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a cura di CHIARA COSTA, VALENTINA VALENTE, MATTIA VINCO ARTE TRA VERO E FALSO Atti delle Giornate di studio Padova 7-8 giugno 2010 Università degli Studi di Padova Scuola di dottorato in Storia e critica dei beni artistici, musicali e dello spettacolo
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Vero o Falso? L'anastilosi. Un caso nella Sardegna degli anni Venti, in Arte tra Vero e Falso, atti delle giornate di studio, Padova, 7-8 giugno 2010, a cura di C. Costa, V. Valente

Mar 05, 2023

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INTRODUZIONE III

a cura di

CHIARA COSTA, VALENTINA VALENTE, MATTIA VINCO

ARTE TRA VERO E FALSO

Atti delle Giornate di studio

Padova

7-8 giugno 2010

Università degli Studi di Padova

Scuola di dottorato in Storia e critica dei beni artistici, musicali e dello spettacolo

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INTRODUZIONEIV

Iniziativa finanziata con il contributo di: Università degli Studi di Padova sui fondi della Legge 3.08.1985, n. 429; Scuola di dottorato in Storia e critica dei beni artistici, musicali e dello spettacolo, Dipartimento di Storia delle arti visive e della musica (Università degli Studi di Padova).

Prima edizione: dicembre 2014

ISBN 978 88 6787 341 8

© 2014 CLEUP sc“Coop. Libraria Editrice Università di Padova”via Belzoni 118/3 - Padova (t. +39 049 8753496)www.cleup.itwww.facebook.com/cleup

Tutti i diritti di traduzione, riproduzione e adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresele copie fotostatiche e i microfilm) sono riservati.

L’editore e gli autori sono a disposizione degli aventi dirittonell’ambito delle leggi sul copyright.

Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Storia delle arti visive e della musica - Scuola di dottorato in Storia e critica dei beni artistici, musicali e dello spettacolo.

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Carlo PùlisCi

VERO O FALSO? L’ANASTILOSI. UN CASO NELLA SARDEGNA DEGLI ANNI VENTI

L’anastilosi (dal greco αναστη'λωσις «riedificazione», da αναστηλόω «riedifica-re») è una pratica nata con l’archeologia per cercare di “rimontare” le sparse

parti degli edifici ritrovati durante gli scavi, ma si parla ugualmente di questa tec-nica quando si ricompone un fabbricato con i frammenti originali del manufatto dopo le distruzioni provocate da eventi sismici, come ad esempio si sta cercando ora di fare a L’Aquila, o da cause belliche o attentati, quando le bombe rendono in frantumi un’opera. Spesso è stata utilizzata l’anastilosi, soprattutto in passato, an-che per evitare crolli in strutture pericolanti. Il termine, al giorno d’oggi, indica pe-rò anche la ricostruzione con l’ausilio di metodologie informatiche di ciò che viene recuperato dopo la distruzione, totale o parziale, di un edificio, come si è fatto e si sta continuando a fare anche a Padova nella chiesa degli Eremitani per gli affreschi della cappella Ovetari1 e delle cappelle adiacenti. Sul tempio agostiniano, come tristemente noto bombardato dagli anglo-americani l’11 marzo 1944, era già stata sperimentata la tecnica dell’anastilosi nel ripristino delle sue architetture grazie ai lavori diretti da Ferdinando Forlati tra 1944 e 19512.

Questo metodo spesso è stato utilizzato pure per “spostare” un edificio da un luogo a un altro, smontando la struttura pezzo per pezzo come se si trattasse di una costruzione fatta di grandi mattoncini Lego. Un famoso esempio in ambito italiano è quello della loggetta di Palazzo Venezia a Roma e, per quanto riguarda la rinomanza mondiale, celebre è il caso dei templi di Abu Simbel, quando per creare l’invaso artificiale del lago Nasser sul Nilo, ottenuto grazie alla diga di Assuan, ed evitarne la sommersione, le ciclopiche costruzioni vennero segate in grossi blocchi e spostate a una quota più alta.

Ma allora perché questo argomento si presta a essere esaminato nel contesto di un convegno che si occupa di falso? Innanzitutto la veridicità di un monumento è data dalla conservazione dell’oggetto d’arte nel luogo in cui è stato creato, e possi-bilmente con la medesima funzione per cui è stato ideato, senza alcuna alterazione di come la storicità ce lo ha preservato3: già un restauro in gran parte falsifica que-sto dato, soprattutto quando si tratta di ristrutturazioni di ripristino come quelle tanto in voga nell’Ottocento e in gran parte del primo Novecento. Sono questi la-vori che ci hanno consegnato gli immobili medievali nella veste in cui ora li am-miriamo, spesso frutto di arbitrarie interpretazioni di un fabbricato che in realtà non è mai esistito in tale forma, e con un’idea falsificata dell’Età di Mezzo, creata

1. Andrea Mantegna e i Maestri della Cappella Ovetari. La ricomposizione virtuale e il restauro, a cura di A. De Nicolò Salmazo, A.M. Spiazzi, D. Toniolo, Ginevra-Milano 2006.

2. F. Forlati, Restauro della chiesa degli Eremitani a Padova, in “Bollettino d’Arte”, XXXIII, 1948, 1, pp. 80-84.

3. Cfr. C. Brandi, Teoria del Restauro, Roma 1963, p. 36.

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da miti letterari e pseudo-storiografici4. Alcune volte in anastilosi complete, anche di edifici integri, sono stati comuni gli adattamenti a nuove funzioni, oltre alla pra-tica della sostituzione di parte dei materiali, sia per noncuranza che per riparare i danni causati del tempo. Spesso in passato è stato frequente il mescolamento dei materiali in sede di rimontaggio.

La chiesa di San Pietro di Zuri Il caso specifico di cui mi occuperò è il San Pietro di Zuri5 (figg. 2-3), chiesa ubi-

cata appunto a Zuri, una piccola frazione in comune di Ghilarza, nella provincia di Oristano. L’edificio è molto importante nel panorama artistico della Sardegna sia per i suoi modi stilistici di transizione tra le numerose costruzioni romaniche iso-lane e quelle gotiche già affermatesi nel continente italiano in quegli anni6, sia per l’eccezionalità delle notizie che possediamo su di essa, cioè la sua data di consacra-zione (1291), il nome della committente (Sardinia de Lacon) e soprattutto quello dell’architetto-scultore (Anselmo da Como7).

Dunque il San Pietro, come recita l’epigrafe tuttora presente sulla facciata8, sa-rebbe stato innalzato attorno al 1291 durante il giudicato di Mariano II d’Arborea (regno 1264-1297) e finanziato dalla madre dello stesso, Sardinia de Lacon9, che

4. X. Barral i alltet, Contro l’Arte Romanica? Saggio su un passato reinventato, Milano 2008. 5. Mi sono occupato della chiesa zurese per il mio elaborato di laurea (C. PùlisCi, San Pietro di Zuri, tesi

di laurea in Lettere, Università degli Studi di Padova, relatore G. Valenzano, aa. 2003/2004). La bibliografia sull’edificio è abbastanza vasta, si ricorda senz’altro: D. SCano, Storia dell’Arte in Sardegna dal XI al XIV secolo, Cagliari 1907, pp. 74, 77, 89, 305-311; C. Aru, San Pietro di Zuri, Reggio Emilia 1926; R. Delogu, L’Architettura del Medioevo in Sardegna, Roma 1953, pp. 188, 201-206, 247; C. Maltese, Arte in Sardegna dal V al XVIII, Roma 1962, pp. 16, 239; R. Serra, La Sardegna (Italia Romanica. X), Milano 1989, pp. 379-381; R. Coroneo, Architettura Romanica dalla metà del mille al primo ‘300 (Storia dell’Arte in Sardegna), Nuoro 1993, pp. 250-260, e scheda n. 144, pp. 252-253; R. Coroneo, R. Serra, Sardegna Preromanica e Romanica (Patrimonio Artistico Italiano), Milano 2004, pp. 25-26 e 233-241; A.L. Sanna, San Pietro di Zu-ri. Una chiesa romanica del giudicato di Arborea, Ghilarza 2008.

6. C. Maltese, Arte in Sardegna …, p. 16; Idem, r. serra, Episodi di una civiltà anti-classica, in Sarde-gna, a cura di F. Barreca, Milano 1969, p. 250.

7. R. Serra, Anselmo da Como, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, 12 voll., Roma 1991, II, p. 55.8. † Anno D[omi]ni MCCXCI

fabricata e[st] h[aec] eccl[es]ia et co[n]sec- rata in hono[r]e Beati Petri

Ad[pos]t[ol]i de Roma sub t[em]p[o]r[e] iu-dicis Mar[iani] iudi[is] Arboree et

fr[at]e[r] Ioh[anne]s ep[i]s[copus] S[an]c[t]e Iuste eo-de[m] t[em]p[o]r[e] erat op[er]aria abadis[s]a do[mi]na

Sardigna D[e] Laco[n]mag[iste]r A[n]selem[us] De Cumis fab[r]icav[it].

Nota almeno dai manoscritti di Ludovico Baylle (Biblioteca Universitaria di Cagliari, fondo Baylle) e poi dalle pubblicazioni ottocentesche e primo novecentesche, a cominciare dalle due di Pietro Martini (Storia Ecclesia-stica di Sardegna, III, Cagliari 1841, p. 578 e Idem, Iscrizione di Zuri, in “Bullettino Archeologico Sardo”, III, 1857, 1, pp. 171-175), poi Tommaso Casini (Le iscrizioni sarde nel Medioevo, “Archivio Storico Sardo”, I, 1905, 4, pp. 332-333). L’iscrizione non presenta particolari problemi d’interpretazione. Il suo stato di conservazione è abbastanza buono e tuttora è perfettamente leggibile con l’ausilio di un binocolo. È incisa su tre lastre di tra-chite di cui le due maggiori di forma quadrangolare, perfettamente congiungibili, portano l’epigrafe e sono cir-condate su tre lati da una cornice a listello in parte erosa o scalpellata, mentre un frammento più piccolo posto sulla sinistra in basso, lato senza cornice, presenta dei caratteri sciolti per ora non interpretati.

9. Genealogie medievali di Sardegna, a cura di L.L. Brook, Cagliari-Sassari 1984, pp. 60, 382-383.

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rimasta vedova del giudice Pietro II (regno 1217-1241) si fece monaca, probabilmen-te di un monastero benedettino del quale fu madre badessa. Il termine “op[er]aria”, con cui nell’iscrizione viene connotata la committente, tuttora nel dialetto del Guil-cier, la regione dove è situato l’edificio, viene utilizzato per indicare colui che am-ministra i beni di una chiesa e ne gestisce la manutenzione10. Il regno di Mariano fu un periodo prospero nel quale il giudice promosse varie opere di edilizia civile ed ecclesiastica, tra le quali la costruzione delle torri maggiori a guardia degli ingres-si principali di Oristano, capitale del Giudicato d’Arborea. Questo può spiegare la provenienza forestiera di Anselmo, architetto e scultore, che viene detto nativo di Como, e sarebbe quindi uno dei tanti maestri giunti dalla regione del comasco iti-neranti per l’Europa del Medioevo.

Questi gruppi di lapicidi delle vallate alpine nord lombarde (in passato si ten-deva a riunire in una stessa categoria queste maestranze, ora si tende a distinguere tra maestri comacini, campionesi e antelamici) nei secoli XIII e XIV si esprimono con uno stile di transizione tra ciò che viene definito come romanico e ciò che con-venzionalmente è denominato gotico11. L’opera di Anselmo rientra pienamente in questo momento stilistico, sebbene sia in parte meno raffinata di quella dei com-paesani che lavorarono a Bergamo, Trento o Milano. La chiesa è singolare nel pa-norama architettonico sardo, dove lo stile prima della conquista aragonese dell’i-sola era orientato prevalentemente verso l’arte toscana.

L’edificio interamente in trachite rossastra delle cave di Bidonì, è un’aula mo-nonave con copertura a capriate lignee ricoperte da tegole fittili, lunga metri 32,17, per una larghezza di 9,89 e con un’altezza massima al colmo del tetto di 10,20. I muri, realizzati in opera isodoma di grossi conci di 60 per 30 cm, sono costruiti col sistema della doppia cortina riempita di ciottoli di fiume. L’abside ha pianta ester-namente semi-ottagonale e internamente semi-circolare. La chiesa era in origine completamente decorata, essendo affrescata e avendo dipinte le travi della coper-tura: ora conserva solo le ornamentazioni scultoree, soprattutto all’esterno.

I dipinti murali, citati come emergenti sotto gli intonaci interni nelle pubblica-zioni ottocentesche12, erano già scomparsi prima dell’anastilosi, quando l’edificio era oramai stato completamente stonacato. Le travi dipinte andarono, invece, in-spiegabilmente perdute durante il rifacimento delle coperture del 189413.

10. Il termine operarius in documenti medievali indica i manovali, i lavoratori edili, come si evince nella raccolta di Julius von Schlosser (Quellenbuch. Repertorio di fonti per la storia dell’arte del Medioevo oc-cidentale (secoli IV-XV), Wien 1896 (ed. cit. Firenze 1992), pp. 106, 246, 273, 447), mentre ancora oggi su operaju è colui che provvede, come volontario eletto, ad amministrare i beni di una chiesa. D’altronde in terra sarda non era raro che nobildonne patrocinassero dei lavori edili, ad esempio la giudicessa Nibata (G. Farris, Percorsi della scultura giudicale nelle Curatorie di parte Barigadu e Gilciber, in Giudicato d’Arbo-rea e Marchesato d’Oristano: proiezioni mediterranee e aspetti di storia locale, atti del I Congresso Inter-nazionale di Studi (Oristano, 5-8 dicembre 1997), a cura di G. Mele, Oristano 2000, p. 515).

11. I maestri Campionesi, a cura di R. Bossaglia e G.A. Dell’Acqua, Bergamo 1992.12. Non si conosce nulla rispetto ai possibili soggetti raffigurati negli scomparsi dipinti murali. P. Marti-

ni, Iscrizioni..., p. 173; A. Della marmora, Itinerario dell’isola di Sardegna, tradotto e compendiato da G. Spano, Cagliari 1868, p. 429.

13. A. Ingegno, Storia del Restauro dei monumenti in Sardegna dal 1892 al 1953, Oristano 1993, n. 10, p. 202.

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Per quanto riguarda l’ornato scultoreo esterno14, oltre alle cornici che delimita-no il primo ordine di facciata, la serie di archetti intrecciati sotto il colmo del tet-to, le archeggiature che scandiscono fianchi e abside e le decorazioni di portali e finestre, esso è costituito soprattutto dai semicapitelli su cui si impostano gli archi modanati a toro multiplo. Per quanto riguarda i soggetti rappresentati si riscontra-no quelli tradizionalmente ricorrenti in tutti gli edifici dell’Italia medievale quali aquile, sirene o motivi vegetali (tra cui foglie appallottolate a crochet), variamente reinterpretati, eccezion fatta per la scena di ballo maschile, senz’altro il più famoso pezzo scultoreo della Sardegna medievale.

La storiografia ha quasi sempre individuato in questo semicapitello scolpito la prima rappresentazione del tradizionale ballu tundu (fig. 4), in realtà è più cre-dibile ravvisarci un gruppo di pellegrini15. Nell’unico architrave decorato, quello del portale principale, è raffigurata una Sacra Conversazione tra la Madonna col Bambino, San Pietro e cinque Apostoli, oltre all’offerente Sardinia de Lacon rap-presentata come genuflessa davanti alla Vergine e al santo titolare dell’edificio16. All’interno le pareti sono lisce perché dovevano accogliere le pitture, gli unici ele-menti scolpiti si trovano nella testata absidale e, oltre la nicchia-lavabo17, sono co-stituiti dai peducci e dai capitelli che sorreggono le cornici che sottolineano arco di trionfo e innesto tra imbotte e catino absidale.

Episodio abbastanza insolito non solo in ambito locale, ma anche nel panora-ma italiano, è stato, quindi, quello dell’anastilosi totale della chiesa, effettuata tra 1923 e 1925, quando si rese obbligatorio il trasporto del tempio in altro sito per costruire la diga di Santa Chiara sul fiume Tirso, al fine di creare l’invaso del lago Omodeo, per parecchi anni il bacino artificiale più grande d’Europa, e risolvere gli atavici problemi idrici della Sardegna.

14. Nella mia tesi di laurea (C. PùlisCi, San Pietro…, pp. 51-77) ho redatto un catalogo completo degli ele-menti scultorei presenti nella chiesa zurese.

15. C. Aru, San Pietro…, p. 40; R. Delogu, L’architettura..., p. 204; C. Maltese, Arte in Sardegna…, p. 229; G. Zanetti, Il lombardismo in Sardegna, in Scritti storici e giuridici in memoria di Alessandro Viscon-ti, Milano-Varese 1965, p. 385 e successive ripubblicazioni; R. Serra, La Sardegna, 1989, p. 381; Giorgio Farris (Architettura in Sardegna nel periodo giudicale, in Il mondo della Carta de Logu, Cagliari 1979, pp. 244-246) lo ritiene probabile rappresentazione dell’unione popolare dei jurati locali. Lo studioso è ritornato sull’argomento con l’intervento Scultura ed Architettura nella Curatoria del Gilciber, in Società e Cultura nel Giudicato d’Arborea e nella Carta de Logu, atti del Congresso internazionale di Studi (Oristano 5-8 di-cembre 1992), Nuoro 1995, pp. 102-103, confermando quanto già sostenuto. Ha osservato inoltre che il co-pricapo indicato come berritta è uguale a quello utilizzato a quel tempo dagli uomini in altre parti d’Italia, che la veste rappresentata non è certamente una veste da villici e che la scena raffigura è una danza celebra-tiva (Idem, Percorsi della scultura …, p. 516). Recentemente Renata Serra, San Pietro di Zuri (Ghilarza), in R. Serra, R. Coroneo, Sardegna Preromanica..., 2004, p. 241) propone più semplicemente che si tratti di un gruppo di pellegrini.

16. R. Delogu, L’architettura…, p. 204; R. Serra, La Sardegna, p. 380; Eadem, R. Coroneo, Sardegna preromanica …, p. 235; Idem, Architettura romanica…, p. 252.

17. In Sardegna una simile struttura è presente in costruzione di stile gotico, come ad esempio nella cap-pella del Rimedio nel duomo oristanese, nella cappella Aragonese della cattedrale di Cagliari, nel presbiterio della chiesa di San Gavino a San Gavino Monreale. La nicchia che si avvicina di più a quella zurese è senz’al-tro quella di Oristano, che si può far risalire da un’epigrafe murata nella cappella a una data ante 1348. Du-rante lo smontaggio della chiesa di San Pietro si è potuto notare come la nicchia era stata inserita in rottura, quindi in anni successivi alla riedificazione dell’abside stessa (C. Aru, San Pietro…, p. 48).

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Anastilosi della chiesaIl volume San Pietro di Zuri è il principale testo monografico sull’edificio18.

Scritto da Carlo Aru (1881-1958) e pubblicato nel 1926 per raccontare l’avventuro-sa storia di smontaggio, trasporto e ricostruzione dell’edificio religioso ne è la fon-te primaria, visto che l’autore è stato il direttore dei lavori di anastilosi.

Per l’altrimenti inevitabile sommergimento si decise di spostare l’insigne mo-numento: vennero subito eseguiti rilievi grafici19 e fotografici (fig. 1)20 che avreb-bero facilitato la ricomposizione. Dopo la demolizione, i materiali vennero accu-mulati in mucchi distinti e ordinati per facilitarne l’utilizzo durante il rimontaggio; la cernita sarebbe avvenuta nel ricollocamento in opera. Le parti che si sarebbero potute facilmente sottrarre furono collocate in un magazzino comunale, mentre i conci furono collocati in mucchi differenziati per abside, facciata e per i due fian-chi. I pezzi ornamentali e le epigrafi vennero numerati e sotterrati al fine di evitar-ne manomissioni. Nonostante la fragilità della trachite, non si ebbero nel demo-lire la costruzione o durante il trasporto notevoli deterioramenti, e in generale ci si rese conto che i conci erano in buono stato di conservazione. I materiali nella demolizione venivano fatti scivolare su una passerella inclinata per adagiarsi su un soffice letto di frasche; queste ricoprivano pure il fondo dei carri utilizzati per il trasporto delle pietre onde ovattare gli oscillamenti nel trasloco.

Seddargius, l’area scelta inizialmente per la riedificazione dell’abitato di Zuri, fu in seguito sostituita con la località di Mureddu. Il trasporto da un sito all’altro, affrettato e senza avere sul posto la dovuta assistenza e supervisione, provocò due danni ai materiali: vennero riaccatastati alla rinfusa e, non avendo osservato le do-vute norme precauzionali, parte dei conci vennero scheggiati sugli spigoli. Per ov-vi motivi sia artistici che pratici, non si poteva rinnovare i blocchi danneggiati, né tanto meno risquadrarli e rimartellinarli tutti. Queste ultime pratiche, però, avreb-bero consentito un’osservazione accurata della pratica medievale di muratura con connetture sottili a filo di lama. Si optò per una soluzione intermedia, scartando i conci troppo danneggiati e ordinando la risquadratura di quelli lievemente scheg-giati, fino ad un massimo di un centimetro di rimpicciolimento per lato. I restanti furono ricollocati in opera senza alterazioni. La sostituzione dei blocchi trachitici fu di circa 1/3 dei totali, compresi quelli che si trovarono già danneggiati in opera durante la demolizione21.

Importante nodo da sciogliere nella riedificazione del San Pietro era il ripristi-no di alcune forme primigenie dell’edificio. Bisognava decidere se la chiesa andava ricostruita esattamente nella sua facies precedente lo smontaggio o si dovevano risarcire le forme originarie, nel caso queste fossero state alterate nel corso dei se-coli. La decisione fu di non seguire un metodo univoco.

18. Ivi. La monografia sull’edificio è stata recentemente ripubblicata con l’aggiunta di nuovi materiali (C. Aru, San Pietro Zuri, Reggio Emilia 1926, ristampa anastatica con note introduttive di D. Salvi e A.L. San-na, Ghilarza 2006).

19. I rilievi e i disegni furono eseguiti da Pio Pullini.20. Le foto furono realizzate per la maggior parte dalla ditta Fratelli Pes.21. C. Aru, San Pietro..., pp. 71-72.

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L’abside rifabbricata in forma semiottagonale in una data ante 1336, come in-dica un graffito individuato nella sua muratura, aveva rimpiazzato l’originaria se-micircolare di cui si rinvenne il tracciato durante la demolizione22. Venne, comun-que, rimessa in piedi secondo la forma conservata, lasciando in evidenza la rottura delle arcate interne e esterne per il suo inserimento nella muratura precedente. La sostituzione dell’abside, sicuramente, più che causata da un mutamento di gusto sopraggiunto in così brevi anni, fu determinata dai problemi di statica che caratte-rizzarono la struttura, e che accompagnarono la vita dell’edificio lungo tutta la sua esistenza prima del forzato trasloco. Causa di questa instabilità della struttura non furono certamente i terremoti, visto che la Sardegna è a basso rischio sismico, ma l’aver fatto i costruttori delle pessime fondazioni poco profonde nel sito originario della chiesa, nella vecchia Zuri, proprio nella fascia alluvionale del Tirso, e per di più realizzate con malta di fango.

Stesse correzioni delle imperfezioni commesse dai restauratori andavano fatte per il fianco destro, ricostruito coi materiali originari nel 1813, come indica l’epi-grafe nella prima arcata di quel lato. Qui l’errore era l’aver utilizzato una quantità eccessiva di malta nei letti fra i conci, cosicché, iniziando la ricostruzione dal pila-stro di facciata, l’ultima arcata risultò mozzata; eseguendo la muratura in maniera corretta quest’imperfezione sparì.

In età moderna fu raffazzonata la parte superiore della facciata sostituendo una finestra rettangolare all’originaria bifora, i frammenti della quale furono ritrova-ti durante la demolizione23. Questi lavori avevano creato una muratura con conci squadrati in maniera incerta e con un’apparecchiatura non lineare, un’errata mi-scela per la malta rivelò poi, in sede di smontaggio, di non aver fatto presa corret-tamente. Altra alterazione fu l’abbassamento della facciata di 80 cm circa, come dimostra il terminale sinistro della cornice ad archetti rimasto in situ nel pilastro sinistro. Probabilmente delle lesioni dovute alle sopra accennate cattive fondazio-ni, resero necessaria questa parziale ricostruzione, e il non voler gravare sull’edifi-cio con l’eccessivo peso delle murature fece optare per un abbassamento del fron-te. Ma quest’alterazione poteva essere anche causata dal rimaneggiamento antico, quando per addossare il campanile a vela, il pilastro venne rotto per impostare gli archi e la cornice non ricollocata in maniera congrua, cosa non insolita in rifaci-menti compiuti in periodi o con maestranze con poca sensibilità artistica.

Aru supponeva che togliere parte degli archetti intersecati, riposizionarli e non metterli in linea con i restanti, fosse un’ipotesi poco probante. In realtà le moti-vazioni che si adducono per questo supposto abbassamento del fronte principale non mi paiono convincenti: perché i terminali dello spiovente dovrebbero essere uno orizzontale e l’altro obliquo? Non sarebbe più logico pensare fossero entrambi orizzontali come quelli del lato posteriore, non interessati questi ultimi da alcuna

22. Ivi, pp. 47, 62. Durante il maggio 1997, dopo un periodo di particolare siccità, il livello del lago Omo-deo era talmente basso che sono emersi i resti di Zuri vecchia, e tra questi le fondazioni della chiesa di San Pietro, rilevate da Angela Vacca. Si veda in proposito il capitolo di d. salvi, I resti nell’acqua. Osservazioni archeologiche, in C. Aru, San Pietro …, 2006, pp. XXXVII-XXXIX).

23. C. Aru, San Pietro..., pp. 79-80.

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alterazione? Cosa impedisce di pensare che il fronte anteriore fosse alto quanto quello posteriore, come lo si è trovato dopo i lavori di riattatura? Un’errata ricollo-cazione della cornice in seguito all’addossamento del campanile e un innalzamen-to del pilastro per appoggiarvi lo stesso, in modo che avesse la cima più alta della chiesa per svettare, a mio avviso appare senz’altro una spiegazione meno macchi-nosa e più plausibile.

Il direttore dei lavori ritenendo la questione insoluta, fece rimontare la facciata così come l’aveva preservata la storia del manufatto.

Il problema del rialzamento del fronte era collegato con quello del ripristino della bifora. Quando si parlava dell’anastilosi, Aru basandosi sull’affine spartizio-ne della facciata del San Pietro extra-muros di Bosa24, pensava nella ricostruzione di sostituire la finestra rettangolare con un bel rosone, tipico e prevalente nelle costruzioni di ambito lombardo. Quando si scoprirono i resti dell’originaria bifo-ra, rimase ammonito da quanto possano essere soggettive le ricostruzioni in stile. Accortosi di non poter riedificare la luce senza che vi fosse un suo arbitrio, risolse di rimontare l’apertura quadrangolare. Questa non ricostruzione in stile della par-te alta della facciata fu criticata da alcuni come Raffa Garzia in un intervento sulla chiesa apparso nella rivista “Fontana viva: voci di Sardegna” del maggio 192625. Altri come Luca Beltrami appoggiarono, invece, ne “Il Marzocco” del 16 gennaio 1927 la decisione di Aru26. Anche Gustavo Giovannoni nel recensire il volume in “Architettura e Arti decorative” del gennaio-febbraio 192727, approvò ugualmente il modo in cui era stata affrontata la questione della finestra.

Per le monofore dei fianchi, alle quali era stata prima spezzata la sagomatura triloba e trasformato l’intradosso in semicerchio, e che poi vennero completamen-te tamponate, il problema era facilmente risolvibile: si trattava di semplice restau-ro di liberazione e di restituzione. Pure la monofora absidale era stata resa rettan-golare, fu rimontata secondo le linee originarie, trovandosi gli elementi dell’arco acuto trilobo ancora integri sotto la tamponatura. Per le parti ornamentali che non si sarebbero più potute mettere in opera per il loro degrado conservativo, si seguì una duplice strada: quelle costituite da sole parti di ornato vennero realizzate se-guendo le linee degli originali, mentre quelle che presentavano elementi figurativi vennero ricreate seguendo gli antichi in maniera schematica, per individuarle fa-cilmente e non creare alcuna contraffazione. Le iscrizioni tornarono alla loro col-locazione originaria.

L’11 luglio 1923, dopo aver tracciato la pianta della chiesa, si ebbe la conse-gna dei lavori che si conclusero nel luglio 192528. Come maestranze si utilizzarono

24. Da alcuni attribuita, per altro, allo stesso Anselmo, per la presenza di colonnine ofitiche nell’edicolet-ta sulla cima della facciata, e per la linea degli spioventi decorata con il sistema degli archetti incrociati (R. Serra, Anselmo …, p. 55).

25. R. Garzia, San Pietro di Zuri, “Fontana viva: voci di Sardegna”, I, 1926, 5, pp. 73-77.26. L. Beltrami, Una chiesa demolita e ricostruita, “Il Marzocco”, XXXII, 16 gennaio 1927, 3.27. Vedi la recensione di G. Giovannoni a C. Aru, S. Pietro di Zuri, in “Architettura e Arti Decorative”,

V-VI, 1927, p. 283.28. A ricordo dei lavori si compose un’epigrafe, tutt’ora conservata all’interno dell’edificio:

Questa chiesa / dedicata a S. Pietro Apostolo / sorse in Zuri / per opera di un maestro lombardo / sullo scor-

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quelle locali, non specializzate, dove il manovale compieva tutte le mansioni. Se-condo il direttore dei lavori, il loro modus operandi si avvicinava allo spirito dei medievali mastros de muro.

Senz’altro meritevole è stato il rigore scientifico usato da Aru nel portare a ter-mine l’incarico affidatogli, sia in considerazione dei tempi in cui l’anastilosi è stata condotta, sia tenendo presente la marginalità della Sardegna: si fece un lavoro in linea con i più moderni metodi di restauro. Chi ancora scrive della chiesa, non può tralasciare la sua fiabesca storia, la scampata sommersione e l’amore dei paesani che hanno voluto strappare alle acque del lago almeno questo simbolo dello loro antica gloria a ricordo del loro vecchio paese.

Note conclusive: una falsificazione giustificabile?Da un’analisi odierna del San Pietro la prima cosa che si evince osservando le

murature è la mescolanza che si è fatta nel rimontaggio dei blocchi trachitici. I conci sono stati posizionati senza alcun criterio logico, quelli interni sono diventati esterni e viceversa. Una chiara denuncia di questo fatto sono le incisioni raggiate di forma circolare presenti a ogni altezza all’esterno e all’interno, che si può sup-porre siano i segni delle aureole, resti degli affreschi che rivestivano l’interno della chiesa, come mi ha giustamente suggerito Roberto Coroneo29.

La mescolanza dei conci è stata causata da due motivi: fin dall’inizio non si è provveduto a numerarli uno per uno, ma lo si è fatto solo per quelli che presenta-vano elementi decorativi; poi, con il secondo trasloco dei materiali la confusione è ulteriormente aumentata. Le buche pontaie sono state chiuse ma esistevano come testimoniano le fotografie storiche e i rilievi eseguiti prima dell’anastilosi, dando all’opera muraria un aspetto più moderno. Dalle foto che documentano la chiesa durante la sua ricostruzione, si vede che le impalcature lignee sono ammorsate nella muratura secondo l’antica tecnica di costruzione a ponteggi ma, tolti questi, le buche sono state otturate.

I rilievi originali non sono stati tracciati in modo accurato pietra per pietra, co-me ben si osserva dal confronto con le foto anteriori alla demolizione, ma solo nelle forme essenziali, mentre in altri dettagli, come le linee che indicano i vari conci, so-no approssimazioni del rilevatore. Dal confronto tra questi e le fotografie pubblica-te da Aru chiaramente si deduce che la numerazione dei filari dal basso verso l’alto è cambiata. Leggermente diversa è anche l’apparecchiatura muraria, ad esempio in facciata, sotto gli archi, i filari non erano sempre tutti perfettamente in linea, men-tre ora si ha una regolare muratura isodoma.

cio del secolo XIII / con la prospera fortuna del Giudicato d’Arborea/ risorse sull’altopiano di Mureddu in Zuri nuova / nell’anno 1925 / riedificata con i materiali originari / per cura delle Imprese Idrauliche ed Elet-triche del Tirso / che costruendo il grande lago Omodeo / diedero il primo segno / delle nuove più prospere fortune / di Sardegna.

29. Comunicazione verbale del dicembre 2001. Un altro chiaro segno della mescolanza dei conci è la pre-senza di “orme” dello zoccolo dei pellegrini, simbolo che questi incidevano nelle chiese meta di pellegrinag-gio nel Medioevo sardo, e che sono stati oggetto di numerosi studi da Gianpietro Dore (ad esempio G. dore, Sulle “orme” del pellegrini. Testimonianze di percorsi penitenziali medievali nell’isola, Sestu 2001). Anche queste impronte oltre a essere presenti all’interno della chiesa, si ritrovano ora ad altezze poco raggiungibili.

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Probabilmente le sconnessure erano causate dalle non adeguate fondamenta, molto evidente era difatti esternamente un’estesa fenditura lungo lo specchio del rosone sinistro dell’abside30.

Concludendo si può certamente affermare che l’attuale chiesa di San Pietro sia in parte un falso, considerato che l’edificio non si trova più dove è stato costruito e le sue pietre, in parte, son state sostituite, anche se con materiali prelevati dal-la stessa cava, e i conci originari, invece, rimescolati in maniera un po’ caotica; ma certamente la decisione presa allora di spostare un così insigne monumento dell’Arte sarda è stata ottima, e ci permette ancora oggi di poter ammirare questa bella costruzione, arricchita per la sua insolita storia di un ulteriore elemento di interesse.

30. Un’analisi delle murature con nuovi parziali rilievi è stata fatta nella tesi di laurea di Silvia Pilia, che si è occupata pure della mappatura del degrado dei materiali lapidei (S. Pilia, San Pietro di Zuri (Oristano): la chiesa smontata e rimontata, tesi di laurea in Architettura, Università degli Studi di Firenze, relatore L. Marino, a.a. 2005/2006).

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Fig. 1. Chiesa di san Pietro di zuri, zuri vecchia (oristano), la facciata prima dell’anastilosi. (Per gentile concessione della casa editrice Iskra, Ghilarza).

Fig. 2. Chiesa di san Pietro di zuri, zuri (oristano), la facciata oggi.

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Fig. 3. Chiesa di san Pietro di zuri, zuri (oristano). Fiancata destra.

Fig. 4. Ballo Sardo, chiesa di san Pietro di zuri, zuri (oristano).