storica del nostro territorio e sono anche la riprova di quanto l’archeologia ottocentesca abbia causato, con la sua imbarazzante inadeguatezza pioneristica, la perdita di intere pagine di storia Tuscanese strappate dal loro millenario sonno in nome di una spasmodica “caccia al reperto”, scatenata da nascenti istituzioni museali non solo italiane ma anche d’oltreoceano, che operarono alacremente in tutta l’Etruria facendo uso di metodi che spesso hanno lambito, mero eufemismo, la sottile linea della legalità tanto da indurre a ripensare a quelle stagioni di ricerca come vere e proprie razzie strutturate a creare, come nel caso dei Campanari di Tuscania, i primi “supermarket dell’archeologia”. Ovviamente non vi è nulla di criminoso in tali comportamenti giustificati peraltro da una legislazione pontificia in materia che nell’800 era a dir poco lassista ed inconsistente fino al punto che, come affermava il giurista latino Ulpiano “ Nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali “ ossia non vi è reato in assenza di una legge penale che proibisca un dato comportamento. Quale punto di partenza di questo lavoro abbiamo volutamente scelto le vicende inerenti la scoperta di alcune tombe ellenistiche, compiuta nella località di Montebello sul finire del 1800, finanziata dall’ American Exploration Society per conto del Museo americano di Philadelphia, Pennsylvania. Uno scavo per nulla sensazionale ma che tuttavia riteniamo essere la testimonianza più tangibile di un approccio eticamente censurabile con la storia del nostro territorio, sia nei metodi che nei propositi. Attenendoci rigorosamente ai documenti e ai resoconti dell’epoca ci siamo prefissi di focalizzare i fatti che animarono questa vicenda tralasciando, volutamente, lo schematico aspetto tecnico della scarna descrizione dei reperti pur di lasciare spazio al racconto, più vivo e palpitante, di aneddoti e curiosità di quegli avvenimenti legati a persone e luoghi che, nel bene e nel male, contribuirono alla

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conoscenza della civiltà etrusca e che, in taluni casi, arrecarono grave danno all’immagine e alla storia della nostra città, per lungo tempo reputata marginale nelle dinamiche storiche inerenti gli etruschi. Il lettore in questo cammino s’imbatterà in personaggi dalla più svariata estrazione sociale: nobili, medici, archeologi, avvocati, miliardari, artisti, politici, antiquari, farmacisti, tutti lontani fra loro nel tempo e nello spazio e tuttavia legati fra loro da un comune denominatore, quello della passione per l’archeologia ed in particolare per gli etruschi e, perché no, attratti anche dall’aspetto economico di questa attività. Se con il termine “archeologia” s’intende quella disciplina che ricerca, raccoglie e conserva i manufatti dell’antichità e li elabora metodicamente per farne soggetto di storia, le vicende che in questa sede si andranno ad esporre sembrano esulare dal suddetto significato andando, piuttosto, a sconfinare più propriamente nel “saccheggio archeologico” che, pur mascherato da intenti scientifici, null’altro è che una negazione della storia e quindi a buon diritto si può parlare di storia perduta. Lo scopo principale di questa ricerca rimane in primis quello di dare “voce” alle centinaia di reperti etruschi, interi corredi funebri, che furono strappati in un sol colpo dalla nostra terra per finire, molto spesso, in anonimi depositi museali dove tuttora giacciono. Si è cercato poi, per quanto possibile, di ricostruire la storia di questi scavi e dei loro promotori e del loro modus operandi affinché non vada perduta anche il ricordo di essi, aiutati in questo da un profondo amore per la nostra città unita ad una smisurata passione per l’archeologia e stimolati da quanti ci hanno preceduto con il loro impegno disinteressato nelle varie associazioni di volontariato archeologico locali. Memori dei loro insegnamenti consegniamo con questo lavoro un simbolico testimone nelle mani di quanti vorranno seguire il solco da noi tracciato poiché se si vuole essere veramente liberi e consapevoli bisogna conoscere le nostre radici e coltivare il dovere della memoria. Non per niente Tzvetan Todorov, filosofo e saggista bulgaro, sottolinea che “Le pagine meno gloriose del nostro passato sarebbero le più istruttive se solo accettassimo di leggerle per intero.” Come a dire che non dobbiamo leggere una storia ma, piuttosto, LA storia! Ossia l’inderogabile necessità di avere un quadro completo e reale composto da sfaccettature e verità nascoste o, peggio ancora, omesse. Ci sia consentito, infine, di ringraziare tutti coloro i quali con estrema gentilezza e disponibilità hanno contribuito al buon esito di questa ricerca fornendo indicazioni, consigli, foto, documenti e spunti di ricerca: Marco e Roberto Quarantotti, Luigi Salvatori, Piero Lanzetta, Enio Staccini, Vincent Jolivet, Judith Swaddling, Margareth O’Hea, Julie Labregere e il Prof. Stephan Steingraeber . In ultima di copertina abbiamo voluto inserire le firme autografe originali di parecchi dei protagonisti di questa nostra storia; esse circondano il disegno del cosiddetto “sarcofago dei niobidi” dalla tomba Vipinana eseguito dal Dennis nel 1842 e che rappresenta a pieno titolo la sintesi estrema della dispersione del nostro patrimonio archeologico: il coperchio con figura recumbente, raffigurante Velthur Vipinana, è conservato al Museo di Firenze mentre la cassa si trova nei Musei Vaticani.

A.T. R.F. S.B.

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La “confraternita del piccone” Come spesso avviene in materia di scoperte archeologiche, il corso degli eventi prende il via per uno di quei casi fortuiti della vita avvenuto in un pomeriggio di febbraio del 1894 nella lontana Pennsylvania……. La miliardaria americana Phoebe Apperson Hearst (1842-1919) ebbe in quel periodo un problema cardiaco e si rivolse quindi allo specialista più famoso dell’epoca, il dottor William Pepper (1843-1898) che, oltre alle grandi competenze mediche, era anche il rettore del Museo Archeologico dell’Università della Pennsylvania di Philadelphia (UPENN) da lui fondato nel 1887. Come suo medico personale il dottor Pepper ebbe varie occasioni per parlare con la Hearst dei loro comuni interessi in considerazione del fatto che la sua assistita era molto incline alla filantropia, fu infatti anche la più grande benefattrice della University of California di Berkeley, di cui divenne rettrice rimanendo nel consiglio di amministrazione dal 1887 fino alla morte. Questa frequentazione sviluppò nella Hearst un forte interesse verso l’archeologia che in brevissimo tempo la portò alla fondazione della American Exploration Society (AES) attraverso la quale prese a finanziare varie campagne di scavo in tutto il mondo mirate all’acquisizione di reperti da destinare all’UPENN, soprattutto alla nuovissima sezione Mediterranea del Museo. In questa sua nuova attività fu supportata da un altro filantropo e uomo politico americano, John Wanamaker (1838-1922) che divenne in seguito un influente membro del Comitato Direttivo del Museo a partire dal 1896 e fino alla sua morte ma che rivestì anche la carica di Direttore Generale delle Poste degli Stati Uniti, dal 1889 al 1893. Soprattutto però ebbe l’appoggio, importantissimo, di Arthur Lincoln Frothingham (1859-1923), professore di archeologia di Princeton e Direttore dell’ American Academy di Roma, che fu incaricato di curare gli interessi del museo in Italia coadiuvato in ciò dall’antropologa Sara Yorke Stevenson (1847-1921), incaricata dal Consiglio di Amministrazione dell’ UPENN di creare un Dipartimento d’Archeologia Mediterranea; il solido legame di reciproca fiducia che si venne a creare tra le due donne fu alla base delle fortune del museo di Philadelphia poichè la Stevenson partecipò personalmente a tutte le campagne di scavo effettuate in Etruria (Vulci, Narce, Tuscania e Musarna) con l’importante compito di supervisionare i lavori di scavo e di mantenere una scrupolosa rendicontazione epistolare con la Hearst che poi gli valse il titolo di curatrice della sezione egizia e mediterranea del museo stesso. Il primo grande ostacolo da superare per la nuova società, e per il museo americano, fu la perdita del loro agente residente a Firenze, il signor James Jackson Jarves (1818-1888). Senza il suo operato il “mercato” italiano era irrimediabilmente fuori dalla loro portata. Per supplire a questa lacuna Frothingham iniziò a tessere la sua nuova tela rivolgendosi all’ antiquario romano Cav. Francesco Martinetti (1833-1895), un mercante d’arte, amico e socio in affari con Wolfgang Helbig e noto a Roma per i suoi commerci non sempre nei limiti della legalità, tanto che fu implicato anche in clamorosi casi internazionali di contraffazioni di reperti archeologici. Famosa era anche la sua proverbiale avarizia. Per la sua smania di tesaurizzare il Martinetti era conosciuto da tutti con il simpatico nomignolo di “Sor Checco”, o “Re dei Criceti”.

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Il suo nome sarà legato per sempre all’incredibile episodio del leggendario “Tesoro di Via Alessandrina” che merita di essere esposta in questa sede, se non altro per comprendere la duplice personalità di questo affermato antiquario che alternava l’ambita attività di Periziatore Ufficiale dello Stato italiano a quella di ricettatore e commerciante clandestino di reperti antichi. Il 22 febbraio del 1933, nel corso della demolizione di un caseggiato al civico 101 di via Alessandrina, nel rione Monti, un manovale fece cadere a terra una lastra di ferro coperta da una doppia fila di mattoni: dall’apertura fuoriuscì una cascata di monete d’oro e di gioielli. Era il tesoro privato di un antiquario romano, Francesco Martinetti, che aveva vissuto in quell’appartamento dal 1865 fino al giorno della sua morte nel 1895. Come si può immaginare il rinvenimento del tesoro suscitò un immediato interesse per il valore economico complessivo e, soprattutto, per le circostanze del ritrovamento che ben si prestava ad avvalorare ulteriormente il programma urbanistico in svolgimento nell’area dei fori. Solo otto anni dopo la raccolta entrava a far parte delle collezioni del Medagliere Capitolino, al termine della risoluzione di lunghe controversie legali sorte tra gli eredi del Martinetti, il Governatorato di Roma proprietario dello stabile espropriato e gli operai scopritori. Il Regio Tribunale di Roma dopo aver nominato un collegio peritale per accertare la consistenza e la composizione del tesoro e stimarne il valore commerciale per l’attribuzione del compenso agli operai autori della scoperta, aveva prodotto una perizia a stampa con la stima patrimoniale del valore effettivo della raccolta che finalmente entrava a far parte definitivamente delle collezioni capitoline. Il tesoro di via Alessandrina comprende 2529 monete d’oro antiche, medioevali, moderne e ottocentesche, 81 tra oggetti di oreficeria e gemme, molte delle quali, in seguito riconosciute provenire da una delle collezioni di glittica più preziose del XVII secolo, la Collezione Boncompagni Ludovisi, di cui si era persa ogni traccia fino ad oggi. La raccolta consisteva per un verso dal denaro accumulato dal Martinetti con la vendita di reperti antichi e dall’altro da materiale d’antiquariato, una sorta di “riserva” a cui il commerciante poteva di volta in volta attingere, a seconda delle necessità. Inoltre il Martinetti era solito ricevere nel proprio studio i contadini provenienti dai paesi del Viterbese, in cerca di lavoro a Roma, i quali erano soliti portare con se gli oggetti antichi rinvenuti nei loro campi da cedere in cambio di un salario sicuro. E pensare che questo stimato numismatico era stato insignito anche dell’ Ordine della Corona d’Italia per i suoi servizi resi allo Stato !!! I materiali del Tesoro di Via Alessandrina (Collezione Martinetti) sono esposti al Medagliere Capitolino. Francesco Martinetti morì il 31 ottobre 1895 di polmonite presa durante un acquazzone. Stava andando al cimitero del Verano dove era sepolta la moglie e si bagnò tutto perché non aveva voluto prendere il tram per risparmiare il costo del biglietto… Per operare direttamente sul campo, invece, il supervisore Frothingham prese contatti con il Conte Francesco Mancinelli Scotti (1847- 1936 circa), archeologo di dubbia e bizzarra fama, nato a Civitacastellana (VT) e residente a Roma in Via dei Bagni 18 che spalancò agli yankee le porte d’Etruria grazie alle sue consolidate conoscenze nel mondo degli antiquari locali fra i quali spiccano il civitavecchiese Clodoveo Bucci (1855-1942) e l’archeologo-antiquario Fausto Benedetti operante anch’esso a Roma e legato a molti scavi effettuati nell’Agro falisco, soprattutto a Narce e Corchiano.

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Mentre il rapporto con il Benedetti fu molto burrascoso, e vedremo più avanti il perché, quello fra il Bucci ed il Mancinelli Scotti si dimostrerà oltremodo proficuo per entrambi soprattutto grazie alla fama dell’antiquario di Civitavecchia, nipote di Donato Bucci (1798-1870), amico intimo di Stendhal, che avrà anch’esso un ruolo in questa nostra ricerca. Il ruolo ricoperto da Clodoveo Bucci nel triennio 1895-98 si è rivelato essere di primaria importanza in quanto è proprio quest’ultimo a disbrigare le formalità della dogana portuale per l’imbarco verso gli Stati Uniti dei reperti rinvenuti negli scavi e a mettere a disposizione il suo locale dove vengono stoccati, preparati e fotografati tutti gli oggetti in partenza. Non appena la Stevenson giunse in Italia iniziò subito a pianificare serrate campagne di scavo con il Mancinelli, che già aveva operato scavi nella regione, in quanto poco tempo prima fu impegnato in ricerche nella tenuta dei Chigi a Formello e Cesano, a Nepi, Sutri e quelle fatti nel 1890 a Falerii: Nel suo peregrinare era giunto anche nella nostra città; infatti agli inizi del 1891 questi ottenne licenza di scavare nel territorio di Toscanella in loc. Cavallaccia, contrada Inguattapagnotte ma subito abbandonò gli scavi trovando tutte tombe già devastate. Per ottenere una nuova licenza Mancinelli Scotti non esitò a rivolgersi direttamente a Felice Barnabei con una lettera dai toni accattivanti: “ Pre.mo Signor Commendatore Barnabei… posso assicurarla che in me troverà sempre lo scavatore subordinato agli ordini suoi, giammai mancherò di ubbidirle, tanto più che ho nel passato ricordi che mi legano a Lei con sincera affezione…[Toscanella, 1891] ” Non appena la ottenne iniziò a scavare nella loc. di Rosavecchia dove in vocabolo Pietrella, scoprì quattro tombe a camera di III – II sec. a. C. Tra il cospicuo materiale rinvenuto, circa 250 reperti, compresi una decina di sarcofagi con tetto a spiovente, spiccano vari specchi in bronzo, tre teste sileniche fittili, un vasetto in pasta vitrea bianco-turchino, un anellino d’argento ed una lucerna con un bellissimo bassorilievo rappresentante “un cane presso una vite donde pende un grappolo d’uva”,(NdS 1891). Collegata al nome di Tuscania è anche quella singolare vicenda che coinvolse il Benedetti e incrinò pesantemente la reputazione di Mancinelli Scotti mettendone in luce degli inquietanti aspetti truffaldini. L’episodio avvenne nell’ottobre del 1891 e così ci viene raccontata dall’antiquario romano : “…egli veniva spesso a visitarmi e mi parlava misteriosamente di un’importante scoperta che teneva segreta. Dopo lunghi preamboli si decise a parlare e mi raccontò che a Toscanella aveva scoperto una tomba dentro la quale era penetrato. Essa conteneva a suo dire dodici grandi sarcofagi con coperchio scolpito a figura umana….con bassorilievi e lunghe iscrizioni etrusche e sul suolo vi erano molti vasi greci dell’altezza di un uomo dipinti con rappresentazioni mitologiche… Si offrì di condurmi a Toscanella dove io avrei potuto ottenere il desiderato permesso di scavare a lui negato dal proprietario del terreno, ed io non esitai a credere a quanto così bene mi veniva esposto….dopo un lungo viaggio a piedi arrivammo a Toscanella stanchissimi e colà l’atteggiamento del Mancinelli cambiò come per incanto. Trascorsero vari giorni, ma per una ragione o per l’altra non si trovò mai la via per andare a visitare il luogo della tomba….poi il Mancinelli mi disse che per ottenere il permesso del proprietario occorreva rivolgersi ad una terza persona per mezzo del quale si sarebbe ottenuto tutto ciò che si desiderava a patto di comprare da

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questi alcuni oggetti antichi di sua possessione. Così fui indotto a comprare ad alto prezzo vari oggetti di nessun valore, ma poi non si parlò più né di permessi né di tombe ed il Mancinelli che si era intanto fatto anticipare il suo stipendio di Lire 10 al giorno, mi diede l’addio e se ne andò….” L’incredibile episodio ebbe sicuramente un seguito ed arrivò di certo alle attente orecchie di Giuseppe Cerasa che proprio in quegli anni aveva appena inaugurato una felice stagione di scavi archeologici in collaborazione con il Museo di Firenze e colse quindi l’occasione propizia per togliere dalla scena un possibile scomodo concorrente tant’è che il Mancinelli non ottenne più licenze di scavo per il territorio di Toscanella. Un altro episodio sintomatico fu registrato nel 1895 quando, nonostante il rifiuto da parte dell’allora Ministero della Pubblica Istruzione a concedergli l’autorizzazione a scavare, il Mancinelli Scotti fu spesso visto a Narce intento ad effettuare saggi sul terreno. Comunque sia non appena ricevuto l’incarico da parte della Società della Hearst di scavare antichità etrusche, il Mancinelli Scotti ottenne, sul finire del 1895, una licenza di eseguire ricerche a Vulci dove in breve tempo furono recuperati cinque corredi tombali subito acquistati dal Frothingham che a proposito scrive: “… Some exscavation on at Vulci by Sig. Mancinelli… the excavator opened a number of tombs of different periods and style…”. L’anno seguente ritroviamo i due protagonisti prima negli scavi di Narce, sui quali Frothingham annota: “ The series of tombs of the earliest period excavated by Mancinelli contained a number of important novelties.” e poi nelle vicinanze di Toscanella e più precisamente a Montebello dove tra l’aprile ed il giugno del 1896 scoprirono cinque tombe nella necropoli dei Poggi Alti recuperando centinaia di reperti prontamente trasferiti a Civitavecchia e di qui a Philadelphia. Il Mancinelli Scotti poi inoltrò domanda di scavo (29 ottobre 1897) per la necropoli di Corneto-Tarquinia all’allora sindaco Conte Francesco Bruschi Falgari, appartenente ad un nobile casato, che molto si era prodigato negli scavi archeologici soprattutto in località Calvario. Non avendo però trovato negli archivi comunali nessuna risposta in merito, siamo propensi a credere che la sua istanza non fu accolta (forse la sua ambigua reputazione lo aveva preceduto?) e concentrò quindi le sue attenzioni esclusivamente alle necropoli che circondavano la città etrusco-romana di Civita Musarna, situata fra Tuscania e Viterbo, dove fra il 1897 ed il 1898 sotto il vigile occhio della Stevenson furono portati alla luce 16 sarcofagi in nenfro appartenuti alle famiglie dei Thvethlie, dei Cravzathura e degli Alsina oggi divisi fra i magazzini museali di Philadelphia e di Berkeley. E’ proprio in questo periodo che il già freddo rapporto fra il Mancinelli e la Stevenson si deteriora irrimediabilmente. In una lettera indirizzata alla Hearst, datata 14 agosto 1897, l’antropologa americana esterna tutta la sua insofferenza per il bizzarro archeologo criticando i suoi metodi scrivendo: “ … Mancinelli riporta piccoli successi…solo tre tombe hanno dato risultati apprezzabili, le restanti sono molto povere…sono molto dispiaciuta che abbia venduto a mia insaputa le cose migliori che aveva trovato….e gli ho detto che se non mi darà una buon numero di reperti, qui non ci sarà più lavoro per lui…. Ma dice di aver sentito dire da estranei che (la zona) non è fortunata.” E ancora “…un italiano onesto è un'altra cosa che un americano onesto…”

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Evidentemente Mancinelli non riuscì ad esaudire le richieste della Stevenson e questo mise la parola fine alla sua collaborazione con la Società americana in quanto lo ritroviamo per proprio conto nell’ottobre del 1898 nelle necropoli di Falerii e agli inizi del 1900 impegnato negli scavi di Capena. Così come peraltro sembra venir meno l’interesse della Hearst e del suo gruppo per le tombe etrusche anche in ragion del fatto che la buona stella del Frothingham sembra ormai tramontata: nel corso del 1897 infatti l’invio dei materiali di Narce verso Philadelphia aumenta vertiginosamente grazie ad una condotta non limpida da parte del Frothingham che provvide all’acquisto sia da parte di Francesco Mancinelli Scotti che di Fausto Benedetti e suo padre Annibale di una serie di corredi per le istituzioni scientifiche americane eludendo così il divieto imposto dall’archeologo Felice Barnabei (1842-1922), all’epoca dei fatti Direttore Generale dei Musei e degli Scavi, ad accordare concessioni di scavo ad enti stranieri. Tale sotterfugio, una volta scoperto, condannò al definitivo fallimento l’intero programma di scavi dell’ American Exploration Society che nel giro di pochi mesi sospese ogni sua attività in Italia dedicandosi esclusivamente all’acquisto di collezioni private come quella di Robert Coleman, acquistata per il Museo nel 1897 con fondi forniti dalla Hearst, e rivolgendo le sue attenzioni ai ricchi tesori della terra dei Faraoni. Phoebe Apperson Hearst si spense ne 1919 e per eternare la sua passione per l’archeologia si fece seppellire in un mausoleo appositamente studiato per lei a forma di tempio ionico tetrastilo presso il Cypress Lawn Memorial Park di Colma, vicino San Francisco, dove tuttora riposa. Sara Yorke Stevenson morì nel 1921 e riposa nella sua amata Philadelphia al Laurel Hill Cemetery. L’ostacolo sui cui caddero rovinosamente gli Americani si materializzò con la Legge emanata proprio nel 1897 dal Ministro della Pubblica Istruzione Emanuele Gianturco con la quale lo Stato andava ad aumentare la percentuale di dazio dal 20% al 35% applicabile agli oggetti esportati all’estero che gli scavatori e/o i proprietari del terreno erano obbligati a pagare per poter vendere reperti archeologici sul mercato antiquario. La nuova normativa andava a modificare incisivamente l’ormai obsoleto “Editto Pacca”, dal nome del Cardinale che ne fu l’ideatore, che ormai dal lontano 7 aprile 1820 disciplinava la materia dei ritrovamenti archeologici sul suolo italiano e che a sua volta sostituiva “ L’Editto Doria” e il “ Chirografo di Pio VII” ambedue risalenti al 1802. La nuova legge Gianturco si premurava anche di inserire la fondamentale e delicata figura del Regio Ispettore agli Scavi d’Antichità preposto al controllo dell’attività di scavo e alla scrupolosa attuazione delle nuove direttive. I contenuti del vetusto “ Editto Pacca” erano ormai chiaramente inefficaci ed inadatti a frenare l’emorragia di enormi quantità di reperti antichi verso l’estero in quanto era sufficiente disporre di un generico permesso di scavo autorizzato dal proprietario del terreno e rilasciato a chicchessia per intraprendere campagne di ricerca archeologica su vasta scala. All’articolo 27 del suddetto Editto infatti si può leggere: “ il permesso di scavare sarà accordato solamente a coloro che giustificheranno la proprietà del fondo o la licenza del proprietario.” E lasciava ampia discrezionalità nello stilare gli elenchi degli oggetti ritrovati mancando di un effettivo controllo diretto da parte del funzionario incaricato da come si evince dall’ articolo 33 del Regolamento: “ gli intraprendenti degli scavamenti saranno obbligati ad esibire in cadauna settimana la dichiarazione degli oggetti ritrovati.” Più facile a dirsi che a farsi !! Addirittura

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all’ articolo 11 si può leggere quasi un incitamento a vendere quanto recuperato: “ Sarà permessa la vendita ed il commercio degli Oggetti d’Antichità non contemplati all’articolo 7… “ ossia quelli non inclusi nelle note di scavo settimanali. Bastava quindi non inserire nella lista parte degli oggetti per poterli vendere poi liberamente al miglior offerente. L’esplosione poi del cosiddetto “scandalo di Villa Giulia” agli inizi del 1898, imperniato sulla confusione e falsificazione dei dati relativi ai materiali che affluivano nel museo romano, induce il Governo ad aumentare le restrizioni sugli interessi dei privati coinvolti negli scavi e ad attuare un maggiore controllo dei mezzi con cui lo Stato tutela le antichità e soprattutto rende di pubblico dominio il burrascoso passato del Mancinelli Scotti; dalle carte della Commissione d’inchiesta infatti veniamo a sapere che il bizzarro archeologo aveva più volte avuto a che fare con la giustizia: “…condannato nel 1880 a sei mesi di carcere e lire 200 di multa per reato di stampa…. Condannato nel 1882 ad un mese di carcere e 100 Lire di multa per diffamazione…. Nel 1884 ebbe una condanna a Lire 30 per ingiuria e sottrazione di libri…” Per la “Confraternita del piccone” a stelle e strisce il giro di vite posto in atto dalle autorità italiane rappresentò la fine di una spensierata gestione delle ricerche archeologiche nelle terre dell’antica Etruria. Si chiudeva così un quinquennio di scavi con poche luci e molte ombre. L’ultima spedizione di materiali verso Philadelphia e Berkeley avvenne nel settembre del 1900 e riguardava i sarcofagi rinvenuti dal Mancinelli nella primavera 1898 nella tenuta di Santa Caterina, vicino Musarna, di proprietà di Alarico Piatti dove furono scavate cinque tombe. Imbarcati su una nave con macchine a vapore e vele giunsero a destinazione un anno dopo e a causa di un viaggio tormentato dalle avversità climatiche tre di questi sarcofagi subirono gravi lesioni, tali da non poter più essere esposti. Nonostante il carattere vulcanico e modi di agire censurabili, questo curioso archeologo ed instancabile scavatore svolse la sua ultima campagna di ricerche archeologiche nel 1928, alla veneranda età di 81 anni, nel sito di Nazzano poco distante da Civitacastellana su incarico del Principe Francesco del Drago. Inoltre il Mancinelli era discendente di un nobile casato la cui storia merita di essere brevemente narrata. Un blasone, quello dei Conti Mancinelli, che ha origini antiche dato che risale al XIII secolo e che in seguito si divise in due rami: quello dei Mancinelli Scotti e quello dei Narni Mancinelli. Assursero al titolo di Conte sotto il Pontificato di Papa Clemente XIV che, con Breve datata 23 dicembre 1772, elevò Don Pasquale Mancinelli al suddetto rango. Anche in questo caso, però, le nostre ricerche hanno evidenziato un evento che diluisce in parte la nobiltà di questo casato: esempio concreto e di frequente riscontro nella storia nobiliare era l' imposizione di cognome e di stemma ad altra famiglia per agnazione ( legame di parentela in linea maschile, tra i discendenti maschi dello stesso padre) in via di estinzione: la nuova genealogia creatasi assumeva con lo stemma il brevetto, perpetuandone il titolo, ma non certo la Nobiltà, che non poteva seguire il primitivo cognome, innestato in altro ceppo. Nella prima metà del '700 il Conte Pietro Mancinelli, privo in prima persona di discendenti diretti, ma anche per parte dei fratelli Ottavio ed Alessandro, impone a

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Francesco Squarta, marito della sorella Virginia e padre dell'unico nipote, di cambiare il suo cognome originario, oltre che le armi, con quello dei Mancinelli La famiglia Squarti (in origine Granceschi, poi Squarta, per cognomizzazione del patronimico, da Matteo, capitano di ventura detto appunto Squarta e quindi più recentemente Squarti Perla, dal matrimonio di Carlo Squarti con la Contessa Margherita Perla di Calvi celebrato il 27.01.I672) originaria di Orte, sin dal XIV° secolo aveva rivestito le cariche civili, militari e religiose più eminenti e contratto matrimoni con le migliori e più antiche famiglie della città e del viterbese. Al figlio di Virginia e di Francesco Squarti, divenuto ormai Francesco Mancinelli, venne imposto il nome di Ferdinando. Questi unendosi in matrimonio con Olimpia, unica figlia del Conte Francesco Ausonio Scotti, sopportò un ulteriore unione impositiva di cognome aggiungendo al suo quello degli Scotti. Orbene in base al ragionamento su esposto, Ferdinando Mancinelli Scotti, sangue Squarti, cognome, arme e predicato dei Mancinelli e degli Scotti, avrà avuto, e quindi poi trasmesso sino agli attuali discendenti, Conte Ludovico Mancinelli Scotti di San Vito il titolo, (allora trasmissibile per volontà testamentaria o da alienazione di brevetto), dei Mancinelli e degli Scotti; la Nobiltà, (e quindi la storia legata al ceppo di sangue originario, comune a maschi e femmine ma non trasmissibile per via femminile) della Famiglia Squarti di Orte. Fra i suoi illustri rappresentanti uno in particolare merita di essere citato: si tratta di Frà Ludovico Mancinelli, primo ad aver avuto l’onore di essere ricevuto nell’Ordine Gerosolomitano e che nel 1404, ironia del destino, risulta Commendatore di Toscanella! Anni dopo i fatti narrati in questa sede, Francesco Mancinelli Scotti in un suo libro-memoriale, in una sorta di excusatio pubblica scrisse: “ …io non sono uno scienziato ma solamente un pratico….il risultato delle mie esplorazioni è dovuto, più che alla mente, alla mia robustezza fisica…” Un pensiero in linea con la sua singolare figura di scaltro scavatore a metà strada fra l’appassionato ed il commerciante! ( tomba di P. A. Hearst a Colma, San Francisco)

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LA GUERRA D’ETRURIA. Fino al 1870 gli scavi archeologici nella Regione Romana, e quindi a Tuscania, erano gestiti direttamente dal Governo Pontificio tramite la figura del Cardinale Camerlengo, nominato direttamente dal Pontefice, e regolamentati dal citato “Editto Pacca”. Gli oggetti rinvenuti negli scavi nel territorio dell’ antica Etruria a partire già dal 1828 confluivano nel Museo Gregoriano Etrusco, fondato da Papa Gregorio XVI ed inaugurato ufficialmente solo nel 1837, le cui collezioni furono impreziosite da molti reperti recuperati e venduti dalla famiglia Campanari e da altri scavatori tuscanesi: fra tutti spicca la celebre urnetta funeraria fittile detta “dell’Adone morente”, un vero e proprio capolavoro della coroplastica policroma etrusca del III secolo a.C., rinvenuta da Settimio Carletti negli scavi a Valvidone del 1832-34 finanziati dalla contessa Maria Laurenti Turriozzi (Arch. Di Stato di Roma, parte II, tit. IV, b. 216, fasc. 1648) e ceduta poi nel 1835, insieme ad altri sarcofagi recuperati nel medesimo scavo, al Museo Gregoriano. In questa località, situata poco a sudovest dell’abitato, si scaverà alacremente fino al 1847 (richiesta di Cosma Lucchetti) riportando alla luce decine di sarcofagi che attualmente non sono rintracciabili. Con la fine dello Stato Pontificio cessano le competenze territoriali del museo, che non verrà più incrementato dai materiali di scavo, ma solamente con sporadiche acquisizioni di collezioni archeologiche private tutte di vecchia formazione. E’ in questo momento che comincia a nascere l’urgenza, avvertita dalla nuova classe politica subentrata al plurisecolare governo della Chiesa, di creare delle strutture atte a ricevere e conservare l’enorme messe di materiali che ininterrottamente vengono scoperti in centinaia di siti archeologici e che prendono, attraverso i canali del mercato antiquario, la strada verso i maggiori Musei europei allora già esistenti quali il Louvre di Parigi ed il British Museum di Londra, tanto per nominare due eccellenze. Infatti fino a quel momento il criteri principale di selezione degli oggetti era basato su una valutazione economica delle opere d’arte rinvenute: la loro esportazione veniva concessa o negata in base al criterio della loro unicità, e sfuggiva completamente il nesso, fondamentale, tra produzione artistica e contesto geografico tanto che la pratica dello scavo archeologico era una pura e semplice raccolta di oggetti rinvenuti negli sterri furiosi che interessavano intere necropoli. In un clima di confusione e di instabilità politica il Museo Archeologico di Firenze, fondato proprio nel 1870, cercò di affermare il proprio primato, approfittando tra l’altro dell’effimera stagione che vide Firenze capitale del giovane Regno d’Italia, iniziando una trasformazione che rese possibile l’incremento delle sue collezioni portandolo in poco meno di un decennio ad essere il più grande museo nazionale di antichità sotto la guida del Gamurrini. Nel 1884 il suo posto fu occupato da Luigi Adriano Milani (1854-1914) che nel 1897 inaugurò la sezione del Museo Topografico, da lui realizzata, dove nello spazio di diciassette sale illustrava la storia degli Etruschi attraverso i materiali raccolti nel corso degli scavi condotti nel territorio dell’antica Etruria e molti di quei reperti provenivano dalle necropoli di Toscanella dove il Milani ebbe il suo più valido collaboratore nella figura di Giuseppe Cerasa che, praticamente, scavava per conto del museo fiorentino.

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Nel frattempo, però, con la decisione di porre la Capitale del Regno a Roma, nacque anche l’esigenza di creare una struttura museale degna del nuovo ruolo della città. Grazie all’instancabile opera di Felice Barnabei (1842-1922) nel 1889 fu istituito il Museo di Villa Giulia dove iniziarono a confluire tutti i materiali provenienti dagli scavi nell’Etruria Meridionale, dall’Agro Falisco e Capenate provenienti da abitati, santuari e necropoli. Ad incrementare le nuove raccolte contribuì anche il confluire di collezioni d’oggetti antichi già presenti in Roma come quella del Museo Kircheriano, sorto nella seconda metà del XVII secolo ad opera del padre Gesuita Athanasius Kirker grazie soprattutto alla generosa donazione del Segretario del Senato Romano Alfonso Donnini da Toscanella eminente esponente della famiglia Donnini iscritta al Patriziato Tuscanese e proprietaria dell’omonimo Palazzo nel Terziere dei Castelli (il Vescovado) il quale lasciò in eredità al Collegio Romano la sua personale raccolta di antichità conservata nella sua città natale. Nelle ultime volontà testamentarie di questo nostro concittadino redatte il 13 novembre 1651 si dichiarava: “ Item esso sig. Alfonso, cittadino di Toscanella, codicillante asserendo per sua diligenza e soddisfazione avere radunato insieme molte cose curiose e di prezzo… e desiderando sommamente che restino sempre unitamente in qualche luogo particolare acciò possano essere godute, pertanto ha risoluto lasciarle conforme al Ven. Collegio Romano della comp. Di Gesù…. Alli 13 novembre 1651, Amico Abinante, notaro Capitolino. “ Il Donnini, in cambio del generoso gesto, chiese solamente di essere sepolto nella nuova chiesa di S. Ignazio da Loyola, in Campo Marzio, con questa iscrizione: ”ALPHONSUS. DONNINUS. CIVIS TUSCANENSIS. HIC RESURRETIONEM CARNIS EXPECTAT“. imponendo ai Padri la sola condizione di avere memoria di lui nei “santi sacrifici quotidiani”. In una nota vergata da P. Fabio Albergotti, allora Rettore del Collegio Romano in segno di stima e gratitudine, si legge: “ Morto il signor Alfonso, e portata in Collegio la robba da lui lasciataci li Superiori ne diedero la cura al P. Atanasio Kircher, e assegnarono per luogo ove collocarla, quella parte del corridore contiguo alla Libreria, che si stende verso la chiesa per la lunghezza di palmi 94, e in detto luogo si collocò e si dispose, facendovisi al principio un cancello, che proibisce l’accesso libero a chiunque avesse voluto” . Molti dei reperti della sua collezione, in cui erano presenti maschere in marmo, vasi fittili, balsamari in vetro, lucerne e piccole statue di bronzo e di marmo (Catalogo di Giorgio De Sepi Valesio del 1678), fra i quali spicca il busto della cosiddetta Artemide Ephesia oggi al Museo del Colle del Duomo a Viterbo e che nel catalogo del 1678 veniva così descritta: “…Qui troverai lavorati in marmo reperti profani che passo ad elencare… la terza è la statua di Iside con molte mammelle… “, furono sicuramente ritrovati a Tuscania in quanto già all’epoca erano da tempo conservati nelle stanze di Palazzo Donnini; ciò fa di questo nostro concittadino il primo illustre depauperatore documentato del nostro patrimonio archeologico e tutto in cambio solo di… una messa al giorno! Per completezza d’informazione dobbiamo segnalare come sul colle di S. Pellegrino, contiguo a Quello di Montascide dove sorge Palazzo Donnini, già verso la fine del 1500 furono rinvenute cospicue testimonianze archeologiche riportate dallo storico tuscanese Francesco Giannotti (1533-1607): “ Furno trovate pietre et pile con lettere etrusche e vasi antichissimi … ne furon trovate diverse da Ms. Valeriano Scalzini

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in un suo orto dentro a la casa dove habitava … nel quale anco trovò diverse statuette de idoli et molte medaglie… “ Inoltre che il Palazzo vescovile di Tuscania fosse stato per lungo tempo una sorta di deposito di oggetti antichi ce lo conferma anche il Turriozzi in quanto nel 1778 così scrive nel suo libro a proposito di iscrizioni etrusche: “ …. La quarta esiste pur oggi nel giardino del palazzo vescovile in altro sarcofago di peperino da ogni parte figurato in basso rilievo, ma poco intelligibile e mal custodita”. La Raccolta Donnini con il passare del tempo fu ulteriormente smembrata, dispersa e spostata tanto che oggi è impossibile individuarne l’esatta consistenza e collocazione. Ma torniamo ora alla nostra storia. Luigi Milani, ovviamente, non vide di buon occhio l’apertura del nuovo Museo di Villa Giulia e da subito iniziò ad ostacolarne la crescita rivendicando per la struttura da lui diretta tutti gli oggetti rinvenuti in Etruria Meridionale in base ad un precedente provvedimento ministeriale degli inizi del 1901, che non andava disatteso. Fu l’atto che decretò l’inizio di una contrapposizione, che passerà alla storia come la “Guerra d’Etruria”, fra due Musei e due città e che fu combattuta aspramente a suon di carte bollate e febbrili contatti epistolari con gli amministratori di quei paesi dove i corredi sepolcrali etruschi sembravano spuntare come funghi in quegli anni. Tra il 1890 ed il 1906 inizia così un periodo di frenetica attività da parte del Milani al solo scopo di reperire la maggior quantità possibile di corredi etruschi per il proprio Museo; ciò lo porterà ad incrociare la strada di Toscanella e del suo Segretario Comunale Giuseppe Cerasa (1862-1944) che sposerà la sua causa facendo partire per Firenze centinaia di reperti archeologici provenienti dalle necropoli tuscanesi, ricchissimo di sarcofagi fu il sepolcro degli Statlane di Rosavecchia scoperto nel 1898. Anche i residui della ormai esangue Collezione Campanari, allora in possesso di Vincenzo Junior (1841-1908), figlio di Secondiano, lasceranno definitivamente Toscanella con Ordinanze del Consiglio Comunale tra il 1894 ed il 1897 in cui si ratificò la loro cessione al Regio Museo di Firenze. Fra questi reperti spicca un cippo a tre colonnette rastremate con doppia iscrizione etrusca proveniente dalla tomba dei Nevznas e un leone frammentario sopra una protome umana del tutto sconosciuto al pubblico. Sempre in quel periodo viene ceduto anche il famoso “Leone di Valvidone”, colossale e maestosa scultura etrusca risalente al IV secolo a. C., che per decenni troneggiò nei giardini del Museo toscano fino al nefasto alluvione del 1966 e di cui tratteremo approfonditamente più avanti. Altro pregnante esempio di questa contesa tesa ad accaparrarsi intere collezioni di reperti etruschi è costituito dalla vicenda riguardante la Collezione di antichità etrusche, formata a partire dal 1867, di proprietà della famiglia Bruschi Falgari di Tarquinia. Alla morte di Francesco Bruschi Falgari (lo stesso che aveva negato il permesso di scavo al Mancinelli) avvenuta il 3 luglio del 1908, la collezione di antichità passò al figlio Luca che si attivò subito per promuoverne la vendita allo Stato italiano. Avendone avuto notizia, agli inizi del 1909 il Milani cerca di battere sul tempo la concorrenza di Villa Giulia scrivendo al Conte Luca Bruschi: “..ho provveduto a farle notificare per mezzo d’usciere l’importanza della sua collezione…sarebbe desiderabile intavolare accordi diretti per la cessione….e spero che ella vorrà dare riscontro a questa mia.”

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La contromossa di Roma non tarda ad arrivare con una lettera di Alessandro della Seta un funzionario di Villa Giulia indirizzata al Bruschi: “ Il Ministero della Pubblica Istruzione affida a me quale Ispettore addetto al Museo di Villa Giulia il gradito incarico di fare una stima dei singoli oggetti che compongono la sua Collezione di antichità esistenti nel suo Palazzo di Corneto Tarquinia…” Dopo un lungo tira e molla sul prezzo da pagare durato fino al 1913 alla fine non la spuntò né Firenze né Villa Giulia: il 3 giugno 1913 l’intera collezione fu ceduta per la cifra di 122.000 Lire e fu trasferita nel Palazzo Vitelleschi sede del Museo Etrusco di Tarquinia. La vittoria finale nella “Guerra d’Etruria” ovviamente non arrise al Milani anche perché due Regi Decreti (n. 577 del 3.08.1908 e n. 505. del 7.03.1909) sancirono definitivamente i limiti territoriali di competenza dei due musei riducendo drasticamente la zona di scavo per il museo archeologico di Firenze decurtandola del circondario di Civitavecchia, del territorio di Corneto-Tarquinia e di tutta l’area della Tuscia viterbese. Il Milani, ormai vecchio e stanco, abbandonò il campo di battaglia coperto di allori però, in quanto fu nominato Soprintendente ai Musei e Scavi dell’Etruria nel 1911 dal governo Giolitti. Morì serenamente il 9 ottobre 1914 con la convinzione di aver dato grande lustro alla sua città. Il suo “discepolo” Giuseppe Cerasa gli sopravvisse per altri trent’anni ma non comprese mai quale danno avesse arrecato alla sua Toscanella impedendo con caparbia ostinazione la creazione di una Raccolta Comunale di Antichità, sul modello di quella tarquiniese, che pure tante volte gli era stata consigliata. … E pensare che sarebbe bastato seguire l’esempio del Donnini riutilizzando nuovamente il suo Palazzo come sede dell’ Antiquarium Comunale….

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L’odissea del “Re Leone” Presso l’Ufficio Catalogo del museo di Firenze alle schede d’inventario n° 13922 e n° 78008 vi è annotato: “Leone su base. Donazione Municipio di Toscanella, 1897. Data di scavo 1852( ? )“. Questa scarna descrizione riguarda uno dei tasselli più importanti nel mosaico degli scavi archeologici di Tuscania rappresentato da un superbo leone sepolcrale monumentale recuperato nella località di Valvidone, da cui prende il nome, poco dopo la metà del XIX secolo. Oltre ad essere uno dei più grandi esemplari di statuaria funeraria etrusca il leone di Valvidone, costituito da un podio circolare del diametro originario di circa di cinque metri al centro sul quale poggiava il leone scolpito in nenfro, lungo circa m.1,60 e alto m.1,10,è anche l’emblema di una stagione di scavi dove imperavano l’approssimazione metodologica e la totale mancanza di salvaguardia e tutela degli oggetti ritrovati. La sua storia ci appare come una vera e propria odissea che più di una volta lo ha portato vicino alla definitiva scomparsa a causa soprattutto dell’incredibile superficialità con cui fu trattata la scoperta della tomba sulla quale si ergeva il magnifico leone. La stessa incertezza sull’anno del rinvenimento e la presunta donazione, assolutamente non veritiera, palesa la grande confusione che ha sempre circondato la vicenda di questo superbo monumento etrusco generando clamorose inesattezze storiche che sopravvivono ancora oggi. Tutte le fonti ufficiali tendono a collocarne lo scavo “intorno al 1852” eseguito in una vigna di proprietà di Filippo Vittorangeli ubicata in loc. Valvidone, confinante con i “beni Pocci”, e che portò al recupero di “… vari sarcofagi di peperino, vasi ed altri oggetti… e un leone situato sopra un piedistallo circolare con iscrizione etrusca intorno al quale erano alcuni sarcofagi con figure giacenti…” L’iscrizione per quanto incompleta eca u i : nevznas : arn al : ne [---- certificava l’appartenenza della tomba alla gens Nevznas, inserita a buon diritto nel novero delle famiglie etrusche più importanti del IV-III secolo a. C. poichè direttamente imparentati con i potenti Statlane grazie ad unioni matrimoniali di loro componenti con donne della gens Nuichlna certificati dalla seguente iscrizione su sarcofago femminile ram a : nuiXlnei : cianil : puia. stat[l]anes . velus. Dallo stesso sepolcro inoltre furono recuperate iscrizioni funerarie che attestano legami parentali con i Papnas di Vulci, i Puince e i Faltu di origine centro-settentrionale. Neanche il tempo di completare lo scavo e subito iniziò la dispersione del materiale rinvenuto; il leone ed alcuni frammenti del podio furono sistemati in un orto privato di proprietà del signor Livio Gori (l’attuale Parco delle Casacce), altri frammenti lapidei del monumento rimasero incompresi e incustoditi all’interno della vigna del Vittorangeli mentre diversi cippi, fra cui uno trisomo, finirono assorbiti dalla Collezione Campanari. Qualche anno dopo i due blocchi del podio vennero prelevati dall’orto e spostati in un locale sotto il Palazzo Municipale. Dei sarcofagi rinvenuti la maggior parte fu inghiottita dal mercato antiquario mentre alcuni furono sistemati nel

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Giardino Pocci; in seguito tre sarcofagi femminili furono collocati sui muri che orlano Piazza Basile. L’intero corredo ceramico fu subito venduto dal Vittorangeli. Soprattutto sulla data effettiva di rinvenimento del sepolcro sorgono però diversi interrogativi alimentati da una lacunosa e scarsa documentazione: infatti presso gli archivi non ci sono richieste di scavo da e per Filippo Vittorangeli intorno al 1852, piuttosto la prima documentazione risale al 1859 anno in cui, da marzo a giugno, vi è una fitta corrispondenza tra il Vittorangeli, il Comune di Toscanella ed il Camerlengato per dei permessi di scavo del suddetto in particolare in quella datata 28 giugno 1859 dove si specifica: “... eseguito versamento di baiocchi quindici da Vittorangeli Filippo di Toscanella per eseguire scavi di ricerca di antichità in suo terreno vignato, contrada Valvidone...”. (Da sottolineare che il costo della tassa di bajocchi 15 non era poi così alto: all’epoca con circa 20 baiocchi si poteva acquistare un chilo della pregiata carne di “Buve Perugino”, quella che oggi è la famosa Chianina, mentre equiparata al conio attuale la somma odierna si aggirerebbe sui 25/30 euro). E’ molto probabile quindi che la scoperta del leone sia da collocare fra il 1860 ed il 1865 anche perchè, a nostro parere, se fosse stato recuperato nel 1852 Secondiano Campanari l’avrebbe certamente citato nel suo libro “Tuscania e i suoi monumenti”, uscito peraltro postumo nel 1856; non essendoci nessun riferimento ad una simile scoperta, all’epoca certamente non comune, appare ovvio che il ritrovamento ancora non era stato effettuato! La prova definitiva comunque è in una relazione redatta da un ispettore del Ministero l’ 11 agosto 1875 dove si legge chiaramente che : “ ... da circa dieci anni un tal Filippo Vittorangeli scavando in contrada Valvidone trovò alcune grotte etrusche... e trovò anche un bel leone in peperino di grande dimensione su un piedistallo circolare... “. Grazie all’incrocio di questi dati è stato possibile dissipare definitivamente i dubbi sulla data del ritrovamento mentre bisognerà attendere il 1893 per sentir parlare di nuovo del leone di Valvidone. Ed anche stavolta ci sarà di che meravigliarsi….. Luigi Adriano Milani ricorreva in quel periodo anche alle consulenze di Francesco Marcelliani, l’archeologo che tra il 1879 ed il 1883 aveva scavato a Vulci operando alacremente ma senza un autentico spirito scientifico, il quale fungeva da intermediario tra il Museo e Vincenzo Campanari Junior intavolando trattative non sempre lineari e comunque cercando sempre di privilegiare i propri interessi come quando propose la vendita di oggetti frutto dei propri scavi ma che risultarono essere invece una parte della collezione Campanari. Ma il suo “capolavoro” lo elabora in una lettera datata 31 gennaio 1893 quando scrive al Milani proponendogli la vendita del nostro leone spacciandolo addirittura per un residuo dell’ apparato scultoreo del tumulo della Cuccumella di Vulci…. Se oggi attribuire a reperti archeologici false provenienze è un comportamento che può scandalizzare, nel XIX secolo era invece una consuetudine ben radicata tanto che lo stesso Helbig nel 1880 ebbe a scrivere: “ alcuni anni fa vidi presso un antiquario di Civita-vecchia (probabilmente il Bucci) parecchie antichità etrusche che, come egli mi disse, provenivano dal Voltone, nei pressi di Montefiascone. Riapparirono in seguito sul mercato di Roma e vi furono spacciate come vulcenti poiché gli antiquari, come i negozianti di vini, sogliono fornire la loro merce delle marche più celebri…” Tuttavia il Milani, che di certo sprovveduto non era, diffida di quella proposta e intuendo la malafede del Marcelliani si attiva a sua insaputa per chiedere garanzie

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sugli oggetti. La cosa indispettì parecchio Marcelliani che scrisse subito al Direttore fiorentino una lettera di fuoco (19 febbraio 1893) nella quale si evince tutta la sua ipocrisia e la sua profonda incompetenza: “ …Ella non è capace di distinguere i monumenti vulcenti da quelli di Tuscania… non se ne offenda perché è così… mi permetta di dirle che la necropoli di Toscanella non ha alcuna cosa di arcaico, né di sarcofagi con casse istoriate. Tuscania ha avuto sempre casse lisce o con piccole cose assai mal condotte e di epoca assai bassa e posteriore a Vulcia… sarebbe una contraddizione fare questi monumenti di Tuscania, che fu sempre città di poco conto e di quart’ordine e di altra epoca che di Vulci. “ Qualsiasi commento in proposito ci risulta superfluo !! L’esperto Milani non abbocca all’offensiva provocazione, anzi, si disfa in breve dell’ingombrante figura di Marcelliani e per i suoi interessi a Tuscania si rivolge al Municipio stesso rappresentato dalla figura di Giuseppe Cerasa, allora Segretario Comunale. Il leone di Valvidone, per il momento, rimane tranquillo nel suo orticello.

Passano alcuni anni e il 23 ottobre 1897 il Milani invia una precisa richiesta al Comune di Toscanella: “ … nelle mire di assicurare la conservazione di tali oggetti voglia codesto Municipio cedere tanto i sarcofagi dello Scriboni quanto il leone rinvenuto nella vigna Vittorangeli e i suoi due blocchi scritti della base… confidando che nell’interesse della scienza e della storia patria vorrà prendere a cuore questo progetto di cessione e che la cosa abbia per quanto possibile una sollecita soluzione.” Dopo un mese appena il Municipio di Toscanella nella seduta consiliare del 27.11.1897 con voto unanime delibera la vendita delle antichità richieste da Firenze: “… mediante pagamento del prezzo di £ 750 autorizzato dalla Giunta…”, neanche tanto a pensarci bene dato che in quel periodo un ottimo stipendio ammontava a 200 £ mensili. Questa delibera ci consente anche di sfatare un altro luogo comune legato a questo monumento funerario: quello della ”donazione” fatta dal Comune di Tuscania al Museo di Firenze che, documenti alla mano, è incontrovertibilmente solo un grosso falso storico! Non si trattò di un generoso omaggio ma di una semplice vendita e a prezzo quasi ridicolo…. Il nostro leone comunque sul finire del XIX secolo si prepara a quello che sembra essere il suo ultimo viaggio. Purtroppo non sarà così! Sistemato dal 1898 nel giardino del Museo Archeologico di fronte alla tholos di Casale Marittimo e poco distante dal leone alato proveniente dalla collezione Campanari, fu successivamente collocato negli anni Sessanta del novecento nel grande salone del Palazzo degli Innocenti. In seguito fu trasferito nel deposito di Villa Corsini, agli inizi degli anni Ottanta, a causa dei lavori di ristrutturazione del Museo. Dopo il suo rientro dalla grande mostra sugli Etruschi organizzata nel 1999 a Città del Messico, questo eccezionale monumento è ora collocato all'ingresso del lungo corridoio che si affaccia sul giardino grazie soprattutto all’interessamento dell’allora Direttore della Sezione Etrusca Dott.sa Antonella Romualdi, persona di rara limpidezza e coerenza, la quale ritenne irriverente che il leone potesse tornare ad essere sepolto nei depositi del Museo. Ci auguriamo solo che il suo girovagare sia giunto al termine.

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1896, LO SCAVO DIMENTICATO La località di Montebello, costituita da un complesso collinare di circa 3000 ettari, costituisce il margine meridionale del Comune di Tuscania ed è posta esattamente a metà strada fra questi e Tarquinia: il suo attuale toponimo è conosciuto già dal 1262 quando era chiamata Montisbelli. Per molti secoli fu attraversata dall’ unica via di collegamento terrestre fra le due importanti città di Tarquinia e Tuscania intorno alla quale prosperarono dei piccoli aggregati urbani di modeste dimensioni concentrati sui pianori prospicienti il fiume Marta e deputati allo sfruttamento agricolo due dei quali sono da ubicare nelle località Poggio della Ciuffa e Guado della Spina. Le isolate ed incomplete campagne di ricerche archeologiche effettuate in questa zona non hanno mai permesso di stabilire l’effettiva consistenza delle testimonianze del periodo etrusco e romano, ma è comunque accertato che l’intera località abbondi di necropoli che ricoprono un ampio arco cronologico. Tra gli sporadici scavi documentati, il primo fu compiuto da Giacomo De Dominicis di Corneto nel 1830 quando riportò alla luce un sepolcreto etrusco a Montequagliere, due riguardano direttamente la nostra ricerca, quello del 1866 e quello del 1896, e coinvolgono, per uno strano caso del destino, i medesimi personaggi di due famiglie: quella dei marchesi Lavaggi e quella dei Bucci, rinomati antiquari di Civitavecchia. A titolo d’inventario però dobbiamo citare anche uno scavo compiuto a Montebello nel corso del 1887 del quale siamo riusciti a rintracciarne la memoria in una piccola postilla in una lettera che l’amministratore della Tenuta, De Moris, indirizzò al Fattore, Erasmo Giorgi di Corneto, della stessa in cui si legge: “… venerdì dovresti portare qualcuno dei migliori oggetti trovati nei scavi specialmente quei di metallo. Il resto il Signor Marchese lo cede volentieri tutto a chi ha fatto gli scavi.” Nell’aprile del 1896 Francesco Mancinelli Scotti intraprende degli scavi nel territorio di Toscanella nella suddetta tenuta di Montebello di proprietà della famiglia dei Marchesi Lavaggi, dove furono rinvenute due tombe etrusche. Una, risalente al periodo arcaico, restituì uno scarno corredo di vasellame in bucchero comprendente cinque kantharos mentre lo scavo della seconda, una tomba a camera con corridoio centrale con tre loculi per parte risalente al periodo tardo-etrusco (III – II secolo a. C.), fu assai più proficuo in quanto fruttò più di cento oggetti comprendenti vasellame, bronzi e svariati specchi. Da una nota del Mancinelli apprendiamo che “…la porta fu trovata intatta... il corridoio era lungo sette metri e largo 1,30 mentre la camera era di sei metri…i corpi erano stati sepolti in sei fosse scavate sul pavimento e chiuse con delle tegole…bronzi ed altri piccoli oggetti erano nelle fosse mentre i vasi erano posti sopra di esse… gli oggetti più interessanti sono un busto femminile in nenfro….e una ciotola, bellissima, in vetro anche se in parte rotta…” Poco tempo dopo, agli inizi di giugno, il Marchese Ignazio Lavaggi gli accorda uno scavo di una necropoli situata nel colle dei “Poggi Alti”, un’ area che già in

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precedenza, lo vedremo più dettagliatamente in seguito, aveva restituito parecchie sepolture. L’indagine porta alla scoperta, il 5 di giugno, di due piccole tombe a camera di circa quattro metri quadrati al cui interno vengono rinvenuti 117 manufatti fra cui diversi vasi in bronzo e sei strigili in ferro. Nonostante tutti i nostri tentativi fatti presso gli archivi di Tuscania, Tarquinia e Viterbo per rintracciare i permessi di scavo, sembra che non vi sia la minima traccia di documenti inerenti questi scavi, tranne lo scarno resoconto degli oggetti recuperati conservato presso l’Archivio di Stato di Roma (II vers., b. 302), quindi l’unica possibilità rimasta è quella che le relative licenze siano conservate fra i carteggi, non rintracciabili, della famiglia Lavaggi, proprietaria della vastissima Tenuta di Montebello. Nonostante ciò gli scavi del Mancinelli a Toscanella si esauriscono con il recupero delle tombe dei Poggi Alti. Forse la scarsa qualità dei materiali recuperati induce l’ American Exploration Society della Hearst a virare su altri obiettivi o forse il Mancinelli non riesce più ad ottenere permessi di scavo in quella zona come starebbe a dimostrare l’inutile tentativo fatto dallo stesso presso il Sindaco Di Tarquinia accennato in precedenza. I reperti recuperati, circa 200, vengono inviati a Civitavecchia a Clodoveo Bucci (1855-1942) dove nei suoi locali, in attesa dell’imbarco, vengono inventariati e fotografati: una foto d’archivio del Museo di Philadelphia ci mostra l’intero corredo tuscanese con la dicitura “ Toscanella tomb’s before shipment to Philadelphia.” Con molta probabilità, visto che documenti d’archivio presso l’UPENN citano “oggetti provenienti da escavazioni fatte in Tenuta Montebello ai Poggialti” entrati nel Museo nel 1897, i reperti tuscanesi partirono alla volta di Philadelphia dal porto di Civitavecchia nel luglio dello stesso anno imballati in numerose casse che contenevano anche i corredi funebri rinvenuti a Narce e i taccuini di scavo, le piante delle tombe e gli elenchi dei materiali rinvenuti. In una cassetta a parte vi erano anche le ricevute dei pagamenti che Frothingham aveva effettuato per acquistare questi corredi dal Mancinelli Scotti e dal Benedetti. Tutti e 117 reperti provenienti dallo scavo sono attualmente custoditi nei magazzini del museo di Philadelphia nel settore “Stoccaggio Collezioni” e raggruppati sotto la dicitura “Etruscan Tombs Montebello-Tarquinia”. Oltre al danno anche la beffa !!

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IGM della località di scavo e selezione del materiale rinvenuto.

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1866, LA NECROPOLI DEI POGGI ALTI Esattamente trent’anni prima degli scavi del Mancinelli Scotti la Tenuta di Montebello fu al centro di un'altra serie di ritrovamenti di tombe etrusche promossi dal Marchese Ignazio Lavaggi in collaborazione con il signor Donato Bucci, noto antiquario di Civitavecchia e zio di Clodoveo, all’epoca Socio Onorario dell’Istituto di Corrispondenza Archeologica di Roma. Nell’estate del 1866 i due iniziarono ad indagare una zona ricca di sepolcri che potrebbe essere identificata anch’essa con quella dei Poggi Alti dove, dati attuali alla mano, sembra accertata la presenza di una discreta area necropolare. Tutto il materiale che vi fu recuperato andò disperso: parte di esso prese la via di Parigi mentre il restante fu immesso sul mercato antiquario dal Bucci stesso. Per farsi un’idea degli oggetti rinvenuti non resta altro che affidarsi alla descrizione fatta al tempo degli scavi: “… alla tenuta di Montebello…. s’imbattè in un sito interamente ricoperto di sepolcri… lo che eccitò il nostro benemerito socio sig. Donato Bucci, antiquario di Civitavecchia, ad intraprendervi degli scavi regolari … in compagnia col sig. barone Edmondo Rothschild di Parigi. Fra gli oggetti ottenuti dalla terra primeggiano… due testine di bronzo, l’una di Sileno l’altra di Bacco e due anelli di oro… degni poi d’attenzione sono… dieci semplici astragali d’argilla, due dadi e quindici pietrine ovali, parte in rosso antico, parte in alabastro bianco…. Di vasi storiati (dipinti, n.d.a.) si deve rammentare una Kilyx dipinta nera con una benda rossa che gira attorno all’esterno sulla quale trovasi dall’uno e dall’altro lato due galli affrontati…. Ragguardevole è pure il numero di grandi orci del noto stile corintio, i quali probabilmente sono di fabbrica locale, avendo due di essi graffite sotto il piede delle leggende etrusche….” La figura di Donato Bucci, ex negoziante di tessuti (1798-1870), ai più sconosciuta è invece quella di un personaggio notissimo negli ambienti archeologici ed artistici di quell’epoca della Provincia romana, basti pensare che lo Stendhal amava frequentare il suo studio antiquario, quando era Console di Francia in Civitavecchia, poiché lo riconosceva come uomo dotato di buon gusto e di spiccata sensibilità culturale scrivendo di lui nel 1831: “… devenue passionné pour de vases étrusques et qui a laissé là les draps pour ne plus s’occuper que d’antiquités” E in effetti la passione per le antichità aveva portato ben presto il Bucci ad intraprendere piccoli scavi nel territorio di Civitavecchia coronati da successo con la scoperta della necropoli etrusca in località “ La Scaglia” nel 1829-30. La sua fama crebbe velocemente ed insieme ad essa il suo patrimonio: era così stimato che addirittura divenne destinatario di diversi lasciti testamentari come quello famoso del 28 settembre del 1840 stilato dallo stesso Stendhal, al secolo Henri-Marie Beyle: “… Lascio e trasmetto in eredità mediante legato tutto quanto possiedo negli Stati di Sua Santità al Signor Donato Bucci a Civita-Vecchia… pregandolo di vendere

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tutto quello che lascerò all’epoca del mio decesso, di tenere per sé un quarto del ricavato…. Dunque la figura del Bucci nel panorama degli scavi archeologici in quel periodo era di assoluto rilievo e le sua amicizia con Stendhal e il Rothschild, membro della famosa famiglia di banchieri divenuto celebre nel mondo archeologico per aver donato al Louvre il famoso “Tesoro di Boscoreale” che aveva acquistato per mezzo milione di franchi nel 1894, contribuì a spalancargli le porte di Parigi e del Louvre, dove per anni fece affluire ingenti materiali recuperati nelle ricerche a cui partecipò; non a caso, come detto, molta parte degli oggetti recuperati nello scavo di Montebello presero la via d’oltralpe. A parte la fortunata scoperta della necropoli di Montebello, gli scavi archeologi nel territorio di Tuscania, proprio in quel periodo sembrano vivere una fase di stallo. Dopo il ciclo d’oro di Vincenzo Campanari, l’attività di scavo rallenta notevolmente tanto che nel decennio 1861-1871 abbiamo notizie documentate soltanto di quattro scavi, oltre a quello succitato, di un certo rilievo e tutti riconducibili a Carlo Campanari (1800-1871), figlio di Vincenzo: dopo aver chiesto licenze di scavo, in data 16 marzo 1860, da effettuarsi nei suoi terreni ed in quelli dell’Arcipretura, nel 1862 recuperò undici tombe a camera in località “Cadutella” . Nel 1867 operò uno scavo a S. Lazzaro del quale non ci è giunta purtroppo nessuna descrizione. Rinvenne poi due tombe in loc. Rosavecchia nel 1869 ed infine, pochi mesi prima di morire, nella primavera - estate del 1871 tornò a scavare a S. Lazzaro dove ritrovò “…una tomba a camera quadrata a volta piana con due file di sarcofagi in nenfro lungo le pareti laterali…” Negli anni intorno al 1860 soltanto due scavi meritano di essere citati e sono quelli della scoperta del sepolcro dei Nevznas, del quale abbiamo già parlato, e lo scavo, seppure sommario, di Carlo Campanari nella necropoli di Ara del Tufo effettuato nel 1855 che portò al recupero di lastre architettoniche e di due acroteri fittili antropomorfi che furono poi venduti, insieme a diversi sarcofagi fittili, al noto collezionista e Direttore del Monte di Pietà di Roma Marchese Giampietro Campana (1808-1880), conosciutissimo anche in Francia in quanto nel 1851 sposò l’inglese Emily Rowles, la cui famiglia era legata al principe Carlo Luigi Bonaparte, futuro Napoleone III. Appassionato cultore di archeologia il Campana scriveva, nel 1842, di se stesso: “… di conforto e sollievo dalle non sempre liete vicende mi è lo specchiarmi tra le venerande ruine, e l’invida polvere che li ricopre, i sepolti trofei dei trascorsi tempi delle glorie italiane.” Tanto si lasciò ammaliare dal fascino dell’archeologia che nel 1857 fu arrestato e processato per malversazione e peculato. Il Governo pontificio per sanare il deficit di un milione di scudi (circa 10 milioni di euro attuali), accumulato dal Campana stornando i soldi dal Capitale del suo istituto per acquistare antichità, mise all’asta la sua immensa Collezione che finì smembrata e dispersa fra vari musei europei. I reperti di Tuscania furono acquistati dal Louvre, due coperchi di sarcofagi fittili in seguito finirono uno nel Museo di Avignone (n° inv. S90) e l’altro in quello di Cambrai (n° inv. SMD 15), dove sono tuttora esposti. Singolare fu la vicenda legata a quello conservato nella lontana cittadina del dipartimento francese del Nord, a pochi km dal Belgio: fu scoperto nel dicembre del 1838 negli scavi della necropoli del Carcarello in una tomba contenente altri undici sarcofagi fittili e descritto da Otto Jahn “…in altri sepolcri erano stati scoperti lungo l’inverno dodici sarcofaghi in terracotta… uno solo si distingue per buon lavoro e

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mostra due delfini che fiancheggiano un vaso.” Il lotto venne poi acquistato dal Marchese Campana ed inserito nel suo Catalogo delle terrecotte in cui si legge “ figura virile al vero con corona in mano semigiacente sopra sarcofago ornato da due delfini.” Eclissatasi la stella del Campana il reperto entrò al Louvre nel 1862 e fu esposto nella Salle Lacaze dove vi rimase fino al 1937 quando il solo coperchio fu mandato in “deposito” a Cambrai per rimpinguare le collezioni locali che durante l’occupazione tedesca nel primo conflitto mondiale erano state spoliate di un terzo degli oggetti presenti. In questo ultimo tragitto la cassa con delfini sembra essere scomparsa in quanto non più rintracciabile da documenti d’archivio (probabilmente è “dispersa” negli immensi depositi del Louvre). Infine nel 1872 il British Museum acquistò due pezzi di oreficeria, una fibula ed una corona funeraria, ritrovati a Toscanella (forse nella necropoli di Ara del Tufo) e venduti al Campana in data imprecisata. Dopo la morte di Carlo Campanari, e fino alla nuova epoca d’oro degli scavi del Cerasa, i ritrovamenti di tombe etrusche a Tuscania sembrano quasi cessare; forse la confusione politico-amministrativa che seguì il dissolvimento dello Stato Pontificio con la presa di Roma indusse molti scavatori a prendersi una pausa di riflessione in attesa di vedere l’evolversi del nuovo corso storico. Fu proprio in quegli anni, tra il 1866/68, che si concluse la vicenda legata alla dispersione del contenuto della monumentale tomba Vipinana scoperta dai Campanari nel gennaio del 1839 nella necropoli del Carcarello di cui Domenico informa August Kestner (1777-1853), il diplomatico e collezionista d’arte tedesco che fondò l’ Istituto di Corrispondenza Archeologico: “ Nei miei scavi di Toscanella si è scoperto un sepolcro singolarissimo e dl più grande interesse…. All’interno della camera apparvero più di venti sarcofagi, con bassorilievi ed iscrizioni, e sui coperchi vi sono rappresentati altrettante figure giacenti… gli oggetti che vi sono stati trovati sono pure curiosi… vi si rinvennero varie trombe di bronzo, alcuni pezzi di corazze e i soliti vasellami di bronzo e di coccio… per ciò se Ella o qualche altro amatore dell’antichità volesse osservare il tutto nella faccia del luogo, io non rimuoverei gli oggetti, che dopo la loro visita…” Alcuni giorni dopo, il 10 febbraio 1839. lo scavatore di fiducia dei Campanari, Paolo Sarnani, o Sormani, torna sull’argomento comunicando: “… si discuoprì un sarcofago di peperino con bassorilievi assai accurati… è cura degli archeologi di decifrare il soggetto e vi sono anche alcune parole incise sulla pietra e scritte con colore rosso. La grotta non è ancora finita causa la caduta della volta.” L’iscrizione in questione è quella che si riferisce ad Arnth Vipinanas di Setrhe (figlio) pertinente ad uno dei tre sarcofagi che verranno acquistati da Francis Cook.. Alcuni dei 27 sarcofagi rinvenuti furono venduti al British Museum ed ai Musei Vaticani, due finiranno in seguito al Museo di Firenze ceduti dal Cerasa insieme all’altorilievo frontonale della Lasa Vipinana, i restanti rimasero ammassati nel Giardino Campanari a Toscanella. Fra questi vi erano i tre che Domenico Campanari provvide a vendere ad un facoltoso collezionista portoghese così come risulta da un istanza dell’Ambasciata portoghese al Ministro del Commercio e dei Lavori Pubblici dello Stato Pontificio del novembre del 1866: “Il Signor Payant ha acquistato dal Signor D. Campanari tre sarcofagi antichi etruschi con coperchi di peperino, per essere spediti a Lisbona via mare…. Mancherebbe ora che la Commissione di antichità di Civita Vecchia, ove trovansi i sarcofagi, verificasse che i sarcofagi che

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ora voglionsi inoltrare a Lisbona sono precisamente quelli già dal venditore Sig. Campanari esonerati dal vincolo del Governo.” Nonostante questa esortazione passano ancora alcuni mesi a causa di qualche contrattempo e la definitiva spedizione avviene solo verso la fine del 1867 quando i tre sarcofagi Vipinana entrano in possesso di Francis Cook (1817-1901), ricco mercante britannico e collezionista d’arte nonché 1°Visconte di Monserrate che provvede a sistemarli(1868) nel parco della sua villa a Sintra, nei dintorni di Lisbona. Vi rimasero fino al 1983 quando una frana causata da una violenta pioggia trascinò via uno dei sarcofagi, che da allora risulta mancante del coperchio mai più ritrovato. Le autorità locali provvidero allora a trasferirli presso l’Antiquarium di Sintra dove sono tuttora esposti. Una vicenda questa che rappresenta l’esempio più chiaro e significativo di quanto le norme che tutelavano il patrimonio artistico dell’epoca erano del tutto inappropriate e inefficienti in quanto prestavano il fianco ad una serie infinita di sotterfugi e di lacune che permettevano la vendita indisturbata, e tollerata, di oggetti antichi e la definitiva dispersione di interi contesti archeologici la cui storia è stata possibile ricostruire soltanto ai nostri giorni.

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I MARCHESI LAVAGGI, SIGNORI DI MONTEBELLO Ma chi era questa nobile famiglia di latifondisti interessata agli scavi archeologici? A dispetto del cognome così poco altisonante il Casato dei Marchesi Lavaggi di Montebello ha una storia di grande prestigio nel panorama dei blasoni nobiliari di quel periodo e anche se addentrarsi nei meandri della genealogia è sempre cosa ardua e faticosa i risultati ottenuti possono dirsi più che lusinghieri. Le origini della casata sono da ricercare a Genova e più precisamente a Portovenere dove nel 1089 si può collocare il suo capostipite nella figura di Gandolfo Lavaggi. Nella città ligure prosperò ed ebbe ruoli di primissimo piano nella vita sociale ed economica di quella città a partire dal 1410 quando un certo Giachetto( o Giacomo) Lavaggi entrò a far parte dell’influente famiglia degli Interiano dove troviamo Guglielmo e Tobia Lavaggi Interiano intorno al 1430. Fu proprio in quegli anni che Giovan Giorgio Lavaggi si trasferì a Palermo dando origine al ramo siciliano tuttora esistente. Lucrezia, figlia di Tobia e sorella di Guglielmo, andò in sposa nel 1439 a Luca Grimaldi Ansaldo rafforzando ancor più la presenza dei Lavaggi nel panorama delle grandi nobiltà genovesi imponendosi come rispettati banchieri e notai. Tra il 1500 ed il 1600 spicca la figura di Girolamo Lavaggi, letterato e mistico dell’Ordine degli Agostiniani morto in odore di santità a Genova nel convento di S. Giacomo di Carignano nel 1628. Inoltre si è trovato traccia di un Benedetto Lavaggi che operò come notaio tra Genova e Sestri Levante tra il 1642 ed il 1650. Durante il 1700 tre fratelli Lavaggi, Michele, Gian Agostino e Francesco Maria, si occupano degli affari della famiglia Durazzo ed in particolare delle pratiche di Marcello, Doge di Genova. Nel 1781 il potente finanziere Domenico (1761?-1837) Lavaggi, figlio di Michele morto nel 1829, si trasferì a Roma quale incaricato d’affari della Repubblica Ligure presso la Repubblica Romana: nel giro di un anno divenne una delle figure più rappresentative della vita economica romana arrivando anche a prendere in affitto la Zecca e a comprare Palazzo Cecchini in Via del Vicario che eresse a sua dimora mentre per i suoi affari si servì di un ufficio situato in Via del Corso. In breve tempo entra in società d’affari con i Principi Torlonia venendo così a costituire il più importante binomio finanziario dell’epoca che gli permette, nel 1802, di ottenere l’appalto delle cave di allume di Tolfa. Poi un evento imprevisto condusse la famiglia nel territorio di Toscanella: nel 1805 la Camera Apostolica, ad estinzione di un debito contratto dallo Stato della Chiesa, cedette la Tenuta di Montebello per 100.000 scudi al banchiere Domenico Lavaggi e la contigua Tenuta di Carcarella ai tarquiniesi Bruschi-Falgari. Poco dopo il 20 dicembre 1805, il Pontefice Pio VII eleva la tenuta a Contea costituendo di fatto il blasone della famiglia che da quel momento entra a far parte del Patriziato Romano dove acquista sempre più credibilità tanto che nel 1823 al Conte di Montebello Domenico Lavaggi viene conferito un titolo onorifico addirittura dal Re di Spagna Carlo III: “…certifico que boy dia de la fecha he armado Caballero y condecorado con la ynsignia de la Real y Distinguida orden Espanola de Carlos III à Domingo Lavaggi, Conde de Montebello…”

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Nel frattempo i Lavaggi acquistano dal Buon Governo le miniere di allume della Tolfa rafforzando ulteriormente il loro status sociale puntualmente confermato dal prestigio ormai assunto dal Conte Lavaggi in seno alla nobiltà romana tanto che artisti e studiosi iniziano a dedicargli le loro opere come avvenne nel 1820 quando Pietro Paolo Montagnani presentò la prima “guida” delle antichità del Museo Capitolino. Inoltre pochi anni dopo, l’8 giugno del 1833, Gregorio XVI erige in Marchesato la Contea di Montebello e concede il titolo di Marchese a tutti gli appartenenti della famiglia Lavaggi. Alla morte di Domenico, al quale Vincenzo Campanari, suo ottimo amico, dedicherà il famoso poemetto in 101 versi “ La caduta della Marta presso la Città di Toscanella.”, subentra il nipote Michele, figlio di Francesco Maria, ereditandone l’immenso patrimonio che gestirà fino al 1829, anno della morte. Questi sposerà Giulia dei Principi Chigi nel 1822 dalla quale avrà Francesco Saverio e Ignazio, nato nel 1826 che prenderà a sua volta in moglie la nobile bolognese Contessa Maria Rosa Marescalchi (1835-1899) nipote di Ferdinando Marescalchi, Ministro degli Esteri di Napoleone Bonaparte e che annoverava fra i suoi antenati anche Papa Gregorio XIII. Dalla bellezza imponente ma con un carattere molto spigoloso era tuttavia apprezzata a Corte dove già dal 1866 figurava fra le Dame di Compagnia romane della Principessa e poi Regina Margherita di Savoia dalla quale era molto amata: un affettuosa amicizia talmente profonda e ricambiata che le due donne si davano del “tu”! Un privilegio concesso a pochissime persone della Corte Reale. Dopo un incontro a Palazzo Giulia Bonaparte così la descrisse nei suoi diari: ”… en 1866 au Quirinal une superbe cariatide du trone, la plus belle de son temps”. Mentre nel 1875 Giuseppe Napoleone Primoli, nipote di Luciano Bonaparte, così ne parla: “… la bella Marchesa Lavaggi tutta in raso nero ornato di perle...” La sorella di Rosa, Carlotta Giovanna Maria Matilde (1849-1900), andrà in sposa nel 1865 al già nominato Francesco Bruschi Falgari che oltre a divenire cognato di Ignazio Lavaggi condivise con lui anche la “passione” per gli scavi archeologici… ed il confine della sua Tenuta della Carcarella (circa 1400 ettari) che da tempo legava le due famiglie, già a partire dal 1808 quando stipularono un accordo per “ abbeverare il bestiame della Tenuta Carcarella nel fontanile S. Lorenzo posto nella Tenuta Montebello.” e nel 1815 quando fu rogato un atto che decretava “ la liberazione della Tenuta Montebello da qualunque servitù di pascolo a favore del Conte Lavaggi.” Ignazio si occupò della tenuta con oculatezza e solerzia per quasi cinquant’anni mantenendosi in disparte dal fastoso mondo aristocratico, un po’ per carattere, un po’ per le terribili disgrazie familiari; un cronista della sua epoca dice di lui: “ Il Marchese Lavaggi è la bontà personificata anche se profondamente intristito dalla morte dei figli, strappati uno ad uno nel fiore dell’età…” Fu anche Consigliere Comunale di Roma nel 1883 e Socio della Società Geografica Italiana nel 1894 ed era presente, dal 1878 al 1911, nel Comitato Centrale della Croce Rossa Italiana. Morì nel 1912. Con Ignazio però si esaurisce la linea diretta dei Lavaggi: i figli maschi, come accennato, non gli sopravvivono e le sue due figlie Maria (1859-1936), anch’essa Dama di Palazzo della Regina nel 1907 e Giulia, del 1863, andranno rispettivamente in spose a Giulio Grazioli Lante della Rovere, Barone di Castel Porziano (le nozze sono del 1883), e al Marchese Ing. Carlo Centurione Scotto, esponente anch’esso del patriziato genovese e Senatore del Regno nel 1934, proprio nello stesso periodo in cui

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lo era anche il nipote di sua suocera Arturo Marescalchi. Egli si assunse l’onere di gestire la Tenuta di Montebello attuando una vasta e capillare bonifica che gli valse l’onorificenza della Stella al Merito Rurale nel 1933 per aver trasformato un semplice feudo in una fiorente azienda agricola. Non possiamo fare a meno di sottolineare che il legame di parentela fra i Lavaggi e i Centurione Scotto non era una novità: già addirittura agli inizi del 1500 una Brigida Lavaggi Interiano (pronipote di Giachetto) aveva sposato tale Antonio Centurione, Conte di Lavagna! Alla morte di Carlo, nel 1937, in mancanza di discendenti diretti la tenuta viene ereditata dalla marchesa Marcella Grazioli Lante della Rovere (1892-1968), la seconda figlia di Maria Lavaggi, che l’amministra fino all’espropriazione da parte dell’Ente Maremma negli anni cinquanta. Con la scomparsa dell’ultima “Signora di Montebello” si dissolve anche il feudo dei Lavaggi mentre la storia della famiglia ha una sua continuità nel ramo dei Guglielmi, Marchesi di Vulci e grandi collezionisti di antichità etrusche (subentrarono infatti alla società Candelori-Campanari negli scavi di Camposcala) poiché l’altra figlia di Maria, Anna Grazioli Lavaggi, sposa Giorgio Guglielmi (1879-1945) anch’esso divenuto Senatore del Regno nel 1929, dando vita, così, alla generazione dei Guglielmi Grazioli Lante della Rovere tuttora viventi. Del nobile passato di questa famiglia oggi rimangono solo gli stemmi araldici presenti nelle mura del Casale di Montebello e nelle vetrate della piccola chiesa adiacente ed i loro Palazzi residenziali in Roma muti testimoni di molta storia, antica e recente, passata per le loro stanze come per il Palazzo Lavaggi Guglielmi in Via Uffici del Vicario dove i Marchesi sbrigavano i loro affari ed oggi sede degli uffici amministrativi della Camera dei Deputati, o quello situato in Corso Vittorio Emanuele II voluto da Francesco Saverio fra il 1886 ed il 1888 e ora divenuto “Hotel Tiziano”. Le spoglie mortali dei primi Marchesi Lavaggi riposano presso la chiesa dell’Arciconfraternita delle Santissime stimmate di S. Francenco del rione Pigna in Roma, nei pressi di Largo Argentina. Un blasone nobiliare, quindi, di altissimo profilo quello dei Lavaggi anche se non di antica acquisizione che permetterà a questa famiglia di entrare giocoforza nella storia degli scavi archeologici di fine ottocento anche in virtù della parentela e degli interessi comuni creatisi con i Bruschi Falgari e i Guglielmi e dei vasti possedimenti costellati da necropoli etrusche.

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IL TERRITORIO DI MONTEBELLO NELL’ANTICHITA’ Situato a circa 15 km da Tuscania, il complesso orografico di Montebello è una località a stretta vocazione agricola, oggi come nell’antichità. Nonostante ricada nel territorio comunale di Tuscania, essa in realtà è molto vicina a Tarquinia e, soprattutto, vicinissima all’area della Tarquinia etrusca ubicata su Pian della Civita, dalle cui propaggini meridionali dista soltanto 4 km in linea d’aria. Fin dalla più remota antichità questa località non mostra, come accennato, un’ antropizzazione marcata, piuttosto la presenza umana ha una distribuzione a “macchia di leopardo“ concentrata soprattutto sui pianori o sulle piattaforme tufacee di mezza costa prospicienti il fiume Marta o gli affluenti secondari, quali l’Infernetto ad ovest e la Mignattara ad est. Faceva poi da corollario a questa polarizzazione lungo una via fluviale tutta una serie di piccoli aggregati-satelliti di modestissime dimensioni deputati allo sfruttamento agricolo il che contribuiva a rendere ancor più disomogeneo il quadro demografico della zona. Tuttavia tutta questa area rappresentò per secoli un vitale “trait- d’union” fra la potente lucumonia di Tarkna e l’immediato entroterra dove prosperava l’importante centro di Tuscania fatto, questo, attestato da un continuum abitativo e da una discreta densità d’occupazione a partire dall’età del Bronzo finale avente una struttura socialmente organizzata attorno a gruppi gentilizi con connotati di autonomia ma pur sempre gravitanti sul centro maggiore (Tarquinia o Tuscania). In una carta topografica del Patrimonio di San Pietro del 1802, desunta da più antiche fonti, quali ad esempio le tavole pontificie del 1536, 1547, 1636, 1657 e del 1750, si evince chiaramente che la direttrice viaria per Tuscania, passaggio obbligato per l’Etruria settentrionale transtiberina, aveva il suo snodo cruciale presso la località di Guado della Spina che già per sua etimologia ha sempre rappresentato uno dei pochi luoghi dove fosse possibile attraversare il Marta con una via di comunicazione e dove la presenza di un cospicuo numero di insediamenti rurali è certificata da evidenze archeologiche. Già nel periodo Villanoviano, testimoniato in questa zona da ritrovamenti di cippi sepolcrali decontestualizzati, si era sviluppato un discreto abitato in piena età del Bronzo, da ricercarsi presso Poggio Quagliere, con relativa necropoli e che sembra essere stato occupato in forma più o meno continua fino al IV secolo a.C. come ci testimoniano anche le tracce di una strada in direzione di Tuscania e di quella lungo la riva destra del fosso Mignattara, che sembra piegare, piuttosto, verso Norchia. Ma è soprattutto a partire dalla metà del VII secolo a.C. che si sviluppano tutta una serie di insediamenti, con annesse necropoli, peraltro con manifestazioni architettoniche degne di rilievo e quindi pertinenti ad un ceto gentilizio, che vanno ad occupare tutto il transetto settentrionale dell’antico comprensorio di Tarquinia; ben attestati, troviamo infatti, i ragguardevoli insediamenti di Pian della Perazzeta, Poggio Quagliere, Guado della Spina, Poggi Alti, Piano della Selva, Ancarano, San Giusto e Ara del Tufo.

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A confermare la presenza di importanti strutture funerarie in tempi recenti le fotografie aeree hanno permesso di individuare anomalie riferibili a tumuli spianati fra Guado della Spina e Poggio Quagliere e discrete tracce di antropizzazione nei pressi del castello d’Ancarano. Proprio il nucleo abitato di Poggio Ancarano, nella fase orientalizzante ed arcaica, si configura presso la confluenza della Mignattara con il Marta su quei poggi dove il Cerasa agli inizi del ‘900 individuò un tratto di via basolata che dirigeva verso Poggio Quagliere tagliando in due la zona di Guado della Spina e che in prossimità del Poggio Ancarano si sdoppia dando origine a due percorsi distinti: uno a nordest verso Norchia e l’altro in direzione di Tuscania. Ma già nel 1885 il Pasqui aveva individuato l’antica via “… sono visibili tratti sostenuti da cortine lungo la Marta e asud di Monte Quaglieri… si ritrovano tracce di questa importante via tra la Ciuffa e Monte Cervione e per tutta la riva destra del Fosso Mignattaro…” Ciò conferma la vitalità di questa area dove cospicue tracce di presenza antropica coprono un arco cronologico molto ampio che va dal Villanoviano finale fino alla tarda età imperiale. D’altra parte la posizione stessa dei castellacci d’ Ancarano e di Pian Fasciano, con la loro presenza a tenaglia sul passaggio della valle, indica che fin dall’antichità questo luogo ha rappresentato una via obbligatoria di penetrazione interna facilmente controllabile e quindi luogo ideale per lo sviluppo di un insediamento umano. Questa felice posizione geografica è tale che anche nel basso Medioevo, dopo una fase di accertato abbandono a cavallo delle invasioni barbariche e le scorrerie Saracene del IX secolo con un picco massimo nel VI-VII secolo (periodo Longobardo), la gola dell’Ancarano continua ad essere un luogo molto frequentato, come testimoniato anche dalla costruzione delle due fortezze, Ancarano e Pian Fasciano, a protezione del passaggio fluviale e che verranno abbandonate solo alla metà del XIV secolo in seguito ad un devastante terremoto che ne compromise in maniera irreversibile le strutture (1349) come si evince dal Registro Camerale del Cardinale Albornoz del 1364. Con l’epoca imperiale poi si ha un fiorire di ville e strutture connesse con lo sfruttamento intensivo del terreno, fase questa che sembra iniziare verso la fine dell’epoca Repubblicana ed il cui potenziamento non conosce soste fino a tutto il II secolo d.C. Ascrivibili a questo periodo sono un notevole complesso con strutture in opera quadrata, portato in luce dalla costruzione di un capannone agricolo a circa 1.600 mt a SE di Ponte del Diavolo, e a circa 900 mt da questa struttura la presenza di una cisterna rettangolare in calcestruzzo di selce da mettere in relazione forse con i resti di un acquedotto imperiale appena visibile nel settore meridionale di Guado della Spina a circa 500 dal Marta. Poco più a nord fortuiti ritrovamenti, in seguito a lavori agricoli, di frammenti bronzei, monete e materiale fittile a vernice nera, sigillata africana e frammenti di dolio nonché la presenza, in almeno due aree, di porzioni di elementi architettonici lasciano supporre la presenza “in situ” di una notevole villa imperiale con affreschi murari in “rosso pompeiano” e pavimenti musivi a tessere bianche e nere e, pertanto inquadrabile nel I secolo d.C., distante circa 1.200 mt dai resti dell’acquedotto e ubicata a ridosso delle propaggini inferiori della Selva Romana, ad est delle Spalle della Ciuffa. Molto interessante, riguardo a questa struttura, è l’ipotesi, solo apparentemente suggestiva, che nasce dall’analisi di un antica fonte storiografica il “ Pro Cecina“ di

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Cicerone: tutta la zona di Guado della Spina , a cavallo fra l’età Repubblicana e la prima fase Imperiale, potrebbe essere stata parte integrante delle vastissime proprietà terriere pertinenti la Gens Fulcinia, i cui esponenti di rango Senatorio gestivano smisurati latifondi di famiglia che andavano da Castel d’ Asso fino al litorale di Tarquinia città originaria di questa famiglia che, in epoca tardo etrusca, fu proprietaria della tomba dipinta degli Hulchnies di Monterozzi e che vide un suo esponente ricoprire la carica di magistrato a Civita Musarna sul finire del III secolo a.C. A romanizzazione avvenuta, poi, essi continuarono a godere dei loro privilegi economici dopo aver opportunamente latinizzato il gentilizio Hulchnies in Fulcinius. In definitiva, quindi, il quadro generale che si evince dall’analisi dei dati a disposizione ci parla di un area, quella di Guado della Spina, dove l’antropizzazione del territorio non ha mai risentito in maniera particolarmente marcata di quel fenomeno di sinecismo demografico che caratterizzò l’Etruria Meridionale fino a tutto il VII secolo a.C. ma, anzi, mantenne inalterate le sue peculiari caratteristiche di territorio attivo, solcato da almeno due rotte commerciali di notevole importanza. Addirittura, con l’espansione nell’entroterra di Tarquinia nel corso della prima fase ellenistica, tutta l’area assunse gli specifici connotati di direttrice viaria di primaria importanza che consentirono a diversi insediamenti di prosperare fino alla fine dell’Impero Romano. Dopo la sua caduta l’area della valle del fiume Marta divenne un territorio di confine oggetto di controllo durante il VI secolo da parte di Bizantini e Goti e poi fino a tutto l’ VIII secolo nelle pertinenze dei Longobardi. L’impoverimento demografico e commerciale che ne seguì produsse una naturale contrazione verso i due centri incastellati più vicini: Tarquinia e Tuscania anche se, come visto, il successivo rapido incastellamento dei due insediamenti sulla gola del Marta sembra far supporre che questa ristretta area non si spopolò mai del tutto a differenza di quanto avvenne, invece, nel restante territorio di Montebello. Nel 1391 la tenuta di Montebello, insieme a quella di Pian Fasciano, viene concessa a Vittuccio di Giacomo Vitelleschi la cui famiglia ne mantiene l’affitto come pascoli fino al 1453. Nel periodo che interessa la nostra ricerca, ossia il XIX secolo, quest’area geografica era in mano a tre famiglie di nobili latifondisti ossia i Falzacappa, i Bruschi-Falgari e i Lavaggi che amministravano questi vasti possedimenti ricorrendo anche all’antico strumento del matrimonio d’interesse. In precedenza, fino alla fine del 1700, questo territorio era suddiviso fra le famiglie dei Consalvi, dei Turriozzi, dei Fani e dei Persiani (il futuro suocero di Vincenzo Campanari) ed era di proprietà della Camera Apostolica, come si evince da una divisione catastale del 1777. Già accennato alla parentela acquisita tra i Lavaggi e i Bruschi, segnaliamo in questa sede come anche i Falzacappa, la cui Tenuta di Montequagliere confinava con quella dei Lavaggi all’altezza del Fosso della Leona, fossero strettamente imparentati con i Bruschi per via di due matrimoni: le nozze di Ascanio Falzacappa, fratello di Raniero Prefetto dell’Annona in Corneto, Viterbo e Monte Falisco dal 1777, con Agnese Bruschi nel 1781 e quelle tra Anna Falzacappa e Agapito Bruschi del 1800.

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Carta topografica del territorio di Montebello dell’anno 1592. Carta topografica con il territorio di Montebello, anno 1592.

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Mappa topografica territorio Montebello del 1696

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LA GRANDE RAZZIA: I NUMERI DI UNA CATASTROFE. Secondo una recente inchiesta della rivista inglese Trace, il traffico d’arte è, dopo la droga, l’affare che rende di più alla malavita. Un traffico che, soprattutto se riguarda i reperti archeologici provenienti da scavi clandestini, è diventato un vero e proprio business internazionale gestito dalle archeomafie che ha raggiunto cifre da capogiro. L’ex Comandante dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale (TPC), Gen. Roberto Conforti, a tal proposito afferma che la cifra prodotta da questa filiera criminale ha raggiunto quota 84 milioni d'euro annui. L’apertura delle frontiere, inoltre, ha favorito il carattere transnazionale del traffico d’arte ed il saccheggio viene pianificato anche con la complicità di personaggi insospettabili legati a prestigiose case d’asta, quali Sotheby’s di New York,oppure tramite siti internet specializzati come Ebay o Artindex che vendono all’asta beni trafugati. Ad oggi sono ben 2.900.000 i reperti rubati o scavati illecitamente dagli anni sessanta e catalogati dal Reparto Operativo dei Carabinieri dei quali quasi la metà provengono da siti archeologici. Questo fenomeno continua ad avere risvolti preoccupanti nonostante l’impegno profuso dagli organi preposti (Carabinieri e Guardia di Finanza) nell’ultimo biennio, e i dati elaborati dal TPC infatti non sono per nulla incoraggianti se è vero che gli scavi clandestini hanno registrato solo una lieve flessione del 4,16 % in meno rispetto al precedente anno mentre continua a rimanere pressoché invariato il numero delle persone denunciate. I risultati positivi tuttavia non mancano: solo nel 2012, ad esempio, sono stati recuperati oltre 60.000 reperti archeologici destinati al mercato illegale, dove sono gli Stati Uniti ad essere i maggiori referenti con una quota di mercato pari al 40%. Non possiamo però dimenticarci delle ingenti quantità di manufatti antichi che svaniscono nel nulla per riapparire infine in qualche lontano museo o nella collezione privata del miliardario di turno. L’archeologia rubata o svenduta fa mostra di sé nei più famosi Musei del mondo anche se ultimamente sono iniziate delle rogatorie internazionali che hanno costretto vari musei d’oltreoceano a dotarsi di un codice deontologico per non acquistare più oggetti di dubbia provenienza. Ad essere colpita maggiormente da questo fenomeno è naturalmente l’Italia, campo d’azione di schiere di tombaroli che imperterriti continuano a saccheggiare centinaia di tombe, ville e antichi insediamenti devastando siti importanti e procurando un danno irreparabile per la conoscenza della nostra civiltà, delle nostre radici storiche e culturali. Le regioni più colpite sono la Sicilia, la Puglia e naturalmente il Lazio dove nacque e si sviluppò la civiltà etrusca e dove, soprattutto nell’ Alto Lazio ossia nel nostro territorio, vi è una fitta presenza di necropoli e vestigia etrusco-romane. Dal colossale giro d'affari illegali ovviamente sono stati inghiottiti anche migliaia di reperti strappati alle necropoli tuscanesi, comprendenti vasellame, ori, argenti, bronzi, monete, sarcofagi e terrecotte architettoniche, e dei quali per larghissima parte non sapremo mai più nulla poiché risulta sempre più difficile riuscire a rintracciare documenti e foto di reperti legati al nome della nostra città.

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L’intensa attività del TPC, secondo il suo nuovo Comandante Generale Mariano Ignazio Mossa, porterà a breve notevoli frutti in quanto l’aumento dei controlli delle aree archeologiche e di certe attività commerciali, quali mostre, mercati d’antiquariato e sui cataloghi delle più importanti case d’asta, anche on-line, dovrebbe garantire un efficace filtro teso a scoraggiare il saccheggio archeologico e dati alla mano del 2013 attualmente gli scavi clandestini sono diminuiti del 29% rispetto al 2011. Tuttavia, ad oggi, lo sterminato elenco di “desaparecidos” dell’arte antica continua ad avere proporzioni agghiaccianti se è vero che nella Banca dati dei Beni Culturali illecitamente sottratti siamo arrivati all’iperbolica cifra di 3.900.000 oggetti segnalati. Fra i tanti reperti archeologici rinvenuti a Tuscania che riempiono le vetrine dei più famosi musei del mondo, spicca sicuramente l’ingente numero dei sarcofagi in terracotta ed in nenfro restituiti dalle necropoli etrusche del nostro territorio. Quattro arche di produzione Tuscanese sconosciute ai più, databili fra il II ed il I secolo a.C. e probabile frutto di scavi clandestini, rappresentano l’esempio più calzante per avere una chiara idea sulla dispersione del nostro patrimonio archeologico: il primo, un coperchio fittile con figura femminile recumbente, è conservato al Rijksmuseum di Amsterdam, il secondo è alla Sthendhal Galleries di Hollywood: di proprietà del tenore italiano Evan Gorga (1865-1957) che emulò il Campana per la sua ossessione di collezionare antichità: addirittura per conservare la sua immensa raccolta arrivò ad affittare ben dieci appartamenti a Roma per poter alloggiare le sue collezioni! alla sua morte il coperchio in terracotta entrò al Museo Nazionale Preistorico “Luigi Pigorini” di Roma per poi finire alla Stendhal Galleries in cambio di antichità precolombiane (!?) nonostante la ricca collezione Gorga già dal 1929 fosse sottoposta a vincolo amministrativo per scongiurarne lo smembramento. Infine il 7 giugno 2012 questo reperto tuscanese è stato venduto ad un asta da Sotheby’s New York, lotto 20, per 15.000 $. Il terzo è stato recuperato dalla G.d.F. in casa di un facoltoso collezionista elvetico. L’ultimo è esposto alla State College Library di San Francisco, struttura che beneficiò per anni della generoso sostegno di Phoebe Hearst. Le seppur scarse documentazioni inerenti questi reperti hanno chiaramente dimostrato la loro dubbia provenienza in quanto assolutamente privi di qualsiasi riferimento temporale e di luogo accertato dello scavo. Soltanto nel caso del reperto oggi in Olanda sappiamo dai documenti d’acquisto “… een sarcofaag deksel uit Valle Vidano, Tuscania…” che proviene da una località Tuscanese chiamata “Valle Vidano”, certamente da identificarsi con Valvidone a causa di un grossolano errore di trascrizione. Infine citiamo un coperchio di arca fittile con figura muliebre conservato al Kurashiki Ninagawa Museum di Kyoto (Giappone), sulle cui peripezie che lo portarono nel paese del Sol Levante non sappiamo praticamente nulla ma che non dovrebbero essere dissimili da quelle che riguardano un altro sarcofago di cui fra poco andremo a parlare! Altri tre sarcofagi dipinti sono conservati presso il Field Museum Di Chicago e furono acquistati agli inizi del 1900 presso l’antiquario romano Alessandro Jandolo. Qualche anno fa una studiosa si è detta convinta che questi tre esemplari sono dei falsi, ma dalla documentazione che siamo riusciti a reperire si evince chiaramente che, oltre a non essere tali, provengono sicuramente dal territorio di Tuscania: in una lettera dello Jandolo indirizzata al magnate americano Edward Ayer (1841-1927) vi è il seguente passo: “ Ricordo benissimo i tre sarcofagi in tufo da Ella acquistati.

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Riguardo la loro provenienza furono da mio fratello Antonio comprati a Toscanella, in concorrenza dell’antiquario Saturnino Innocenti e l’epoca in cui furono trovati fu di pochi mesi avanti che lei ne facesse acquisto da me. Essendo morto il mio povero fratello non sò dirle il nome di chi glieli vendette… “ Come tacere di uno specchio del tipo “spiky garland” segnalato dal Gerhard e ritrovato negli scavi del 1834-36 a Toscanella dove “…è stato discoperto un sepolcreto contenente molte casse mortuarie di creta con soprapposte figure degli spenti in grandezza naturale… e molti specchi di buona fattura”. In esso vi era incisa una scena della saga troiana dove sono presenti Menelao, Diomede, Elcnestra e Palamede…. Vi era incisa poiché di questo manufatto di squisita fattura si sono perse le tracce. L’ultimo a vederlo fu proprio il Gerhard a cui fu portato di persona nel 1865 direttamente da Toscanella proveniente dalla collezione dello speziale Lorenzo Valeri. Anche lui inghiottito dal mercato antiquario. Stessa sorte toccò ai tantissimi reperti etruschi recuperati in scavi “minori” compiuti prima dell’epopea dei Campanari e pochissimo documentati come ad esempio quelli compiuti nel giugno del 1829 da Farrocchi e Lucchetti di cui il Gerhard riporta una sintetica descrizione : “…alcuni degli etruschi sepolcri che circondano Toscanella erano ricercati dai sig. can. Gio. Farocchi e Cosimo Lucchetti, i quali arnesi di bronzo avevano d’ivi estratto e qualche gran figura di terra cotta atteggiata in giacitura…” Decine di altre tombe etrusche, i cui corredi sono andati dispersi, furono dissepolte negli scavi compiuti fra il 1829 ed il 1847 dai vari Persiani, Turriozzi, Fani, Pocci, Carletti, Laurenti, Tassoni, Scerra e Ruggeri dei quali ci rimangono solo le richieste di permesso di scavo. Una notevole quantità di dati archeologici e intere pagine di storia andarono perduti per sempre come quel sarcofago in nenfro con figura recumbente ed iscrizione sulla cassa ritrovato nel 1844 dai fratelli Sernani negli scavi condotti in una loro proprietà in vocabolo Carcarello; alla proposta d’acquisto inoltrata alla Camera Apostolica essa così rispose: “ vista la non disponibilità all’acquisto dell’urna si dichiarano i suddetti fratelli liberi di contrattare con chiunque, vista l’osservanza delle leggi e regolamenti… 18 maggio 1844.” Del sarcofago inscritto non si è mai saputo più nulla! Se da un lato vi è la soddisfazione per il buon esito della ricerca, dall’altro non possiamo che rammaricarci per l’irreparabile danno occorso al nostro patrimonio archeologico: il fervore che contraddistinse gli scavi di quel periodo parallelamente alimentò esponenzialmente un florido mercato antiquario dove la maggior parte dei reperti transitò. Centinaia di oggetti furono venduti e poi acquistati legalmente presso case d’asta e quindi ormai di proprietà inalienabile delle rispettive strutture museali o collezionisti privati. Ciascuno di loro avrebbe una storia particolare da raccontare, ma soprattutto di uno vale la pena narrarne la storia, se non altro per focalizzare le strategie adottate per disperdere il nostro prezioso patrimonio archeologico attraverso canali ambigui che travalicano spesso il confine della legalità. Si tratta di un sarcofago fittile d'estrema bellezza e in perfetto stato di conservazione, reca ancora l’originale colore rosso-minio del volto, con coperchio a figura maschile recumbente e cassa anepigrafe attualmente esposto presso il Museum of Classical Archaeology di Adelaide (Australia). Dalla documentazione che la struttura australiana ha gentilmente concesso sono emersi dati importanti ma anche vistose lacune in merito alla provenienza del reperto, per ovviare alle quali è stato necessario convogliare le ricerche sulla casa d’aste più

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famosa del mondo. Proprio partendo dalle informazioni reperite presso la sede londinese, si è finalmente riusciti a dipanare l’intera storia riguardante il predetto sarcofago, databile agli inizi del II sec. a.C. e lungo 175 cm. Questi apparve per la prima volta in pubblico sul finire del 1983, quando viene inserito in un catalogo (Catalogue 12-XII- 1983) per la sessione d’asta del 14 dicembre dello stesso anno e il cui proprietario risultava essere un collezionista privato svizzero che ne era entrato in possesso agli inizi degli anni 60 grazie probabilmente ad uno scavo clandestino operato in una località sconosciuta del territorio di Tuscania avvenuto fra il 1975 ed il 1980. E,’infatti, in questo arco cronologico che si ha un incremento notevole di scavi illegali che porta al saccheggio di moltissime tombe etrusche molte delle quali accoglievano sarcofagi. Per quanto riguarda la località di provenienza possiamo in via ipotetica identificarla con la valle del Maschiolo, oggetto di frequenti scavi clandestini in quel periodo, e dove si affacciano diverse necropoli del periodo tardo-etrusco a cominciare da quella di Pian di Mola dove venne scoperta la tomba dei Treptie, contenente numerosi sarcofagi in terracotta, per finire sul versante opposto, con quella della Peschiera dove nel 1979, in seguito ad un tentativo di scavo clandestino, fu riportata alla luce la tomba Dore contenente anch’essa esemplari di sarcofagi fittili, Nella seduta d’asta svoltasi a Londra il reperto è acquistato da un mercante d’arte di Melbourne per 80.000$, quindi il nuovo proprietario ne dispone il trasferimento a New York dove al suo arrivo viene sottoposto ad una nuova stima e dotato di un certificato di assicurazione pari a 350.000 $. Ai primi di gennaio del 1984 il sarcofago lascia il Caveau di Lexington Avenue diretto a Singapore dove è “sdoganato” dal suo acquirente nel marzo dello stesso anno per essere trasportato in quel di Melbourne. Agli inizi del 1985, infine, lo sballottato reperto entra a far parte delle collezioni del museo d'Adelaide. Sorge spontaneo il dubbio che tutta questa trafila, apparentemente inspiegabile, fatta di due anni di spostamenti attraverso svariate migliaia di chilometri, sia solo servita a rendere “pulito” il frutto di uno scavo illegale grazie anche all’inconsapevole (?) complicità di una famosissima casa d’aste. Chiunque abbia modo di consultare l’Antiquities Catalog Desk della nota casa d’aste ed il relativo elenco degli oggetti ivi presenti, ha la sgradevole sensazione di essere al cospetto della più grande ed efficiente “lavatrice” di capolavori d’arte e tesori archeologici sulla cui provenienza molto spesso si glissa con un aplomb disarmante. Tornando però al protagonista di questa vicenda, va detto che l’attuale direttrice del museo, ha tenuto a sottolineare che il nostro sarcofago è oggi l’attrazione principale del museo da lei diretto: numerose sono le gite scolastiche che giornalmente si soffermano davanti allo splendido reperto. Inoltre è materiale di studio per tutti i laureandi in archeologia nonché parte integrante di tutti i programmi didattici del corso di storia dell’arte. Suo malgrado il nostro (poco) fortunato antenato è divenuto, in pratica, ambasciatore della nostra storia e della nostra cultura nella lontana terra dei canguri dove troneggia fiero e solitario in una sala tutta per lui con lo sguardo rivolto ad occidente, verso i luoghi in cui in un tempo lontano visse e morì. Nella fissità delle sue aristocratiche pupille, tuttavia, sembra di scorgere un velo di nostalgia per quei verdi e silenziosi poggi dai quali fu strappato un giorno!

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In questa sede vogliamo segnalare anche di un altro sarcofago fittile di origine tuscanese: sfogliando un catalogo online di una famosa casa d’aste italiana, ci siamo casualmente imbattuti in un bel coperchio di sarcofago fittile di III – II secolo a.C. con figura maschile recumbente lungo 193 cm., con tracce di colore rosso sugli arti e di bianco sulla kline. La seduta d’ asta in cui è stato proposto risale al 27 ottobre del 2009 e la base di partenza era di 20.000 euro con la specifica che il pezzo era corredato da certificato di spedizione temporanea. Tuttavia nella suddetta sessione il nostro reperto non ha solleticato il desiderio d’acquisto di nessuno dei partecipanti, ed il lotto è rimasto invenduto. Dopo aver provveduto a contattare la direzione della Casa d’Aste per chiedere informazioni più dettagliate, si è venuti a sapere che il coperchio è in deposito presso una Casa d’aste tedesca ed ha un proprietario italiano. Dopo essere stato riproposto all’asta a Firenze il 19 giugno 2013, (lotto 314) con stima 12.000/15.000 euro, per questo coperchio fittile la Soprintendenza ai Beni Archeologici della Lombardia ha manifestato l’intenzione di avviare il procedimento di vincolo ai sensi del D. Lgs. 42/02. Meglio tardi che mai….. Fra i reperti di ceramica figurata provenienti da Tuscania spiccano due vasi attici, uno conservato presso la Biblioteca Nazionale di Parigi nel Cabinet des Mèdailles e l’altro al Fine Arts Museum di Boston. Il primo è un Hydria attica a figure nere della metà del VI sec. a. C. firmata dal pittore Euphiletos e dal vasaio Pamphaios recante una scena dove sono presenti Ercole, Atena e Iolao, arrivata a Parigi intorno al 1870, con la probabile intercessione dell’Helbig, di cui si ignora la necropoli di provenienza; il secondo esemplare è invece una Oinochoe attica a figure rosse, alta 24.5 cm, con scena mitologica (forse Oreste che uccide Clitemnestra?) acquistata dal Museum of Fine Arts di Boston il 24 marzo del 1903 da Edward Perry Warren, uno scrittore e collezionista d’arte americano che aveva ottenuto il vaso da Francis Bartlett (1836-1913), stimato avvocato bostoniano e per alcuni anni Direttore del Fine Arts Museum, dichiarandone la provenienza da Toscanella. La prima parte della storia che riguarda quello che chiameremo il “Vaso di Boston” ci è sconosciuta ma è sicuramente legata a doppio filo alla figura dell’archeologo tedesco Wolfgang Helbig che sul finire dell’800 era notoriamente conosciuto come agente d’intermediazione per conto di collezionisti privati ed istituzioni museali estere dalle quali era incaricato di rintracciare e negoziare la vendita di oggetti d’antichità di pregio. Altrettanto noto è il fatto che l’Helbig conosceva benissimo Toscanella avendola visitata varie volte, soprattutto fra il 1863 ed il 1870, ed ancor meglio conosceva la Collezione di reperti etruschi posseduta dallo Speziale di Toscanella, Lorenzo Valeri, più volte visionata di persona come egli stesso scrive nel 1866: “…nella sceltissima collezione del Signor Valeri vidi una coppa emisferica... ed una bella statua di nenfro…” Ed ancora nel 1869 annotava: “…A Toscanella il Signor Lorenzo Valeri continua a fare acquisti… nel suo magazzino specialmente due vasi mi parevano degni di nota…” Dopo essere stato per anni una figura eminente dell’ Istituto Germanico di Corrispondenza Archeologica per sopraggiunti dissapori interni ruppe definitivamente ogni rapporto con l’istituto ma, se pur da privato cittadino, residente a villa Lante sul Gianicolo, continuò a occuparsi di archeologia in maniera non meno intensa di prima. Amico già dagli anni Settanta di L. Dasti, sindaco di Corneto-

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Tarquinia, ottenne la cittadinanza onoraria per la consulenza offerta nelle grandi imprese di scavi condotte per conto del Comune. Nel 1887, dopo la morte di Dasti (1886), gli successe in qualità di ispettore onorario agli scavi di Tarquinia. Tenuto l'incarico fino al 1899, l'Helbig vi investì molte energie, come dimostrano le sue relazioni pubblicate in Notizie degli scavi. Fu in questo periodo che rafforzò ancor più il sodalizio con l’amico di vecchia data Francesco Martinetti (ricordate?) con il quale intensificò la vendita di reperti antichi ai più importanti musei del mondo e gli permise di fare la conoscenza del ricco mecenate danese Carl Jacobsen. Nel 1887 l'incontro con Jacobsen fece dell'Helbig, con un onorario annuale di 5000 franchi, il più importante consulente e mediatore nell'acquisto di sculture e oggetti antichi che questo fabbricante di birra danese stava raccogliendo per formare la gliptoteca di Ny Carlsberg. Nel corso di vari anni giunsero così a Copenaghen oltre 1000 oggetti, fra cui l'importante collezione di ritratti romani appartenuta al conte M. Tyskiewicz e materiali etrusco-italici che costituirono il nucleo del reparto intitolato Helbig Museet. Fra di essi vi erano un frammento scultoreo in nenfro di zampa di leone sopra testa umana ed un sarcofago sempre in nenfro provenienti da scavi ottocenteschi compiuti a Tuscania e acquistati dall’Helbig nel 1907 (numeri d’inventario: HIN 0250 e HIN 0258) L’ intraprendente archeologo tedesco morì a Roma il 6 ottobre del 1915 e fu sepolto nel cimitero acattolico alla Piramide di Cestio. Alla luce di questi fatti è quindi molto probabile che l’Helbig acquistò l’Oinochoe a Toscanella dal Valeri, o dai suoi eredi, che tramite il Martinetti finì poi nelle mani del Bartlett. A tal proposito occorre sottolineare come l’Helbig fosse da tempo in stretto contatto con gli Stati Uniti come dimostra la corrispondenza fra lui e Henry Gurdon Marquand (1819-1902), il banchiere americano fondatore e Direttore del Metropolitan Museum di New York che si avvaleva, in Italia, dei servigi di A. L. Frothingham (guarda caso…). Una lettera del 1895 scritta dall’Helbig e indirizzata a Marquand, in cui si parla di transazioni legate alla compravendita di oggetti antichi, che ci fornisce dati utili a ricostruire un interessante quadro di un florido mercato antiquario che gravitava intorno alla Roma borghese ottocentesca interessata al collezionismo di reperti archeologici: “… la ringrazio per le 32.200 Lire… sfortunatamente non ho ancora potuto pagare mister Frothingham come avevo in precedenza detto… avete concluso la transazione molto bene… il Martinetti ha ridotto il prezzo ed avete anche risparmiato sulle spese riguardanti l’accordo… le spese per l’esportazione devono essere divise tra Voi e i proprietari.” Molto più chiara, in quanto ben documentata, è invece appunto la seconda parte della vicenda che portò l’Oinochoe nel Museo americano; siamo agli inizi del XX secolo, quando Francis Bartlett, proprietario di una notevole collezione d’antichità italiche, incontra Edward Robinson (1858-1931), all’epoca dei fatti Direttore del Museo di Boston, il quale poi scrive così a Warren il 5 gennaio 1900: “ Grandi notizie stanno arrivando per rallegrarci! Mr Frank Bartlett è entrato nel mio ufficio l’altro giorno e ha annunciato le sue intenzioni di dare al Museo 100.000 dollari da destinare all’acquisto di oggetti originali per il nostro Dipartimento di Antichità classiche…

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mi ha chiesto di stendere un modello di lettera per l’occasione… e ha disposto che sarai tu ad occuparti della faccenda… nella sua collezione vi è un vaso greco eccezionale che da tempo gli vado chiedendo.. “. Warren si mise subito all’opera e con i soldi a disposizione di Robinson poco tempo dopo acquistò il vaso di Toscanella direttamente dal Bartlett per rivenderlo poi, nel 1903, al Museo stesso. A confermare l’episodio riportato da Warren ci viene in aiuto un altro documento che lascia spazio però ad un dubbio: dal necrologio di Francis Bartlett, pubblicato dal New York Times il 25 settembre 1913, apprendiamo che egli “..anni addietro donò al museo di Boston una bellissima collezione di antichità, valutata 1.000.000 di dollari e che includeva un vaso di 500 anni prima di Cristo (… and one vase made five centuries before Christ ). Il “vaso” in questione era proprio l’ Oinochoe proveniente da Toscanella! Ma non fu “donato” da Bartlett, poiché questi l’aveva già venduto a Warren: in poche parole il ricco avvocato prima pensò a riempirsi le tasche e poi a passare da munifico benefattore!! Il nostro viaggio si chiude dove era iniziato, ossia negli Stati Uniti. Un cammino nella memoria e per la memoria che è ben lungi dall’essere definitivo, nel complicato tentativo di ridare vita ad oggetti millenari che uomini posero a perenne ricordo dei loro cari e che altri uomini ritrovarono sondando con bramosia la terra. Ancora oggi sembrano risuonare, come un triste presagio, quelle parole etrusche graffite su un vaso rinvenuto in uno scavo: “En minipi capi. Mi nunar.” “ Non portarmi via. Io ti prego”.

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