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1 Vergognarsi di, per, con… Le atmosfere della vergogna Tonino Griffero 1. Migrazioni della vergogna. Non lo investe integralmente, né (enigmaticamente) gli sopravvive, come nel caso di Josef K. Tuttavia la vergogna tormenta anche il filosofo, costretto, pena la marginalizzazione professionale, a porsi domande tanto grandi da non potervi rispondere (Marquard 1989: 118-119). Solo parzialmente sottratta a questo destino “vergognoso”, la domanda sulla vergogna in quanto scaturigine dell’autocoscienza dovrebbe essere «una preoccupazione primaria della filosofia» (Lipps 1941: 31). A patto di derogare dalla pur brillante ma troppo tranchant requisitoria (H. Böhme 1996) di chi considera lapidariamente dei vicoli ciechi tutte le attuali direzioni di ricerca, per cui indimostrabili sarebbero il nesso tra vergogna e colpa e la sua dipendenza da situazioni sociali, impossibile la sua definizione in termini di sentimento fondamentale di “nudità” e magari come esito dell’autopercezione (come vedremo nel caso dell’atmosfera vicaria), imprecisa, infine, la sua identificazione con dati fisiologici, di per sé rilevabili in situazioni emotive anche molto diverse. Eppure, lungi dall’essere un fossile emozionale rispetto all’ingiunzione sottilmente autoritaria a «sapere tutto, mostrare tutto, vedere tutto» (Tagliapietra 2006: 12), all’impudicizia della (società di) massa (Canetti 1960: 18) e al suo abuso dell’“io” (Sanders 2009), la vergogna
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Vergognarsi di, per, con…Le atmosfere della vergogna

Feb 01, 2023

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Lucio Russo
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Vergognarsi di, per, con…

Le atmosfere della vergogna

Tonino Griffero

1. Migrazioni della vergogna. Non lo investeintegralmente, né (enigmaticamente) gli sopravvive, comenel caso di Josef K. Tuttavia la vergogna tormenta ancheil filosofo, costretto, pena la marginalizzazioneprofessionale, a porsi domande tanto grandi da nonpotervi rispondere (Marquard 1989: 118-119). Soloparzialmente sottratta a questo destino “vergognoso”, ladomanda sulla vergogna in quanto scaturiginedell’autocoscienza dovrebbe essere «una preoccupazioneprimaria della filosofia» (Lipps 1941: 31). A patto diderogare dalla pur brillante ma troppo tranchantrequisitoria (H. Böhme 1996) di chi consideralapidariamente dei vicoli ciechi tutte le attualidirezioni di ricerca, per cui indimostrabili sarebbero ilnesso tra vergogna e colpa e la sua dipendenza dasituazioni sociali, impossibile la sua definizione intermini di sentimento fondamentale di “nudità” e magaricome esito dell’autopercezione (come vedremo nel casodell’atmosfera vicaria), imprecisa, infine, la suaidentificazione con dati fisiologici, di per sérilevabili in situazioni emotive anche molto diverse.Eppure, lungi dall’essere un fossile emozionale rispettoall’ingiunzione sottilmente autoritaria a «sapere tutto,mostrare tutto, vedere tutto» (Tagliapietra 2006: 12),all’impudicizia della (società di) massa (Canetti 1960:18) e al suo abuso dell’“io” (Sanders 2009), la vergogna

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ci è sempre estremamente familiare. Lo si evinceagevolmente dalla descrizione somatica ma ancheesistenziale della pena provata da chi viola una qualchenorma: «arrossire, annaspare, balbettare, parlare convoce anormalmente bassa o alta, o con voce tremula, o convoce rotta, sudare, impallidire, battere le ciglia, averetremito alle mani, muoversi in modo esitante o vacillare,essere distratti, dire papere» (Goffman 1967: 105). Sitratta di uno sconcerto che, in quanto «(auto)presentazione dell’impotenza del soggetto» (Blume 2003:104), testimonia palesemente la totale dipendenza dellogos dal patico1 nonché l’assolutezza e inoggettivabilitàdel corpo proprio (Leib). Ovvisamente poco visibile, mapiù per la propria naturale tendenza all’auto-occultamento (Neckel 2009: 104) che non per l’odierna eforse sopravvalutata iconomania, come invece supponeBelpoliti (2010: 148-149), il sentimento della vergognanon è dunque affatto sparito, pena una patologiad’altronde non meno grave di quella del suo eccesso. Essoscaturisce infatti automaticamente da ogni riduzione didesiderio e godimento, come pure, più in generale,dall’inadeguatezza della propria immagine. Tutt’al più sipuò concedere una qualche differenza non tra civiltàdella vergogna (dipendenza sociale) e civiltà della colpa(indipendenza individuale), ma, meno drasticamente, traciviltà relativamente più introverse e relativamente piùestroverse (Demmerling 2009: 100).

L’evidenza autoriflessiva della vergogna, assicuratadal coinvolgimento affettivo e da una spinta proprio-

1 È «una sorta di veto proprio-corporeo contro l’onnipotenza della ragione e disentinella della propria fragilità» (Meyer-Drawe 2009: 38).

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corporea alla contrazione e alla dissociazione2, nesegnala il carattere di reazione innata (Heller, Nussbaume soprattutto Duerr3) alla perdita del proprio valore(Honneth 1992: 165). Si tratterebbe di uno stadionecessario, collocabile intorno al secondo anno di vita,sulla via ontogenetica dell’autocoscienza e che, proprioper un’autoriflessività assente in stati “estatici” qualila collera e la tristezza, prefigura l’intima dialogicitàdi ogni coscienza morale, normalmente sospesa tra realtàe modelli ideali. Tanto più distruttiva quanto piùstigmatizza l’intera identità attraverso eventi parzialima evidentemente prototipici per l’autostima – ci sivergogna pur sempre più di un fallimento sentimentale chenon di una circoscritta incompetenza tecnica4 –, lavergogna appare addirittura «totalizzante e permanente»(Heller 1983: 55) nelle moderne societàindividualistiche, le quali, avendo trasferito ogniaspettativa e ogni senso di appartenenza dalleistituzioni (religiose e non) all’essere globaledell’individuo (Lewis 1992: 274 sgg.), promuovono tantola vergogna quanto il suo rovescio narcisistico, intesoappunto come «tentativo estremo di evitare la vergogna»(ivi: 7). Perfino il diffuso esibizionismo spudorato(Wurmser 1990: 64, 392-393), certo adeguatamente distinto

2 «Chi si vergogna si duplica, in quanto percepisce se stesso “da fuori” comecolui che si vergogna» (Fuchs 2005: 250) e che quindi è «rifiutato» (Seidler1995: 178).3 Per Duerr (1988: 5, 203, 95-96), notoriamente avverso alla tesi di Elias(1936: 346-347) della progressiva separazione tra sfera pubblica e sfera privata(mito del processo di civilizzazione), pudore e vergogna sono caratteriontologici assolutamente originari, essendo la vergogna e la repulsione perl’esibizione degli organi sessuali consustanziali all’ominazione stessa,ancorché certamente culturalmente affinabili (Tagliapietra 2006: 135).4 Avendo la sfera dell’amore un valore tanto adattativo (cure maternefinalizzate alla sopravvivenza e/o centralità per il successo riproduttivo)quanto cognitivo (implicante la globalità della persona) (Lewis 1992: 155).

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dalle provocazioni estetiche intenzionali (Blume 2003:90-91), potrebbe non essere altro che un atteggiamentopatologico contrafobico, volto a compensare la disistimaprovata e le sue conseguenze (depressione, fobia sociale,correità collettiva, psicosi paranoica); a contrastarecioè un’imprecisabile atmosfera di vergogna dalla qualel’individuo, rimesso all’autorità di una coscienzaesteriorizzata extramorale e all’oscuro delle propriespecifiche trasgressioni, si sente gravementeperseguitato. Anziché sparita, come pretende la culturadei rotocalchi, la vergogna è piuttosto semplicemente“emigrata”5, magari anche rilessicalizzandosi, dallasfera dell’onore, della sessualità e della coerenza aquella, oggi l’unica veramente identitaria, del successoe della fitness corporea. Sempre meno imbarazzato dallapropria nudità e dai propri insuccessi scolastici,l’individuo – quello che non si vergogna(patologicamente) di tutto – sembra vergognarsi,sentendosi integralmente responsabile della propriabiografia (Neckel 2009: 116)6, soprattutto di non esserenessuno (Belpoliti 2010: 29), ma anche di dover chiedereaiuto, rivelandosi così dipendente dagli altri (Sennett2003: 107 sgg.) in una società che, come quella liberale,considera trasgressive proprio l’imperfetta padronanza disé e l’insufficienza delle prestazioni.

L’apologia illuministica delle risorse razionaliinterne e la diffusione dello scetticismo morale

5 Già Aristotele (1973: 86) riconosce che «non ci si vergogna per le stesse cosedavanti ai conoscenti e davanti agli sconosciuti; ma davanti ai conoscenti perle cose realmente infamanti, di fronte agli sconosciuti per le cose relativealla legge». 6 «Non essere capaci (materialmente o culturalmente, cognitivamente oesteticamente) di individualizzazione: ecco la forma più moderna di collegamentotra vergogna e persona dal punto di vista sociale» (Neckel 2009: 118).

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(Demmerling 2009: 86) spiegano indubbiamente ilprogressivo decadimento in Occidente dell’occhio ideale,prima divino e poi sociale7. Ma sarebbe assurdo dedurnela morte di un sentimento che, insieme e forse più dialtri, del soggetto pare in qualche misura addirittura laprova ontologica. Possono certo storicamente cambiare leforme con cui si cerca di padroneggiare la contingenteesposizione dei propri limiti (Blume 2003: 89), ma lavergogna resta indispensabile sia come regolatore morale8

sia come componente (insieme alla collera)9 dellainaggirabile base emozionale del diritto: nella misura incui sono turbamenti catartici, che, analogamenteall’impulso sessuale, insorgono, raggiungono un apice esi sfogano, talvolta la collera, infatti, previene lavergogna (si pensi al duello per lavare l’onta) etalvolta la vergogna tacita la collera (si pensi alrituale, più o meno stilizzato, delle scuse) (Schmitz2006: 195). Erroneamente ritenuta estranea allaresponsabilità e quindi a contenuti etici10, o comunquesbrigativamente proiettata per la sua insuperabileeteronomicità in una concezione morale arcaica “superata”dalla nostra (presunta) maturità moralepostilluministica, la vergogna, al contrario, «ci pedinada vicino» (Nussbaum 2004: 208). Anzitutto nella suaforma “primitiva”, e necessaria, di vergogna per

7 Non convincente pare la tesi secondo cui allo sguardo incorporato degli altri(vergogna) subentrebbe, nella modernità, la loro voce (colpa) (Fuchs 2005: 255).8 Esso «regola le azioni di una persona e il suo comportamento generale inconformità con le norme e i rituali della sua comunità», fungendo quindi da«regolatore primario della socializzazione» (Heller 1983: 13). Cfr. ancheHilgers (1996: 15).9 La cui funzione pare proprio quella di mitigare l’inferiorità sentita: blameanziché shame! (Fuchs 2005: 260).10 Come se non fosse morale assegnare o meno alla propria personalità dellefinalità convenienti! (Mason 2010: 424).

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l’incompletezza11. Se sancisce con l’emergenza del sé lasconfitta del narcisismo egocentrico infantile, lavergogna primitiva ci accompagna per tutta la vita,manifestandosi ora, distruttivamente, in quellastigmatizzazione delle altrui insufficienze con cui lepersonalità normotiche si nascondono dietro a un falsosé, e ora, più costruttivamente, fornendo una basemotivazionale, anche grazie all’accettazionedell’alterità, al «perseguimento di ideali importanti»(ivi: 246).

Non esistendo affatto il virtuoso che non avrebbe mairagioni per vergognarsi (Eth. Nic. 1128b31-33), la vergognanon cessa mai di essere “cocente”, come appropriatamentesi dice visto l’arrossire e l’aumento di calorepercepito. E non solo tra gli adolescenti, ovviamente ipiù soggetti a causa della loro quasi totale dipendenzadal riconoscimento esterno12, oppure in situazioni dieccessiva prossimità (emblematicamente in ascensore), manell’intero sviluppo dell’essere umano. È implicitamentenormativa nel suo fungere da controllo e inibizionedell’esuberanza passionale, come pure nel presupporrenecessariamente la validità della norma violata: dondesia il brivido seduttivo della violazione volontariamenteprovocatoria, sia la perdita di autostima per laviolazione che ci viene falsamente attribuita, visto che(Castelfranchi 1998: 176-177) di tale violazione sicondivide comunque la valutazione negativa (se l’avessimofatto…), e si potrebbe pur sempre aver dato l’impressionedi (voler) fare ciò che ci viene imputato (immaginavamodi farlo…). Implicando come altre emozioni complesse11 Prototipica della successiva vergogna per gli organi sessuali (Nussbaum 2004:222).12 Per una tesi opposta cfr. Simmel (1901: 74).

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l’autocoscienza, senza potersi rifugiare nell’alibi dellatransitività e dell’aposteriorità riservato ad altrisentimenti13, la vergogna può svolgere inoltre un ruolochiave in funzione non solo identitaria ma ancheantisolipsistica. Infatti, nella sua qualità di vissutoproprio-corporeo dell’atmosfera restrittiva eobiettivante dello “sguardo” altrui, essa certifica larealtà nostra e altrui ben più della certezza solo “dascrivania” del cogito, sempre minacciata dal dubbioiperbolico, esibendo perciò non una soggettivitàpuramente posizionale e nevroticamente depurata da ogniresiduo affettivo-corporeo ma la radicale “meità” paticadel mio pensare e fare:

Non c’è coinvolgimento affettivo che non sia sentito come proprio equindi non implichi l’autocoscienza (o l’aver coscienza di sé). Non sipuò, ad esempio, patire […] senza accorgersi che siamo noi a patire; sitratta di un residuo di autocoscienza che anche nel più totale oblio disé non va perso nel coinvolgimento affettivo (Schmitz 1994: 105).

Chi si vergogna si sente infatti annichilito (si “muore”dalla vergogna) e frustrato nell’altrimenti naturale motoproprio-corporeo espansivo. Perciò si contrae14, si senteun “un cane bastonato” e, soprattutto se sa diarrossire15, assolutamente passivizzato e isolato dalmondo, deto in breve paralizzato da un moto centripeto

13 «È indicativa la differenza di significato del pronome riflessivo “si”utilizzato per l’ira e per la vergogna. Ci si può adirare in senso attivo otransitivo quando si condanna adirati il proprio comportamento; per lo più si èallora già al di là e non si coincide più con l’ira nella sua pienezza. Usandola locuzione “vergognarsi”, il pronome riflessivo ha invece un senso medialecome nell’arrabbiarsi e nell’aver paura [sich-fürchten]; “io mi vergogno”significa: sono immerso nella vergogna, mi devo sottomettere alla vergogna einchinarmici» (Schmitz 2006: 197-198).14 «La vergogna non è propriamente protensionale ma proibente» (Lipps 1941: 32).15 Rivelandosi l’altra variante (diventare per la vergogna pallidi “come uncencio”) più fisiognomicamente indeterminata.

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svergognante16 simboleggiato dagli sguardi onnidirezionalialtrui se non addirittura dall’essere additato (Schmitz2006: 196-197). Ma, proprio per l’angustia a cui locostringe questa specifica “emozione di autodifesa”(Taylor 1985: 81), per quel “ritorno su se stesso”(Scheler) che si deve al fallimento di una qualcheiniziativa e al valore coercitivo della norma violata,chi si vergogna diviene nella propria peculiare attività-passività anche assolutamente cosciente di sé comeoggetto di auto- ed eterogiudizio (Schmitz 1964: 248)17.

2. La vergogna personale come atmosfera. Pur sapendo delcostante intreccio degli stati affettivi e delladipendenza storico-culturale di ogni loro classificazione– siamo sicuri, ad esempio, che una certa stanchezza nonsia già tristezza? – è apparentemente ragionevole chequalcuno si vergogni sempre per qualcosa e al cospetto diqualcuno. Quanto ai primi due aspetti, la vergogna infattiesiste, esattamente come l’innamoramento, solo secoinvolge affettivamente qualcuno, se, in terminiatmosferologici, la sua atmosfera trova “risonanza”(Schmitz 1969: 145-148), e se può riferirsi, se nonproprio a tutto18, quasi a tutto ciò che è vitale eresponsabile: non pare proprio ci si possa infattivergognare, di un paesaggio, delle nuvole, e neppure diun bambino o di un animale (Aristotele 1973: 86), a meno

16 «Quel sentimento: “Io sono il centro del mondo!” s’impone con molta forzaquando si è còlti all’improvviso dalla vergogna; si sta allora come intontiti inmezzo a un incendio, e ci si sente abbacinati da un grande occhio che da tuttele parti è rivolto su di noi e ci attraversa con lo sguardo» (Nietzsche 1881:197, § 352).17 Schmitz talvolta sembra però negare che esista una vergogna (tanto più secatastrofica) in assenza di altri (Schmitz 1973: 45 sg.).18 Come sostiene Castelfranchi (1998: 164), con la giusta avvertenza che, aseconda degli scopi e dell’immagine che si vuole offrire di sé, la vergogna nonsi riferisce a tutto con tutti (ivi: 170).

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che non si consideri il primo già adulto e si identifichiil secondo col padrone19.

Decisamente più intrigante però il terzo aspetto,quello che chiama in causa gli altri. I quali potrebberoessere quell’unico da cui, in una relazione diadica esimbiotica, il neonato dipende completamente (Nussbaum2004: 221), ma anche i molti ai quali si esibisce unosvantaggio o una «perdita di potere» (Williams 1993:200). Potrebbero inoltre essere degli altri reali maanche solo simbolici, puramente immaginati20 e ipotetici21,l’ipostatizzazione di un’astratta prospettiva altrui(Demmerling 2009: 93), perché, se la vergogna derivassesolo dalla concreta paura di essere scoperti, «lemotivazioni della vergogna non sarebbero assolutamenteinteriorizzate» e «nessuno avrebbe davvero un carattere»(Williams 1993: 99). Come ogni altra emozioneautoconsapevole (imbarazzo, colpa, orgoglio), anche lavergogna presuppone dunque un pubblico, un testimone(reale o interiorizzato) con cui instaurare il giocopsicologico-sociale, e implicitamente atmosferico, delbiasimo e della condanna (Anolli 2000: 7, 61, 35).

Al centro di questa atmosfera (comunicativa) dellavergogna troviamo il corpo proprio, visibile e tangibile(in senso lato) per altri solo perché è tale già per me.

19 «Un paesaggio può avere un effetto triste, sereno, turbato e – quando lenuvole si addensano e la luce si fa cupa – perfino rabbioso, ma non certoaudace, vergognoso o riconoscente» (Schmitz 1965: 147).20 «La vergogna è angoscia determinata dalla preoccupazione di essere disistimatida una persona presente, e in quanto tale è un’emozione», mentre, se ci sivergogna «anche in assenza di chi la provoca», si può parlare piuttosto di «unapassione che consiste nel tormentarsi disprezzando se stessi, di continuo mainvano» (!) (Kant 1798: 261-262).21 La vergogna è un «sentimento della perdita di sé negli occhi degli (eventuali)altri» (Tugendhat 1993: 57).

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Ci si sente guardati (bruciore della nuca) non perché qualcosa passidallo sguardo al nostro corpo e venga a bruciarlo al punto visto, maperché sentire il proprio corpo è anche sentire il suo aspetto perl’altro […]: sentire i miei occhi è sentire che essi sono minacciati diessere visti (Merleau-Ponty 1964: 257).

È dunque verosimilmente lo sguardo altrui, principiomotore di un’ubiqua comunicazione proprio-corporea(solidaristica o agonistica) quale estrinsecazione,secondo Schmitz, del dialogo immanente già al corpoproprio tra contrazione dilatazione, a esercitareun’autorità (atmosferica) sul mio, e indipendentementedal fatto che ci rallegri, ci inorgoglisca, ci inquieti oci provochi. Epitome dell’autorità e del costume sociale(interiorizzati), l’occhio degli altri è per essenzasvergognante, generando con la sua aggressivavettorialità centripeta22 e con l’«autorità del sentimentoche afferra» (Schmitz 1997: 156) non tanto un giudizio sudi sé, quanto un’atmosfera cui partecipano loro malgradoanche gli eventuali testimoni23. Un’atmosfera reificanteche replica e intensifica la percezione estranea di séche già si ha allo specchio, che cioè declassa il corpoproprio a corpo visto e quindi meramente fisico-anatomico, denunciandone così la perduta spontaneità egrazia. Infranta la sua originaria estaticità24, il corposi vede rinviato così «ai confini posti dal corpo fisicoai nostri progetti» (Fuchs 2005: 247), scoprendosivulnerabile, inadeguato (meccanico) sino alla paralisi,al ridicolo se non addirittura al disgusto di sé.

22 Fino al caso dei giovani giapponesi, indotti dalla vergogna all’isolamento, a“seppellirsi” nella propria stanza (Belpoliti 2010: 127-139).23 «La vergogna è spesso vergogna dinanzi a testimoni, ma questi sono solo gliintermediari di vettori centripeti del sentimento come atmosfera che si diffondeanche senza di loro» (così Schmitz, lettera 4.3.1999, cit. in Blume 2003: 110).24 «La grande salute ignora l’oggettività del corpo poiché non ne percepisce ilpeso» (Natoli 20012: 106).

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Divenuto così cosa fra le cose, «il corpo proprio nonschiude più il mondo, ma gli si frappone come ostacoloseccante e tormentoso» (ivi: 265), de-centrato edestraneo come molti altri oggetti (Tagliapietra 2006:147), anche se forse proprio per questo sollecitando,quanto meno per contrasto, l’attenzione per il corpoproprio (Böhme 2003: 86-87).

L’immagine di sé che suscita vergogna è alloral’effetto di un’atmosfera esterna. Irradiata, in societàed epoche più secolarizzate, dal (più o meno reale)sguardo altrui, e, in società ed epoche più religiose,dallo sguardo (più o meno reale) di Dio e in subordinedei suoi emissari25, ossia da uno sguardo, ovviamente,tanto più potente quanto più in grado di sondare anche lemotivazioni e di restare estraneo, come nelle religioni(relativamente) anti-iconiche fondate su parola ecoscienza, alla normale reciprocità proprio-corporeadegli sguardi26. Atmosfericamente fungente è dunque la«scissione di noi stessi in un Io parziale che osserva edin un Io che viene osservato» (Simmel 1901: 70), ossiaquell’innesto di un alter ego nell’ego che monitoratacitamente sé e le proprie prestazioni sociali27, amaggior ragione in seguito all’erosione delle autoritàmorali esterne (Heller 1983: 14-15), garantendo così siail livello di autostima necessario a un gruppo sociale(Scheff 1988: 399), sia, come sentimento etico-politico(miticamente) originario, l’inibizione del conflitto (èil senso del dono del pudore agli uomini per fini di

25 È infatti a causa dello sguardo degli angeli che le donne dovrebbero coprirsi(1Cor 11, 10).26 «“È vero che il buon Dio è presente in ogni luogo?” chiese una bambina a suamadre, e “Ma io trovo che questo non sta bene”» (Nietzsche 1882: 21).27 Dato che viviamo «senza saperlo nella mente degli altri» (Cooley 1922: 208).

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sopravvivenza quale si evince dal Protagora platonico)28.Ma garantendo così anche, purtroppo, l’adesioneconformistica ai valori, non necessariamente razionali,della maggioranza e, più in generale, di un potere tantosicuro della propria legittimità da poter fare a menodella coercizione (Heller 1983: 48).

Comunque s’intenda l’altro al cui cospetto ci sivergogna, questo sentimento non è certo un’opzione(Anolli 2000: 51) né un’autosvalutazione puramenteriflessiva e intramentale, bensì, come si è anticipato,assurge a “soggetto” atmosferico passivizzante. Perquanto eventualmente non privo di valenze cognitive, ècomunque un accadimento (sentimento) atmosferico che nonpossiamo decidere di provare o meno, e la cuiincontrollabilità denuncia proprio l’illusoria pedagogiailluministica della “sovranità” individuale. Generata dauna tensione ambientalmente diffusa tra l’io e il proprioideale (estetico, sociale o morale) corporizzato neglialtri, la vergogna deriva dall’imprevista esposizioneagli altri (Schäfer/Thompson 2009: 8), dalla violazionedella necessaria sfera di riserbo propria e altrui, maanche semplicemente dall’implicito confronto con glialtri29 – in breve, da un’indebita focalizzazione dellapropria persona (Simmel 1901: 66 sgg.). Sconfessando

28 «Il pudore, in quanto disposizione al rispetto reciproco fra gli uomini,prepara e predispone l’opera della giustizia e l’obbedienza alle leggi», einsieme garantisce, segnando così la nascita dell’individualismo moderno, ilrispetto di se stessi e della propria autonomia, trasformandosi da «istanzad’ordine» in «istanza di resistenza» (Tagliapietra 2006: 77, 136), in un vero eproprio diritto al segreto.29 «Posso essere svergognato da quello che un altro ha il coraggio di fare.Mostrandomi la possibilità di ciò dinanzi a cui, scoraggiato, mi sono ritratto,vengo messo a nudo. Divento così consapevole dei “miei limiti”» (Lipps 1941:41).

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neofenomenologicamente, con Hermann Schmitz30, ilparadigma riduzionistico-psicologistico-introiettivistico, e rivendicando di conseguenza lanatura atmosferica, quindi effusa nello spazio (vissuto)ed esterna ai soggetti percipienti, dei sentimenti comesemi-cose, come potenze che afferrano affettivamente eintersoggettivamente31 il corpo da fuori, quanto menoinizialmente, intendiamo attribuire qui anche allavergogna appunto una natura spazial-atmosferica,contagiosamente “autorevole” ed “evidente” perfino quandola sua origine non fosse circoscritta e localizzabile32 ela sua insorgenza solo inferita. In estrema sintesi, comeil dolore (Griffero 2011), anche la vergogna è unavversario inatteso, alla cui pressione fa seguito lapiena capitolazione del soggetto, il quale può piangereapertamente, cioè sfogarsi e ammettere così la propriascorrettezza – il che spiega il carattere liberatoriodella confessione qua talis, religiosa o psicologica chesia –, ma anche incarnare quella patologica «ansia davergogna» (Wurmser 1990: 74), eventualmente anche comepaura di essere derisi (gelotofobia) (Titze 1997), chepreserva dalla vergogna in atto solo perché ne espandeperò in anticipo, ancorché in forma diluita (Landweer1999: 43), il letale carattere inibitorio.

30 Per Schmitz la vergogna funge da esempio paradigmatico della propriaprovocatoria concezione dei sentimenti (Schmitz 1973: 35-43, 44-47).31 Per cui privato non è tanto il sentimento come tale, quanto il modo in cuiciascuno lo sente a seconda del proprio stile di reazione e, più in generale,della disposizione proprio-corporea. Cfr. Griffero (2010a) e la bibliografia iviinclusa.32 Schmitz – va precisato – non sembra respingere la ragionevole obiezionesecondo cui i sentimenti sono sempre in relazioni con determinati luoghi espazi, sopravvenienti rispetto a situazioni e materiali concreti (Soentgen 1998:107 sg.; Griffero 2010a: 155), bensì escludere che siano atmosfere autentichequelle che vengono prodotte dall’uomo e che quindi, chissa perché, non sarebberocapaci di una vera sopraffazione di chi ne è soggetto (Schmitz 1999: 285 sgg.).

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Vergognarsi significa dunque recepire o addiritturaanticipare l’atmosfera di vergognosità irradiata suglialtri da ogni nostra anche involontaria deviazione, chesia negativa (vera e propria umiliazione), neutra (ognitentativo d’innovazione, in specie se minoritario) oanche positiva, come nel caso atmosferologicamente moltointrigante della vergogna “da elogio”. La quale insorgequando a) troppo intimo è il complimento ricevuto, b)l’elogio non è meritato e quindi è suggerito da ragionisbagliate, c) è espresso dalle persone sbagliate, che adesempio non ne hanno titolo, d) determina la perdita dicontegno, mostrando tutta la nostra vanità o, se si restaimpassibili, colpevole insensibilità (cfr. Castelfranchi1998: 167-169; Goffman 1967: 117-118, n. 6). Nel casodell’elogio (eccessivo), a investire è un’atmosferavergognosa certo non patologica e a tratti persinogradevole (Heller 1983: 9), ma della quale, come di ognialtro sentimento atmosferico, non si è assolutamenteresponsabili.

Né rappresentazione, né contenuto della coscienza, lavergogna pertanto non la si “ha”, come invece pretendeper ogni sentimento il paradigma psichicizzante,subentrato a quello dinamico dell’età greca arcaica33 alfine di garantire, mediante una psiche che è sia ilcontenuto segregato sia il suo contenitore, e dalla qualeovviamente non si potrebbe mai propriamente uscire, ilcontrollo sui propri moti e sentimenti, vale a dire sututto ciò che l’approccio riduzionista al mondo esterno33 Ma per una critica della corrente (iniziata da Snell) secondo cui l’uomoomerico, non percependosi come unità personale e centro di azione, sarebbeestraneo all’idea di responsabilità, cfr. Williams (1993: 31 sgg.), per il qualel’assenza di un nome, ad esempio per la psiche separata dal corpo, non comportaaffatto l’assenza della nozione di interiorità (“un’assenza della teoria non èuna teoria dell’assenza”) (ivi: 36).

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ha ritenuto scientificamente irrilevante. Né la vergognaè semplicemente l’espressione esterna di un interno,bensì, esattamente come il meno grave imbarazzo (Lipps1941: 10, 13)34, una situazione in cui ci si imbatte e checoinvolge affettivamente e proprio-corporalmente, nellasua demonicità atmosferica, chiunque si trovi nellospazio (vissuto) pericorporeo. È un sentimento, inoltre,dotato di una straordinaria autorità, come si evincedalla difficoltà a reagirvi e dall’induzioneall’autocolpevolizzazione, (Schmitz 1997: 156), a«confessare qualcosa, ammettere e riconoscere qualcosa»(Schmitz 1980a: 173), fino quasi a “voler morire”, senzapotervi sfuggire gridando, ingoiando pillole, spostandosio cercando appoggio negli altri, rincantucciandosi ofingendosi morti. Come atmosfera che è sempre allecalcagna di chi afferra, la vergogna lo “addita” da ogniparte, tanto nel luogo della gaffe quanto in luoghi piùneutrali, come insegna la probabilmente insuperabiledescrizione sartriana.

3. La vergogna come emorragia interna e stigmatizzazione.Confermando «affettivamente» col «nostro essere-per-altri» (Sartre 1943: 361) la presenza non epochizzabile35,inconoscibile o indeducibile, degli altri alla miacoscienza, e dunque l’esistenza sia mia sia di altri, lavergogna segnala una sorta di «disintegrazione» di sé,accentuando l’espropriazione avviata dal mero sguardo eper la quale persino il verde di quest’erba, una volta34 Su Lipps cfr. Hennigfeld (1993) e Kerckhoven (2001).35 «La riduzione fenomenologica deve avere per effetto di mettere fuori giocol’oggetto della vergogna, per mettere in luce la vergogna nella sua assolutasoggettività. Ma altri non è l’oggetto della vergogna: ne sono oggetti il mioatto o la mia situazione nel mondo. Questi soltanto potrebbero a rigore essere“ridotti” […] Se anche potessimo raggiungere la coscienza pura […], la coscienzadell’altro la abiterebbe ancora, come presenza impercettibile, e sfuggirebbe conciò a qualsiasi riduzione» (Sartre 1943: 344).

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emerso l’altro, «volge verso altri un viso che mi sfugge»(ivi: 324), mi è cioè fenomenicamente inaccessibile36.Rivelatomi, nel mio essere non-per-me, come oggetto agliocchi di un altro-oggetto, che però, guardandomi, assurgea soggetto, la coscienza-vergogna «non è che ilsentimento originale d’avere il mio essere al di fuori,implicato in un altro essere e come tale senza alcunadifesa, illuminato dalla luce assoluta che emana da unpuro soggetto» (ivi: 362)37. La vergogna non concerne quiquesta o quella violazione, ma l’atmosfera di oggettitàdi chi la prova38, «è il sentimento della cadutaoriginale, […] del fatto che sono “caduto” nel mondo, inmezzo alle cose, e che ho bisogno della mediazioned’altri per essere ciò che sono» (ivi: 362). Vergognarsisignifica, allora, provare l’esistenza inseparabile ditre dimensioni – «io ho vergogna di me di fronte ad altri»(ivi 363) – attraverso un coinvolgimento affettivo-atmosferico extrariflessivo che è come «un brividoimmediato che mi percorre dalla testa ai piedi senzanessuna preparazione discorsiva» (ivi: 286), e che èveicolato dallo sguardo anonimo altrui, inoggettivabile eperciò totalmente distinto dagli occhi in sensofisiologico. Oggettivandomi e rendendo così il mio io perla prima volta tetico39, questo sguardo è appuntoun’atmosfera, potendo infatti essere dato

36 «Quando colgo lo sguardo dell’altro […] vivo un’alienazione sottile di tuttele mie possibilità che appaiono articolate lontano da me, in mezzo al mondo, congli oggetti del mondo» (ivi: 335).37 Dinanzi a ciò che non può mai diventare oggetto (Dio), la vergogna sieternizzerebbe in forma di alienazione.38 È vergogna pura, di cui il pudore e il timore della nudità, in quanto scopertadi non poter essere un soggetto puro (essendo il vestito appunto ladissimulazione della propria oggettività), non sono che specificazionisimboliche.39 Schmitz (1981) pare pensare, viceversa, che solo l’auto-obiettivazione, ossiala considerazione distaccata di sé, renda possibile la percezione dell’altro.

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da un fruscio di rami, da un rumore di passi seguiti da silenzio, dallosbattere di un’imposta, dal leggero movimento di una tenda. Durante unassalto, gli uomini che strisciano nei cespugli, sentono come sguardo daevitare, non due occhi, ma un’intera fattoria che si staglia biancacontro il cielo, in cima alla collina (ivi: 327).

La vergogna, che proviamo ad esempio nell’essere scopertio nel pensare di esserlo, mentre spiamo dal buco dellaserratura40, è insomma un’atmosfera di profondo disagio,una sorta di «emorragia interna» (ivi: 331) originata daun essere-guardato anche solo ipotetico; un’atmosferaabissale, la cui zona di condensazione si produce anchenell’inganno, come quando scambio un tronco per un essereumano, e comunque solo occasionalmente nell’effettiva«convergenza degli occhi di un altro nella mia direzione»(ivi: 349). Eppure se ne sente l’onnipresenza, poiché«l’altro non è affatto scomparso col primo allarme, èpresente dappertutto, sotto, sopra, nelle camere vicine,e continuo a sentire profondamente il mio essere-per-altri; può darsi perfino che la mia vergogna non scompaia[…], non smetto più di provare il mio essere-per-altri»(ivi: 349). Esibendo un essere-per-altro indeducibile dalper sé, l’atmosfera vergognosa ci perseguita però anchein assenza dell’altro, essendo quest’assenza pur sempre«in rapporto ad un posto dove egli dovrebbe essere perpropria determinazione» (ivi: 350), e funge così datestimonianza immediata e affettiva dell’esistenzaaltrui, coscienziale prima che empirica41. È l’atmosferadi una «presenza originale» (ivi: 352), che estrofletteil nostro essere privandolo di ogni trascendenza e nella40 Widmer (2009: 62-63) sostiene, con riferimento a Lacan, che solo con lavergogna, corrispondente al desiderio profondo di essere scoperti, si diventaeffettivamente un soggetto.41 Infatti, «non è nel mondo che bisogna cercare l’altro, ma accanto allacoscienza, come una coscienza in cui e per cui la coscienza si fa essere ciò cheè» (Sartre 1943: 344).

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quale, insieme «peccato originale» e «mia trascendenzatrascesa» (ivi: 333), non solo “confessiamo” quei nostriaspetti che ci sfuggono per principio – essendo appuntosolo per l’altro –, ma esperiamo anche «la possibilitàche la mia libertà sia negata o limitata» (Blume 2003:159), essendo questa eterotrascendenza, nella sualibertà, appunto «la morte delle mie possibilità» (Sartre1943: 342), l’impossibilizzazione delle mie possibilitàe, di fatto, la mia schiavizzazione. Divento così unoggetto per milioni di sguardi, l’«oggetto di valori chegiungono a qualificarmi senza che io possa agire suquesta qualificazione, e neanche conoscerla» (ivi: 338),esattamente così come tali diventano però anche glialtri: coloro che si guardano sono infatti entrambinecessariamente guardanti-guardati, spazializzanti-spazializzati, temporalizzatori-temporalizzati (donde unacontroversa sconfessione del solipsismo)42. Interessante èanche che l’atmosfera irradiata dallo sguardoreciprocamente svergognante43 scaturisca da unamolteplicità caotica anteriore a ogni singolarizzazione,da «una realtà non numerata» e «indifferenziata» (ivi:354).

Si tratta […] di una realtà impalpabile, fugace ed onnipresente cherealizza di fronte a noi il nostro Io non rivelato e che collabora connoi nella produzione di questo Io che ci sfugge. Se, invece, voglioverificare che il mio pensiero è stato ben compreso, e se guardo a miavolta l’uditorio, vedrò apparire improvvisamente delle teste e degliocchi. Obiettivandosi, la realtà prenumerica d’altri si viene adecomporre e pluralizzare. […] Continuamente, ovunque io sia, mi si42 Non c’è qui vera comunicazione e incontro di sguardi, l’altrui sguardocostringendomi ad abbassare il mio e quindi isolandomi dal mondo e dagli altri:«mai so dell’altro come soggetto e insieme oggetto. E mai posso rapportarmici dasoggetto a soggetto» (Blume 2003: 169).43 «Bisogna che l’altro sia presente da ogni parte alla coscienza ed anche che lapassi da parte a parte, perché la coscienza possa sfuggire – proprio perché nonè niente –, ad altri che tenta di inghiottirla» (Sartre 1943: 357).

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guarda. Il si non viene mai colto come oggetto, perché si decomponesubito (ivi: 354-55).

Difficile esprimere meglio l’atmosfera di vergogna persovraesposizione che coglie soprattutto i soggetti menopersonalmente emancipati (Schmitz 1980a: 26-27). Peccatoche ciò non spieghi però del tutto né la vergognasolitaria, quella che prova ad esempio la giovane chevede svilupparsi le proprie forme (Schmitz 1980b: 90), né– ed è ciò su cui tra breve torneremo – la vergogna comeatmosfera vicaria.

Pesantemente atmosferica ci pare però anche lavergogna con cui la società, forse cercando con ciò un«surrogato del ventre materno» e una proiezionecompensativa della propria dolorosa “vergogna primitiva”(Nussbaum 2004: 255 sgg.)44, stigmatizza ogni minoranza eogni deviazione (fisica, razziale, ecc.) in nome di una“normalità” statistica surrettiziamente tramutata innormativa. Il che vale anche per la vergognastigmatizzante a cui una certa giurisprudenza ritieneutile esporre il trasgressore in alternativa a multa ecarcerazione, convinta di promuovere così una rinascitadel senso (comune) morale. Ora, per quanto – lo si è giàricordato – non possa esistere un diritto privo di baseemozionale, essendo «l’autorità della coscienza morale[…] l’autorità dei sentimenti, tra i quali anzitutto […]collera e vergogna» (Schmitz 1990: 344), evidentemente inuna loro variante selezionata e ritenuta giuridicamentepertinente, l’educazione e la riabilitazione giuridicatramite l’atmosfera di vergognosità pare abbia44 «La vergogna provata dentro di sé […] conduce spesso al desiderio che glialtri si vergognino, così come conduce a pratiche d’umiliazione o di costrizioneattiva alla vergogna tramite l’imposizione di uno stigma a persone e gruppivulnerabili» (Nussbaum 2004: 259).

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soprattutto esiti controproducenti. Intanto perché adifferenza della colpa coinvolge l’intera personalitàdello stigmatizzato e non solo le sue azioni, umiliandolopubblicamente e vellicando pericolosamente i desiderinarcisistici di invulnerabilità dei giudicanti (Nussbaum2004: 254-55)45, ma anche perché misconosce i criteri didignità ed eguaglianza indispensabili in una democrazialiberale. Anche quando si abbia in mente «un individuomolto potente, colpevole di un narcisismo e di unapretesa d’invulnerabilità che sembrano del tuttopassibili dell’invito alla vergogna» (ivi: 285), occorredunque, seppure a malincuore, riconoscere che lagiuridicizzazione dell’atmosfera di vergogna ècontroproducente. Essa induce il reo, in preda ora a unostato emozionale ingestibile, a ulteriori violazioni, esdogana un orientamento conservatore, finalizzato aomogeneità e controllo sociali, contrario a quella«salute emozionale» che coinsisterebbe, sobriamente,nell’«aspirare ai nostri obiettivi senza la finzionedella perfezione» (ivi: 370).

4. Un’altra atmosfera: la vergogna vicaria. La vergogna èdunque un sentimento più atmosferico che interiore, non è(poi) “in noi” più di quanto non sia (prima) diffusanello spazio vissuto prelocale e predimensionale(Griffero 2010b). Il che vale anche per il casopatologico del dismorfobico, che si vergogna di una partedel proprio corpo erroneamente sovrapercepita, nonché delparanoico, che si sente ovunque osservato e perseguitatoe quindi non in grado di assumere la necessaria e

45 «Il biasimo dell’opinione pubblica non è così antinarcisistico come sembra;per molti versi è un’ansiosa difesa da parte della gente nei confronti di unvaglio del proprio stesso narcisismo» (ivi: 287).

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salutare posizione ex-centrica46. Ma vale anche per lavergogna metafisica o esistenziale, tanto che essasegnali l’inadeguatezza dell’uomo rispetto alleprestazioni tecnologiche (Günther Anders) o a qualchealtro ideale (Holzhey-Kunz 2006; Demmerling 2009: 87-90),quanto che protegga l’irripetibilità personale47 nellaforma di uno stato d’animo continuo e non aggressivo48.Infine, probabilmente, anche per la vergogna collettivaper quanto commesso dagli antenati e dai connazionali –pensiamo al tedesco “passato che non passa”!–49, priva delnaturale sbocco catartico della semplice vergogna.

Ma vale, soprattutto, oltre che forse entro certilimiti anche per il pudore (Griffero 2012), per la menostudiata vergogna vicaria, intesa come quell’atmosfera incui ci si trova inaspettatamente immersi, vergognandosial posto di chi, ad esempio «neppure notando ciò che dalui […] si pretende» (Lipps 1941: 41), magari non sivergogna affatto (Schmitz 2003: 45-47)50. Quando, per fare46 «La capacità di autodistanziamento riflessivo dipende ovviamente da unadeguato bilanciamento tra direzioni centrifughe e centripete della corporeitàpropria, il quale dia sufficiente spazio all’alternanza oscillatoria dellaprospettiva tra posizione proprio-corporea centrata e decentrata» (Fuchs 2005:262).47 Contrapposta da Straus (1933) come “vergogna esistentiva” a quella concentratasul giudizio altrui o “vergogna occultante”. Cfr. anche Binswanger (1957).48 Donde, infatti, una relazione col mondo meno specifica e una maggiore durata(Demmerling 2009: 89, n. 13). Emblematica, in questo senso, la concezione dellavergogna di Scheler (1933) come quella tensione tra l’idealità dello spirito eil vincolo al corpo materiale (in altri autori, Bergson in primis, notoriamenteritenuta l’impulso iniziale del riso!); tensione che, mentre segnalal’imperfetta spiritualità dell’esistenza dell’uomo (che si percepisce come“ponte” o passaggio), indica pure la necessità di trascendere, grazie appunto alpudore, ciò che «lo renderebbe del tutto simile all’animale: la sua corporeità»(Tagliapietra 2006: 66). 49 Un’atmosfera opprimente che (Schmitz 2006: 199-201) spiegherebbe l’attenzioneesclusiva per i propri interessi corporativi nella Germania postbellica, e allaquale dovrebbe subentrare una meno paralizzante incresciosità circa laresponsabilità di alcuni tedeschi.50 Possiamo arrossire «con lui e per lui, anche se egli può non avere un senso divergogna sufficiente ad arrossire per conto proprio o non valuta la situazione

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un esempio, ci si vergogna del volgare atteggiamento diun amico da noi introdotto in società (e ovviamente delfatto che possa essere identificato con noi), «lavergogna stessa, in quanto atmosfera suscitata dalcomportamento vergognoso si scarica, nella forma mitigatadel penoso imbarazzo, sui presenti incolpevoli emarginali rispetto alla vergogna» (Schmitz 2005a: 199).Ciò che accade anche protensionalmente, ad esempio perchési conosce meglio dell’altro la situazione e si prevedepertanto la sua imminente gaffe (Lipps 1941: 30), oppureperché ci si vede costretti a chiedergli esplicitamentedi fare ciò che invece egli dovrebbe fare da sé (ivi:41).

Anche la vergogna vicaria non ha il proprio principiumindividuationis in un aspetto volizionale o motivazionale,spesso addirittura assente, o in un contenutoproposizionale, ma, più verosimilmente, nel suo specificodecorso proprio-corporeo: anch’essa assale in formacentripeta, improvvisamente, violentemente (non le si puòresistere) ma per breve durata51, e per qualcosa di presente, adifferenza della colpa, che opprime a lungo e sempre perqualcosa di pregresso. Per la sua atmosfericitàsovrapersonale in un certo senso diffusa “nell’aria” esvincolata perfino da un evento particolare, a differenzadel sentimento di penosità52, la vergogna vicaria èesprimibile linguisticamente solo ex post, quando menointensa si è fatta l’immancabile vettorialità centripeta(Landweer 1999: 52). Essendo fin da principio altamente

nel suo significato reale» (Goffman 1967: 108). 51 Assume una forma volatile e manifesta solo per accessi, in base a una sorta di“legge del tutto o nulla” (cfr. Ballerini/Rossi Monti 1990, 1997; Rossi Monti1998). 52 Cfr. la risposta di Schmitz (2003: 196, 203 e n. 129) a Thomas Fuchs.

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contagiosa e diffusiva, giacché, se in generale «la colpaè focale e si concentra come in un punto, la vergogna èestensiva e si espande come una macchia» (Tagliapietra2006: 38), essa coinvolge emozionalmente tutti itestimoni a patto che siano sufficientemente sensibili,assorbendoli in un certo senso nella sua «zona dicondensazione» (Schmitz 1990: 343)53 e paralizzandoli inun’«angoscia del questo» (Schmitz 1964: 235) che, adifferenza di quanto accade in altri sentimenticollettivi ma anche nella vergogna personale, lacondivisione non mitiga, ma addirittura acutizza: lavergogna vicaria può così intensificarsi fino al panicomorale di essere contagiati dalla devianza, rivelandosiperò per questo tutt’altro che innocente, funzionalecom’è alla rimozione di aspetti indesiderati dellapropria personalità. Diffondendosi non empaticamente –come si può simpatizzare con un sentimento che la fontedella vergogna neppure prova? –, essa si delocalizza,«una volta che ha avuto inizio, in cerchi di disagiosempre più larghi» (Goffman 1967: 116), inducendo gliinvolontari spettatori della violazione o anche solodell’altrui intimità violata a vergognarsi più dellapersona (zona di condensazione) che non della suacondotta (punto di ancoraggio), esattamente come, perquanto illogico sia, si teme normalmente più l’assassinoche non la morte che egli può causare.

53 Mutuiamo qui la critica schmitziana della (illusoria) intenzionalità deisentimenti (come se non fosse possibile arrabbiarsi senza il qualcosa di cuiarrabbiarsi!): più sempolicemente, quelli “centrati” possono avere una zona dicondensazione (colui che è catturato dalla vergogna o involontariamente lairradia) (Schmitz 2006: 194-195) e un punto di ancoraggio (la circostanzaumiliante che suscita vergogna) (Schmitz 1990: 302). Cfr. Blume (2003: 79) eDemmerling (2009: 77).

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a. Vergogna a bassa intensità? Colui che irradiavergogna può non provarla anzitutto perché poco sensibilee ricettivo, ma anche perché indotto dalla ciecainclinazione difensiva alla rimozione a proseguireimperterrito nella propria condotta vergognosa eaddirittura, magari grazie all’elevatissimo grado diemancipazione personale raggiunto (ossia di scissione traaffettivo e riflessivo), a ridere del proprio attovergognoso, pur di dimostrarsi indipendente dal giudizioaltrui e quindi superiore al sentimento atmosferico,comunque avvertito (Blume 2003: 76)54. Tutte strategie dioccultamento che emancipano magari dalla vergogna“convenzionale” ma non certo da quella morale, superiorea qualsiasi riserva critica mobilitata e proprio perquesto portata spesso a cercare una via d’uscita nellatrascendenza religiosa (Schmitz 1990: 330; 2003: 324;2006: 198). Ma la situazione più comune è probabilmentequella che vede la persona, da un lato, aggredita dallaferoce autorità dell’atmosfera vergognosa suscitata e,dall’altro, in forza di un livello superiore diemancipazione, relativamente in grado di rinnegare comepuerile o del tutto errata, magari perché eteronoma,l’emozione provata (Schmitz 2002: 170; 2003: 319; 2005b:92-93).

Esattamente come l’atmosfera vergognosa personale,anche quella vicaria (degli altri e per gli altri) possiedeun’autorità più o meno intensa, senza verosimilmente maiassumere la forma acuta (catastrofica) e talvolta anchepatologica. I diversivi sono qui anche più numerosi e54 Donde una vera e propria patologia morale, ma anche, in positivo, la legittimaesigenza di non voler interiorizzare i luoghi comuni morali altrui e diresistere a un’eteronomia sempre moralmente sospetta. Mason (2010: 408) parla aquesto proposito di «vergogna autonoma».

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accessibili: si cambia repentinamente canale televisivose intollerabilmente vergognoso è ciò che si vede, cosìcome si colpevolizza colui che ci ha inopportunamentepermesso di coglierlo in qualche comportamento intimo. Néal coinvolgimento affettivo manca un carattere focale(selettivo), dipendendo la vergogna anche in questo casodal significato e valore attribuiti a persone ed eventi,nonché dalla norma ideale a partire dalla qualeimplicitamente li giudichiamo. Sono gli esiti proprio-corporei involontari e forse di valore adattivo, i quali,esattamente come avviene nel dolore, nell’angoscia, nelpanico, ecc., attestano una regressione dalla presenzasviluppata a quella primitiva (Schmitz 1990: 163), aessere invece meno intensi e più marginali, diventandoper questo utilizzabili in forma stigmatizzante.

Certo si arrossisce, e forse anche qui proprio quantopiù se ne è consapevoli (fino al caso estremodell’eritrofobia), rivelando così senza possibilità disimulazione la propria colpa anche all’ignaro, ma anchericonfermando, adattivamente in senso sia biologico siasociale55, la propria non ipocrita adesione interiore allanorma violata (Castelfranchi 1998: 173 sgg.), eimplorando di conseguenza l’indulgenza altrui. Anche qui,forse perfino con una certa diminuzione della temperaturacutanea, si vorrebbe fuggire, peraltro invano, visto checi si può dirigere solo verso quel luogo (il sé) in cuigià si è e dal quale appunto si desidera evadere (Schmitz1990: 339; 2006: 197). Si vorrebbe sprofondare, comunquesparire, esprimendo tutto ciò con una generale perdita di55 Proprio al carattere involontario del rossore (Darwin docet!), che svela ilsentirsi in colpa rispetto a norme evidentemente condivise con una formaespressiva tipica dell’innocenza infantile, è infatti tradizionalmente ascrittoun valore evoluzionisticamente adattivo.

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tono posturale – contrazione, testa china, spalle curve,occhi bassi, il tutto nell’illusione magico-infantile difarsi piccoli, riducendo la propria esposizione aglialtri, e di non essere notati da chi non si sta guardando–, che già nella vergogna personale segnalal’autoridimensionamento del proprio ruolo. Meno intensima per nulla assenti anche i tipici gesti di “copertura”della vergogna: ci si nasconde il viso tra le mani, sireclina la testa di lato, ci si mordicchiano labbra elingua, si aggrotta la fronte e ci si produce in falsisorrisi, ci si tocca il naso, ci si gratta la testa, cisi sfrega le mani. E anche se non si abbassano propriogli occhi, però li si socchiude, pur di “non vederetroppo”, oppure si attua una “diversione dello sguardo”che va dal moto repentino degli occhi (Darwin) allacosiddetta “faccia da pesce”, tacitando conl’inespressività facciale l’umiliante vissuto (Hilgers2006: 13). Si adotta forse perfino quel tono basso emonotono, pieno di pause e sospiri, con cui chi sivergogna spesso finge di aver voluto fare proprio ciò dicui si dovrebbe vergognare (Anolli 2000: 52-55;Castelfranchi 1998: 186 sgg.), allo scopo, nel casospecifico della vergogna vicaria, di rimediare allacondotta dell’altro, così “salvandogli la faccia”,facilitandogli il ritrovamento di uno stato dicompostezza ed evitandone l’emarginazione. E, ancora,fingendo di non aver visto o sottostimando pubblicamentela sua violazione, pur di non precipitarlonell’intollerabile atmosfera di “non poter guardare glialtri negli occhi”: un’atmosfera che può essere perfinosolo ipotetica, come quando, distogliendo lo sguardo dalmendicante, ci si vergogna della vergogna che pensiamo

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egli provi (Lewis 1992: 12). Pur non valendo, adifferenza di quella personale, come excusatio finalizzataalla non emarginazione (Castelfranchi 1998: 188 sgg.) –il gruppo essendo originato qui, anzi, propriodall’atmosfera di stigmatizzazione altrui –, la vergognavicaria non sembra però del tutto estranea alla dupliceingiunzione sociale che spinge il singolo, qui iltestimone, prima a vergognarsi di sé, e poi,ricorsivamente, a vergognarsi di questa stessa vergogna56.Mentre non ci si sente affatto in colpa per il fatto disentirsi in colpa (Rossi Monti 1998), chi si vergogna,perfino se in forma vicaria, vive una sorta dimetavergogna per il fatto, ad esempio, di rivelare aglialtri ma in fondo anche a se stessi la propria conformitàa valori che non vorrebbe avere e a maggior ragioneesibire57.

Tutte reazioni proprio-corporee indubbiamente a bassaintensità rispetto a quelle suscitate dalla vergognapersonale acuta, ma altrettanto soggette alle strategiemesse in campo dalla cultura sociale (col galateo inprimis) per difendersene, eventualmente, con un’operazionetutt’altro che innocente e comunque rischiosa anche perla propria immagine58, mediante la superba identificazionecon l’incolpevole occhio sociale e l’integraleesteriorizzazione, con funzioni di autosgravio ed

56 Si pensi, prototipicamente, alla perdita di autostima che si prova quando sivede la propria immagine riflessa stravolta dalla rabbia della vergogna (Wurmser1990: 46).57 Un caso tra i molti possibili: ci si può vergognare del fatto di vergognarsiperché si visti in compagnia di un fallito, proprio perché non si vorrebberivelare così il proprio conformismo sociale.58 «Anche colui che getta il discredito è altrettanto colpevole del soggetto sucui il discredito stesso viene gettato; anzi a volte lo è anche di più inquanto, se egli si è dato delle arie di persona di tatto, nel distruggerel’immagine dell’altro egli distrugge anche la sua» (Goffman 1967: 115).

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eteroinferiorizzazione vittimaria, della propriavergogna. E qui sta l’aspetto forse più sorprendentedella vergogna (atmosferica) vicaria. Perché,nononostante dapprima non si percepisca «qualche[proprio] attributo come un marchio infamante» (Goffman1963: 17), essa implica pur sempre una relativacondivisione della condotta stigmatizzata (potrebbe pursempre “capitare anche a noi”) e ci constringe avergognarci della stima mal riposta59, mostrandosiovviamente tanto più intensa quanto più ci è prossima lafonte della vergogna (connazionalità, amicizia,parentela, ecc.). L’identificazione60 di giudicante(attivo) e giudicato (paralizzato), fungente nellavergogna personale, ritorna, mitigata e come si è vistoin forma non strettamente empatica, anche in quellavicaria. Nel guardare dall’alto in basso (gli altri maanche sé) sulla base di una certa “competenza emotiva”61,si attua infatti un decentramento prospettico, chepermette di provare ciò che dovrebbe provare ilvergognoso, evidentemente non totalmente altro. E diprovare così atmosfericamente la sua vergogna, tral’altro perfino se la sua violazione fosse solo presunta,se corrispondesse a norme infondate, pur socialmenteintroiettate (Landweer 1999: 37), o comunque non valideper chi le viola (Schüttauf-Specht-Wachenhausen 2003: 24sg.). Un’atmosfera che invece è assente quando laviolazione riguarda norme totalmente idiosincratiche59 È infatti fondamentale, anche per la vergogna atmosferica, che chi la provanon sia né del tutto estraneo né del tutto vicino al vergognoso (Simmel 1901:72).60 «Vergogna simultanea» (Schmitz 1964: 5-6, 248-249, 278-279, 393-394).61 Cioè la «capacità di provare emozioni appropriate al contesto, di gestire e difar fronte alle proprie esperienze emotive, nonché di fornire risposte coerentie pertinenti con la situazione e con le aspettative dell’interlocutore» (Anolli2000: 15).

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degli altri, e magari anche costitutive della loroidentità, ma a noi evidentemente ignote (Demmerling 2009:79).

b. Vergogna o solo imbarazzo? Pur se ragionevole,l’obiezione secondo cui la vergogna vicaria, implicandonecessariamente un pubblico (Taylor 1985: 69; Schmitz2006: 200; di contro Blume 2003: 88, n. 7) e concedendochances reattive maggiori, ad esempio ironiche, rispettoalla vergogna personale, andrebbe derubricata comeimbarazzo non può qui essere accolta. Pur costringendoindubbiamente con minore intensità alla menzogna e alrisentimento proiettivo, alla degradazione altrui e allafuga in ruoli di copertura (professionali, sentimentali,domiciliari, ecc.), allo stratagemma di declassare lavergogna in colpa circoscritta e perciò risarcibile e/odi reindirizzarla culturalmente nella direzione delle“buone maniere”62, la vergogna vicaria, infatti, non èaffatto un imbarazzo passeggero (Landweer 1999: 122),«uno stato momentaneo, provvisorio e privo diconseguenze» (Nussbaum 2004: 241-242). Ciò che si puòaffermare è che la vergogna vicaria contempla unapossibile progressione dall’iniziale imbarazzo fino a unavergogna63 non solo «sulla pelle» ma anche «profonda»(Heller 1983: 10), e ciò non nonostante ma proprio per lasua possibile condivisione.

62 Il saper “stare a tavola”, per esempio, occulta l’imbarazzo di un’attività infondo animalesca come il mangiare (Schmitz 1990: 385).63 Si potrebbe parlare di un’intera famiglia di sentimenti di vergogna:«imbarazzo, timidezza, vergogna per la cessazione di una competenza, vergogna dadipendenza, vergogna dell’intimità, vergogna come terzo escluso (vergognaedipica), vergogna per la discrepanza tra un ideale (del sé) e lo stato-dell’-è[,] sentimenti di vergogna connessi al provare un senso di colpa, donde spessol’inevitabile sviluppo nella spirale vergogna-colpa, [e a] umiliazione emortificazione» (Hilgers 1996: 15).

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Anche la vergogna (atmosferica) vicaria comporta delresto una lesione dell’immagine di sé64, quel dolore delsé trasparente (Anolli 2000: 30) che consiste nel vedersicome si è visti dagli altri, e cioè nella propriaintollerabile “nudità”. Di qui, pur nell’ovvia curiositàdi vedere meglio e di più, il desiderio «che lo spaziooccupato da me diventi immediatamente vuoto» (Williams1993: 106), in questo caso per non essere collusi con lavergogna (Tagliapietra 2006: 17-18) o, in virtù di unadiversa «focalizzazione emotiva» (Anolli 2000: 124), perdimostrare di non subirne l’attrazione. Perché mai,altrimenti, ci si vergogna di essere uno dei pochipartecipanti di una qualche conferenza, tanto da fingeredi essere in quel luogo per caso? Forse perché ci siconsidera un rappresentante di coloro che sonocolpevolmente assenti (così Simmel 1901: 76); forseperché, avendo investito il proprio tempo in un evento discarso interesse, ci si mostra non all’altezza delloscopo «rispetto a cui si vuole apparire adeguati»(Castelfranchi 1998: 167), fosse anche solo quello diutilizzare bene il proprio tempo; ma soprattutto perchési condivide l’umiliazione atmosfericamente irradiata(sentita o meno, non importa) dal conferenziere,vergognandosi così di ciò che si è scoperto di essere(Mason 2010: 420).

5. Giochi atmosferici. È proprio per scongiurare questaprobabile autoumiliazione, infatti, che anche la vergognavicaria si tramuta in aggressione stigmatizzante. Ilnesso, tragicamente noto, tra la vergogna e la collera daumiliazione, nel caso della vergogna personale diretta

64 «Non si può più incontrare nessuno. Poiché non si è più ciò che si credeva diessere e che pur sempre ancora si pretende di essere» (Lipps 1941: 39).

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sia contro se stessi, fino al suicidio (Wurmser 1990:331; Schmitz 1973: 46), sia contro coloro da cui ci sisente giudicati, fino al duello per “lavare” l’onta(Landweer 1999: 44), si orienta nella vergogna vicariainvece sul responsabile della vergognosità atmosferica:un furore generato anche in questo caso dall’incepparsisia del sentimento sotto-distanziato, grazie a cui ildolore sfocia nel complesso d’inferiorità, sia di quellosovradistanziato, che mitiga il dolore medianteun’iperattività che, pragmatica e/o linguistica che sia65,reagisce in forma comunque distorta alla realtà (Scheff1988: 402).

L’atmosfera della vergogna vicaria sollecita dunque iltestimone (relativamente) innocente, convinto di supplirecosì alla mancanza di vergogna in chi dovrebbe provarla,a imporre al colpevole un “gioco dell’inferiorizzazione”,tanto più intenso quanto più elevati sono gli standardsociali adottati. Un gioco da cui si sente a sua voltaaltrimenti minacciato, ravvisando pertanto nellastigmatizzazione sociale una via d’uscita dalla propriaintollerabile vergogna. Questo gioco relazionale (Anolli2000: 73) dell’inferiorizzazione è in larga misuracontesto-dipendente: ci si vergogna, ad esempio, dellagiacca lisa di chi sia improvvisamente caduto indisgrazia ma non del clochard, di una malformazionefisica congenita ma non di una accidentale e quindi noncostitutiva della persona (secondo una peraltrodiscutibile tesi di Simmel 1901: 69), di averinvolontariamente violato la privacy di una personadiscreta (ivi: 80-82) ma non, ad esempio, di un65 Il linguaggio del vergognoso è ora prolisso e ora laconico (Anolli 2000: 31-32, 56-59), talvolta canalizzandosi ritualmente nella bestemmia (Heller 1983:29).

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personaggio pubblico normalmente spudorato, e così via.Un inferiorizzare che resta pur sempre anche uninferiorizzarsi, che sia per non aver impedito lacondotta vergognosa altrui o per la sensazione di nonesservi completamente estranei; in genere perché ci sisente visti «in modo improprio, dalla persona sbagliatanella condizione sbagliata» (Williams 1993: 96), cioè dauna terza persona anche solo immaginaria, al cui giudiziosi tiene66, e che ci è assiologicamente tanto affine dariconoscere il nostro disagio come disagio, forseaddirittura da una società idealizzata e ben distinta daquella che pare non stigmatizzi a sufficienza la condottavergognosa da cui si è atmosfericamente investiti.

Insufficiente, infine, la spiegazione della vergogna –personale ma anche vicaria – come mero contraccolpo diun’iniziativa fallita (Schmitz 2006: 196). Se certa èl’«inversione dello spazio direzionale» (Schmitz 1973:42), da centrifugo a centripeto, quale iniziativa èinfatti legittimamente attribuibile a chi si vergogna(ivi: 43) perché viene deriso, o a colui di cui suomalgrado vengono rivelati dei segreti? A chi, conun’esposizione inconsapevole67, si vergogna per avere

66 «La vergogna è un dolore o un turbamento relativo a quelle colpe che sembranocondurre alla disistima o dei presenti o dei passati o dei futuri. […] Ènecessario che ci si vergogni per quelle colpe che sembrano essere turpi o a noio a persone di cui ci preoccupiamo […] Poiché dunque la vergogna èun’immaginazione riguardante la disistima, e in vista della disistima stessa enon delle sue conseguenze, e poiché nessuno si preoccupa della stima se non percausa di coloro che ci stimano, ne consegue necessariamente che ci si vergognadelle persone di cui si tien conto», che sia perché ci ammirano o perché leammiriamo, comunque «di quelli la cui opinione non disprezziamo […] dinanzi acoloro che dedicano attenzione a noi […], a coloro che non sono colpevoli dellestesse cose […] a coloro presso i quali non abbiamo mai subito alcun insuccesso[…] In generale, ci vergognamo dinanzi a coloro per cui abbiamo rispetto»(Aristotele 1973: 83-86).67 Difficile quindi poter considerare la vergogna, distinta dall’imbarazzo, unatrasgressione volontaria (Anolli 2000: 46).

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erroneamente salutato uno sconosciuto (Schmitz 2006:196), per i propri difetti fisici o per la propriacondizione sociale ed economica68, per avere subito unostupro69, o magari addirittura per essere sopravvissuto adaltri innocenti, che si tratti di un incidente o deicampi di sterminio (Primo Levi)? È certo possibile(Schmitz 1997: 159) attribuire a “iniziativa” un piùvasto significato protensivo, nel senso che ci sivergognerebbe di quanto involontariamente siamo, adesempio dei difetti fisici, anche se coperti dagli abiti,solo perché, inevitabilmente, ne immaginiamo l’eventualel’esposizione ad altri. Analogamente, ci vergogneremmovicariamente perché la percezione dell’altro coimplical’anticipazione del nostro poter essere responsabili diun’analoga condotta vergognosa. Ma se così fosse, perchémai confessare ad altri la propria infrazione attenua lavergogna tanto personale (ivi: 156) quanto vicaria? Èprobabile che la pur condivisibile campagnaantipsicologistica neofenomenologica di Schmitz butti quipurtroppo il bambino (l’interiorità della norma violata)con l’acqua sporca (l’integrale interiorità deisentimenti).

L’analisi fenomenologica e proprio-corporea dellavergogna come sentimento tanto personale quanto vicario,nonché dei giochi relazionali che essa suscita, seattesta indubbiamente la tendenza alla sadicastigmatizzazione dell’altro, sventa però forse anchel’oblio di quell’autotrascendenza negativa (Tagliapietra2006: 174) che dell’ontogenesi e filogenesi sia68 Obiezioni alla tesi schmitziana del “contraccolpo dell’iniziativa” in Wildt(1995: 31) e Blume (2003: 96-108).69 Salvo ammettere che ci si vergogni, in tal caso, per non aver voluto o potutoreagire, e perfino per aver provato comunque piacere.

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dell’individuo sia della comunità pare essere la garanzianon accidentale. All’odierna ingiunzione all’impudicizia,scambiata per sincerità e autenticità e che pare toglierecittadinanza all’esigenza di un segreto incondizionato,cioè trascendentalmente estraneo al rischiaramentopiuttosto che semplicemente non ancora svelato, sicontrappone con forza anche la nostra interpretazionedella vergogna come quasi-cosa. Rivendicandone cosìl’appartenenza a quell’atmosfericità che è irriducibilenella sua natura sovra- e presoggettiva a un internomondo privato, ma che della vita è la “cifra” peculiare.Nell’atmosfera della vergogna, personale o vicaria,infatti siamo e dobbiamo essere affettivamente coinvolti:nostra res agitur!

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