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Una Ragione Per Vivere

Jan 28, 2023

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Titolo originale: Out of BreathCopyright © 2013 Rebecca Donovan.

All rights reservedFirst published by Amazon Children’s Publishing

Traduzione dall’inglese di Sofia RivaPrima edizione ebook: maggio 2014

© 2014 Newton Compton editori s.r.l.Roma, Casella postale 6214

ISBN 978-88-541-6366-9

www.newtoncompton.com

Edizione digitale a cura di Way to epub, Roma

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Rebecca Donovan

Una ragione per vivere

Il nostro segreto universo trilogy

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Newton Compton Editori

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Per la mia adorata amica e sorella Emily.Sei la mia gioia, e la scelta che non ho mai dovuto fare.

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«N

Prologo

on so nemmeno perché mi sono presa la briga di rispondere. Sì, forse te neparlerò prima o poi, quando la smetterai di fare lo stronzo». Rimasi in cima

alle scale con una pesante scatola di libri in equilibrio tra le braccia. Sara fece unsospiro triste, perciò immaginai che avesse riagganciato.Feci un po’ di rumore mentre mi avvicinavo alla porta, in modo che sapesse che

stavo arrivando e cercasse di contenere la rabbia. Mi aveva parlato della suadecisione di chiudere la storia con Jared, ed ero stata ad ascoltarla. Eppure nonero in grado di darle alcun consiglio. Sara non si era confidata molto con me,ultimamente, per paura che anche la più piccola cosa potesse sconvolgermi. Nonche fossi così fragile. Semplicemente mi rifiutavo di parlare di… be’, di tutto.«Tutto qui?», chiese Sara, con un sorriso più splendente del solito, a dispetto

dell’irritazione che ancora si leggeva nei suoi occhi.«Puoi parlarmene, lo sai», proposi, cercando di essere l’amica di cui aveva

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bisogno in quel momento.«No, non posso», disse; poi riportò l’attenzione alle scatole disseminate per

tutta la stanza. «Non c’è molto da sistemare qui. Questa stanza è così piccola!».Lasciai che evitasse l’argomento, visto che preferiva così.«Non ho bisogno di niente. Davvero. Non preoccuparti».«Sapevo che l’avresti detto», rispose Sara con un leggero sorriso. «È per questo

che ho portato solo una cosa per decorare la tua stanza». Prese una borsa cosìgrande che sembrava quasi una valigia, e tirò fuori una cornice. Se la rigirò tra lemani, e poi la sollevò sotto il mento con un sorriso raggiante. Era una foto di noidue a casa sua, davanti alla grande finestra che dava sul giardino principale, sullosfondo. Anna, sua madre, l’aveva scattata l’estate che avevo vissuto a casa loro.Dalla luminosità dei nostri sguardi si capiva che stavamo per scoppiare a ridere.«Ohmiodio», disse Sara seriamente scioccata. Socchiusi gli occhi, confusa. «È un

sorriso quello che vedo sul tuo volto, Emma Thomas? Mi stavo chiedendo se neavrei mai visto uno di nuovo».La ignorai, serrando le labbra, e mi voltai verso la scrivania incassata nell’angolo

della piccola camera da letto.«Perfetto». Sara posò la foto sul comò, ammirandola. Io tirai fuori i libri e li

riposi sullo scaffale sotto la scrivania. «Ok, sistemiamo le tue cose. Sono cosìcontenta che non sei più nel dormitorio scolastico. E mi è sempre piaciuta Meg…e anche Serena, anche se non mi permetterebbe mai di cambiare il suo look. Cilavorerò su. Ma Peyton, invece?»

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«È innocua», dissi, rompendo una scatola di cartone vuota.«Immagino che ogni casa abbia bisogno di un dramma», notò Sara,

appoggiando una pila di camicie ripiegate in un cassetto aperto. «E se Peyton èl’unico dramma di questa casa, posso sopportarlo».«È quello che penso anch’io», risposi, appendendo gli abiti nel minuscolo

armadio.Sara appoggiò la scatola degli stivali neri sul letto. «Lasciamo gli stivali nella

scatola o li mettiamo nell’armadio?». Cominciò ad aprirla, ma io la chiusi di colpo.Lei sobbalzò e mi guardò allarmata.«Non sono stivali», dissi, accorgendomi della tensione nella mia voce.Sara, vedendo la mia espressione seria, spalancò la bocca sorpresa. «O-kay.

Dove la metto?»«Non mi interessa. In realtà preferirei non saperlo», risposi. «Vado a prendere

qualcosa da bere. Tu vuoi niente?»«Acqua», rispose Sara, con voce calma.Quando tornai con le due bottigliette d’acqua, qualche minuto più tardi, Sara

stava facendo il letto, e la scatola era sparita. Ora non mi restava che sistemarele scarpe in fondo all’armadio. Possedere poche cose aveva i suoi lati positivi.Mi misi a sedere sulla sedia girevole davanti alla scrivania mentre Sara si piazzò

a pancia in giù sul letto, passando in rassegna la collezione di cuscini che avevasistemato lì per bellezza. Sapevo che li avrei stipati sull’ultimo ripianodell’armadio non appena lei se ne fosse andata.

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«Sai che l’ho lasciato perché non sono capace di gestire una relazione adistanza, vero?», chiese Sara. Io mi girai sulla sedia, sorpresa dalla sua decisionedi confidarsi.«So che è difficile per te. Lo è sempre stato», risposi. Aveva avuto lo stesso

problema al liceo, quando noi eravamo in Connecticut e Jared frequentava ilCornell College a New York. Ma lei l’aveva fatta funzionare andando a trovarlopraticamente tutti i weekend negli ultimi mesi di liceo.«Andrò in Francia; non ci sarà modo di farla funzionare», proseguì. «Non mi

sembra giusto farlo aspettare».«Ma vorresti che uscisse con qualcun’altra mentre sei via? Perché praticamente

gli stai dando il permesso. E che succede poi quando torni?».Sara rimase in silenzio, appoggiando il mento sulle mani con gli occhi fissi a

terra. «Non voglio saperlo. E se io incontro qualcuno a Parigi, neanche lui devesaperlo. Perché in fondo, so che siamo fatti per stare insieme. Ma non sono sicurache sia arrivato il momento giusto per ammetterlo».Continuavo a non capire la sua logica, ma non volevo contraddirla.Si mise a sedere all’improvviso, senza lasciarmi il tempo di rispondere. «Allora,

pensi che… visto che me ne andrò… posso dire a Meg qualcosa di te? Non tutto:quel che basta in modo che possa starti vicina mentre io non ci sono. Detesto ilpensiero di essere lontana senza che nessuno…».«Si occupi di me», terminai.«Già», rispose, con un sorriso gentile. «Non voglio che resti da sola. Hai la

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tendenza a stare lontana da tutti per giorni interi. Non va bene. Ti chiameròcomunque ogni giorno, ovviamente. Ma detesto non esserti vicina… in caso tu…».Sara abbassò lo sguardo, incapace di finire la frase.«Sara, non farò niente», le promisi, senza convinzione. «Non hai motivo di

preoccuparti per me».«Già. Ma questo non significa che non lo farò».

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«B

1Il vaso di Pandora

onne année!», urlò Sara al telefono. Musiche e voci esplodevano attorno alei, ed era difficile sentirla con chiarezza. O forse era perché chiamava da

Parigi, e la ricezione non era delle migliori.«Buon anno anche a te», risposi ad alta voce. «Anche se qui mancano ancora

nove ore all’inizio dell’anno nuovo».«Be’, allora lasciati dire che il nuovo anno sembra assolutamente favoloso da

qui! Questa festa è pazzesca. Piena di designer ubriachi», ridacchiò; forseneppure lei era così tanto sobria. «E ho disegnato io stessa il vestito che hostasera».«Sono sicura che è fantastico. Vorrei poterlo vedere». Mi chiesi se dovevamo

davvero continuare a urlare per farci sentire, ma lei non si appartò in un posto più

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tranquillo. Mi adeguai, perché volevo sentire la sua voce, anche se era brilla. Nonl’avevo sentita quasi mai da quando aveva cominciato il programma di scambioculturale in Francia, in autunno.Avevamo passato l’ultima estate e ogni vacanza durante il nostro primo anno di

college insieme in California. Sapere che l’avrei comunque vista almeno una voltaogni due o tre mesi rendeva la mia vita quasi sopportabile. Fino a quel momento,il mio secondo anno di college era stato uno schifo. Se non fosse stato per le miecoinquiline, non avrei fatto nulla oltre che dedicarmi alla scuola e al calcio.«Non ti chiuderai a chiave nella tua stanza come hai fatto il Capodanno scorso,

vero?»«La porta non sarà chiusa a chiave, ma resterò nella mia stanza», confermai.

«Dov’è Jean-Luc?»«È andato a prendere una bottiglia di champagne. Ti mando una foto del mio

vestito appena riattacco».«Ehi, Em…». Meg fece capolino nella mia stanza; poi si accorse che ero al

telefono. «Scusa. È Sara?».Annuii.«Ciao, Sara!», urlò Meg.«Ciao, Meg!», urlò Sara di rimando.«Um, penso che ti abbia sentito», dissi a Sara, mettendomi un dito nell’orecchio.

«Ora io però non sento più nulla». Meg sorrise.«Be’, devo andare», urlò Sara sovrastando un boato di risate. «Il mio uomo e lo

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champagne sono arrivati. Ti chiamo domani. Ti voglio bene, Em!».«Ciao, Sara», risposi. Dio, quanto mi mancava. Non ero sicura che se ne

rendesse davvero conto. Non che glielo avessi detto, comunque. Eppure mimancava. Mi mancava… tanto.«A quanto pare sta passando un Capodanno da sballo», notò Meg, sedendosi sul

mio letto. «Sentivo la festa dall’altra parte della stanza».«Quando esci?», chiesi, sapendo che aveva appuntamento con alcuni amici a

San Francisco per festeggiare.«Tra un’ora. Andiamo a cena fuori prima della festa».Il mio cellulare squillò, e un’immagine di Sara riempì il display. Era meravigliosa,

ovviamente, in un vestito verde scuro lucido e senza maniche, che le scoprivaplatealmente le spalle prima di richiudersi a collo alto. Sembrava una disinibitaragazza degli anni Venti. Aveva i capelli rossi e ondulati raccolti sulla nuca. Stavaarricciando le labbra rosse, con gli occhi che le brillavano mentre Jean-Luc labaciava sulla guancia stringendo in mano una bottiglia di champagne.Mostrai la foto a Meg. «Sexy. L’ha disegnato lei il vestito?»«Già», risposi.«È fantastico».«Concordo».Posai il telefono sulla scrivania accanto al computer mentre Meg chiedeva: «Ti

spiace se prendo in prestito gli stivali neri?»«Fai pure». Mi voltai verso lo schermo e ripresi a scaricare i libri per il trimestre

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successivo. «Sono nella scatola sotto il letto».«Puoi ancora cambiare idea e venire con me», propose Meg. Sentii la scatola

scivolare sul tappeto.«Grazie, ma preferisco di no», le dissi. «Non sono una grande fan del

Capodanno». Provai a mantenere un tono piatto, per non far trasparire nulla dallamia voce. L’ultima volta che avevo festeggiato, l’anno nuovo portava con sépromesse di felicità e di un futuro di cui volevo far parte. Ora, era solo un’altrapagina strappata dal calendario.«Em, ti supplico un’ultima volta. Ti prego, ti prego, ti prego, vieni con me

stasera», si lagnò Peyton sulla soglia. «Non voglio andare con Brook. Non escimai con me, ed è Capodanno. Fai un’eccezione per questa volta!».Mi voltai sulla sedia per declinare l’offerta per la millesima volta. Prima che

potessi dire una parola, i suoi occhi si illuminarono, e la sua attenzione si spostòverso Meg. «Ooh, che cos’è?».Seguii il suo sguardo indagatore mentre entrava nella stanza. Meg aveva

appena tolto il coperchio alla scatola che aveva appoggiato sul letto. La scatolasbagliata. Quando si aprì, un effluvio di ricordi e un insondabile mal di cuore sisparsero per la stanza. Non riuscivo a respirare.Meg strappò la T-shirt bianca con le impronte blu dalle mani di Peyton non

appena lei la sollevò.«Basta, Peyton!», la rimproverò Meg. Rimasi paralizzata a guardarla mentre mi

sventagliava in faccia il mio passato.

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Non sei ancora diventata brava a sparire.La sua voce mi attraversò la testa, causandomi un brivido lungo la schiena.«È bellissimo», esclamò Peyton, tirando fuori il mio maglione rosa. «Posso

prenderlo?»«No! Basta così, Peyton!». Meg le strappò il maglione di mano e lo rimise nella

scatola. «Scusa, Em».Fui invasa da una fitta di dolore, che mi fece soffrire più di quanto non avessi

sofferto nell’ultimo anno e mezzo. Non riuscivo a dire una parola. Mi sentivo comescorticata viva, un fascio di nervi scoperti.Prima che Meg riuscisse a rimettere il coperchio sul mio passato, Peyton prese

una scatolina per gioielli.Non puoi prenderla. Per favore, ti pagherò. Ma non puoi portarmela via.Sentii la disperazione riecheggiare dentro me, e il ricordo di quello sguardo duro

e freddo accese un’ondata di panico che mi liberò da quella tortura silenziosa.Mi alzai dalla sedia e strappai la scatolina blu dalle mani di Peyton. Il mio

movimento improvviso la costrinse a fare un passo indietro. Rimisi tutto nellascatola e la richiusi. Il cuore mi batteva così forte che mi tremavano le mani.Afferrai il bordo del coperchio, aspettando che il dolore diminuisse. Ma era troppotardi. Il semplice gesto di aprire quella scatola aveva liberato l’ira, il senso dicolpa e la disperazione che avevo nascosto nelle mie più oscure profondità, e nonsarebbe bastato un coperchio a fermarle.«Scusa, Em», sussurrò Peyton. Non mi voltai. Infilai la scatola sotto il letto e feci

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un respiro profondo. Sentivo il cuore consumarsi lentamente ai bordi come unpezzo di carta che brucia, e le fiamme si avvicinavano lentamente al centro.Chiusi gli occhi e provai a fermarlo, ma senza successo.«Vado a fare una corsa», mormorai, a malapena udibile.«Ok», rispose Meg, cautamente. Per paura di ciò che avrebbe potuto vedere nei

miei occhi, non osai guardarla mentre spingeva Peyton fuori dalla porta. «Civediamo quando torni».Mi cambiai al volo e in pochi minuti fui fuori dalla porta. Con l’iPod che suonava

musica a palla nelle orecchie, cominciai a correre. Aumentando la velocità finchéle gambe non mi fecero male, tagliai per le stradine laterali verso il parco.Barcollai fino a fermarmi, incapace di respingere quell’ondata di emozione. Serraii pugni, tremante, e mi lasciai scappare un urlo gutturale, finché non fui sul puntodi svenire.Senza guardarmi intorno per vedere se avessi attirato l’attenzione di qualcuno,

ripresi a correre.Quando tornai a casa, avevo il viso inondato di lacrime e sudore. La stanchezza

per la corsa mi aveva aiutata a estinguere una buona parte dell’incendio, ma nontutto, per quanto ci avessi provato. Dentro, bruciavo ancora. Pensai a cosapotessi fare per spingere di nuovo nell’oscurità il dolore e tornare al mio normalestato di insensibilità. Non potevo farcela da sola. Avevo bisogno di aiuto. Erodisperata.«Peyton!», urlai dal fondo delle scale. Lei abbassò la musica nella sua stanza e

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fece capolino dalla porta.«Ehi, Em. Che c’è?»«Vengo con te», sbrodolai, cercando di trattenere il respiro.«Cosa?», chiese, incerta di avere capito bene.«Vengo alla festa con te», ripetei più chiaramente, con il respiro che cominciava

a farsi affannoso.«Sì!», esclamò. «Ho una canotta perfetta per te!».«Fantastico», mormorai, dirigendomi verso la cucina per prendere un bicchiere

d’acqua.«Non immagini quanto sono contenta che hai cambiato idea», cinguettò Peyton

mentre uscivamo dalla sua Mustang rossa in fondo a una strada piena di auto.Anche da laggiù, la musica invadeva tutto l’isolato.«Non c’è problema», risposi, con voce assente. Avevo bisogno di distrarmi dalle

voci che improvvisamente affollavano i miei pensieri. Avevo bisogno di trovare unmodo per tornare nel torpore.«Non puoi metterti quel maglione», mi rimproverò Peyton prima che potessi

chiudere la portiera della macchina.«Ma fuori fa freddo», replicai.«Non dove stiamo andando. La casa è a pochi passi da qui. Forza, Em.

Adeguati».Riluttante, mi tolsi il maglione mostrando la canotta argentata con le paillettes

che portavo sotto e rabbrividii mentre lo buttavo in macchina.

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«Molto meglio», commentò Peyton con uno sguardo di ammirazione e un sorrisoacceso, raggiungendomi sul marciapiede e prendendomi a braccetto. «Andiamo afesteggiare!».Peyton camminava accanto a me nel suo vestito rosso senza spalline, con i

capelli biondo platino che le pendevano a ciocche lucide sulle spalle. I suoi occhitra l’azzurro e il verde erano accesi per l’eccitazione mentre mi accompagnavaverso la musica che si faceva più forte a ogni casa che superavamo. Mimeravigliai che non avessero ancora chiamato la polizia. Quando mi guardaiattorno, però, mi resi conto di essere circondata da alloggi di studenti. Lamaggior parte dei residenti erano probabilmente fuori per le vacanze invernali, oa una festa.Ci avvicinammo a una casa beige con una grande tenda bianca nel giardino sul

retro. Un paio di ragazzi ci diedero delle corone e dei cappelli a cilindro mentreentravamo. Peyton si infilò la corona sulla testa e io presi un cilindro. Un ragazzoprese con un mestolo del liquido rosso da un grosso contenitore e lo versò neibicchieri; poi li posò sul tavolo davanti a noi.Gli occhi di Peyton si spalancarono quando presi il bicchiere. «Sai che è alcolico,

vero?»«Sì, lo so», risposi con noncuranza, bevendone un sorso. Era… dolce. Mi

ricordava un punch di frutta troppo zuccherato. Non sarebbe stato difficile comepensavo. Perché mia madre aveva scelto il terrificante gusto della vodka puraquando esistevano alternative del genere?

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«Ma tu non bevi», ribatté Peyton, ovviamente scioccata.«Anno nuovo, vita nuova», tagliai corto, sollevando il bicchiere.Lei fece un ghigno e diede un colpetto al bicchiere: «Alla tua nuova vita!».

Peyton ne bevve solo un sorso, ma io decisi di scolarmi tutto il bicchiere, perchévolevo che facesse effetto prima possibile. Dopotutto, ero lì per questo.«Em!», mi rimproverò Peyton. «Lo so che non sembra, ma c’è un sacco di alcol lì

dentro. Forse è meglio se rallenti un po’».Scrollai le spalle e ne afferrai un altro prima di entrare nel tendone stipato di

gente. Ci facemmo strada fino al palco dove si esibiva una band, con un chiassoche impediva ogni possibilità di fare conversazione – e per me andava benissimo.«Ehi!», chiamò Peyton, riconoscendo un ragazzo alto con i capelli castani

ondulati che indossava la tipica giacca a quadri del college.«Ti stavo aspettando», disse Giacca a Quadri.«Te l’ho detto che stavo arrivando», rispose lei, allegra. Si voltò verso di me e

disse. «Tom, lei è Emma, la coinquilina che non hai ancora incontrato».«Wow», disse Tom. «Non posso credere che sei venuta davvero».Io mi sforzai di sorridere, chiedendomi cosa gli avesse detto Peyton di me.

Potevo solo immaginarlo.«E lui è Cole», disse Tom, spostando la mia attenzione verso un ragazzo biondo

dalle spalle larghe che stava accanto a lui.«Ciao», rispose Cole con un cenno e un vago sorriso. Peyton mi diede una

gomitata. La ignorai e a malapena risposi al cenno, prendendo invece un altro

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sorso dal mio bicchiere.Insistendo, Peyton afferrò il braccio di Tom e disse: «Ho bisogno di un altro

drink». Tom guardò confuso il suo bicchiere pieno, ma lasciò che Peyton lotrascinasse via. Le lanciai un’occhiataccia mentre in tutta risposta mi fece unsorrisetto.«Ti stai divertendo?», urlò Cole sovrastando lo stridore del palco. Non sembrava

interessargli il fatto che ci avessero lasciati soli apposta. Misi una manosull’orecchio per fargli capire che non riuscivo a sentirlo. Invece di ripetere ladomanda, si chinò e disse: «Stavo cominciando a chiedermi se esistevi davvero.Continuavo a sentir parlare di te, ma non ti avevo mai vista». Mi feci indietro −non volevo incoraggiarlo ad avvicinarsi troppo −, e cominciai a osservare la follaattorno a noi. «Non parli molto, eh?».Scossi la testa e bevvi un altro lungo sorso del mio drink per annegare l’inferno

che sentivo ancora bruciare sotto la superficie. Perché avevo pensato che andarea quella festa fosse una buona idea?«Sei meravigliosa».«Che ho fatto?»«Tu, tutto quello che fai… sei meravigliosa».La mia schiena si irrigidì, la limpidezza delle voci mi invadeva la testa. Le

immagini dell’ultima festa di Capodanno a cui avevo partecipato minacciavano diriaffiorare, e io le buttai giù con un altro sorso.«Hai intenzione di dire qualcosa?», chiese Cole, distraendomi dal doloroso

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ricordo di me ed Evan abbracciati a guardare i fuochi d’artificio nel cielo sopra dinoi.«Uh?», finalmente lo guardai. «Cosa vorresti che dicessi?», lo sfidai.«Be’, è già un inizio», mi prese in giro, per niente scoraggiato dalla mia

scortesia. «Vai a Stanford?».Annuii con la testa, e poi feci uno sforzo quando lui spalancò gli occhi in tono

accusatorio. «Sì», enfatizzai. «E tu?»«Sì, sono al terzo anno», rispose.«Secondo», risposi, indicandomi. Anticipai la prevedibile domanda successiva.

«Corso propedeutico a medicina».Lui sembrò impressionato. «Economia». Annuii di rimando. «Giochi a calcio con

Peyton?».Sospirai, e bevvi un altro sorso: detestavo le conversazioni banali. «Già, tu sei in

qualche squadra?»«No. Ho giocato a lacrosse alle superiori, ma qui niente».Non ero andata alla festa per fare quattro chiacchiere o per conoscere qualcuno.

Dovevo disfarmi di quel ragazzo. E non mi importava proprio nulla di cosaavrebbe pensato di me. Buttai giù l’ultimo sorso del drink.«Ho bisogno di un altro bicchiere», annunciai. «Ci vediamo». Mi girai e mi

allontanai prima che potesse rispondere, schivando la folla in cerca del tavolo deidrink. La band si fermò per una pausa, e iniziò un DJ set che scatenò unenergetico movimento di danza sul piccolo palco.

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Sentivo ancora troppo. Non avevo mai bevuto più di un paio di sorsi prima,quindi non sapevo quanto tempo dovesse passare prima che l’alcol facesseeffetto. E non avevo idea di come sarebbe stato, l’effetto dell’alcol. Mia madre siera data all’alcol per alleviare il dolore, e anche se avevo giurato che non avreimai bevuto, c’è un limite a tutto ciò che una persona può sopportare prima dirompere quella promessa. E io non volevo più soffrire.Mi feci largo tra la folla verso il lato opposto del tendone, dove su un tavolo

erano allineati i bicchieri pieni.«Vuoi qualcosa da bere?», mi chiese una voce all’orecchio.Mi voltai e vidi un ragazzo magro e muscoloso, con un ciuffo di capelli neri e una

linea scura di pizzetto al centro del mento. A giudicare dal tatuaggio dietrol’orecchio che gli arrivava al collo e dagli altri ragazzi con un look simile − T-shirte jeans strappati −, dedussi che faceva parte della band.«Dici a me?»«Già», rispose con un sorrisetto impertinente. «Sono Gev. Ho visto il tuo

bicchiere vuoto e ho pensato di darti una mano».«Be’, tu non ce l’hai proprio il bicchiere, quindi forse sono io a dover dare una

mano a te».Rise, ma io lo mollai lì e continuai a camminare verso il tavolo. Quando mi girai,

avevo due bicchieri in mano. Lui si fermò e sorrise quando gliene offrii uno.«Mi piace il tuo nome. È particolare».«Ci sono affezionato», disse con un rapido movimento delle sopracciglia, e io gli

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risposi con una risatina, alzando gli occhi al cielo.«Torni su?», chiesi, indicando il palco. Avevo improvvisamente deciso che

dopotutto potevo parlare con qualcuno, e lui sembrava abbastanza interessante.Almeno non era prevedibile.«No. Per stasera abbiamo finito. Ora devo rimettermi in pari». Si scolò il

bicchiere in un paio di sorsate. Lo guardai, divertita, e gli porsi l’altro, che luiaccettò con un sorriso sgargiante.«Come ti chiami?», chiese, allontanandosi dalla folla che si era formata davanti

al tavolo.«Emma».«Come ti senti?».Un minuto prima, avrei risposto: «in fiamme». Ma in quel momento mi accorsi

che le fiamme se n’erano andate. Al loro posto c’era un pigro ronzio. Una calmavorticosa si era impossessata di me, gettando un velo di torpore sui miei sensi.«Tranquilla», risposi con un sospiro profondo, sollevata che i vari drink fossero

finalmente entrati in circolo.Lui rise alla mia risposta. «Questa non l’avevo mai sentita».«Be’, non mi avevi mai incontrata».«Vero. Ma mi piace – voglio dire, il fatto che dici quello che pensi. Niente

stronzate. È figo».Scrollai le spalle.«Be’, un brindisi a chi non dice stronzate». Gev alzò il bicchiere, e io lo toccai con

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il mio prima che entrambi ne bevessimo un grande sorso.«Vai a…».«Niente stronzate», tagliai corto.«Ok», disse, prendendo in considerazione la mia richiesta. «Di che colore è la

biancheria che hai addosso?».La sua audacia mi prese alla sprovvista. «Non mi ricordo». Tirai i jeans dalla

cinta per dare un’occhiata. «Viola».«Carino», annuì, approvando.«E la tua?», chiesi, mi piaceva quella conversazione “senza stronzate”. Era più

interessante che parlare delle specializzazioni e delle squadre sportive.Gev fu più sfrontato: si sbottonò i jeans per mostrare la parte alta dei suoi

boxer. «Nero».«Lo vedo», serrai le labbra per non sorridere.Buttai giù un altro sorso e finii il bicchiere, abbandonandomi alla confusione che

a poco a poco mi stava annebbiando la mente.La mano di Gev scivolò sulla mia schiena mentre si avvicinava per chiedermi:

«Chi bacerai a mezzanotte?»«Quanto tempo ho?», domandai, come se facesse qualche differenza.Guardò l’orologio e rispose: «Un’ora».«Immagino che bacerò chi mi starà più vicino».«Allora farò meglio a non staccarmi da te», rispose, inarcando le sopracciglia.«Emma!», esclamò Peyton. Mi girai verso la sua voce e strizzai gli occhi per

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metterla a fuoco mentre si avvicinava. «Dov’è Cole?»«Non lo so», risposi quando finalmente la riconobbi accanto a me. Guardò prima

me e poi Gev e aggrottò la fronte, confusa.«Vieni qui», disse, afferrandomi per il braccio e trascinandomi via da lui.

Incespicai accanto a lei, impreparata a quel movimento improvviso. «Chi èquello?»«Gev. Fa parte della band», risposi, e lo salutai. Lui sollevò il bicchiere di

rimando.«Che è successo a Cole? È figo».«È noioso», sbuffai. «Gev è molto più interessante».«Quanti drink hai bevuto?»«Tre», sorrisi, orgogliosa della mia impresa. «E sono brilla».«Tre? Em, siamo qui solo da un’ora! Non puoi bere altro, o finirai a terra prima di

mezzanotte. E non penso che Gev vada bene per te».«E allora? Non sto cercando qualcuno che “vada bene”». Stavo solo cercando

qualcuno di interessante con cui parlare, o con cui bere. Ma non volevo perderetempo a cercare di spiegarglielo.«Ohmiodio. Sei già ubriaca».Riflettei sulla sua accusa e feci un largo sorriso. Ero brilla dalla testa ai piedi,

tranne le labbra, che mi formicolavano. Non mi importava ubriacarmi. Non eracome me l’aspettavo, ma non era male.«Già», risposi, prendendo per buona la sua considerazione. «Ora vado a cercare

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Gev». Ne avevo abbastanza della sua lezioncina. Non era divertente. Mi girai, e ilmovimento veloce bastò ad annebbiarmi completamente la vista. Rimasiimmobile per un istante, permettendo al mondo di rimettersi a posto prima dicercare i suoi capelli neri tra la folla.«Va bene. Ci vediamo a mezzanotte», mi urlò dietro lei.Sentii una mano afferrarmi il braccio, e mi voltai, con la testa pesante, trovando

i suoi occhi blu scuri. «Sono ancora vicino a te», disse lui, prendendomi la mano.«Dimmi qualcosa di interessante», chiesi, prendendo il bicchiere che mi offriva.«Penso che tu sia la persona più interessante che ho incontrato da molto tempo

a questa parte», rispose. Fece scivolare la sua mano attorno alla mia vita e sichinò per dire: «Balla con me».Stavo per aprire la bocca e spiegargli che non ballavo ma, prima ancora che me

ne accorgessi, finimmo strizzati tra i corpi sudati, e sentii le sue mani premerepoco sopra il mio sedere, stringendomi a sé. Gli buttai le braccia al collo pertenermi in equilibrio e lasciai che guidasse il ballo. Ballava anche per me, facendomuovere le mie anche con le sue.Il tempo passò velocemente e, senza accorgermene, mi ritrovai a gridare

insieme a tutti gli altri mentre l’anno finiva per lasciare il posto a quello nuovo.«Buon anno!», esclamammo tutti all’unisono. Gev mi fece fare una giravolta e si

assicurò di starmi vicino più di chiunque altro. Lasciai che le sue labbra umidescivolassero sulle mie, seguite con forza dalla sua lingua. La testa cominciò aronzarmi più forte quando chiusi gli occhi, aggrappandomi a lui. Lui mi tirò a sé,

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facendomi inciampare leggermente. Mi tenne stretta e continuò a baciarmiaggressivamente. Non lo fermai. Continuai a pensare a quanto fosse strano. Nonriuscivo a sentire le mie labbra, o forse non riuscivo a sentire le sue. In ogni caso,non sembrava ci stessimo baciando davvero, e io ero più concentrata su quellasensazione che sul bacio in sé.«Ti va se ce ne andiamo?», propose Gev, con il fiato che mi faceva il solletico sul

collo. «Vivo a pochi isolati da qui, e abbiamo l’idromassaggio».L’idromassaggio sembrava una buona idea. E poi, volevo sedermi. Le gambe non

mi reggevano più molto bene.«Certo», risposi, e lui mi scortò in mezzo al calore della folla e poi nel freddo

della notte. La temperatura doveva essere aumentata dopo il nostro arrivo,perché non avevo più bisogno del maglione. Lui mi tenne la mano mentre mifaceva strada sul marciapiede.Avrei giurato che mi avesse detto di vivere a pochi isolati di distanza, eppure mi

parve di vedere un milione di marciapiedi malmessi prima di arrivare finalmentenel giardino sul retro di casa sua. Ma non ricordavo di aver visto la portad’ingresso. Forse casa sua era davvero vicina. In ogni caso, eravamo lì e nonvedevo l’ora di sedermi.Gev scoprì la piscina idromassaggio nascosta vicino alle siepi. Quando aprì il

getto d’acqua, esaminai la vasca, cercando di capire come avrei mai potutosollevare le gambe oltre il bordo. Sembrava così… alta.Gev si spogliò e rimase con i boxer neri attillati che mi aveva mostrato in

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anteprima. Seguii l’esempio, facendo cadere a terra i jeans e la canotta. Miaccorsi di non avere più le scarpe, ma non ricordavo dove le avevo messe.«Adoro il viola», disse, tirandomi a sé e affondandomi il viso nel collo. Mi stava

distraendo dal dilemma di come entrare nella vasca. Stavo per spingerlo viaquando finalmente vidi i gradini. Sorrisi, orgogliosa.Mi condusse verso la vasca, e io ci scivolai dentro, tirando un sospiro di sollievo

quando riuscii finalmente a sedermi. Chiusi gli occhi e appoggiai la testaall’indietro. Tutto cominciò a girare.Sentivo le mani di Gev su di me e le sue labbra sulla mia spalla. Aprii gli occhi e

lui era lì, ansioso di altri baci. Mi voltai verso di lui e raggiunsi le sue labbra avide.Non riuscivo ancora a sentirle, ma non sentivo più nient’altro, quindi non miimportava.Mentre ero presa dai baci e dal turbinio dell’acqua calda, tutto all’improvviso

smise di esistere. La mia mente replicava il movimento dell’acqua, e il vaporeaveva formato una cappa attorno a me. Gev era di nuovo lì, e si spingeva su dime. Ero troppo assente per partecipare, troppo occupata a impedire al mondo disbandare sotto di me. Fu allora che mi sentii soffocare e capii che dovevo usciredi lì.Lo spinsi via e barcollai sui gradini, appena in tempo per trovare un cespuglio e

rovesciarci sopra il contenuto rosso del mio stomaco. Il mondo prese a girare piùveloce, e mi misi in ginocchio prima di vomitare di nuovo.«Stai bene?», chiese Gev dietro di me. Scossi la testa, rimettendo un’altra volta.

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Feci un respiro profondo inspirando aria fredda e mi misi in piedi, appoggiandomialla recinzione per tenermi dritta.«Ho bisogno di stendermi», gli dissi, senza sapere neanche dove fosse.Lui mi prese la mano e io lo seguii barcollando. Tutto mi sembrava sfocato. Mi

concentrai sullo sforzo di reggermi in piedi mentre provavo a rimanere al passo.Entrammo in casa; poi vidi una porta. La porta si aprì, e la luce rivelò che era unbagno.«Ti prendo dei pantaloncini e una maglietta», disse, e sparì.Mi aggrappai al bordo del lavandino e chiusi gli occhi, cercando di trovare

l’equilibrio. Le lancette della calma si erano rovesciate in un caos vorticoso. Eavevo un sapore orribile in bocca. Aprii il mobiletto sul lavandino e presi deldentifricio. Me lo strizzai sul dito, mi strofinai la lingua e mi sciacquai la bocca.Davanti a me apparvero dei vestiti piegati. Mi tolsi il reggiseno e le mutandine

bagnate e me li infilai. La T-shirt calda e asciutta odorava di buono quando me lapassai sulla testa. Poi la mano di Gev trovò di nuovo la mia, e lo seguii in unastanza buia.Gev era di fronte a me, con indosso un paio di pantaloncini. Mi appoggiai a lui

per non cadere, le mani premute sulla sua pelle nuda. Lui lo prese come un invitoe si chinò per assaggiare il dentifricio sulle mie labbra. Le sue mani afferrarono imiei fianchi, e mi baciò con forza. Il torpore dal quale avevo disperatamentevoluto essere posseduta mi impedì di sorprendermi quando le sue maniafferrarono il mio fondoschiena da sotto la T-shirt. Non mi importava che mi

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spingesse la lingua in bocca. Non mi importava che appoggiasse il suo corpoirrigidito contro il mio, gemendo. E non mi importava che mi sfilasse la T-shirtdalla testa e mi spingesse sul suo letto.

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Q

2Niente ripensamenti

uando aprii lentamente gli occhi, avevo la testa frantumata in mille pezzi. Misila mano sulla fronte per tenerla ferma mentre mi tiravo su appoggiandomi al

gomito.Dov’ero?Il più piccolo movimento intensificava la tempesta di fulmini che avevo nel

cranio. Diedi un’occhiata alla stanza stantia, cercando di ricordarmi cosa avessifatto e perché ero lì. C’era qualcuno steso accanto a me. Notai i capelli scuri dellafigura immobile sotto il piumone blu.Provai a ricordarmi qualcosa della notte prima, ma ottenni solo immagini

confuse della festa – e un ragazzo. Doveva essere quel ragazzo. Guardai sotto ilpiumone. Non avevo vestiti addsso. Il mio stomaco si chiuse e riaffondai sul

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cuscino. Guardai sul comodino e vidi un incarto aperto. Che cosa avevo fatto?!Sollevai la coperta ed esaminai il suo corpo nudo e slanciato. Aveva un sinuoso

tatuaggio sulla schiena, che finiva dietro l’orecchio. Chi era quel tizio? Sapevo chemi aveva detto il suo nome, e frugai nei miei ricordi distrutti per trovarlo. Gev.Eccolo.Volevo solo alzarmi e non rivederlo mai più. Ma non sapevo dove fossero i miei

vestiti. Sussultando per il dolore, strisciai fuori dal letto, cercando di nondisturbare Gev, che respirava pesantemente con la bocca aperta. Sembrava chenulla avrebbe mai potuto svegliarlo.Trovai una T-shirt e dei pantaloncini sul pavimento e me li infilai. Muovendomi

con cautela, per evitare che una schiera di asce mi trafiggessero la testa, miguardai attorno nella piccola stanza. Il letto a due piazze occupava la maggiorparte dello spazio. Le pareti erano ricoperte di poster rock, e i cassetti mezziaperti di un mobile consumato traboccavano di vestiti.Aprii la porta che conduceva a un piccolo corridoio, affacciandomi per ascoltare.

Un ronzio di voci arrivava da un televisore acceso; per il resto, silenzio. Passandodavanti al bagno, mi fermai immediatamente – riconoscendo il reggiseno e lemutandine viola che pendevano dalla maniglia. Incapace di ricordare il momentoin cui li avevo tolti, sospirai e me li misi sotto il braccio prima di procedere lungoil corridoio.Sul divano c’era una sagoma spaparanzata con il telecomando in mano e una

busta di patatine rovesciate sul pavimento lì accanto, mentre in televisione

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davano il notiziario del mattino. Gli passai accanto in silenzio, sussultandoquando la zanzariera cigolò mentre mi avventuravo nell’aria fredda del giorno.L’erba era coperta di rugiada, e mi gelava i piedi mentre camminavo nel prato sulretro. Vidi i miei vestiti, stesi accanto a una vasca idromassaggio. Tirai fuori iltelefono dalla tasca dei jeans prima di gettarmeli sul braccio insieme alla canotta.Mi strinsi nelle braccia per non tremare, e ascoltai il telefono squillare mentre mi

incamminavo verso il marciapiede. Sul bordo del prato, come se mi stesseroaspettando, c’erano le mie scarpe. Le raccolsi con un sospiro esasperato econtinuai a camminare.«Emma?», disse Peyton, ancora mezza addormentata. «Ti ho persa ieri. Dove

sei?»«Non lo so», sussurrai, anche se la mia voce sembrava comunque alta nella

tranquillità dell’alba in quel quartiere addormentato. Cominciai a notare deibicchieri di plastica disseminati lungo il cammino. «Penso di essere vicina allafesta. Dove sei?»«Sul divano», mormorò. Emise un lamento e disse: «Fammi trovare le scarpe e

ci vediamo fuori».Intravidi il vestito rosso di Peyton diverse case più avanti e continuai a

muovermi lentamente verso di lei.«Ehi», gracchiai quando finalmente la raggiunsi.«Ehi», disse di rimando. Mi schiaffò un cappello a cilindro sulla testa e si rimise a

posto la corona prima di prendermi a braccetto. Con la sua testa sulla mia spalla,

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ci dirigemmo barcollanti verso la sua Mustang, che sembrava essere a miglia didistanza.Mi infilai con cautela sul sedile del passeggero, cercando di non urtare le poche

cellule cerebrali che erano rimaste intatte, mentre Peyton si sistemava alla guida.Si mise i suoi enormi occhiali da sole e fece un sospiro di sollievo – ma la lucebastava a malapena a illuminare la strada, con i fari dell’auto spenti.Quando arrivammo a casa salimmo silenziosamente le scale e ci chiudemmo alle

spalle le porte delle nostre stanze da letto. Mi tolsi la T-shirt e i pantaloncini: nonvolevo sentirli addosso un secondo di più. Li gettai nella spazzatura e infilai unpaio di shorts e una canotta. Mi tirai le coperte sulla testa ed entrai in coma.«Emma?», mi chiamò piano Peyton. Ero ancora scossa quando si sedette

accanto a me. «Sei viva?»«No», borbottai da sotto le lenzuola. «Speravo di morire». Mi strinsi le coperte

sulla testa. «Bere è una cosa disgustosa».Peyton ridacchiò. «Il modo in cui hai bevuto ieri, sì. È quasi mezzogiorno.

Facciamo colazione. Ti sentirai meglio».«Non credo proprio», mi lamentai senza muovermi. «Penso che solo essere

decapitata potrebbe farmi stare meglio».«I grassi sono una cura miracolosa per la sbronza», promise lei.Feci capolino da sotto le coperte. I capelli di Peyton erano un casino, e aveva gli

occhi gonfi sbavati di mascara. Potevo solo immaginare il mio aspetto. Lanciandoun’occhiata allo specchio sopra il comò, mi passai le dita nel nido che un tempo

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erano i miei capelli e cercai di cancellare le righe nere che avevo sotto gli occhiiniettati di sangue. Avevo la bocca impastata, sentivo il sapore persistente diqualcosa di putrido.«Fammi prima fare una doccia», dissi, arrendendomi.Peyton si alzò e si diresse verso la porta. «Vado anch’io. Ci vediamo di sotto

quando abbiamo finito».Presi dei vestiti a caso dai cassetti e mi diressi alla cieca verso il bagno,

incapace di aprire gli occhi un po’ di più. Feci scorrere l’acqua finché non fu quasibollente e rimasi ferma sotto quel getto purificatore. Pian piano, mentre l’acquami bombardava la pelle, facendola diventare rossa, rimisi insieme i pezzi dellanottata.Sei davvero disgustosa.La voce odiosa di Carol mi risuonò in testa. Con gli occhi ben chiusi, la scacciai e

strofinai più forte.Provai a eliminare la sensazione delle mani di lui sul mio corpo e il sapore della

sua lingua nella mia bocca. Quando chiusi l’acqua, ero ancora schifata da mestessa.Dopo aver indossato dei jeans e un’enorme felpa verde con il cappuccio,

sistemai i capelli sotto un cappellino da baseball e trovai Peyton stravaccata suldivano. Si alzò, e appena ci girammo verso la porta, Meg rientrò. Sembravastanca, ma non mezza morta come noi.I suoi occhi passarono da Peyton a me, e poi di nuovo a Peyton.

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«L’hai fatta ubriacare», la accusò Meg.«Ha fatto tutto da sola», ribatté Peyton. «Stavamo per fare colazione. Vuoi

venire?».Abbassai la testa per non doverla guardare. Sentivo ancora lo sguardo di Meg su

di me quando rispose: «Certo».«Bene». Peyton le diede le chiavi. «Allora guidi tu».Trovammo una fila ad attenderci quando entrammo nel parcheggio del locale di

quartiere in cui facevamo colazione. Il ristorante era affollato da un mosaico divolti pallidi, che cercavano di rimettere insieme il loro capodanno.Fortunatamente, la fila si smaltì velocemente, e ci mettemmo a sedere in unquarto d’ora.Meg prese a studiarmi e scosse la testa. «Non ci posso credere che hai bevuto.

Voglio dire, tu non bevi mai. Che è successo?».Scrollai le spalle e mormorai: «Tutta colpa di Pandora». Meg mi concesse un

sorriso comprensivo, e io mi misi a guardare fuori dalla finestra.«Che c’entra la musica con la tua sbronza?», chiese Peyton, che non aveva

capito la mia citazione. «Dici il musicista che hai rimorchiato ieri sera? Staicercando di essere criptica?»«Aspetta. Sei andata a letto con qualcuno?!», Meg alzò la voce, attirando

l’attenzione di un paio di ragazzi che passavano. Affondai nel mio posto,tirandomi il cappello sugli occhi quando li sentii ridacchiare.«Meg!», disse severamente Peyton. «Perché non lo fai sapere a tutto il

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ristorante?»«Scusa», disse Meg con una smorfia. «Ma io…».«Non voglio parlarne», la interruppi con decisione. Entrambe aprirono la bocca

per rispondere, e poi la richiusero. Arrivarono le ordinazioni, grazie al cielo,dandoci qualcosa di diverso da fare che analizzare il mio comportamento daubriaca.«E tu dove sei finita, Peyton?», domandò Meg.«Sul divano di Tom», dichiarò lei. «Da sola. Lui è sparito verso le tre, e io non

riuscivo a trovare Emma, così mi sono addormentata sul suo divano».Mentre mangiavamo sandwich con uova e pancetta, Meg ci raccontò la sua

serata – non era stata altrettanto movimentata. E, come scoprii, i grassi avevanodavvero un effetto miracoloso. Almeno quando uscimmo dal ristorante, il miocorpo era un passo più vicino al ritorno nell’universo umano.Quando arrivammo ai gradini d’ingresso di casa, il mio telefono squillò. Sapevo

cosa sarebbe successo, e non ero pronta. Feci un respiro profondo e risposicomunque: «Ciao, Sara».«Buon anno!», urlò lei. Sussultai e allontanai il telefono dall’orecchio.«Non così forte», la pregai.«Uh, ok», rispose confusa. «Aspetta. Sei uscita ieri sera?»«Già», risposi piano. «Ma non ne voglio parlare».Sara rimase in silenzio per un istante. «Meg lo sa?».Mi sedetti sul divano e appoggiai la testa sul cucino. «Sì».

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«Posso chiederlo a lei?», chiese con cautela.Feci una pausa e deglutii. «Se prometti che non ne parleremo mai più».La sentivo rimuginare all’altro capo del telefono. «Promesso». Riagganciò, e nel

giro di trenta secondi suonò il telefono di Meg. Lei mi lanciò un’occhiata dall’altrocapo del divano.«Sara vuole sapere cosa mi è successo la scorsa notte, e le ho detto che non

volevo parlarne».«Ma io posso dirglielo, vero?», chiese.«Non davanti a me».Meg si alzò e cominciò a salire le scale mentre rispondeva al telefono. «Ciao,

Sara».«Vengo con te», la chiamò Peyton, facendo due gradini alla volta. Ovviamente si

sentiva meglio.Presi due aspirine con una bevanda energetica e rimasi sul divano, a guardare

film per tutto il pomeriggio.Strisciai nella mia stanza nel primo pomeriggio, lasciando le ragazze a un film

horror che non mi interessava per niente. Io e il sonno ci eravamo riconciliatidopo tanto tempo, e non volevo mettere a repentaglio il nostro rapporto per unfilm.Qualcuno bussò piano alla porta. «Entra», risposi.Meg infilò dentro la testa. «Ehi». Si sedette ai piedi del letto. «Ti senti ancora di

merda?»

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«Dimmi che passerà», supplicai, con gli occhi chiusi.«Domani starai meglio», mi rassicurò. «Peyton mi ha detto quanto hai bevuto, o

almeno quello che ha visto lei».Rimasi in silenzio. Poi finalmente disse: «So che non vuoi parlarne, e non lo

faremo. Prometto che non ne riparlerò più. Ma prima di annegare nella vergogna,devi sapere che tutti possono sbagliare. E per quanto mi riguarda, Ev…».«No», sbottai, prima che potesse finire il suo nome.«Scusa», disse, mordendosi il labbro. «Voglio dire che non conta. È stato un

errore e non conta nulla».Non avevo mai parlato con Meg della mia vita a Weslyn. Non le avevo spiegato

perché non uscivo quasi mai o perché mi rifiutavo di bere – almeno fino allascorsa notte. Ma avevo lasciato che Sara gliene parlasse quando era venuta atrovarmi dopo che mi ero trasferita in quella casa, l’estate precedente. Lei non miaveva mai detto cosa le aveva raccontato Sara, ma l’aveva aiutata a capireperché tenevo tutti a distanza. Mi fidavo di Meg.L’avevo incontrata il primo giorno agli allenamenti di calcio del primo anno.

Veniva dalla Pennsylvania, quindi era spaesata quanto me. Meg aveva accettatoil mio modo di fare distaccato, e istintivamente aveva sentito il bisogno diprendersi cura di me. Mi ricordava Sara, e avevamo subito legato.Nel corso dell’anno, ci eravamo ritrovate a frequentare Peyton, che sembrava

attratta da noi. A dire il vero, Peyton era attratta da tutti. Si rifiutava di essereignorata. Che la gente la odiasse o la amasse, a lei non importava. Penso che il

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suo carattere sfrontato fosse il motivo per cui mi piaceva averla accanto.E poi c’era Serena. Era della California, come Peyton, e ora stava passando le

vacanze natalizie con la famiglia. Ma quando era con noi, completava allaperfezione il nostro quartetto scoordinato. Serena era davvero la persona piùgentile che avessi mai incontrato, ma era un tipo molto diretto, e non si sarebbefatta scrupoli a mandare a quel paese un prete. Il suo stile di vita estremo e darkmi intrigava e intimoriva allo stesso tempo.Per quanto fossi grata per la pazienza che Peyton e Serena avevano con me, e

per il fatto che mi accettassero per come ero (anche se certe volte Peyton era unpo’ troppo… be’, Peyton), era di Meg che mi fidavo più di tutte, specialmenteriguardo a quel passato di cui non avevamo mai parlato. Meg era diventata lavoce della mia coscienza, quella che cercava di farmi stare sulla retta via. Quandomi avvicinavo al baratro, Meg era lì ad assicurarsi che non cadessi.Perciò quando mi disse che la mia avventura di una notte poteva essere

cancellata, decisi di accettare la sua rassicurazione e inghiottii tutto, lasciandoche alleviasse il senso di colpa come un antidoto. Eppure sapevo che era inutileprovarci – tutto aveva cominciato a franare nell’istante in cui aveva aperto quellascatola. Il mio comportamento vergognoso della sera prima era solo un’altrascelta distruttiva che avevo fatto e non poteva essere cancellata.

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I

3Anno nuovo, vita nuova

corsi del nuovo trimestre iniziarono la settimana seguente, permettendomi diproseguire il nuovo anno sepolta tra libri, lezioni e studio. Tutto sembrava

tornato alla normalità. Eppure non era più lo stesso, e io lo sapevo.Meg e io andavamo a scuola insieme in macchina. Visto che tutte e due

studiavamo per entrare alla Scuola di medicina, avevamo diverse lezioni incomune, ma mentre lei puntava più agli ospedali, io sognavo la quiete deilaboratori.Peyton imperversava in casa come al solito, e non bussava mai quando entrava

in bagno o nelle camere. Non le importava di invadere la privacy – a parte conSerena, l’unica di noi che aveva un ragazzo. Serena non tollerava moltol’invadenza di Peyton – o forse sarebbe meglio dire che era letteralmente irritata

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da Peyton.«Ok, ascolta», mi disse Peyton avvicinandosi mentre ero in cucina a prepararmi

un sandwich prima di andare ai campi da calcio con Meg. «So che la festa diqualche settimana fa è stata un po’ un disastro, ma penso che dovremmo uscireinsieme un’altra volta. Prometto di tenerti sotto controllo e aiutarti a valutare iltuo livello di ubriachezza».Risi a quella proposta assurda. «Peyton, ho bevuto quella volta e basta. Sono a

posto adesso, grazie».«Em», mi implorò appassionatamente, «hai avuto una brutta nottata, una sola.

Non significa che devi rinunciare alla tua vita sociale. Siamo al college. È ora discoprire chi siamo… e di mettere alla prova la nostra capacità di reggere l’alcol.Te lo giuro, si può bere qualche drink senza finire a letto con uno sconosciuto».Mi voltai di scatto e le lanciai un pezzo di pane. «Chiudi la bocca, Peyton».Si spostò e il pezzo di pane cadde sul pavimento. «Scusa. Davvero, ho detto una

stronzata. Mi dispiace», sussurrò umiliata. «Non avrei dovuto dirlo». Prima diandarsene mi supplicò: «Ci vuoi almeno pensare?»«Va bene», risposi impaziente. Volevo solo che la piantasse. «Ci penserò».«Fantastico! C’è una festa proprio sabato», cinguettò, e si voltò prima che

potessi replicare.«Vai a quella festa al College Green?», chiese Meg girando l’angolo, con un

pallone da calcio sotto il braccio.«Non…».

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«Vieni anche tu, vero?», intervenne Peyton prima che potessi finire.«Penso di sì», disse Meg alzando le spalle; poi mi guardò. «Non preoccuparti. Ci

divertiremo».Lasciai andare un sospiro sconfitto. «Ok», capitolai.Peyton fece un sorriso trionfante, e andò a bussare alla porta di Serena.«Che c’è?!», urlò Serena dall’altra parte.«Vieni con noi alla festa, sabato? Viene anche Emma».Serena fece capolino da dietro la porta e sollevò le sopracciglia rivolta a me.

«Davvero?»«Pare di sì».«Ok. Ci vengo», rispose, e sbatté la porta in faccia a Peyton.«Ti prego, non dirmi che vieni vestita così», si accigliò Peyton vedendo i miei

jeans strappati e la maglietta scolorita di un concerto sopra una camicia amaniche lunghe.«Non volevi che venissi?».Sbuffò e tornò in bagno per finire di truccarsi mentre io tornavo di sotto.Quando raggiunsi l’ultimo scalino, Serena entrò dalla porta con in mano una

busta di carta. Indossava dei pantaloni neri aderenti, un top nero con le spallinesotto una giacca di pelle corta, e un paio di stivali militari neri. I suoi capelli cortie scuri le incorniciavano con stile il viso incipriato. Un trucco pesante circondava isuoi grandi occhi marroni. Quello per Serena non era solo un look: era una sceltadi vita.

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Tornò dalla cucina con due birre in mano e ne offrì una a Meg, che era china sultavolino a mettersi lo smalto.«Io devo guidare», le disse Meg scuotendo la testa. Serena mi guardò e mi tese

la bottiglia.«Um, posso guidare io», mi offrii.«No», disse Meg. «Non fa niente. Se vuoi bere qualcosa fai pure. Vieni con noi,

non con Peyton. Ci prendereremo cura di te».«Ehi!», urlò Peyton dalle scale, offesa.Osservai attentamente la bottiglia tra le mani di Serena. La prima volta che

avevo bevuto, l’alcol non c’entrava nulla. E non volevo più ubriacarmi in quelmodo… mai più.«Ok», accettai, prendendo la bottiglia. Meg mi guardò sorpresa. Ma poi tornò a

dedicarsi alle sue unghie, cercando di non sembrare turbata dalla mia decisione.Serena si comportò come se bere qualcosa insieme fosse normale. Ma

d’altronde, Serena accettava sempre praticamente tutto e tutti, senza battereciglio. Ancora non conoscevo qualcosa che la sorprendesse.Bevvi un sorso e feci una smorfia. Già, non mi piaceva la birra. «Ha un gusto

orribile».Serena sorrise. «Poi ci fai l’abitudine».«Perché mai dovrei abituarmi a una cosa così schifosa?». Storsi il naso,

disgustata.Serena rise. «Ti preparo un drink», disse, prima di sparire in cucina.

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«Bevo io la tua birra», disse Peyton, comparendo in fondo alle scale. I capellibiondi dai riflessi dorati le svolazzavano sulla schiena, senza una sola ciocca fuoriposto. Era molto attenta al suo look, e si preparava con cura, dalle labbra rosalucide alle unghie dei piedi laccate. Non permetteva mai che qualcuno, a partenoi, la vedesse meno che perfetta. Il solo pensiero di ciò a cui si dovevasottoporre per raggiungere quell’obiettivo mi stancava.«Tu non bevi niente», la prese in giro Meg, avvitando il tappo dello smalto.

«Probabilmente avrai già provato tutto quello che c’è».«Simpatica», sorrise Peyton, riportandosi la bottiglia alle labbra.«Tieni, prova questo». Serena mi allungò un bicchiere con dentro del liquido

rosso. Il mio stomaco si chiuse istintivamente. Notando la mia smorfia, mirassicurò: «È vodka con succo di mirtillo. L’ho fatto anche piuttosto leggero».Accettai il bicchiere e ne presi un sorso. Sapeva più che altro di mirtillo con una

punta di qualcos’altro. «Grazie».Mentre Meg finiva di prepararsi nel bagno di sopra, noi ci sedemmo in soggiorno

– a bere. Una cosa che onestamente non avrei mai pensato di fare.Dovevo tenere il bicchiere in mano o appoggiarlo sul tavolino? Osservai Serena e

decisi di tenerlo. Presi un sorso, non volevo bere troppo velocemente. Sapevo diessere paranoica; dovevo solo rilassarmi.«Allora, che fa James stasera?», chiesi a Serena, nel tentativo di distrarmi dal

mio panico interiore.«Lavora», rispose Serena, che finì la sua birra e si alzò. «Peyton, sei pronta per

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un’altra?».James lavorava come buttafuori in uno dei club che ospitavano talenti rock del

posto. Con la sua testa rasata, la corporatura robusta e il tatuaggio sulla nuca, siadattava perfettamente al ruolo. D’altra parte, era un ottimo studente diStanford, e si stava laureando in pedagogia. Il pensiero di James che modellavale menti degli adolescenti mi faceva sempre sorridere.«Certo», disse Peyton.Io avevo a malapena finito il mio bicchiere, e loro erano già al secondo. Forse

bevevo troppo lentamente. O forse avevo solo bisogno di darmi una svegliatainvece di essere così ossessiva.«Tra qualche settimana c’è un concerto imperdibile», mi informò Serena. Passò

a Peyton un’altra birra.Serena era la mia linea diretta con i migliori spettacoli della zona. Ero grata di

avere una coinquilina che capisse il mio bisogno di ritmi ossessivi e chitarreelettriche. Meg e Peyton non apprezzavano il genere: preferivano la musica che tifa rimbalzare la testa e ondeggiare i fianchi, anche se di recente avevo portatoMeg a qualche concerto, con risultati incoraggianti.«Fammi sapere quando, e vedo se ho degli esami o altro da preparare». Presi un

altro sorso.«Em, hai passato tutte le vacanze a prepararti per gli esami del prossimo

mese», mi accusò. «Andrai bene in ogni caso. Non sarà certo una sera a fare ladifferenza».

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«Pronte per andare?», disse Meg, saltellando giù per le scale con una chioma diricci ramati. Finimmo i nostri drink e la seguimmo fuori dalla porta.Capimmo subito che eravamo arrivate nelle vicinanze della festa, perché non

c’era nemmeno un parcheggio. Dopo aver fatto il giro dell’isolato un paio di volte,finalmente riuscimmo a infilarci in un posto mentre un’altra macchina se neandava. Seguimmo un gruppetto di persone attraverso un cancelletto e dentro uncortile.Meg mi diede una gomitata, scherzando. «C’è una piscina».«Non ci provate», minacciò Peyton.«Stai tranquilla, Peyton», sbottò Meg. «Non lo faremmo mai, qui».Sorrisi.Due piani di appartamenti avvolti intorno a un cortile interno. La gente faceva

amicizia sulle balconate e nell’area centrale. C’era una mezza dozzina di porteaperte per garantire l’ingresso e al centro erano stati sistemati degli amplificatori,che sparavano a palla le più recenti canzoni hip hop.«Ci vuole un drink!», esclamò Peyton, sollevando le mani in aria e muovendo i

fianchi a tempo.Seguimmo il suo aderente maglione verde tra la folla. Fece girare molte teste

mentre ondeggiava avanti e indietro, ma era troppo concentrata sulla suamissione per accorgersene.Continuammo a salire le scale ed entrammo nella prima porta aperta che

trovammo.

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«Aspettate qui», ordinò lei. «Vado a prendere qualcosa».Non penso che saremmo potute andare più avanti anche se ci avessimo provato:

la stanza era pienissima. Peyton riapparve, con le dita infilate dentro piccolibicchieri di plastica pieni di Jell-O. Ne passò uno a ciascuna di noi. Guardai ilbicchiere, cercando di capire come mangiarlo senza un cucchiaio. Strizzando ibordi, cercai di risucchiare la gelatina.«Non masticare. Ingoia e basta», rise Meg mentre leccavo i pezzi di gelatina che

mi pendevano ancora dalle labbra.«Sempre consigli eccellenti», ridacchiò Peyton.Meg fece una smorfia. «Bleah. Mi riferivo alle gelatine, Peyton!».Mi ci volle un attimo per capire di che diavolo stessero parlando, e quando lo

capii rabbrividii per il disgusto. Peyton si accorse della mia reazione a scoppioritardato. «Oh, Emma. Sei sicura di aver fatto sesso con quel ragazzo della band?Perché secondo me sei ancora vergine».«Fammi prendere un altro giro così puoi provare di nuovo», propose Meg,

trascinando Peyton con lei.Quando tornarono, presi due piccoli bicchieri e attesi istruzioni.«Passa il dito lungo il bordo per allentarlo e poi fattelo saltare in bocca», disse

Peyton, offrendomi una facile dimostrazione. Io provai un’altra volta e riuscii amandarlo quasi tutto in bocca. Meg rise vedendo quanto ero imbranata con loshottino di Jell-O. Con quello dopo però andai meglio.«Ora aspetta che faccia effetto e non bere nient’altro prima di sentire il

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solletico», spiegò Serena.«Il solletico?», chiese Peyton inarcando le sopracciglia. «Serena, tu sei proprio

strana».«Se lo dici tu», fece Serena, voltandole le spalle.«Tom!», urlò all’improvviso Peyton rivolta verso il balcone opposto, dall’altra

parte del cortile. Con mia grande sorpresa, lui la sentì e fece un cenno. Lei miafferrò il polso e prese a farsi strada tra la folla, facendomi inciampare, anche sesembrò non accorgersene, o non dare alcun peso alla cosa.«Vi aspettiamo qui», urlò Meg dietro di noi.«Speravo proprio che ci fossi», esclamò Peyton quando raggiunse Tom,

abbracciandolo.«Sarebbe più facile se vi chiamaste», mormorai sottovoce. Tom e Peyton

avevano uno strano rapporto. Continuavo a sentir parlare di lui e di come siincontravano alle feste. A lei ovviamente piaceva. Ma eravamo convinte che nonsi fossero nemmeno scambiati il numero di telefono. Sembrava strano a tutte.«Ehi».Alzai lo sguardo e vidi Cole di fronte a me. Serrai la bocca, mi sforzai di sorridere

e subito capii perché Peyton si era tanto ostinata a portarmi con sé.«Wow, due feste. Sono stupito!», scherzò Cole.«Le feste non sono il mio forte», risposi, seccata.«Lo immagino», ribatté lui. «Altrimenti ti avrei vista prima».«Vero», ammisi con un piccolo cenno. «Be’, è un anno nuovo, sto provando cose

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nuove».«E qual è il prossimo punto della tua lista?», chiese Cole, senza distogliere da

me i suoi occhi azzurri. Evitai lo sguardo e osservai la folla attorno a noi.«Um… gettarmi da un palco», risposi senza pensarci. In realtà non avevo una

lista di “nuove esperienze”. Stavo improvvisando. Ma adesso che l’avevo detto,volevo davvero provarci.«Carino. Fammi sapere quando, non voglio perdermelo».«Vedremo», risposi: non volevo impegnarmi a vederlo di nuovo, a prescindere

dal suo aspetto. Quando voltò la testa in un’altra direzione, scivolai via. SentiiPeyton che mi chiamava, ma la ignorai.Quando mi feci largo per tornare dove avevo lasciato Serena e Meg, non trovai

nessuno. Passai al setaccio la folla e le vidi vicino alla piscina; poi sgattaiolai inun appartamento e presi qualcosa di frizzante, che sapeva di uva. Cominciavo asentire un leggero “solletico”, quindi immaginai di essere ancora al sicuro.Meg mi vide in cima alle scale e mi salutò. Io le feci un cenno e seguii la fila giù

per gli scalini. Quando arrivai in fondo, sentii un braccio cingermi la vita e tirarmidi lato.«Ehi, bellezza», mi mormorò Gev all’orecchio, baciandomi il collo. «Speravo

proprio di rivederti».«Uh, ciao», balbettai, con tutto il corpo che si irrigidiva al suo tocco. Mi guardai

intorno terrorizzata, ma non riuscivo a localizzare Meg o Serena. Poi i ricci di Megapparvero all’orizzonte, e riuscii a incrociare il suo sguardo. I suoi occhi passarono

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da me a Gev, e si avvicinò più velocemente, senza badare alla gente chescontrava.«Allora, come stai?», chiesi, con la voce leggermente rotta.«Sobrio», si lamentò lui. «Vado su a prendere da bere. Vuoi venire?».«Emma!», esclamò Meg, con un brillante sorriso che non mascherava del tutto la

preoccupazione che le lampeggiava negli occhi. «Eccoti qui. Pensavamo di avertipersa». Notò il braccio di Gev attorno ai miei fianchi e le mie spalle rigide mentrelui mi stringeva. «Ciao. Io sono Meg, e lei è Serena». Serena si limitò a un cennodel capo e non si prese neanche il disturbo di fingere un sorriso.«Gev», rispose lui. «Immagino che ci vedremo dopo», disse, baciandomi sulla

guancia prima di sparire su per le scale. Provai a sorridere mentre deglutivo ilsapore amaro del disgusto che tornava a farsi sentire in gola.«Stai bene?», chiese Meg, prendendomi per mano e portandomi via.«Sì, tutto a posto», risposi incerta, bevendo lunghi sorsi della roba viola nel

bicchiere che avevo nell’altra mano.«È figo», notò Serena, accanto a me. «Peccato che sia un completo idiota».Risi, e per poco non mi strozzai con il drink.Meg sorrise. «Non lo lasceremo avvicinare», promise, fermandosi vicino alla

piscina.«Ehi!», esclamò platealmente Peyton quando ci trovò qualche minuto dopo.

«Em, perché sei scappata così di nuovo? Penso che dovresti dare una possibilità aCole».

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«Non è il mio tipo».«Aspetta, state parlando del tipo con cui stai provando a farla mettere da, tipo,

sempre?», chiese Meg.«Uh, l’ho incontrato solo a Capodanno», ribattei.«Ma era da molto prima che volevo fartelo conoscere», sospirò Peyton. «Ho

bisogno di stare da sola con Tom, e loro due non si separano mai, quindi hopensato che saresti stata bene con Cole».«È chiaro che non mi conosci molto bene».«Andiamo», disse Peyton, mettendo il broncio. «Cole è il tipo di tutte». Guardò

Serena riflettendo e si corresse: «Be’… a parte Serena. Non è abbastanzastrano».«Vaffanculo, Peyton», replicò Serena.Meg rise al loro battibecco. Si lanciavano sempre frecciate velenose. A volte mi

chiedevo se si sopportavano oppure no.«Davvero, Em», proseguì Peyton. «È meraviglioso. È intelligente. È un surfista».«Non sono tipo da surfisti. Lasciamo perdere, ok?». Sentii improvvisamente una

stretta al petto e buttai giù l’ultimo sorso del cocktail all’uva per mandarla via.«Um, mi andrebbe un altro drink. A voi?»«Vengo con te», propose Serena, scortandomi verso un altro appartamento. «È

egoista come sempre», si lamentò. «Non farti condizionare da lei».«Non c’è problema», risposi tranquillamente.Aspettai Serena sulla balconata mentre portava fuori i nostri drink. Continuai a

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osservare la folla attorno a me, per paura di incappare di nuovo in Gev. Lei tornòpochi minuti dopo e mi passò un bicchiere di plastica rosso.«Jack e coca», spiegò Serena.Ne presi un sorso, e il mio stomaco si riaccese. «Wow», rabbrividii. «È forte».«Scusa», disse lei con una smorfia. «Non l’ho fatto io. Non ti piace?»«Non è il mio preferito», ammisi mentre la bocca mi si riempiva di saliva, «ma lo

berrò».Vedemmo Peyton e Meg che ballavano tra la folla accanto alla piscina.«Fantastico», mormorò Serena, e mi guidò verso un angolo meno affollato. Mi

appoggiai alle pareti esterne dell’edificio, sotto un balcone, sorseggiandolentamente il whisky con una goccia di coca. Il “solletico” si stava trasformando inun torpore leggermente intontito.«Un giorno andremo a una festa dove ci sarà della musica con cui anche noi

potremo ballare», mi promise Serena. «Questa musica fa schifo». Risi.Due ragazzi raggiunsero Meg e Peyton da dietro, appoggiandosi a loro e

mettendo le mani sui fianchi delle ragazze. Peyton si girò con un sorrisocivettuolo e buttò le braccia al collo del ragazzo. Meg si scansò dall’altro tizio, elui alla fine capì il messaggio e sparì tra la folla. Io sorrisi divertita.«Vado a prendere un altro drink», annunciò Serena. «Stai bene qui o vuoi venire

con me?».La festa adesso era al completo, e non volevo lottare tra la folla. «Aspetto qui».«Non muoverti», mi ordinò Serena. Annuii e presi un altro sorso. Si girò un paio

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di volte mentre saliva le scale, e io la guardai spazientita.«Ti ho trovata», esclamò Gev, comparendo dal nulla davanti a me. Si fece avanti

e appoggiò le labbra sulle mie. Mi immobilizzai, senza ricambiare il bacio. Lui sifece indietro, confuso. «Ce l’hai con me?»«Uh, no», risposi. Non mi aspettavo quella domanda.«È perché mi sono addormentato su di te l’altra volta?», proseguì. «Sai, prima

che potessimo farlo. Prometto che stasera non berrò così tanto».Il mio respiro si fermò, e lo fissai. “Non abbiamo fatto sesso. Oh. Mio. Dio. Non

abbiamo fatto sesso!”.«No, non è quello», dissi, sentendo le spalle che si rilassavano. «Penso solo di

averti dato un’impressione sbagliata».«Ah», annuì Gev, comprensivo. «Non ti piaccio così tanto».«Non mi piace nessuno», replicai, non volendo sembrare troppo dura. «Non

prenderla sul personale».«Non è un problema», sdrammatizzò. Non l’aveva presa affatto sul personale –

in realtà sembrava non gli importasse per niente. «Be’, divertiti, e se mai avessibisogno di alleviare un po’ di quella tensione, vieni a cercarmi».«Uh, certo», risposi con voce piatta, guardandolo mentre si allontanava.«Oh merda, Em», si lamentò Serena. «Mi dispiace! Mi ero proprio dimenticata di

Testa di cazzo. Che è successo?»«Non abbiamo fatto sesso», le dissi.«Be’… ovvio», rispose. «Voglio dire, state nel bel mezzo di una festa». Poi mi

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guardò. «Oh! Vuoi dire… l’altra volta?».Annuii. Mi ero aggrappata così tanto al senso di colpa, che ora mi riusciva

difficile abbandonarlo. Eppure non potevo negare di sentirmi molto più leggera alpensiero che non era mai successo. O forse era l’alcol che cominciava a fareeffetto. Osservai Meg che ballava ancora sul bordo della piscina e feci unsorrisetto.«Guarda questa», dissi a Serena, gettando il bicchiere vuoto a terra e

barcollando verso Meg. Mi dava la schiena mentre scivolavo verso di lei. Proprioquando le fui vicino, si girò verso di me e sorrise. Poi notò il mio sguardodiabolico e spalancò la bocca sorpresa quando la spinsi in piscina. Proprio quandolasciai andare una risata trionfante, lei mi afferrò il polso e assieme precipitammoin acqua.«Così siamo pari», sputacchiò Meg, con l’acqua che le usciva dalla bocca mentre

si aggrappava al bordo della piscina.«Per ora», dissi prendendola in giro.Ci stavano guardando tutti, alcuni divertiti, alcuni seccati. Quando trascinammo i

nostri corpi bagnati fuori dalla piscina, vedemmo che Peyton ci guardava male,con le braccia incrociate. «Andiamo», ci rimproverò. «Ci cacciano via».«Perché?», chiese Meg, confusa. «Per un tuffo in piscina?».Peyton lasciò andare un sospiro esasperato e si precipitò verso il cancello.«All’amministratore del palazzo non importa se si fanno delle feste», spiegò

Serena con un sorriso, «ma non gli va di pulire la piscina, quindi nessuno può

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usarla la sera».La folla si fece da parte per farci passare, fissandoci e ridacchiando. Quando

arrivammo sul marciapiede, sentimmo l’annuncio. «Vietato usare la piscina! Sequalcun altro ci entra, la festa è finita».Meg e io scoppiammo a ridere.«Be’, sicuramente avete fatto colpo», disse Serena, ridendo insieme a noi.«Non posso credere che l’avete fatto davvero», ci rimproverò Peyton. «Avevate

promesso!».«Meg aveva promesso», ribattei. «Non preoccuparti, non ti bagneremo la

macchina. Hai ancora le buste della spazzatura nel bagagliaio?»«Certo», disse Peyton, seccata. «Non posso credere che ci avete fatto cacciare».Mentre ci toglievamo i jeans e i calzini bagnati per metterli nelle buste della

spazzatura, Serena annunciò: «Buone notizie! Emma non è andata a letto conquel disgraziato!».«Cosa?!», sbottarono Meg e Peyton all’unisono.«Si è addormentato prima che succedesse», spiegai, distogliendo lo sguardo.«Non capisco», disse Peyton, scuotendo la testa. «Come facevi a non saperlo?».La guardai senza capire che cosa mi stesse chiedendo.«Voglio dire, non ti eri accorta che non l’avevi fatto?». Sospirò. «Wow, Em. Sei

davvero ingenua».«Peyton!», la rimproverò Meg mentre entravamo in auto.«Ho fatto sesso solo una volta», mi difesi. «Non avevo idea che ci si dovesse

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sentire indolenzite ogni volta».Questo le fece scoppiare a ridere. «Non… indolenzita», provò a spiegare Serena.

«Ma sicuramente ci si rende conto di quando qualcuno ha sconfinato».«Serena!», disse Meg, spalancando la bocca. «Sembra una cosa… disgustosa».«Ho capito», dissi piano, non volendo riflettere oltre sulla mia prima volta più di

quanto non volessi pensare a quello che avevo quasi fatto con Gev.«Oh, e comunque, Em – ho dato a Cole il tuo numero», annunciò Peyton.

Nell’auto scese improvvisamente il silenzio.«Che cazzo, Peyton!».

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M

4Salto nel vuoto

entre le mie mani frugavano alla cieca, alla disperata ricerca della scarpa, vidiuna foto mezza nascosta sotto il mio comodino. Rimasi in ginocchio, a fissare

il suo viso, incapace di toccarlo.Avevo scattato io quella foto. Eravamo nel bosco dietro casa sua. Gli avevo

preso la macchina fotografica e avevo cominciato a scattargli delle foto. Lui erastato sempre dietro l’obiettivo, non gli piaceva starvi davanti. Mi correva dietro,cercando di riprenderla. L’immagine era una foto in bianco e nero della sua manoche si allungava verso la macchina fotografica. Ma vedevo i suoi occhi dietro ledita tese. Erano grigi e lucidi sulla carta fotografica; brillavano, riflettendo la luce.Stava sorridendo. Non avevo bisogno di vedere il resto del suo viso per saperlo.Adoro quella foto.

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Mi si strinse il cuore quando sentii il sussurro della sua voce, che mi ricordòquanto mi mancava.Non avevo mai permesso a me stessa di provare nulla da quando l’avevo

lasciato in quella casa. Ora però ero travolta dalle emozioni più di quanto potessisopportare. E respirare mi sembrava impossibile.«Emma, sei pronta a…», la voce di Serena svanì.Mi sforzai di respirare, per trovare il coraggio di distogliere lo sguardo da

quell’immagine.«Sì», dissi con voce rotta mentre mi rimettevo in piedi, incerta. «Sono pronta».Serena esaminò il mio viso quando mi voltai verso di lei. I suoi occhi si

spostarono sulla foto a terra, ma non disse niente. Feci un altro respiro e serrai ipugni per impedire alle mie mani di tremare.Infilai il piede nella scarpa, la allacciai in fretta e dissi con un sorriso forzato:

«Andiamo». Il buco nero del vuoto in cui mi ero rifugiata tutto quel tempo sirifiutava di avvolgermi nelle sue ombre come avrei voluto. Non riuscivo più achiudere fuori tutto.Lo sguardo riflessivo negli occhi di Serena sparì in un attimo. Il suo viso si

accese con un grande sorriso. «Ok, andiamo!».Quando arrivammo al club, c’era già una fila di fan impazienti lungo il

marciapiede.«Ehi, Guy», Serena salutò il buttafuori uno sguardo luccicante. Lui rimase

impassibile davanti all’entrata, con i muscoli tesi sotto una maglietta che

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sembrava stesse per esplodere. Era pronto a prendere a calci qualcuno.«Serena», la salutò, e si fece di lato per farci passare. Ci furono delle lamentele

dietro di noi mentre entravamo.A Serena piaceva arrivare presto per guardare i preparativi frenetici dell’ultimo

minuto prima dello spettacolo. E poi voleva vedere James prima che prendesseposto davanti al palco.James ci trovò al nostro solito posto, sedute sul vecchio divano di velluto al

secondo piano. Si sedette tra di noi e si appoggiò al braccio di Serena dopoaverla baciata.«James, permetterai a Emma di tuffarsi dal palco stasera?», chiese Serena,

accarezzandogli con affetto la testa rasata.«Vuoi davvero buttarti dal palco?», mi chiese con un sorriso scettico. «Guarda

che di solito le ragazze vengono palpeggiate. Non è bello. E poi io sarei costrettoa fare qualcosa di brutto a tutti quegli idioti».«Allora meglio di no», risposi. Alla disperata ricerca di qualcosa che mi

permettesse di respirare di nuovo, non avevo preso in considerazione la parte delpalpeggiamento. Immaginavo che l’adrenalina fosse meglio dell’alcol. Se nonpotevo essere brilla, potevo almeno lasciare che il battito del cuore alleviassetemporaneamente il dolore. Ma farmi toccare da degli estranei non mi sembravauna cosa piacevole. Affondai nel divano.«E se si lasciasse cadere all’indietro?», suggerì Serena. Sollevai la testa a

quell’idea.

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«Puoi provare. Non lo fanno in molti perché non vedono chi li prende, è unaquestione di fiducia. Qualcuno ti prenderà sicuramente. Perché non fai surf sullafolla, senza lanciarti giù dal palco?».Lo presi in considerazione, ma sapevo che non sarebbe stata la stessa cosa.

«Voglio lanciarmi giù», spiegai. «E posso sopravvivere ai palpeggiamenti».James aggrottò la fronte, confuso. «Perché lo vuoi fare?»«Perché non riesco a respirare», dissi, in tono piatto. I loro occhi si fissarono su

di me.James fece una risata, scuotendo la testa. «Non ti capisco. È per questo che non

esci con i ragazzi, perché sei…?».«James!», lo rimproverò Serena, dandogli uno schiaffo sulla nuca con il palmo

della mano.«Non volevo dire quello», si difese lui. «È solo… diversa, ecco tutto. Non è una

cosa brutta». Si girò verso di me. «Sai che per me sei in gamba. Però davveronon ti capisco». Serena socchiuse gli occhi di fronte alla sua sincerità.«Nessun problema», risposi, impassibile. «Non mi capisco neanch’io». James

sorrise.«Stanno per far entrare il pubblico», ci informò, portandosi la mano all’auricolare

per sentire meglio. «Devo andare. Ci vediamo dopo il concerto». Diede un bacio aSerena e tornò al suo posto.«Vuoi davvero tuffarti all’indietro dal palco?», chiese Serena, con gli occhi scuri

che scrutavano i miei.

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Distolsi lo sguardo. «Già». Il mio cuore mancò un battito a quel pensiero,bloccando il dolore per una frazione di secondo. Dovevo farlo, sentire qualcosa,qualsiasi altra cosa.«Forse dovremmo farci un paio di shot», suggerì lei. «Così se finisci a terra non

sentirai niente». Si alzò e andò al bar lungo la parete laterale, parlò per qualcheminuto con la ragazza al bancone e tornò con due bicchierini bordati di zuccheroe due fettine di limone.Non avevo programmato di bere. Ma per salire sul palco…«Al tuo respiro!», Serena sollevò il suo bicchiere assieme al mio. Mi si strinse il

cuore a quelle parole. Toccai il suo bicchiere e buttai giù lo shottino, tutto d’unfiato come avevo visto fare così tante volte nella mia vita. Tossii, e il mio corposussultò. Il limone fece ben poco per alleviare il deciso sapore di vodka. Il miostomaco andò a fuoco mentre l’alcol penetrava tra le sue pareti.«Non mi piace molto», ammisi, serrando le labbra per il sapore aspro del limone.«Dopo sarà più facile», promise lei, sorridendo dolcemente. Avevo l’impressione

che non stesse parlando dell’alcol. «Troviamo un buon punto davanti al palcoprima che ci sia troppa gente». Saltò su dal divano e mi tirò dietro di lei.Serena mi diede un altro paio di bicchierini mentre ascoltavamo la prima band.

Continuavo a pensare che stava andando bene, che l’alcol non stesse facendodavvero effetto. Ma sinceramente non lo sapevo.Il frontman salì sul palco, e la folla si strinse attorno a noi. Saltammo a ogni

canzone, scuotendo la testa e lanciando i pugni in aria. Serena tornò con un altro

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bicchiere. Ero così persa nella musica che non mi ero accorta che fosse sparita.«Adesso, Em!», urlò passandomi il bicchiere. «Ora o mai più!». Buttammo giù

facilmente tutto il bicchiere – sembravo averci preso gusto.Serena urlava incoraggiamenti mentre io camminavo verso James. Senza un

pizzico di emozione, lui mi fece un breve cenno, per farmi sapere che il palco eratutto per me. Il mio cuore tornò a vivere, e il mio corpo era un fascio di nervi. Luisussurrò: «Buona fortuna», un attimo prima che saltassi sulla piattaforma.Arrivai al centro del palco e vidi con la coda dell’occhio qualcuno che mi indicava.

Un altro buttafuori dal lato opposto cominciò a muoversi verso di me, e sapevo dinon avere molto tempo. Se volevo farlo, dovevo farlo subito. Il mio respiroaccelerò. Sentivo l’adrenalina pompare dentro di me finché tutto il resto nonsparì, e quella fu l’unica cosa che riuscivo a sentire.Diedi la schiena al pubblico, sperando che tendessero le braccia sotto di me. Il

frontman continuava a cantare a squarciagola. Lo guardai mentre socchiudeva gliocchi per la curiosità. Gli sorrisi appena… e mi lasciai cadere indietro.Il mio stomaco si aprì, e lasciai andare un urlo eccitato. Sentii le mani afferrarmi,

spintonarmi e mi guidarmi tra la folla. La musica scalpitava attorno a me. Sotto dime, le persone gridavano mentre le superavo. Le luci danzavano in un vortice dicolori. Cavalcai il turbolento mare di mani finché non fui messa gentilmente aterra. Rimasi ferma per un istante, orientandomi tra i volti che mi guardavano. Lafolla si muoveva all’unisono, la sua energia mi scivolava sulla pelle come unvento caldo.

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Sollevai le mani in aria, cantando a squarciagola mentre saltavo tra la folla.Serena spuntò fuori dalla calca e urlò: «È stato assolutamente fantastico!».Saltammo fianco a fianco finché non fummo coperte di sudore, e non ci fu piùmusica a tenerci in piedi.Crollammo sul divano mentre tutti uscivano. Avevo in faccia un sorriso

indelebile, e l’unica cosa che sentivo pulsare dentro me era l’euforia. La stanzavorticava, e le immagini si muovevano davanti ai miei occhi. Sbattevo di continuole palpebre, sforzandomi di tenere la testa ferma.«Vado a cercare James e a prendere un po’ d’acqua», mi disse Serena. Penso di

aver annuito. Se non lo feci, ne avevo tutta l’intenzione.Un attimo dopo, sentii qualcuno muoversi sul divano. Voltai la testa di lato e

trovai seduto accanto a me un ragazzo magro con capelli castani scuri tagliaticorti e il mento coperto da un folto pizzetto.Sorrisi. O forse non avevo mai smesso.«Ciao», disse lui, allungando il braccio sul divano sopra la mia testa. «Piacere,

Aiden».«Ehi, Aiden», lo salutai ad alta voce. «Piacere, Emma».«Emma, non dovresti startene qui tutta sola. Vieni a una festa con me e i miei

amici».«Davvero?», risi.«Sì, davvero», confermò lui con un sorriso ammaliante.«Sto aspettando la mia amica», spiegai. «Non so dove sia». Non mi ricordavo

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dove fosse sparita Serena. Avevo la mente troppo annebbiata per ricordare le sueparole. «Ma poi verremo… con te… alla festa». Sorrisi di nuovo – o continuai afarlo.«Sei carina», disse, facendosi più vicino.«Anche tu non sei male», disse la mia bocca. Lui si chinò su di me e ringraziò la

mia bocca con un bacio, e io glielo lasciai fare. Mi accorsi di nuovo di non riuscirea sentire le sue labbra. O forse erano le mie che non sentivo. Avevo davverobisogno di capirlo. Mi accorsi di essere ubriaca. E mi andava bene anche quello.«Emma!».Aiden si fece indietro. Confusa dalla sua ritirata, aprii gli occhi, e vidi Serena in

piedi di fronte a me. Sembrava arrabbiata. Perché era arrabbiata?«Serena!», urlai entusiasta. «Eccoti! Lui è Aiden. Andiamo a una festa con lui».«Ciao», disse lui.«Uh, no che non ci andiamo», tagliò corto. Wow. Era davvero arrabbiata.

«Sparisci, Aiden».Aiden si alzò dal divano. «Ci vediamo dopo, Emma». E poi sparì.«Dove va?», chiesi, confusa.«Chissenefrega», mormorò Serena. «Andiamo a casa, Emma».«Sei arrabbiata con me, Serena?», chiesi, perdendo il sorriso.«No, Em», sospirò. «Ho fatto una cazzata, ti ho fatta bere troppo. Sei ubriaca, e

devi andare a letto».«Sì, sono stanca».

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Tornando verso casa mi sentivo intontita, quindi tenni gli occhi chiusi, anche setutto intorno a me continuava a girare. Schiacciai la testa sul finestrino, pregandoche si fermasse. Ma poi fummo noi a fermarci.«Em, siamo a casa», annunciò Serena.«Uh?», provai a sollevare la testa, ma era troppo pesante. Aprii gli occhi quando

Serena comparve accanto a me con lo sportello aperto. Incespicai fino al portico,appoggiandomi a lei. Sentivo i piedi pesanti, quasi quanto la testa.«Aiutami», disse Serena.«Ci sto provando», borbottai.«Che è successo?», chiese Meg. Il suo braccio scivolò attorno a me.«Colpa mia», disse Serena. Seguii le scale fino alla mia stanza, ma non ero

sicura che le mie gambe si stessero muovendo.«Ecco qui, Em», disse Meg, appoggiandomi la testa su un cuscino.«Sono caduta dal palco», dissi a Meg, con la lingua intorpidita e per nulla

collaborativa.«Hai fatto cosa?»«Si è tuffata all’indietro dal palco», spiegò Serena.Non riuscivo a tenere gli occhi aperti, quindi non vidi la reazione di Meg. Avevo

un tornado in testa che continuava a far girare la stanza sotto le palpebre chiuse.Mi lamentai e mi misi le braccia sugli occhi per tenermi ferma.«Dormi un po’», disse Meg, mettendomi addosso una coperta.Quando mi svegliai il giorno dopo, sentivo la testa spaccata in due. Serena non

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fece altro che scusarsi, dicendo che era così nervosa per il mio tuffo da averpensato di calmarmi con l’alcol. Non riuscivo a capire in che modo far ubriacareme aiutasse lei, ma il coltello che mi affondava nella testa mi impediva diribattere. Giurai di non bere più… di nuovo.

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S

5Per niente noioso

entii una presenza sopra di me mentre ero china sul libro di anatomia con lamusica a palla nelle orecchie. Sollevai la testa e trovai Cole in piedi di fronte al

tavolo comune. Lo osservai incuriosita, sorpresa di vederlo accanto a me dopoche l’avevo scaricato… due volte.Mi tolsi gli auricolari senza dire una parola e lo guardai, in attesa.«Come va la lista delle cose nuove?», sussurrò. «Quello al The Grove due

settimane fa è stato un signor tuffo dal palco».«Eri lì?», non sapevo se essere contenta che Cole avesse assistito alla mia

esibizione, cioè al secondo punto del mio elenco di cose nuove. Elenco che nonesisteva prima che lo incontrassi. «Non pensavo fossi il tipo a cui piace quellamusica».

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«Sono aperto un po’ a tutto», rispose, con naturalezza. «Non bisogna giudicaredalle apparenze».Era vero. In effetti lo avevo giudicato dal momento in cui l’avevo visto. «Mi

sorprende che mi parli ancora».«Sorprende anche me», replicò. «C’è un motivo se non ti ho chiamato dopo che

Peyton mi ha dato il tuo numero. C’è un limite alle volte in cui un ragazzo puòessere snobbato prima di capire il messaggio».«E allora perché ora mi stai parlando?»«Forse una parte di me è convinta che tu non sia stronza al cento per cento»,

rispose, socchiudendo timidamente gli occhi.«Solo una parte di me», sorrisi appena.«Be’, ti lascio al tuo studio. Penso che il tempo a mia disposizione sia quasi

finito». Si aggiustò la cinghia dello zaino sulle spalle e si girò per andarsene.«Che vuol dire?»«Prima che tu te ne vada – di solito succede più o meno in questo momento». Mi

fece un mezzo sorriso.«Simpatico», sorrisi.Cole si allontanò senza dire altro, neanche un saluto. Mi trovai a seguire la T-

shirt bianca che abbracciava i contorni della sua schiena muscolosa finché nonsparì. Mi scrollai di dosso la distrazione, rimisi a posto gli auricolari e mi tuffainello studio dei ventricoli del cuore senza pensarci più. O quasi.Stavo mettendo il computer in borsa per andare in biblioteca e finire di scrivere

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il mio saggio di sociologia, quando squillò il cellulare. Notai il prefisso dellaCalifornia sul display e pensai che avessero sbagliato numero.«Ciao. Sono Cole».Arricciai le labbra, divertita. «Pensavo che non avresti usato il mio numero»,

scherzai.«Ho deciso di tentare la sorte», rispose. «Non so perché, ma ti chiamo

comunque».Feci una risata offesa. «Be’, forse dovrei lasciarti andare allora».«Aspetta», disse subito. «Non riattaccare».«Non sono granché al telefono. E sto andando in biblioteca».«È sabato», sembrava confuso. «Perché non esci stasera?»«Nonostante abbia deciso di provare cose nuove, non mi piacciono molto le

feste», gli dissi. «E poi ti ho incontrato a ogni festa e concerto a cui sono andataquest’anno».«Che fortuna», rispose, facendomi aggrottare la fronte chiedendomi perché non

avessi ancora riagganciato. «Vediamoci».«Cosa?», ero sconcertata dalla sua determinazione, era come se me lo stesse

dicendo invece di chiederlo. «Non hai sentito che sto andando in biblioteca?»«Ci vediamo lungo la strada», propose. «Solo un quarto d’ora».Feci un sospiro profondo mentre esaminavo la sua richiesta. «Ok».«Non mi darai buca, vero?», chiese di botto. Io trattenni una risata.«No, non ti darò buca».

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«Sono da Joe».Riagganciò. Così improvvisamente che rimasi a fissare la scritta “Chiamata

terminata” sul display. Perché avevo accettato? Guardando la mia immagineriflessa nello specchio, scrollai le spalle, senza perdere tempo prima di infilarmi isandali ai piedi. Non mi interessava se quel ragazzo mi avrebbe vista senzatrucco o con addosso una T-shirt bucata e dei pantaloni militari. Mi infilai la felpae mi diressi verso le scale.Peyton si affaccio alla porta, con la testa piena di bigodini. «Dove stai

andando?»«Da Joe, e poi in biblioteca», risposi senza girarmi mentre mi dirigevo verso le

scale.«Perché vai da Joe?»«Per vedere Cole», risposi, prima di chiudermi la porta alle spalle.Quando entrai nel bar, era da poco passata l’ora di cena ed era troppo presto

per le birre dei ragazzi del college. Televisori a schermo piatto di diversedimensioni erano sospesi a ogni angolo e trasmettevano diversi eventi sportivialla sala praticamente vuota. Cole era seduto su uno sgabello del bar a guardareuna partita di basket del college su un grande televisore. Mi sedetti accanto a luisenza dire una parola, con gli occhi fissi sulla TV.«Wow, sei qui», mi fissò, girandosi verso di me.«Un quarto d’ora», gli ricordai, strappandogli di nuovo un mezzo sorriso.«D’accordo, d’accordo». Prese un sorso dalla bottiglia di birra che stringeva tra le

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mani, e io rimasi in silenzio a guardare la partita. «Oh, fai parlare sempre me,eh?», notò con una risatina.«Allora parlo io. Ma probabilmente rimarrai deluso, perché non ho molto da

rivelare».«Se sei troppo noiosa, semplicemente non ti richiamerò più». Un lato della sua

bocca si sollevò quando io inarcai le sopracciglia, offesa.«Non sono affatto noiosa», replicai, concentrandomi sui suoi occhi azzurri.«Mi sembrava», mormorò, senza distogliere lo sguardo. Io tornai a guardare la

partita, anche se non avevo idea di chi stesse giocando e non riuscivo aconcentrarmi abbastanza per capire chi stesse vincendo. Mi girai sullo sgabello eprovai a reprimere l’impulso di alzarmi e uscire dalla porta, sapendo che eraquello che avrei dovuto fare.«Allora, hai pensato alla prossima cosa da aggiungere alla lista?»«Um…», guardai il soffitto pensierosa, e dissi la prima cosa che mi venne in

mente. «Fare il bagno nuda». Giuro, non avevo mai avuto prima il desiderio ditogliermi i vestiti e nuotare, ma non l’avevo mai fatto – quindi lo sputai fuorisenza pensare se mi andasse o no.«Non hai niente di banale nella tua lista, vero? Tutto o niente».Tu metti sempre in gioco tutto, vero?Una fitta calda mi attraversò il petto mentre le sue parole richiamavano una

voce del mio passato.«È questo il punto», risposi calma, nonostante la tensione lungo la schiena.

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Cole ridacchiò scrollando la testa. Evidentemente mi trovava divertente.«Basta che tu non faccia il bagno nuda a una festa – quello sarebbe un po’

troppo».«Non è nel mio stile».«E saltare in piscina completamente vestita sì?»«Non era previsto che ci saltassi dentro», spiegai. «Ma avevo bevuto un po’

troppo, e non sono stata abbastanza veloce quando Meg mi ha tirata con sè».«Quindi, stavi davvero spingendo la tua coinquilina in piscina?», chiese. Annuii.Lui rise. «Sei pazza».«Sì, penso di sì».Cole mantenne quell’espressione divertita un po’ troppo a lungo, e poi si accorse

che non stavo scherzando. Sollevò le sopracciglia. «Dici sul serio?». Io scrollai lespalle annuendo.Mi alzai dallo sgabello. Mi sembrava il momento migliore per andarmene – lui

era troppo incuriosito.Cole guardò l’orologio. «Uh, abbiamo ancora sei minuti».«Non più», risposi, e mi diressi verso la porta con passo deciso. Mi sembrò di

sentirlo sospirare, esasperato, o forse era solo l’aria che avevo trattenuto nei mieipolmoni da quando mi ero seduta. Non sarei proprio dovuta andarci. Avevosperato di convincerlo che gli avrei fatto perdere tempo. Che non valevo neanchequel quarto d’ora.«Hai promesso un quarto d’ora», disse, correndomi dietro in strada.

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«Wow, o sei la persona più testarda e determinata che io abbia mai conosciuto,o sei un masochista. Perché sono certa che non sia per la mia personalitàaffascinante».Sollevò un angolo della bocca. «Penso che sia una morbosa curiosità. Perché no,

non è molto piacevole averti accanto».Sospirai, esasperata. «Non ti capisco».«Cosa vuoi sapere?», propose, in tono sincero. «Ti dico tutto».Affrettai il passo verso la macchina.«Cammina con me», suggerì. «Per», lanciò un’occhiata all’orologio, «altri quattro

minuti e mezzo».«Va bene. Alimenterò la tua curiosità deviata e ti darò altri quattro minuti»,

dissi, secca. «Dimmi qualcosa di te che valga la pena sapere».«Che valga la pena sapere? Wow, che pressione», rifletté. Mentre guardavo

l’orologio, rispose: «Faccio surf».«E questo era più prevedibile del sole che sorge ogni giorno», sbuffai. «C’è

qualcosa che fai e che il resto dello Stato non fa?»«Be’, non sono esattamente drogato di adrenalina come te», ribatté. «Non vivo

la mia vita in cerca di avventure; mi dispiace deluderti».Si sarebbe dovuto arrabbiare. Avrebbe dovuto voltarmi le spalle e dirmi di

andare al diavolo. E invece no. Stava seriamente riflettendo sulla mia domanda.Si fermò sul marciapiede, accanto a una casa con un giardino poco curato.«Um… ok», fece una pausa, riflettendo. «Ascolto il silenzio». E detto questo,

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riprese a camminare. Lo seguii con lo sguardo. Sulle prime pensai che mi stesseprendendo in giro con quella risposta misteriosa, ma poi capii che diceva sulserio. Lo raggiunsi.«E sono anche piuttosto bravo. Può avere qualcosa a che vedere con il fatto di

essere cresciuto con quattro sorelle senza avere diritto di parola. Sono diventatoesperto ad ascoltare le cose che nessuno dice. Sapevo quando mia sorella grandelitigava con il fidanzato, o quando l’altra sorella era arrabbiata con mia madre, oquando la mia sorellina più piccola era delusa perché non riusciva a correreveloce come avrebbe voluto. Sapevo che i miei avrebbero divorziato molto primache succedesse, anche se le mie sorelle giuravano di non saperne nulla». Cole sifermò e si girò a guardarmi. «Ascolto il silenzio. E tu», le sue labbra si curvaronoin un sorrisetto, «tu hai molto da dire. Anche se non ho ancora capito bene cosa».Aggrottai le sopracciglia e fissai la profondità dei suoi occhi. Non avevo niente

da dire. Non volevo essere un enigma da risolvere, o da ascoltare.«Tempo scaduto», annunciai, tornando verso la mia auto. Sentii qualcosa

agitarsi dentro di me, qualcosa che mi metteva a disagio.Cole corse per raggiungermi. «Penso che dovremmo vederci ancora», concluse,

seguendomi sul marciapiedi.«Ah, sì? E perché? Stavolta non è stato abbastanza disastroso?».Rise in risposta.«Prometto di non scavare in quello che rende così rumoroso il tuo silenzio, se tu

prometti di non andartene».

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Avrei dovuto dire di no. Avrei dovuto continuare a camminare e lasciarlo alla suavita, senza interferire. E invece no.Incrociai le braccia e lasciai andare un sospiro impaziente. «Va bene. Vediamo

quanto sei davvero interessante».Lui scosse la testa con un sorriso sarcastico prima di rispondere: «Non mi

convincerai a uscirmene con qualcosa di pazzesco da fare. Usciremo e basta –molto semplice».«Abbasserò le mie aspettative quindi», lo provocai.Ignorò il mio commento e disse: «Non uscirò molto in questi giorni perché ho un

grosso compito da consegnare la prossima settimana. Ma che dici di dopo?»«Magari ci vediamo in biblioteca. Io praticamente ci vivo». Smisi di camminare,

e lui mi guardò incuriosito. «Uh, posso tornare alla macchina da qui».«Bene. Tempo scaduto». Si girò nella direzione opposta e se ne andò senza

salutare… di nuovo.Cole non disse nulla quando spostò la sedia dal tavolo e si sedette di fronte a

me in biblioteca la sera dopo. Lo guardai da sopra il mio portatile mentrecominciava a togliere i libri dallo zaino; poi tornai a concentrarmi sullo schermocontinuando a scrivere.Lui non mi degnò della minima attenzione, concentrato solo sul suo lavoro. Andò

avanti così per tutta la settimana. Ogni sera mi sedevo allo stesso tavolo, e lui sisedeva di fronte a me. Non mi sarei nemmeno accorta che era lì, se non fossestato per quei capelli così incredibilmente biondi che attiravano la mia attenzione

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quando si chinava sui libri per prendere appunti. Non parlammo, né provammo adavere la minima conversazione. Quando finiva, chiudeva i libri e se ne andavasenza dire una parola – era un po’ strano, ma io non ci facevo troppo caso.«Vuoi andare a prendere qualcosa da mangiare?», mi sussurrò venerdì. Io stavo

cercando di risolvere un problema di statistica e cancellavo – un sacco. Odiavostatistica.Scioccata dal sentire la sua voce, guardai i suoi luminosi occhi azzurri che

aspettavano una risposta.«Hai fame? Io vado a prendere qualcosa da mangiare, e mi chiedevo se volessi

venire anche tu».«Non ho finito. Devo rimanere un altro po’». Mi chinai sul quaderno e immaginai

che se ne sarebbe andato come al solito.«E domani?», insisté. Sollevai gli occhi con fare inquisitorio, preoccupata per le

sue intenzioni.«Non ho intenzione di uscire».«Non ti stavo chiedendo di uscire», chiarì, con il collo che diventava leggermente

rosso. «Ti stavo solo chiedendo di andare a mangiare – mangerai prima o poi,giusto?»«Esatto», decisi. «Ma no, non voglio andare a mangiare con te domani».«Stai cercando di essere cattiva, o sono io che ti scateno queste reazioni?»«Sei tu», dissi, e continuai a lavorare all’equazione di matematica che avevo

davanti.

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Lui rimase in silenzio, e io alzai lo sguardo e vidi che era ancora lì a fissarmi.Socchiuse gli occhi su di me per un instante, in silenzio, come se stesse cercandodi capire se lo stavo prendendo in giro. Poi si alzò per andarsene.Lasciai andare un sospiro e dissi: «Va bene, ci vediamo domani sera alle sette

da The Alley… per mangiare».«Sì, solo per mangiare». Quel suo sorrisetto adesso mi infastidiva perché non

avevo idea di cosa volesse dire. Mi ritrovai a seguirlo con lo sguardo mentresvoltava l’angolo. Non potevo essere così crudele da dirgli di stare alla larga, maero sicura che avrebbe dovuto farlo. Abbassai la testa e tornai alla tristezza delmio compito.

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L

6Mille parole

e mie orecchie sentirono il suono che proveniva dal comodino prima ancora cheil mio cervello potesse capire cosa stavo ascoltando. Schiacciai il pulsante della

sveglia, ma le note continuarono. Strizzai gli occhi per sbirciare l’orologio. Eranole tre del mattino. Il suono cessò, e io ricaddi sul cuscino.Il telefono riprese a suonare, insistendo perché rispondessi. Mi lamentai e lottai

con il telefono, mettendomelo davanti alla faccia.«Sara?», mormorai, con la voce ancora persa nel mondo dei sogni.«Emma!», singhiozzò lei, con la voce rotta e piena di dolore. Mi misi subito a

sedere.«Sara, che è successo?», chiesi immediatamente, seduta nella mia stanza buia

con il cuore che martellava. Provai a mantenere la calma mentre sentivo che si

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sforzava per riprendere fiato. «Sara, ti prego, parlami».«È fidanzato ufficialmente!», urlò con una fitta di dolore penetrante. Tutto il mio

corpo si bloccò. Passò un istante, e tutto ciò che riuscivo a sentire erano le sueurla assordanti.«Chi è fidanzato ufficialmente?», sussurrai, sapendo già la risposta.«Jared», piagnucolò. Crollò in qualcosa che attutì le sue urla. Aspettai finché alla

fine non disse: «L’ho visto… sul “Times”…».E poi non sentii più nulla.«Sara?». Il telefono mostrò il messaggio di connessione persa. «Merda», la

richiamai, ma la linea era occupata. Frustrata e ancora confusa, mi tolsi lelenzuola di dosso e accesi la lampada sul comodino.Provai a richiamarla, ma ancora nulla. Arrancai fino alla scrivania e accesi il

computer.Cercai “Mathews” e “New York Times” e fui indirizzata a un link. La pagina si

aprì sulla rubrica dei fidanzamenti del «New York Times», con una grande foto inbianco e nero di Jared e una ragazza. Guardai lo schermo incredula.Non era una foto di fidanzamento ufficiale. Erano circondati da persone in vestiti

eleganti, a qualche specie di cerimonia. Il fotografo aveva catturato un’immaginein cui loro camminavano mano nella mano. Jared sorrideva leggermente, mentrela ragazza accanto a lui era semplicemente raggiante, e rideva a bocca aperta. Isuoi occhi scuri brillavano, anche nell’immagine in bianco e nero. Aveva lunghicapelli castani, sciolti in ciocche eleganti che le incorniciavano un viso

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innegabilmente meraviglioso. Teneva una mano alzata, come a coprire unarisata, ed eccolo lì… l’anello. Un enorme diamante quadrato alla mano sinistra.Non riuscii a concentrarmi sulle parole con cui veniva annunciato il loro

fidanzamento. Non mi interessava quando si sarebbero sposati. Non miinteressava neanche come si chiamasse lei. Sara aveva il cuore a pezzi in un altroPaese, e io non ero lì a consolarla. La richiamai, e appena il telefono cominciò asuonare, spostai lo sguardo. E vidi Evan.Era sullo sfondo, tra la folla della festa. Gran parte del suo viso era tagliato fuori

dalla foto, anche se con l’inconfondibile forma della sua mascella e le linee sottilidella sua bocca, non c’era dubbio che fosse lui. Potevo però vedere con chiarezzala ragazza aggrappata al suo braccio sinistro. Era difficile dimenticare ildetestabile sorrisetto compiaciuto di Catherine Jacobs, la stessa ragazza chepraticamente gli si era buttata addosso durante la cena a cui avevamopartecipato anni prima a casa dei suoi genitori. Sembrava molto a suo agio abraccetto con lui, come se pensasse che quello fosse il suo posto.«Emma?», rispose Sara. «Ci sei?». Ma la sentivo a malapena.Ero di colpo sprofondata in un pozzo senza fondo, e un nodo mi chiudeva la gola.«Emma?».Lasciai cadere il telefono e corsi in bagno, sbattendo la porta contro la parete,

appena in tempo per raggiungere il gabinetto prima di espellervi il contenuto delmio stomaco. Cominciai a sudare freddo, aggrappandomi con tutte le mie forze albordo del sedile mentre tutto il mio corpo tremava.

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«Emma?», disse la voce tranquillizzante di Meg dalla porta aperta del bagno.«Stai bene?». Poi la sentii dire: «È qui, Sara. Ma sta male».«No», tossii, scuotendo la testa. «No, eccomi». Buttai nel gabinetto il fazzoletto

che avevo usato per pulirmi la bocca prima di chiudere la tavoletta e tirare loscarico. Caddi sul pavimento con la schiena al muro, i muscoli che mi tremavanocome se fossi in mezzo a una tormenta di neve. «Voglio parlarle». Le porsi lamano insicura.Meg mi osservò per un istante, poi entrò nel piccolo bagno e mi passò il

telefono. Non se ne andò quando me lo misi all’orecchio, ma decise di sedersi sulbordo della vasca.«Sara?», dissi con voce roca, la gola in fiamme. «Mi dispiace tanto». Mi passai il

dorso della mano sul labbro superiore, asciugandomi il sudore. Non riuscivo asmettere di tremare. Avevo il pigiama zuppo, e i capelli incollati al viso come semi fossi svegliata da un incubo. Ma era tutto fin troppo reale.«Hai visto?», disse.«Sì», risposi con calma. «Vorrei essere lì, con te».«Anche io», singhiozzò. Mi si annebbiò la vista. Lacrime calde scendevano sulla

mia pelle fredda e sudata.«Ma sono qui. Non vado da nessuna parte. Chiudi gli occhi e sarà come se fossi lì

accanto a te. Ci stiamo guardando, e io ti tengo la mano. Sono lì, Sara».«Non capisco», urlò. «Non capisco perché non me l’ha detto. Perché lo devo

sapere da un fottuto giornale?». Lasciò andare un urlo pieno di dolore e rabbia.

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Rimasi in silenzio. «Sapeva che l’avrei visto. Sapeva quanto mi avrebbe fattomale». Aveva la voce rotta, ed esplose in un pianto che mi spezzò il cuore. Chiusigli occhi, e le lacrime continuarono a cadermi sul viso.Mi ero quasi dimenticata che Meg era in bagno con me finché non sentii la sua

mano nella mia. Appoggiai la testa sulla sua spalla e ascoltai Sara piangere. Mifaceva male la schiena per quanto stavo trattenendo i miei singhiozzi. Ma nonpotevo farle questo. Aveva bisogno di me. Dovevo scacciare il mio dolore in modoche ci fosse abbastanza spazio per il suo.«Emma?», sussurrò.«Sono sempre qui», risposi piano. «Solo che non so proprio cosa dire».«Non devi dire niente», rispose, tirando su col naso. «Resta al telefono con me,

va bene?»«Per tutto il tempo che vuoi», promisi.«Emma», mi chiamò Meg, scrollandomi da un sottile velo di sonno. Sbattei le

palpebre e mi accorsi che avevo ancora il telefono all’orecchio, ma all’altro caponon si sentiva nulla. Mi sollevai dal grembo di Meg e mi stiracchiai. Avevo iltorcicollo e i crampi.«Scusa», mormorai.«Non fa niente». Meg allungò le braccia sopra la testa e sbadigliò. «Mi sono

addormentata anch’io».«Che ore sono?», chiesi, alzandomi lentamente dal pavimento del bagno.«Quasi le sette», si lamentò, alzandosi anche lei. Le restituii il telefono. «Vado a

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letto. Em, tu stai bene?». Sbattei le palpebre sugli occhi annebbiati e rossi.«Sto bene», risposi meccanicamente, senza darmi il tempo di pensarci davvero.

Ma sapevo che non era così. L’aspro ricordo mi bruciava ancora in fondo alla gola.Dopo essermi trascinata in camera da letto, raccolsi il telefono dal pavimento emandai un messaggio a Sara dicendole che poteva chiamarmi in qualunquemomento. Poi mi misi a letto, mi infilai sotto le coperte, e cercai di dimenticaretutto fino a quando non avrei dovuto affrontarlo di nuovo.Raccolsi il telefono al primo squillo un paio di ore dopo. Prima che potessi

chiederle come stava, Sara urlò: «Continua a chiamarmi! Ma che cazzo vuole?!».«Ci hai parlato?», chiesi cautamente, sorpresa dal veleno nella sua voce.«Cazzo, no! Non può chiamarmi il giorno in cui i giornali annunciano il suo

fidanzamento e aspettarsi che io ascolti la sua spiegazione. Fanculo! Sono cosìincazzata, Emma. Davvero incazzata!».«Lo sento», notai, comprensiva. «E lo capisco».Lei proseguì come se non avessi detto nulla. Sapevo che non c’erano parole per

consolarla. Aveva solo bisogno che la ascoltassi, ed è quello che feci, per quantomi facesse sentire inutile.«Viene da New York, dall’alta società del cazzo. Penso che non sia neppure

andata al college. Quanto sarà patetico? Che cazzo ci trova in lei? Voglio dire,immagino che sia attraente e quello che ti pare, ma che cavolo? Ha una linea digioielli con il suo nome e dice di essere una designer. Sì, certo. Non possocredere che sposerà una così. Che ca…».

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La sua voce si interruppe, segno che stava ricevendo un’altra telefonata.«Devi rispondere?», chiesi gentilmente.Lei esitò. «Omiodio! Sta chiamando ancora. Ora vado, devo bloccare le sue

telefonate e le e-mail. Ti chiamo dopo». E riattaccò.Il suo attacco di rabbia, assieme al mio ruolo di spettatrice muta, mi aveva

lasciato esausta. Volevo che stesse meglio. Che tornasse a essere la ragazzaesuberante ed energica che amavo come una sorella. Sara era più forte di me,perciò avevo sperato che si riprendesse. Ma volere una cosa non sempre basta afarla succedere.Ogni scelta aveva una conseguenza. Mi ero guadagnata ogni doloroso battito del

mio petto.Emma!La voce di lui che mi chiama, ferito e abbandonato, steso sul pavimento della

casa di mia madre, riecheggiava dentro di me. Tutta quella desolazione era solocolpa mia.Mi guardai le mani e le contrassi. Tremavano ancora leggermente. Chiusi gli

occhi, e sentii che le lacrime erano lì ad aspettare, arginate dalle mie palpebre.Strinsi i denti e feci dei brevi respiri, desiderando che tornasse il torpore.«Em, noi andiamo a correre», annunciò Serena, facendo capolino dalla porta.

Aprii gli occhi spenti. Senza reagire alla mia espressione tormentata, mi disse concalma: «Vestiti e vieni con noi».Non replicai, sapendo che una corsa mi avrebbe fatto meglio del sonno.

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Meg era in corridoio, che si allacciava le scarpe, quando uscii dalla mia stanza.«Ehi», mi salutò con un sorriso rassicurante. «Hai dormito?»«Un po’», risposi. Non parlò della foto del «New York Times», che non era più

sullo schermo del mio computer. Sapevo che l’aveva tolta lei. Proprio comesapevo che lei o Serena avevano raccolto la foto che era finita sotto il comodino.Non ero inconsapevole dei loro gesti protettivi, anche se non ne avevamo maiparlato.«Come sta Sara?», chiese.«Uno schifo. Jared deve sperare di non incontrarla mai più».Meg sorrise, probabilmente immaginando Sara alle prese con la sua vendetta.«Pronte?», Peyton saltò fuori dalla sua stanza, con i capelli biondi raccolti in una

coda di cavallo.«Sì», rispondemmo io e Meg all’unisono, seguendola mentre saltellava giù per le

scale.Serena e Meg rimasero in silenzio durante la corsa. Mi chiedevo se Meg avesse

raccontato a Serena cosa era successo, ma non volevo chiedere. Peyton nondiede mostra di accorgersi del silenzio teso. Continuò a raccontare la festa di unaconfraternita studentesca a cui era stata la sera prima, con descrizioni dettagliatedi tutte le stanze, ciascuna delle quali era addobbata a tema con un libro e undrink.«Penso di aver bevuto tutti i libri», rise. «Voglio dire i drink».«Davvero incredibile», sbuffò Serena. Peyton la ignorò.

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«Quando esci con Cole?», chiese Peyton, correndo più veloce per stare al passocon me.«Cosa?». La sua voce mi ronzava nella testa come un brusio ritmico.«Che succede tra voi due? Non te l’ho mai chiesto, ma che è successo quando vi

siete visti da Joe?»«Um… proprio niente», dissi evasivamente. «È stato… niente».«Lo vedrai di nuovo?», insisté.«Io… uh…».Non riuscivo a formulare una frase, figuriamoci un pensiero. Mi stavo

concentrando per non crollare o finire in fiamme sul marciapiede.« E tu uscirai mai con Tom?», intervenne Meg. «Voglio dire, state flirtando

praticamente da sempre. Almeno ha il tuo numero di telefono?»«Sì», sbottò Peyton. «Ha il mio numero di telefono. Ci stiamo… prendendo il

nostro tempo».Allungai il passo e le lasciai indietro, accelerando e spingendomi dietro l’angolo,

per il bisogno di spegnere l’inferno che avevo dentro prima che consumasse tuttele mie riserve di ossigeno. Serena rimase dietro di me, con il viso duro edeterminato.Questo mi spinse solo a correre più velocemente verso casa, che adesso era in

vista. Le ginocchia urlavano e i polmoni andavano a fuoco. Rallentai e mi misi acamminare solo quando ebbi superato i gradini d’ingresso. Serena era curva conle mani sulle ginocchia, e il sudore che le scendeva sul viso arrossato.

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«Cazzo, Em», disse, con l’affanno. «Troppo veloce».Continuai a camminare, facendo lunghi respiri, aspettando che il battito cardiaco

rallentasse e la calma avesse la meglio. Chiusi gli occhi; le fiamme danzavanoancora sotto la superficie, lasciandomi senza fiato.«Serena?», dissi, cercando freneticamente sollievo.«Sì?», si sedette sul gradino più basso con i gomiti su quello dietro di lei.«Vuoi fare una cosa con me?».Lei si raddrizzò. «Quello che vuoi».«Vuoi venire a farti un tatuaggio con me?»«Oggi?», chiese, aggrottando la fronte impercettibilmente, esaminando

l’espressione tranquilla sul mio volto.«Sì», risposi con calma. Sapevo di chiederle qualcosa di drastico, ma immaginai

che fosse l’unica che avrebbe potuto capire.«Certo», sorrise. «Non vedo l’ora di assistere al tuo primo tatuaggio. E magari

ne aggiungerò uno alla mia collezione».«Grazie».Dopo essermi fatta la doccia ed essermi cambiata, Serena e io andammo al

negozio di tatuaggi senza dire niente a Peyton e Meg.«Che cosa vuoi farti disegnare?», chiese, con l’entusiasmo che ballava nei suoi

occhi scuri. La sua euforia nel partecipare era esattamente il motivo per cuiavevo bisogno che stesse con me.Tirai fuori dalla tasca un pezzo di carta e le passai il disegno che avevo fatto

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circa un anno prima, quando lottavo ancora con gli incubi. Non l’avevo disegnatocon l’intenzione di farmelo tatuare addosso per sempre, ma sembrava adatto.«Wow», disse lei. «L’hai disegnato tu?». Annuii. «Non sapevo che sapessi

disegnare. È fantastico, Em. Ma con tutti quei caratteri delicati ci vorrà un po’.Spider è il migliore. Dove te lo vuoi fare?».«Qui», indicai il fianco sinistro, sopra l’anca.Lei trasalì. «Ti farà un male cane».Era quello che speravo.Non feci in tempo ad andare al The Alley per incontrare Cole. Probabilmente

avrei dovuto chiamarlo, ma non lo feci. E neanche lui mi chiamò.

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«C

7Scontro tra mondi

ome ti senti oggi?», chiesi a Sara una settimana dopo il nostro tracollo.Quando Sara aveva chiuso la sua relazione con Jared l’estate prima che

partisse per Parigi, sapevo che non si aspettava che lui si riprendesse, almenonon così.«Che vada a farsi fottere. Lui e la sua troietta possono andare all’inferno. Non mi

importa più niente».«Um, bene». Avevo parlato con Sara ogni giorno da quando aveva scoperto

l’annuncio. In quel lasso di tempo aveva esplorato ogni livello di emozione, equell’acredine era la cosa più vicina alla rassegnazione. Sapevo che non volevaparlarne, e rispettavo la cosa.«Allora, io e Jean-Luc andremo in Italia la prossima settimana per le vacanze»,

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rivelò Sara, entusiasta, come se prima avessimo parlato del tempo.«Oh, bene», risposi, adattandomi al repentino cambiamento.«I suoi amici hanno un posto al mare in un piccolo paesino nell’Italia

meridionale», proseguì. «Non vedo l’ora. Devo scappare dalla città per un po’. Iltuo trimestre non finisce tra un paio di settimane? Che fai durante le vacanze?»«Uh, niente».«E le ragazze se ne andranno?», chiese Sara.«Sì, penso di sì», provai a ricordarmi. «Serena va in Florida con la sorella. Meg

ha cominciato a uscire con un ragazzo qualche settimana fa, e andrà con lui aTahoe. E non so cosa farà Peyton, ma senz’altro andrà da qualche parte».«E quindi resterai da sola?», chiese.«Già».«Starai bene?». Sapevo che si preoccupava per me. E sapevo che lei e Meg

avevano parlato di me più spesso di quanto mi facessero credere.«Starò bene», risposi senza convinzione.La settimana degli esami finali del trimestre invernale, Peyton entrò nella mia

stanza e si tuffò sul mio letto annunciando: «Vieni con me a Santa Barbara invacanza».«Scusa?», mi girai attorno sulla sedia. «Perché devo venire con te a Santa

Barbara?»«Perché non voglio stare dai miei zii da sola, e tu non hai programmi, quindi

vieni con me».

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«Non me lo chiedi neppure?», dissi, realizzando che era già stato tutto discussoe deciso.«No. Partiamo dopo il tuo ultimo esame, giovedì». E con questo, Peyton

rimbalzò giù dal mio letto e uscì dalla stanza. La fissai con uno sguardo inebetito.Questa era opera di Sara.«Divertiti!». Meg mi abbracciò prima che entrassi in auto.«E non lasciare che Peyton ti faccia impazzire», aggiunse Serena con un

sorrisetto sarcastico.«Vaffanculo, Serena», replicò Peyton, con voce eccessivamente dolce e una

buona dose di veleno. «Non spaventare le vecchie signore in Florida», cantilenòprima di alzare il finestrino. Il suo sorriso si fece raggiante quando Serena lemostrò il dito medio.«Voi due mi fate impazzire», risi, scuotendo la testa.«Se lo dici tu», disse Peyton, mettendo in moto.Attaccai l’iPhone e cominciai a scorrere la selezione musicale, scegliendo alla

fine una playlist che consideravo un compromesso. Peyton e io avevamo gustimusicali opposti. Lei non si lamentò, quindi pensai che andasse bene.«So che non è esattamente il posto più ambito per le vacanze primaverili, ma

spero che troveremo qualche festa decente», disse imboccando l’autostrada.«Soprattutto se farà troppo freddo per andare al mare».«Sono sicura che troverai qualcosa da fare».«No… noi troveremo qualcosa da fare. Non pensare di evitare le feste così

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facilmente».Dovevo aspettarmelo. Sapevo che voleva farmi uscire con lei. Sospirai. Un

attimo dopo, le chiesi: «Come fai?»«Faccio cosa?», rispose, ovviamente senza capire a cosa mi riferissi.«Ad andare alle feste, giocare a calcio e avere buoni voti. Voglio dire, vuoi fare

legge. Devi andare bene per forza».Peyton ridacchiò. «Emma, solo perché non mi vedi studiare, non significa che

non lo faccio. Tu comunque stai sempre in biblioteca. Non ho dei voti perfetticome te, ma non ho dubbi che verrò ammessa a legge. E si chiama equilibrio. Nehai mai sentito parlare?».«Potrei averne sentito parlare».«Davvero, Em, morirei se non riuscissi a sfogarmi nei fine settimana. Voglio dire,

il calcio è quello che faccio per rimanere concentrata, e non usciamo sempredurante la stagione. La scuola è una necessità per avere ciò che voglio nella vita.Quindi quando ho del tempo libero, voglio divertirmi. Non devi per forza ubriacartied essere ridicola. Il college è così. Lo so che continuo a dirtelo. Ma quando tiricapiterà? È l’unico momento nelle nostre vite in cui non veniamo giudicate sefacciamo cazzate. È quello che ci si aspetta che facciamo».«Per quanto mi riguarda, credo di essermi già perfezionata nelle cazzate».Peyton rise. «Dammi una possibilità e ti farò vedere un lato del college che non

hai ancora visto. So che almeno una parte di te è divertente».«Wow», replicai, fingendomi offesa. «Mi sono sempre chiesta perché siamo

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amiche».«Perché sai essere piuttosto divertente quando non sei triste».«Questa era retorica, Peyton. Ma grazie». Scossi la testa di fronte alla sua

sincerità senza filtri. Un istante dopo accettai: «Va bene. Hai una settimana». Laconsapevolezza di essere una pedina nel mondo “equilibrato” di Peyton avrebbedovuto mettermi ansia. Era più decisa di Sara. Ma d’altronde, eravamo al liceo, eSara aveva dei limiti chiamati genitori. Quindi forse era il momento di divertirmi.Non volevo più essere triste.«Andiamo a una festa domani sera», disse Peyton la mattina dopo, prima ancora

di fare colazione.«Wow. Che velocità», osservai, frugando nella dispensa in cerca di una tazza di

cereali.«Tom mi ha parlato di una festa che si farà vicino casa sua», proseguì. «A

quanto pare sono i ragazzi che danno le feste migliori qui, e la famiglia è ricca,quindi a volte arrivano anche centinaia di persone».«Tom?», chiesi. «Non sapevo che sarebbe venuto qui».«È arrivato stamattina», rispose con noncuranza, ignorando il tono della mia

voce. «Stasera andiamo a cena. È il nostro primo appuntamento ufficiale».Serrai i denti, cercando di non farle vedere che ero disturbata dalla sua

rivelazione. «Dove sta?»«A Santa Barbara», rispose, tirando fuori da una dispensa una scatola di cereali.

«Quando la nebbia si dirada, voglio prendere un po’ di sole. Non importa se fa un

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po’ freddo. Non posso tornare a scuola senza un po’ di abbronzatura».Eravamo a Carpinteria, una cittadina sul mare a quindici minuti a sud di Santa

Barbara. Gli zii di Peyton avevano una pittoresca casa con tre stanze da letto adue isolati dalla spiaggia.«Come vuoi». Arrabbiarsi con Peyton non aveva senso, ed era troppo stancante.

Ora sapevo che Tom era il motivo per cui lei era venuta qui. Io ero statatrascinata con lei come un dovere, ma non avrei fatto da terzo incomodo.Preferivo starmene seduta da qualche parte, a guardare l’oceano e leggere peruna settimana.E fu proprio quello che feci quando Peyton andò al suo appuntamento quella

sera. Avevamo sfidato il freddo sulla spiaggia nel pomeriggio, e a sorpresa cieravamo alzate con le guance rosse e i segni dell’abbronzatura. Peyton era tuttapresa dall’adorazione del sole, mentre io ero insofferente, e ogni tanto dovevoalzarmi e camminare. Stare ferma troppo a lungo rendeva irrequiete le voci nellamia testa, ed era l’ultima cosa di cui avevo bisogno quella settimana.Verso mezzanotte ricevetti un messaggio di Peyton:Resto da Tom stanotte. Ci vediamo domani!Flirtavano da sempre, quindi non mi sorprese come era andato a finire il loro

“primo appuntamento”. Però ero sorpresa che lei andasse già a casa sua. Avevola sensazione che non l’avrei rivista per un po’.In spiaggia con Tom. Ci vediamo dopo alla festa. Prendi la mia auto. METTITI UN VESTITO DA SERA!Questo fu il messaggio con cui mi svegliai.Non ho un VESTITO DA SERA!

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Fu la mia risposta.Io ne ho un sacco. Prendi quello che vuoi. VIENI ALA FESTA O VENGO A PRENDERTI!!Sembrava che dopotutto sarei andata alla festa, ma… non avrei messo un

vestito da sera. Peyton mi scrisse l’indirizzo e poi sparì per tutto il giorno. Frugainel suo armadio, trovando solo vestiti attillati o che a malapena coprivano ilsedere. Visto che avevo giurato di provare a divertirmi, decisi di andare a SantaBarbara per cercare nei negozi qualcosa che potessi effettivamente indossare.Osservai il riflesso della ragazza nello specchio a figura intera. I pantaloni

bianchi a pinocchietto con il top scollato ricamato e colorato erano simpatici edestivi, anche se non era ancora tecnicamente estate. Quel look sottolineaval’abbronzatura che avevo preso negli ultimi due giorni in spiaggia. Mi piaceva.Il trucco accentuava la forma a mandorla dei miei occhi, che erano cosparsi di un

lucido neutro. Misi uno strato di rossetto sulle labbra e sorrisi alla ragazzafemminile nello specchio. In completo contrasto con quella che di solito indossavajeans e T-shirt e rifiutava di sporcarsi le mani con il trucco. Compiaciuta di mestessa, afferrai il cardigan blu chiaro, presi le chiavi della Mustang e uscii dallaporta.Avevo passato tutta la giornata a prepararmi mentalmente. Quelle persone non

mi conoscevano. Avrei potuto essere una simpatica ragazza di passaggio, emagari persino parlare con la gente. Per una notte potevo fare finta: che cosaavevo da perdere?Parcheggiai sulla strada piena di auto e mi guardai un’ultima volta nello

specchietto retrovisore. Fissai gli occhi marroni che mi guardavano. «Ok, Em. Puoi

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farcela. Ti divertirai. Fai un respiro profondo». Chiusi lo specchietto e inspirai,riempiendo i polmoni, e poi espirai velocemente. Uscii dall’auto e cominciai acamminare in direzione della musica con la folla degli altri partecipanti, tenendola schiena dritta, nel tentativo di apparire sicura di me – come se non stessifacendo niente di strano. Dentro, il cuore mi martellava freneticamente e avevopaura di cominciare a sudare.Quando mi avvicinai alla porta, un gruppo di ragazze comparve davanti a me sul

vialetto. Le superai, sorridendo come se avessero detto qualcosa di divertente.Loro fissavano in adorazione l’enorme casa. Io però non ero stupita dalla suaeleganza, avendo già visto case simili dove ero cresciuta, in Connecticut.Quel gruppo di ragazze ridacchiava decisamente troppo. Io non ero così brava a

fingere. Quindi mi diressi di sotto mentre loro continuavano a camminare nellagrande sala, piegando il collo in maniera innaturale per osservare tutto lo spazioche le circondava.Seguii il corridoio e dopo diverse porte chiuse entrai in una sala giochi. C’erano

le cose essenziali che tutte le famiglie benestanti sembravano possedere –biliardo, biliardino, televisore a schermo piatto appeso alla parete con sotto unassortimento di attrezzature da gioco. Uscii dalle porte a vetro scorrevoli e miritrovai in un cortile in cui c’erano ancora più persone. Musica allegra usciva dagliamplificatori attorno alla piscina, torce di bambù bruciavano attorno al perimetroe intravidi un bar sul lato opposto del cortile.Osservai la folla di ragazze con i vestiti succinti e gli immancabili bicchieri di

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plastica in mano – con la pelle in bella mostra nonostante il freddo della sera –cercando di localizzare Peyton tra le bionde. Ma eravamo in California, quindi eraun’impresa assurda.Tirai fuori il telefono per mandarle un messaggio ma non prendeva; la villa,

costruita tra le colline con l’oceano in lontananza più in basso, a quanto parevaschermava il segnale del mio cellulare.Invece di cercare il posto giusto per mandare il messaggio, mi avvicinai al bar

per cercare Peyton. Un ragazzo con una variopinta camicia tropicale si occupavadel bar. Esitò un istante dopo aver dato una bottiglia di birra al ragazzo davanti ame. Arrivò il mio turno e mi guardai alle spalle, confusa dall’espressione che vidisul suo volto. Quando tornai a guardarlo, lui fece un sorriso ammaliante e disse:«Cosa posso darti?»«Vodka con qualcosa», chiesi. Non ero ancora abbastanza esperta da sapere

cosa mi piacesse, quindi decisi di ricadere nella scelta di mia madre.«Ce la posso fare». Cominciò a togliere ghiaccio da un secchio. «Chi conosci

qui?»«Nessuno», risposi, nervosa. Continuava a guardarmi con un sorriso ridicolo,

come se qualcuno mi stesse facendo uno scherzo e lui ne fosse al corrente.«Dovrei incontrare un’amica, ma non l’ho ancora vista».«Be’, io sono Brent», disse, tendendomi la mano. «La casa è di un mio amico.

Sto qui con lui e altri ragazzi per il fine settimana». Mi passò da bere.«Io sono Emma. E adesso conosco te. Quindi, se qualcuno me lo chiede, gli dirò

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che siamo amici».«Noi siamo amici», rispose insistente, come se fosse una verità conosciuta.

Aggrottai le sopracciglia alla sua risposta curiosa.«Penso che andrò a cercare l’altra mia amica», gli dissi, guardando verso la

piscina. Presi un sorso della bevanda chiara e frizzante con una fetta di lime chegalleggiava. Non aveva un sapore cattivo. Mi girai verso Brent e chiesi: «Che cosasto bevendo?»«Vodka soda. Semplice semplice», rispose mentre preparava da bere per una

ragazza appoggiata al bancone. «Non mi sembri il tipo da drink superdolce daragazzina».«Bella pensata», notai con una risatina.«Ci vediamo dopo. Non starò al bar tutta la sera. Dobbiamo recuperare il tempo

perduto, visto che non ci vediamo da… una vita», disse con un sorriso raggiante.Annuii e non potei fare a meno di sorridergli prima di andare verso le scale.«Emma!», sentii il mio nome sopra il rumore mentre ero a metà strada sulle

scale. Provai a girarmi, ma fui costretta ad avanzare, intrappolata nella fila dipersone che entravano in casa. Guardai oltre la ringhiera e vidi Peyton cheagitava freneticamente le mani. «Vengo di sopra!».Mi spostai all’angolo della balconata superiore per aspettarla. «Da quanto tempo

sei qui?», chiese quando finalmente riuscì a salire le scale.«Non da molto», le dissi. «Questo posto è enorme». La folla continuava ad

aumentare attorno alla piscina, e dentro era pieno di gente che ballava.

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«Lo so, hai visto?», rispose. «Stai benissimo». Sorrisi a disagio. «Ma… quello nonè un vestito da sera».«Non indosso vestiti da sera», le dissi. «Dov’è Tom?»«È andato a prendere da bere», fece un cenno verso il bar in cortile, ma era

difficile individuarlo da lassù. Tuttavia, lei sembrava sapere esattamente dovefosse. Il suo sguardo si soffermò e le sue labbra si sollevarono sognanti.«Immagino che l’appuntamento sia andato bene».«Non hai idea», rispose. Poi fece un cenno con la mano, e lo vidi che guardava

verso di noi.Tom diede un drink a Peyton quando ci raggiunse e le passò una mano sulla

spalla. Lei si accoccolò su di lui, e gli passò una mano sui fianchi. Provai acomportarmi come se niente fosse, ma l’energia erotica che sprizzavano mimetteva a disagio.«Allora… Tom, ho sentito che sei a Santa Barbara», dissi alla fine, sentendomi in

dovere di dire qualcosa che mi distraesse dall’imbarazzo.Socchiuse gli occhi e guardò Peyton. La sentii mormorare: «Non gliel’ho detto».

Fissai Peyton, chiedendole in silenzio di dire quello che mi stava tenendonascosto.«Già», rispose Tom, esitando. «Proprio in fondo alla strada. La casa non è molto

grande, ma è proprio sulla spiaggia. È molto carina».«Fantastico», mi sforzai di dire, fissando ancora Peyton, che si rifiutava di

guardarmi.

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Poi sentii: «Cazzo, non ci posso credere». Guardai dietro Tom, e vidi Cole, chemi fissava incredulo. “Merda”.Non riuscii a parlare. I miei occhi passarono da Cole a Peyton, che si rifiutava

ancora di guardarmi. Buttai giù l’ultimo sorso dal mio bicchiere e annunciai:«Penso di aver bisogno di un altro drink», scivolando velocemente in casa. Dopoessermi fatta largo tra fianchi che roteavano e capelli che svolazzavano, arrivai albar al lato opposto del soggiorno vuoto.Il barista indossava una camicia tropicale blu. I suoi capelli castani erano pieni di

dreadlock e raccolti in una coda. Mi osservò con noncuranza, e le sue labbra sistrinsero in un leggero sorriso. Cominciavo a chiedermi se avessi qualcosa infaccia. «Posso darti da bere?», propose. Io chiesi lo stesso intruglio che mi avevapreparato Brent; poi mi fece la domanda della serata: «Chi conosci qui?»«Brent», risposi meccanicamente.«Davvero?», mi passò da bere.«Sì, siamo amici», proseguii, sollevando leggermente il lato della mia bocca.«Hai un aspetto familiare», notò con un cenno. Pensai che stesse scherzando,

ma era davvero come se mi conoscesse, e la cosa mi prese alla sprovvista.«Come ti chiami?»«Ren», mi disse, continuando a osservarmi, probabilmente passando in rassegna

la lista di amiche di Brent in cerca del mio viso.«Ti ricordi di me, vero?», scherzai, sperando di confonderlo ancora di più.«Certo che sì», disse sinceramente. Prima che potesse continuare, un gruppo

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sovraeccitato di ragazze si avvicinò al bar, chiedendo da bere. Io mi tolsi dimezzo, attraversai la folla e andai sul balcone.Pensai di evitare Cole per tutta la sera, ma sapevo che l’universo era troppo

crudele e che avremmo continuato a incontrarci se avessi cercato di starglilontano. Quindi pensai che se mi fossi avvicinata a lui, lui se ne sarebbe andato eio avrei potuto ricominciare a fingere di divertirmi. Mi misi accanto a lui: eraappoggiato alla ringhiera, a fissare l’oceano in lontananza. Rifiutò di salutarmi,ma non se ne andò.«Non ho ancora fatto il bagno nuda», annunciai, appoggiandomi alla balaustra

accanto a lui.«Ti converrà farlo», sbottò, senza guardarmi. «L’anno passa in fretta». Strinse il

bicchiere tra le mani, come se volesse spezzarlo. Pensai di allontanarmi. Eprobabilmente avrei dovuto farlo. Ma non lo feci.«Non è nemmeno aprile», obiettai. Lui scrollò le spalle. Rimanemmo in silenzio

per un istante. Io sorseggiai il mio drink e attesi. E poi…«Che cavolo, Emma! Perché sei qui? È ovvio che non te ne frega un cazzo. E

allora perché non vai a torturare qualcun altro e a farlo sentire un coglione?».Quel fiume di parole arrabbiate mi sorprese, ma le ingoiai una a una, lasciando

che affondassero come pietre nello stomaco. Me le meritavo tutte. Quindiaccettai la sua collera senza battere ciglio.«Vuoi un drink?», offrii. «Il barista accanto alla piscina è un mio amico. Fa una

vodka soda tremenda».

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Cole mi guardò incredulo. «Non ti capisco». Scosse la testa, fissandomi ancora.Dopo un attimo di silenzio, si arrese. «Sì. Prenderò un drink. Dio solo sa quantone ho bisogno con te in giro».«Lo prendo come un complimento contorto». Sorrisi e lo accompagnai giù per le

scale.Al bar accanto alla piscina c’era un nuovo barista. Aveva i capelli biondo cenere

tagliati con cura, pettinati in avanti e sollevati sulla fronte. Indossava una camiciahawaiana rossa − evidentemente quello era il dress code per i ragazzi della casa.Quando mi avvicinai, socchiuse gli occhi, riconoscendomi. Stavo cominciando ad

andare un po’ in paranoia.«Ciao», disse incerto. «Sei Emma, vero?»«Già», risposi, presumendo che Brent gli avesse detto qualcosa quando gli aveva

lasciato il posto al bar. «E tu sei?»«Nate». Sollevò le sopracciglia, in attesa. Stava aspettando che reagissi, ma non

avevo idea di cosa dovessi fare. Tesi la mano, completamente persa.«Aspetta. Mi state prendendo in giro?», accusai, immaginando di essere la

vittima di uno scherzo. «Brent ha detto a te e a Ren di fare questo giochetto conme?»«No», disse Nate, confuso. «Non sai chi sono? Ma tu sei Emma Thomas,

giusto?». Il fatto che sapesse il mio cognome mi allarmò.«Sì, sono io. Perché? Dovrei conoscerti?», chiesi, esaminando più da vicino la

sua faccia. Guardai Cole, che stava osservando incuriosito la conversazione. A

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Nate non sembrava interessare che ci fosse una fila di persone assetate dietro dime.«Non ci credo!», un ragazzo dei capelli biondi arruffati si avvicinò. Nate gli lanciò

uno sguardo di avvertimento, ma lui non gli diede peso. Era troppo concentratosu di me. Adesso ero più che in paranoia. Non mi piaceva più questo gioco.«Emma! Sei davvero qui!».Rimasi immobile, passando lo sguardo da lui a Nate.«Forza, TJ», implorò Nate. «Lascia stare, amico. Lasciala in pace».«Che succede?», chiesi a bassa voce. Sentivo che Cole era dietro di me, ma non

diceva una parola.«Tu sei Emma Thomas? La Emma di Evan?», TJ rise incredulo.Non riuscivo a parlare. Voltai lo sguardo verso Nate, che fece una smorfia di

scuse.«Era qui in vacanza», ridacchiò TJ, non capendo cosa stava succedendo davanti

a lui. «Sul serio, se n’è andato lo scorso fine settimana. È pazzesco».Quelli erano i suoi amici. Gli amici californiani con cui andava a scuola quando

viveva a San Francisco. Gli amici con cui andava in vacanza.Rivolsi lo sguardo sul viso di Nate, rimettendo insieme tutti i pezzi. E quello era

Nate. Il suo migliore amico. E quello era il posto dove avrebbe dovuto portarmiquando voleva partire con me al terzo anno di liceo. Sentii le ginocchia che micedevano. Afferrai il bordo del bancone per sostenermi.«Posso avere da bere?», dissi. TJ cominciò a servire gli altri ospiti, che si

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stavano arrabbiando. Ero un ostacolo al loro divertimento.«Certo», rispose Nate, guardandomi attentamente, come se potessi bruciare

sotto i suoi occhi. «Cosa vuoi?»«Qualunque cosa», risposi, respirando a fatica. Provai a resistere in modo che

Nate non si accorgesse di ciò che mi stava esplodendo dentro. «E puoi riempirequesto di vodka e soda?»«Ok», accettò, annuendo lentamente. Cercò la bottiglia. «Uh, a quanto pare ho

finito la soda».«Solo vodka, allora», mormorai, cercando di deglutire. Mi passò un bicchierino di

plastica pieno di un liquore chiaro e mise un lime su un tovagliolo. L’odore mifece aumentare la salivazione. «Cos’è?»«Tequila», rispose lentamente, come se fosse sorpreso che non lo sapessi.Buttai giù il liquore e morsi il lime, con un brivido.«Grazie». Presi il bicchiere e mi allontanai, con le ginocchia che mi tremavano.

Sapevo che Cole e Nate mi stavano guardando. Cominciai a iperventilare ora chegli davo le spalle. Per quanto cercassi di inspirare, mi sentivo soffocare. Avevopaura che non sarei stata in grado di riprendere il controllo di fronte a quel dolorelancinante, e non potevo permettere che succedesse lì. Avevo bisogno dicalmarmi. E presto.Mi feci strada sulle scale e dentro casa, urtando la gente che ballava,

disturbando tutti quelli che incontravo, finché non arrivai al secondo bar.«Ciao, Brent», salutai.

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Lui fece un sorriso smagliante. «Emma, amica mia! Come va?»«Benissimo», risposi. «Posso avere uno shot? Anzi, ne prendiamo uno insieme?»«Certo», accettò con enfasi. «Che cosa volevi?»«Decidi tu». Cercai di continuare a sorridere. Volevo mantenere un aspetto

sicuro. Presi un sorso del drink, ma non riuscivo a nascondere il tremore che mifece rovesciare la vodka dappertutto quando mi portai il bicchiere alla bocca.Brent scelse la tequila come aveva fatto Nate, e ne versò uno shot a entrambi.Sollevò il bicchiere di plastica e brindò: «All’amicizia». Lo mandai giù senza

esitazione, affondando i denti nel lime subito dopo per bloccare il tremito.«Che ne dici di un altro?».Lui sollevò le sopracciglia alla mia richiesta; poi scrollò le spalle. «Certo. Perché

no?».Stavolta, fui io ad alzare il bicchiere e a brindare: «A ieri». Notai il suo sguardo

confuso, ma non fece domande. Non gli avrei comunque dato spiegazioni. Provaia reprimere il tremore mentre la tequila mi scendeva in gola.«Grazie, Brent. Ci vediamo dopo».«Aspetta», mi chiamò. Continuai a camminare come se non lo avessi sentito.Cole era sul balcone con due drink. Mi offrì un bicchiere senza dire niente.

Rimanemmo per un paio di canzoni sul balcone a guardare le persone sotto dinoi.«Starai bene?», chiese alla fine.Scossi la testa. Continuò a starmi accanto in silenzio, lanciandomi un’occhiata

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ogni tanto senza dire una parola. Mi concentrai sulla respirazione, svuotando ilcontenuto del bicchiere che mi aveva dato in quello che già avevo. Bevvi a piccolisorsi e aspettai. E poi la testa mi cominciò a girare, e il torpore arrivò a coprirequel fuoco serpeggiante. Chiusi gli occhi, accogliendo la calma indotta.«Emma!», mi chiamò Peyton, facendomi girare, cosa che non si rivelò una buona

idea. Mi tenni in equilibrio con una mano sulla ringhiera.Vide Cole accanto a me e sorrise apertamente, immaginando probabilmente che

stessimo di nuovo parlando. Il che tecnicamente non era vero.«Peyton!», ricambiai il saluto e la abbracciai.«Sei ubriaca?», mi accusò lei, scioccata.«Spero di sì», risposi, respirando profondamente dal naso, assaporando il ronzio

del nulla.«Sei stato tu?», chiese Peyton a Cole.«No», lui scosse la testa, sollevando le mani per difendersi.«Be’, non fare niente di stupido», mi consigliò Peyton. «Noi andiamo a prendere

un altro drink. A dopo». E con ciò, sparì.«Dove vai?», la chiamò Cole, ma lei era già smarrita nella folla.«Non devi farmi da babysitter», lo guardai. «Penso di aver bisogno comunque di

un altro drink». Guardai il mio bicchiere, che era ancora mezzo pieno.«Davvero?», mi sfidò Cole.«Già». Mi portai il bicchiere alla bocca e lo prosciugai. «Visto?». Glielo mostrai.

Cole fece un passo per seguirmi mentre mi incamminavo verso il bar. Mi voltai

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per dirgli di non venire con me, ma la mia caviglia cedette leggermente. Non miero ancora abituata ai tacchi, anche se erano a zeppa. «Stupide scarpe».Mi chinai per provare a slacciarle, ma inciampai.«Vuoi una mano?», chiese lui.Prima che potessi rispondere, si inginocchiò davanti a me e mi slacciò i sandali.

Me li tolsi, sollevata di poter appoggiare i piedi a terra. Lui si alzò facendodondolare i sandali tra le dita. Sembrava così alto, tutto d’un tratto.«Wow», lo fissai. «Sei cresciuto».«O tu ti sei rimpiccolita», replicò con un sorriso storto. «Andiamo». Fece un

cenno verso la casa.Mi voltai ed esaminai la corsa a ostacoli tra il balcone e il bar dall’altra parte

della sala. C’era molto movimento e dappertutto c’erano braccia cheondeggiavano – ci sarebbe voluta una grande concentrazione. Feci un respiroprofondo, preparandomi.Cole mi prese la mano, e io lo guardai sorpresa.«Sembra che tu abbia decisamente bisogno di una mano».«Sì, senza dubbio. Ho sicuramente bisogno di una mano». Cole mi scortò tra gli

ostacoli senza incidenti, e riemersi dall’altro lato sana e salva. Pensai di sollevarele braccia in segno di vittoria, ma lui mi teneva ancora la mano, e non pensavoche si sarebbe unito a me.«Emma!», urlò allegramente TJ quando mi vide.«TJ!», risposi entusiasta.

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La sua espressione cambiò, e parve perplesso. «Te ne vai?».Senza che me ne fossi accorta, Cole mi aveva portato verso l’uscita.«Ci vediamo dopo, TJ», gli disse Cole, aprendo la porta per farmi passare.«Ce ne andiamo?», chiesi confusa, mentre TJ diceva: «A dopo, Cole».Fu allora che capii. «Aspetta. Tu li conosci?»«Sì. E sì», Cole rispose pazientemente mentre proseguivamo sul vialetto, «mio

padre ha una casa in fondo alla strada».«Mi prendi in giro», mi lamentai, mentre la delusione si faceva largo tra la

calma. Perché mi stava succedendo una cosa del genere? Doveva essere unoscherzo di cattivo gusto. «Ma certo che li conosci! Ma certo che dovevo venireproprio a questa festa. Probabilmente conosci anche lui, vero?»«Vuoi dire…», aprì la bocca per dire il suo nome ma si fermò quando vide il mio

sguardo truce. «L’ho incontrato».Urlai contro il cielo: «Maledetto karma».Ma non riuscivo strillare e camminare allo stesso tempo, così mi fermai. Cole mi

guardò divertito e perplesso.«Fottuto, stupido karma», mormorai sottovoce a braccia incrociate.«Sei davvero incazzata?», ridacchiò.«Sta’ zitto, Cole», sbottai. «Fottuto karma».«Farai meglio a smetterla di prendertela con il karma, o ti prenderà a calci in

culo», rise.«Oh, che ci provasse! Forza!», urlai alle stelle. «Fammi vedere cosa sai fare!».

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Cole increspò le labbra. «Ok, campionessa. Calmati».All’improvviso mi sentii esausta. Con le spalle curve in avanti, mi misi a sedere

sul bordo della strada.«Che fai?», domandò Cole, chinandosi su di me.«Sono stanca», mi lamentai, piegando le ginocchia e appoggiandoci sopra la

testa con le braccia incrociate.«Forza», mi incoraggiò Cole, offrendomi la mano. «Ci siamo quasi. E poi potrai

svenire». Presi la sua mano, e lui mi sollevò da terra. I piedi mi tradirono, e miaggrappai al suo braccio.Continuai a camminare con la testa piegata su di lui, reggendomi al suo braccio.

Ero così stanca… e brilla. La terra non stava ferma, e mi faceva brutti scherzi. Mimorsi il labbro, concentrata. Poi capii che non mi sentivo più le labbra, e questomi fece pensare ai baci.«Cole?»«Sì, Emma».«Vuoi baciarmi?»«Uh, no», rispose di botto.«Ma voglio sapere se senti le mie labbra», chiesi, impaziente.«È ancora un no. Non ti bacio».«Perché?», mi imbronciai.Ci fu silenzio per un minuto. Poi lui disse. «Perché non sono nemmeno sicuro che

mi piaci».

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«Ottima ragione», notai, mezza addormentata. «Ma non devo piacerti. Devi solobaciarmi. Non mi sento le labbra».«Smetti di mordertele», ordinò. Sbattei le palpebre e mi accorsi che stavamo

camminando verso una casa.«Cole?»«Sì, Emma».«Mi dispiace di essermi comportata da stronza». Lui tirò fuori una chiave e aprì

la porta. Non riuscivo a mantenermi dritta. «E mi dispiace di non piacerti». Luiaprì la porta.«C’è una stanza…».Ma io mi stavo già dirigendo verso il divano che avevo localizzato quando lui

aveva aperto la porta. Ci caddi sopra con un sospiro pensante e lasciai che ilmondo continuasse a girare fino a farmi addormentare.

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F

8Fermare il silenzio

eci un lamento quando il clangore metallico mi riecheggiò in testa. «Scusa»,sentii dire da una voce maschile.

“Cazzo!”.Strizzai gli occhi e mi passai le mani sui fianchi – con un sospiro di sollievo

quando mi accorsi che ero vestita. Sbirciando da sotto le ciglia, con il visoschiacciato su un cuscino, notai una coperta blu imbottita stesa su di me. Oltre ipiedi del divano c’era una cucina aperta, e lui, che mi dava la schiena. Sentivoancora il sapore della tequila in bocca – e probabilmente mi stava penetrando intutti i pori.Mi misi a sedere, aspettandomi di stare male, e invece no. Invece fu come se

un’onda mi cullasse. Sbattei le palpebre, cercando di mettere a fuoco. La stanza

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bianca e spoglia mi costrinse a socchiudere gli occhi per la luce intensa.«Ehi», mi salutò Cole, impegnato a fare qualcosa in cucina. «Postumi della

sbronza?»«No», dissi con voce rauca, passandomi le dita tra i capelli, che da una parte

erano tutti dritti. Tentai di metterli a posto e infilarli dietro l’orecchio. «Penso diessere ancora ubriaca».Cole ridacchiò. «Non avevo dubbi. Sto facendo dei pancake, se ne vuoi un po’».Mi guardai attorno nel piccolo open space, con pareti di scaffali pieni di libri,

foto, scatole e oggetti marinareschi. C’era un’enorme poltrona beige, abbinata aldivano su cui mi ero svegliata. Dietro il divano c’erano un tavolo quadrato dilegno e un paio di sedie. La cucina era separata da una penisola con tre sgabellidi legno.Mi alzai dirigendomi verso le porte scorrevoli di vetro per ammirare il panorama

dell’oceano; poi aprii la porta e uscii sul terrazzo di legno. Le nuvole erano bassesopra l’acqua, e gettavano un velo sulle isole a malapena visibili in lontananza.Stringendomi le braccia al petto, affrontai la brezza fredda. Chiusi gli occhi erespirai l’aria umida, accogliendo il torpore.Cole uscì e si mise accanto a me, poggiando le mani sulla ringhiera e guardando

i gabbiani che volavano sull’acqua prima di atterrare sulla spiaggia, in cerca dicibo.«Che giornata schifosa», osservò, guardandomi. Io mi voltai verso di lui,

sbattendo pigramente le palpebre tra le nubi che avevo nella testa.

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«Un po’ come me», mi lamentai, facendolo sorridere. Lui tornò dentro mentrecontinuavo a osservare l’acqua scura. C’era qualcosa di invitante nella spuma chesi muoveva ritmicamente sotto il cielo grigio. Avrei voluto galleggiare insuperficie, respirare la nebbia.Quando tornai a guardare la casa e vidi che Cole era impegnato a cucinare, scesi

in silenzio i gradini, camminando sugli scogli che erano lisci e freddi sotto i mieipiedi nudi, finché non raggiunsi la sabbia ruvida della spiaggia. Le case confinantierano buie e apparentemente vuote.Fissai l’acqua, e il mio cuore si agitò. Diedi un altro sguardo alla casa senza

vedere segni di Cole. Lasciando andare un sospiro, mi sfilai i pantaloni e lamaglia, lasciandoli cadere sulla sabbia assieme al mio reggiseno e alle miemutandine. Prima di cambiare idea, mi incamminai nell’acqua ghiacciata finchénon mi arrivò ai fianchi e mi tuffai in un’onda.Tornai in superficie, ansimando per l’acqua gelida. Un’onda mi passò sulla testa,

e vi io finii sotto, riemergendo dall’altro lato. Tutto attorno a me la nebbia eraspessa, e avvolgeva le case intorno nell’ombra. Mi stesi sulla superficieondeggiante e sbattei i piedi, spingendomi lontano dalla spiaggia. I miei pensierierano calmi come l’acqua che mi lambiva le orecchie, e faceva dissolvere ilmondo attorno a me. Il ronzio che avevo in testa era stato sostituito da unsilenzio rassicurante. Non c’era nulla che mi importasse.Una parte razionale di me sapeva che dovevo tornare a riva prima che l’acqua

mi risucchiasse – ma rimasi in superficie ancora un po’, non volevo rinunciare alla

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quiete. Provai a immaginare come sarebbe stato lasciare che mi inghiottisse, earrendermi per sempre al silenzio.Con un respiro tremante, scivolai sott’acqua. Un’onda mi catturò e mi spinse

sulla spiaggia. Tornai in superficie e respirai l’aria fredda, che mi riempiva ipolmoni. Continuai a scivolare tra le onde verso la spiaggia, finché le mieginocchia non toccarono la sabbia.«Sei pazza?», mi rimproverò Peyton, che era sulla spiaggia e mi stava tendendo

un asciugamano. «Hai le labbra viola, e sei nuda. Che diamine ti passa per latesta?».Mi guardai intorno prima di uscire, assicurandomi che fossimo sole.«Adesso?», feci una pausa. «Niente». Poi feci un sorrisetto, che la irritò ancora di

più. Presi l’enorme asciugamano e me lo avvolsi attorno al corpo tremante. Anchecosì, sentivo i muscoli rigidi e doloranti. Peyton raccolse i miei vestiti quando ciavvicinammo.«Ho portato la tua borsa, così puoi metterti qualcosa di asciutto e scaldarti»,

spiegò.«Hai portato la mia borsa?», la guardai, e lei distolse lo sguardo.«Speravo che potessi stare qui, così io e Tom potremmo avere un paio di giorni

da soli», rispose incerta. Sollevai le sopracciglia. «A Cole non importa, anche sesei così strana».«Lui pensa che sono strana?», chiesi, incuriosita.«No, ma io sì. Ha solo detto che stavi provando “qualcosa di nuovo”, e mi ha

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dato l’asciugamano».Risi.Prima di entrare in casa, Peyton mi fermò per accertarsi che avessi coperto tutto

quello che dovevo coprire, visto che c’era Tom sul divano. Alzai gli occhi al cielo,e la superai entrando.«La tua borsa è nella stanza da letto a destra», mi informò Peyton.Tom chiese: «Com’è l’acqua?», mentre oltrepassavo il divano.«Sta’ zitto, Tom», sbottò Peyton. Cole era appoggiato al tavolo, e mi guardava.

Gli lanciai un’occhiata, e le mie labbra si incresparono in un leggero sorrisoquando entrai nella stanza e chiusi la porta.Restai sotto il getto bollente della doccia finché non riuscii finalmente a

scongelarmi. Il mio torpore si era dissolto tra le onde. Feci un respiro profondo,soddisfatta per la chiarezza tonificante che quell’esperienza mi aveva provocato.Quando entrai in cucina, vestita e con i capelli asciutti, riuscivo a sentire la miapelle splendere.«Hai fame?», chiese Cole quando mi misi a sedere sulla penisola.«Muoio di fame». Lui mi mise davanti un enorme piatto di pancake.Mi guardai attorno nel piccolo spazio e mi accorsi che eravamo soli. «Dove sono

Peyton e Tom?»«Sono tornati da lei», rispose, lavando una tazza. «È stato come te l’aspettavi?»,

Cole si girò a guardarmi con un bagliore negli occhi.Io inghiottii un boccone di pancake. «Che cosa?»

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«Fare il bagno nuda».Mi spostai sullo sgabello, a disagio. «Anche meglio», risposi piano. Lo sentii fare

una risatina soffocata senza voltarsi.Cole scelse della musica e sparì nella sua stanza per farsi una doccia.La nebbia fuori si era fatta più spessa. All’improvviso mi ritrovai con la piena

consapevolezza che io e Cole avremmo passato tutti il giorno in quella casa… dasoli. Mi guardai attorno e mi accorsi che non c’era il televisore, quindi valutai sefosse il caso di chiudermi nella mia stanza a leggere tutto il giorno. Fu allora chenotai le scatole di puzzle impilate su uno scaffale. Non avevo mai fatto un puzzle,e il pensiero mi incuriosiva. Forse mille pezzi avrebbero potuto distrarmi asufficienza. Non avrei dovuto pensare ad altro che a trovare i pezzi giusti daunire.Scelsi una scatola con un paesaggio montuoso e mi misi a sedere, tirando il

tavolino fino ad attaccarlo al divano e spargendo i pezzi di fronte a me.Cole uscì dalla sua stanza profumato di brezza fresca, con i capelli biondi bagnati

e pettinati all’indietro, come se ci avesse appena passato le dita per sistemarli.Abbassai lo sguardo quando mi sorprese a guardarlo e continuai a prendere ipezzi del puzzle.«Sono anni che non faccio un puzzle», disse Cole, venendomi accanto e

prendendo il coperchio della scatola.«Io non ne ho mai fatto uno», ammisi senza guardarlo.«Davvero?», sembrava sorpreso. «Vuoi una mano? O te la senti di mettere

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insieme mille pezzi da sola?»«Puoi aiutarmi se ti va».Cole si sistemò sul cuscino accanto a me a gambe incrociate. Cominciò a

separare i pezzi del bordo da quelli centrali. Quando si sporse in avanti, il suoginocchio sfiorò la mia gamba, facendomi venire la pelle d’oca. All’improvviso nonero più sicura che fosse una buona idea.«Stai bene?», chiese Cole, notando la mia postura irrigidita.«Uh, sì», balbettai, tossendo per schiarirmi la gola.«Vuoi bere qualcosa?». Si alzò dal cuscino e saltò sullo schienale del divano, in

modo da non dover spostare il tavolino.«Certo», risposi, cogliendo l’occasione per allontanarmi da lui. «Quello che

prendi tu andrà bene».«Coca?», offrì. Annuii senza guardare, concentrata sui pezzi del puzzle.Con la nebbia che copriva l’oceano, passammo il pomeriggio avvolti nel silenzio,

a parte la musica che riempiva la stanza. Sistemammo i pezzi sul tavolino,lavorando all’unisono senza dire una parola. Ero molto attenta a tutte le suemosse. Sentivo che irradiava calore quando si avvicinava, unendo i pezzi con lelunghe dita sottili, esitando mentre se ne premeva uno sulle labbra e socchiudevagli occhi, riflessivo, cercando il posto giusto. La pelle sul mio braccio si risvegliavaquando lui la sfiorava e avvicinava la sua mano alla mia per frugare tra i pezzi.«Hai fame?», la sua voce ruppe il silenzio, facendomi sobbalzare.«Uh, sì, potrei mangiare qualcosa». Sollevai le braccia sopra la testa. Avevo la

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schiena indolenzita dopo essere rimasta china per ore.Cole spostò il tavolino e si alzò in piedi, stiracchiandosi anche lui. La sua camicia

si alzò rivelando i muscoli ben definiti. Mi sorpresi a guardarlo e voltai la testa.Ero stata così brava a evitarlo, a convincermi che non ero interessata a lui, chenon avrei mai potuto essere interessata a lui. Eppure ora ero lì, intrappolata inquella casa con lui, ed ero quasi pronta a smettere di controllare i miei riflessiinvolontari. Dovevo chiamare Peyton e andarmene da lì.«Va bene?», chiese Cole, tirandomi via dal mio piano di fuga.«Eh?», sollevai la testa, non sapendo cosa avesse detto.«Ti ho chiesto se messicano va bene», si interruppe per guardarmi. «Sei sicura

di stare bene? Hai ancora i postumi della sbronza?»«No, forse sono solo intontita per aver fissato il puzzle tutto il pomeriggio.

Scusa. Messicano va benissimo».Andai in bagno sciacquarmi la faccia con acqua fredda e a prendermi un

momento per ritrovare la lucidità. Poi presi il telefono e mandai un messaggio aPeyton.Non posso restare qui. Vieni a prendermi.Lei rispose quasi subito.Perché? State litigando?No.Su, Emma. Una notte. PER FAVORE!!!Fissai la sua risposta e serrai i denti, frustrata.Una notte. E BASTA. Vieni a prendermi domani mattina.Grazie!!!

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Apparve sul mio display. Mi misi a sedere sul letto, passandomi le dita tra icapelli. Forse sarei dovuta andare a dormire presto. Subito dopo essere tornatidalla cena. Cosa che mi portò un nuovo soprassalto di terrore. Di cosa diamineavremmo parlato a cena?«Pronta?», chiamò Cole dal soggiorno.Feci un lungo sospiro. «Sì».«Quindi… hai quattro sorelle, giusto?», gli chiesi dopo aver ordinato, sperando

che questo sarebbe bastato a fargli capire che ero disposta a fare conversazione.Non c’era modo di rimanere seduta davanti a lui in silenzio mentre mangiavamo.«Già», confermò. Rimase in silenzio un minuto, e poi capì che stavo aspettando

che continuasse. Sembrò… sollevato. «Missy è la più grande. Ha ventisette anni.Poi c’è Kara, venticinque. Liv ne ha venti, e Zoe sedici. Già. Cinque donne, piùmio padre e me – è stato piuttosto… assurdo. Ma adesso siamo tutti sparsi. Zoesta con mia madre a Seattle. Liv va al college in Florida. Kara è a Oakland. Missyè a Washington, e mio padre è a San Diego».«Tutti sparsi», ripetei. Lui annuì. Mi preparai alle domande sulla mia famiglia.«Chi è la tua amica più cara?».Non era la domanda che mi aspettavo.«Sara», risposi senza problemi. «Adesso è a Parigi per uno scambio con la

Parsons di New York. Ma è come se fosse una parte di me, più importante di unorgano vitale».«Wow», commentò inarcando la fronte. «Viene mai in California?»

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«Ci viene sempre in vacanza, a parte quando è all’estero. Ma sarà qui a maggioe per l’estate».Lui continuò a parlare della sua famiglia, descrivendo i pregi e i difetti così

vividamente che riuscivo quasi a immaginare le sue sorelle. E io parlai di Sara concosì tanti dettagli che riuscivo quasi a sentire la sua voce. Mi mancava.«Così Liv un giorno ha deciso che sarebbe diventata vegetariana», mi raccontò

Cole mentre tornavamo a casa, «a parte quando andavamo nei suoi ristorantipreferiti. E visto che mio padre non cucinava, mangiavamo sempre fuori, quindiogni ristorante diventava il suo preferito, e di base lei non è vegetariana. Ma semai la dovessi incontrare, lei proclamerà di essere vegetariana, e mi dirà chesono insensibile se la contraddico».Risi, pensando che mi sarebbe piaciuta quella ragazza se mai l’avessi incontrata.

Avevamo passato due ore al ristorante, a parlare. Guardai la porta di casapreoccupata, con i nervi a fior di pelle – perché mi era davvero piaciuto parlarecon Cole. E peggio ancora, mi era piaciuto lui. E questo non poteva succedere.Mi chiesi perché non mi avesse fatto domande sulla mia famiglia. O sul mio

comportamento alla festa della sera prima. Sentivo di dovergli una sorta dispiegazione, specialmente visto che mi aveva accompagnata a casa ubriaca.«Mi dispiace per ieri sera», sbottai quando lui appoggiò le chiavi sul tavolo della

cucina. «Stavo…».«Lottando», finì al posto mio. Risi per la parola che aveva scelto. «Non devi

darmi spiegazioni. Ho capito abbastanza».

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«Oh, perché tu stavi ascoltando», lo presi in giro, ripensando al suo talentoautoproclamato.«Sì», ammise senza imbarazzo. «E sì, ho capito. Nessun problema».«Probabilmente dovrei cercare di lottare senza ricorrere all’alcol».«Quello probabilmente sarebbe nel tuo interesse», ridacchiò.«Be’… grazie ancora per avermi sopportato», risposi seriamente, incrociando i

suoi occhi azzurri lucenti.«Non eri così male», rispose, senza distogliere lo sguardo. Soffermandosi un po’

troppo.«Um», dissi all’improvviso, spezzando il legame e forzando una pausa. «I giorni

uggiosi mi stancano. Penso che andrò a letto presto e leggerò fino adaddormentarmi».«Ok», disse Cole scrollando appena le spalle.Mentre aprivo la porta della camera da letto, sentii: «Emma?».Mi voltai verso di lui, esitando.«Ho deciso che mi piaci».Increspai le labbra al suo tono ironico. «Quindi non pensi che sia una stronza?».Lui allargò il sorriso, con gli occhi che si accendevano. «Non ho detto questo».«Simpatico», lo schernii.«Buonanotte, Emma».Mi morsi il labbro con un piccolo sorriso. «Buonanotte, Cole».

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M

9Ricominciare a sentire

i alzai tardi la mattina dopo. Avevo impiegato buona parte della notte acercare di addormentarmi. Non riuscivo a pensare ad altro che a Cole che

dormiva nella stanza di fronte alla mia e, be’… questo era tutto quello a cui eroriuscita a pensare.Mi feci la doccia e mi preparai, sperando che Peyton arrivasse presto. Misi in

borsa le mie cose in modo da essere pronta a prenderle e andarmene.Cole era sul divano quando finalmente uscii dalla camera da letto. Era tutto

preso dal puzzle, che era completo per un terzo.«Buongiorno», disse senza voltarsi. «Sono drogato di questo stupido puzzle. Hai

fame?»«Prendo qualcosa», gli dissi. «Tu continua pure. Hai dei cereali?»

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«Sì. Ma ho delle uova e dei muffin inglesi, se preferisci».«Non so cucinare». Aprii la dispensa in cerca di una colazione che fossi in grado

di preparare.Cole era silenzioso. Troppo silenzioso. Mi voltai verso di lui e vidi che mi stava

guardando con un’espressione curiosa. «Non sai cucinare?»«No».«Uh. Non me lo aspettavo». Si voltò e tornò a concentrarsi sul puzzle. Perché

questo piccolo fatto continuava a sorprendere la maggior parte delle persone chemi conoscevano? Lasciai perdere, e versai i cereali in una tazza assieme al latte.Mi sedetti sul bracciolo del divano, e feci colazione mentre esaminavo i pezzi.

Ogni tanto, trovavo una corrispondenza e mi chinavo per aggiungere un tassello.«Puoi sederti, sai», mi incoraggiò Cole.«Uh, penso che Peyton arriverà presto», dissi imbarazzata, andando in cucina

per mettere la tazza nella lavastoviglie.«Non credo», ribatté Cole.«Che vuoi dire?»«Lei e Tom sono andati a Catalina oggi».Il panico cominciò a crescermi nello stomaco. Significava che dovevo rimanere

lì… con Cole… ancora.«Vieni ad aiutarmi», mi supplicò. Quando notò il pallore sul mio viso stupefatto,

socchiuse gli occhi. «Non te l’aveva detto?».Scossi la testa.

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«Se non vuoi stare con me, non c’è problema», disse di colpo, cercando disembrare tranquillo. «Voglio dire, avevo comunque in mente di andare a fare unpo’ di surf».«Mi dispiace». Mi sentivo malissimo per non aver nascosto la mia reazione.

«Avevo solo dei programmi, ecco tutto».«Non credo di aver capito che cosa significa, ma non mi offendo». Sorrise e

tornò a rivolgere la sua attenzione al puzzle.Feci un sospiro e provai a rilassarmi. Avvicinandomi alla porta scorrevole di

vetro, mi torturai le mani, cercando di decidere cosa fare. Guardai fuori il cielocaliginoso e capii che faceva troppo freddo per potersi sedere fuori, almeno fino aquando le nuvole non si fossero aperte lasciando filtrare il sole.Mi arrampicai sul bracciolo del divano e incrociai le gambe, tenendomi il più

lontana possibile da Cole.«Cos’altro c’è nella tua lista?», chiese, premendosi il bordo di un pezzo del

puzzle sul labbro. E per un istante non riuscii a concentrarmi su nient’altro. Luivoltò la testa verso di me, e io distolsi lo sguardo dalle sue labbra per incontrareil suo sguardo. Le sue sopracciglia si sollevarono, in attesa.«Non…», balbettai. «Non lo so. Perché non pensi a qualcosa per me?». E

nemmeno quella fu la cosa migliore da dire.«Che intendi? Pensavo avessi una lista. Sai, tipo una lista di cose da fare

assolutamente nell’anno nuovo?»«Non proprio», confessai. «Quando me lo chiedi, semplicemente ti dico la prima

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cosa che mi viene in mente. Non ho mai voluto fare queste cose fino a quandonon me le hai fatte dire. E dopo averle dette volevo farle davvero. Quindi laprossima cosa puoi sceglierla tu. È colpa tua se esiste questa lista, e comunquetu sei sempre lì ad assistere».Cole prese a osservarmi, per capire se fossi seria. Poi scoppiò a ridere.E continuò a ridere.«Basta», chiesi, cercando di fingermi arrabbiata e dandogli una pacca sulla

spalla. Ma più rideva, poi mi risultava difficile arrabbiarmi, e alla fine sorrisianch’io. «Ok! Non scegliere. Non ho bisogno di aggiungere nulla alla mia stupidalista».«Quali sono i requisiti?», chiese alla fine, dopo aver ripreso il controllo di sé.«Eh?»«Cosa merita di finire nella lista? Quali sono i criteri?», spiegò.«Be’…», riflettei attentamente per un istante. «Deve essere qualcosa che mi

faccia battere forte il cuore e faccia salire l’adrenalina».«Questo è un dato di fatto», mi provocò. Io alzai gli occhi al cielo.«Deve essere qualcosa che mi catturi completamente e mi faccia dimenticare

tutto il resto. Che allontani tutti i pensieri e scacci il dolore».«Il dolore?»«Voglio dire, uh…», feci una smorfia, maledicendomi in silenzio per essere stata

così sincera. «Tutto ciò che mi dà fastidio. Sai, se ho una brutta giornata e vogliodimenticarmi qualcosa. Qualcosa che faccia andare via tutto. Capito?»

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«Capito», gli occhi di Cole vagarono sul mio viso, come se volesse chiedermiqualcosa ma si stesse trattenendo. «Penso di poter trovare qualcosa. Mi dai unpo’ di tempo per pensarci?»«Certo». Mi strinsi nelle spalle, ma in realtà stavo andando in paranoia.Continuammo a lavorare sul puzzle per un’altra ora. Stavolta però, Cole alzò la

musica, e da lì partì la conversazione. Ben presto scoprimmo di avere più cose incomune di quanto avessi inizialmente immaginato.«Non dovresti andare a fare surf?», chiesi, vedendo che il sole aveva finalmente

bruciato il manto di nubi.«Posso andare domani», rispose con noncuranza. «Oggi starò con te».Fissai il puzzle senza muovere un solo muscolo. Non volevo che stesse con me

quel giorno, perché volevo davvero che stesse con me quel giorno.«Perché hai l’aria di chi sta per vomitare?»«Io, uh…», farfugliai. «Um…». Avrei davvero voluto saltare giù dal divano e

scappare. Ma non avevo una macchina, e non avevo un altro posto dove andare.«Io, um…».«Va bene», mi rassicurò scrollando la testa, divertito. «Se preferisci stare da

sola, dillo. Mi dispiaceva lasciarti sola, visto che Peyton non tornerà prima distasera. Ma posso andare a trovare degli amici».«Scusa. Sono una stupida. Credo di non aver ancora capito come comportarmi

con te».«Sinceramente, dici davvero delle cose stranissime. Per forza non riesco a

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capirti», disse, con una risatina. «Sii te stessa, Emma. Rilassati. Non ti farò delmale».“Ma io potrei fare del male a te”.Peyton sarebbe tornata quella sera. Che danni potevo fare in una giornata? A lui

interessavo appena, quindi avrei potuto ignorare l’attrazione che sentivo verso dilui, per un giorno. Solo per un giorno.«Ok», mi arresi con un sospiro. «Che hai in mente?».Lui si alzò dal divano. «Andiamo allo zoo».«Allo zoo?», chiesi, aggrottando la fronte.«Non sono il tipo che fa paracadutismo o gare di velocità, Emma. Te l’ho detto.

Andiamo allo zoo».Tornammo a casa diverse ore dopo, pieni di patatine fritte e gelato.«Non è andata così male, vero?», mi punzecchiò Cole, gettando le chiavi sul

tavolo.«No», risi. «Non avrei mai pensato di dare da mangiare a una giraffa, quindi

grazie». Ci fu un momento di silenzio, e Cole mi guardò con quel suo ridicolosorriso sbilenco. Con quelle labbra che mi facevano venir voglia di…«Penso che andrò a correre». Avevo bisogno di un po’ tempo per disintossicarmi

dopo essere stata con Cole tutto il giorno. La mia pelle era ancora in fermentoper tutte le volte che inavvertitamente lui mi aveva sfiorato il braccio mentrecamminavamo sui sentieri lastricati. E ovviamente era uno zoo bellissimo, il chenon faceva che aumentare la voglia di prendergli la mano. Mi girava la testa, e la

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bussola della mia coscienza era impazzita. Dovevo allontanarmi da lui.«Io cucino qualcosa alla griglia», annunciò. «Possiamo mangiare quando torni».Sparii sulla spiaggia, lasciandolo in terrazza a riscaldare il barbecue.Da quando mi ero trasferita in California, non avevo mai permesso a nessuno di

avvicinarsi così tanto a me. Nessuna delle mie coinquiline mi conosceva davvero.Avevo passato il primo anno praticamente come una reclusa – chiudendo fuori

tutti e staccandomi da ogni emozione. Quell’anno, avevo lottato per mantenere ilcontrollo, ma l’avevo già perso diverse volte. E questo coincideva con la sera incui Cole era entrato nella mia vita. E adesso… sentivo di nuovo qualcosa. Troppo.Ed ero spaventata. Terrorizzata di ciò che sarebbe potuto accadere se non fossistata capace di rimandare tutto nell’oscurità, al suo posto.Siamo cattivi come loro, con le nostre bugie e i nostri inganni. Distruggiamo la

vita delle persone.Affondai nella sabbia e mi costrinsi ad andare avanti, nel tentativo di far tacere

le voci che mi ricordavano tutti i motivi per cui non dovevo permettere a nessunodi avvicinarsi a me. E la mia stessa voce. Lottai per mantentere il controllo checontinuava a sfuggirmi a ogni respiro, ma anche quando finalmente mi fermai,sapevo che non potevo lasciarmi alle spalle chi ero davvero.«Hai un po’ esagerato», notò Cole quando arrivai sotto la terrazza, con l’affanno.

Lo guardai sorpresa. «Sto cucinando il pollo. Ho pensato che potremmo fare deisandwich. Ti va?»«Certo», risposi, cercando di riprendermi. Salii i gradini e lasciai sul terrazzo le

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scarpe piene di sabbia. Andai in camera per farmi una doccia, sperando disciacquare via tutte le emozioni che si stavano aggrovigliando dentro di me.Ci sedemmo in terrazza a guardare l’oceano. Senza parlare. E mi trovai a

pensare a quanto tempo avevamo passato assieme così. Cole non mi facevadomande su di me. Mi permetteva di dirgli quello che volevo. Era a suo agio inquel silenzio. Io no.Sedermi accanto a lui senza la distrazione di una conversazione mi rese fin

troppo consapevole della sua presenza. La tranquilla contemplazione che sirifletteva nei suoi occhi sereni quando guardava il mare. La sua postura rilassata,appoggiato alla sedia con i piedi sulla ringhiera bassa del terrazzo. La forzanaturale che trasudava dal suo corpo. C’era un’energia tra di noi, avvolta nelsilenzio, che ci univa in un modo che non avevo mai vissuto prima.Tornammo sul divano dopo aver mangiato, presi dal puzzle, che cominciava ad

assomigliare alla scena montuosa sulla scatola, con stralci di nuvole stese sulcielo blu.«Provoca davvero dipendenza», aggiunsi un altro blocco di pezzi. «Non capisco

cosa sia, ma non riesco a smettere. Forse è la sfida. Il bisogno di vederlocompleto, non importa quanto sia noioso».«Forse è perché quando hai messo tutti i pezzi assieme, finisci per avere

qualcosa di bellissimo». Un leggero brivido mi percorse la schiena quando vidi isuoi occhi azzurri rassicuranti immergersi in me.«Penso di aver capito quale dovrebbe essere la prossima cosa sulla lista», disse

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a bassa voce, catturandomi nel suo sguardo.«Davvero?», sussurrai.«Qualcosa che ti farà battere forte il cuore», mormorò. «Qualcosa che ti farà

dimenticare tutto quello che ti circonda. Potrei sbagliarmi, ma credo di saperecos’è».«Sì?», dissi piano, con il battito irregolare. L’aria tra di noi si era fermata, e lui

era a pochi centimetri da me. Rimasi concentrata sulla tonalità intensa dei suoiocchi, incapace di muovermi finché non sentii il solletico del suo respiro sul mioviso. Chiusi gli occhi, e lui premette gentilmente le sue labbra contro le mie.Tutto smise di esistere a parte la tenerezza del suo bacio e il lento movimentodelle sue labbra sulle mie. Non respiravo. Non pensavo. Ero piena di un formicolioche mi scorreva in tutto il corpo. Quando lui si ritrasse, tenni gli occhi chiusi,rapita.Sollevai lentamente le palpebre, e lui era lì ad aspettarmi, con la bocca curva in

un sorriso ironico. Io sospirai e affondai sul divano.«Questo meritava un posto nella lista». La mia voce sembrava fragile. Il

formicolio si stava gradualmente dissipando. «Dopo questo sarà difficile trovarealtro».Cole rise.Quando andai a letto quella sera, restai sveglia a lungo. “Non posso farlo” – le

parole si ripetevano di continuo nella mia testa, e ogni momento di inattivitàfaceva aumentare il panico. Mi misi a sedere e fissai la porta.

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Passandomi le dita tra i capelli, mi morsi il labbro riflettendo. Dovevo uscire.Andarmene da lì. Andarmene da lui… e da quel bacio. Quel bacio che avevascatenato un desiderio che non riuscivo a contenere. Il desiderio di provarequalcosa. Di riempire il vuoto senza fondo che si era aperto quando avevolasciato Weslyn. Volevo provare qualcosa… qualsiasi cosa. Anche se era la cosasbagliata.Strisciai fuori dal letto e decisi di chiedere a Cole di portarmi da Peyton. Lei e

Tom avevano fatto tardi a Catalina, ma ormai dovevano essere a casa. Non miimportava che fosse notte fonda. Eravamo solo a un quarto d’ora di distanza.Mi vestii e misi la borsa nel soggiorno prima di avvicinarmi alla sua porta,

fissandola per un minuto buono, con il petto che si sollevava pesantementementre mi facevo coraggio per bussare. Sollevai la mano e bussai piano.«Cole?», lo chiamai. Se non avesse risposto, mi sarei girata e sarei tornata nella

mia stanza. Ero un fascio di nervi mentre aspettavo davanti alla sua porta. Chediavolo mi era venuto in mente?«Sì», rispose, «puoi entrare».Deglutii a fatica e aprii la porta. «Sei sveglio?». Che cosa stupida da dire, visto

che mi aveva appena risposto.«Qualcosa non va?», chiese. Riuscivo a malapena a distinguere la sua sagoma,

sollevata sui gomiti a letto. Feci solo due passi nella stanza e non mi mossi.«Non riesco a dormire», spiegai senza voce, tirandomi il bordo della maglietta.

«E, ehm…», quell’unica frase che mi ero ripetuta di continuo nella testa, “Me ne

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devo andare”, non mi uscì dalla bocca.Lui mi osservò in silenzio per un istante. «Vieni a stenderti qui, Emma».Spalancai gli occhi.«Puoi stare sopra le coperte», suggerì. «Parliamo un po’ e magari riuscirai ad

addormentarti».«Ok», dissi con voce rauca, avvicinandomi con circospezione al suo letto. Aveva

il suo stesso profumo fresco e frizzante. Cole si spostò per farmi spazio.Ignorando le proteste della mia coscienza, sistemai le coperte e mi ci misi sopra.Aveva il lenzuolo avvolto intorno alla vita, e quando si mise sul fianco per

guardarmi potei notare i contorni del suo ampio petto. Decisi di stendermi sullaschiena e fissare il soffitto, in modo da poter formulare delle frasi quandoavremmo parlato. Avevo paura di perdere il filo se lo avessi guardato.Lui non disse niente per un po’, e poi sussurrò: «Oppure possiamo non parlare».Sapevo che aspettava che fossi io a cominciare la conversazione. Dopotutto, ero

io quella che aveva bussato alla sua porta.«Scusa», mormorai. «Sono confusa».«Confusa?»«Cole, non voglio piacerti», confessai d’un fiato.Lui non rispose. All’improvviso mi sentii molto vulnerabile. Voltandomi verso di

lui, vidi che voleva una spiegazione. L’intensità che tremava nei suoi occhi micostrinse a distogliere lo sguardo.«Io… ho paura», sospirai, serrando la mascella per la sincerità a cui mi ero

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abbandonata.«Che io possa farti del male?», chiese, con voce bassa e rassicurante.«Che io possa fare del male a te», risposi. «Sono incasinata. Sono così

incasinata. Non posso… non possiamo stare insieme. Non posso lasciartiavvicinare. Non posso avvicinarmi. E…».«Emma», mi interruppe. «Va tutto bene».Mi voltai, avevo bisogno di guardarlo in faccia mentre sentivo il mio corpo

tremare.«Non capisci», proseguii disperatamente, stringendomi le braccia attorno al

petto. «Non dovrei essere qui. Non immagini lo sforzo che sto facendo per nonuscire da quella porta. È quello che ho pensato da quando ci siamo incontrati, chedevo lasciarti in pace. Perché è… è quello che devo fare». Mi irrigidii per il dolorecrescente nel petto. «Sono una persona orribile».«Ne dubito», sospirò di rimando. «Ma se vuoi andartene, allora fallo. Emma, io

non chiedo niente. Mi piacciono le cose così come sono. Nessuna aspettativa.Quindi, se puoi… solo per questa settimana, mi piacerebbe che non te neandassi».Volevo toccarlo. Accarezzargli la mascella forte e squadrata. Affondare il viso nel

suo collo e ubriacarmi del suo odore. Permettergli di abbracciarmi e lasciartornare in vita la mia pelle al suo tocco. E invece no. Rimasi ferma e rigida sulmio lato di letto, incapace di distogliere lo sguardo da lui.«Che ne pensi? Vuoi rimanere, Emma?», sussurrò, allungandosi verso di me e

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passandomi il dorso della mano con dolcezza sulla guancia. Chiusi gli occhi, e unbrivido mi attraversò tutto il corpo.«Rimango», risposi, con un filo di voce. Mi stesi accanto a lui, assorbendo

l’energia che sentivo tra noi.

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S

10Prevedibile

apevo che avrei dovuto aprire gli occhi. Riuscivo a sentire la luce brillaredall’altro lato delle mie palpebre. Eppure ero così a mio agio sotto le coperte

calde, in quella pace rilassante, con lui vicino, in attesa. Lo guardai, stesoaccanto a me. Non disse niente. Rimase lì a guardarmi con l’accenno di unsorriso.Aveva la pelle illuminata dalla luce che filtrava dalla grande porta a vetri alle

sue spalle, e un permanente rossore sugli zigomi prominenti. Volevo premergli ilpalmo della mano sulla guancia, per sentire se fosse calda – ma mi trattenni.Ero ancora sopra il piumone, ma avevo addosso la coperta blu del divano. E lui

era ancora sotto le coperte, a torso nudo.«Posso chiederti una cosa?». Il suo alito alla menta mi arrivò al naso. Feci di no

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la testa, tenendo la bocca. «Devi prima lavarti i denti?». Annuii. Lui rise. «Ilbagno è lì».Pensai di andare a prendere il mio spazzolino nella borsa in soggiorno, ma dopo

un attimo di riflessione decisi di rimanere nella sua stanza. Mi lavai i denti con undito, e poi tornai a letto, accoccolandomi sotto la coperta. Cole continuò adaspettare con pazienza.«Dimmi pure», lo incoraggiai, appoggiando la testa sul cuscino.«Perché mi hai dato buca quella sera?».Mi fermai un istante. Mi sembrava così tanto tempo fa. «Mi sono fatta un

tatuaggio». Era la cosa più simile alla verità che potessi dire.«E non poteva aspettare fino al giorno dopo?»«No».Si concentrò sui miei occhi, per leggermi dentro, e annuì.«Posso vederlo?».Mi sollevai la maglietta per mostrare l’immagine sul fianco.Cole la studiò attentamente. Le sue dita seguirono la mezzaluna, sopra gli occhi

chiusi e lungo il sereno profilo mascolino. Il suo tocco mi dava i brividi. Mimancava il fiato.«Che significa?»«C’è un momento che avevo bisogno di ricordare», spiegai.«Deve averti fatto male», disse senza togliermi gli occhi di dosso, cercando di

decifrare i caratteri che correvano sul bordo.

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«Non abbastanza», mormorai a bassa voce.«Dici cose stranissime», disse, quasi con ammirazione, posando la mano sulla

mia pelle nuda.Scrollai le spalle, remissiva.«Vuoi fare qualcosa di prevedibile con me, oggi?». Il calore della sua mano mi

correva sotto la pelle. Il mio corpo sussultò. “Qualsiasi cosa”. Ma sapevo la verarisposta alla domanda.«Sì, vengo a fare surf con te».Lui rise, sedendosi sul letto, interrompendo quella scarica elettrica quando

spostò la mano dal mio fianco – e lasciandomi di nuovo oscura e vuota.Quel giorno a stento arrivai in acqua. Cole passò la maggior parte del tempo a

mostrarmi i movimenti sulla sabbia prima di permettermi di portare la tavolanell’oceano. Quando finalmente entrammo in acqua, non fece altro che mostrarmicome stendermi e sedermi sulla tavola, oltre a darmi istruzioni su come virare almomento giusto per prendere l’onda. Non mi permise neanche di provare a starein piedi, quel giorno. Eppure quella cosa così “prevedibile” mi incuriosì, quindiaccettai di riprovarci il giorno dopo.Quando Peyton mi chiamò quella sera per decidere quando venirmi a prendere,

mi chiusi nella mia stanza e le dissi che poteva passare tutta la settimana conTom. Feci finta di farle un enorme favore. Cercai di sembrare annoiata edisinteressata quando mi chiese come andava con Cole. Sapevo che non era ladecisione giusta. Eppure non riuscivo ad andarmene. Non ancora.

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Cole ogni mattina passava qualche ora a insegnarmi a surfare con le onde piùcalme, e io insistevo perché mi portasse dove faceva surf di solito, perché anchelui potesse divertirsi un po’. Il terzo giorno, riuscii a mettermi in piedi emantenere l’equilibrio per… non molto.Il pomeriggio tornavamo al puzzle, leggevamo oppure io andavo a correre. Poi,

ogni sera, mi stendevo accanto a lui sopra la coperta. Prima che chiudesse gliocchi, mi appoggiava la mano sul fianco, sopra il tatuaggio, come se potessetenere le mie parole in mano. Ogni tanto, percorreva con le dita i bordi deldisegno, marchiandomi con la scarica elettrica del suo tocco. Le scintille chesuscitava facevano baluginare delle luci nell’oscurità. Facevo tutto il possibile perrestare aggrappata al formicolio quando toglieva la mano.Quando era ormai profondamente addormentato, tornavo nella mia stanza. Non

mi ero più svegliata accanto a lui dopo quella prima notte. Era il mio modo dievitare il senso di colpa. Peccato che non funzionasse. Me ne sarei dovutaandare.Cole non mi chiese il motivo di quel comportamento. E non provò più a baciarmi.«Sei stata molto brava oggi». Parcheggiammo nel vialetto dopo aver passato

quasi tutto il giorno in acqua. «Non essere così dura con te stessa; ci vuole moltoallenamento».«Capisco quanto debba essere impegnativo quando vedo te e gli altri ragazzi. E

vorrei già essere a quel punto».«Abbi pazienza», mi consigliò. «O non sai cos’è?»

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«Oh, quanto sei simpatico», dissi, facendolo ridere.«Emma!», chiamò Peyton, quando uscii dall’auto. Mi voltai e la vidi che si

avvicinava, con Tom un passo dietro. «Dove eravate? Siamo passati prima, manon c’eravate».«A fare surf».«Le stai insegnando a fare surf?», chiese Tom. Cole annuì, togliendo le tavole

dal tetto del SUV.Notai la pelle scura di Peyton. Era decisa a tornare abbronzata dalle vacanze,

nonostante il freddo.«Volevamo chiedervi se vi va di uscire stasera, visto che è l’ultima serata qui.

C’è una festa in una spiaggia privata vicino a casa mia».«Certo», scrollai le spalle.Tom guardò Cole, che annuì.Ci seguirono in casa.«Allora, avete fatto surf e… un puzzle», osservò Tom perplesso, sedendosi sulla

poltrona. «Sembra eccitante».«Vado a farmi una doccia», annunciai. Peyton mi seguì in camera.«Allora… mi sembra che andate molto d’accordo», cantilenò, con un sorriso

malizioso sul volto.«Non è come credi», sbuffai, togliendo i vestiti dalla borsa.«E allora cos’è?»«Andiamo d’accordo», risposi semplicemente.

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«Di sicuro», disse, gongolando. Alzai gli occhi al cielo ed entrai in bagno,chiudendo fuori Peyton e il suo sorriso fastidioso.La festa era affollata e rumorosa: uno shock per il mio sistema nervoso, dopo la

tranquillità di quella settimana. Dopo che avevo scontrato troppe volte altrepersone, Cole mi guardò e chiese: «Ti va di fare una passeggiata?»«Sì», risposi senza esitazione.Seguendo la spuma delle onde, ci allontanammo dalla musica alta e dal chiasso.

Eccoci qui. La nostra ultima sera. E nessuno di noi aveva il coraggio di parlarne.Il braccio di Cole sfiorò il mio, e rabbrividii. Avrei potuto giurare di aver visto una

scintilla. Lui si fermò di colpo, come se l’avesse sentita anche lui.«Ti vuoi sedere?», propose. Potei solo annuire.Una volta seduti lì tranquilli, permisi alle mie spalle di rilassarsi. Il silenzio ci

avvolse in un abbraccio confortevole.«Non senti mai il bisogno di salire in macchina e continuare a guidare?», chiesi,

concentrata sull’acqua che brillava alla luce della luna.«Come fai a sapere quando fermarti?», replicò Cole, sedendosi accanto a me in

modo che le nostre braccia si sfiorassero appena.«Magari quando trovi qualcosa per cui valga la pena fermarsi», risposi, fin troppo

consapevole del calore che turbinava sulla nostra pelle.«Chissà quanto ti allontaneresti prima di trovarla», rifletté Cole. Poi chiese:

«Perché fai davvero le cose sulla lista, visto che non ne hai una vera?».Sorrisi debolmente prima di prendere in seria considerazione la sua domanda.

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«Per sentirmi viva».«Tu sei la persona più viva che io abbia mai conosciuto», rispose piano. Alzai lo

sguardo e vidi che mi stava fissando intensamente.Il tremolio delle luci basse nei suoi occhi mi attrasse. La carica tra noi aumentò,

e il mio petto si gonfiò in un sospiro profondissimo.«Perché non mi hai più baciata?», sussurrai, desiderando che si avvicinasse di

più.«Ho paura di baciarti», confessò, con le parole che fluttuavano nell’aria calma.

«Ho paura che se ti bacio, non vorrò fermarmi. Sento che ti irrigidisci ogni voltache ci tocchiamo, e non voglio fare niente che ti faccia allontanare da me. Hopaura che quando torneremo a scuola, sarà tutto finito. So che stiamo evitando diparlarne. È lo stesso motivo per cui non abbiamo finito quel puzzle che avremmopotuto completare tre giorni fa. Perché poi sarà tutto finito. Tu sei pronta?».Provai a inspirare, ma non si mosse nulla. Non emisi alcun suono. Riuscivo solo a

guardarlo negli occhi, che mi supplicavano di dire qualcosa.«Che ci fate lì?», esclamò Peyton. Le birre che aveva bevuto avevano amplificato

la sua voce vivace. Cole e io praticamente sobbalzammo, prima di voltarci versodi lei. «Ooh, ho interrotto qualcosa?». Si portò le dita alla bocca come volesserimangiarsi quello che aveva detto. Troppo tardi.Tornammo a casa in silenzio la mattina dopo, con la tensione che aumentava a

ogni chilometro. La nostra settimana era finita. Ma non riuscivo ancora a dirlo.Sentivo che Cole ogni tanto mi guardava. Fare la cosa giusta sarebbe stato molto

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difficile.Quando arrivammo in città, le nubi minacciose si aprirono su di noi. Abbassai il

finestrino e tirai fuori il braccio per sentire il calore delle gocce primaverili sullapelle. Respirai l’odore dell’aria umida, assieme a quella dell’erba appena tagliatae dei fiori sbocciati.Quando Cole si fermò a un semaforo a meno di un chilometro da casa mia, aprii

lo sportello per camminare sotto la pioggia. “Non distruggerò anche la tua vita”.Con quel pensiero fisso in testa, attraversai la strada, senza guardarmi indietro.

La pioggia aumentò, inzuppandomi subito la maglietta. Mi tolsi le scarpe ecamminai nell’acqua che scorreva veloce, lasciando che il freddo si riversasse suimiei piedi, mi cadesse tra i capelli e mi scendesse dal mento.Ero a pochi isolati dalla casa quando sentii dei passi pesanti che sguazzavano

nell’acqua dietro di me. Mi voltai e vidi Cole a poca distanza da me, con l’affanno.Le mie labbra si incresparono leggermente alla vista della maglietta aderente allecurve del suo petto, con l’acqua che gli scuriva i capelli biondi. Si avvicinò, conuna domanda muta negli occhi.Guardai l’acqua scendergli dal naso e sulle sue bellissime labbra. Sapevo cosa

dovevo fare. Ma con lui così vicino, che mi guardava così intensamente, ciò chevolevo più di ogni altra cosa era permettere alle sue scintille di possedermi e diriempire l’abisso che mi aveva lasciato vuota per tutto quel tempo. Desideravo ilcalore del suo tocco. La frenesia del nostro contatto. Che me lo meritassi o no.Che fosse sbagliato o no. Non potevo più resistere.

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Mi feci più vicina, coprendo il rossore delle sue guance con le mani per sentirne ilcalore, e premetti le labbra con decisione sulle sue, finché non fece quasi male.Cole mi afferrò per la vita e mi tirò a sé, annullando lo spazio tra di noi. Miaggrappai al suo collo. Mentre le nostre bocche scivolarono l’una sull’altra, erosopraffatta dalla corrente elettrica che mi attraversava.Il desiderio si riversò tra le mie ombre, e lasciai che nulla vi si opponesse. Non la

voce che mi diceva che sbagliavo. Non il senso di colpa. Non l’avvertimento chemi rimbombava in testa. Scacciai via tutto e lasciai che il desiderio disperatoavesse la meglio.Senza fiato, feci un passo indietro e gli afferrai la mano, tirandolo verso di me

mentre percorrevo lo spazio che ci separava da casa.Mi fermai davanti alla porta e mi voltai verso di lui, baciandolo con così tanta

forza che tutto il mio corpo pulsava. La sua bocca cercava ancora la mia mentreaprivo la porta. Si chiuse la porta alle spalle, senza guardare, concentrato su dime, toccandomi. Mi tirai indietro per correre sulle scale, e Cole mi seguì.Prima ancora di aprire la porta della mia stanza, mi ero già sfilata la maglietta.

Cole si tolse la sua mentre chiudeva la porta, appoggiandocisi poi sopra. Io misfilai le scarpe mentre lui passava le labbra sul mio collo umido, stuzzicandolocon la lingua e provocandomi un gemito affannato. Mi fece scivolare una manosulla schiena per slacciarmi il reggiseno. I nostri corpi bagnati scivolarono insiemementre le nostre bocche si cercavano senza sosta, senza mai essere sazie.Cole si tolse le scarpe mentre io passavo la lingua sul suo collo. Le sue mani

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forti mi afferrarono il viso, e si chinò per baciarmi. Aprii la bocca e la sua linguascivolò dentro, stuzzicandomi le labbra. Le sue mani mi percorsero i fianchi finoalla vita e alla cintura dei jeans, mentre io abbassavo la cerniera. Cole me li sfilòdalle gambe, e io li scalciai via. Rimasi davanti a lui, nuda. Con un movimentorepentino, mi sollevò, e io avvolsi le gambe attorno a lui, con la schiena contro laporta e un gemito ansimante.Cole mi portò sul letto, stendendomi gentilmente sulla schiena. I suoi occhi

danzarono sul mio corpo, e mi morsi il labbro in attesa, mentre lui si frugava letasche prima di far cadere a terra i pantaloni. Tornò da me dopo aver apertol’involucro. Mi sollevò per i fianchi e premette le ginocchia contro il bordo delletto. Inspirai con decisione quando ci toccammo, afferrandogli la mano quando siabbassò su di me. Mi aggrappai ai muscoli tesi della sua schiena mentre simuoveva dentro me, esplorandomi in profondità. La scarica si intensificò, in pienopossesso dei miei sensi. Diventò tutto ciò che potevo provare, tutto ciò di cuiavevo bisogno, mentre mi attraversava ogni centimetro del corpo. Il vuoto fuspazzato via, e avrei dato qualsiasi cosa per non esserne divorata di nuovo.Tutto il mio corpo tremava mentre lui aumentava il ritmo. Le mie gambe si

irrigidirono, e gemetti di piacere. Non riuscivo a respirare se non con una frenesiaimplacabile, e con un solo sospiro mi sciolsi nel nulla. Lui si fermò con un gemitoa malapena udibile, tendendosi finché ogni centimetro del suo corpo non divennerigido e poi ripiegandosi su di me. Rimanemmo stesi nel nostro abbraccio senzafiato, ancora uniti. Cole sollevò la testa per guardarmi. Il rossore delle sue

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guance si era diffuso fino al collo. Lo sfiorai con la mano.«Allora… ti piace la pioggia?», chiese con un bagliore negli occhi.Risi, sorpresa che quelle fossero le sue prime parole da quando avevamo

lasciato Santa Barbara. «Sì, e a te?», chiesi, accarezzando con le labbra la suamascella, con il respiro ancora accelerato.«No», rispose con una risata. «Penso di amare la pioggia». Mi diede un bacio

dolcissimo prima di appoggiarmi la testa sul petto. «Non sono ancora pronto perla fine, Emma».«Em», strillò Peyton, interrompendo la mia risposta, «sei a casa?», sentii la

maniglia girare.Mi immobilizzai sotto Cole, e lui sollevò la testa allarmato.«Non provarci!», urlò Serena dal piano di sotto. Cole e io ci guardammo, in

attesa.«Che c’è?», rispose Peyton, sorpresa.«Non è da sola».

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«S

11Di cosa hai paura?

tai già pensando alla gita sul fiume di questo fine settimana?», chiese Saradallo schermo del mio computer, con il suo sorriso acceso e gli occhi che

brillavano di quell’eccitazione che io non avevo. «Non hai detto che dovevaessere una cosa grossa?»«Così mi hanno detto», risposi con un leggero cenno. «A quanto pare gli studenti

di Stanford e di altri college vanno in campeggio il fine settimana. È una cosaesclusiva, solo su invito. Non so come decidono chi invitare, ma sì, sarà… unacosa grossa».«Che c’è che non va?», chiese Sara, accorgendosi della mia paura. «Non avrai

mica paura della folla, vero? Pensavo che l’avessi superato. Aspetta… è perCole?». Le sue domande arrivavano una dopo l’altra, senza pause.

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«Non c’è niente che non va». Ma sentivo che la gola mi si stringeva solo a direquelle parole.«Non puoi mentirmi, Emma. Mi accorgo sempre quando menti, anche quando

pensi di cavartela. È per Cole, vero?».Distolsi lo sguardo dallo schermo, serrando le labbra.«Em, sono due mesi che le cose vanno a gonfie vele», continuò Sara in tono

rassicurante. «È giusto essere felici. È giusto andare avanti. Non devi…».Prima che potesse continuare a rassicurarmi, la interruppi dicendo: «Dobbiamo

dormire in tenda».Tornai a concentrarmi sullo schermo, riluttante. Sara era immobile e in silenzio.«Non posso dormire in tenda, Sara», proseguii, con il panico nella voce. «Quella

notte con…». Non potevo farlo. Non riuscivo nemmeno a pensarci. Era statal’ultima volta in cui ero stata davvero felice. «Io… non posso dormire in tenda conCole».«Lo so», lo sguardo di Sara era pieno di comprensione. «E allora non dormire in

tenda. Di’ a Cole che vuoi dormire in macchina. Potete abbassare i sediliposteriori e metterci un materasso gonfiabile. Funziona, io l’ho fatto». Un sorrisomalizioso le comparve sul viso a quel ricordo.«Sul serio, Sara? Non devo sapere per forza tutto della tua vita privata!».«Cosa? Non devi per forza finire nuda con Cole ogni volta che puoi!», replicò,

scherzosa.«Sapevo che non avrei mai dovuto raccontartelo».

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«Sai che è l’unico modo per farlo diventare vero», rispose, ricordandomi lapromessa che le avevo fatto al liceo: che nulla succedeva veramente se nonglielo raccontavo. Avrei voluto che fosse davvero così; una gran parte del miopassato sarebbe stata cancellata. «Mi piace. Che esci di nuovo con un ragazzo… efate sesso come conigli impazziti!».«Non usciamo», la corressi, «e non facciamo sempre… voglio dire, andiamo

anche a fare surf». Non riuscii a finire la frase, perché in effetti era in quel modoche Cole e io passavamo la maggior parte del tempo. Ci guardavamo in silenzio,facevamo surf, oppure facevamo sesso come “conigli impazziti”. Sospirai.«Come ti pare. Continui a negarlo, ma non c’è niente di male in quello che fate»,

disse Sara con enfasi. «Puoi andare avanti, Em. Lui mi piace. Dagli unapossibilità».Sentii tutto il corpo irrigidirsi, la fissai mentre spalancava la bocca, rendendosi

conto di ciò che aveva detto.«Mi dispiace tanto, non avrei dovuto dirlo».L’ultima volta che Sara mi aveva detto quelle esatte parole, eravamo sedute nel

suo vialetto, e lei mi stava convincendo a dare una possibilità a Evan.«Allora, venerdì prossimo sarai qui?», cercai di recuperare, ma il petto

continuava a farmi male.«Già», rispose Sara, guardandomi attentamente. «Lunedì torno in Connecticut

dai miei prima di venire in California per passare l’estate con te. Non vedo l’ora diarrivare!».

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Provai a sorridere, ma non ci riuscii. «Anch’io non vedo l’ora. Questo trimestrenon ho lezioni, quindi sono tutta tua».«Wow, è fantastico!», esclamò Sara, riprendendo il suo naturale tono entusiasta.«Ora devo andare», le dissi. «Devo preparare lo zaino».«Questo fine settimana ti farà bene, lo so. Chiamami quando torni».«Certo», risposi, sforzandomi di sorridere. «Ciao, Sara».«Ti voglio bene, Em!», proclamò Sara prima che lo schermo si spegnesse. Mi

misi a sedere e lo fissai per un istante prima di allontanarmi dalla scrivania.«Ma che ne dici di fermarti qui stanotte? Dovrebbe esserci bel tempo stanotte.

Possiamo dormire fuori».«Come in campeggio?»«Sarebbe fantastico. Penso di avere una tenda in garage. Possiamo dormire nel

giardino sul retro, o andare nei campi. Il cielo sarà incredibile da lì, lontano dalleluci. Che ne pensi?».«Emma! È arrivato Cole!», urlò Peyton.La sua voce mi distolse dai ricordi. Scrutai il cielo, concentrata sul compito di

riprendermi. Mi asciugai le lacrime e feci un respiro profondo.«Dove hai detto che è?», lo sentii chiedere. Prima che potessi muovermi, lui

stava salendo sul tetto. Alzai la testa per cercarlo.«Che stai facendo?», mi passai le dita all’angolo degli occhi, cercando di tenere

a bada le emozioni.«Uh, a parte cercare di non cadere e sfracellarmi?», Cole si sistemò accanto a

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me, con un leggero affanno. «Sono venuto a cercarti».«Stavo per scendere».«Be’, ora sono qui, fammi riprendere fiato». Accorgendosi dell’altezza, si fece

indietro e piegò le ginocchia per appoggiarci le braccia sopra, cercando disembrare a proprio agio, ma con la schiena rigida. «Perché sei venuta quassù?»,chiese. Poi notò la mia espressione divertita. «Oh, ti diverte il fatto che trovoorribile stare qui, vero?»«Sì», scherzai con una risatina. «Stenditi accanto a me».Cole si abbassò in modo che il suo corpo fosse in linea con il mio. I miei sensi si

intensificavano anche al suo minimo tocco. Alzò lo sguardo verso il cielo scuro conle mani dietro la testa.«È tranquillo», osservò dopo un attimo.«Esatto».«Quindi non è per l’altezza? È per il silenzio?»«Sì».Sfortunatamente non lo avevo trovato. Tremavo mentre cercavo di scacciare la

voce di Evan dai miei pensieri.Lasciammo che la quiete ci circondasse e penetrasse nella nostra pelle con il

fresco della brezza serale. Stare stesa accanto a Cole agitava i ricordi di quelloche mi aveva detto prima Sara. Che cavolo stavo facendo? Negli ultimi due mesimi ero proposta spesso di lasciarlo. Eppure, ogni volta che ci provavo, lesensazioni eccitanti che lui mi provocava mi costringevano ad arrendermi,

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lasciandomi debole e incapace di chiudere con lui.«Perché vuoi stare con me, Cole?», sussurrai, concentrandomi sulle luci

lampeggianti di un aeroplano in volo.«A parte il fatto che sono estremamente attratto da te?», scherzò. Gli diedi una

gomitata. «Ahi», disse, ridendo.«Dico davvero».«Lo so», si fece serio, poi continuò. «Allora vuoi sapere perché voglio starti

accanto, sapendo che potresti andartene da un giorno all’altro?»«Be’… sì», risposi, sorpresa dalla sua sincerità.«Immagino sia perché ogni giorno mi sveglio sperando che non sia il giorno in

cui deciderai di andartene», rispose. «Non sono una persona estremamenteemotiva. Non parlo dei miei sentimenti, e tu lo accetti. Non dobbiamo parlare perforza e siamo comunque a nostro agio. La maggior parte delle ragazze vuolesapere cosa penso, cosa sento, cosa voglio… di continuo. Tu no».«Ma io sono così incasinata», ribattei, sapendo bene quanta distruzione avrei

potuto causare.«Continui a dirlo. Io però non la vedo così. Sì, sei un po’ spericolata. Ogni tanto

fai cose estreme solo per il gusto di farlo. Non lo capisco, ma non fa niente. Non èche tu ti aspetti che lo faccia anch’io. Non so abbastanza di te o della tua vita perdire che sei tanto incasinata. E se mai me ne volessi parlare, ti ascolterei. Perché,anche se non parlo, so ascoltare. Quando sarai pronta, ti ascolterò. Ma mi piacestare con te. Ho risposto alla tua domanda?»

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«Comunque tu voglia chiamare questa cosa, io però non posso darti di più», loavvertii. «Noi non stiamo insieme. Noi…».«Passiamo del tempo insieme», concluse Cole, con leggerezza.Mi tirai sui gomiti e gli sorrisi. Gli occhi di Cole si spostarono sul mio viso.

Aggiunse con un sorriso subdolo: «E siccome sono molto attratto da te, a voltepossiamo passare del tempo insieme… nudi».Aprii la bocca fingendomi offesa, ma prima che potessi dire qualcosa, lui mi

spinse giù e mi tolse le parole con le sue labbra morbide. E, di colpo, mi arresi alui e i pensieri tormentosi sparirono.Mi spostai in modo da appoggiarmi al suo petto scolpito, e la sua bocca cominciò

a muoversi più in fretta. Strinsi la sua maglietta tra le mani, di nuovo sopraffattadall’eccitazione che mi scorreva nel corpo. Cole mi tirò su la testa e mi accarezzòil collo con le labbra, assaporando la mia pelle. Lasciai andare un gemito. Luicominciò a girarmi sulla schiena, ma poi improvvisamente si fermò.Quando aprii gli occhi, Cole aveva uno sguardo terrorizzato sul viso: si era

improvvisamente accorto di dove si trovava. Mi morsi il labbro per non ridere.«Siamo sul tetto», disse, più a se stesso che a me. Si accorse che stavo

cercando di non ridere. «Ti sarebbe piaciuto fare sesso qua sopra, vero? Siamo suun cazzo di tetto, Emma!».Scoppiai a ridere, non riuscivo più a trattenermi.«Andiamo», chiese con un sospiro esasperato, spostandosi verso le tegole della

finestra di Meg. Lo seguii, ridendo.

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Cole non mi fece domande quando gli chiesi di dormire in macchina invece chein tenda. Alla fine ci servì ad avere più privacy – privacy che sfruttammo la primanotte che arrivammo al campeggio.Il campeggio era pazzesco, proprio come mi aspettavo. C’era gente da tutti i

college, e Stanford era il più grande. Da quanto avevo capito, un gruppo di amicidella nostra università aveva iniziato a organizzare quella gita anni prima, e daallora ogni volta il numero dei partecipanti era cresciuto. Negli ultimi anni eradiventato a numero chiuso per mantenere l’esclusività, ma adesso c’eranopartecipanti dalla University of Southern California, dalla University of Californa diLos Angeles e da Berkeley, che mostravano con orgoglio i loro college diprovenienza con giacche e felpe, striscioni appesi tra gli alberi e persino sedie etende che richiamavano i colori delle loro università.La mattina dopo sbirciai dal finestrino del SUV e osservai i visi intontiti che si

dirigevano verso il bagno con i capelli arruffati e gli occhi socchiusi e gonfi. Coledormiva ancora, e io mi tirai il sacco a pelo fino sul naso e mi raggomitolai sulcuscino, osservando gli alberi attorno a noi.Sei bellissima.Mi si strinse il cuore quando arrivò quel ricordo. Chiusi gli occhi per mettere a

tacere la sua voce. Per scacciare la sensazione delle sue dita che miaccarezzavano la guancia e l’intensità dei suoi occhi azzurri che fissavano i miei.Ti amo.Mi tremò il labbro.

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«Che succede?», si lamentò Cole dietro di me, con la voce ancora assonnata. Miimmobilizzai, maledicendomi per aver permesso che quelle parole mi uscissero dibocca.Cole si girò sul fianco e mi mise un braccio attorno alla vita, tirandomi a sé, con

il suo volto tra i miei capelli. «Buongiorno», mormorò. Rilassai i muscoli sentendoil calore della sua pelle che mi accarezzava, il suo tocco era una panacea.«Buongiorno», risposi, avvicinandomi per sentire sulla schiena la sicurezza del

suo corpo.Cole mi passò una mano sul fianco, tirandomi giù i pantaloni della tuta. Io me li

tolsi, con il respiro accelerato. Appoggiai la schiena su di lui, con il suo respirocaldo nel mio orecchio. Lui si mosse dentro me, facendomi ansimare di piacere.Stare così vicina a lui riempiva il vuoto che mi aveva corroso negli ultimi due

anni. Avevo bisogno di lui. Avevo bisogno di lui in un modo che probabilmentenon era salutare per nessuno dei due. Era la mia cura. Anche se non avrebbe maipotuto curarmi davvero.La sua stretta sui miei fianchi si fece più forte. Contraendo i muscoli, Cole si

spinse più a fondo con un sospiro deciso. Il mio polso accelerato faceva il paiocon il mio respiro e con i gemiti che mi sfuggivano. Gli afferrai la mano e miirrigidii attorno a lui. Tremavo tutta. Mi tenne stretta a sé, prendendomi la mano,e la tensione nei suoi muscoli si liberò lentamente. Sentivo il suo cuore batterecontro la mia schiena.«È davvero un buon giorno», disse alla fine. Io feci una risatina.

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Uscimmo dal SUV qualche minuto dopo, salutati dall’aria fresca e… da lattine dibirra disseminate a terra. I resti del falò della notte prima mulinavano ancoranella fredda brezza mattutina.Dopo essere ritornati dai bagni, pronti per la giornata, ci incontrammo con

Peyton, Tom, Meg e il ragazzo con cui usciva, Luke. «Voi due avete dormito fino atardi», notò Meg. Poi mi lanciò un sorriso d’intesa quando notò il rossore sul collodi Cole. Diventai rossa e distolsi lo sguardo, sapendo che aveva già sentito fintroppo dalla parete che dividevamo a casa.«Pronti?», chiese vivacemente Peyton mentre Tom versava del ghiaccio in un

frigobar pieno di birre. «La navetta ci verrà a prendere tra dieci minuti».Cole sistemò lo zaino con gli asciugamani da spiaggia e le altre cose essenziali

per il nostro giro in canoa. «Tutto pronto», rispose per entrambi. Poi lui mi presela mano e io mi irrigidii. Me la lasciò all’istante, e cominciò a camminare davantia me senza nessun’altra reazione.Feci una smorfia piena di senso di colpa. Non ci scambiavamo effusioni in

pubblico. Non ci tenevamo per mano, o… altre cose da coppia. Non stavamoinsieme, come ricordavo di continuo a tutti. Quella era stata la prima volta cheavevamo passato la notte insieme dopo Santa Barbara… e c’era un motivo. E ora,avevo paura che le cose potessero diventare complicate, anche dopo la nostrachiacchierata sul tetto.Accelerai il passo e lo raggiunsi, standogli abbastanza vicino da sfiorargli il

braccio.

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«Vuoi che guido io?», chiesi, scherzando.«Come no, così finiamo sugli scogli», rispose Cole, facendo un sorriso. «Guido io.

Tu stai seduta davanti a me e… non so. Ecco, cerca di non cadere».«Simpatico», scherzai. «Cadrò solo se tu ci farai rovesciare».Cole rise e mi diede un buffetto leggero. Sorrisi, contenta di aver scacciato

l’imbarazzo.Mezz’ora dopo, stavamo scivolando lungo il fiume. Gli schizzi, le urla, le risate e

la musica a palla di alcune canoe contrastavano con la bellezza della natura checi circondava. Sollevai la testa verso il sole per assorbirne il calore, sentendomi inpace, nonostante tutte quelle distrazioni attorno. Mi spaventai quando sentidell’acqua schizzarmi sul viso. Aprii gli occhi e scoprii che eravamo nel bel mezzodi una guerra d’acqua tra due canoe.«Vuoi una birra?», propose Cole, aprendo il coperchio del frigobar appoggiato sul

fondo della nostra canoa.«Continua a non piacermi la birra», gli dissi. «Avrei dovuto portare qualcos’altro,

immagino. Va bene acqua, o soda». Tirò fuori una bottiglia d’acqua e me laporse.La temperatura cominciava a salire e io mi tolsi la T-shirt, mostrando un

colorato bikini a quadretti. Sentii Cole strozzarsi con la birra.«Che c’è?», chiesi, girandomi per guardarlo, per paura che avesse visto i segni

delle cicatrici sulla mia schiena. Sapevo che erano impercettibili, simili a graffidello stesso colore della pelle, ma ero fin troppo consapevole di avercele.

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«Io, uh…», balbettò. «Non mi ricordavo quel costume». Le sue guancediventarono rosse mentre sollevava le labbra in un sorriso.Scoppiai a ridere. «Mi sembra di capire che ti piace».«Sì», confermò. «In questo momento vorrei essere di nuovo nel SUV».Prima che potessi rispondere, Tom urlò: «Cole! Andiamo a mangiare in quel

posticino che abbiamo trovato l’anno scorso».«Certo», rispose Cole, seguendo la canoa di Peyton e Tom. Meg e Luke ci

vennero dietro.Navigammo sotto un arco di rami e affrontammo una stretta curva seminascosta

tra gli alberi. La canoa attraversò diverse altre curve tortuose prima che l’acqua siaprisse in una grande pozza circondata da dirupi frastagliati di scogli colorruggine. Era come se fossimo entrati in una caverna senza il tetto. L’acquacristallina circondata da pareti rocciose era piena di persone che remavano eguadavano da una parte all’altra, mentre altri erano seduti su lastroni rotti lungouna spiaggia improvvisata, a bere e a mangiare.Uscimmo dalla canoa nell’acqua fredda, che mi fece venire la pelle d’oca. Un urlo

tagliò l’aria. Mi voltai di colpo proprio quando un corpo si tuffò in acqua congrandi schizzi, facendo strillare le ragazze attorno. Alzai lo sguardo in cima all’altaroccia, dove una fila di persone aspettava il proprio turno. Il battito del mio cuoreaccelerò al solo pensiero di saltare.«Vieni?», mi disse Cole.Distolsi lo sguardo dalla scogliera. «Eh? Sì, arrivo», Cole continuò a guadare

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nell’acqua trasportando il frigobar. Guardai di nuovo verso la roccia, e una scaricami martellò sotto la pelle.Cos’è che ti tiene sveglia la notte? Qual è la causa di tutti i tuoi incubi? Di cosa

hai paura?Sentivo la voce di Jonathan come se fosse accanto a me. Serrai la mano a pugno

per tenerlo lontano mentre continuavo a fissare la scogliera.«Emma!», urlò Peyton. Voltai la testa di scatto. Lei e Meg erano in piedi su uno

scoglio inclinato e mi chiamavano. «Che ci fai lì? Vieni a mangiare!».Andai verso di loro e scalai un pezzo di roccia. I ragazzi stavano aprendo le

lattine di birra mentre Meg distribuiva i sandwich. Peyton cercava nel suo iPhonedella musica da sentire con i suoi altoparlanti portatili.Iniziammo a parlare di com’era stato il giro fino a quel momento e di tutte le

cose incredibili che avevamo visto lungo la strada. Il ronzio delle voci sfumavamentre la mia attenzione tornava sulla scogliera.Salta, Emma.Il mio cuore mancò un battito.Emma, o salti tu, o ti spingo giù io.«Torno subito», mormorai. Non mi interessava se mi avessero sentito o no. Salii

sui lastroni rotti di roccia verso il sentiero che conduceva alla scogliera. Mentre miavvicinavo alle urla e alle risate, notai che il sentiero proseguiva dietro una curva.Da lì non vedevo dove terminava, ma decisi di seguirlo.La roccia scricchiolava sotto i miei piedi, facendomi vacillare diverse volte, finché

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non svelò una sottile estremità a strapiombo sull’acqua. Mi avvicinai con cautelae fui sopraffatta da un’ondata di torpore quando guardai giù. Sotto di me c’erasolo l’acqua blu e fredda.La superficie sembrava liscia, come vetro, e rifletteva la luce del sole. Le mie

pulsazioni accelerate mi facevano tremare le mani mentre avanzavo lentamente,raccogliendo il coraggio per fare quel passo devastante.Emma, di cosa hai paura?

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A

12Oltre il bordo

vevo paura che, se mi fossi girata, avrei trovato lì Jonathan, in attesa di unarisposta. Chiusi gli occhi e respirai profondamente, placando il mio battito

cardiaco. Quando li riaprii, il fremito era passato e la vertigine sparita. Osservai laparete di pietra ramata che avevo di fronte.Allungai di nuovo il collo oltre il bordo. «Di cosa hai paura, Emma?», chiesi in un

sussurro, ripetendo le parole che Jonathan mi aveva detto quel giorno, sulprecipizio.Di niente.Sapevo… di non aver paura. Ero stata svuotata e scorticata, su quella scogliera

c’era solo l’involucro di quella che ero un tempo. Ci sarebbe stato qualcosa datemere se avessi avuto qualcosa da perdere. E non avevo niente.

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Nella mia mente c’era un silenzio assoluto. Fissai l’acqua che mi invitava a fareun ultimo passo oltre il bordo.«Emma?». La voce di Cole ruppe il silenzio. Pezzi di roccia franavano lungo il

sentiero mentre si avvicinava. Sapevo di avere poco tempo. Diedi un’occhiataindietro quando apparve Cole. Spalancò gli occhi, scioccato. «Emma, che staifacendo?». Mi voltai. Tutto si fece confuso davanti a me mentre le lacrime miriempivano gli occhi.«Emma, che cazzo stai facendo?!», chiese Cole di nuovo, terrorizzato, dietro di

me. «Non puoi saltare! Ti ucciderai da questa altezza».Non mi voltai. Feci quell’ultimo passo e sparii oltre il bordo. Immediatamente

inghiottita dal vento, precipitai verso l’acqua. Sentii il mio corpo riempirsi diadrenalina. Mi si aprì lo stomaco quando la folata d’aria mi abbracciò stretta,togliendomi il respiro. In quei pochi secondi, non mi importava più di nulla. DiJonathan. Di Evan. Di Cole. Neanche di me. Era tutto perduto e mi stavoarrendendo alla calma che mi aveva conquistato.L’istante di pace terminò di colpo quando i miei piedi picchiarono contro l’acqua.

Sentii le viscere rimbalzare violentemente nell’impatto. La velocità della cadutami spinse giù finché non sbattei contro le rocce sul fondo. Un orribile fitta didolore si diffuse nella mia gamba quando colpii la superficie implacabile.Trattenni un urlo.Scalciando via le rocce, mi spinsi verso la luce. I polmoni mi bruciavano in cerca

di aria mentre lottavo con tutte le mie forze per tornare in superficie.

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Un invitante sussurro mi suggerì di fermarmi. Di smettere di lottare. Di smetteredi provare. Di…Ansimai e tossii quando riemersi in superficie. Mi ci volle un istante per

orientarmi mentre riprendevo fiato.Guardai in cima allo scoglio frastagliato dal quale avevo appena sfidato la

morte. Cole si stava sporgendo oltre il bordo, ma da quella distanza non vedevola sua espressione.Era come se la pelle sbucciata sotto il ginocchio strillasse mentre camminavo in

acqua, distogliendo l’attenzione dal viso di Cole. Avevo paura di scoprirequant’era grave la ferita.Quando alzai lo sguardo, Cole era sparito.Sentivo le risate e le urla dall’altra parte della scogliera. Digrignai i denti mentre

scalciavo verso le barche, arrivando in vista degli altri nuotatori. Meg e Peytonerano ancora sullo scoglio, a godersi il sole. Quando mi avvicinai alla canoa,sentii Cole tuffarsi in acqua per raggiungermi.«Porca puttana, Emma! Non posso credere che ti sei tuffata davvero. Stai

bene?», chiese, con l’acqua che gli schizzava attorno. Gli bastò guardarmi. «Ti seifatta male. Dove?»«Mi sono sbucciata la gamba», mormorai, evitandolo, e aggrappandomi al bordo

della canoa. «Sto bene. Possiamo tornare al campeggio?».Cole non mi rispose subito. «Sì», disse alla fine. Voltandosi verso la spiaggia,

urlò: «Noi ce ne andiamo. Ci vediamo al campeggio».

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Meg aggrottò la fronte, sorpresa. Prima che potesse dire qualcosa, Peytonrispose: «Ok. Ci vediamo lì».Io mi sistemai con cautela nella canoa. Tutto il corpo cominciava a farmi male

per l’impatto. Mi avvolsi la gamba in un asciugamano prima che Cole potessevedere il taglio sotto il ginocchio, ma non potevo impedire al sangue di colare sulfondo della barca mentre lui remava per uscire dall’insenatura.«Fammi vedere, Emma», chiese in tono fermo. «Fammi vedere quanto è grave».Dopo un attimo di esitazione, mi voltai lentamente verso di lui e aprii

l’asciugamano.Lui trattenne il respiro. «Merda. È un taglio piuttosto profondo».Io mi rimisi subito l’asciugamano attorno alla gamba, serrando i denti per il

bruciore acuto.Cole non disse niente mentre remavamo oltre le canoe piene di studenti ubriachi

e urlanti. Quando finalmente arrivammo all’approdo, la gamba mi pulsava, el’asciugamano era imbevuto di sangue. Cole mi aiutò a uscire dalla canoa, ezoppicai sugli scogli verso il furgone, dove mi sollevò per farmi salire.«C’è una stazione di primo soccorso al campeggio», disse l’autista, vedendo

l’asciugamano insanguinato. «Posso portarvi lì, se volete».«Grazie», rispose Cole al posto mio. Rimanemmo in un silenzio teso finché non

tornammo al campo di Stanford, con la mia gamba ripulita, fasciata e moltodolorante.«Emma», disse Cole, con uno strano tono emozionato che mi fece sollevare la

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testa. «Lo sai quanto è stato folle quello che hai fatto?! Avresti potuto farti maledavvero, persino morire. Non posso credere…». Si passò le mani tra i capelli eindietreggiò. Scosse la testa, arrabbiato e incredulo. «Non ti capisco».Rimasi in silenzio.Cole serrò la mascella, passandosi di nuovo le mani tra i capelli. «Devo

schiarirmi le idee». Si allontanò e si incamminò per il sentiero di ghiaia.Rimasi a osservarlo mentre sentivo delle risate provenire da un furgone appena

arrivato. Meritava una spiegazione. Ma io non ne avevo una che potessesoddisfarlo. O una che io stessa potessi capire.Chiusi gli occhi e affondai nella sedia pieghevole.Da qualche parte alle mie spalle un paio di ragazzi stavano parlando con quel

tono fastidiosamente alto tipico degli studenti del college ubriachi. «Ehi, amico,grazie per avermi invitato l’altra sera. Quella festa è stata pazzesca!».«C’eri anche tu alla festa di Reeves lo scorso fine settimana?», chiese un

secondo ragazzo.«Da Jonathan?». Spalancai gli occhi. «Sì, è stata la festa più bella a cui sia mai

stato. In cosa si è laureato?».«Architettura, credo. Faceva la specializzazione, però». Il cuore prese a battermi

forte nel petto.Mi voltai per vedere chi stava parlando. Diversi ragazzi erano seduti a dei tavoli

da picnic, a divorare hamburger.«Comunque sia, deve aver trovato un lavoro pazzesco a New York o qualcosa

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del genere, perché quella festa deve essergli costata un sacco», intervenne ilragazzo con la T-shirt grigia.Mi chinai appoggiando i gomiti sulle ginocchia, cercando di calmare il mio battito

frenetico. Non era possibile che fosse lui. Ma quando mi voltai e vidi il cappellinodella USC, capii…Non aspettarmi. Non voglio che tu ci sia per me, mai più. Stai lontano dalla mia

vita.Le mie parole velenose mi rivoltarono lo stomaco. Non avevo più pensato a lui

da quella sera in cui l’avevo allontanato dalla mia vita. Fino a oggi. Ora, solo asentire il suo nome, tutti i pensieri che lo riguardavano e che avevo scacciatotornarono subito.Ci confidiamo segreti che nessun altro sa.Mi coprii il viso con le mani che tremavano. Avevo nascosto i suoi segreti come

se fossero miei, nonostante il peso sulla coscienza. Non avevo mai detto anessuno ciò che mi aveva confessato quella notte. E avevo provato adimenticarlo, a dimenticare l’orrore che aveva inflitto a così tante vite. Ma eraimpossibile.«Quando ha detto che se ne andrà?».Mi fermai, in ascolto.«Non lo so – oggi o domani, credo».«Torna a New York?»«Sì, immagino sia di lì o qualcosa del genere».

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Cedendo all’impulso, mi alzai e mi avvicinai al tavolo.«Ehi», dissi dal fondo del tavolo. «State parlando di Jonathan Reeves?».Il ragazzo con la T-shirt grigia fece un mezzo sorriso e disse: «Sì. Lo conosci?»«Già», risposi. «Non ce l’ho fatta a venire alla festa lo scorso fine settimana.

Però volevo salutarlo prima che partisse. Solo che non trovo l’e-mail che hamandato. Ce l’avete ancora?».Il ragazzo con il cappellino tirò fuori il cellulare. «Sì, ce l’ho qui. Vuoi che te la

inoltri?»«Sarebbe fantastico», sorrisi debolmente. Lui mi passò il telefono, io scrissi il

mio indirizzo e la mandai. «Grazie».«Posso scriverti qualche volta?», chiese lui facendomi l’occhiolino. Io rabbrividii.«Uh, non sono qui da sola», mi scusai, scrollando le spalle, e indietreggiai

velocemente. «Grazie per l’informazione».Attraversai il campeggio di Stanford e mi sedetti su una sedia al lato opposto,

lontana dai ragazzi. Tirai fuori il cellulare e controllai la mia casella di posta,aprendo l’invito inoltrato.Annunciava una festa di laurea e una partenza. Era un’e-mail piuttosto stringata

– data, ora e luogo… e un numero di telefono. Fissai il numero che era apparsosullo schermo.Il mondo mi stava crollando addosso ogni giorno da quando quella scatola era

stata aperta cinque mesi prima. Non c’era nessuno che capisse cosa volesse direessere consumati da un’oscurità che non avevo la forza di combattere. Nessuno

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sarebbe stato in grado di comprendere la sensazione schiacciante di disperazioneche stava lentamente sbrogliando i fili della mia anima. Nessuno tranneJonathan. Era il solo che avesse mai capito. Per questo non avevo detto anessuno ciò che aveva fatto, perché io capivo. Entrambi avevamo fatto coseterribili nella nostra vita, e saremmo stati sempre legati dalla nostra distruzione.Sento di poterti dire cose… cose che di solito tengo per me. La maggior parte

delle persone non capisce.Inspirai mentre la sua voce mi riecheggiava nella testa. Mi si spezzò il cuore al

pensiero di come avevo tradito quella fiducia. Avevo preso le sue paure e le sueinsicurezze e con esse lo avevo squartato. Sapevo perché non mi aveva maicercata nonostante vivessimo entrambi in California. Avevo fatto in modo chefosse così.Nessuno potrebbe mai amarti.Rabbrividii dal disgusto a risentire la mia voce. Avevo scelto io quella

desolazione quando avevo tradito entrambi quella sera. Ora avevo la possibilitàdi rimettere le cose a posto. E se non mi avesse perdonato Jonathan, allora nonl’avrebbe fatto nessuno.Fissai il telefono che avevo in mano, riflettendo. Ogni volta che trovavo il

coraggio di comporre il numero, vedevo il suo volto, lacero e sconfitto, e mibloccavo. Probabilmente mi odiava per quello che gli avevo detto. Ma se c’eraanche solo una possibilità che non fosse così, dovevo scoprirlo.Ciao. Sono Emma. Mi chiedevo come stai.Schiacciai il pulsante di invio, e sentii che stavo per vomitare. Dopo qualche

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minuto in cui avevo respirato a malapena, il mio telefono vibrò.Emma? Wow. Non pensavo che ti avrei mai risentita.Sospirai. La vista di quella risposta mi fece rilassare le spalle.Non posso dire che sia stato facile scriverti. Ma ti pensavo.Mi morsi il labbro in attesa.Io ti penso di continuo. Avrei voluto cercarti, ma non l’ho fatto. Pensavo che non volessi più vedermi.Venni scossa da un brivido. Prima che potessi rispondere, arrivò un altro

messaggio.In questi anni sono successe molte cose. Ho avuto tempo per pensare. Prendere delle decisioni.Quando vidi che non continuava a scrivere, chiesi:Che tipo di decisioni?Devo sistemare le cose. Sentirti ora significa molto per me. Vorrei sentire la tua voce, ma non posso parlare

adesso.Scrissi:Perché non puoi parlare?Ero tentata di chiamarlo. Il battito del mio cuore accelerò al solo pensiero di

sentire la sua voce.Sto per partire. Ma sappi che mi dispiace. Non avrei mai voluto ferirti.Il tono irrevocabile delle sue parole mi fece sussultare.Dove vai?All’improvviso ebbi paura che quel viaggio a New York fosse più di

un’opportunità di lavoro.A sistemare tutto. Lo devo alla mia famiglia. È ora di farlo. Basta distruggere la vita delle persone.Fissai il display, allarmata. Avrebbe fatto qualcosa che poteva rovinare la sua

vita… e la mia?Schiacciai il pulsante “Chiama” e cercai di controllare i miei respiri frenetici

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aspettando che rispondesse. Dopo diversi squilli, scattò la segreteria.Ti prego, parlami. Che vuoi fare?Scrissi velocemente, con le dita che annaspavano tra le lettere.Mi spiace, Emma. È troppo tardi. Devo andare. Ti prego, perdonami.Chiamai di nuovo, e stavolta la segreteria scattò subito.Jonathan. Che vuoi fare?Non riuscivo a stare ferma. Cominciai a camminare, aspettando la sua risposta.

Il mio stomaco si ripiegò su se stesso mentre fissavo lo schermo vuoto. Nonrispose più.Andai verso il SUV, dove trovai Cole che frugava nel suo zaino sul retro. Era

ancora arrabbiato con me, e non alzò nemmeno lo sguardo quando mi avvicinai.«Devo andarmene», gli dissi. «Devo andare, e ho bisogno della tua macchina.

Per favore». Non cercai neppure di nascondere il panico nella mia voce.«Che succede?», domandò Cole, osservando il mio viso sconvolto.Abbassai lo sguardo ed esitai un istante. «Ti restituirò la macchina, promesso.

Devo fare una cosa, ed è importante. Io… ti prego, fidati di me, Cole».Rimase fermo di fronte a me, a studiare la mia espressione mentre io ribollivo,

incapace di nascondere la mia agitazione. «Prendila». Si tolse le chiavi dalla tascae me le mise in mano. Aprii la bocca per ringraziarlo, ma lui si girò, chiuse il suozaino e sbatté il portellone posteriore.«Grazie», sussurrai, sapendo che non mi aveva sentito.Salii sul sedile del guidatore e me ne andai, stringendo il forte volante per

impedire alle mie mani di tremare. Guardai nello specchietto retrovisore e vidi

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che Cole mi stava fissando, con le mani incrociate dietro la testa. Dovettidistogliere lo sguardo mentre il senso di colpa si diffondeva come veleno nel miostomaco.Accelerai attraverso il campeggio, lasciando una nuvola di polvere dietro di me,

determinata a trovare Jonathan.

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«E

13Troppo tardi

mma, dove cavolo sei? Meg mi ha chiamato e mi ha detto che ieri te ne seiandata, ma nessuno sa dove sei. Sto per prendere un aereo e mi stai

facendo spaventare a morte. Sarà meglio che mi lasci un messaggio prima cheatterro o non so cosa farò».Solo il pensiero di cosa avrei dovuto dire a Sara mi faceva male. Perciò la

chiamai e dissi: «Sto bene. Sono a casa. Fai un buon viaggio e chiamami quandopuoi». Semplice. Minimale. Ma senza dire la verità.Quando scesi dal SUV e mi incamminai verso casa, mi sentivo come se mi

avessero riempita di cemento. Ero rimasta sveglia tutta la notte ed ero troppostanca per prendere le mie borse dal bagagliaio. Quando mi avvicinai, trovai Colead aspettarmi sui gradini dell’ingresso. Evidentemente aveva ricevuto il

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messaggio in cui gli dicevo che poteva riprendersi il SUV a qualsiasi ora dopo leundici. Mantenni lo sguardo sul marciapiede, non volevo affrontarlo prima deldovuto.In piedi di fronte ai gradini, sollevai leggermente la testa. Aveva un’espressione

calma e impassibile. I suoi occhi azzurri esaminarono il mio viso gonfio.«Ti devo un pieno», dissi, con voce piatta, porgendogli le chiavi e lasciandole

cadere nella sua mano tesa.«Dove sei andata?», chiese, con voce calma.«A cercare di sistemare le cose con un amico», risposi, concentrata sulla vernice

sbiadita sul fondo della scala.«Hai sistemato le cose?»«No», sussurrai, sentendo il gusto amaro del fallimento in fondo alla gola. «Sono

arrivata troppo tardi». Mi tremò il labbro, e chiusi gli occhi per fermare le lacrime.Ma le sentii scorrere comunque lungo le guance. Avrei potuto dare la colpa allamia vulnerabilità emotiva, ma non era vero. Ero ferita, molto di più di quantorivelassero le lacrime che mi scorrevano sul viso.«Mi dispiace», disse Cole con sincerità. Si alzò dal gradino e mi venne incontro,

abbracciandomi.Riuscii solo ad annuire, non volevo aprire la bocca per paura che avrei lasciato

uscire tutto ciò che vi era rimasto nascosto. Il mio tentativo fallito di ritrovareJonathan, di fermarlo e di sistemare le cose prima che sparisse mi distruggeva.Non aveva risposto neanche a uno dei messaggi che gli avevo lasciato,

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pregandolo di chiamarmi.L’ultimo messaggio, che avevo lasciato alle cinque di quella mattina, prima di

tornare a casa, continuava a risuonarmi in testa.«Sono sempre io. Questo è il mio ultimo messaggio. Ho passato la notte a

guidare, e a pensare a ciò che è successo quella sera. E vorrei rimangiarmi ogniparola che ti ho detto. Perché mi sbagliavo. Vorrei potertelo dire di persona, manon so dove sei. Ti prego, non te ne andare. Chiamami».Jonathan era sparito. Fissare la finestra del suo appartamento abbandonato,

vedere che era stato completamente svuotato, mi aveva sconvolto più di quantopensassi. Volevo vederlo. Mi mancava.Mi mancava parlare con lui, mi mancava il modo in cui mi faceva ridere quando

ne avevo più bisogno. Mi mancavano le nottate passate insieme, quando nessunodei due riusciva a dormire e ci prendevamo gioco delle televendite la mattinapresto. Più di tutto volevo sentire un’ultima volta la sua voce all’altro capo deltelefono, quando aspettava che lo chiamassi… non importava a che ora o perquale motivo. Ora non mi aspettava più.Avevo sbagliato. Avevo sbagliato tutto. Più guidavo, più un aspro senso di colpa

mi travolgeva. Eppure ero arrivata troppo tardi. Capivo sempre la verità troppotardi.Cole mi accarezzò i capelli mentre le lacrime continuavano a scorrermi sulle

guance, bagnandogli la maglietta.«Mi dispiace di essere andata via così, ieri». La mia voce era soffocata sul suo

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petto. «Ero nel panico, e non sapevo come spiegartelo…».«Non importa», mi sussurrò nell’orecchio. «A me dispiace essermi arrabbiato così

tanto. È solo che… non voglio che ti succeda niente. E mi hai spaventato quandoti sei tuffata. Non ci hai pensato nemmeno due volte, sei… sparita».Alzai la testa e lo guardai. I suoi occhi erano carichi di preoccupazione. Passai la

mano sulla barba corta e ruvida della sua mascella.Cole mi asciugò le lacrime dalla guancia con il pollice. «Non mi piace vederti così

triste».Le sue parole mi sconvolsero il cuore. Poi posò la bocca sulla mia e mi baciò

piano, mentre il tocco delle sue labbra accendeva l’energia tra noi.Gli afferrai la nuca e premetti le labbra contro le sue così forte da fargli quasi

male. Avevo bisogno di sentirlo, assaporarlo, volevo che le sue mani mitoccassero per scacciare il dolore – anche solo per un attimo.Cole mi strinse a sé, rispondendo alla mia supplica silenziosa con un pesante

gemito di desiderio, afferrandomi così forte che potevo sentire il battito del suocuore. Mi strinse la mano e mi portò in casa e su per le scale senza fermarsi.Chiuse la porta e fece scattare la serratura; poi si girò verso di me e mi passò ledita tra i capelli, vincendomi con un bacio che mi fece sussultare tutto il corpo.I muscoli della sua schiena si irrigidirono quando feci scivolare le mani sotto la

sua maglietta, affondando le dita nella carne. Lui si tolse la maglietta e continuòa baciarmi – la bocca, il collo, la spalla dopo avermi sfilato la maglietta – come secon i baci potesse allontanare il dolore, e guarirmi. Sapevo che anche se mi

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avesse baciato ogni secondo per il resto della mia vita, non avrebbe potutocurarmi. Ma non volevo che si fermasse.Lo divorai come se fosse una droga, con il disperato desiderio di scacciare la

tristezza. Il suo sapore, il profumo fresco della sua pelle, il calore del suo corpocontro il mio, nutrivano il mio desiderio e per quell’istante riempivano il vuoto.Ci stendemmo a pancia in giù sotto le coperte, con il viso schiacciato sui cuscini,

guardandoci. Mi sporsi e lo baciai sulla guancia.«Perché mi sopporti?», chiesi, con un sussurro.«Forse perché sono masochista», rispose scherzoso.Io risi.«Mi piace farti ridere». Le sue labbra formarono quell’adorabile sorriso sbilenco.

«Non è facile, ma vale la pena provare. E poi mi piace spogliarti». Si avvicinò perbaciarmi, passandomi una mano calda sulla schiena. «Non mi è piaciuto quelloche è successo in questi due giorni. Ho pensato davvero… che avessimo chiuso».Si fece indietro in modo da guardarmi negli occhi. «È questo che vuoi? Che lecose tra di noi finiscano?».Scossi la testa, piano. Non era la risposta che avrei dovuto dargli, ma era la

verità. «Ma non posso lasciarti avvicinare a me, e non è giusto».«Lascialo decidere a me».Lasciai andare un sospiro rassegnato. «Promettimi una cosa».«Cosa?»«Che te ne andrai, che quando sarà troppo mi lascerai. Prima che io ti faccia del

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male. Non voglio farti male, ma non sono abbastanza forte da rinunciare a te».«Non ti permetterò di farmi male, Emma. Lo giuro». Mi tenne prigioniera nella

profondità dei suoi occhi azzurri, prima di chinarsi e baciarmi. Poi appoggiò latesta sul cuscino. Lo guardai chiudere gli occhi e alla fine cedere al sonno.Mentre guardavo Cole accanto a me mi accorsi che i miei pensieri viravano verso

Jonathan.Nessuno potrebbe mai amarti.Chiusi gli occhi di fronte all’odio che era sprizzato dalla mia bocca. Non mi

avrebbe richiamata, e non potevo biasimarlo.Il mio tentativo di redenzione era inutile. Le parole non potevano essere

cancellate, e il danno che avevano fatto era irreparabile. Lo sapevo meglio ditutti.Eppure c’era qualcos’altro che mi impediva di addormentarmi. Jonathan aveva in

mente di fare qualcosa di drastico – dovevo trovarlo. Dovevo andare a New York.Se lui era lì, allora era lì che dovevo essere anch’io.Fui risvegliata dalla vibrazione del cellulare. Sollevai la testa pesante, e sbirciai

l’orologio. Erano le quattro del mattino. Stavo per tornare tra le braccia protettivedi Cole quando fui colta dal panico. Jonathan.Il telefono si ammutolì. Scivolai fuori dal letto e mi inginocchiai sul pavimento,

cercando freneticamente i vestiti abbandonati per terra al buio. Mi infilai sullapelle nuda una T-shirt che aveva l’odore di Cole e trovai i miei pantalonciniproprio quando il telefono riprese a vibrare. Seduta accanto al letto, lo presi ed

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esitai alla vista del numero dei McKinley sul display.Sospirai, preparandomi a una ramanzina all’altro capo del telefono: immaginavo

che Sara fosse arrivata a casa e mi avesse chiamata all’alba, senza pensare alletre ore di fuso orario. Ma proprio quando dissi: «Pronto», mi venne in mente cheera impossibile che Sara fosse già a casa, e il terrore affondò nel mio stomacocome una grande pietra lanciata da un burrone.«Emma?», chiese Anna. «Emma, tesoro, sono Anna».Non riuscivo a respirare.«Ciao, Anna», riuscii a balbettare. Aveva una voce decisamente sconvolta, anche

per le poche parole che aveva detto.«Emma, è successa una cosa orribile», continuò Anna, con voce rotta. «Tua

madre», fece una pausa. «Si è tolta la vita ieri sera».Ero al buio, in una profondità che mi ghiacciava le ossa. Non riuscivo a vedere

nulla. Non riuscivo ad ascoltare nulla. Non riuscivo a sentire niente oltre al freddo.Mi portai le ginocchia al petto e cominciai a cullarmi avanti e indietro, con il corpoche tremava.«Emma? Sei lì?».La sua voce era un ronzio distante nell’orecchio. «Tesoro, riesci a parlare?»«È morta», mormorai, e la mia voce sembrava quella di un’estranea, come se

non provenisse dal mio corpo.«Sì. Mi dispiace tanto», disse Anna, tremante. «Ti faremo tornare a casa appena

possibile. Stiamo sistemando le cose proprio adesso, ok?».

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La sua voce sparì, e io mi ritrovai di nuovo da sola al buio, senza sentire nulla.Misi giù il telefono e mi abbracciai per resistere al gelo che mi avviluppava.La odio, Sara, la odio così tanto… Vorrei che fosse morta.«Emma», Meg irruppe tra le voci. La guardai confusa. La stanza era così

luminosa alla luce del lampadario, che sembrava di fissare il sole. «Emma, misenti?». Si inginocchiò accanto a me, e io la misi lentamente a fuoco. Allarmata,mi guardai intorno e vidi che c’erano altre persone nella stanza. Peyton eraseduta sul letto, e Serena era sul pavimento accanto a me, che mi teneva lamano.Alzai lo sguardo e vidi Cole, che mi guardava dalla porta aperta. Luke e James

erano in corridoio, e parlavano a bassa voce.I miei occhi passarono da un viso all’altro, confusi. Poi mi ricordai. L’aria mi

usciva dai polmoni come se mi avessero bucato il petto. «Vi ho svegliati?», chiesi,concentrandomi sugli occhi verdi e addolorati di Meg.«No, non ci hai svegliati», mi rassicurò. «Mi ha chiamato la mamma di Sara.

Emma, mi dispiace tanto».Mi abbracciò forte mentre Serena mi stringeva la mano. Le diedi una leggera

pacca sulla schiena, cercando di consolarla. Ero ancora al buio, incapace di capirecosa stava accadendo. Così lasciai che mi tenesse stretta fin quando voleva.«Ci vediamo quando torno». Abbracciai Meg e Serena sul marciapiede

dell’aeroporto. Poi mi girai verso Cole. Mi guardò come se fossi fatta di vetro e mistessi lentamente rompendo, e lui avesse paura che il minimo contatto potesse

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mandarmi in pezzi. «Ci vediamo a Santa Barbara. Sarò tornata prima che tu te nerenda conto».«Vorrei che mi lasciassi venire con te», disse, passandomi piano il pollice sulla

guancia.«Lo so», risposi a bassa voce. «Ma nemmeno io voglio tornare. Però devo. E poi

devi prepararti per gli esami, e non puoi perdere le lezioni. È meglio così. Ci saràSara con me, starò bene».«Mi chiamerai?».Annuii. Lui si chinò e premette le labbra sulle mie.Me li lasciai alle spalle, con un’espressione rassicurante sul viso: volevo

convincerli che stessi bene, anche se non era così. Poi mi girai verso l’entrata,passando tra le porte automatiche, e il panico si diffuse nel mio stomaco comeuna tempesta. Mi concentrai sul respiro mentre passavo i controlli di sicurezza,quasi aspettandomi di essere fermata per comportamento sospetto, viste legocce di sudore che mi scendevano lungo la fronte.Mi misi a sedere di fronte alla pista, cercando di capire come avrei fatto a salire

sull’aereo e ad affrontare il volo verso l’unico posto al mondo in cui non volevotornare. Non avevo rimesso piede a Weslyn dal giorno in cui me ne ero andata,due anni prima, ed ero sul punto di scappare dal terminal per non doverci tornarequando squillò il telefono.«Ciao», risposi senza entusiasmo.«Come va?», chiese Sara.

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«Me lo chiedi?»«Sì, lo so. Domanda stupida. Ti vengo a prendere all’aeroporto. Ti aiuterò io».«Grazie», dissi, desiderando che fosse già tutto finito. Mi ero tenuta occupata

contattando i professori per spiegare il motivo per cui avrei saltato le lezioniquella settimana e cercando il modo di spostare gli esami più in là. Non mi erofermata nemmeno un momento a pensare – almeno finché non ero entrata inaeroporto. Lì la realtà di quello che stava succedendo diventò inevitabile.«Sara. Non starò a Weslyn».«Cosa? Che intendi? I miei genitori ti aspettano a casa nostra».«Non ce la faccio». Avevo la voce rotta. «C’è un motel sull’autostrada, appena

fuori città. Starò lì. Davvero… non ce la faccio».«Ok», mi rassicurò Sara, pazientemente. «Cerca di salire su quell’aereo. Il resto

lo vedremo appena arrivi».L’addetto della compagnia aerea annunciò che erano pronti a imbarcare.«Devo andare», le dissi. «Ci vediamo dopo».«Sarò lì», mi rassicurò Sara.Salii sull’aereo e misi la valigia sopra il sedile prima di sedermi accanto al

finestrino, passando accanto a due uomini di mezza età. Guardai fuori dalfinestrino senza vedere niente, respirando a piccole boccate.«Non ti piace volare?», chiese l’uomo accanto a me, vedendo che mi torturavo le

mani in grembo.«Più che altro non mi piace atterrare», mormorai con sincerità.

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«Io volo di continuo», mi rassicurò. «Non c’è niente di cui preoccuparsi».Annuii, cercando di sorridere, ma sembrai solo terrorizzata. Chiusi gli occhi e

serrai le mani a pugno, cercando di calmarmi. Ero sull’orlo di un attacco di panico.«Ti farebbe bene un drink», mi disse lui, con una risatina.«Peccato che ho solo diciannove anni».Mi guardò come se fossi pazza. Che non era lontano dalla verità. «Se starai così

per tutto il viaggio, ti prenderò io da bere».«Va bene», risposi, cercando disperatamente di liberarmi dell’ansia.Quando fummo in volo, i due uomini ordinarono una vodka e soda e io chiesi

dell’acqua. Fui sorpresa quando entrambi mi offrirono il loro drink. Immaginai dinon essere la compagna di volo ideale.«Grazie», risposi, prendendo il portafogli per pagare.L’uomo accanto a me sollevò la mano. «Non preoccuparti».Buttai giù i drink con foga e li rimisi sul vassoio dei due signori con il ghiaccio

che non si era ancora sciolto. Loro risero, e un’ora dopo, mentre ancora stringevoil bracciolo del sedile come se l’aeroplano dovesse cadere da un momentoall’altro, mi trovai davanti altri due drink.

***«Signorina», sentii nella nebbia della mia testa. «Signorina, siamo atterrati».

Una mano mi toccò gentilmente la spalla. Staccai il viso dal finestrino e miguardai intorno confusa. Mi ci volle un po’ a capire dov’ero.«Merda», sospirai, facendo inarcare le sopracciglia all’assistente di volo con i

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capelli biondi. «Uh, grazie».Mi slacciai la cintura e cercai di alzarmi dal sedile senza cadere, con la vodka che

mi danzava ancora nella testa. Fortunatamente l’aereo era praticamente vuoto,quindi non dovetti lottare con gli altri passeggeri per recuperare il bagaglio. Lotirai giù dallo scomparto in alto e per poco non caddi a terra quando mi atterròsulla testa.«Posso aiutarla?», si offri uno steward, guardandomi nervosamente.«No, ce la faccio», dissi, arrossendo per l’imbarazzo. «Grazie». Feci un sospiro

profondo e mi tirai dietro la valigia, cercando di assumere un’aria sobria.Proseguii fino al terminal, fermandomi una volta perché ero convinta che le mie

ginocchia avrebbero ceduto e sarei caduta a faccia in avanti. Il ronzio nella miatesta stava svanendo, e il panico tornava in superficie. Se fossi riuscita a usciredall’aeroporto senza crollare, avrei avuto bisogno di un po’ di aiuto.

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M

14Proprio come tua madre

i vibrò il telefono in mano appena lo riattivai dalla modalità aerea, propriocome mi aspettavo.

«Ciao», dissi, chiudendo gli occhi e appoggiando la testa contro il muro.«Dove sei?», chiese Sara, con voce ferma ma un po’ a disagio.«Mmm…», esitai, buttando giù il nodo che avevo in gola. «Non lo so. Fuori da un

bar».«Hai bevuto?».Rimasi in silenzio, aspettando che la vodka mi avvolgesse con il suo potere

stordente.«Mi dispiace», sussurrai, mordendomi il labbro, che si rifiutava di smettere di

tremare. «Non ce la faccio, Sara… non posso…».

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«Va tutto bene. Sono qui. Dimmi solo dove sei».«Uh… ancora dentro il terminal», mi guardai intorno, ignorando gli sguardi rivolti

a me.«Segui i cartelli per il ritiro bagagli. Io sono qui», mi spiegò, con voce calma e

rassicurante.«Ok», dissi, afferrando la maniglia della valigia e alzandomi dalla panchina. Mi

fermai un istante per riprendere l’equilibrio. I miei piedi mi portarono a casacciosulla pedana scorrevole. Mi accorsi di avere ancora il telefono premuto contro ilviso. «Sara?»«Sì, sono ancora qui». rispose Sara. «Stai arrivando?»«Sì», sospirai, chiudendo gli occhi. Sentii lo stomaco irrigidirsi, e avevo paura di

cadere, quindi mi aggrappai alla ringhiera del nastro trasportatore. «Non… non ciriesco».«Sì, certo che ce la fai», mi incoraggiò. «Ti aiuterò io».«Cazzo», sbottai, inciampando alla fine della pedana. Mi spostai di lato per

raddrizzarmi lasciando che gli altri passeggeri mi fissassero. «Arrivo subito».Sara era in fondo alle scale mobili, che aspettava con impazienza il mio arrivo.

Appena scesi dal gradino, mi tirò a sé. Io chiusi gli occhi, decisa a non piangere.«Mi sei mancata tanto», mi sussurrò nell’orecchio, tenendomi stretta per non

farmi cadere. Barcollai quando mi lasciò andare. Mi guardò bene. «Hai un aspettoorribile».Feci una risatina. «E mi sento anche peggio. In realtà…», esitai, pensando, «sto

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cominciando a non sentire più nulla».«Oh, Emma», scosse la testa, preoccupata. «Ti lascio per qualche mese e mi

diventi un’ubriacona. Cosa devo fare con te?». Mi afferrò la mano e la valigia,trascinandoci verso l’uscita. «Devi smaltire la sbornia, o almeno fare finta, perchétra poco vedremo mia madre».«Merda, davvero?», mi lamentai. «Non lo sapevo… mi dispiace».«Non preoccuparti», sospirò lei. «Ma per i prossimi giorni prova a non curarti con

l’alcol, d’accordo?».Non promisi nulla, ma lasciai che mi trascinasse verso l’auto. Sapere di avere

Sara al mio fianco, e con l’alcol che si stava impossessando di me, mi scioglieva inervi… per il momento.Il tragitto di un’ora non bastò. Non bastò a smaltire la sbornia. Non bastò a

prepararmi alla ragione per cui ero tornata a Weslyn.Ci fermammo in un piccolo parcheggio accanto alla casa azzurra in stile

vittoriano. Sembrava così calda e invitante da fuori, ma sapevo che dentro erapiena di morte. Rabbrividii.«Non resteremo a lungo», mi rassicurò Sara, strattonandomi via dal cartello che

fissavo – “Pompe funebri Lionel” – in giardino. «Vieni, Em. Mia madre ci staaspettando. C’è anche Charles, per aiutarci con tutte le cose da sbrigare».Non saprei dire cosa successe dopo. Probabilmente ebbi un black-out, perché

ricordavo solo di essere risalita in macchina.«Te l’ho detto che avremmo fatto presto», disse Sara, allacciandosi la cintura.

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«Già», sospirai, sentendomi come se fosse la prima volta che respiravo daquando ci eravamo fermate.«Devo solo fermarmi a casa a prendere la mia borsa», spiegò Sara ripartendo.«Cosa? No!», esclamai a voce un po’ troppo alta.«Che c’è?», chiese, allarmata.«Non voglio attraversare Weslyn», dissi con decisione.Ero contenta che avessero nascosto le pompe funebri a un’estremità della città,

così gli abitanti potevano rimanere nella beata ignoranza del dolore nelle lorocase. «Ti prego, Sara, portami al motel».Sara rimase in silenzio per un istante e alla fine disse: «Ok, ti lascio lì e poi torno

a prendere le mie cose».«Grazie», dissi, sollevata. Schiacciai la testa sul vetro e guardai gli alberi

svanire. Il torpore stava svanendo, sostituito dalla stanchezza. «Forse mistenderò per un po’».«Non è una cattiva idea».Pochi minuti dopo, fu come se avessimo varcato un confine invisibile e fossimo

state trasportate all’istante in un mondo fatto di cartelloni e luci al neon, con ilrombo del traffico dell’autostrada sopra le nostre teste. Sara si fermò nelparcheggio con l’asfalto tutto crepato.«È qui che dormiremo?», chiese Sara. Era ovvio che quel posto la disgustava. In

effetti, non era granché. La vernice blu era sbiadita e scheggiata, e i numeri sualcune delle porte erano stati sostituiti con altri diversi. C’era una piscina con una

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rete metallica attorno. L’acqua aveva un sfumatura innaturale di verde che miricordava un film di fantascienza in cui le uova aliene incubavano sul fondo di unapiscina.«Sei sicura di volerlo fare?». Sapevo che quello era il suo modo di supplicarmi di

cambiare idea.«Non devi rimanere per forza», le dissi, aprendo la porta.«Invece sì», rispose, con voce rassegnata. «Faccio il check-in se prendi la valigia

dal bagagliaio».Quando tornò, seguii Sara sulle scale di cemento con una ringhiera pericolante

di metallo e le lasciai aprire la porta della stanza 212, con il secondo dueleggermente sbilenco. La stanza odorava di medicinali, sigarette stantie e… divecchio, come se gli anni avessero infettato per troppo tempo quelle pareti indecomposizione.Sara diede uno strattone alle spesse tende blu scuro per far entrare il sole. Non

serviva, la stanza sembrava comunque buia. Rifuggiva la luce chiudendosi inun’ombra permanente. Non mi importava. Sentii un improvviso legame conquell’oscurità, che preferivo al limpido sole di maggio.Mi sedetti sul letto, sul lato più lontano dalla finestra, e mi tolsi le scarpe,

pensando di stendermi per riprendermi dal torpore che mi annebbiava la mente.«Torno tra pochissimo», promise Sara, che mi osservava dalla porta. «Porto

anche da mangiare».Esitò, indecisa se lasciarmi da sola.

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«Starò bene», dissi, rassicurandola quel tanto di cui aveva bisogno per usciredalla porta. Fece un sorriso fiacco e se ne andò. Fissai la porta metallica che sichiudeva.Emma, mi dispiace tanto.Mi scrollai di dosso la sensazione delle braccia di Anna attorno a me e

l’immagine dei suoi occhi arrossati dalle lacrime.Sei così magra.Chiusi gli occhi con forza, tagliando fuori le voci. Ora che ero sobria, tornavano in

superficie frammenti del tempo passato alle pompe funebri.Scacciando il torpore dagli occhi, mi alzai dal letto, andai verso la grande

finestra e guardai la piscina con le sedie di plastica attorno.Abbiamo scelto le foto da far vedere domani. Vuoi dare un’occhiata e dirci che

ne pensi?Tua madre ha chiesto di essere cremata… quale urna preferisci?Rabbrividii e mi strinsi nelle spalle, scuotendo la testa violentemente; non

volevo sentire niente, né vedere quelle scatole lucenti e quelle urne decorate.Tua madre dove avrebbe voluto essere seppellita?«Basta!», urlai, afferrandomi la testa. «Zitta!». Sbattei la mano contro il vetro, e

quello tremò sotto il mio palmo.Una piccola baracca dall’altra parte della strada attirò la mia attenzione – cartelli

sbiaditi di cartone erano appesi alle finestre, e reclamizzavano birre e liquori.Respirai forte dal naso con i denti serrati, cercando di restare padrona di me. Ma

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sapevo che non sarebbe passato molto prima che mi fossi lasciata andare.Guardai di nuovo il negozio di liquori. Un posto come quello probabilmente nonchiedeva documenti, ma non volevo rischiare. Avevo bisogno di una cosa certa.Scrutai il parcheggio, e mi soffermai su una figura accanto alla piscina. Un

ragazzo con una canotta bianca e dei jeans sbiaditi era seduto su una vecchiasedia, a fumare una sigaretta, con delle enormi cuffie in testa. Doveva averesicuramente più di ventun anni. Presi fiato, decisa a mettere a tacere quelrumore.Afferrando la borsa con il portafogli e le chiavi della stanza, uscii a piedi nudi.

Non sembrava il tipo da esprimere giudizi. Anzi, avvicinarmi a lui a piedi nudipoteva farmi guadagnare dei punti. Con quel pensiero, mi sistemai la frangetta,mi passai le dita tra i capelli e mi tolsi il leggero maglione rimanendo solo con lacanottierina attillata che avevo sotto. Tirai giù una spallina in modo che mipendesse sulle spalle e lasciai che la disperazione mi desse il coraggio di cuiavevo bisogno per scendere le scale malconce verso la piscina.Non ci mise molto ad accorgersi di me, e passò in rassegna ogni centimetro del

mio corpo senza darsi pena di nasconderlo, facendosi scivolare le cuffie intorno alcollo. Controllai il tremito mentre mi molestava con gli occhi.«Ehi», sorrisi, civettuola. «Che fai?»«Niente», rispose, passandosi una mano sporca d’olio tra i capelli biondo sabbia.

«E tu?»«I miei amici e io faremo una festa nella nostra stanza, più tardi», spiegai,

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cercando di sembrare una ragazzina capricciosa, «ma non posso comprarealcolici. Mi stavo chiedendo se potessi darmi una mano. Puoi far venire anche ituoi amici, se vuoi».«Sì, certo», sorrise, leccandosi il labbro inferiore. Ingoiai la bile che mi stava

salendo in gola. «Immagino di poterti aiutare. Cosa vuoi?»«Vodka», risposi, forse un po’ troppo velocemente. Feci una smorfia, sperando

che non avesse colto la disperazione nella mia voce. Frugai nel portafogli e glidiedi una manciata di biglietti da venti che Charles Stanley mi aveva dato primamentre eravamo alle pompe funebri.«Carino», disse, ammirato. «Vuoi roba buona?», scrollai le spalle con

indifferenza mentre prendeva le banconote sfiorandomi le dita. Lottai control’istinto di ritrarmi. «Vuoi anche qualcosa da aggiungerci?»«Uh, non proprio», risposi, sapendo che mi sarebbe servita liscia se volevo

sopravvivere per altri due giorni. «Che ne dici di un paio di lime?»«Certo, dolcezza», mi fece l’occhiolino. «Mi chiamo Kevin, comunque».«Be’, grazie per aver aiutato una ragazza in difficoltà, Kevin», risposi, cercando

di fare del mio meglio a sbattere le palpebre – per quanto mi sembrasse patetico.«Torno subito», mi rassicurò, dandomi una pacca sul sedere mentre si

allontanava. Lasciai andare un gridolino che lo fece ridere.In sua assenza, riempii una borsa di ghiaccio e recuperai un paio di bicchieri di

plastica incartati. Tornai in piscina proprio mentre lui attraversava il parcheggiocon una busta di carta sottobraccio.

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«Ecco qui», disse presentandosi con due bottiglie di vodka. «Ne ho presa unaanche per me».«Mi sembra giusto», risposi, svitando il tappo e facendo scorrere il liquido

trasparente sui cubetti di ghiaccio, quasi sospirando mentre me ne scolavo mezzobicchiere. Il mio stomaco si incendiò al solo contatto, facendomi rabbrividire, esentii un fiotto di saliva invadermi la gola.Kevin si sistemò sulla sedia dall’altro lato del tavolo di plastica, prese un

bicchiere e ci mise dentro del ghiaccio dalla busta, con una sigaretta spenta chegli pendeva dalle labbra. Cominciò a parlare. Non avevo idea di cosa stessedicendo. Semplicemente annuivo e fissavo l’acqua verde, sorseggiando la vodkafredda, in attesa dello stordimento. Impaziente, riempii il bicchiere due o trevolte.Vicino a mio padre. Lei avrebbe voluto essere seppellita vicino a mio padre.Digrignai i denti, lottando contro il continuo ronzio di voci che penetravano la

barriera dello stordimento. Buttai giù il resto della vodka e ne versai altra sopra icubetti di ghiaccio.Sarebbe bello se tu raccontassi alcuni dei momenti che hai passato con tua

madre.Ero sul bordo della piscina, a fissare il fondo verde torbido. Mi sentivo stordita,

ma le voci continuavano a parlare. Non si fermavano. Scossi lentamente la testa,avevo bisogno di liberarmene.Chiusi gli occhi e feci un passo. L’acqua era fredda, e il cloro mi bruciava il naso

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mentre l’acqua mi scorreva attorno. Sollevai le ginocchia e affondai, sbattendo ipiedi contro il fondo della piscina. Tenni gli occhi chiusi. E finalmente, fu… ilsilenzio. Mi abbracciai stretta le gambe, e assorbii la tranquillità.Emisi dei piccoli sbuffi d’aria dal naso. Dopo un po’ i polmoni cominciarono a

bruciarmi, ma non mi mossi. Lasciai che l’acqua fredda mi tenesse prigioniera. Ilterrore non arrivò mai, come nei miei sogni. In sogno ero affogata molte volte.Ero sempre spaventata, cercavo di respirare in ogni modo. Ma ora… c’era calma.E mi invitava a restare.Ignorai il bisogno di inspirare e la pressione crescente nel petto. Sentivo l’acqua

mormorare intorno a me. Aprii gli occhi e ascoltai. Sembravano… urla. Sollevai latesta e vidi due figure che si sporgevano sul bordo della piscina, e i capelli rossi diSara si affacciavano sull’acqua.Presi una spinta dal fondo duro della piscina e inspirai a fondo quando emersi,

ingoiando aria e acqua. Cominciai a tossire per il cloro, tossii quasi fino avomitare. Il respiro finalmente tornò regolare quando mi aggrappai al bordo dellapiscina. Fu allora che le urla tagliarono l’aria, come se avessi schiacciato unpulsante.«Porca puttana, Emma!», gridava Sara. Si era tolta le scarpe, come se stesse

per tuffarsi. «Che diavolo ci facevi laggiù?»«È una fottuta psicopatica, ecco cos’è!», urlò Kevin dietro di lei. «Sembrava un

fottuto zombie che camminava sull’acqua. La tua amica è matta da legare,sorella».

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«Sta’ zitto», urlò Sara voltandosi mentre io mi tiravo a sedere sul bordo dellapiscina. «Togliti dalle palle!».«Non me lo faccio ripetere due volte», disse lui. «Fottuta psicopatica», continuò

a blaterare mentre attraversava il parcheggio con la busta di carta in mano.«Stai bene?», chiese Sara mentre tossivo di nuovo, sputando acqua.Annuii. Sara fece un pesante sospiro. «Emma, quello che hai fatto è una follia».

Mi aiutò ad alzarmi, scuotendo la testa.Sara mi aspettò all’entrata della piscina mentre raccoglievo la mia borsa. Stavo

per prendere la bottiglia di vodka quasi vuota quando lei ordinò: «Lasciala lì».Mollai la presa e la seguii in silenzio nella stanza del motel.Pozze d’acqua colavano dai miei jeans bagnati mentre entravo nella stanza e poi

in bagno. Mi tolsi i vestiti zuppi e rimasi sotto il getto di acqua bollente delladoccia finché non diventò freddo. Non riuscivo ancora a sentire niente. Nessunaemozione. Nessuna sensazione. Nessun pensiero. E le voci erano svanite.Cercai a tastoni un asciugamano da mettermi in testa e un altro per coprirmi. Il

tessuto bianco e ruvido mi copriva a malapena. Sara era seduta al tavolinorotondo su una sedia in tessuto con lo schienale macchiato. Sollevò la testaquando uscii dal bagno appannato, trascinandomi dietro nuvole di vapore.Evitai di guardarla negli occhi mentre sentivo la stanza girare intorno a me. I

piedi mi reggevano a fatica. Crollai sul bordo del letto e mi schiacciai le manisugli occhi.«Lo so che non vuoi stare qui», disse piano Sara, lottando contro le emozioni.

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«Posso solo immaginare quanto sia difficile per te. Ma, Emma, non sei sola. Edevi capire che ci sono persone che ci tengono a te. Che vogliono aiutarti».Sbattei forte le palpebre e sollevai la testa per guardarla.«Non puoi continuare ad allontanare tutti». Si alzò dalla sedia, con il corpo

irrigidito. «Non puoi continuare così, perché uno di questi giorni ti sveglierai e nontroverai più nessuno».Socchiusi gi occhi, le sue parole mi riecheggiavano in testa. «Cosa?»«Io non ti lascerò». L’appassionata supplica di Sara prendeva forza a ogni

parola. «E non lascerò che allontani anche me». Quando si accorse checontinuavo a non reagire, serrò le labbra e i suoi occhi si inumidirono. «Capisciquello che sto dicendo?! Emma, guardami!».Piegai la testa da un lato, mi risultava difficile tenerla dritta.«Dannazione, Em!», urlò, scuotendo la testa. La sua mascella si tese, e strinse i

pungi. «Non lascerò che tu ti faccia questo! Non importa che cosa ci vorrà. Nonpermetterò che tu faccia la fine di tua madre!».Mi bloccai. Fissai gli occhi su di lei. Il viso di Sara impallidì quando capì quello

che aveva appena detto. «Fuori di qui».«Emma, mi dispiace!», urlò. «Non volevo».«Fuori di qui!», urlai, facendola sobbalzare.Sara si asciugò una lacrima e annuì leggermente. Prese la chiave della stanza e

la sua borsa, e si diresse verso la porta. Mi lanciò uno sguardo addolorato primadi chiudersi la porta alle spalle.

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Sentivo tutto il mio corpo tremare. Caddi di fianco sul letto e mi avvolsi nellelenzuola bianche e rattoppate. Fissai le pareti mentre la stanza mi ruotavaattorno. Tutto dentro di me rimase in silenzio. Alla fine, chiusi gli occhi e mi arresial nulla.

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E

15Diversa

ro in un angolo della sala principale nell’agenzia delle pompe funebri, e mitenevo lontana dalle persone in lutto che mi sciamavano attorno. Un luccichio

dall’altra parte della stanza attirò la mia attenzione. Fissai il cielo azzurro e ibanchi di nuvole che passavano oltre la piccola finestra rettangolare in cima allaparete. Le nuvole sembravano bianchissime contro il cielo terso, e fluttuavanocome se seguissero il corso di un fiume. Ogni tanto compariva qualche uccellino,facendomi desiderare di volare con lui – lontano dai sussurri, dalle mani che sifacevano largo e dalle braccia che mi stringevano contro corpi sconosciuti. Avevobisogno di scappare dai volti addolorati e dagli occhi piangenti.«Hai sentito che si è impiccata?».Sbattei le palpebre, interrompendo la mia ritirata in cerca di pace. Osservai la

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sala piena di volti. Volti che non la smettevano di guardarmi.«Emma, mi dispiace tanto». Una donna magra e anziana mi apparve davanti,

spaventandomi. Mi sforzai di fare un piccolo sorriso. Mi abbracciò e io mi irrigidii.«Lavoravo con Rachel, ed era sempre così felice. Mi mancherà».Annuii, assente. «Grazie».«Ha legato la corda alla balaustra e si è buttata. Si è spezzata il collo

all’istante».I miei occhi passarono in rassegna tutti i volti, cercando l’origine di quel

sussurro. Bastò quel movimento perché il dolore mi invadesse la testa, unaconseguenza della vodka a bordo piscina. Gli occhi mi si annebbiaronoleggermente. Mi portai una mano alla testa, convinta di avere le allucinazioni.«Emma, hai mangiato?»«Uh?», tornai in me. Era la prima volta che sentivo la voce di Sara quel giorno.

Non avevamo parlato da quando era tornata nella stanza del motel a un certopunto della notte.«Emma?», Sara mi osservò con attenzione. «Che c’è?»«Um… niente». Provai a respirare regolarmente. «Penso… penso di avere

bisogno di una pausa».«Dovresti mangiare qualcosa», mi incoraggiò. «Mia madre ti sta preparando

qualcosa in cucina».Annuii con aria assente, con gli occhi che passavano ancora in rassegna i volti.

Sentivo che non ce l’avrei fatta. La testa mi faceva così male che avrei potuto

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sentire qualsiasi cosa senza capire una parola.Provai a scivolare tra i corpi, ma venni fermata da abbracci e parole di

condoglianze. Avevo perfezionato talmente tanto il “grazie” che mi usciva dallelabbra automaticamente, senza ascoltare davvero i sentimenti che lo avevanoinnescato.Non hai mai pensato a nessuno oltre che a te! Tu non sei una madre, non lo sei

mai stata!Loro non sapevano la verità sulla donna che stavano piangendo. Io la conoscevo

fin troppo bene, e vedere immagini felici esposte in tutta la sala era abbastanzaper mandarmi fuori di me.Entrai in cucina in fondo al corridoio senza farmi notare. Trovai un bicchiere alto

e lo riempii di ghiaccio prima di ritirarmi nel corridoio e aprire la porta dell’ufficioin cui ero stata ieri. Dietro la grande scrivania c’era uno sgabuzzino, e in quellosgabuzzino c’era la mia borsa, che conteneva l’unica cosa che poteva curare ilmio mal di testa e cancellare tutta quella gente dalla mia vita.Stappai la bottiglia e versai la vodka nel bicchiere, con un brivido, ne bevetti

pochi sorsi. Con una piccola scatola di mentine in tasca, lasciai la stanzastringendo fermamente il bicchiere, tornai nel mio angolo portandolo con me,dove lo potevo raggiungere. Rimasi lì, a fissare la finestra, pronunciando “grazie”alle frotte di persone che si erano radunate per omaggiare una donna che nonera mai stata mia madre.Non volevo trovarmi lì. Probabilmente non volevo trovarmi lì più di quanto non lo

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volesse lei. Ma non ero lì per Rachel Wallace. Mi feci largo tra la folla quando entrammonella sala delle pompe funebri piena di foto e fiori. Non diedi una seconda occhiata alleimmagini, cercando di confondermi tra la folla, di rimanere lontano dalla sua vista finchénon fossi stato pronto. Non ero sicuro che sarebbe successo molto presto.«Lei è nell’altra stanza».Abbassai lo sguardo e vidi il gentile volto della signorina Mier davanti a me.«Salve, signorina Mier. È bello rivederla», sorrisi con calore a quella donna che si era

sempre presa il tempo necessario per capire, e spesso aveva capito più di quantopensassimo.«È bello rivedere te, Evan. Vorrei che fossero circostanze migliori. Spero che stia

andando bene a Yale», mi diede una pacca sul braccio, e un attimo prima di allontanarsidisse piano: «Lei è nell’altra stanza, nell’angolo opposto alla porta. Dovresti parlarle».«Grazie», replicai, annuendo con riconoscenza.Volevo parlarle. Erano due anni che aspettavo di parlarle. Sapevo però che quello non

era il posto giusto.«Evan…», Sara mi affrontò con uno sguardo severo sul viso. «Che stai…». Lasciò

andare un sospiro profondo. «So che volevi essere qui. Davvero, lo capisco. Ma è meglioche lei non ti veda».Mi aspettavo quella reazione, ma non significava che mi facesse piacere.«Ciao, Sara», risposi. «Posso fare qualcosa per aiutarvi?».Lei sospirò. «No, siamo a posto. Evan, sappi solo che… lei è cambiata», mormorò,

prima di sparire tra la folla. La seguii con lo sguardo, sconvolto dalle sue parole.

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Proseguii lungo il corridoio che si concludeva con la cucina e permetteva l’ingresso nellasala principale. Passai in rassegna la stanza, piena di volti familiari delle superiori, e altriche non riconoscevo. La cercai – dovevo vederla, che fossi pronto o no.«Emma, cara», la sua voce mi tolse il fiato. «Mi dispiace così tanto».Fissai gli occhi azzurri accesi di Vivian Mathews, incapace di parlare.Mi accarezzò il viso con la mano magra e fredda. «Sei una ragazza forte. Vorrei

tanto che non ti fosse successa una cosa del genere».Distolsi lo sguardo, prima che si accorgesse che la mia “forza” mi permetteva a

malapena di reggermi in piedi.«Mi dispiace tanto per tua madre, Emma», disse la voce profonda di Jared. Fui

colta da un estremo bisogno di fuggire. Annuii appena.Vivian mi abbracciò delicatamente e disse in tono rassicurante: «Se dovessi

avere bisogno di qualcosa, sono qui per te».Quando cercai di ricambiare flebilmente l’abbraccio, mi tremavano le mani.E poi se ne andarono, persi tra la folla. Mi guardai intorno cercandoli, sicura che

se c’erano loro, ci doveva essere anche lui. Mi voltai verso il bicchiere che avevolasciato nell’angolo e buttai giù diversi sorsi per calmarmi. Non ero pronta. Nonsarei mai stata pronta a rivedere Evan, ma ciò non mi impedì di guardarmiattorno, in cerca dei suoi occhi azzurro acciaio.Poi la vidi. Nello stesso momento in cui lei vide me. I suoi occhi marroni chiari si

bloccarono, come se fosse in trappola. Il sole della California le aveva fatto bene, masembrava esausta e fragile nel suo vestito scuro. Si era tagliata i capelli a caschetto, e la

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frangetta le copriva le sopracciglia. Era più magra, le curve del suo viso avevano lasciatospazio a degli angoli sottili e a degli zigomi sporgenti. Mi ero quasi convinto che nonfosse lei, ma poi vidi le sue guance arrossire, e sentii le mie labbra sollevarsi leggermente.Era ancora bella da togliere il fiato. Non fosse stato per quello sguardo assente.«Evan, non posso credere che tu sia qui».Distolsi lo sguardo da Emma.«Ciao, Jill. Come stai?». Lottai contro il desiderio di ignorare quella ragazza insensibile,

e le sorrisi educatamente.Tornai a sbirciare nel punto in cui avevo visto Emma. Ma lei non c’era più.«Hai sentito Analise, ultimamente?», si impicciò Jill, che non era mai stata molto

discreta.«No, non di recente», risposi, cercando una via di fuga.«Morirebbe se sapesse che sei qui», continuò Jill. «Hai visto Emma? Giurerei che è

sbronza».«Sua madre è appena morta, Jill», dissi con decisione, cercando di nascondere la rabbia.«Comunque non capisco perché sei qui», ripeté. «Voglio dire, dopo quello che ti ha

fatto… santo cielo».Rifiutai di reagire a quel commento. «È stato bello riveder ti, Jill. Ora vado a vedere se la

signora McKinley ha bisogno del mio aiuto».Mi addentrai nella stanza, osservando gli altri presenti, ma Emma era scomparsa.«Pensavo che non volessi parlarle», disse Jared, venendomi accanto.«Infatti è così», risposi, mentendo. «Stavo cercando te».

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«Già, cer to», sbuffò. Poi la sua attenzione fu attratta dai capelli rossi che ondeggiavanotra la folla.«E tu parlerai con lei?».Per tutta risposta mi lanciò un’occhiataccia.«Che diamine dovrei dirle? E poi, questo non è esattamente il posto migliore per

parlare». Sapevo esattamente cosa intendeva. I suoi occhi continuavano a seguirla. Comese l’avesse percepito, Sara sollevò lo sguardo e lo vide. Jared la fissò, ammutolito. Glidiedi una gomitata per spingerlo a seguirla, ma lei voltò le spalle e si diresse decisa nelladirezione opposta.«È andata bene», dissi, sarcastico.«Sta’ zitto», mormorò. «Emma ti stava cercando. Appena ha visto me e la mamma, ha

cominciato a guardarsi intorno per cercarti. Che hai intenzione di fare?»«Ancora non lo so», ammisi, continuando a osservare i volti in cerca della ragazza che

mi aveva spezzato il cuore.Quando vidi Vivian capii che c’era anche lui. Scossi la testa e mi diressi verso

l’ufficio. Non potevo tornare lì dentro. Non fino a quando Evan non se ne fosseandato. Sentivo il cuore scoppiarmi nel petto. Guardai la scatola argentata che miero infilata sotto il braccio uscendo dalla sala.«Che diamine ci fa qui?», chiesi all’oggetto. Il panico aumentava; non riuscivo a

calmarmi. Sentivo le persone che parlavano dall’altro lato della porta, e riconobbiil tono cupo del direttore delle pompe funebri. Non volevo spiegargli perché eronel suo ufficio con in mano le ceneri di mia madre, quindi corsi allo sgabuzzino

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dietro la sua scrivania e mi nascosi lì.Trattenni il respiro, desiderando che le voci nell’ufficio sparissero. Quando le luci

si spensero e la porta si chiuse, feci un sospiro di sollievo appoggiandomi almuro. Tesi la mano sopra la testa e trovai una corda. Una lampadina spogliailluminò lo stretto e lungo armadietto. La mia giacca, assieme a quelle di Sara,Anna e Carl, erano appese sui tubi metallici sistemati sui lati della parete. Sullato opposto c’era una pila di sedie pieghevoli marroni. I miei piedi colpirono laborsa sul pavimento.«Non sarebbe una cattiva idea», mormorai. «Voglio dire, è il tuo funerale».Scivolai a terra e mi tolsi le scarpe. Il bicchiere che avevo svuotato nella sala

stava facendo effetto. Ma non era abbastanza. Aprii la bottiglia.«Alla tua, mamma», colpii la scatola di metallo con la bottiglia prima di berne un

lungo sorso, e mi abbandonai al ronzio che mi ondeggiava in testa.Fissai il contenitore argentato, bevendo altri sorsi di elisir dello stordimento.«Ti sei davvero impiccata?», mi fermai come se dovesse davvero rispondere.

«Perché? Perché fare una cosa del genere? Eri davvero così infelice?». Lasciaiandare un sospiro pesante e appoggiai il braccio sopra la scatola. «Be’… speroche tu abbia avuto quello che volevi. Spero che il dolore sia sparito».«Sara», la interruppi mentre stava parlando con delle persone che conoscevo di vista.

«Hai un minuto?».Sara si scusò e mi venne incontro. «Che c’è?»«Hai visto Emma?».

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Sara si fermò a pensare. «Mmm… è da un po’ che non la vedo, in effetti. Doveva andarein cucina a mangiare qualcosa. Ma era tipo mezz’ora fa».«Dove credi che sia?». Sara evitò il mio sguardo, cosa che mi fece preoccupare ancora

di più. «Sara, pensi che stia bene?».Sara non riusciva a guardarmi. Cominciò invece a osservare la folla che gradualmente

diminuiva.«Andrò a controllare in cucina», mi disse. «Fammi sapere se la vedi».Sara era più preoccupata di quanto pensassi. Non sapevo perché, ma sapevo che

dovevamo trovare Emma prima la trovasse qualcun altro.«Cole!», esclamai ad alta voce quando mi rispose al telefono, sentendo le mie

parole riecheggiare nello spazio chiuso. «Oops, ho urlato. Shh!», mi misi un ditosulle labbra.«Emma? Che succede? Dov’è Sara?», non sembrava troppo contento di sentirmi.

Mi chiesi se fosse ancora arrabbiato con me.«Non lo so», risposi semplicemente. «È qui da qualche parte. Cole, sei ancora

arrabbiato con me?»«Cosa?», sembrava confuso. «No. Ora però sono preoccupato. Dove sei?»«In uno sgabuzzino. Con mia madre. Stiamo bevendo».Cole rimase in silenzio per un istante. «Mmm… che hai detto?».Cominciai a ridere. «Sembra buffo, eh?»«Emma, dov’è Sara?»«Non vuoi parlare con me?», chiesi confusa. «Perché vuoi parlare con Sara?»

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«Sto tipo impazzendo, perché sono in California, e non ho idea di che cosa tustia passando adesso. E il fatto che ti sei chiusa a chiave in uno sgabuzzino abere non mi sembra una cosa positiva».«Ohmiodio, la porta è chiusa a chiave?», chiesi subito. Mi alzai e girai la

maniglia, aprendo leggermente la porta. «Non è chiusa», risi.«Emma», sospirò Cole. «Posso venire lì domani».«No!», replicai, poi dissi con decisione: «Non voglio che tu venga. Non c’entri

niente. Io non c’entro niente. Sono bloccata. Bloccata a ieri, e tu sei il domani. Eci vediamo tra altri due domani. Ok?»«Non ho idea di cosa tu abbia detto».Appoggiai la testa alla parete con il telefono premuto sul viso e la bottiglia quasi

vuota tra le gambe. «Cole».«Sì, Emma?».Chiusi gli occhi, e non riuscii a riaprirli.«Emma?».Lo sentii, annebbiata, ma non riuscivo a localizzarlo. «Emma?».«Emma?», sussurrò Sara nell’ufficio. Una luce filtrava da sotto la por ta dello

sgabuzzino. «Merda».La seguii dentro la stanza, chiudendomi la por ta alle spalle prima di accendere la luce.

Immediatamente mi preoccupai per quello che avremmo trovato dietro quella porta.Sara la aprì e poi scosse la testa. «Mi prendi in giro».La raggiunsi, e mi ci volle un istante per capire cosa stava succedendo. Emma era stesa

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accanto alla parete con quel che rimaneva di una bottiglia di vodka rovesciata sulpavimento accanto a lei e un cellulare in mano.«È ubriaca?», chiesi, scioccato e incredulo.«Ti avevo detto che era cambiata», Sara si chinò e scostò i capelli dal viso di Emma,

infilandoglieli dietro l’orecchio. Le tolse il cellulare di mano e rimase in ascolto.Non potevo fare altro che guardarla; non riuscivo ad accettare ciò che vedevo.

Aggrottai la fronte mentre un’ondata di rabbia mi travolgeva.«Pronto?», spalancò gli occhi per la sorpresa quando sentì una voce all’altro capo.

«Cole. Ehi. Sì, l’ho trovata». Restò in ascolto. «Sì… è svenuta. Ora la ripor to al motel, eti faccio chiamare domani mattina». Riagganciò e buttò il telefono nella borsa blu a righea terra.«Merda», ripeté Sara, osservando il corpo privo di sensi di Emma. «Come cazzo faccio

a portarla fuori di qui senza che mia madre la veda?»«Hai detto che sta in un motel?», chiesi. «Perché non sta da te?»«Perché Emma non vuole avere più niente a che fare con Weslyn». La risposta di Sara

aveva per fettamente senso, ma mi sentii comunque come se qualcuno mi avesse dato unpugno nello stomaco. «È stato già abbastanza difficile per lei tornare qui, ovviamente».La indicò con un gesto delle mani.«Non andrà in un motel, specialmente non in quella bettola sull’autostrada, se è di quello

che parliamo».Sara mi lanciò uno sguardo disilluso. «Hai un’idea migliore? Perché non posso

permettere che mia madre lo sappia. Andrebbe fuori di testa».

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«Può stare da me», dissi senza davvero pensarci. «Può stare nella stanza degli ospiti».«Neanche. Per. Sogno», replicò con decisione. «Questa è la peggiore idea di sempre».«Se vuoi il mio aiuto per portarla fuori di qui, allora starà da me».«Evan, perché vuoi fare una cosa del genere?». Non dissi niente. Ma dopo aver visto

Emma in quelle condizioni, sapevo che le cose andavano peggio di quanto pensassi.C’erano già le domande lasciate in sospeso due anni prima a distruggermi, e questo erapiù di quanto potessi sopportare.Sara non insisté per avere le rispose che io stesso non avevo. Continuò a scuotere la

testa, senza riuscire a farsi venire un’idea migliore.«Allora vengo anch’io», insisté.«Bene. Puoi stare nell’altra stanza degli ospiti».«E sappi che sarà più che incazzata quando si sveglierà», mi avvertì.«Penso che il posto in cui si sveglierà sarà l’ultima delle sue preoccupazioni». Indicai la

ragazza svenuta sul pavimento dello sgabuzzino, incapace di sovrapporla alla ragazza checonoscevo. Mi sembrava impossibile che fossero la stessa persona.«Por ta la mia auto sul retro», le spiegai. «Entra e vieni a prenderci quando in corridoio

non ci sarà nessuno. Penso che la maggior parte delle persone se ne sia già andata».Sara mi fissò, con uno sguardo pieno di disapprovazione. «Per una notte, Evan. E

basta».Scrollai le spalle. «Va bene. Ma dovrai convincerla a stare da te domani, perché quel

motel è fuori discussione».Sara prese le chiavi della macchina dalle mie mani. Fece qualche passo, e poi esitò, prima

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di tornare indietro a prendere la scatola argentata.Mi appoggiai allo stipite della por ta, ascoltando i profondi respiri che uscivano dalle

labbra di Emma. Non ero pronto a una cosa del genere.«Emma, che ti è successo?», tirai fuori il telefono per controllare l’ora, desiderando che

Sara tornasse presto, e fissai la ragazza priva di sensi sul pavimento con un sospiroaffranto.«Siamo pronti», dichiarò Sara. Distolsi lo sguardo da quella figura irriconoscibile. Sara

raccolse le scarpe e recuperò la borsa dallo sgabuzzino. Io mi inginocchiai accanto aEmma, le passai un braccio sotto le gambe e l’altro attorno alla vita. Il suo corpo cadde sudi me, con un braccio che pendeva da un lato. Mi alzai, e quel movimento non lascompose minimamente. Prima di accompagnarmi fuori, Sara infilò un lembo del vestitodi Emma tra il mio braccio e le sue gambe.Sentivo il suo respiro sul collo e le spalle mi si irrigidirono. Non ero a mio agio ad averla

così vicina. Cercai di scrollarmi di dosso la tensione che mi bloccava la mascella e seguiivelocemente Sara dalla cucina nella fresca serata primaverile.La sistemai sul sedile del passeggero, e Sara chiuse la por ta. «Vado al motel a prendere

le nostre borse. Non ci vorrà molto». Scossi la testa con un mezzo sorriso, sapendo chenon voleva che Emma si svegliasse senza di lei.Mi misi alla guida e la guardai di nuovo. La chiara luce della sera ammorbidiva le linee

del suo viso, ricordandomi la ragazza che conoscevo un tempo. Poteva esseresemplicemente addormentata, nascondendo i suoi occhi tormentati sotto le palpebre.Guardando il suo viso pacifico, qualcosa si mosse dentro di me, e capii di essere nei guai.

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«M

16Passato

i servirebbe una mano», urlai attraverso la zanzariera.Sentii dei passi pesanti avvicinarsi da dentro casa.

«Che diamine…», esclamò Jared.«Apri questa dannata porta, Jared». Aprì la porta e mi fece passare.«Che è successo?», chiese, seguendomi in cucina.«Vodka, ecco che è successo», borbottai. «L’abbiamo trovata svenuta in uno

sgabuzzino».«Porca puttana». Jared spalancò la bocca, rimanendo un passo dietro di me mentre

salivo le scale. «E tu hai pensato che portarla qui fosse la cosa migliore?»«Solo per una notte». Aspettai che Jared aprisse la por ta, ma lui rimase fermo a fissarmi.

«Forza. Apri la porta».

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Scosse la testa, in disapprovazione. «Non posso credere che tu abbia por tato Emma acasa nostra… svenuta». Jared aprì la porta e mi seguì nella stanza, accendendo le luci.«Mi sembri Sara», mormorai; poi aggiunsi, «a proposito, rimarrà qui con lei». Sorrisi,

aspettando la sua reazione.«Che cosa?», Jared spalancò gli occhi. «Evan, dici sul serio, cazzo?!».«Tira giù le coper te», ordinai con una risatina. «Così avrai la possibilità di parlarle».

Appoggiai con gentilezza Emma sul lenzuolo bianco e intatto.«Non era così che avevo pensato di parlarle».La gonna nera di Emma si allargò sul letto, e notai la grande benda che aveva sotto il

ginocchio destro. Era macchiata di sangue. Rimasi accanto a lei, osservando il suo corpoin cerca di altre ferite, con un nodo allo stomaco.«E nemmeno rapire Emma era il modo migliore per parlare con lei», mi rimproverò

Jared.Mi chinai su di lei e le spostai i capelli dalla guancia; poi sistemai le coper te sul suo

corpo immobile.«Non l’ho rapita», ribattei, fissando mio fratello. Lui uscì dalla stanza. La guardai

un’altra volta prima di spegnere le luci e chiudere la porta.«Già, perché sono sicuro che se lei avesse potuto scegliere, questo è esattamente il posto

in cui avrebbe voluto svegliarsi», sbottò Jared.«Non potevo lasciarla in quello squallido motel fuori città. Non è proprio il posto più

sicuro in cui stare».Jared scoppiò a ridere. «Penso che lei lo avrebbe preferito».

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«Sta’ zitto, Jared».«Evan? Sei tu?», mi chiamò mia madre dal piano di sotto. Doveva essere nel suo studio

quando eravamo arrivati.«Ha por tato qui Emma», sbottò Jared. Voltai la testa verso di lui e gli diedi

un’occhiataccia. Gli avrei dato uno spintone se non ci fosse stata nostra madre aguardare.«Evan, puoi venire giù un attimo?», chiese piano, ma con un tono così serio che mi fece

irrigidire la schiena. Jared mi lanciò uno sguardo del tipo “adesso sono guai”. Imprecaisottovoce mentre scendevo le scale.Seguii mia madre in cucina. Anche se mi arrivava appena al petto, aveva un modo tutto

suo di farmi sentire come un bambino di cinque anni con un solo sguardo.«Siediti», mi disse, appoggiandosi al tavolo della cucina. Mi sistemai su uno sgabello e

posai le mani sulle gambe, preparandomi alla sgradevole lezione che stava per darmi.«Perché Emma è qui?», studiò con attenzione il mio viso. Sapevo che l’unico modo per

uscirne era la sincerità.«Sara e io l’abbiamo trovata svenuta in uno sgabuzzino. Non potevo lasciarla lì. E Sara

non voleva sconvolgere sua madre. Così l’ho portata qui».Mia madre annuì pensierosa. «E cosa succederà domani, quando si sveglierà?».Deglutii e scrollai le spalle. Mia madre scosse la testa.«Evan, è impor tante che tu capisca in che situazione ti sei messo. Questa decisione ora ti

costringerà a prendere tutta una serie di decisioni ancora più difficili».«Non capisco».

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«Sei voluto intervenire quando l’hai vista così. Lo capisco. Ma cosa succederà quandolei dovrà salire sull’aereo per tornare in California? Sarai capace di lasciarla andare, nonsapendo cosa le succederà? Devi pensarci».Annuii appena, valutando le sue parole.«Devi prendere una decisione. E stavolta… devi essere tu a farlo. Non mi intrometterò».Un colpetto alla por ta attirò l’attenzione di mia madre. Io saltai giù dallo sgabello. «È

Sara».Le aprii la por ta, e Sara entrò, por tandosi dietro due valigie, con un por ta-abiti sul

braccio e una borsa di tela sull’altra spalla. Presi le borse e le sistemai su una sedia in salada pranzo.«Sara, tesoro», la salutò mia madre con un sorriso caloroso. «Ho saputo che starai da

noi stasera». Posò le mani sulle spalle di Sara e le baciò le guance.«Spero di non disturbare». Sara sorrise a mia madre, lanciandomi uno sguardo di fuoco

con la coda dell’occhio.«A ffatto. Sei sempre la benvenuta qui», la rassicurò mia madre. Poi si voltò verso di me,

e i suoi occhi azzurri incrociarono i miei, mettendomi in guardia. «Evan e Jared ti darannotutto quello che ti serve». Proprio in quel momento, come se fossero d’accordo, Jaredapparve sulla porta. «Se volete scusarmi, si è fatto tardi, e vado nella mia stanza».Mia madre si avvicinò a me, e mi chinai per baciarla sulle guance. «Non sei l’unico a

dover prendere delle decisioni», mi sussurrò all’orecchio prima di andarsene, dando unbuffetto sulla guancia a Jared.Quando mia madre se ne fu andata, Sara sbottò: «Dov’è? Voglio vederla».

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«È di sopra», la informai. Mi superò come una furia, senza neppure guardare Jared.La seguii con un sospiro. «Prendi le borse», dissi a Jared, che mi lanciò un’occhiata, ma

andò in cucina a prendere i bagagli delle ragazze.«Che le è successo alla gamba, Sara?», chiesi, prima che Sara entrasse nella stanza.Sara si bloccò. Avrei giurato che voleva dirmelo, ma non sapeva come. Finì per scuotere

la testa e aprire la por ta. Senza accendere la luce, si mise a sedere sul bordo del lettoaccanto alla sua migliore amica. La guardai dalla por ta mentre passava una mano tra icapelli corti di Emma, come per consolarla.Fu allora che lei si mosse e si girò sul fianco. Io rimasi per fettamente immobile mentre

lei apriva gli occhi vedendo Sara. «Ehi».«Ehi», rispose Sara, sorridendomi gentilmente. «Come ti senti?»«Penso di essere ubriaca», biascicai, scacciando il sonno sbattendo le palpebre,

e cercando di mettere a fuoco, anche se la vodka mi stava rendendo le cosedifficili.«Penso anche io», annuì Sara. «Non è stata una bella giornata, eh?»«Non è una bella vita», ridacchiai, senza ironia. Mi tirai le lenzuola sul naso e

respirai. Avevano un odore così buono. Così… pulito. Mi tirai su a sedere,terrorizzata.La stanza buia cominciò a prendere forma attorno a me. Guardai il copriletto

bianco con i fiori rosa.«Oh cavolo, no!», urlai. «Sara, che cazzo ci faccio qui?!».«Rilassati, Em», Sara provò a calmarmi, mettendomi una mano sulla spalla per

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farmi stare ferma nel letto. «È solo per una notte».«Oh, no, no, no», ripetei, scuotendo la testa. La stanza cominciò a girare intorno

a me, non riuscivo a tenere su la testa. Crollai di nuovo sul cuscino. Fu allora chevidi la sua sagoma sulla porta. «Non dovrei essere qui», strillai. «Non dovreiessere nel passato».«Lo so», sussurrò gentilmente Sara, accarezzandomi i capelli dietro l’orecchio.

«Andrà tutto bene. Sono in fondo al corridoio se hai bisogno di me».Lottai per tenere gli occhi aperti, insistendo perché che mi portasse via. Ma non

riuscivo a pensare. Dovevo eliminare quella sensazione di nausea. Chiusi gliocchi.Sara rimase seduta ancora un po’ accanto a Emma per accer tarsi che stesse davvero

dormendo. Poi si guardò attorno e mi fissò con rabbia. Io indietreggiai nel corridoio.Sara si chiuse la por ta alle spalle e si voltò verso di me. «Te l’avevo detto che era un’idea

pessima». Si passò le mani sul viso, con l’aria improvvisamente esausta. «Come hai fattoa convincermi? È l’ultima cosa di cui ha bisogno».«L’ultima cosa di cui ha bisogno? Che cosa cazzo le è successo, Sara?! Come hai potuto

lasciare che iniziasse a bere?!», sbraitai, in modo aggressivo.«Cosa? Lo so che te la prendi con me per questi due anni, ma non provare a darmi la

colpa di questo! Se l’hai por tata qui per ferirla in qualche modo, allora ce ne andiamo!Non lascerò che tu la metta nei guai più di quanto non lo sia già, Evan!».Chinai il capo. «Mi dispiace. Non avrei dovuto dirlo». Inspirai a fondo, cercando di

calmare la rabbia che mi tendeva i muscoli. «E non lo faccio per ferirla».

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Sara lasciò andare un sospiro teso.«Te ne ha parlato?», chiesi con cautela. «Del suicidio di Rachel?»«Parla mai di qualcosa?», ribatté Sara con un sospiro esasperato. «E non le abbiamo

ancora detto tutti i par ticolari. Non era esattamente… in sé quando sono andata aprenderla in aeroporto, ieri».«Quindi questa sbronza non è una novità?», domandai, osservando gli occhi azzurri di

Sara che evitavano i miei, e leggendovi più di quanto non stesse dicendo. «Pensi cheabbia un problema?»«Un problema con l’alcol?», Sara scrollò le spalle. «Evan, Emma ha un problema con la

vita». Scosse la testa e fece per andarsene. «E comunque non è con te che dovreiparlarne».«Perché no?», la s fidai. «Perché non posso sapere? Non mi merito almeno questo?

Dimmi cosa le è successo, Sara!».Sara si girò a guardarmi, con gli occhi tristi e colmi di lacrime. «È solo… tormentata»,

disse, con voce rotta. «E non so proprio come aiutarla». Si voltò con le spalle chine inavanti, sparendo dietro la por ta della stanza degli ospiti. Rimasi in piedi nel corridoio, aguardarla, lasciando che tutto quello che mi aveva detto mi riecheggiasse in testa.Serrai i pugni, lottai contro il dolore e la rabbia che mi imperversavano dentro. Mi voltai

verso la por ta di Emma e misi le mani sullo stipite, chinando la testa. «Non capisco.Perché sei andata via con lui, Emma?», sussurrai, e poi andai verso la mia stanza in fondoal corridoio.Rimasi steso sul letto per buona par te della notte con le mani dietro la testa, fissando il

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soffitto scuro, cercando di decidere cosa avrei fatto quando il sole ci avrebbe por tato ilnuovo giorno.Aprii gli occhi. La stanza era ancora buia. Pensai di richiuderli, ma dovevo

andare in bagno. Mi lamentai e mi tolsi di dosso le pesanti coperte. Ero in casa diEvan. Nella stanza degli ospiti con i fiori. “Merda”. Mi lamentai di nuovo e uscii dalletto. I miei piedi entrarono in contatto con il freddo pavimento di legno.Non avevo bisogno di accendere la luce, sapevo esattamente dov’era il bagno,

anche se le mie gambe non erano molto ferme, e sentivo ancora la vodkascorrermi nelle vene.Quando tornai, fissai il letto.«Come va il ginocchio?»«Non sei venuto qui a chiedermi del ginocchio».Riuscivo praticamente a sentire la sua mano sfiorarmi la gamba.Non potevo assolutamente stendermi di nuovo in quel letto.Camminai in silenzio sulle assi di legno del pavimento e aprii la porta, sbirciando

nel corridoio. Era buio e silenzioso. Mi fermai davanti alla sua porta. A vederla, misi strinse il cuore.«Non dovrei essere qui», mormorai mentre scendevo la scala a chiocciola.Le scale scricchiolarono fuori dalla mia por ta. Mi misi a sedere restando in ascolto. Lei

era sveglia. Scesi dal letto, attento a non fare rumore. Pensai di averla sentita parlare, maera appena un sussurro e forse me l’ero immaginato.Aprendo leggermente la por ta, vidi la sua ombra sparire giù per le scale, in fondo al

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corridoio. La seguii.I profumi familiari di casa Mathews mi risvegliarono i sensi, e il mio cuore mi

tradì prendendo a battere forte. Dovevo andarmene da quella casa. Adesso.Entrai in cucina e aprii la porta che conduceva al portico sul retro. La brezza

frusciava tra gli alti fili d’erba che si estendevano nel giardino e verso i boschi.Quando mi voltai verso i gradini, il mio sguardo incrociò la magnificenza di unagrande quercia. E, dondolando appesa ai suoi rami, c’era l’altalena.Sentii un nodo in gola e lasciai andare un sussulto. Scacciai le lacrime e lasciai

che l’erba bagnata mi accarezzasse i piedi nudi, attratta dall’albero. Passai lemani lungo la corteggia ruvida e ispezionai i rami che danzavano sulla mia testa,mentre un vento leggero li agitava.«Ho sempre amato questo albero», dissi a me stessa ad alta voce, rassicurata

da quel contatto.Ho sempre amato quell’albero, pensai tra me e me mentre la guardavo passare le dita sul

tronco. I suoi occhi si alzarono per guardarlo tutto. Anche a lei era sempre piaciutoquell’albero, e l’aveva reso il luogo perfetto per l’altalena che avevo costruito per lei.L’altalena che avevo sperato la portasse a tornare qui. Da me.Trattenni il respiro quando la vidi afferrare le funi tra le mani e sollevarsi sulla tavola

instabile. Per un istante, alla luce della luna, pensai di vederla sorridere.Lottai contro l’impulso di andare lì, a parlarle. Nonostante la gioia che irradiava mentre

si spingeva con le gambe, dovevo ricordarmi che non voleva essere qui. Che la suaespressione sarebbe cambiata se mi avesse visto. Quindi rimasi sul por tico, a guardarla

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mentre volava sempre più in alto tra i rami.Respirai la fresca aria della notte, sentivo i grilli frinire nei campi mentre

assaporavo il ritmo del dondolio, aumentando velocità e altezza. I capelli micoprivano il viso e si scostavano velocemente mentre continuavo a dondolarmi.Chiusi gli occhi e mi chinai all’indietro, raddrizzando le braccia e abbassando latesta fino a sfiorare quasi il terreno. Un guizzo mi attraversò lo stomaco. Le mieguance si sollevarono in un sorriso.Continuò a dondolare all’ombra della quercia, chinandosi tanto indietro che sembrava si

sarebbe rovesciarsi. Il vento le gonfiava la gonna quando stendeva le gambe. Sorrisi aquell’immagine familiare. Un brivido caldo mi attraversò. Mi appoggiai alla por ta aper tadella veranda, incrociando le braccia.Quella era la ragazza che conoscevo. La ragazza che avevo amato. E anche se non

sapevo cosa le fosse successo, ero certo di doverlo scoprire.

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I

17Non è più la stessa

l sole mi stava accecando quando mi svegliai sulla poltrona di vimini. Mi ci volle unistante per capire dov’ero, ma appena me ne resi conto, saltai in piedi. Emma. Aprii la

por ta e andai velocemente sull’altro lato del cor tile, oltre la piscina e il cancelletto dilegno.Mi fermai. Era raggomitolata nell’erba sotto la quercia, la sua pelle illuminata dalla luce

dorata che filtrava tra gli alberi. La gonna era aper ta sul prato, a coprirle le gambepiegate, e aveva le mani a pugno sotto le guance. Mi tolse il fiato. Mi irrigidii, non volevoguardarla come facevo un tempo. Non era la stessa ragazza. E neanch’io ero più lostesso.Mi avvicinai a lei. Non potevo lasciarla lì sull’erba bagnata. Mi accucciai e la sollevai

gentilmente tra le braccia.

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Lei si lamentò un po’, ma non si svegliò quando la por tai nella stanza degli ospiti e lamisi a letto. Non mi fermai a guardarla dormire. Sapevo che dovevo prepararmi alla suareazione quando si sarebbe finalmente svegliata – sobria e… imprevedibile.

***Ero di nuovo nel letto. Al più piccolo movimento mi faceva male dappertutto. Mi

sembrava di aver dormito sulle rocce. Emisi un lamento e mi passai una mano sulviso.Il mio telefono vibrò. Lo cercai a tentoni, trovandolo sul bordo del letto dentro la

borsa.«Pronto?», borbottai.«Come ti senti?», chiese Cole all’altro capo.«Mi sento morire», dissi con voce roca, coprendomi gli occhi con il braccio. «Non

è troppo presto per te?».«Sapevo che saresti andata presto in chiesa», spiegò. «Volevo sentire se era

tutto a posto. Ti ricordi di avermi chiamato ieri?».Non riuscivo a pensare. Nulla penetrava tra i frammenti di dolore che mi

scheggiavano la testa. «Ho detto qualcosa di stupido?».Cole fece una risatina. «Vengo a prendere te e Sara all’aeroporto di Santa

Barbara domani. Le ragazze hanno preparato le tue cose e poi ci verranno atrovare lì domani sera. Chiamami più tardi se puoi».«Ok», risposi, senza capire davvero. «A domani».Buttai il telefono nella borsa, preoccupata all’idea di cambiare posizione. Poi un

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fiotto di saliva mi riempì la bocca, e mi si chiuse lo stomaco. Lottai per mettermiin piedi e barcollai in bagno appena in tempo per vomitare nel gabinetto,crollando sulle ginocchia tremanti.Appoggiai la testa sulla fredda porcellana, tenendo gli occhi chiusi per impedire

alla fioca luce di penetrarmi nelle pupille e nella testa dolorante.«Emma?», chiamò Sara dall’altra stanza. «Emma?», sentii la porta del bagno

aprirsi. «Oh Dio, Emma», la sentii sussultare, ma non riuscivo ad alzare la testaper guardarla. «Dobbiamo prepararci».«Lasciami qui a morire», supplicai. Un’altra ondata di nausea mi attraversò con

un sudore freddo, e allungai la testa con lo stomaco in fiamme.Sara era accanto a me, che mi passava la mano fredda sulla fronte umida.La porta della stanza degli ospiti era socchiusa. «Sara?», bussai leggermente, sentendo la

voce di Sara in lontananza. «C’è qui l’auto che vi deve portare in chiesa».«Siamo qui», mi chiamò Sara. Entrai con cautela, non sapendo cosa avrei trovato.«Merda», dissi senza controllarmi quando vidi Sara a gambe incrociate sul pavimento

del bagno accanto a Emma, in ginocchio, bianca come un fantasma.«Riesce ad alzarsi?».«Shh», supplicò Emma, con una smorfia. «Non così forte».Sospirai e dissi piano: «Sara, che vuoi fare? Vi aspettano in chiesa tra quaranta minuti».«Lo so», disse Sara con espressione addolorata. «Mmm… la metto sotto la doccia. Puoi

chiamare mia madre e dirle che ci vorrà un altro po’?»«Cer to», risposi, osservando un’ultima volta la scena prima di uscire dalla stanza. Chiusi

la porta, stringendo con forza la maniglia.

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«Forza, Emma. Proviamo ad alzarci», chiese Sara con gentilezza, mettendosilentamente in ginocchio. Io costrinsi il mio corpo a seguirla, con le mani che mitremavano mentre mi aggrappavo al bordo della vasca.Sara mi aiutò a togliermi il vestito e la fasciatura dalla gamba mentre mi infilavo

nella vasca, troppo debole per essere d’aiuto in qualche modo.«Mi fa tanto male la testa».«Quando è stata l’ultima volta che hai mangiato?», chiese Sara, sfilandomi il

reggiseno.Scrollai le spalle, perché sinceramente non ricordavo di aver mangiato nulla da

quando ero salita sull’aero in California.L’acqua calda mi risvegliò mentre Sara mi passava il tubo della doccia su tutto il

corpo.«Tieni», mi passò una saponetta. La strinsi tra le mani prima di insaponarmi alla

cieca.«Ho chiamato tua madre», urlò Evan dall’altra stanza. «Ha detto di avvertirla

quando uscite. Ci vediamo in chiesa».«Evan», chiamò Sara, abbandonandomi nella vasca con il tubo della doccia a

penzoloni, che mi bagnava le gambe.«Lo so che non hai motivo per farlo, ma ho bisogno del tuo aiuto», disse Sara di getto,

con la tristezza che le appesantiva gli occhi solitamente allegri.«Che ti serve?», chiesi, controllando la mia voce.«Dobbiamo por tarla in chiesa, e non penso che ce la farà da sola, o che ce la farò io.

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Rimani con noi? Ti va di aiutarmi?».Annuii, incapace di dire una parola. Serrai la mascella, comprendendo che Emma era in

condizioni molto peggiori di quanto avessi immaginato. Alla fine dissi: «Mi trovinell’ingresso. Fammi sapere quando hai bisogno».«Pensi di poter trovare qualcosa per il mal di testa, e magari anche qualcosa da

mangiare? Sono due giorni che non mangia». La voce di Sara sembrava molto fragile.Annuii di nuovo e lasciai la stanza.Quando chiusi la por ta, ero accecato dalla rabbia che aveva iniziato a montare quando

l’avevamo trovata sul pavimento dello sgabuzzino. Non sapevo nemmeno con chi eroarrabbiato, ma non potevo negare che dal momento in cui l’avevo vista, tutto mi erasembrato sbagliato.Scesi le scale e andai in cucina, dove trovai Jared che aiutava mia madre a infilarsi la

giacca. Mi fermai e provai ad allentare i pugni stretti.«Analise, che ci fai qui?», chiesi, vedendo la ragazza sulla porta.Lei mi guardò con grandi occhi tristi. «Sono venuta per te». Rivolse uno sguardo a mia

madre, non voleva parlare davanti a lei.«Va tutto bene di sopra?», la voce di mia madre era calma, ma increspò la fronte,

informandomi che era a conoscenza del guaio in cui mi trovavo.«Sì», risposi lentamente. «Tutto sotto controllo».«Be’, Jared e io dobbiamo fare una sosta prima di andare in chiesa. Ci vediamo lì?». Si

allungò verso di me in modo che potessi chinarmi e ricevere un bacio sulla guancia.«Non ci vorrà molto», le dissi, lanciando di nuovo uno sguardo in direzione di Analise,

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nel tentativo di mantenere la calma.Jared tenne gli occhi a terra mentre usciva di casa con mia madre. Potevo solo

immaginare quali pensieri gli passavano per la testa.Mi voltai verso Analise. «Non ho ancora capito perché sei qui – oggi, specialmente».«Mi dispiace di non essere venuta alla veglia ieri sera», disse piano, facendo un passo

verso di me. Allungò una mano come per toccarmi, ma la abbassò di nuovo quando notòle mie spalle indietreggiare. «Non pensavo ci saresti andato».«Davvero? E io non ho pensato nemmeno per un secondo di non andarci».Lei abbassò lo sguardo, senza capire bene la por tata di quella frase. «Pensavo… pensavo

che non volessi avere più niente a che fare con lei».Non dissi nulla. Quella era stata la verità, un tempo. E Analise lo sapeva meglio di tutti.

Ero arrabbiato, ferito, e confuso, ecco perché avevo detto ripetutamente che non volevopiù avere a che fare con Emma. Che non volevo più rivederla. Ma…Appena mia madre mi aveva dato il permesso di riprendere a viaggiare, permettendomi

di stare a poche ore di distanza da Emma senza che lei lo sapesse – quei pensieri avevanocominciato a cambiare.«Analise, seriamente, cosa vuoi?». Lei sollevò la testa, sorpresa per il mio tono. «È dalla

scorsa estate che non ci sentiamo. Non capisco perché sei qui, se non perché hai saputoche Emma è a Weslyn».Gli occhi di Analise luccicarono mentre sporgeva il labbro inferiore leggermente. «Non

voglio che ti ferisca di nuovo. Ero preoccupata per te, e ho pensato… ho pensato cheavessi bisogno di un’amica. Perché ci tengo ancora a te, Evan. E speravo di essere

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quell’amica per te, come prima».Improvvisamente, mi sentii in colpa per quel tono impaziente. Sapevo che lo faceva per

me, ma questo non significava che la volessi lì in quel momento. «Non penso chepotremo essere di nuovo amici, Analise. Non dopo quello che è successo. Mi dispiace».Lei annuì, provando a trattenere le lacrime. «Ti distruggerà, Evan». Mi voltò le spalle e

sparì oltre la porta della cucina.Evan apparve sulla soglia con del latte di cocco in una mano, e una boccetta di

aspirina e un muffin nell’altra. Si fermò quando mi vide seduta sul letto mentreSara mi allacciava gli stivali, che mi coprivano la gamba sbucciata. Avevo paurache mi avrebbero graffiato, ma la pressione in realtà mi faceva stare meglio.Lo guardai mentre metteva le cose sul comodino. Non mi guardò. Se il mio viso

avesse rispecchiato quello che sentivo, allora doveva essere peggio della morte.«Pronta?», chiese a Sara.Sara si alzò per osservarmi, come se fossi un oggetto inanimato. «Penso di sì.

Non so cosa fare per i tuoi occhi, Em. Sono gonfi e rossissimi». Mi guardò ancoraper un istante. Poi prese la sua borsa e ne estrasse un enorme paio di occhiali dasole neri. «Tieni, metti questi».Me li infilai e sentii un immediato sollievo, la luce mi abbagliava. Sara mi passò

due pillole, che buttai giù con il latte di cocco. Mi porse il muffin, ma io scossi latesta con una smorfia, sentendo lo stomaco che si chiudeva solo al pensiero dimangiarlo.«Devi mangiare prima o poi», disse con fermezza Sara.

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«Non ci riesco». Rabbrividii, respingendo un conato.«Riesci a stare in piedi?», chiese Sara.Annuii, alzandomi con cautela, aggrappata al suo braccio. Evan fece una mossa

nella mia direzione quando inciampai, ma si fermò quando vide che avevoritrovato l’equilibrio. Ci fece strada fuori dalla stanza mentre io mi sorreggevo albraccio di Sara.Per quanto cercassi di evitarlo, non riuscivo a non guardarlo. Una parte di me

era convinta che non fosse reale. Sembrava lo stesso, a parte forse un po’ più…muscoloso. Ma, essenzialmente, esattamente lo stesso. Composto e maturo in unvestito a tre pezzi che lo faceva assomigliare a un modello sulla copertina di«GQ». Forse era quello che stava succedendo. Ero seduta sull’aereo, a leggere«GQ», e questo era solo un sogno.Poi una fitta di dolore mi riportò alla realtà. Ero lì, a Weslyn – per seppellire mia

madre. Le ginocchia mi cedettero, e caddi a terra. Sara urlò, ed Evan corse su perle scale, per sostenermi.«Stai bene?», le chiese Sara. Il corpo di Emma era fragile e inanimato fra le mie braccia.«Sì», mormorò, sedendosi. «Ho solo avuto un improvviso giramento di testa. Mi

dispiace».«Emma, mi stai spaventando», disse Sara, dandole la mano. «Sei sicura di stare bene?».Emma annuì leggermente. Continuava a guardarmi, ma con quei grandi occhiali che le

coprivano gli occhi, non avevo idea di cosa stesse pensando. Quando afferrò di nuovo ilbraccio di Sara, io le presi l’altro per sostenerla meglio, e riuscimmo a scendere le scale.

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Se negli ultimi due giorni aveva ingerito solo vodka, probabilmente era disidratata, inipoglicemia. Come diamine potevamo sopravvivere a un’intera messa senza che svenisse?«Emma, riusciresti a bere almeno quel latte di cocco prima di andare in chiesa?».Era la prima cosa che mi diceva da quando ero arrivata. Annuii leggermente e

cercai di mantenere un ritmo cardiaco normale sentendo il suo braccio sotto ilmio. Non volevo stare così vicina a lui, toccarlo, sentire il suo odore dolce e pulitoche mi faceva sentire la testa ancora più leggera. Ma sapevo anche che il miocorpo mi stava abbandonando, ribellandosi all’abuso a cui l’avevo sottopostonegli ultimi giorni, e non sarei stata in grado di reggermi in piedi se Evan miavesse lasciato andare.L’auto a noleggio parcheggiò davanti alla pittoresca chiesa bianca con la guglia

e le vetrate colorate. Il direttore delle pompe funebri si avvicinò all’auto quandosi aprì lo sportello. Ogni muscolo del mio corpo si rifiutava di muoversi per farmientrare in quella storica chiesa del New England per assistere all’omelia inmemoria di mia madre. Il panico mi trattenne all’interno dell’auto.Sara scese e mi afferrò la mano. «Stai per vomitare?».Scossi la testa. Evan fece capolino nell’auto.«Che c’è?», chiese gentilmente Sara.«È morta». Mi tremava la voce. Afferrai gli occhiali da sole tra le mani,

premendomeli sugli occhi e cercando di trattenere le lacrime. «Oh mio Dio, ohmio Dio, oh mio Dio. È morta». Il nodo in gola si fece ancor più grande, e pensaidi non riuscire più a respirare.

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Chiusi gli occhi per non far uscire le lacrime. Sara mi accarezzò la mano. Inspiraiprofondamente dal naso e lasciai andare l’aria dalla bocca per farla uscire. Ilpanico cominciò a dissolversi.«Sto bene», dissi a Sara, incoraggiandola a uscire dall’auto.«Ce la puoi fare», mi rassicurò lei, prendendomi di nuovo la mano quando uscii

dall’auto. «Ti starò accanto tutto il tempo». Potei solo annuire.Evan mi offrì di nuovo il braccio, io lo presi e mi ci aggrappai.Era la prima volta che la vedevo reagire alla mor te di sua madre – e non potevo farci

niente. Le rimasi accanto e la aiutai a salire le scale, dove ci aspettavano i McKinley. Annaabbracciò Emma e le sussurrò qualcosa all’orecchio prima di scortarci in chiesa.La presa di Emma si fece più for te, e riuscivo a sentire il panico crescere in lei mentre

superavamo la soglia. D’istinto, misi la mano sulla sua e mi concentrai su ogni suo passo,con l’intenzione di darle forza, visto che la sua continuava a scivolare via.Mi sedetti accanto a lei in prima fila, con Sara dall’altro lato. I genitori di Sara erano

seduti all’estremità del banco. Emma si spostò da me, mi lasciò il braccio e si appoggiò aSara, posandole la testa sulla spalla. Chinai la testa, comprendendo che non ero io quellodi cui aveva bisogno in quel momento di necessità.Cominciò la funzione, e i mormorii cessarono. Non la guardai mentre il sacerdote

pregava e degli estranei dicevano parole gentili su una donna che non le meritava.Il sacerdote tornò sul pulpito e disse: «Ora mi piacerebbe invitare la figlia di Rachel,

Emma, a dire qualche parola».Mi bloccai e mi voltai verso Sara, che aveva spalancato la bocca e mi guardava

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scioccata.Emma si alzò lentamente e si avvicinò alle scale che portavano al pulpito.«Oh, no», mormorò Sara accanto a me.«Sai cosa dirà?», chiesi, incapace di respirare regolarmente.«Ho paura di scoprirlo», sussurrò Sara, senza togliere gli occhi da Emma.Mi tremavano le mani quando presi posto dietro il pulpito drappeggiato di nero.

Lanciai uno sguardo verso Sara e mi ricordai improvvisamente della sua supplicadisperata.Ti ha fatto del male, Emma, e non solo una volta. Adesso puoi lasciarla andare.

Non permettere che ti faccia male di nuovo.Spostai la mia attenzione ai volti tesi che attendevano le mie parole. Parole che

non avevo preparato. Quindi decisi che in quel momento sarei stata… sincera.«Non vorrei essere qui». La mia voce uscì distorta e a malapena udibile.

«Nessuno di noi dovrebbe essere qui». Mi schiarii la voce e guardai di nuovoverso Sara, i cui grandi occhi spalancati seguivano ogni mia mossa mentrestringeva il banco di fronte a lei.Non può continuare a ferirti e a usarti come un punching ball emotivo. Quante

volte devi perdonarla prima che ti distrugga?«Non sarei in grado di fare una lista di tutti i modi in cui mi madre mi ha

modellata. Sono la persona che sono a causa sua, e ogni giorno mi sveglioricordandomi come ha contribuito alla mia esistenza. Non le perdono…», mifermai, schiarendomi di nuovo la voce mentre serravo i denti, «…questa morte

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prematura, causata da un destino crudele. Le tragedie sono fin troppo familiariper noi due. È stata una tragedia a portare via mio padre molti anni fa. Lei havissuto buona parte della sua vita soffrendo. Una sofferenza a cui ho assistito peranni senza poter fare nulla. Alla fine non è riuscita a sopportarla, e non sapevacome liberarsene. Forse ora troverà la pace che ha cercato per tutta la vita, orache è finalmente con lui».Riguarda te. Ha sempre riguardato te – cosa vuoi, cosa provi, con chi vuoi stare.

Perché continui a essere ossessionata da un uomo che non ti ha mai amata?Staccai le mani dalla presa immobile del pulpito. Rifacendo le scale verso i

banchi, sentii tremare tutto il corpo. I McKinley si alzarono per farmi sedere, maio abbassai la testa e continuai a camminare.«Dove va?», sussurrò Sara, nel panico.«Non lo so», risposi, seguendola con lo sguardo come tutti gli altri in chiesa mentre si

dirigeva verso il por tale alla fine della navata, e lo apriva. Le por te si chiusero alle suespalle.«Passa dalla navata laterale», dissi a Sara. Tra i banchi i presenti cominciarono a

bisbigliare tra loro, chiedendosi che cosa stesse succedendo.Seguii Sara sul tappeto scuro verso il retro della chiesa mentre il tono autorevole del

sacerdote riportava l’attenzione al pulpito, dove cominciò a recitare le scritture.Uscimmo dalle pesanti por te di legno verso i gradini di pietra. Il sole era incredibilmente

luminoso in confronto all’oscurità che c’era in chiesa. Mi riparai gli occhi cercandoEmma.

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L’auto a noleggio era sparita.

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A

18Ancora lì

prii la por ta me la chiusi piano alle spalle. Lei continuò a fissare la grande finestra,abbracciandosi le gambe, seduta sul davanzale.

Saltai su uno sgabello, senza badare a niente tranne che a lei. Emma si girò verso di me,aveva gli occhi così seri e pieni di un dolore che mi spezzò il cuore.«Non dovresti essere qui», disse, con voce piena di dolore. «Non dovresti essere tu a

trovarmi».Il tono velenoso della sua voce mi impedì di muovermi. «Ma io sono l’unico che sapeva

che saresti stata qui».Emma chiuse gli occhi, e io riuscii a vedere i muscoli del suo viso tendersi mentre

cercava di combattere le emozioni che affioravano in super ficie. Volevo dirle di lasciarleuscire. Di smettere di combatterle.

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«So perché hai sentito il bisogno di andartene», le dissi.Lei cominciò a scuotere la testa, come se volesse staccarsela.«Non piangerò per lei», disse con voce rotta. «Non piangerò per lei». Deglutì a fatica.

«Non merita le mie lacrime. L’ha fatto lei. L’ha scelto lei. Non riuscirà a farmi piangereper lei». Tutta la sua figura si contorceva per il dolore e la rabbia, tremava, nel tentativo diallontanare tutto quel dolore.Feci un passo avanti, lottando contro l’impulso di stringerla, di rassicurarla. Rimasi

invece a distanza. Non era per quello che mi trovavo lì.Emma si immobilizzò, e affondò il viso tra le ginocchia. Sollevò la testa con gli occhi

chiusi, respirando gli odori che aleggiavano nell’aula di ar te. Aspettai che aprisse gliocchi, e scoprisse che ero ancora lì.«Sei venuto per accompagnarmi da Sara?», chiese, con la voce calma e lo sguardo

spento. Annuii, sorpreso dalla sua trasformazione.«Ho mandato l’auto a noleggio in chiesa a prendere Sara».«Ok», sospirò. «Andiamo».Uscii di corsa dalla porta senza guardare nessuno dei volti che affollavano il

primo piano. Strinsi la busta di carta bianca tra le mani e corsi su per le scale.«Vi siete fermati a comprare degli hamburger?», sentii Sara che chiedeva a

Evan.«Che c’è? Non mangia da due giorni. Quindi, sì, ci siamo fermati a comprare

degli hamburger». La sua voce svanì mentre salivo le scale.Crollai sul divano bianco della sala giochi di Sara, frugando nella busta in cerca

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di un hamburger e scovando le poche patatine che non avevo mangiato inmacchina. Non ricordavo di essere mai stata così affamata.«Ti senti un po’ meglio?», chiese Sara quando mi raggiunse.Annuii, con la bocca piena di hamburger unto: avrei giurato che fosse la cosa più

buona che avessi mai mangiato. Mi ripulii le labbra dal ketchup e presi un sorso disoda.«Mi dispiace», dissi a Sara quando si sedette accanto a me.«Per cosa?», chiese, come se non avesse idea di cosa stessi dicendo.«Dici sul serio?», sbottai. «Negli ultimi due giorni non ho fatto che comportarmi

da pazza egoista. E tu hai dovuto pararmi il culo per tutto il tempo, prendendoticura di me in ogni istante. Mi dispiace tanto di essere un’amica così terribile».Sara scosse la testa, dandomi un colpetto con la spalla. «Avevi bisogno di me. E

io ero lì per te. È così semplice. Ma preferirei se non bevessi… mai più».Feci una risatina. «Senz’altro non toccherò più la vodka, questo è certo».«Neanch’io», sorrise Sara. «E mi dispiace per… sai…». Mi guardò con attenzione,

senza riuscire a terminare. «Per quello che ti ho detto al motel… e per avertiportata da Evan».«Non dobbiamo parlarne», dissi, prendendo un altro morso di hamburger, senza

riuscire a smettere di chiedermi dove fosse lui. Se fosse rimasto di sotto, o sefosse già andato a casa.«Grazie. Ti sono molto grato per l’aiuto», dissi prima di riagganciare. Mi voltai e trovai

Jared dietro di me.

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«Chi era?», chiese, guardando il piatto che Anna mi aveva offer to appena arrivato e cheera ancora intatto. «Non lo mangi?»«Serviti pure», lo incoraggiai. «Sono sorpreso di trovar ti qui». Cercai di ignorare la sua

domanda iniziale.«Che vuoi dire?», chiese, sedendosi al tavolo di vetro nel por tico coper to, affondando il

viso nel pane all’aglio.«Sei a casa di Sara», spiegai. «È… coraggioso da par te tua. Far ti vedere da queste

parti».«Penso che suo padre stesse per sbattermi la porta in faccia quando mi ha visto».Risi.«Che c’è, pensi di guadagnare punti rimanendo qui e aiutando a sparecchiare?»«Non voglio forzare le cose», disse, attaccando una fetta di lasagna.«Allora… ti dispiacerebbe accompagnarmi in aeroporto, domani?».Accartocciai la busta di carta e appoggiai la testa sul divano.«Eccoti qui», sentii dire da Anna in corridoio. Mi voltai e vidi che camminava

verso di noi. «Sara, ci lasceresti sole per un minuto, per favore?».Il mio stomaco prese a vorticare alla sua richiesta, ero a disagio.«Sono di sotto», mi disse Sara, cedendo il posto sul divano a sua madre.«Vieni qui, Emma», Anna mi invitò ad appoggiarmi a lei, con le braccia

spalancate. Sentii il cuore battermi forte quando mi appoggiai a lei,permettendole di avvolgermi nel suo abbraccio. Inspirai il suo elegante profumofloreale e chiusi gli occhi quando mi passò le dita tra i capelli corti. «Questi ultimi

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giorni sono stati molto difficili per te, e mi dispiace tanto».Deglutii, incapace di dire una parola.«Ci prenderemo cura di te», mi sussurrò, baciandomi dolcemente sulla fronte.

«Penso che dovresti parlare con qualcuno di quello che ti sta succedendo, però.Posso solo immaginare cosa provi».Rimasi in silenzio, per niente tentata di esplorare la gamma esplosiva di

emozioni che mi stava facendo a pezzi.«Sono sempre preoccupata per te», proseguì. «Non so come farti sentire al

sicuro. E, come madre, è tutto quello che voglio per te e per Sara. Che vi sentiateal sicuro e amate».«È così», sussurrai. «Mi sento sempre così quando sono a casa tua».«Vorrei che ti sentissi così anche quando te ne vai».Rimanemmo sedute in silenzio un altro po’, io con la testa appoggiata al suo

petto, ascoltando il suo cuore. Le sue braccia sottili mi trattennero con una forzache mi fece sentire al sicuro e amata.«Posso chiederti una cosa?», dissi a bassa voce.«Ma certo», mi incoraggiò.«Si è… si è davvero impiccata?», chiusi gli occhi, in attesa di una risposta.«Sì, Emma», rispose Anna, gentile ma decisa.«Dove?»«A casa sua, a Decatur Street».L’aria mi uscì dai polmoni. «Alla balaustra?»

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«Sì».Mi si strinse il petto, come se non ci fosse spazio per respirare. Come se stessi

soffocando per il dolore.«Ha sofferto?»«No», sentii sussurrare Anna, con voce rotta.Mi tirai indietro per guardarla, e le lacrime mi scesero sul viso.«Perché?», chiesi, con gli occhi che mi bruciavano ogni volta che sbattevo le

palpebre.Anna scosse la testa. «Non lo so. Non ha lasciato nessun biglietto. Ma anche se

lo avesse fatto, non so se sarebbe stata davvero in grado di spiegare perchéaveva deciso di togliersi la vita. Mi dispiace tanto, Emma».«Grazie», risposi, con il mento che tremava. Osservare il dolore di Anna era

quasi troppo da sopportare. «Sei stata sempre così buona con lei… in ogni cosa. Egrazie per quello che hai fatto negli ultimi giorni. So che non sono stata di moltoaiuto, e mi dispiace».«Non scusarti», insisté Anna, asciugandosi le guance e sospirando dalle labbra

chiuse. «Carl e io ci teniamo a te. E ti aiuteremo».«Grazie», ripetei.«Devi tornare in California domani?».Annuii.«Lo so», rispose con triste comprensione. «Ma penserai alla possibilità di parlare

con qualcuno, come ti ho chiesto?».

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Annuii di nuovo, sapendo che non l’avrei fatto.«Grazie per tutto quello che hai fatto oggi», mi disse Sara sedendosi accanto a me

sull’enorme divano nella sala giochi dei McKinley. «Lo so che è stato difficile anche perte».Rimasi in silenzio per un istante. «Già, non è stato facile», risposi con calma. «Faresti

una cosa per me, in cambio?»«Cosa?», chiese, socchiudendo gli occhi, sospettosa.«Fatevi accompagnare in aeroporto da me e Jared domani».Sara mi fissò, cercando di capire se ci fosse un secondo fine dietro la mia richiesta.

Ovviamente c’era.«Perché?», chiese, sospettosa.«Voglio solo assicurarmi che stia bene prima che ripar ta». Era una risposta abbastanza

sincera.«Capisco», rispose, esitando. «Ma Emma e io ci siederemo dietro… da sole».Provai a non sorridere. «Va bene».

***«Che ci fate qui?», sentii Carl praticamente ringhiare in fondo alle scale. Scesi

giù di corsa l’ultima rampa e inciampai sui gradini vedendo Evan. Il suo sguardo sispostò verso di me, allarmato, ma quando vide che non ero caduta, le sue labbrasi allargarono in un sorriso mozzafiato – lo stesso che mi aveva accolto alla finedi quelle stesse scale più volte di quante ne potessi contare.«Ehi», disse, spostando lo sguardo mentre continuavo a fissarlo.

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«Che succede?», chiesi, guardando Carl, che sembrava sorpreso quanto me divedere Jared ed Evan sulla porta.«Le nostre borse sono in soggiorno», annunciò Sara saltellando giù per le scale,

ignorando il mio sguardo accigliato e l’espressione interrogativa di suo padre.«Oh, ho dimenticato di dirtelo, papà. Non c’è bisogno che ci accompagni inaeroporto».«Lo vedo», rispose, ancora preoccupato. «Sei proprio sicura?»«Sì, va tutto bene», disse Sara con leggerezza, baciando suo padre sulla guancia

con un sorriso. Poi la sentii sussurrargli all’orecchio. «È solo un passaggio inaeroporto».Lui la baciò, poi spostò la sua attenzione su Jared, con gli occhi socchiusi, a mo’

di minaccia.Jared sorrise a disagio ed entrò a prendere le borse.«Che diavolo hai in mente?», le sussurrai quando si mise sulle spalle la sua

borsa.«È un passaggio, Emma. Non ti preoccupare. Tra meno di un’ora sarà finita»,

sorrise, rassicurante. Io però sentii lo stomaco contorcersi, sapevo che stavasuccedendo qualcosa.Superai Evan e seguii Sara fuori dalla porta dopo aver abbracciato Anna e Carl.Il suo viso aveva ripreso il solito colorito e, anche se aveva uno sguardo ancora

sfuggente, era… bellissima. Mi risultava difficile togliermi quel sorriso dal volto dopoaverla vista praticamente cadere dalle scale quando si era accor ta di me. Una cosa era

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convincermi che non pensavo più a lei e che dovevo andare avanti, un’altra cosa eraaverla lì davanti a me.Durante il tragitto verso l’aeropor to non parlammo molto, quindi scelsi della musica per

riempire il silenzio. Notai Sara che guardava Emma con la coda dell’occhio quando mivoltai verso Jared. Sara era preoccupata. C’era qualcosa che non sapevo, qualcosa cheSara non mi aveva detto. Ero pronto per questo… anche se alla fine sarei stato ancorapeggio? Ma d’altronde, pensavo che stare peggio fosse in realtà impossibile.I miei occhi si spostarono sulla sua nuca, seguendo la linea dei suoi capelli.

Quando si voltò leggermente e scambiò uno sguardo con Sara, rividi il suo profiloperfettamente cesellato, con il lungo naso dritto, gli zigomi sporgenti e lesopracciglia ben definite. Sentivo il cuore battermi all’impazzata, e distolsirapidamente lo sguardo per evitare che il calore mi raggiungesse le guance.Potevo resistere per un’ora… forse.Quando ci fermammo sul marciapiede dell’aeroporto, Jared ed Evan uscirono

dall’auto per aiutarci con le borse. Fu allora che vidi le altre borse nel bagagliaio.«Mi stai prendendo in giro?!», urlai praticamente a Sara, convinta che ne fosse a

conoscenza. Lei ricambiò il mio sguardo confuso.Ci girammo entrambe verso Evan, fissandolo con fare accusatorio.«Te l’avevo detto che era un’idea malsana», mormorò Jared. «Te ne stanno

venendo parecchie, ultimamente».«Sta’ zitto, Jared», disse Evan sottovoce, prima di voltarsi verso di noi. «Che c’è?

Passo le vacanze con Nate a Santa Barbara».

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Sara spalancò la bocca. «Dici sul serio?»«Che problema c’è?», chiese, con fare innocente. «Voi tornate a Palo Alto, no?».

Sapevo che non era del tutto sincero. Era un terribile bugiardo.Sara sbuffò e prese le borse. «Andiamo, Emma».«Non sta succedendo davvero», le dissi, tirandomi dietro la valigia.«Non preoccuparti», mi rassicurò. «Andrà tutto bene».«Fantastico», mi prese in giro Jared, chiudendo il bagagliaio mentre le ragazze

correvano via. «Non avresti potuto essere più scontato».«Be’… prima o poi lo avrebbero scoperto, non credi?»«Hai una vaga idea di che cosa ti aspetta?», chiese, scuotendo la testa.«Non proprio», confessai, anche dopo aver passato tutta la notte a convincermi che

stavo facendo la cosa giusta. «Ma non ce l’ho mai quando si tratta di lei. Quindi perchédovrei smettere?».Jared sospirò. «Ti raggiungerò tra un paio di settimane. Hai avver tito Nate che arriverai

prima?»«Sì, l’ho sentito ieri sera. Non ci sarà nessuno a casa, ma so dov’è la chiave, non è un

problema».«Buona for tuna», disse Jared, abbracciandomi e dandomi una pacca sulle spalle. Mi

guardò di nuovo prima di salire sulla Volvo ridacchiando e scuotendo la testa.Non cercai le ragazze. Sapevo che saremmo stati sullo stesso aereo fino a Santa Barbara.

Me ne ero assicurato dopo aver visto il loro itinerario appeso sul frigo dei McKinley. Ciòche non sapevo era dove si sarebbero fermate a Santa Barbara… o con chi.

Page 244: Una Ragione Per Vivere

«La casa di Nate è in fondo alla strada dove abita Cole», dissi a Sara, con i nervia fior di pelle. Pensai che avrei vomitato di nuovo.«Che cosa?!», esclamò Sara, attirando l’attenzione dei passeggeri seduti attorno

a noi. «Perché non lo sapevo? E come fai tu a saperlo?!».«Uh… sono finita a una festa da Nate durante le vacanze primaverili, la

settimana che sono stata da Cole. Ho scoperto che ero a casa del migliore amicodi Evan e lui mi ha praticamente salvata da una notte a base di tequila».«Cazzo!», sbottò Sara. «Sto cercando di accettare il fatto che sto sentendo

questa storia per la prima volta oggi. Ma… cazzo. E… Cole conosce Nate?»«Cole conosce Evan», ammisi, fissando fuori dal finestrino.«Non ci credo!», esclamò lei. «Emma, questa…».«Sarà l’estate peggiore della mia vita», conclusi, sbattendo la testa contro il

vetro.«Non dobbiamo rimanere per forza», suggerì Sara. «Potremmo tornare a Palo

Alto quando Cole ritornerà per il trimestre estivo fra un paio di settimane».Sospirai, delusa per non poter avere un’estate tranquilla da sola con Sara come

avevo sperato. «Potremmo».«Ce la faremo», mi rassicurò. Non le credevo molto.Quando ci fermammo sulla pista d’atterraggio del piccolo aeropor to, i passeggeri

cominciarono ad alzarsi e a prendere le loro borse. Sara ed Emma erano sedute qualchefila avanti a me, quindi uscirono prima di me. Io mi sistemai lo zaino sulle spalle e midiressi verso il nastro del ritiro bagagli. Respirai l’aria calda. Mi era mancata la California.

Page 245: Una Ragione Per Vivere

I capelli di Sara erano difficili da perdere di vista. Avevo appena rintracciato le ragazzequando sentii: «Ehi, Emma». Mi bloccai sui miei passi, e il ragazzo dietro di me quasi mifinì addosso.Emma gli si avvicinò, e lui si chinò per baciarla.«Oh, cazzo», smisi di respirare per almeno un minuto, poi alla fine trovai la forza per

avanzare verso l’area bagagli: era impossibile evitarli in quel piccolo spazio.«Evan?», alzai lo sguardo e vidi Cole mi guardava incuriosito. «Non sapevo che saresti

tornato anche tu».«Ehi, Cole», risposi, cercando di mantenere una voce calma e cordiale. «Già, passo

l’estate da Nate». Passai lo sguardo da lui a Emma, che non mi guardava, e dissi. «Nonsapevo che tu ed Emma vi conosceste».Cole aggrottò le sopracciglia, cominciando a mettere insieme i pezzi. «Già», disse,

prendendo la sua borsa. «Sì. Uh, hai bisogno di un passaggio?»«Che cosa?!», sbottò Emma, con le guance paonazze.«Abita nella mia stessa strada. Ti serve un passaggio?»«Magari», risposi, sorpreso dal suo atteggiamento disinvolto. Guardai Sara e pensai che

sarebbe svenuta.Cole mise un braccio sulla spalla di Emma, e lei si voltò a guardarlo, sorpresa.Sarebbe stata l’estate peggiore della mia vita.

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S

19Dammi un motivo

battei la portiera della macchina e mi misi la borsa sulle spalle, praticamentetirandomela addosso. Mi precipitai verso la porta e abbassai la maniglia. Era

chiusa. Certo che era chiusa! Sbattei i piedi impaziente e attesi Cole, che se lastava prendendo comoda.Fissai la porta. Non guardai Cole, che mi aveva tradito di nuovo durante il

tragitto invitando Evan per un hamburger. Non guardai Evan, che aveva accettatosenza esitare. E non guardai Sara, che non riusciva a non tenere la boccaspalancata ogni volta che i ragazzi si parlavano, come se fossero vecchi amici chenon vedevano l’ora di ritrovarsi. Fissai la porta e basta, in attesa che si aprisse.Quando Cole finalmente la aprì, gli tagliai la strada e andai a mettere la valigia

nella stanza degli ospiti. Sara mi seguì.

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«Umm… dividiamo questa stanza?», chiese, esaminando il letto a una piazza emezza e tornando a guardarmi, confusa.«Uh…», balbettai.«Emma». Cole fece capolino nella stanza. «Puoi mettere le tue cose nella mia

stanza».Mi mancò il respiro. Annuii e portai la valigia in soggiorno.«Vuoi una birra?», chiese Cole a Evan.«Certo», rispose Evan con naturalezza, guardandosi attorno, passando le dita sui

puzzle nella libreria.Incapace di restare lì a guardarlo mentre toccava quelle scatole, lasciai la valigia

sul tavolo della cucina e proseguii verso la terrazza, girando una poltrona persedermi a fissare l’acqua a braccia incrociate.«Ehi», disse timidamente Sara, chiudendosi alle spalle la porta a vetri

scorrevole. «Mi dispiace di tutto questo… schifo».«Per usare un eufemismo», dissi tra i denti serrati. «Perché è qui? Non poteva

restarsene…», chiusi gli occhi. «Non è possibile che stia succedendo questo».L’equilibrio del mio mondo era sconvolto al punto che riuscivo a malapena a starein piedi.Sara si appoggiò alla ringhiera di fronte a me, spostandosi in avanti in modo che

potessi vedere le onde che raggiungevano la spiaggia.«Perché sei andata automaticamente nella stanza degli ospiti a mettere le tue

cose?», chiese.

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Alzai lo sguardo, sorpresa.«Io, uh, era lì che stavo prima»… spiegai. «Noi non… dormiamo insieme. Sara,

non stiamo insieme. Lo sai».«Giusto», annuì. «All’aeroporto non sembrava».In realtà non mi ricordavo nemmeno cosa era successo all’aeroporto tra Cole e

me. Ero troppo presa dalla consapevolezza che Evan si trovava da qualche partealle mie spalle.«Forse dovresti…», Sara si fermò. Voltò la testa, in ascolto.«Dovrei cosa?», chiesi, confusa.Fu allora che sentii: «E perché non eri al funerale?». Praticamente mi strozzai.«Lei non mi ha voluto», spiegò Cole, sempre molto più rilassato di quanto mi sembrasse

ragionevole. «Volevo esserci, ma ho rispettato la sua volontà. Così sono rimasto qui».Annuii.«E immagino che tu ci sia andato», disse, sollevando leggermente le sopracciglia.«Sì», risposi. Non avevo permesso che la volontà di Emma tenesse lontano anche me.«E lei era in un pessimo stato», concluse Cole, come se se lo aspettasse.«Qualcosa del genere», annuii lentamente, chiedendomi esattamente dove volesse

andare a parare questa conversazione.«Stanno parlando di me», sbottai, incredula. «Perché stanno parlando di me?

Non sanno che li sento?»«Sshh», mi azzittì Sara, intenta ad ascoltare.«È per questo che sei tornato qui con lei?», chiese Cole a Evan. Non riuscivo a

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muovermi. Ogni cellula del mio corpo aspettava la risposta di Evan.«Avevo già in programma di passare l’estate qui», gli dissi, aggirando la verità. «Ho

pensato di venire un po’ prima, tutto qui».«Davvero?», replicò Cole, scettico. «Senti, so che hai avuto una storia con Emma. Lo

capisco. Al funerale era un disastro, e tu ti sei preoccupato per lei. Mi sembra giusto. E soanche che non avevi capito che io ero qui ad aspettarla. Ma ci sono, quindi non abbiamobisogno di te».Bevvi un sorso dalla bottiglia di birra e lanciai uno sguardo a Emma e Sara in terrazza.

Incrociai gli occhi di Sara, e lei si voltò rapidamente, fingendo di parlare con Emma.«Merda», mormorò Sara. «Evan ha visto che li sto ascoltando».«Non ci posso credere che stiamo ascoltando questa conversazione. Voglio dire,

non dovrebbe succedere. Lui non dovrebbe essere qui. Non dovrebbero parlare dime. Merda. Non lo sa che li sentiamo?». Serrai i pugni, con le pulsazioniimpazzite.«Non voglio inter ferire», dissi, voltandomi verso Cole. «Solo… speravo di… arrivare a

una conclusione. Le cose tra noi non sono finite proprio bene».«L’avevo immaginato», disse Cole, scrollando le spalle.«Te l’ha raccontato?», lo guardai incuriosito, chiedendomi esattamente quanto Cole

sapesse di Emma e della sua vita a Weslyn. Non sapevo quanto fossero vicini; era cer toche fossero intimi. Ma non ero preparato all’idea che stesse con qualcuno.«Non proprio», fece una risatina. «Diciamo che l’ho capito da solo», fece una pausa.

«Lei vuole che tu stia qui?».

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Esitai, sapendo che se avessi detto la cosa sbagliata avrei complicato tutto.«Non gliel’ho chiesto», risposi con sincerità. «Non abbiamo avuto occasione di parlare

mentre era a Weslyn».«Allora forse dovresti chiederglielo», consigliò Cole, aggrottando la fronte. «E se non ti

vuole, dovresti lasciarla in pace».«Emma, dove vai?», sentii urlare Sara dalla terrazza. Mi voltai immediatamente verso la

porta a vetri.«Non capiscono che li sento?!», urlai, scendendo di corsa le scale e praticamente

cadendo sugli scogli nella furia di sfuggire alla loro conversazione.«Emma!».I miei piedi affrontarono la sabbia, lasciando un’impronta sulla superficie liscia a

ogni faticoso passo.«Emma, aspetta!».Il mio cuore batteva freneticamente. Scossi la testa.«Per favore, Emma!».Mi voltai di scatto, con il vento che mi soffiava i capelli sul viso. «Lasciami in

pace, Evan!».«Andiamo, Emma. Ti prego. Fermati», mi supplicò, correndo per raggiungermi.«Non dovresti essere qui!», gli urlai, con gli occhi pieni di lacrime.Mi fermai. Una lacrima le s fuggì scivolandole sulla guancia. Era così tesa che

praticamente tremava.«Mi dispiace di non averti detto che venivo», dissi. «Avrei dovuto farlo».

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«Dovresti tornare in Connecticut!», mi urlò. «Non dovresti essere qui! Tornatene a casa!Vai via». Sentii la sua voce vacillare quando l’ondata di emozioni la sommerse.Chiusi gli occhi. Le sue parole erano difficili da accettare.«Non posso», dissi, con la voce che quasi si perdeva nel vento che soffiava for te

sull’acqua. «Non ancora».«Dovresti odiarmi!», non riuscivo a fermare le lacrime o il tremore del mio

corpo. «Perché non mi odi, Evan?!». Mi tremava il labbro.Sembrava… distrutto dall’esplosione delle mie parole. Il petto di Evan si incavò

leggermente, e i suoi occhi si contorsero per il dolore. “Odiarti?”, mimò con lelabbra.Crollai sulla sabbia e fissai l’oceano con le ginocchia al petto, il viso bagnato di

lacrime.«Perché pensi che dovrei odiarti?», chiese a voce così bassa che a malapena

riuscivo a sentirlo. Evan si abbassò accanto a me. Sentivo che mi guardava, manon riuscivo a girarmi verso di lui.Tenne gli occhi umidi fissi sull’acqua. «Emma, non potrei mai odiar ti. Te l’ho già detto,

ed è ancora vero». Con la sua convinzione che avrei dovuto odiarla era come se miavesse scavato un buco nel petto. «Ma ho bisogno di chiarire le cose con te, in modo dapoter andare avanti».Emma voltò la testa verso di me. Un’espressione angosciata le comparve sul volto.

«Sarebbe più facile odiarmi».Scrutai i suoi occhi, e il dolore che ci vidi dentro mi distrusse. Lei distolse lo sguardo,

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sapendo che avevo visto troppo. Aveva sempre protetto le sue emozioni, le aveva sempretenute nascoste. I suoi occhi però dicevano sempre la verità. Serrai la mascella. Non eralei che odiavo. Eppure non ero ancora riuscito a perdonarla per essersene andata quellasera… con Jonathan.«Dammi un motivo per cui dovrei odiarti», le chiesi, senza aspettarmi una risposta.Il suo viso si calmò e con occhi taglienti mi disse: «Com’è stato il tuo compleanno,

Evan?».Sussultò. Sapevo di aver toccato un nervo scoperto, come era mia intenzione.

Doveva saperlo. Doveva capire perché doveva odiarmi. E avevo bisogno diricordarglielo, per quanto fosse difficile guardare il suo volto tremare a quelricordo.Ma non mi aspettavo che la sua espressione cambiasse, lasciando emergere un

sorrisetto sfrontato, quando disse: «In effetti è stato un disastro. Sì, mi haiproprio rovinato la festa».Aggrottai le sopracciglia, confusa. Perché non era arrabbiato?Evan rise scuotendo la testa. «Be’… mi hai rovinato anche la cioccolata».«La cioccolata?». Non stava reagendo nel modo che mi aspettavo. Ma

d’altronde, non lo faceva mai.«La casa profumava di cioccolata quella sera», mi ricordò. «Quindi… non riesco

più a mangiare cioccolata».«Che sfiga», dissi, spostando lo sguardo sull’acqua, asciugandomi le guance con

il palmo della mano.

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«Non ne hai idea». La sua voce era sarcastica.«Per quanto ti farebbe piacere se ti odiassi, non posso. E non sono qui nemmeno per

chiederti di tornare con me».Le spalle di Emma si irrigidirono. Non pensavo che questo le avrebbe dato fastidio.

Specialmente dopo che mi aveva praticamente supplicato di odiarla. Pensai che sarebbestata contenta.«Mi lascerai provare a perdonarti, per favore?», le chiesi.«Penso che sia più facile odiarmi», dichiarò con fermezza. «È più facile di quanto

immagini».Ci credeva davvero. Lo capivo dalla sicurezza nella sua voce. E fu quello a colpirmi.«Facciamo un patto», proposi, cer to di voler trovare le risposte che ero andato a

recuperare fin laggiù.Emma scosse la testa.«Aspetta, ascoltami».«Va bene, vai avanti». Si asciugò il viso coperto di lacrime, e mi guardò con un sospiro.Sorrisi. «Nate e i ragazzi arriveranno tra due settimane. Perciò diciamo che hai due

settimane per convincermi a odiar ti. Ma devi parlarmi. Rispondere alle mie domande. Atutte. Lascia che io provi a perdonarti».«A tutte?», chiesi timidamente, con il cuore che saltava un battito al solo

pensiero delle domande che avrebbe potuto farmi.«Sì», confermò Evan. «E devi dirmi la verità. Alla fine, o ti odierò, come insisti

che dovrei fare, o avrò avuto i chiarimenti per cui sono venuto».

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Rimasi in silenzio, a guardarlo negli occhi, chiedendomi se dicesse sul serio.Mantenne un leggero sorriso sul volto, sfidandomi, cosa che mi lasciò ancora piùesterrefatta.«Perché è così importante per te?», chiesi.«Emma?».Alzai lo sguardo, sorpresa, senza accorgermi che ero rimasta a fissare Evan negli

occhi, aspettando che dicesse… qualsiasi cosa stava per dire. L’arrivo di Cole miliberò dal suo sguardo, e feci un sospiro profondo per liberarmi dei brividi che miscendevano dal collo.«Va tutto bene?», chiese Cole, guardandoci in faccia.«Sì», Evan rispose per entrambi, alzandosi e togliendosi la sabbia dai jeans. Io

feci un sorriso a denti stretti. Evan si girò verso di me. «Allora… ci vediamodomani?».Sapevo che era il suo modo di chiedere se accettavo la sua proposta. Anche se

non capivo ancora perché, scrollai le spalle accettando. «Ci vediamo domani».Lo guardai allontanarsi finché la mia attenzione non si spostò improvvisamente

verso Cole, che si sedette accanto a me, bloccandomi la visuale.«Sei sicura di stare bene?», chiese Cole, prendendomi la mano. La mia schiena

si irrigidì a quel gesto.Andarmene fu più difficile di quanto avevo immaginato. Detestavo averla lasciata lì con

Cole. Ma lei aveva accettato di dirmi la verità. Potevo finalmente scoprire cosa erasuccesso. Perché aveva scelto Jonathan. Perché si era fidata di lui quando non si era fidata

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di me. Mandai giù la rabbia che sentivo crescere al solo pensiero di lui, desiderando chenon avesse mai messo piede nella sua vita.Stavo per avventurarmi nell’ignoto. Ma la vita con Emma era sempre stata così. La

verità si sarebbe potuta rivelare insopportabile, ma sapevo che avrebbe cambiato tutto.Salii i gradini fino alla terrazza e aprii la por ta a vetri, fermandomi. Non mi aspettavo di

trovare una stanza piena di ragazze.«Dov’è Emma?», chiese Sara, seduta su una sedia di fronte a me.Indicai la spiaggia, incontrando uno sguardo dopo l’altro.«Ciao, sono Serena», disse allegramente la ragazza con la pelle bianchissima e gli occhi

truccati di nero. Saltò giù dallo sgabello e mi diede la mano. La sua mano piccola e fragilesi perse nella mia mentre mi fissava con un grande sorriso.«Piacere di conoscerti», dissi, senza avere ancora idea di chi fosse.«Loro sono le coinquiline di Emma», spiegò Sara, accorgendosi della mia espressione

confusa.«Oh», dissi, ancora confuso. Per qualche motivo mi ero sempre immaginato che Emma

vivesse da sola.«Io sono Meg», mi salutò la ragazza con i capelli castani e degli attenti occhi verdi,

chiaramente non proprio entusiasta di vedermi, al contrario di Serena.La biondina si limitò a lanciarmi un’occhiata.«Lei è Peyton», Serena si sporse verso di me. «Non le piaci molto».Spalancai la bocca alla sua sincerità.«Sta’ zitta, Serena», la rimproverò Peyton, che ovviamente l’aveva sentita.

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«O-kay», dissi lentamente, non proprio a mio agio sotto il giudizio di quegli sguardi.«Penso che ora me ne andrò».«Ti accompagno», si offrì subito Serena. «Peyton, dammi le tue chiavi».Peyton alzò gli occhi al cielo, ma lanciò comunque le chiavi a Serena.«Ci vediamo dopo, Sara», dissi, senza capire perché l’idea di salire in auto con Serena mi

spaventava un po’. Sara annuì. Presi le mie cose e seguii fino all’ingresso la ragazzavestita interamente di nero.«E così sei andato al funerale», disse Serena, saltando sulla Mustang rossa parcheggiata

in strada. Aveva una voce allegra e amichevole, per niente in tema con la dark che miaspettavo.«Sì», risposi timidamente, ben sapendo che c’era molto di più di un cortese passaggio.«E lei è stata un disastro, vero?», Serena sembrava sapere già la risposta.Annuii, guardandola apprensivamente.«Ci saremmo dovute andare anche noi. Ho detto alle ragazze che saremmo dovute

andare, anche se Emma ci aveva detto di no».«In realtà non so se sarebbe stato d’aiuto, se questo ti fa sentire meglio».«In ogni caso, ci saremmo dovute andare», sembrava seccata.Nate non viveva lontano da casa di Cole. Anzi, ero piuttosto sorpreso di quanto fossero

vicine. Avrei potuto tranquillamente andarci a piedi.Serena accostò l’auto e si voltò verso di me. «Sono contenta che tu ci sia andato. Sono

contenta che fossi lì con lei. Grazie».Annuii, ancora intimorito dalla sua socievolezza. «Grazie per il passaggio». Presi le mie

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borse dal sedile posteriore e cominciai a camminare verso la grande casa sulla spiaggia.«Evan», mi chiamò Serena. Mi voltai. «Faremo in modo che stia bene».Un sorriso acceso e pieno di sicurezza si allargò sul suo viso prima che facesse

inversione e si dirigesse dalla parte opposta.La guardai allontanarsi, e anche sul mio viso spuntò un sorriso.

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«B

20Il viaggio della colpa

uongiorno», sussurrò Cole con la testa sul cuscino. Era sveglio e miaspettava.

Feci un lamento, ancora mezza addormentata.«Sono stato un coglione ieri», confessò, guardandomi in faccia, preoccupato. «Mi

dispiace».Cole non mi aveva nemmeno toccata quando mi ero messa a letto la sera prima,

dopo che le ragazze se ne erano andate, e Sara si era chiusa nella sua stanza. Masapevo che non dormiva, anche se mi dava la schiena.Stavo per dire qualcosa, poi tenni la bocca chiusa con una smorfia.Cole ridacchiò. «Vai a fare le tue cose in bagno e torna qui».Scivolai fuori dal letto e tornai pochi minuti dopo, un po’ nervosa di sentire cosa

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aveva da dirmi.«Allora», cominciai, «ieri sera è stato più che imbarazzante».«Credo di essere stato un po’… geloso», ammise. «Avrei voluto essere lì in

Connecticut, ma mi hai chiesto di non venire. E… lui era lì. Non sono un tipogeloso… e detesto essermi comportato così ieri sera. Mi dispiace».Sentivo il suo disagio. Aprirsi così era una cosa insolita per lui.Sorrisi e gli misi una mano sulla guancia arrossata. Lui chiuse gli occhi al mio

tocco, assorbendo la carica. La sentii scorrere sul braccio, accelerarmi lepulsazioni. Mi calmò, cancellando momentaneamente il tormento che avevovissuto negli ultimi giorni. Avevo bisogno… di lui… che mi aiutasse a dimenticare.Mi avvicinai, e lui mi accarezzò la vita.«Non volevo che venissi», gli sussurrai, avvicinandomi alle sue labbra. «Volevo

che fossi qui, ad aspettarmi». Gli passai la lingua sul labbro inferiore, e lui inspiròvelocemente.La presa di Cole sui miei fianchi si fece più stretta mentre gli accarezzavo il

petto, appoggiandogli il naso sul collo e accarezzandogli il polso con le labbra.«Non essere geloso», continuai a sussurrare. «Non c’è nulla di cui essere gelosi.Ti prego, non fare più come ieri sera. Non mi piace».«Lo so», mi disse in un sospiro tra i miei capelli, passando la mano calda sulla

mia schiena, mentre mi sfilava la T-shirt. «Non sono quel tipo di ragazzo».«No, non lo sei», dissi con un leggero rantolo quando la sua lingua mi toccò il

collo. Mi sfilò i pantaloncini, e io li scalciai in fondo al letto. La sua bocca si fece

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strada verso la mia, divorandomi.All’improvviso non mi bastava più, gli passai le mani tra i capelli e lo baciai

freneticamente.Sentii i suoi boxer scivolare via, e lo feci stendere sulla schiena. Mi scappò un

gemito quando gli salii sopra. Le sue mani mi accarezzavano il corpo, facendomiinarcare la schiena mentre mi abbassavo su di lui, respirando velocemente al suoritmo.«Emma», sussultò di piacere quando rallentai il ritmo. Chiusi gli occhi e mi

aggrappai alle sue cosce mentre lui mi guidava con le mani sui fianchi.Tutto il mio corpo era in fiamme. Sentivo un calore incalzante diffondersi dentro

di me e infuocarmi la pelle. Ogni fibra del mio corpo era tesa. Cole si alzò asedere, e io lo circondai con le gambe, muovendomi a un ritmo più lento eprofondo. Aprii la bocca per sussultare quando lui ci infilò la lingua, togliendomi ilrespiro. Il mio corpo si irrigidì attorno a lui, e mi strinse di più. Inarcai la schiena,allontanandomi quando lui mi passò le labbra sul petto. Gemetti rumorosamentee lui con me, le sue dita sulla mia schiena. Aspettai che il suo corpo si rilassasseprima di stendermi sul letto, con la testa sul suo petto.«Buongiorno», dissi con un sospiro soddisfatto. Cole rise.«Passi la giornata con me?», chiese, passandomi le mani sulla schiena nuda.«Che hai in mente?», chiesi, anche se sapevo la risposta.Ero ansioso di parlarle. Aspettai più che potevo, ma non potevo giocare con l’Xbox

all’infinito. Mi incamminai verso la piccola casa bianca sulla collina e seguii il vialetto,

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fermandomi sulla por ta, sperando che non sarebbe stato Cole a rispondere. Bussai equalche secondo dopo la porta si aprì.«Ciao», mi disse la ragazza con i capelli castani. Passai in rassegna i nomi che mi erano

stati detti la sera prima e me ne uscii con…«Meg? Giusto?», le feci un piccolo sorriso, cercando di metterla a suo agio, visto che

continuava a fissarmi come se non si fidasse di me.«Già», disse, senza fare alcuna mossa per invitarmi dentro. «Emma non c’è».«Evan!», urlò Sara dall’altro lato della stanza. «Siamo in spiaggia. Vieni».Meg si fece di lato per permettermi di entrare con un sorriso a labbra strette.«Emma non c’è, ma puoi stare con noi se ti va», propose Sara, con un asciugamano da

spiaggia sul braccio e una rivista in mano. Sentivo la musica provenire dalla terrazzamentre lei usciva.Avrei voluto chiederle dove fosse Emma e quando sarebbe tornata. Ma sapevo con chi

era, visto che tutte le ragazze erano lì. Non ero sicuro di voler restare lì ad aspettare il suoritorno.«È con Cole», disse una voce fredda dietro di me. Mi girai e vidi Pey ton che mi fissava

con un sorriso malizioso. Non era proprio brava a nascondere il fatto che non le piacessi,anche se non mi conosceva neanche. Potevo solo presumere che avesse qualche legamecon Cole e non mi volesse intorno a incasinare le cose tra lui ed Emma.«Lo immaginavo», annuii, cercando di non farmi influenzare dalla sua ostilità. «Dal

momento che, sai… escono insieme».«Non escono insieme», cinguettò la voce di Serena dietro di me. Mi voltai e la trovai

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con un ombrellone in mano e un bikini nero che mi ricordava quei vecchi film che aEmma piaceva guardare. La sua pelle era così bianca da sembrare quasi trasparente.«Sta’ zitta, Serena», la rimproverò Peyton. «Sono insieme, ed è quello che importa».Serena scosse la testa, seccata. «Mi aiuti a sistemare questo ombrellone?». Non attese la

mia risposta, ma mi diede l’ombrellone e si incamminò verso la terrazza. Rimasi fermo unistante, cercando di capire cosa era appena successo.«Non dovresti essere qui», brontolò Pey ton, passandomi accanto e uscendo dalla por ta a

vetri.Wow, mi dissi, adesso l’Xbox diventava piuttosto invitante.«Evan, vieni?», mi chiese Sara da fuori.Guardai il divano, dove Meg era seduta in silenzio, fingendo di leggere un libro. Non

pensavo di potermi sentire meno benvenuto.«Sì», urlai di rimando, dirigendomi verso la spiaggia con l’ombrellone in mano.Seguii le ragazze fino al punto che avevano scelto per le sdraio e gli asciugamani. Aprii

l’ombrellone e lo infilai più profondamente che potei nella sabbia, facendo ombra aSerena per proteggere la sua pelle da fantasma.Erano tutte pronte per un pomeriggio di sole – o di ombra –, e il pensiero di stendermi

su un asciugamano accanto a loro non era esattamente invitante, considerando la diffusaostilità.«Penso che andrò a correre», annunciai, senza intenzione di tornare.«Davvero?», chiese Sara, ma quando mi guardò, capì e annuì.Mi ero appena allontanato lungo la spiaggia quando sentii: «Evan, aspetta!».

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Rallentai fino a fermarmi e trovai Serena che si avvicinava a grandi passi.«Che fai stasera?».

***«Divertiti con le ragazze», disse Cole, chinandosi a baciarmi mentre Sara mi

aspettava sulla porta.«Grazie», risposi con un sorriso, con le gambe affaticate per la giornata di surf.

Ma era esattamente ciò di cui avevo bisogno: stare all’aperto e in acqua, avvoltanel silenzio, con il rollio delle onde come unico suono. «Ci vediamo quandotorniamo».«Mi vedo con degli amici, quindi potrei non esserci. Ma lascio le chiavi sotto lo

zerbino». Mi baciò di nuovo, tirandomi a sé prima di lasciarmi andare conun’ondata di vertigini. «Ci vediamo stasera».Disorientata dal bacio, barcollai verso la porta, dove mi aspettava Sara.

«Pronta?», chiese con un sorrisetto.«Sì», risposi, cercando di respirare normalmente.«Sarà divertente», sorrise. «Abbiamo bisogno di divertirci».«Sì», Serena era seduta nel suo maggiolino azzurro con la capote abbassata.«Dove sono Peyton e Meg?», chiesi, sedendomi sul retro mentre Sara si metteva

davanti a me.«Sono ancora a Carpinteria. Ci vediamo là», spiegò Serena.Quando non prese la curva che ci avrebbe portate verso l’autostrada, mi accorsi

che c’era qualcosa di strano. E quando ci fermammo di fronte alla casa, sospirai.

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«Chi vive qui?», chiese Sara. «Questo posto è incredibile».«Nate», mormorai, proprio quando Evan aprì la porta.Mi avvicinai alla macchina con una giacca in mano, sorridendo quando vidi le ragazze. Il

sorriso però sparì quando notai la faccia di Emma. Non sapeva che ci sarei stato anch’io.«Ehi», dissi, guardando la luminosa espressione di benvenuto di Serena, il viso confuso

di Sara e infine lo sguardo distante di Emma. «Uh, non gli hai detto che mi avevi invitato,eh, Serena?»«Oh», Serena fece un’espressione sbadata. «Immagino di essermene dimenticata. Ma dal

momento che sei qui, vieni. Sali in macchina».Sollevai le sopracciglia alla sua richiesta e guardai Emma per avere il permesso. Lei

sollevò lo sguardo indecisa e scrollò le spalle. Sara uscì dall’auto e sussurrò: «Fa’attenzione, Evan». Si spostò sui sedili posteriori, lasciando il posto davanti vuoto. Esitai,prestando attenzione al suo avver timento, guardandola un istante per capire quanto fosseseria. Mi sedetti davanti mentre Serena accese a palla una canzone punk dalla radio.Riconobbi la canzone, e mi voltai a guardare Emma, che si rifiutò di contraccambiare losguardo.Ovviamente alla radio c’era la band che io ed Evan eravamo andati a sentire

insieme. Scossi la testa con una risata priva di ironia. Lui provò a togliersi ilsorrisetto dal viso dopo essersi voltato a vedere la mia reazione, ma non ci riuscì.Era più facile non guardarlo.«Starai bene… con lui qui?», mi sussurrò Sara quando l’auto prese velocità dopo

essere entrata in autostrada.

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«Certo», scrollai le spalle. «Voglio dire, gli ho promesso due settimane, no?»«Ma non devi farlo se non vuoi», mi rassicurò Sara. «Ne hai passate tante

questa settimana. Non devi lasciare che ti trascini anche in questo viaggio neisensi di colpa».«Lo so», risposi, apprezzando il suo fare protettivo. Lo guardai appoggiare il

gomito sul bordo del finestrino aperto, mentre ascoltava Serena che parlava diuna band che si sarebbe esibita nella zona e che moriva dalla voglia di sentire.Gli occhi di Evan si spostarono verso di me, e le mie guance diventarono rosse.Distolsi velocemente lo sguardo quando il suo inconfondibile sorrisetto divertitogli si allargò di nuovo sul viso. Mi premetti le mani sulle guance, era da tanto chenon le sentivo così calde. Era sorprendente quanto fastidioso.Non riuscivo a smettere di sorridere mentre lei diventava sempre più rossa. Sapevo

quanto ne era infastidita, ma rendeva il tutto più diver tente. Rivolsi di nuovo la miaattenzione a Serena, che mi aveva sorpreso a guardare Emma. Risi imbarazzato vedendolasorridere. Non sapevo in che modo Serena aveva in mente di far “stare bene” Emma, masapevo che si aspettava il mio aiuto. Avevo paura di deluderla, soprattutto perché amalapena riuscivo a badare a me stesso.Serena parcheggiò e io presi a camminare accanto a lei mentre Sara ed Emma ci

seguivano, a debita distanza, in modo da non farsi sentire.«Pensavo che saremmo andate a Carpinteria per il film all’aperto», dissi,

leggermente allarmata di trovarmi davanti a un ristorante.«Sì, uh, le ragazze volevano bere qualcosa», spiegò Sara. «Mi sono scordata di

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dirtelo. Ma io non berrò… quindi, sai, non sei la sola».«Sara…», mi voltai verso di lei, con voce sicura. «Non ho alcun problema con

l’alcol. Non berrò niente stasera, ma non voglio che ti preoccupi per me. Sonostata stupida, senza dubbio. Ma non era l’alcol. Ero io. E prometto di non usarlopiù per affrontare le cose che non riesco a sopportare».Sara mi osservò pensierosa. «Sai che mi spaventa… il fatto che bevi».«Per via di mia madre», ripetei. «Lo so».«Ma tu non sei lei», aggiunse Sara velocemente. «Emma, non sei lei. E io non

avrei mai dovuto dirti quelle cose al motel. Ero… arrabbiata, e spaventata. Non tiavevo mai vista così, prima».Eravamo ferme nel vialetto mentre la gente ci passava accanto. Abbassai la

testa e annuii: non volevo essere sorpresa a sostenere una conversazione cosìdelicata all’aperto. In effetti, avrei preferito non doverla sostenere affatto.«Scusa», disse Sara, pensando la stessa cosa. «Andiamo dentro». Mi prese

sottobraccio e disse: «Dobbiamo divertirci». Ravvivò il suo sorriso acceso e midiede una spallata scherzosa, portandomi nel ristorante affollato.Trovammo le ragazze… ed Evan a un tavolo in terrazza. Dall’espressione

inacidita di Peyton immaginai che nemmeno loro sapessero che sarebbe venutoEvan. Era tutta opera di Serena. La osservai incuriosita, cercando di capire cosastesse complottando. Mi guardò con un sorriso contagioso, e scossi la testa,preoccupata. Il suo intervento poteva peggiorare ulteriormente le cose,nonostante le sue ovvie buone intenzioni.

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Dopo cena venne il cameriere e mise due dessert al cioccolato fuso sul tavolo.Le ragazze praticamente si sciolsero per la gioia mettendoci i cucchiai dentro. Iocominciai a ridere per i rumori inappropriati che facevano mentre mangiavano.Poi mi accorsi dell’espressione tesa di Evan. Sembrava che stesse male.Gli avevo davvero rovinato il piacere della cioccolata. Mi morsi il labbro. Sapevo

di dovermi sentire male, ma la sua espressione tormentata era quasi comica. Miguardò proprio quando mi scappò una risatina. Spalancò gli occhi sorpreso, eallontanò la sedia dal tavolo prima di sparire sulla terrazza laterale.«Merda», mormorai, seguendolo immediatamente.«Mi dispiace», disse piano Emma, appoggiandosi alla righiera accanto a me. «Non era

divertente, lo so. Ma… avresti dovuto vedere la tua faccia».«Davvero? Grazie tante, Emma».«Vedi? Un altro motivo per cui dovresti odiarmi. Sono crudele. Molto crudele».«Già», sospirai. Le parole che usò mi fecero ricordare che non avevamo ancora parlato.

Quindi mi girai verso di lei e sorrisi.Mi guardò sospettosa. «Che c’è?»«Già che sei qui, potresti darmi un altro motivo».«Ora?». Allarmata, osservò il ristorante affollato.«Non deve essere una cosa così oscura», la incoraggiai. «Dimmi qualcosa. Perché

dovrei odiarti, Emma?».Guardai i suoi occhi color caramello tremare mentre rifletteva. Guardò in direzione delle

ragazze, che stavano ridendo, inconsapevoli. Aspettai pazientemente, preparandomi per

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quello che avrebbe potuto dirmi, perché sapevo che mi avrebbe detto qualcosa.«Jonathan mi ha baciata», sbottò, trattenendo il respiro mentre aspettava la mia

reazione. «Due volte».Aprii la bocca per parlare, ma il cuore mi batteva così for te da rendermi impossibile

aprire bocca e non riuscivo a trovare cosa dire. Non mi tolse gli occhi di dosso. Era comese si stesse preparando al mio sfogo di rabbia.«Mi hai… tradito?», chiesi, con voce rotta. Lei tenne gli occhi incollata ai miei e scosse

la testa leggermente.«Ma non ti ho mai detto del bacio», mormorò, con uno sguardo di s fida. «Odiami,

Evan».Mi aggrappai alla ringhiera di legno, disgustato al pensiero di lui che la toccava in

qualsiasi modo. Scossi la testa per liberarmi da quell’immagine. Lei attese, con gli occhiche si scostarono dai miei. Si aspettava un’altra reazione. Lo sapevo. E non gliela avreidata, nonostante quello che sentivo dentro.«Tocca a me», dissi, cercando di rilassare la mascella tesa. «Te ne sei andata con lui

quella sera?».Lei mi guardò sorpresa. «No. No. L’ho distrutto». Ero completamente impreparato alla

risposta. Lei distolse lo sguardo, che era colmo di tristezza.Era difficile parlare di Jonathan, e pensare a quello che ci aveva fatto. Ma se volevo

essere in grado di andare avanti, avevo bisogno di capire cosa era successo tra loro.«Emma!», mi voltai verso la voce di Cole, e poi lui vide con chi ero. «Oh, e

Evan». Aveva le guance paonazze quando si fece strada verso di noi, spostando

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un po’ di sedie. Squadrò Evan e disse: «Non sei una ragazza».«Non che io sappia», rispose Evan, scherzoso.«Pensavo che fosse una serata tra ragazze». Cole si voltò verso di me,

mettendomi un braccio sulla spalla e tirandomi a sé.«Cole…», lo fissai, con voce carica di avvertimento, non badando al suo scoppio

di gelosia.«Oh, giusto», ricordò impaziente, togliendo il braccio.«Vado a mangiare la cioccolata», annunciò bruscamente Evan; poi si allontanò.«Che cosa stavi cercando di fare?», sbottai contro Cole. «Pensavo ne avessimo

parlato».«È vero», disse, chinandosi per baciarmi. Il suo bacio distratto sapeva di whisky.

«Non significa che mi piaccia vederlo qui».Sospirai. «Sei ubriaco».«Succede», sorrise, sbattendo pigramente le palpebre.Emma si scansò da lui quando provò a baciarla di nuovo, prendendo il telefono dalla

tasca. Stava cercando di chiederle scusa, ma lei lo ignorò e mandò un messaggio,chiaramente seccata.«Vuoi uno shot?», chiese Serena, sedendosi accanto a me con due bicchierini in mano.«Cer to», risposi, prendendone uno e brindando con lei prima di buttare giù il bourbon

con una smorfia. «Grazie».Guardai di nuovo verso Emma e Cole. Lei fece un passo per allontanarsi da lui e lui la

raggiunse. Era ovviamente ubriaco. E lei era…

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«Serena, che intendevi quando hai detto che non escono insieme?».Serena seguì il mio sguardo verso Emma e Cole. Un sorriso diabolico spuntò sul suo

viso prima che si avvicinasse per spiegarmi.

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G

21Dodici giorni

uardai Cole avvicinarsi a lei mentre lei controllava di nuovo il cellulare. Lui le dissequalcosa all’orecchio, e lei gli colpì il braccio ridendo. Completamente diversi rispetto

a com’erano la sera prima al ristorante.Entrai in casa, con una bottiglia di birra in mano, mentre loro si affacciavano alla

ringhiera uno accanto all’altro sulla terrazza, dandomi le spalle. Continuai a osservarli. Luile fece un mezzo sorriso, e lei scosse la testa, ridendo in una smor fia di disapprovazione.Se non uscivano insieme, e lui non voleva di più da lei, allora che ci facevano insieme?«Fanno un sacco di sesso», mi disse una voce sarcastica all’orecchio. Mi voltai e trovai

Peyton. «Grazie per averci invitato, Evan. È una casa fantastica, anche se non è tua», dissecon falsa dolcezza.Annuii, ancora senza parole per quello che aveva detto.

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«Stavi cercando di capire perché stanno insieme, vero? Ho visto che li guardavi», spiegòPey ton, con un sorrisetto beffardo. «Fanno sesso di continuo. Quando sono vicini sembrache non siano in grado di tenersi i vestiti addosso. Lo so… suona squallido, ma è così.Eppure non credo che lui ci rinuncerebbe tanto facilmente. Lui tiene a lei. E alla fine lei loaccetterà. Quindi lasciala in pace, Evan».«Tu sei amica di Cole», conclusi, esaminando la biondina con occhi taglienti.«È il miglior amico del mio ragazzo», spiegò.«Ah». Cominciavo a capire. «E io non ti piaccio».«L’hai ferita». I suoi occhi diventarono fessure. Se avesse potuto prendermi a pugni,

sono abbastanza sicuro che l’avrebbe fatto.«Di che stai parlando? Le ho a malapena parlato questi due giorni».«Era ferita a causa tua prima che arrivassi», sbottò. «E no, non mi piaci». Se ne andò in

terrazza, prendendo una birra strada facendo.«Almeno sei sincera», mormorai, sapendo che non poteva sentirmi. «Ed è stata lei a

lasciare me, comunque».«Peyton è una stronza», disse Serena raggiungendomi da dietro. «Lasciala perdere».Risi, girandomi e trovandola in cima alle scale che por tavano al piano inferiore della

casa. «Pensavo che foste amiche».«Io e lei?», rise come se fosse assurdo. «Mi fa impazzire, cazzo. Sono amica di Meg ed

Emma. Tollero Pey ton a malapena. Vieni a giocare a biliardino con me». Si voltò e scesele scale. Ridacchiai scuotendo la testa perplesso, e la seguii.«Giochi a calcetto?», chiesi scettico, appoggiando la birra sul bordo del tavolo.

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«No», disse impassibile.«Immaginavo», risposi con una risata, prima di lanciare la pallina sulla linea bianca.«Adoro questa casa», sospirò Sara, immergendo i piedi nella piscina. «Non

potremmo restare qui?»«Sara!», aggrottai la fronte, guardandomi intorno per vedere se Cole ci avesse

sentite. Era ancora dentro, a prendere un drink.«Lo so», replicò. «Sono grata che Cole ci faccia stare da lui, ma questo posto è

fantastico».«È vero», ammisi, ammirando la grande veranda che circondava la piscina, con

una cucina professionale all’aperto. La casa era di tre piani, con un piano terrache portava alla veranda e una sala giochi che competeva con quella di Sara. Eradifficile convincersi del fatto che fosse una casa per le vacanze. Non c’era dastupirsi che i ragazzi facessero migliaia di feste. Anche se l’ultima a cui avevopartecipato si era rivelata una specie di disastro per me.«Possiamo passare tutto il tempo qui, per favore?», chiese Sara mettendo il

broncio.«Carina», replicai. «Da dove stiamo noi possiamo andare direttamente in

spiaggia. Non ti accontenti mai, eh?»«Lo so, sono viziata», ammise. «Come stanno andando le due settimane?», mi

guardò attentamente, muovendo i piedi in acqua.«Ehi, ragazze», disse Peyton dietro di noi prima che potessi rispondere.«Vieni a sederti, Peyton», le disse Sara. Peyton si tolse i sandali e si sedette

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accanto a me, mettendo i piedi in acqua. «Anche tu torni tra due settimane?»«Non posso. Domani comincio il tirocinio». Peyton si concentrò su di me e disse:

«Ma non devo preoccuparmi, vero?».Socchiusi gli occhi, confusa.«Cazzo!». Voltammo tutte la testa quando Serena urlò dalla salagiochi. Meg era

appoggiata alla porta, intenta a guardare.«Serena gioca a biliardino?», chiese Sara, sorpresa.«Non mi sembra proprio», risposi. Quando sentii le risate di Evan provenire dalla

stessa stanza, il mio cuore saltò un battito. Poi vidi Cole che scendeva dallaterrazza, e spostai lo sguardo.«Faccio schifo!», si imbronciò Serena, girando la leva per gioco.«Non sei bravissima», ammisi.«Ehi!».«Cosa? Hai appena detto che fai schifo».«Penso di aver bisogno di un’altra birra», si lamentò Serena. «Meg, a che ora

andiamo?»«Penso tra mezz’ora o giù di lì», rispose Meg, che restava ferma sulla por ta. «Ma posso

guidare io se vuoi un’altra birra». L’offer ta fece immediatamente nascere un sorriso sulvolto di Serena, che saltellò giù per le scale.Meg si avventurò nella stanza, a braccia incrociate. Aspettai che dicesse qualcosa, ma

non lo fece. Piuttosto, girò una delle leve del tavolo da biliardino, senza guardarmi.«Non piaccio neanche a te?», chiesi.

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Meg sembrò sorpresa dalla mia s facciataggine. «Sembri… carino. Sono solo…protettiva verso Emma».«Sembra essere una cosa comune qui attorno». Mi appoggiai al bracciolo del divano di

pelle e presi un sorso di birra. «È bello, però, che ci teniate così tanto a lei».«Che succede dopo le due settimane, Evan?», domandò. Era il suo turno di andare dritta

al punto.Mi fermai prima di bere un altro sorso, abbassando la bottiglia di birra dalle labbra. «Lo

sai?»«Me l’ha detto Sara», spiegò Meg, infilandosi la mano nella tasca posteriore dei jeans.«Tu e Sara siete amiche?», chiesi, cercando di immaginare come fossero collegate, e chi

si confidasse con chi.«Sì, parliamo», mi spiegò.Annuii. Quindi, lei era Sara quando Sara era a New York… o a Parigi. L’unico modo in

cui Sara poteva davvero sapere cosa faceva Emma era avere qualcuno che la tenessed’occhio. Non era da Emma fornire spontaneamente quelle informazioni, almeno non leinformazioni che importavano davvero a Sara. Ma, perché erano tutte così… spaventate?«Perché Emma ha bisogno che voi tutte la proteggiate?», chiesi. «Che le sta

succedendo?».Meg tirò indietro le spalle osservandomi più da vicino. Poi distolse lo sguardo e girò

un’altra leva del biliardino.«Meg, non sono qui per peggiorare le cose. Voglio solo capire cosa è successo. Perché

se n’è andata in quel modo».

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«Non ti odio, Evan», disse Meg, scavalcando completamente la mia domanda. «Staserapar tiamo per tornare dalle nostre famiglie un paio di settimane prima che cominci iltrimestre estivo. Torneremo quando le tue due settimane saranno finite. Non lasciarla incondizioni peggiori di come l’hai trovata… ti prego».Ero del tutto sorpreso dalla sua affermazione. Non mi aspettavo questo, di trovare

Emma così… fragile. Sapevo che aveva un modo contor to di osservare il mondo e il suoposto nel mondo. Era sempre stato così – per merito delle donne che si erano impegnatecosì tanto a distruggerla. Ma sotto sotto era for te, capace di fare qualsiasi cosa – se solose ne rendeva conto. Perciò Sara la stava controllando notte e giorno, Pey ton di base miminacciava, Meg mi chiedeva di fare attenzione e Serena aveva avviato una crociata persalvarla – qualcosa non tornava con la ragazza in cui credevo.Quella ragazza che una volta era stata piena di vita e sicurezza, anche se era stato

difficile per lei trovarle. Avevo sempre saputo che erano lì. Erano ciò che mi avevaattratto di lei la prima volta. E adesso… non le vedevo.Cominciavo a domandarmi chi fosse la ragazza che era atterrata in California due anni

prima, e chi aveva lasciato a Weslyn.Tutti cominciarono ad andarsene mezz’ora dopo. Le ragazze tornavano a Palo Alto

prima di andare dalle loro famiglie. Sara, Cole ed Emma stavano per tornare a casaquando chiesi a Emma: «Vuoi venire a fare due passi con me?».Guardai Cole, che aspettava che rispondessi, gli occhi induriti rivolti a Evan.«Andiamo, Cole», disse Sara, intervenendo e afferrandogli il braccio.

«Accompagnami a casa».

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Seguii Evan verso una rampa che sembrava più che altro una scalinata di duepiani. Mi aggrappai alla vecchia ringhiera di legno e superai i gradini con cautelaverso la spiaggia. Evan li scavalcò come se camminasse sulla terra piatta, easpettò che lo raggiungessi in fondo.«A Serena piaci», dissi, infilandomi le mani nelle tasche della felpa, tenendo la

testa china mentre cominciavamo a camminare. «Se non conoscessi il suoragazzo, direi che ha una cotta per te».Evan rise. «Sono sicuro che è un ragazzo interessante».«Non hai idea», ridacchiai.«È probabilmente la persona più solare che abbia mai conosciuto», disse,

lanciandomi un’occhiata. «Mi piace il suo carattere. Non è come si potrebbeimmaginare guardandola».«Lo so», sorrisi. «È per questo che è fantastica».Continuammo a camminare lungo la spiaggia, verso la casa di Cole, che era

proprio dietro la curva successiva.«Prima mi ha chiamato Nate. Visto che sono qui, lui e i ragazzi hanno deciso di

venire prima. Vogliono dare una festa sabato prossimo, quindi arriverannovenerdì».Annuii, non sapendo perché fosse importante, finché lui non proseguì dicendo:

«Ma speravo che potessimo comunque avere le nostre due settimane, comeavevamo deciso dall’inizio quando pensavo che non sarebbero arrivati».Smisi di camminare, e lui si voltò a guardarmi.

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«Ancora non mi odi, vero?», chiese Emma, con il viso improvvisamente teso.«Ho ancora dodici giorni», scherzai. Non volevo vedere quello sguardo sul suo viso.

«Perché non mi dai un altro motivo per cui dovrei?»«Non è uno scherzo, e lo sai», sembrava agitata. I suoi occhi si socchiusero mentre mi

fissava con il vento che le faceva volare i capelli sul viso.«Lo so che sei seria. Ma vorrei che non lo fossi». Cambiando tono, ripetei: «Allora,

dimmi, perché dovrei odiarti, Emma?».La rabbia che avevo provato alla vista del suo sorriso sparì quando guardai i suoi

tremanti occhi azzurri. Il mio cuore prese a battere più forte e presi fiato. Dovevofarmi ascoltare da lui. Dovevo costringerlo a capire perché doveva lasciarmi inpace, andare avanti con la sua vita senza di me.«Ti ho lasciato». Lui sussultò. «Ti ho lasciato in quella casa, solo e ferito. Ti ho

ignorato quando mi chiamavi. Perché ti ho sentito. Davvero. Ma non mi sonofermata. Ti ho lasciato da solo quando avevi bisogno di me, e non mi sonovoltata». Mi bruciavano gli occhi quando rividi l’immagine di lui sul pavimento,pesto e quasi svenuto.Emma stava lottando per rimanere composta, ma la sua voce tremava quando pronunciò

le ultime parole – ed era quello il motivo per cui non avrei mai potuto odiarla. Perchécapivo che quello che aveva fatto, le sue scelte, la stavano distruggendo.Tornai a quella sera. La furia che mi aveva spinto a colpire Jonathan, che aumentava a

ogni colpo che ci scambiavamo. Lo sguardo nei suoi occhi quando lui la fece cadere aterra. E poi sentii un dolore tremendo alla testa – e subito dopo non ci fu niente.

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«Odiami, Evan», supplicò lei, con il labbro inferiore che tremava. Era difficile guardarlamentre i sensi di colpa la facevano a pezzi. «Ti prego, odiami», supplicò.«Ho altri dodici giorni», mi costrinsi a dire con calma mentre lei mi spezzava il cuore

ancora un po’. Ero ancora intrappolato in quel ricordo. Lo odiavo. Lo odiavo per essersiintrodotto in quel modo nella vita di Emma e averla convinta a fidarsi. Per essere quelloche avevo sempre voluto essere io per lei. Per essersi messo davanti al muro di Emma,quello che avevo appena cominciato ad abbattere. Svegliarmi da solo e completamentedolorante non si avvicinava neppure al dolore che avevo provato al pensiero che avessescelto lui. «Dove sei andata quando mi hai lasciato lì?». Dovevo sapere cos’era successoil resto di quella serata, anche se l’esito non sarebbe cambiato.«È la tua domanda?», chiese, confusa. Annuii.«Mmm…», deglutii e distolsi lo sguardo dal tormento che vedevo nei suoi occhi,

anche se da fuori rimaneva calmo e composto. Lui era lì, in quella casa,insanguinato e distrutto. Esattamente dove l’avevo lasciato. Lottai contro leemozioni che mi stringevano la gola.«Ho guidato. Non so dove sono andata, ma ho continuato a guidare». Presi

fiato, ricordando l’attacco isterico che mi aveva colto mentre guidavo a tuttavelocità tra le stradine della tranquilla città, urlandomi addosso per quello cheavevo fatto. Gli occhi mi si riempirono di lacrime a quel ricordo. Ma le scacciai.Non meritavo la sua comprensione.«Alla fine sono arrivata da Sara. Lei era fuori di sé, pensava mi fosse successo

qualcosa di orribile», mi fermai di nuovo, con voce rotta. «Anna era sconvolta.

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Non capiva quello che dicevo perché non riuscivo a smettere di piangere». Unalacrima fece capolino tra le ciglia. Mi strinsi le braccia al petto per impedirmi ditremare.«Ho detto loro che dovevo andarmene. Che non potevo restare a Weslyn.

Detestavo quel posto e sarei partita con il primo volo. Alla fine Anna mi fececalmare abbastanza da convincermi ad aspettare un giorno o due, per vedere seavrei cambiato idea. Ma non successe. Due giorni dopo ero sull’aereo per laCalifornia. Sara ha provato a convincermi che stavo facendo il più grande erroredella mia vita. Non mi ha parlato per due mesi».Emma aprì gli occhi, e un’altra lacrima le scese sulla guancia. «Va bene come risposta?».Annuii una volta, osservando in silenziosa agonia come la luce nei suoi occhi diventava

oscurità. Il suo dolore era l’unica cosa rimasta, e fui costretto a distogliere lo sguardo,incapace di assistere a quella sofferenza senza poterla toccare.Mi schiarii la voce e accolsi in un sospiro l’aria dell’oceano per allontanare il

male. «Be’, non so tu, ma questa è tutta la sincerità che posso sopportare peroggi». Tentai di sorridere, ma non ci riuscii mentre lui continuava a osservarmi.Era così intenso nella sua immobilità che fu difficile guardarlo negli occhi.«Ciao, Evan», dissi, voltandomi.«Ci vediamo domani», mi rassicurò, con voce provata. Non risposi. Riuscivo a

sentire il suo sguardo su di me mentre mi allontanavo sulla spiaggia.Quando arrivai alla terrazza Cole era seduto su una sedia con i piedi appoggiati

alla ringhiera.

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«Ciao», dissi, sedendomi accanto a lui.«Ehi», rispose con un leggero sorriso. «Come stai?».Scrollai le spalle. «Bene».Lui scrutò il mio viso in cerca di quello che non dicevo. «Vuoi tornare a fare surf,

domani?»«Uh, in realtà, ti ricordi quell’amico che ho provato ad aiutare?», chiesi, fissando

l’acqua. Afferrai il telefono in tasca, non avevo avuto risposta da Jonathan dopoaverlo chiamato e poi avergli scritto dal ristorante il giorno prima. Parlare di luicon Evan quella sera mi aveva fatto pensare alla notte in cui ero partita percercarlo. Non smettevo di chiedermi dove fosse e cosa stesse facendo.«Già», rispose Cole, esitando.«Penso che dovrò provare di nuovo», mormorai, guardando Cole.Lui mi guardò negli occhi prima di chiedere: «Dove vuoi andare?»«New York. Ma non posso dirlo a Sara».«Perché?», chiese. «A lei non piace il tuo amico?»«Non proprio. Allora… mi copriresti?», chiesi, con una fitta di senso di colpa.

«Devo farlo. Devo almeno provare».«Quanto starai via?»«A dire il vero, non lo so», risposi. «Parto domani, e spero di tornare in un paio

di giorni. Ma immagino che dipenda da come vanno le cose».Cole rimase in silenzio per un istante. «Sì, certo che ti coprirò. Vuoi che ti

accompagni all’aeroporto?»

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«Sì, grazie», risposi, piano.Spostammo lo sguardo sull’oceano mentre il giorno svaniva attorno a noi – il

sole affondava alla nostra destra, lasciando una scia dorata con macchie di rosa eviola all’orizzonte. Le luci delle trivelle per il petrolio brillavano in lontananza, e ilrumore delle onde era ipnotico. Eravamo di nuovo avvolti nel nostro silenzio, cheera sempre così confortevole. Dentro, infuriava una tempesta, che scoperchiavaricordi e sentimenti che avevo sepolto due anni fa. I miei occhi seguirono il profilodella spiaggia verso la grande casa sulla scogliera. Sapevo che sarebbe andatasolo peggio.

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I

22Assieme a lei

l sole stava sorgendo da qualche parte dietro le colline, ma non si era ancorafatto largo tra le nuvole che si erano depositate sulla spiaggia. Mentre la nebbia

indugiava sull’acqua, mi avvolsi ancora di più nella coperta per ripararmi dallafredda aria mattutina.Mi era rimasta una gran voglia di dormire. Ero rimasta sveglia tutta la notte,

disturbata dalle urla e dai pianti che mi risuonavano in testa. Alla fine, eroscivolata fuori dal letto per liberare Cole dal mio continuo rigirarmi.Gli occhi mi facevano male per la stanchezza mentre osservavo una sagoma che

si avvicinava sulla spiaggia. Cercai di metterla a fuoco tra la spessa foschia.Qualcuno correva sul bordo dell’acqua. Solo il pensiero di impiegare così tantaenergia mi distruggeva.

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Quando il corridore si avvicinò alla casa cominciò a rallentare. Esitò, poicominciò correre verso di me. Mi immobilizzai, cercando di confondermi tra lanebbia, ma lui sapeva che ero lì.Quando arrivò vicino, strizzai gli occhi, confusa. «Evan?».«Ciao», risposi, non sapendo se avrei dovuto continuare a correre e lasciarla in pace. Ma

volevo sapere perché era sveglia. Mi guardò, avvolta in una coperta blu tirata fin sul naso.Sorrisi alla vista dei suoi capelli sparati in tutte le direzioni. Mi dovevo ancora abituare al

suo nuovo taglio. Dovevo ammettere che non mi dispiaceva – quella lunghezzaaccentuava il taglio orientale dei suoi occhi.«Sapevo che eri mattiniero, ma questo è troppo», disse.Risi al suo commento. «Non riuscivo a dormire. Ho pensato che correre mi sarebbe

stato d’aiuto. E so che invece tu non sei una persona mattiniera; praticamente detesti ogniora prima di mezzogiorno».«Neanch’io riuscivo a dormire».«Incubi?», chiesi senza pensare, sapendo che era il motivo per cui io stavo correndo

nella nebbia, lontano dal panico che mi aveva svegliato.Distolse velocemente lo sguardo e scrollò le spalle, evasiva. Immaginai che fosse colpa

mia se era là fuori e non ancora avvolta nelle coper te… accanto a Cole. Mi costrinsi arilassare le spalle. Avevo giurato di non pensare a loro due insieme, anche dopo glispiacevoli dettagli che Peyton aveva piantato nella mia collezione di pensieri sgraditi.«Corri con me».Emma mi guardò come se le avessi chiesto di tuffarsi nuda nell’oceano. Ridacchiai.

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«Forza, che altro hai da fare?».Non riuscivo a credere che ci stavo davvero pensando. Spinsi indietro la sedia.

«Va bene», brontolai. «Prendo la mia roba».Ignorai il sorrisetto che si allargò sul suo viso, e tornai furtivamente in casa. Che

avevo in mente?Quando tornai qualche minuto dopo, Evan era seduto in fondo alle scale.«Non aspettarti troppo», gli dissi, facendolo alzare e girarsi. Vedermi in cima alle

scale in tenuta da corsa fece emergere di nuovo quel sorriso. Il sorriso che nonriuscivo a guardare per più di un secondo senza che il mio cuore tornasse alla vitae le mie guance si accendessero.Lasciai che i piedi mi portassero giù per i gradini e lo seguii vicino all’acqua,

dove la sabbia era più dura. Cominciammo a correre lentamente, e i miei muscolisi lamentavano. Non gradivano essere svegliati così presto.«Vedi, non è male», disse Evan.Feci una smorfia. «Il mio corpo è completamente andato».Evan rise, chiaramente divertito dalla mia sofferenza.Mentre andavamo avanti, i muscoli delle gambe cominciarono ad abituarsi e i

polmoni non lottarono più per far entrare l’aria. La fatica fu sostituitadall’adrenalina, e accelerai spontaneamente il passo.«Non sei più stanca, eh?».Il cuore mi batteva nelle orecchie mentre mi s forzavo di starle dietro. La stanchezza nei

suoi occhi era stata sostituita dalla determinazione; era concentrata su quello che aveva

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davanti. Mi piaceva.«È da troppo tempo che non corro», spiegò, per niente affannata, al contrario di me.

«Mi fa sentire bene». Poi alzò la testa verso di me, con un sorriso scherzoso chericonobbi ma che non vedevo da un po’. «Ma detesto comunque la mattina».Risi. Corremmo verso un ammasso di scogli che si stagliavano sulla spiaggia sabbiosa e

ci girammo verso la casa. Per quanto quella corsa mi stesse affaticando, non volevo chefinisse. Per la prima volta da quando ero arrivato, lei sembrava tranquilla, e non volevoche quella sensazione svanisse quando ci saremmo fermati.Appena arrivammo in vista della casa, lei affondò i piedi nella sabbia e la sua falcata si

allungò. Non riuscivo a starle dietro, così la lasciai andare avanti. Stava dando tutto quelloche aveva, e guardarla era incredibile. Per poco non inciampai su una roccia, incantatodalla grazia e dalla forza che la catapultavano lungo la spiaggia bagnata, lasciandosidietro una scia di polvere.Quando la raggiunsi stava passeggiando con le mani sui fianchi, cercando di riprendere

fiato. Mi fermai a guardarla, con il sudore che le scorreva sul viso, il vento che le agitava icapelli. Lei si fermò e mi guardò in modo strano, come se volesse leggermi nel pensiero.Avrei voluto dirle tutto ciò che pensavo.«Vado avanti fino a casa», dissi alla fine. «Grazie per aver corso con me».Lei annuì. «Ok».Allungai il passo, nonostante la stanchezza, e tornai indietro sulla spiaggia. Mi guardai

indietro e quasi inciampai vedendo che si s filava la maglietta dalla testa. Semprecorrendo, osservai la sua sagoma scura avvolta dalla nebbia grigia. Rallentai il passo. Non

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riuscivo a distogliere lo sguardo. Mi fermai quando scalciò via le scarpe e si tolse ipantaloni. La nebbia fitta la proteggeva, e rimase un’ombra sulla spiaggia. Eppure eroincantato dalle linee del suo corpo sottile. Sospirai, cercando di calmare le mie pulsazioniaccelerate. Lei camminò lentamente in acqua, senza reagire quando il freddo le salì sullegambe e arrivò alle ginocchia.Si tuffò sotto un’onda, riemergendo dall’altra par te. La sua testa andava su e giù in

acqua, confondendosi tra le tonalità di grigio. Incantato, non mi ero accor to di essermiavvicinato finché non notai un movimento con la coda dell’occhio. Mi risvegliai dallatrance quando Cole spuntò sulla terrazza con un asciugamano.Indietreggiai e ripresi a correre, sperando che la foschia mattutina mi avesse nascosto

alla sua vista. Il mio cuore non era ancora tornato al suo battito normale, e sapevo didover cancellare quello che avevo visto se volevo starle di nuovo accanto. Accelerai ilpasso quando vidi le scale che portavano a casa di Nate.Tornai di corsa sulla spiaggia, con le braccia strette al petto e le labbra tremanti.«Buongiorno», mi accolse Cole, con un asciugamano sul braccio. Mi avvolse, e il

calore del tessuto e delle sue braccia mi ripararono dal freddo. «Come prima cosada vedere la mattina non è male».«Simpatico», risposi con un sorriso sarcastico, rannicchiandomi su di lui. «Ti sei

alzato presto».«Devo vedere i ragazzi per andare a fare surf», spiegò, stringendomi. Alzai lo

sguardo e lui si chinò, facendo scivolare le labbra sulla mia bocca bagnata etremante. Era così caldo. Gli feci scivolare la lingua in bocca e lui mi strinse più

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forte. Sentii il battito del mio cuore accelerare mentre lui continuava a baciarmi,e l’energia scorreva dentro di me mentre gli mettevo le braccia al collo.«Posso anche arrivare in ritardo», mi sussurrò all’orecchio.Risi e feci un passo indietro. «Dovresti andare. Ci vediamo dopo».Premette le labbra sulle mie e disse: «Torno nel pomeriggio per accompagnarti

in aeroporto. Resterai nuda per me fino ad allora?». Mi baciò sulle labbra, poiraccolse i miei vestiti e mi accompagnò in casa. Sorrisi e lo seguii.Quando Cole fu uscito, tornai in camera da letto per farmi una doccia e vestirmi

prima di fare le valigie. Ora non sarei stata capace di dormire in alcun modo,anche se era ancora troppo presto per essere svegli. Non avevo idea di comepartire senza farlo sapere a Sara. Ero molto incerta sulla decisione di andare acercare Jonathan a New York. Era partito da più di una settimana. Sperai che nonfosse troppo tardi.Pulita, riscaldata e sorprendentemente rinvigorita, andai in soggiorno e trovai la

porta di Sara aperta. Feci capolino nella sua stanza, ma era vuota. Osservai laterrazza e la spiaggia, ma non c’era traccia di lei. Quando tornai in cucina, notaiun biglietto scarabocchiato da Sara sul tavolo.Sono andata a comprare il cibo per il picnic! Oggi facciamo un picnic in spiaggia… Potrei anche permetterti di

tenermi la mano. Ah!Non si poteva dire che non vedessi l’ora di conoscere la reazione di Sara quando

sarei sparita senza dirle dove sarei andata. Sospirai e rimisi il biglietto sul tavolo.Aprii la dispensa e tirai fuori una scatola di cereali, quando mi colpì un pensiero:come aveva fatto ad andare al negozio? Non aveva l’auto.

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«Hai una macchina da prestarmi?», chiese Sara appena aprii la por ta, mentre mistrofinavo un asciugamano sui capelli bagnati.«Buongiorno, Sara. È bello vederti», risposi, sarcastico. Lei entrò in casa.«Lo so che non sono stata molto gentile con te, e mi dispiace», esordì, con le mani sui

fianchi. «Mi piacerebbe superare questi due anni orribili in cui ti sei compor tato da cretinototale con me. E prometto di non fare più la stronza con te. Ma solo se mi prometti che tifarai indietro se Emma non riuscirà a soppor tare questa tragedia delle due settimane chele hai proposto».Alzai le sopracciglia alla sua s frontatezza, ma non mi sarei dovuto aspettare niente di

diverso da Sara. «Hai paura che faccia qualcosa?»«Non sono venuta qui per discutere la psiche di Emma con te, Evan. Sono venuta per

fare pace».«E farti prestare la macchina», sorrisi.«Sì», ammise con disinvoltura, «e per farmi prestare la macchina».Incrociò le braccia impaziente e attese la mia conferma. In realtà avevo smesso di

pensare a cosa mi aveva chiesto. Ero venuto qui per avere risposte. Adesso dovevodecidere il prezzo della verità.Inspirai profondamente. «Ok. Mi farò indietro se lei non riuscirà a soppor tarlo. E l’Audi

è in garage. La chiave è nella ciotola sul tavolo della cucina».«Grazie», sorrise Sara, sollevata. Si diresse in cucina, poi si fermò e si girò verso di me.

«Evan, mi dispiace per quello che è successo due anni fa. Non sono mai stata d’accordocon lei per quello che ha fatto, voglio che tu lo sappia. Penso ancora che sia stata la

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decisione peggiore della sua vita. E penso che lo sappia anche lei, per quanto giuri diaverlo fatto per proteggerti».«Proteggermi? Che…».Sara fece una smorfia. «Uh… grazie per la macchina».«Sara», la chiamai, «di che stai parlando?»«Merda», mormorò, stringendo le chiavi in mano. «Non avrei dovuto dir telo. Mi

dispiace. Te lo dirà lei. Dalle tempo».Serrai le labbra e annuii, sapendo che avrei dovuto comunque sentire questa spiegazione

da Emma, di qualunque cosa si trattasse. Ma come poteva essersi convinta di avermiprotetto quando aveva deciso di andarsene?«Che cazzo, Emma», mormorai mentre restavo impalato nel vialetto a guardare Sara

che usciva in macchina dal garage.«Torno presto», urlò Sara quando arrivò in strada. Esitò un attimo, poi aggiunse:

«Passiamo la giornata in spiaggia, Emma e io. Vado a comprare da mangiare per fare unpicnic… se vuoi unirti a noi».Sorrisi a quell’offerta di pace. «Grazie. Ci penserò».«Be’… adesso Emma è lì… da sola». Sara fece un piccolo sorriso prima di accelerare.

Risi per la sua schiettezza.Buttai la busta nel cestino che avevo preso dal bagno, mentre sfogliavo la posta

che Anna mi aveva dato prima che partissi, per fare spazio in borsa per i vestitiche dovevano bastarmi per due giorni. «Di quante carte di credito si può averbisogno?», sospirai, e tirai su un’altra busta, pronta per buttarla con le altre. Poi

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riconobbi la calligrafia. Avrei buttato via quella lettera, come avevo fatto conmolte altre prima. Ma non potevo. Non stavolta.Tirai fuori il foglio piegato e lo aprii. Il petto mi strinse il cuore in una morsa.

Lasciai andare un veloce sospiro e poi non riuscii più a prendere fiato.Bussai alla por ta e attesi. Emma non rispose. Bussai di nuovo, ancora niente. Guardai il

vialetto vuoto, poi misi la mano sul pomello e lo girai. Era aper to. Esitai per un istanteprima di spalancare la porta.«Emma?», chiamai, entrando con cautela in modo da non spaventarla. «Emma?».

Silenzio.Chiusi la por ta e andai in soggiorno, guardando dalle por te a vetri, ma lei non era

neanche lì. Mi stavo dirigendo verso la camera da letto quando vidi i suoi piedi penzolaresul bordo del letto.«Ehi, Emma», la chiamai, avvicinandomi. «Sara ha detto…».Quando la vidi mi fermai, aggrappandomi alla por ta per non cadere. «Emma, che è

successo?».Tremava tutta, aveva gli occhi velati e fissava con aria assente la pagina che stringeva tra

le mani. La sua bocca era leggermente arricciata e il respiro agitato le faceva sollevare ilpetto in maniera innaturale.«Emma?», dissi, cercando di raggiungerla. Le tremò il mento quando cercò di muovere

la bocca in un pianto silenzioso. «Fammi vedere», le tolsi la lettera dalle mani. I suoiocchi si mossero verso di me rapidamente, e trasalii alla vista del dolore lancinante che leleggevo dentro. Lei non emise un suono. Le lacrime le riempivano gli occhi spalancati.

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Sembrava che stesse annegando.Esaminai il foglio, e serrai i denti alla prima parola scritta con grafia affrettata: “Emily”.

Tornai a fissare Emma. Lei rimaneva immobile nel dolore.Emily,Forse leggerai almeno questa lettera. Dopo tutto, è l’ultima.Ormai dovresti avere scoperto cosa mi hai fatto. Sì, sei stata tu. Non riuscivo più a sopportare il dolore. Il

dolore di restare sola. Il dolore di essere ignorata e di non essere amata dalla mia unica figlia. Il dolore diperdere l’unica persona che mi abbia davvero amata a causa tua. L’amore che tu hai distrutto il giorno che seinata.Non saresti mai dovuta nascere. Hai causato solo dolore nelle vite di tutti quelli che hai conosciuto. Anche nelle

vite di quei due bambini innocenti che hanno provato ad amarti. Guarda chi sei diventata. Come fai a guardartiallo specchio, sapendo che hai causato tanta sofferenza?Mi hai ucciso con le parole fredde e piene di odio che mi hai detto. Mi hai ucciso con ogni lettera che ti ho

mandato e a cui non hai mai risposto. Come hai potuto essere così fredda e piena di odio con tua madre? Ti hodato così tanto, e a te non è importato nulla. Non sono mai stata abbastanza per te. Adesso dovrai vivere solacon te stessa, sapendo che è a causa tua che non posso andare avanti.Con amore,tua madreEro disgustato. «No», dissi, con tono insistente. «Emma, no, no», scossi la testa,

incredulo.Mi misi a sedere accanto a Emma, ma lei non rispose. Le tremavano braccia e gambe e le

battevano i denti. Gettai a terra la lettera, non volevo nemmeno s fiorare le parole indegnescritte su quella pagina.La abbracciai e la tirai a me. Lei crollò sul mio petto e la strinsi. «Non darle retta»,

supplicai. Mi si appannò la vista. «Non darle retta, Emma. Neanche a una parola». Ma leinon poteva sentirmi.

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R

23Dolore silenzioso

iusciva soltanto a respirare ritmicamente. Non smetteva di tremare, per quanto latenessi stretta. Non fece resistenza quando la stesi sul letto. Appoggiandomi alla

testiera imbottita, la adagiai sul mio petto, e la abbracciai. «Emma, devi sapere che ogniparola che ha scritto è una bugia. Non lasciare che ti ferisca», supplicai, accarezzandole icapelli con le labbra.Lei continuava a tremare. Mi sentivo come se fossi stato trafitto al petto con una torcia

incandescente. Odiavo quella donna egoista e vendicativa. Si era accer tata che il suoultimo gesto fosse crocifiggere l’unica persona che aveva provato ripetutamente adamarla. Feci un sospiro per scacciare il disprezzo. Non era di quello che aveva bisognoEmma.Restammo così, avvolti in un dolore silenzioso, finché non sentii la porta di casa aprirsi.

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«Emma?», chiamò Sara. «Evan?».Aprii la bocca per chiamarla proprio quando apparve sulla por ta. Vide Emma stesa sul

mio petto, tra le mie braccia, e mi lanciò un’occhiataccia. «Che state…». Si fermò,socchiudendo gli occhi esaminando più attentamente Emma; poi si avvicinò cautamente.«Che è successo? Emma?». Mi guardò allarmata. «Evan, che le è successo? Che haifatto?».Scossi la testa. «C’è una lettera. È da qualche parte sul pavimento».Sara distolse lo sguardo, preoccupata, e cercò sul pavimento, chinandosi a raccogliere il

pezzo di carta. Non riuscivo a guardarla mentre la leggeva.«Brutta stronza!», esclamò Sara, spaventandomi. Guardai Emma. Era ancora stretta su di

me, non si mosse. «Come ha potuto…». Sara accar tocciò la lettera e uscì come una furiadalla stanza. Sentii sbattere i cassetti mentre mormorava: «Quella brutta stronza», dicontinuo. Sentii puzza di fumo e seppi subito cosa aveva fatto.Sara tornò nella stanza, salendo sul letto dall’altro lato in modo da vedere Emma in

faccia. Si chinò su di lei, guardandola nei suoi occhi vacui, e le passò una mano sullaguancia.«Emma», la rassicurò, «era una persona orribile, e voleva solo ferir ti. Non

permetterglielo. Em, non puoi permetterglielo. Sei molto più for te di così. So che lo sei.Ti prego, Emma».Sara serrò le labbra mentre gli occhi le si riempivano di lacrime. Spostò lo sguardo su di

me e disse: «Non può crederci. Evan, non possiamo permettere che quella donna ladistrugga».

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«Lo so», dissi a bassa voce, passando la mano sulla schiena di Emma.Emma trasalì al mio tocco. Sollevai la testa per guardarla in faccia. «Emma?».Lei singhiozzò, respirando pesantemente. Si allontanò da me, per poi rannicchiarsi, e

strillò: «No!».Sara rimase immobile in un silenzio stupefatto.«No! No!», Emma agitò i pugni e colpì ripetutamente il materasso, con gli occhi chiusi

mentre ripeteva le stesse parole di continuo. «No! No! No!». Scoppiò in una crisi di nervi,piangendo così for te che sembrava in preda alle convulsioni. Sara mi guardò: la paura lesi leggeva in faccia.Mi spostai e la afferrai gentilmente per le spalle. «Emma, va tutto bene».«No», urlò. «È mor ta! È mor ta!». Crollò sul letto, singhiozzando in modo

incontrollabile. Poi disse piano: «Mia madre è morta».«Oh, Emma», esclamò Sara, inginocchiandosi sul pavimento accanto al letto, con il viso

sconvolto dal dolore mentre guardava la sua migliore amica soffrire senza poter farenulla.Mi rannicchiai alle sue spalle e la strinsi for te, attutendo gli spasmi dei suoi singhiozzi.

Mi strinse forte il braccio, come se potessi impedirle di andare a fondo.Non dicemmo una parola. Sara e io restammo accanto a lei e la lasciammo piangere per

quella madre che non la meritava. Sapevo che stava piangendo la sua mor te,probabilmente per la prima volta da quando ne era venuta a conoscenza. Tutto quello chevolevo fare era proteggere Emma da qualsiasi cosa potesse ferirla. Mi ricordavo la nottein cui aveva pianto tra le mie braccia rivivendo la mor te di suo padre. Quella volta non

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avevo potuto alleviare il suo dolore, e sapevo di non poterlo fare adesso. Anche se avevofallito di nuovo, non avevo intenzione di smettere di provarci.Alla fine, i singhiozzi si esaurirono e il suo corpo si rilassò. Sentii la sua schiena

allargarsi sul mio petto mentre i respiri si facevano più profondi.Sara mi guardò e disse: «Dorme». Annuii. Sara si alzò lentamente, con il corpo

irrigidito, e si stiracchiò le braccia.Si diresse verso la porta e si voltò. «Evan. Vieni». indicò la porta, impaziente.Esitai, non volevo andarmene. Ma era evidente che Sara doveva dirmi qualcosa e non

voleva farsi sentire da Emma. Tolsi il braccio da sotto di lei, flettendo la mano per farriprendere la circolazione del sangue. Emma tremò quando mi spostai. La avvolsi in unacoperta, chiudendo a malincuore la porta della stanza prima di seguire Sara in soggiorno.Sara camminava avanti e indietro, con le labbra serrate. Si fermò quando mi avvicinai.

La sua ansia mi distruggeva. «Evan, ho paura».Rimasi in silenzio, aspettando che si spiegasse.«Non hai idea di che cosa ha passato in questi due anni», proseguì d’un fiato. «Va avanti

a malapena, e ho paura che quella lettera l’abbia spinta oltre il limite».«Cosa hai paura che faccia, Sara?», le chiesi. «Bere di nuovo?».Sara crollò sul divano, mentre i suoi occhi si agitavano pensierosi. «Non so come

spiegar telo». La sua voce era tranquilla ed esitante. «Da quando ha lasciato Weslyn silimita a… esistere. Non c’è luce nei suoi occhi. Nessuno scopo. Nessuna spinta. Primavoleva fare sempre di meglio, e adesso… adesso a malapena vive». Si fermò per guardarela por ta della stanza da letto, con gli occhi umidi. «È come se la stessi perdendo un po’

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alla volta. Come se stesse scivolando via e non riuscissi a trattenerla. Ho paura che siallontanerà da noi per sempre. So che non ha del tutto senso, e non so come spiegar telo.Ho paura».Mi sedetti di fronte a lei. «Cosa le è successo, Sara?».Sara mi guardò con occhi carichi di tristezza. «Ti ha lasciato».Aggrottai la fronte, confuso, ma prima che potessi parlare, Sara disse: «Davvero non

capisco perché ti ha lasciato, Evan. Devi chiederglielo».Il rumore della por ta che si apriva ci interruppe. Sara e io ci voltammo quando entrò

Cole. Era bagnato e aveva un paio di pantaloncini da surf.«Ehi», ci salutò, guardandosi attorno. «Dov’è Emma?».Sara e io ci guardammo, sospirando all’unisono. Alla fine lei disse: «Glielo dico io».Annuii e mi alzai dalla sedia. Non volevo vedere la sua reazione, qualunque fosse. Così

uscii in terrazza, riparandomi dalla voce di Sara con la porta a vetri.Fissai le onde decise e inspirai profondamente, con la stanchezza che prendeva il

sopravvento.La por ta a vetri si aprì, attirando la mia attenzione. Sara uscì per unirsi a me, respirando

anche lei l’aria salmastra, come se in qualche modo potesse rianimarla.«È andato da lei», mi disse Sara. Si appoggiò alla ringhiera accanto a me. Dopo un

istante passato ad ascoltare l’oceano, disse: «Sono sicura che è difficile per te vederliinsieme».«Ma non stanno davvero insieme», ribattei.«Però», disse Sara, «non sta con te. Quindi, in ogni caso, deve essere difficile.

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«Non sono venuto qui per farla tornare con me, Sara. Su questo sono stato sincero. Hopassato questi due anni a cercare di capire cosa pensava; cosa è successo; perché se n’èandata. Ho bisogno di risposte. È per questo che sono qui».Sara si appoggiò sul gomito per guardarmi. «Non ti credo».Ero sconvolto dal suo commento. «Cosa?».«Evan Mathews, puoi ripetere a te stesso e a tutti gli altri che sei qui per avere risposte,

per chiarire le cose. Ma la verità è che la ami. L’hai sempre amata. La amerai sempre. Seiqui perché non puoi stare lontano da lei. Hai visto quanto era distrutta e vuota a Weslyn, ehai dovuto seguirla. Non sarai mai capace di lasciarla andare. Sei qui perché… questo è iltuo posto, con lei».Mi si strinse il cuore; era come se mi avesse scavato e frugato dentro per cercare quello

che non ero mai riuscito ad ammettere. Non riuscivo a parlare. Guardai verso l’acqua efeci un respiro profondo. Voltai le spalle a Sara e tornai in casa, dovevo controllare comestava Emma.Cole era seduto sulla sedia, si era messo dei pantaloncini e una T-shir t, si fregava le mani

e muoveva le gambe nervosamente.«Stai bene?», gli chiesi.Annuì, ma uno scatto irritabile nel suo sguardo diceva altrimenti. Proseguii verso la

camera da letto. Emma era ancora rannicchiata nel sonno, muovendosi di tanto in tanto.Mi misi a sedere sul letto accanto a lei, scostandole i capelli dal viso.«Resto con lei stanotte», disse Sara sulla porta. «Non preoccuparti. Ci sono qui io».Lasciai Emma al suo sonno tormentato e andai in soggiorno. «Cole, ti scoccia se dormo

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qui stanotte? Sul divano?».Era chiaro che non sapeva cosa dire. Ma scrollò le spalle e disse: «Certo, rimani pure».Mi svegliai al buio. Sentivo qualcuno respirare accanto a me. Mi faceva male

dappertutto, e avevo la testa annebbiata, come se fossi sotto l’effetto di unamedicina.Poi ricordai. Serrai i denti, cercando di respirare regolarmente. Sentivo ancora il

peso della lettera tra le mani, le parole che mi pugnalavano al cuore, rigirando lalama.Non saresti mai dovuta nascere. Hai causato solo dolore nelle vite di tutti quelli

che hai conosciuto.Mia madre aveva detto cose orribili in passato, di solito indotta dagli effetti

dell’alcol. Aveva sempre saputo cosa dire per ferirmi. Ma quelle parole… Le avevascritte prima di uccidersi. Quelli erano i pensieri che l’avevano portata alla tomba.E non voleva solo ferirmi, voleva portarmi con sé.Adesso dovrai vivere sola con te stessa, sapendo che è a causa tua che non

posso andare avanti.Mi sfuggì un singhiozzo.«Va tutto bene», sussurrò lui con voce calma, tirandomi a sé. Schiacciai il viso

sul suo petto, respirai il suo odore rassicurante e lasciai che le mie lacrimesgorgassero e gli bagnassero la T-shirt. Singhiozzai mentre mi stringeva, e ilcuore mi faceva così male che avrei voluto strapparmelo dal petto per fermarlo.«Emma, siamo qui», disse Sara dietro di me, accarezzandomi la schiena. «Andrà

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tutto bene. Siamo qui con te, non ce ne andiamo».Il sonno alla fine arrivò al mio cuore spezzato, e mi immersi nell’oscurità.Mi guardai attorno nella stanza buia, ancora incapace di dormire. Emma respirava sul

mio petto, e Sara era rannicchiata dietro di lei, con le mani sulla sua schiena. Emma ognitanto tremava e si lamentava. Potevo solo immaginare quanto fossero tormentati i suoisogni.Lasciandole a dormire, uscii dalla stanza e tornai sul divano dove non avevo dormito. La

por ta della stanza degli ospiti era chiusa, dentro c’era Cole. Mi misi a sedere sul divano efissai intontito il buio, aspettando che il sole illuminasse il cielo.Sara uscì dalla stanza un paio di ore dopo, quando finalmente cominciava a vedersi la

spiaggia dietro il velo di nebbia. Sbadigliò e si stiracchiò le braccia, con aria esausta.«Dorme ancora?», chiesi, cercando di decidere se dovevo tornare da lei in modo che

non si svegliasse da sola.«Se vogliamo dire così», mormorò Sara, con le parole avvolte in un altro sbadiglio.

Notò la mia indecisione. «Evan, sta dormendo. Non devi tornare lì dentro adesso.Facciamo colazione o comunque proviamoci. Non dovresti essere un cuocoformidabile?»«Sì, certo», risposi, alzandomi e stirandomi la schiena. «Preparo qualcosa».Rimasi sepolta sotto le lenzuola ma sollevai lo sguardo quando Sara si sedette

accanto a me sul letto. Qualsiasi movimento mi faceva male… dappertutto.«Hai fame? Evan ha preparato le omelette. Te ne può fare una», propose

gentilmente.

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Provai a scuotere la testa, ma non ero sicura di esserci riuscita. Tornai a fissareil nulla. Ero infestata dal pessimismo, che mi scorticava e mi deturpava, nutrendoil senso di colpa e l’odio che avevano messo radice tanto tempo fa. Avvolgevaogni cellula, e non potevo più nascondermi. Non riuscivo a provare niente. Nonriuscivo a pensare a niente. Non riuscivo a muovermi senza causare un doloreincomprensibile che mi costringeva a supplicare che la sofferenza finisse, comeaveva fatto mia madre.«Sta lì a fissare il vuoto. È come… se non mi vedesse nemmeno. Non so cosa fare»,

disse Cole, mettendosi a sedere, tor turandosi le mani mentre guardava dritto davanti a sé.La sua voce sembrava ansiosa e spaventata. «Che cosa dobbiamo fare?».Sara guardò preoccupata prima Cole e poi me. Eravamo d’accordo di lasciare che Emma

elaborasse il lutto. Lasciare che accettasse la mor te di sua madre. Ma si stava chiudendoin se stessa, non mangiava, non parlava, e non sapevamo come comunicare con lei.«Uh, io… esco per un po’», annunciò Cole, guardandoci con aria colpevole. «Va

bene?».Sara annuì, e lui guardò me. Annuii anch’io. Prese le chiavi e sparì dalla porta principale.Sara continuò a fissare la por ta dopo che fu uscito. «Mi dispiace per lui. Non aveva idea

di cosa significasse stare con lei. Questa cosa è davvero un po’ terribile».«Un po’?», ribattei, sollevando le sopracciglia. Non volevo dispiacermi per Cole. Era

evidente che la cosa era più grande di lui. Ma questo non faceva che confermare che nondoveva stare con lei.«Che facciamo, Evan?», chiese Sara, con voce carica di stanchezza. «Come la

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riportiamo tra noi? Dobbiamo portarla in ospedale?».Sospirai e scossi la testa, sentendomi sconfitto quanto lei. «Sono passati due giorni.

Diamole un altro giorno, e poi decideremo».Sara si strofinò gli occhi. «Vorrei che riuscissimo a ricordarle quanto è forte».E questo mi colpì.«Ho trovato», dissi, con il petto improvvisamente leggero.«Cosa?», Sara sollevò la testa.«Torno subito», le dissi.Mi aggrappavo all’unica cosa che mi era rimasta… la speranza.

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«E

24In attesa

m, devi alzarti».Aprì a malapena gli occhi. Mi guardò senza dire una parola, senza mostrare la

minima intenzione di muoversi.«Davvero», dissi con un po’ più di decisione. «Devi scendere dal letto e venire con me».

Se ne restava lì, fissandomi come se non capisse. «O scendi dal letto o ti porto via io».Spalancò la bocca. Almeno mi aveva sentito.«Perché?», disse con voce roca.«Perché voglio aiutarti», spiegai. «Ma non posso farlo finché non ti alzi».Spostò lo sguardo, riflettendo. Era la reazione maggiore che avessimo ottenuto in quei

due giorni, a parte piangere.«Non mi lascerai in pace finché non mi alzo, vero?».

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«Già», risposi, cercando di non sorridere, anche se era difficile. «Fidati di me, Emma».Lei ci pensò su un istante, fece un respiro profondo e tirò via le coper te. Stavolta non

riuscii a nascondere la mia soddisfazione.«Non essere così fiero di te stesso», borbottò, tirando le gambe giù dal letto. Feci una

risatina per la sua vena polemica. Era un buon segno, o comunque un segno migliore.«Vuoi far ti una doccia, prima?», chiesi. Aveva i capelli tutti annodati da una par te, e sul

viso aveva i segni del cuscino. Indossava gli stessi vestiti da due giorni, quindiimmaginavo volesse sentirsi… pulita.«No», disse, testarda. «Se vuoi che mi alzi, devi accontentarti».Feci un sorriso. «Ok, allora. Andiamo».Mi voltai verso la porta.«Stiamo uscendo?»«Sì. Sei sicura di non volerti lavare almeno i denti?», suggerii un’ultima volta.Lei mi guardò pensierosa, cercando di capire che cosa avessi in mente. Sorrisi ancora di

più e lei socchiuse gli occhi. «No, va bene così».Il suo atteggiamento mi fece ridere. Non era una persona a cui si poteva dire cosa fare,

ed era quello uno dei motivi per cui…Mi girai verso la por ta, interrompendo quel pensiero prima che potesse concludersi. Non

era per quello che ero lì, e dovevo continuare a ricordarmelo – anche se in quel momentonon ero pronto a crederci.Emma barcollò dietro di me. Era tutta indolenzita, probabilmente per essere stata

raggomitolata così a lungo. Superammo Sara che leggeva una rivista in soggiorno. Stava

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cercando di comportarsi con naturalezza, ma io lo sapevo. Dentro era a pezzi.«Divertitevi», disse con un sorriso.Emma le lanciò un’occhiata di traverso. «Ovviamente devi partecipare anche tu».Guardai Sara con un sorriso. In quel momento la preoccupazione affiorò nei suoi occhi.

Ovviamente non era altrettanto sicura che quello che avevo in mente avrebbe funzionato.La luce era troppo forte quando uscii dalla porta, anche se era il tramonto. Mi

sentivo come se il mio corpo fosse stato congelato e ora tornasse in vita. Sentivola testa ancora piena di ovatta, ed ero così stanca che mi sarei stesa sulmarciapiede per dormire.Alzai gli occhi al cielo al sorriso a cui Evan non sembrava rinunciare, nonostante

tutte le occhiate che gli lanciavo. Non sapevo perché avevo accettato. Mad’altronde, l’avevo fatto. Perché mi aveva chiesto di fidarmi di lui. E non gli avevomai detto di no, prima.Affondai sul sedile anteriore della decappottabile, ed Evan chiuse lo sportello.

Guidammo in silenzio fino all’altra casa. Con Evan a fare strada, che ogni tanto siguardava indietro, mi trascinai nel garage e su per le scale.Proseguimmo fino al secondo piano della casa e ci fermammo fuori da una porta

chiusa.«Chiudi gli occhi», chiese con un sorriso indelebile.Aggrottai la fronte. «Dici sul serio?»«Sì», annuì. «Chiudi gli occhi».Sospirai e chiusi gli occhi. Un attimo dopo sentii che venivano avvolti in una

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benda.«Davvero?», sbottai, incredula. Evan rise. Avrei alzato gli occhi al cielo se

fossero stati aperti.«Fidati di me», ripeté. Mi calmai a quelle parole. Le sue parole. Mi bastò sentirle

perché il cuore prendesse a battermi più forte.Evan mi prese la mano. Era calda e forte, e avvolgeva la mia. Me la strinse

piano prima di dire: «Ok, fai qualche passo avanti».Gli permisi di guidarmi, incapace di controllare il tremito che sentivo nel petto.Superammo la por ta e la guidai al centro della stanza prima di lasciarle la mano per

chiudere la por ta. Aspettai un istante prima di sussurrarle all’orecchio: «Respira, Emma.Fai un respiro profondo».Lei si fermò un istante, senza capire. Poi la guardai mentre inspirava dal naso,

riempiendo i polmoni mentre allargava il petto. Esitò, come se fosse sorpresa. Poi respiròdi nuovo, e un meraviglioso sorriso comparve sul suo volto. Era la miglior reazione chepotessi sperare.Emma si tirò giù la benda, che le cadde attorno al collo. Guardò la stanza e poi si voltò

verso di me. Per la prima volta, giurai di aver visto un accenno di luce nel marrone chiarodei suoi occhi.«Grazie», sussurrò.Annuii, anche io avevo un nodo in gola che mi impediva di parlare. Deglutii e dissi: «Fai

uscire tutto, Emma. Trova la strada per tornare da noi».Emma sorrise ancora di più, e io la imitai. «Ok», disse, e si girò. Tornai alla por ta,

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lasciandola da sola nella stanza.Mi morsi il labbro mentre una lacrima mi scendeva sulla guancia. Inspirai,

accogliendo ancora una volta quegli odori rassicuranti. Non avevo idea di comeavesse fatto, come era riuscito a dare alla stanza esattamente quell’odore, ma mifece gonfiare il cuore tanto che pensavo stesse per esplodere.Seduta sullo sgabello, studiai le tele bianche, ricordando le sue parole. «Fai

uscire tutto, Emma». Mi ripresi con un sospiro e mi rigirai pensierosa il pennellotra le mani. Le altre parole di Evan risuonavano: «Trova la strada per tornare danoi». E mi sentii invadere di calore. Sapevo esattamente cosa avrei dipinto. Presiun tubetto di colori e lo spruzzai sulla tavolozza.Mi guardai attorno e notai il piccolo frigorifero con le bottiglie d’acqua e un

vassoio con un sandwich, una barretta ai cereali e una mela. Su un tavolo c’eranodei vestiti puliti per cambiarmi. Mi batteva il cuore – una sensazione che nonsentivo da… anni. In quello stesso istante, mi brontolò lo stomaco, e presi labarretta mentre continuavo a strizzare i colori sulla tavolozza. Tutto quello chevolevo fare era perdermi nelle pennellate. Riprendere il controllo dal caos che mistava facendo a pezzi. E trovarmi nell’unico posto in cui mi sarei sempre sentita alsicuro.«Ho trovato il biglietto di Sara», disse Cole quando aprii la porta.«Sì, entra», feci i tre gradini verso il soggiorno.«E… lei dov’è?», chiese Cole, guardandosi attorno, a disagio.«A dipingere», gli dissi. Tirò indietro la testa, confuso. «Non sapevi che dipingeva?»

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«Non credo che abbia… be’, da quando se n’è andata», spiegò Sara. Era seduta su unapoltrona con le gambe rannicchiate sotto di lei. Aveva messo in pausa un film chestavamo guardando quando avevamo sentito bussare alla por ta. «Evan pensava chel’avrebbe aiutata ad affrontare il dolore. Che potesse esprimersi con il pennello. Al liceofunzionava».«Oh», rispose Cole, annuendo. «Ci hai pensato tu».«Sì», risposi con cautela. «C’era una possibilità su mille. Ma è servito a tirarla fuori dal

letto».«Ed è un bene, immagino».Sapevo che stava ancora cercando di capire quali erano le mie intenzioni, nonostante la

nostra conversazione della prima sera. E io non riuscivo a capire quali erano i suoisentimenti per Emma. Sapevo che non aveva preso molto bene quello che era successonegli ultimi giorni.«È di sopra, se vuoi andare a trovarla», gli disse Sara.Cole guardò verso le scale, le mani infilate nelle tasche. «Ci sei stata?», Sara scosse la

testa. «Allora aspetto anch’io. Mi chiamate quando scende?»«Certo», rispose Sara.«Grazie». Si girò e uscì dalla porta.Sara mi guardò accigliata. «Um… imbarazzante». Scrollai le spalle e affondai sul divano

per continuare a guardare il film.«Puoi andare a letto, se vuoi», mi disse Sara quando cominciai ad appisolarmi sul

divano. In televisione trasmettevano le azioni migliori di una par tita di baseball. Negli

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ultimi giorni non avevo dormito molto, e adesso ne pagavo le conseguenze. Lottavo pertenere gli occhi aperti.«No, sto bene», dissi, muovendomi per sembrare più vigile di quanto non fossi.«Evan, puoi andare a dormire in un vero letto», insisté Sara. «Non devi rimanere sul

divano. Sono le due del mattino».Guardai le scale. Lei era ancora lì… a dipingere qualsiasi cosa stesse dipingendo. Non

l’avevamo più sentita da quanto avevo chiuso la por ta, a par te un paio di volte in cui erauscita in corridoio per andare in bagno. Ma nessuno di noi era andato da lei, volevamolasciarle lo spazio per… guarire.«Puoi andare a letto anche tu», dissi a Sara. «Ci sono diverse stanze per gli ospiti». I

suoi occhi segnati rendevano chiaro che era stanca quanto me.Scrollò le spalle e tornò a guardare il libro che aveva aper to in grembo. Nessuno di noi

voleva alzarsi dal divano. Era il miglior punto per ascoltare la por ta aprirsi e chiudersi, edessere in vista quando finalmente sarebbe scesa.Mi fermai per ammirare l’immagine che avevo creato e sorrisi orgogliosa. Ogni

pennellata sulla tela pulsava di emozione. Avevo gli occhi annebbiati, e le manimi tremavano leggermente per quel che restava dell’adrenalina che si eraimpossessata di me, tenendomi vigile tutta la notte. Ma quando misi giù ilpennello, tutta l’energia mi abbandonò. Ero esausta. Sollevai le mani sporche dipittura. Avevo sicuramente bisogno di una doccia, soprattutto visto che erano tregiorni che non ne facevo. All’improvviso mi sentii repellente.Raccolsi i vestiti dal tavolo e uscii di soppiatto in corridoio. Sentivo la televisione

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e vidi la luce in fondo alle scale. Evan doveva essersi alzato presto, come alsolito. Non sarei mai riuscita a capire come facesse una persona ad amare cosìtanto le mattine.Saltai su al suono della por ta che si chiudeva. I miei piedi raggiunsero il pavimento, e

Sara si svegliò di colpo.«Che c’è?», disse, spostandosi i capelli dal viso quando si mise a sedere. «Che è

successo?».Il suono della doccia filtrò dalle scale.«Ha finito», annunciai, togliendomi la coper ta di dosso e salendo i gradini a due alla

volta.«Evan, aspettami!».Entrammo nello studio con l’enorme vetrata che dava sull’oceano. Pensavo sarebbe stata

l’ispirazione per fetta per i suoi quadri. Ma quando vidi le tele, capii che dopo tutto nonaveva bisogno di ispirazione.Guardai Sara. «Mi piace», dissi, raggiante per l’immagine che avevo davanti. I raggi del

sole che filtravano tra le foglie mi facevano quasi socchiudere gli occhi. Con le pesantipennellate della corteccia, immaginai di passare le dita sul tronco ruvido.«Cer to che ti piace», disse Sara, guardandomi con la coda dell’occhio. «Ha dipinto

l’albero del tuo giardino con l’altalena che tu hai fatto per lei».«Eh sì», gongolai.Sara fece una risatina.Rimasi a guardare le tele, ammirando ciò che Emma aveva liberato. Era tornata

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nell’unico posto che sarebbe sempre stato lì ad aspettarla.

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A

25Un po’ di sincerità

vevo la mente sgombra e calma. L’unica cosa che riuscivo a sentire era il ritmoprofondo del mio respiro. Il cuore mi martellava rapidamente nel petto. Se

fossi riuscita a spingere un po’ di più, avrei potuto fuggire e permettere alla lucedi attraversarmi la pelle. Forse non sarebbe stato più così buio.Affondai i piedi nella sabbia e accelerai, ignorando le suppliche dei miei muscoli

in fiamme. Assorbii il silenzio quando il sole tagliò le tenebre mattutine. “Un po’più veloce”.Arrivai in vista delle scale che salivano sul fianco della collina, e allungai il

passo. Spinta dalla disperazione, ce la misi tutta finché non mi restò più nulla.Vidi un sasso grigio e liscio infilato nella sabbia. Quello sarebbe stato il miotraguardo. Il punto in cui avrei trovato la redenzione. Quando lo superai, mi

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fermai, con il respiro affannato. Misi le mani sui fianchi e camminai avanti eindietro, cercando di calmare il mio cuore impazzito.Per quanto volessi credere di poter correre più veloce dell’oscurità, sapevo che

era ancora lì, pronta a prendermi. Lì non c’era la redenzione ad attendermi.Eppure la fatica era abbastanza per darmi quel po’ di conforto che cercavo,almeno finché non sarebbe arrivata la sera e non fossero ricominciati i sussurri.Mi girai quando Evan si fermò, piegato in due e con le mani sulle ginocchia.

«Porca puttana», ansimò. «Non provare mai più a dire che non sei una personamattiniera».Un leggero sorriso comparve tra l’affanno.«Non sono una persona mattiniera».Evan mi guardò scettico, con il sudore che gli colava dal naso.«Sono una persona che non dorme», spiegai, respirando a fondo per

riprendermi.Evan mi fece cenno di aver capito.Abbassai lo sguardo, non sapendo se avesse capito davvero. Non mi piaceva

l’inquietudine che scacciava il sonno. I pensieri che mi entravano in testa quandonon volevo fare altro che non pensare a niente. Non erano incubi ma sussurri chemi perseguitavano al buio, e non mi facevano riposare, non mi lasciavano libera,non mi permettevano di dimenticare.«Scusa se non sono passato ieri», disse Evan, riscuotendomi dai pensieri.«Non c’è problema», risposi, fingendo che non mi interessasse, anche se avevo

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passato quasi tutto il giorno a chiedermi dove fosse finito. Cole e Sara avevanonotato la mia distrazione. Avevo provato a cavarmela dicendo di essere stancaper tutto quello che avevo passato le scorse settimane. Ma Sara aveva capito,anche se non ne avevamo ancora parlato.«Vieni alla festa stasera, vero?», chiese Evan, avvicinandosi alle scale.Le guance mi diventarono rosse al pensiero di rivedere i suoi amici. «Sì, ci

vediamo dopo».«Ok», disse in fondo alle scale, esitando prima di andarsene.«Evan», lo chiamai, facendolo fermare dopo qualche gradino. «Sono un po’ di

giorni che non parliamo, quindi tecnicamente abbiamo ancora undici giorni.Possiamo farlo adesso… se vuoi». Dall’inizio della settimana non avevamoscambiato neanche un momento di sincerità. Non sapevo perché l’avessiproposto. Non è che mi piacesse torturarmi, ripensare a tutte le scelte distruttiveche avevo fatto.«No». Evan scosse la testa. «Non voglio più farlo». Aprii la bocca, non mi

aspettavo quella risposta. «Non ti odio, Emma, e non voglio farlo. E non ticostringerò a dirmi cose che non vuoi dirmi. Ovviamente voglio sapere perché tene sei andata, e cosa ti ha tenuto lontana. Ma solo se vorrai dirmelo».«Ok», sussurrai: mi si strinse il cuore a quelle parole.«Ci vediamo dopo», disse Evan, e cominciò a salire le scale.Annuii, poi tornai verso casa di Cole. Sentivo i piedi improvvisamente pesanti.

Avrei dovuto sentirmi sollevata che non volesse più costringermi a parlare. E

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invece no. Non lo capivo. Sembrava quasi che avesse… finito. Non mi aspettavoche si arrendesse così facilmente. Ma era quello che desiderava sin dall’inizio – unchiarimento, una chiusura. Feci un sospiro, con il cuore che si contorceva alpensiero. Avrei dovuto essere pronta. E invece no.

***«Com’è andata la corsa?», chiese Nate, mentre beveva un caffè al tavolo della cucina.«Piuttosto bene», risposi, increspando le labbra.«E cos’è quell’espressione?», chiese: mi conosceva fin troppo bene. «Fammi indovinare.

Non hai corso da solo».«No», risi. «Ho corso con Emma, ed è andata… bene». Le mie labbra liberarono il

sorriso che stavo cercando di nascondere. «È fantastica quando corre. Non so comedescriverlo». Mi persi al pensiero delle sue gambe sottili e for ti che la spingevano avanti,come se potesse correre per sempre. Erano gli unici momenti in cui mi sembrava in pacecon se stessa. Tirai indietro le spalle per la sorpresa quando qualcuno mi diede una pacca.«Buongiorno», disse Brent, allegro. Era sempre fin troppo sveglio, a qualsiasi ora. «Che

facciamo oggi?»«Uh, ci prepariamo per la festa», gli disse Nate, come se fosse un idiota. «I rifornimenti

nella dispensa stanno finendo. Dobbiamo andare a fare la spesa. E non ho idea di dovesiano finite le torce, quindi dobbiamo prenderne altre».«Qual è il tema?», chiese Brent, versandosi il caffè in una tazza.«L’estate», rispose semplicemente Nate. «Per me va bene come tema. Ma cominciamo

presto, quindi sarà una festa in piscina».

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«Quindi le ragazze verranno in bikini», disse Brent, annuendo con un sorriso fastidioso.«Geniale».«Pensi solo a quello», dissi, prendendo una bevanda energetica dal frigo.«Sì». Mi guardò come se fossi pazzo. «Aspetta di vedere le ragazze che arrivano qui

praticamente nude, e poi dimmi se non pensi a quello anche tu».Nate mi guardò e sorrise. «Non penserà a quello».Gli lanciai un’occhiataccia. «Sta’ zitto, Nate».«Che sta succedendo?», chiese Brent.«Emma è qui», disse Nate, e Brent si mandò il caffè di traverso.«Se non la smetti con quel broncio, ti lascio qui», mi rimproverò Sara mentre mi

faceva i capelli.«Non ho il broncio. E voglio venire». Stranamente, era vero. Mi rigirai le dita in

grembo, ansiosa di vedere i ragazzi… di vedere di nuovo Evan.«È successo qualcosa, e tu non me ne stai parlando. Lo so che…».«Le due settimane sono finite», sparai, guardando lo specchio, e detestando il

fatto di essere così trasparente per lei.«Mmm, no», rispose Sara, confusa. «Hai ancora dieci giorni».«Ha detto che non vuole più farlo», risposi piano. «Perciò… è finita».Sara rimase ferma, con l’arricciacapelli tra le mani, a fissarmi nello specchio. «E

perché la cosa ti agita tanto? Pensavo saresti stata contenta di non dovergliconfessare quello che avresti dovuto dirgli la prima volta».Spalancai la bocca per negare, ma sapevo che non mi avrebbe creduto. Osservai

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i suoi occhi blu nello specchio e scrollai le spalle. Era tutto ciò di cui avevabisogno. Sorrise per consolarmi. «Non è finita, Emma».«Ehi», ci chiamò Cole dal soggiorno, facendoci trasalire. «A che ora andiamo?»«Uh, fra un paio di minuti abbiamo finito», urlai, lanciando uno sguardo

colpevole a Sara.«Non state insieme», disse.«Sara!».«Che c’è? Sono le tue parole», disse con aria innocente.Sospirai. Sarebbe stato ancora più complicato. «Sei ufficialmente stupenda»,

annunciò Sara, ammirandomi nello specchio. «Adesso andiamo, e divertiamocicome non mai. L’estate ormai è iniziata e non abbiamo riso neanche un po’».Sorrisi, osservando la sua opera. «Grazie, Sara». Mi voltai verso di lei sullo

sgabello che avevamo preso dalla cucina. «Per tutto».Sara sorrise. Saltai giù e infilai un paio di sandali con il tacco. «Andiamo».«Evan, puoi prendere altre Corona?», urlò Nate dall’altra par te della piscina. Annuii e mi

feci largo tra le spalle nude e i bermuda dirigendomi verso l’entrata. La folla si aprì dinuovo quando tornai qualche minuto dopo con un paio di casse di birra tra le braccia.«Adoro sempre le tue feste», sospirò a Nate una ragazza accanto al bar mentre infilavo

le bottiglie nel ghiaccio.«E noi siamo contenti quando vieni, Reese», rispose sinceramente Nate, senza flir tare.

Un attimo dopo sentii: «Merda, Evan».«Che c’è?», mi alzai, pensando di dover intervenire in una rissa o qualcosa del genere.

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Nate stava fissando la terrazza, così io seguii il suo sguardo… e mi tolse il fiato.«Amico, sei nei guai», mormorò, continuando a fissare.Non potei negarlo quando la vidi dietro Sara sulle scale. Il pareo rosa e arancione a fiori

le circondava i fianchi, con uno spacco a metà coscia che mostrava una gamba scolpita eabbronzata. Il top arancione senza spalline le modellava il corpo, mostrando appena lapelle bronzea intorno alla vita. I capelli solitamente lisci adesso erano ricci, legati da unlato con un fermaglio rosa a forma di fiore. La fissai fin troppo a lungo mentre siavvicinavano – finché non sentii il gomito di Nate tra le costole, che mi distolse daldesiderio.I miei occhi incrociarono quelli di Emma, e sorrisi. «Ciao, Em. Stai benissimo».«Grazie», rispose, distogliendo gli occhi mentre un’ondata di rosso le raggiungeva le

guance.«Ciao, Evan», mi salutò Sara, con sguardo interrogativo. Mi sorprese.Mi fece sentire come se avessi fatto qualcosa di sbagliato. Alzai le mani e mimai con le

labbra: “Che c’è?”.Sara rispose con un’occhiata feroce. Emma guardò Sara e poi me, accorgendosi del

nostro scambio silenzioso.«Cosa posso darti da bere, Emma?», chiese alla fine Nate, rompendo l’imbarazzo.«Um…», osservai Sara un po’ più a lungo, mentre cercava di nascondermi

qualsiasi cosa stesse succedendo tra lei ed Evan. «Cos’è quello?», chiesi,indicando una ragazza dietro Sara con un drink rosa.«È un drink alla limonata rosa che abbiamo inventato oggi», disse Nate.

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«Ne prendo uno», chiesi – e vidi Evan aggrottare la fronte.Arrossii ricordando l’ultima volta che mi aveva visto bere. «Ne abbiamo parlato»,

intervenne Sara. Lei e io avevano fatto un patto prima di uscire, e le avevoassicurato che potevo bere responsabilmente. Adesso dovevo dimostrarlo.Nate fece a me e Sara un drink rosa con una cannuccia verde e un ombrellino.

«Grazie, Nate». Non riuscivo a guardare Evan per più di un secondo. Le mieguance stavano per andare a fuoco quando lo vidi dietro il bar a petto nudo. Miavevano avvertito che era una festa in piscina, ma non ero pronta a quello. Era laprima volta che lo vedevo senza maglietta da quando ero arrivata in California, eaveva messo su dei… bei muscoli in due anni. Presi fiato per rinfrescarmi leguance e osservai la piscina. «Wow, ci sono un sacco di ragazze qui. E sonopraticamente nude».Sara rise e mi portò a trovare un posto all’ombra. Ci mettemmo a sedere su due

sedie sotto un ombrellone, sorseggiando i nostri drink tra i corpi oliatispaparanzati attorno alla piscina o a galleggiare su gommoni in acqua. Nonsapevo che facessero costumi così piccoli. Spalancai gli occhi vedendo unaragazza con una striscia che copriva solo le parti indispensabili. Poi lei si girò, emi accorsi che non le copriva tutte.«Una strisciolina di tessuto sul sedere può definirsi costume da bagno?»«Be’, può indossare quello che vuole con un corpo come quello», disse Sara,

imperturbabile.Cole si unì a noi dopo essersi fermato a parlare con altre persone che

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conosceva. Appoggiò la maglietta sullo schienale di una sedia e si sistemòaccanto a me, ma fuori dall’ombra dell’ombrellone. Anche lui attirava l’attenzione,e le ragazze non si davano esattamente la pena di nasconderlo.«Sei già stato a queste feste?», chiesi, scioccata per quanto fossero scontate le

ragazze attorno a noi.«Siamo in California», rispose, tranquillo.«Davvero?», chiesi, facendo lo sforzo di chiudere la bocca.Cole ridacchiò. «È la tua prima festa in piscina?». Annuii. «Già, è una cosa

piuttosto tipica da noi».«Come fai a non guardare?», chiesi, facendo fatica io stessa a non guardare.«Preferirei che non fossero così vistose, specialmente dopo aver visto…», i suoi

occhi passarono sul mio corpo.«Ok, capisco», lo interruppi, aggiustando il pareo per coprire la gamba mentre

Sara stava per mandarsi di traverso il suo drink. Cole rise, e si chinò per baciarmigentilmente. Sbirciando con la coda dell’occhio per assicurarmi che Evan nonstesse guardando, a malapena mossi le labbra per ricambiare il bacio. Cole si tiròindietro con un’espressione confusa.Mi guardai attorno sollevando le sopracciglia, cercando di far capire che ero a

disagio con quella pubblica dimostrazione di affetto.«Già, scusa», disse, appoggiandosi alla sedia.Sara bevve un sorso del suo drink nascondendo un leggero sorriso, ma non

prima che lo vedessi.

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Non potevo fare a meno di guardarla. Non impor tava con chi stessi parlando, o dovefossi, continuavo a guardarmi intorno nella sala, o nel terrazzo, o in veranda, per cercarla.Cole mi beccò più di una volta, il che rese il tutto più imbarazzante.«Sei Evan, vero?». Distolsi lo sguardo da Emma, che era appoggiata alla ringhiera,

sorseggiando il suo drink, e mi concentrai sulla bionda che avevo di fronte.«Uh, già. Vuoi un drink?», chiesi, chiedendomi quando sarebbe tornato TJ a darmi il

cambio al bar.«Vuoi far ti uno shot con me?», chiese, appoggiando i gomiti sul bar in modo che

potessi vedere… tutto.Tenni gli occhi sui suoi, resistendo alla tentazione di guardare altrove.«È troppo presto per uno shot, mi dispiace», le dissi, e lei mise un broncio tutt’altro che

attraente. «Tu ne vuoi uno lo stesso?»«Immagino di sì», disse di malumore. «Tequila».Versai il liquido chiaro in un bicchierino di plastica e glielo porsi, con una fetta di lime.«Mi chiamo Kendra, comunque».«Piacere di conoscerti, Kendra», risposi con un sorriso forzato.«Hai degli occhi stupendi», flir tò, leccandosi lentamente il dorso della mano e

versandoci sopra il sale.«Grazie», risposi, guardando oltre e vedendo Emma che era in fila dietro di lei, che si

guardava attorno a disagio. Sorrisi.«Ehi, Em», mi chiamò, nonostante la ragazza fosse ancora davanti a lui. Ero

sicura che fosse una modella, con il fisico slanciato e in forma. «Vuoi un altro

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drink?».Feci capolino dietro la spalla ossuta e annuii. «Sì, grazie. E un bicchiere

d’acqua».La spilungona si sporse e disse: «Per dopo, quando sarai pronto». Mise un

tovagliolo davanti a Evan e se ne andò, sculettando per accentuare le curve chenon aveva.«Uh…», balbettai, notando il numero di telefono che gli aveva messo davanti.Evan usò il fazzoletto per raccogliere il lime che lei aveva lasciato sul bar e lo

infilò nel bicchierino vuoto prima di buttarlo via.«Ti stai divertendo?», chiese, per nulla turbato da quello che era appena

successo. Rimasi davanti a lui, più che a disagio. Riuscii solo ad annuire, in attesadel mio drink.Evan notò che non riuscivo a parlare e sorrise in quel suo modo divertito. «Hai

visto, eh?».Serrai le labbra e annuii di nuovo. Sembrava che non riuscissi a fare altro.«Non mi interessa», Evan sollevò una spalla, sorridendomi di nuovo. Si girò per

prendere una bottiglia d’acqua dal secchio del ghiaccio dietro di lui e mi preparò ildrink. Mi guardai attorno per evitarlo, mentre aspettavo. Lui mi diede unbicchiere con un ombrellino, avvolto in un tovagliolo.«Grazie», dissi a fatica, e mi allontanai.Quando tornai alla sedia, tolsi il tovagliolo, che si stava già bagnando, e per

poco non lo buttai quando mi accorsi dell’inchiostro blu. C’era scarabocchiato

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sopra un numero di telefono, assieme alla scritta: «Per dopo, Evan». Scoppiai aridere, attirando l’attenzione di Sara.«Che c’è da ridere?», chiese, studiandomi con attenzione.Non riuscii a togliermi il sorriso dal viso quando scrollai la testa. Ripiegai il

tovagliolo e lo nascosi nella mia maglietta senza spalline. Mi venne in mente chenon avevo salvato il suo numero di cellulare sul mio telefono, e poteva servirmi. Epoi, era divertente.«Non vuoi dirmelo, eh?», mi rimproverò Sara, fingendosi offesa. Osservai Cole,

preso da una conversazione sul surf con un ragazzo accanto a lui. Sara se neaccorse e annuì comprensiva. «Dopo». Annuii anch’io.Dopo una giornata di drink e sole, scese la sera e la festa passò a un nuovo livello. Molte

ragazze decisero di cambiarsi, mentre altre continuavano a s foggiare il corpo coper tosolo del bikini. I ragazzi che avevano passato la giornata sul sur f arrivarono per ristabilirela parità tra i sessi, con grande dispiacere di Brent.L’interno della casa si tras formò in una pista da ballo, come previsto. Mi appoggiai al

muro, guardandomi attorno, e stavo per bere un sorso, quando mi fermai con la bottigliasulle labbra. Emma fece una piroetta sotto il braccio di Sara, ridendo. Il mio respiro sifermò vedendo il suo corpo che si muoveva ritmicamente, roteando i fianchi in un paio dipantaloncini bianchi a vita bassa. Mostrò la pancia piatta, con le braccia al vento.«Temo tu debba guardare da un’altra par te ora», mi disse Nate all’orecchio. Voltai la

testa verso di lui.«Cosa?»

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«Amico, tra un po’ ti prenderà a calci in culo», mi avver tì tranquillo Nate, osservando lasala. Vidi Cole che mi guardava in cagnesco.«Merda», mormorai, voltandomi. «Non posso farci niente. Non l’ho mai vista muoversi

così».«Forse è meglio se vai al bar», mi consigliò Nate. Annuii e mi diressi al lato opposto

della sala.«Ehi, Evan!», mi salutò TJ. «Mi dai il cambio?»«Già», risposi, cercando di rimanere calmo.«Vuoi farti uno shot con me, prima? Ti farebbe bene».«Certo», risposi senza esitazione. Versò uno shot di tequila per entrambi.TJ sollevò il bicchiere prima di buttarlo giù, per poi prendere un morso di lime. «Emma

sembra dannatamente figa, comunque».«Sì, grazie, TJ», mormorai.TJ rise. «È per questo che avevi bisogno di bere, no? Cazzo, amico. Se vuoi provare a

non guardarla più, allora ti serviranno molti altri shot. Te ne preparo un altro, peraiutarti».Sorrisi. «Ti sacrifichi per me? Grazie». Presi un altro shot e lo buttai giù, espirando la

tequila tra i denti. «Non sono sicuro che sia di aiuto».«Be’, servirà ad attenuare il bruciore quando tornerà a casa con Cole, stasera», replicò

TJ, ridendo.«Vaffanculo, TJ», risposi, facendolo ridere ancora di più. «Adesso puoi andartene».«Nessun problema», disse, scivolando tra la folla.

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«Vuoi un altro drink?», mi urlò Sara sopra il rumore della folla e la musica.Mi fermai a riflettere a che punto fossi nella scala di ubriachezza. «Ne dividi uno

con me?»«Sì», disse Sara, prendendomi per mano e portandomi al bar.Prima che ci arrivassimo, Cole mi prese l’altra mano e chiese: «Balli con me?».Lo guardai sorpresa e annuii, non avendolo mai visto ballare prima. Mi portò

attraverso la folla fino al centro della pista da ballo e mi tenne stretta. Gli buttaile braccia al collo, e il suo respiro mi fece il solletico sulla pelle. Ci muovemmolentamente a ritmo di musica, con i corpi stretti l’uno all’altra e le sue mani suimiei fianchi.«Vuoi ancora andare a cercare il tuo amico a New York?», chiese, con la bocca

vicino al mio orecchio.«Sinceramente, non so nemmeno dove cercarlo», risposi, con gli occhi piantati a

terra. «E penso che sia troppo tardi… di nuovo».Cole si accorse del mio cambiamento di umore e mi strinse ancora di più,

baciandomi sul collo. «Mi dispiace».I suoi fianchi dondolarono contro i miei. Gli appoggiai una mano sul petto e

sentii il suo cuore battere forte. Fu allora che mi accorsi che il mio non facevacosì. I miei battiti erano regolari, e la pelle non mi formicolava come faceva disolito quando mi toccava. Sollevai lo sguardo, sorpresa. I suoi occhi blu chiaristudiarono i miei. Lo sapeva anche lui.Cole smise di muoversi e abbassò le mani. Continuò a fissarmi, aspettando che

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dicessi qualcosa. Ma io rimasi in silenzio, ancora sorpresa dall’aver realizzato chequalcosa tra noi si era rotto. E lui sentì tutte le parole non dette.Colse scosse la testa incredulo. «Sul serio? Tutto qui?». Allungai una mano verso

di lui, ma lui indietreggiò. «Lascia stare». Mi passò accanto e si fece largo tra lafolla, lasciandomi immobile a guardarlo.I corpi danzanti riempirono il vuoto, muovendosi attorno a me mentre rimanevo

immobile, scioccata da quello che era appena successo.«Ehi», mi chiamò Sara, superando la folla con il drink sollevato davanti a lei.

«Ecco». Mi diede il bicchiere e bevvi un lungo sorso. «Dov’è Cole?», osservò lafolla, cercandolo.«Se n’è andato», le dissi.Lei aggrottò le sopracciglia. «Perché? Che è successo?»«Niente», risposi semplicemente. «Non è successo niente». Ed era quello il

problema. Sospirai, colpevole.«Balla con me», esclamò Sara, prendendomi per mano e facendomi volteggiare

per distrarmi, sostituendo il senso di colpa con un sottile turbinio nella mia testa.Sara mi offrì di nuovo il bicchiere, ma io scossi la testa: non avevo bisogno dialtro stordimento.Mi chiusi alle spalle la por ta della camera da letto, chiudendo fuori le risate e la musica

che continuava di sotto. Avevo tolto gli alcolici dal bar di fuori e avevo lasciato i ragazzia occuparsi di quello di sopra, visto che Brent e TJ stavano ancora “intrattenendo”. Nate eRen avevano ceduto da un po’. Non ricordavo di aver praticamente visto Ren quella sera,

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ma con lui andava sempre così.Mi tolsi la maglietta, la lanciai in un angolo e svuotai le tasche dei pantaloni, lanciando il

contenuto sul comodino accanto al letto, insieme al cellulare. Mi tolsi le scarpe e andai inbagno a lavarmi i denti.Quando tornai in camera da letto, lo schermo del mio telefono era illuminato. Lo presi e

lessi:È abbastanza dopo?Mi fermai, senza riconoscere il numero della California. Lasciai andare un sospiro

profondo, chiedendomi se uno dei ragazzi avesse dato il mio numero a qualcuno.Poi mi ricordai che lo avevo fatto io.È decisamente dopo. Dove sei?Aspettai la sua risposta. E sollevai le sopracciglia quando il mio telefono di illuminò di

nuovo con:Fuori dalla tua stanza.Andai verso la tenda, la spostai e sorrisi quando Emma mi salutò dall’altro lato della

porta a vetri.«Ciao», dissi quando aprì la porta, con il cuore che mi batteva a mille. Mi ero

detta per mezz’ora che era una cattiva idea, ma comunque mi ero ritrovata acamminare dalla spiaggia fino alla veranda, a fissare la sua stanza – e alla fine ascrivergli quando avevo visto la luce che si accendeva. Ero convinta che sareimorta se fosse stato lì con un’altra ragazza.«Ciao», rispose Evan, con il suo sorriso mozzafiato ad accogliermi. «Che ci fai

qui?»

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«Mmm… niente».Evan rise. «Ti sei persa?»«È molto probabile», risposi, dondolando sui piedi nudi.«Vuoi entrare?», propose. Sollevai lo sguardo, riuscendo con difficoltà a

guardarlo senza maglietta. Il mio cuore saltò diversi battiti e il mio viso presefuoco. «Non devi per forza».«Certo», mormorai alla fine, distogliendo gli occhi per evitare di perdermi tra le

curve profonde del suo petto e le linee intricate sul suo ventre. Presi fiato e mispinsi nella sua stanza mentre lui teneva la tenda aperta per farmi entrare.Evan chiuse la porta e le tende. Mi guardai intorno nervosamente, cercando di

trovare il coraggio di dire quello che mi ero ripetuta nella mente per l’ultima ora emezza mentre passeggiavo in spiaggia.Era nervosa. Adorabilmente nervosa. Non avevo idea del perché fosse nella mia stanza,

ma non l’avrei cer to mandata via. Il fiore era sparito e i ricci vagavano liberi sulla testa.Guardai i suoi piedi nudi e notai che erano coper ti di sabbia. Gli occhi di Emmascrutavano ogni centimetro della stanza, evitando di guardarmi.«Emma?».Si voltò verso di me, facendo s frecciare gli occhi dal pavimento al mio viso e poi di

nuovo giù. Provai a non ridere, ma era piuttosto divertente. «Sei ubriaca?»«Un po’», ammise timidamente. «E tu?»«Un po’», ripetei. Gli shot avevano fatto il loro lavoro.«Meglio così», disse, mordendosi il labbro inferiore, ed era davvero difficile non

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guardarla.«Come mai?»«Perché renderà tutto più facile», rispose, criptica. Avrei dovuto tirarle le parole fuori di

bocca, l’avevo capito. Presi fiato, comprendendo che dovevo fare appello a tutta la miapazienza.«Rendere più facile cosa?», chiesi con gentilezza.«Possiamo, ehm, spegnere la luce?», chiese all’improvviso, prendendomi alla sprovvista.«Immagino di sì», dissi, confuso, «ma poi saremo al buio».Ero arrabbiata per quanto mi sentivo patetica. Come potevo parlargli senza

guardarlo? E non potevo guardarlo se non si metteva una maglietta.Prima che cambiassi idea o gli chiedessi di mettersi una maglietta, che sarebbe

sembrato ancora più ridicolo, Evan propose: «Possiamo sederci sul letto… albuio… se vuoi, quindi allora, be’… che sei venuta a fare, Emma?».Non riuscivo a respirare. Annuii e mi spostai verso il letto, senza rispondere alla

sua domanda. La testa mi turbinava, e non riuscivo a formare una frase coerente.Sarei svenuta prima di poter dire una parola, e allora tutto il coraggio che mi ciera voluto per arrivare fino a lì non sarebbe servito a niente.Caddi sul letto e aspettai che Evan spegnesse la luce.Spensi la luce e notai che si era stesa sul letto invece di sedersi. Mi sistemai accanto a lei.

Era per fettamente immobile, con la testa sul cuscino. Era troppo buio per vedere il suoviso, ma sentivo i suoi respiri veloci, come se avesse corso troppo. Sapevo che i suoipensieri erano probabilmente fuori controllo, a cercare di capire cosa fare adesso.

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«Meglio?», chiesi con un sussurro.«Sì», rispose subito Emma. Dopo un istante, i miei occhi si abituarono all’oscurità. Il

bagliore che filtrava dalle tende dava abbastanza luce da poter vedere la sua sagoma.Emma si girò sulla schiena e cominciò a giocare con le mani come quando era nervosa.

Attesi. Lei rimase in silenzio. Alla fine tornò a girarsi sul fianco per guardarmi, un po’ piùda vicino rispetto a prima. Sentivo il suo respiro sulle mie labbra.«Sei ancora un po’ ubriaco?», chiese piano, facendomi ridere.«Un po’», risposi. Rimase di nuovo in silenzio. «Perché?»«Sei più sincero quando sei un po’ ubriaco?»«Ehm… immagino di sì», risposi: volevo sapere dove voleva arrivare.«Anch’io», sbottò nervosamente. «Mi diresti una cosa che normalmente non mi diresti

se non fossi ubriaco, così sono sicura che lo sei?».Sorrisi alla sua richiesta. «Ok». Sentivo il mio corpo rispondere alla vicinanza, e inspirai.

«Ho molta voglia di baciarti», sussurrai, con il cuore che mi martellava.Il suo respiro tremò quando allungai la mano e le accarezzai la guancia.Chiusi gli occhi al suo tocco, incapace di respirare bene. In realtà ero convinta di

non respirare proprio. «Non voglio che mi baci», dissi in un sussurro, anche se ilcuore contraddiceva le parole battendo freneticamente.«Ok», rispose, tirando via la mano.Quasi mi pentii di averlo detto quando il calore del suo tocco sparì, ma mi sforzai

di concentrarmi e dissi. «Perché… sono venuta qui… per dirti una cosa».Rimase in silenzio. Quasi troppo in silenzio. Stavo per perdere la calma quando

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mormorò: «Ti ascolto».Raccolsi il coraggio e dissi: «Ti ho lasciato per proteggerti».Evan rimase in silenzio di nuovo. Riuscivo a vedere il suo profilo al buio, e

intuivo le sue spalle alzarsi e abbassarsi con il respiro. «Da cosa?»«Da me», dissi, con voce rotta. Mi ero convinta a dirglielo, per dargli la risposta

che cercava, e farlo senza stare male. Ma adesso sapevo che era impossibile.«Non capisco», rispose, con voce incerta.«Penso sempre di fare la cosa giusta. Ma poi non lo faccio mai. Ogni decisione

che ho preso per proteggere le persone importanti per me si è rivelata sbagliata.E ha finito per ferirle». Su quelle ultime parole mi si chiuse la gola.È quello che facciamo. Feriamo le persone.Lottai per restare in me. «Quante volte ti ho ferito, Evan? Quante volte avresti

continuato a venire da me così che potessi ferirti di nuovo?». Inspiraivelocemente mentre le lacrime rompevano la barriera e scendevano oltre il pontedel mio naso, bagnando il cuscino. «Stavo facendo con te la stessa cosa che miamadre ha fatto con me. E non potevo permetterti di tornare. Non potevocontinuare a ferirti. L’unico modo per salvarti era andarmene».Ammettere di essere distruttiva quanto mia madre mi strinse il cuore. Non avrei

mai voluto essere come lei. Ma nelle mie vene scorreva più sangue suo di quantovolessi ammettere. E avevo bisogno di allontanare Evan prima di lasciarlodistrutto e vuoto come me.Affondai il viso nel cuscino in modo che non sentisse i miei respiri rotti. Tutto il

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mio corpo si irrigidì per il dolore che avanzava nei muscoli. La sincerità fa male.Il suo silenzio mi torturava lentamente mentre il mio corpo tremava accanto a

lui.Non sapevo che cosa dire. Serrai la mascella e mi costrinsi a non toccarla, incer to su

cosa fare. I muscoli della schiena erano tesi per la rabbia che non potevo negare. Dentrodi me lottavano due sentimenti: da una par te volevo rassicurarla e impedirle di soffrire, edall’altra ero furibondo perché mi aveva lasciato, facendomi soffrire tutto questo temposenza neanche rendersi conto di quello che mi stava facendo.I suo singhiozzi erano soffocati nel cuscino, e vedevo il suo corpo tremare. In quel

momento di pausa, capii quale sentimento avrebbe vinto. Sempre. Mi avvicinai a lei e latirai a me, mettendo a tacere le lacrime. Lei pianse sul mio petto mentre la stringevo tra lebraccia e cercavo di lenire il suo senso di colpa. Quel senso di colpa che mi avevaspezzato il cuore due anni fa. Quel senso di colpa che avrei dovuto combattere per potersalvare entrambi.

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L

26Lasciar andare

e schiacciai il naso sui capelli e inspirai l’odore leggero e pulito. Avevo ascoltato ilrespiro di Emma finché non aveva preso sonno. Sapevo che dall’altro lato delle tende il

sole era spuntato, e lei probabilmente si sarebbe svegliata presto. Io non avevo mai presosonno. Il resto della notte l’avevo passato a rivivere ogni secondo della nostra vitainsieme – cercando di trovare il momento in cui lei aveva cominciato a scivolarmi via. Etornavo a pensare a Jonathan.Lei mi aveva cercato la notte prima, chiaramente nervosa, per darmi la risposta a quella

che per me era la domanda. La risposta mi riecheggiava ancora in testa: mi aveva lasciatoper proteggermi. Così non avrebbe continuato a ferirmi.Emma aveva sempre avuto un modo tutto suo di comprendere il mondo e il suo posto

nel mondo. Sapevo praticamente fin dall’inizio che sarebbe stata un’impresa capirla. Ma

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quella era una delle cose che mi avevano attratto. Volevo capire, capirla.E lei me l’aveva permesso, una domanda alla volta. Era quello che avevo sempre voluto

da lei. Non capivo cosa ci fosse di diverso adesso, a par te il senso di colpa. Quel senso dicolpa che l’aveva completamente cambiata.La guardai, avvolgendole le braccia attorno alla vita. Sembrava così diversa. C’era

qualcosa di più dei capelli cor ti e della corporatura magra. Sembrava così… delicata. Ilmio corpo la circondava con facilità, proteggendola da tutto quello che poteva farle male.Ma ciò che voleva distruggerla era dentro di lei. E io avevo assistito a quella distruzioneche avanzava fin dal momento in cui l’avevo vista fissare fuori dalla finestra durante laveglia funebre.Non sapevo come salvarla da se stessa. Mi sentivo impotente. Un sentimento con cui

non andavo molto d’accordo – ma che avevo vissuto fin troppo spesso quando si trattavadi Emma Thomas. La sua domanda mi assillava: quante volte sarei dovuto tornare da leiper farmi ferire prima di averne abbastanza?La tirai a me e respirai di nuovo il suo odore. «Ma come faccio a lasciar ti andare,

Emma?», le sussurrai tra i capelli. Non sapevo ancora tutta la verità.Mi chinai su di lei e spostai le ciocche sparse per vedere il suo viso. Sembrava così

tranquilla, con le ciglia nere che nascondevano il tormento dei suoi occhi. Ammirai il suonaso leggermente inclinato e le sue labbra carnose. Non ne avevo mai abbastanza dellasua bellezza.«Non so cosa fare», mormorai proprio mentre il mio telefono vibrò in mezzo agli

spiccioli sparpagliati sul comodino. Mi girai e lo misi in modalità silenziosa, per paura che

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lei si svegliasse, ma non si mosse.Hai visto Emma? Mi sono svegliata e lei non c’è. E non risponde al telefono.Presi il telefono accanto a Emma e schiacciai un tasto: il display rimase spento.Risposi al messaggio di Sara:È qui. Il suo telefono è scarico.Tornai ad abbracciare Emma, e a cercare di addormentarmi, quando il mio telefono vibrò

di nuovo:Vengo a prenderla.Sospirai, sapendo che Sara non si sarebbe fermata sulla por ta se non le fossi andato

incontro, e non volevo che si facesse strane idee su quello che era successo la notteprima. Per quanto questo mi facesse star male, mi allontanai da Emma e scesi dal letto. Lacoprii con un lenzuolo e mi trascinai di sopra. Speravo di riuscire a tranquillizzarefacilmente Sara in modo da tornare a letto prima che Emma si svegliasse.Mi girai sulla schiena quando la porta si chiuse.Mi stava lasciando andare.Non avevo pensato fosse possibile sentirsi più distrutti. Espirai quel po’ di aria

che mi era rimasta nei polmoni e fissai il soffitto. Dovevo andarmene prima chetornasse. Non potevo affrontarlo.Mi liberai dalle lenzuola, mi misi a sedere e scesi dal letto. Senza guardarmi alle

spalle, scivolai fuori dalla porta a vetri, raccolsi le scarpe sulla veranda e miincamminai verso la spiaggia.«Wow, stai da schifo», scherzò Brent quando arrivai in cucina.Mi passai una mano tra i capelli e mormorai. «Grazie».

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Ren stava sbucciando un’arancia al tavolo. «Brutta nottata?»«Dove sei sparito ieri sera?», chiesi, evitando la sua domanda. «Giurerei di non aver ti

visto per più di un minuto».«Ho incontrato degli amici in spiaggia», rispose. Era il suo modo di dire: ci siamo

seduti, abbiamo parlato di surf, e ci siamo stonati tutta la notte.«Quindi hai dato buca alla festa?», volle sapere Brent. Ren scrollò pigramente le spalle.«Andiamo a fare surf?»«Devo andare in aeroporto tra un paio di ore», gli dissi.«Io invece vengo». Brent accettò come al solito.Nate apparve sulle scale, muovendosi goffamente e con gli occhi quasi completamente

chiusi. Mi stavo convincendo che fosse sonnambulo finché non mormorò: «Cazzo.Questo posto è un disastro». La casa puzzava di birra stantia ed era una discarica, conbicchieri e rifiuti ovunque – i tipici effetti del dopo-festa. Avevo visto di peggio.«Raccoglieremo l’immondizia», lo rassicurò Brent. «A che ora vengono a pulire?»«A mezzogiorno», sbadigliò Nate, strofinandosi il viso con le mani.La por ta venne scossa da colpi rumorosi e ripetuti. «Porca puttana! Che diamine è?».

Nate si tenne la testa tra le mani, come se il rumore potesse aprirla a metà.«Ci penso io», sospirai, sapendo esattamente chi era.«Dov’è, Evan?», chiese Sara, impaziente, praticamente spingendomi via dalla porta.«Sta ancora dormendo», le dissi, chiudendo la porta.«Chi?», chiese Ren. Brent e Nate mi fissarono come se avessi confessato un delitto.«Non. Ci. Credo». Brent spalancò la bocca, scuotendo la testa.

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«Non mi dire che hai fatto quello che penso che hai fatto», implorò Nate.«Rilassatevi», dissi, alzando le mani per difendermi. «Abbiamo solo parlato. Lei si è

addormentata. Punto».«Lei si è addormentata nel tuo letto», sbottò Sara. Poi disse, in modo che potessi sentirla

solo io: «Dormire con lei non servirà ad aggiustare le cose».Feci un sospiro seccato. «Che cavolo? Non è successo niente».Sara sparì sulle scale. Mi voltai verso i ragazzi, che mi stavano ancora fissando.

«Puliamo questo posto o cosa?».«Emma!», sentii urlare Sara. Stava chiudendo la porta a vetri e correndo in

veranda. Aspettai che mi raggiungesse prima di continuare a scendere le scale.Sara non mi disse niente finché non raggiungemmo la spiaggia. «Stai bene?».Scrollai le spalle, non sapendo come rispondere alla domanda. Mi sentivo tutto

tranne che bene. Mi sentivo… persa.«Perché sei tornata a trovare Evan ieri sera?». Mi guardò con attenzione. Distolsi

lo sguardo verso la spiaggia, concentrandomi sull’acqua che penetrava nellasabbia.«Ho deciso di dirgli perché l’ho lasciato. Voleva saperlo. Meritava di saperlo. Così

gliel’ho detto».«Cosa gli hai detto esattamente?», chiese Sara.Ripetei quello che le avevo detto due anni prima. «Me ne sono andata per

proteggerlo da me, per non ferirlo ancora una volta». Mi faceva male il cuore aripeterlo.

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«E… lui che ha detto?», chiese Sara con gentilezza, come se stesse tirando unfragile filo e avesse paura che la domanda sbagliata potesse spezzarlo.Il nodo che avevo in gola tratteneva la risposta. Lottai contro le lacrime che mi

bruciavano gli occhi, sbattendo le palpebre alle nuvole.«Niente», dissi con voce tesa. «Non ha detto niente».«Non vuoi più che ti odi, vero?», chiese semplicemente Sara. Scossi la testa.«Ma non penso neppure che mi perdonerà», dissi, distrutta da quel pensiero.

«Avevi ragione…»«Su cosa?», chiese Sara, con la voce carica di comprensione.«Lasciarlo è stato davvero il peggior errore della mia vita». Smisi di camminare,

coprendomi gli occhi con le mani e lasciando andare un pianto silenzioso.«Mi vuoi dire cosa è successo?», chiese Nate, fuori dalla mia stanza mentre mettevo i

vestiti in una borsa.«No». Scossi la testa, volevo tenere per me la confessione di Emma. «Ma ho molto a cui

pensare».«Hai cambiato idea?», chiese, incrociando le braccia e appoggiandosi alla porta.«Su questo viaggio? No, questa è sempre stata una mia decisione. Non ha niente a che

vedere con Emma», risposi. Avevo programmato questa par tenza già prima della scorsanotte. «Ma non sono sicuro di cosa succederà quando torno».«Va così male?», chiese Nate.Scossi la testa. «No, è solo che… devo pensare».«Qualsiasi cosa accada, Evan», disse Nate, con voce gentile, «non ti permetterò di ridurti

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in quello stato un’altra volta. Ho visto cosa ti ha fatto, e farò tutto il possibile perassicurarmi che non accada più, anche se finirai per odiarmi».«Lo capisco», gli dissi. «E non accadrà più. Te lo giuro».Annuì. «Ehi, il tuo volo parte tra poco, vero?». Si stiracchiò le braccia.«No, è nel pomeriggio», risposi, infilando una giacca nella borsa. «Se non ti dispiace

vorrei fermarmi da Emma mentre andiamo in aeroporto».«Nessun problema», acconsentì. «Ma giurerei di aver ti sentito dire che il tuo aereo era

stamattina».«Fammi controllare». Tirai fuori il telefono e ritrovai l’appunto che mi aveva mandato

mia madre. «Cazzo. L’aereo è tra un’ora. Dobbiamo andare».«Ha bisogno di tempo, Em», mi rassicurò Sara, seduta accanto a me sulla

terrazza, a fissare le onde che si infrangevano sulla sabbia. Annuii con ariaassente. «Evan ti perdonerà».Non ne ero convinta. Perché avrebbe dovuto? L’avevo tradito. Li avevo traditi

entrambi. Avevo lasciato Evan invece di accoglierlo. E avevo scacciato Jonathan,per paura che si avvicinasse troppo. Nessuno dei due aveva motivo di fidarsi dime. Adesso ero sicura di averli persi entrambi.Mi voltai verso Sara. Lei mi guardò, affranta, e cominciai a chiedermi quanto ci

avrei messo a fare di nuovo qualcosa che l’avrebbe ferita. Lei aveva sempretrovato un modo per perdonarmi, anche quando non ero stata del tutto onestacon lei. Ma sarebbe arrivato il momento in cui avrei allontanato anche lei.«Vado a farmi una doccia», annunciò Sara, alzandosi.

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«Ok», risposi, rimanendo in spiaggia. Scacciai le lacrime e lasciai che il velo distordimento mi coprisse, anche se, nonostante tutti i miei sforzi, in profonditàsentivo ancora dolore.Cercai il telefono per vedere se Jonathan avesse risposto ai miei messaggi.

Sapevo che non l’aveva fatto, ma continuavo a controllare ossessivamente. Fuallora che mi resi conto di aver lasciato il cellulare da Evan. Feci una smorfia, nonero ancora pronta per tornare lì. Forse Sara sarebbe potuta andare al posto mio.Notai che la porta di Cole era ancora chiusa quando entrai in casa. Era passata

l’ora in cui solitamente si alzava, ma considerando quanto l’avevo fatto arrabbiarela scorsa notte, decisi di lasciarlo in pace e andai nella stanza di Sara.«Ho lasciato il…», cominciai a dire quando entrai nella stanza. Poi vidi Sara con

le spalle curve e gli occhi pieni di lacrime. «Che è successo?»«Uh… ha chiamato mia madre», disse Sara. Mi misi a sedere accanto a lei,

aspettando che proseguisse. «Mio nonno è morto».«Oh, Sara, mi dispiace tanto», la consolai, prendendola per mano. Si piegò e mi

appoggiò la testa sulle spalle.«Grazie. Era anziano. Sapevamo che era solo questione di tempo». Sospirò.

«Aveva sempre qualcosa di cui lamentarsi». Dopo un momento di riflessione,aggiunse: «Dio, era una tale rottura di palle», e scoppiammo entrambe a ridere.«Ma era mio nonno, e gli volevo bene».«Lo so», appoggiai la testa sulla sua.«Devo andare», sussurrò. «Mia madre sta mandando un’auto che mi accompagni

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all’aeroporto».Avevo incontrato suo nonno un paio di volte in quegli anni. Mi metteva a disagio,

con il suo cinismo e le lamentele su ogni parte del corpo che in un modo onell’altro gli dava problemi. Non pensavo che gli piacesse nessuno – a parteJared, per ironia della sorte. Sara fece un respiro profondo prima di lasciarmi lamano e alzarsi. Anche se sembrava accettare quel lutto, volevo assicurarmi chestesse bene.«Vengo con te», le dissi, sperando di darle almeno metà del conforto che lei mi

aveva dato a Weslyn.«Oh, no», scosse la testa. «Hai già abbastanza drammi di tuo. Nella mia famiglia

sono tutti un po’ fuori di testa: non è il caso che te li sorbisca anche tu, credimi.Torno tra un paio di giorni».Annuii docilmente.Mezz’ora dopo, aveva fatto i bagagli. Stavo andando con lei in soggiorno quando

dal vialetto arrivò un clacson. «È la macchina», mi disse Sara. «Devo andare».Esitò un attimo per guardarmi. «Vai a parlargli, Emma. Dagli il tempo di accettarequello che gli hai detto, ma poi vai a parlargli».Le dissi di sì. Mi abbracciò. «Torno presto. Ti chiamo quando arrivo, ok?»«Certo», dissi, a bassa voce. Guardai Sara tirarsi dietro la valigia e sparire.Il suo rifiuto mi aveva colpito. Il dolore mi attraversò il petto con una rapida

fitta. Ero troppo incasinata per confortare la mia migliore amica. Lei non avevabisogno di me.

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Sospirai guardando la porta di Cole. Non avevo l’energia o la volontà di provarea spiegare cosa era successo la scorsa notte. Lo sapevamo entrambi.Eppure c’era qualcosa che non mi convinceva. Andai nella sua stanza e bussai

piano. Silenzio. Esitando, aprii la porta. Il letto era ancora fatto, e la stanzasembrava… troppo pulita. Quando entrai, vidi le mie cose appese nell’armadio,con le scarpe e la mia borsa sul pavimento, ma le sue non c’erano. Sbirciai inbagno. Aveva tolto tutto, a parte il mio spazzolino.Stavo per girarmi e uscire quando vidi il biglietto ripiegato sul cuscino dove

dormivo. Lo fissai per un istante, chiedendomi se volessi davvero sapere cosadiceva. Il terrore mi annodava lo stomaco. Raccolsi il coraggio per leggerlo e mipreparai mentre lo aprivo.Ho deciso di andarmene prima che tu mi ferisca. Non ti permetterò di ferirmi, Emma.Mi abbassai sul bordo del letto, sentendo l’impatto di quelle due semplici righe.«Cole, mi dispiace tanto», mormorai, accettando quella verità implicita. L’avevo

ferito. Era ciò che facevo sempre.Affondai nel divano e mi tirai addosso la coperta per cercare di tenere a bada il

freddo che si era impossessato del mio corpo. Ma non potevo certo sperare che ilgelo che sentivo in fondo allo stomaco si sciogliesse semplicemente rimanendostesa a fissare il nulla.La sensazione di essermi persa mi colse di nuovo. Non appartenevo a nessun

posto. La mia famiglia non mi voleva. Evan non riusciva a perdonarmi. Sara nonaveva bisogno di me. Le ragazze non mi conoscevano davvero. Jonathan erasparito. E Cole se n’era andato, accorgendosi finalmente di chi fossi.

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Mi sentivo così… stanca. Abbassai le palpebre e chiusi gli occhi, sperando che levoci mi lasciassero dormire.Fissai il telefono che avevo in mano. Il telefono che Emma aveva lasciato sul letto,

quello che avrei dovuto restituirle prima di andare in aeropor to. Nella fretta di prendere ilvolo, mi ero completamente dimenticato di averlo. Lo attaccai al caricabatterie sulla miascrivania.La porta della stanza d’albergo si aprì. Mi girai e vidi Jared con una valigia in mano.«Ehi», lo salutai. «Che ci fai qui?»«Mamma mi ha detto di venire. Ha detto che ci saresti stato anche tu, e che deve dirci

qualcosa».«Davvero? Qualche idea?», chiesi. Avevo sospettato che Jared sarebbe venuto quando

avevo visto che la prenotazione era per una doppia. Ma ero troppo distratto per pensarci.«Nessuna», ammise Jared. «Mi ha detto di venire qui, perciò eccomi qui. Poi ho pensato

di venire a Santa Barbara con te domani».«D’accordo», risposi.Jared si tuffò sull’altro letto, incrociando i piedi e appoggiandosi alla testiera. «Allora,

come sta andando il grande piano? Non ti è ancora esploso in faccia?»«Non ho un piano», replicai, seccato.«Tu hai sempre un piano, Evan», insisté Jared. «È così che fai. Pensi e ripensi a tutto,

organizzi e pianifichi ogni passo della tua vita. Il fatto che te ne sia andato a SantaBarbara senza un piano mi sembra assurdo, considerato cosa c’è in gioco».«Non posso pianificare nulla quando si tratta di lei», mormorai, fissando di nuovo il

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telefono.Mi svegliai di colpo, mentre con gli occhi passavo in rassegna la stanza. Ero sola.Non voglio stare da sola. Ti prego, non lasciarmi da sola.Avevo bisogno di togliermi dalla testa la voce disperata di mia madre, perciò

spinsi via le coperte e andai in terrazza. Il sole era basso, e spandeva tonalitàdorate, arancioni e rosse sul cielo. Anche se avevo dormito per gran parte delpomeriggio, camminando sulla spiaggia continuavo a sentirmi addosso una certastanchezza, mentre superavo i bambini che facevano avanti e indietro in acqua ela gente seduta sul bagnasciuga.Mi ritrovai davanti alle scale lungo la collina e cominciai a salire. Non ero sicura

di cosa gli avrei detto. Non volevo stare da sola, e non avevo altro posto doveandare.TJ spuntò sul fianco della casa, con una tavola da surf sulla testa. Mi vide non

appena misi piede in veranda.«Emma!», urlò come se fosse entusiasta di vedermi. «Che ci fai qui? Sei venuta

a trovarci?»«Uh», balbettai, un po’ sorpresa dalla sua euforia. «Ehi, TJ. C’è Evan?»«No», rispose, scuotendo la testa come se fosse confuso dalla domanda. «Se n’è

andato».«Se n’è andato?»«Già, Nate l’ha accompagnato in aeroporto qualche ora fa».«Se n’è andato», ripetei in un sussurro. «Ok, grazie».

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Stordita, mi voltai verso le scale e lasciai che le gambe mi portassero via.«Puoi rimanere», mi chiamò TJ. Alzai la mano per salutarlo senza guardarmi

indietro, e sparii giù per le scale.«Se n’è andato», mormorai di nuovo, ancora scioccata. Aveva deciso di liberarsi

di me.L’oscurità si fece strada e avvolse il mio cuore. Lasciai che vi penetrasse,

distruggendolo finché non lo sentii più battere. Non sentivo niente. Le parolesussurrate da Sara riecheggiavano nel mio vuoto.Non puoi continuare ad allontanare tutti… perché uno di questi giorni, ti

sveglierai e non troverai nessuno.Non ricordavo di essere tornata a casa. Mi rannicchiai sotto la coperta sul divano

e chiusi gli occhi.Sentivo i bisbigli filtrarmi dentro, nutrendo il senso di colpa e la tristezza che mi

facevano affondare. Incapace di scacciarli, aspettai che il nulla mi inghiottissenell’ombra.«È stata una giornata movimentata», dichiarò mia madre, restituendo il menu al

cameriere che aveva appena preso l’ordine.«Grazie per avere accettato», le dissi, apprezzando il fatto che non avesse obiettato alla

mia decisione, anche se non l’avevo coinvolta fin dall’inizio.«Capisco che tu abbia difficoltà a dirmelo», rispose, «ma ti avevo detto che non avevo

intenzione di ostacolar ti, e non lo farò. Penso che tu stia facendo quella che credi sia lacosa migliore».

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Prima che potessi continuare la conversazione, il mio telefono vibrò in tasca. Lo tiraifuori, e mia madre mi guardò male. Aveva proibito i cellulari a tavola.«Lo so», dissi, prima che potesse aprire bocca, «ma devo rispondere. Mi dispiace».Allontanai la sedia per alzarmi e risposi: «Pronto», mentre cercavo un posto più

riservato nel corridoio che portava ai bagni. «Va tutto bene?»«Speravo me lo potessi dire tu», disse Sara all’altro capo. «Hai visto Emma, oggi?».Non risposi, la sua domanda non aveva senso. «Cosa? Non sei con lei?».Stavolta fu Sara a rimanere in silenzio. «Evan. Dove sei?»«San Francisco. Tu dove sei?»«Al funerale di mio nonno in New Hampshire».«Oh, no. Sara, mi dispiace, non sapevo».«Grazie», disse Sara, ignorando rapidamente le mie condoglianze. «Non sono riuscita a

parlare con Emma. Cominciavo a preoccuparmi».«Ho io il suo telefono. Mi dispiace. L’ha lasciato da me, e ho dimenticato di

restituirglielo. È per questo che non riesci a contattarla. Ma è con Cole, no? Puoi chiederea lui».«Ci ho provato», disse. «Ma non risponde».«Vuoi che dica a Nate di controllare? Può darle il suo telefono per chiamarti», suggerii.«Non fa niente. Sono sicura che sta bene. Le avevo detto che avrei chiamato, e non l’ho

sentita da quando sono partita, ieri».«Io torno domani. Faccio un salto appena arrivo», la informai. «Mi dispiace per tuo

nonno, Sara».

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«Grazie, Evan», rispose.«Ci sentiamo dopo».Stavo per riagganciare, quando sentii: «Ehi, Evan?»«Sì?»«Lo so che non dovrei chieder telo ma… va tutto bene tra te ed Emma? Voglio dire… lo

so che non va bene, ma non è che hai deciso di non parlarle più o cose del genere, vero?»«No», risposi, sorpreso dalla sua domanda. «Uh… perché pensi questo?».Sara fece un sospiro. «Non importa».«Aspetta, ti ha detto qualcosa? Pensa che sia arrabbiato con lei?».Esitò un istante. «Non proprio. Immagino… ho solo una strana sensazione. Di sicuro

sono troppo protettiva, come al solito. Torno giovedì. Ci vediamo presto».Sara riagganciò prima che potessi chiederle altro. Sapevo di aver sbagliato a non andare

a parlare con Emma prima di par tire, e per non averle detto niente dopo la confessionedell’altra notte. Il tono preoccupato di Sara mi distruggeva. Qualcosa non andava, losapevo anch’io.Chiamai Nate prima di tornare al tavolo, chiedendogli di andare a casa di Cole a

controllare. Non capiva perché glielo stessi chiedendo, ma promise di farlo comunque.«Va tutto bene?», mi chiese mia madre quando tornai al tavolo, ripensando a tutto

quello che avevo fatto, o non avevo fatto, la notte che Emma era venuta da me.Spostai l’attenzione su mia madre, che aveva socchiuso gli occhi, preoccupata. «Scusa.

Era Sara. È morto suo nonno, perciò lei è in New Hampshire con la famiglia».«Sul serio?», intervenne Jared. «Gus è mor to? No, lo adoravo». Lanciò uno sguardo a

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mia madre e a me, poi disse: «Torno subito». Lo vidi tirare fuori il telefono dalla tascaprima di essere a un metro dal tavolo.«Perché ha chiamato te?», domandò mia madre, sempre attenta a ogni mia reazione.«Ho il telefono di Emma. Sara non è riuscita a mettersi in contatto con lei, e si chiedeva

se io l’avessi sentita. Non sapeva che venivo qui. Lo sapevano solo i ragazzi», spiegai.Prima che Jared tornasse, e prima che mia madre potesse fare altre domande, dovettichiedere: «Che diceva la lettera?».Gli occhi blu di mia madre tremarono impercettibilmente a quella domanda. «A quale

lettera ti riferisci?»«Alla lettera che ti ha dato Emma prima di andarsene. Ho trovato la busta. E qualsiasi

cosa dicesse, ti ha convinto a cambiare il corso della mia vita. Allora, che diceva lalettera?».Mia madre rimase in silenzio, pensierosa. «Mi è stata data in confidenza. Non posso dir ti

che cosa c’era scritto, mi dispiace».Mia madre era sempre rimasta fedele ai suoi principi e alle sue promesse, e per quanto la

ammirassi per questo, alle volte la cosa poteva essere frustrante. «Capisco».Jared tornò al tavolo e si mise a sedere.«Allora, tra quanto tempo devi andare?», chiese mia madre.«Un’ora», rispose Jared, ansioso.«Ti prego di fare le condoglianze a Sara e ai genitori da par te mia», disse mia madre

prima di bere un sorso di vino. Jared annuì, ma si rifiutò di guardarmi.«Be’, visto che abbiamo poco tempo, lasciate che vi spieghi il motivo per cui siamo

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qui», annunciò mia madre. «Ho deciso di vendere la casa a Weslyn».Jared non reagì. Era normale, visto che non aveva passato molto tempo lì. Quella frase

era diretta a me. La presenza di Jared doveva servire solo a smorzare la mia reazione.«Non puoi», le dissi.Mia madre non si scompose. «Sto comprando una casa in città, e quella casa è

semplicemente troppo grande adesso che voi due siete via», spiegò pazientemente. «Midispiace, Evan».«No», scossi la testa, alzando leggermente la voce. «È l’unico posto che sia stata una

vera casa per me. Non puoi venderla».«Evan…», disse Jared come avver timento, non approvando il mio tono – e rientrando

perfettamente nel suo ruolo.Quando mi interruppi per provare a calmarmi, mia madre rimase immobile, osservando

in silenzio, come sapeva fare così bene. Avevamo traslocato molte volte da quando eropiccolo. Non mi ero mai affezionato a una casa, o a degli amici, a eccezione di Nate edegli altri.I miei genitori mi avevano proposto di andare in un convitto, come aveva fatto Jared,

per continuare la scuola con lo stesso gruppo di amici. Ma mi piaceva viaggiare, e nonvolevo lasciare mia madre da sola. Tutto era cambiato quando ci eravamo tras feriti aWeslyn.Non potevo perdere i ricordi legati a quella casa. Il pensiero di non rivedere più quella

quercia, o di non poter più camminare nella radura lungo il ruscello, era troppo difficile daaccettare. Sapevo di non avere Emma, e non sapevo se le cose con lei sarebbero mai

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cambiate. Ma non potevo lasciarla andare, e avevo la sensazione che invece sarebbesuccesso se quella casa fosse stata venduta. Sarebbe stato come cancellare tutto quelloche c’era stato tra noi.Ci doveva essere un altro modo.«Posso comprarla io», dissi.«Evan, caro, tu non hai accesso a quei fondi per altri quattordici anni», mi ricordò mia

madre, con espressione comprensiva. «Non sarebbe possibile prima senza il permesso dituo padre e…».«Lo so», la interruppi. Potevo già sentire le sue parole condiscendenti. «Ma se ci

mettessimo d’accordo per i pagamenti, o…». Lei rimase in silenzio. Sapevo che nonavrebbe accettato quella decisione. Almeno non quella sera.Tornai nella stanza d’albergo, appoggiai la giacca sulla sedia e mi allentai la cravatta. Mi

misi a sedere sul letto e sollevai i piedi. Non ero pronto a cedere la casa di Weslyn – o adarrendermi con Emma. Lei aveva appena cominciato ad aprirsi, e io stavo lentamentetrovando un modo per fidarmi di nuovo di lei. La minaccia di perdere quella casa mi feceimprovvisamente capire che non potevo stare senza di lei. Non potevo lasciarla andare.Il suo telefono vibrò. Feci per spegnerlo, e il display si illuminò per mostrare un elenco

di chiamate perse e messaggi. Erano quasi tutti di Sara, ed era comprensibile. Ma ilmessaggio che mi costrinse a spalancare gli occhi, fu quello che diceva solo:Emma?Sapevo che non erano affari miei. Non avevo il diritto di impicciarmi, ma selezionai il

messaggio, e quello precedente apparve sotto. Era più lungo. C’era solo un numero incima, eppure sapevo esattamente di chi era.

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Ho ricevuto i tuoi messaggi. Scusa – la vita è complicata ora come ora. Sfortunatamente non possiamotornare indietro e cambiare le cose. Lo vorrei tanto. Certo che ti perdono. Mi manchi. Darei qualsiasi cosa persentire la tua voce adesso. Non potrò più chiamarti dopo stasera. Questo numero sarà staccato presto. Tiprego, mi perdoni? Mi sarebbe d’aiuto saperlo. Emma, meriti di essere felice. Meriti di essere amata. Spero chetu ci creda.Volevo cancellarlo. Volevo cancellare lui. Ma non potevo. Schiacciai il bottone per

spegnere il telefono.Non sapevo che cosa mi faceva più male. Che lei avesse contattato Jonathan, chiedendo

di essere perdonata. O che invece a me non avesse chiesto questo – e continuasse ainsistere che dovevo odiarla. Perché lui avrebbe dovuto perdonarla? Cosa era successo traloro?Adesso avevo una scelta da fare. Potevo lasciare che mi allontanasse, per paura di

continuare a ferirmi. O potevo lottare per noi. Convincerla che ne valeva la pena. Tutto ildolore che poteva infliggermi non era paragonabile al dolore di stare senza di lei. Nonavrei mai potuto rinunciare a lei… a noi.

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F

27Sparito

issai fuori dalla finestra il velo grigio che incombeva sul vetro. Non sapevo cheore erano o quanto tempo avevo passato sul divano. Ero stata prigioniera delle

lingue malefiche che mi squarciavano e mi avvelenavano il sangue con il lorodisprezzo.Sei un’inutile, patetica troia.Mi ritrassi, per sfuggire a tutto quell’odio. Ma non potevo nulla contro

quell’implacabile muro di cattiveria. Per quanto provassi a chiuderle fuori, quellevoci erano tutto ciò che riuscivo a sentire. Le cicatrici potevano essere guarite, e ilividi sanati. Ma l’odio e il rifiuto scavavano in profondità nella carne. La perfidiami colpiva con più forza del più violento dei pugni. Ogni commento umiliante suquanto fossi inutile mi distruggeva.

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Non sei importante.C’era stato un momento in cui ero quasi convinta che i miei traguardi e la mia

determinazione avrebbero messo a tacere quella cattiveria. Ma poi mi ero arresa.Non sapevo dire quando fosse avvenuto con esattezza. Forse era stato quandoavevo abbandonato Evan, lasciandolo pesto e a malapena cosciente sulpavimento. O forse era stato prima. Ma adesso che ero sola, quei sussurri miavevano ritrovata.Non pensi ad altri che a te stessa.Guardai in lontananza, invitata dal ruggito delle onde, l’unico suono abbastanza

forte da mascherare quelle che adesso erano urla ripugnanti. Andai in spiaggia,attraverso la foschia che mi sfiorava la pelle.Me l’hai portato via.Rimasi sul bordo dell’acqua, catturata dalla furia che si abbatteva sulla spiaggia.

Le onde spumeggiavano in un rollio prima di infrangersi in una capriolaesasperante, muovendosi sotto i miei piedi, spingendomi dentro la sabbia. Lasuperficie increspata mi seduceva con le sue dita ricurve, tentandomi.Non puoi pensare davvero che gli interessi.Le lacrime mi riempivano gli occhi, scivolando sulle ciglia e giù per le guance.

Ero stanca di lottare. Stanca di fare del male. Stanca del senso di colpa che nonmi avrebbe mai abbandonato, e dei rimpianti che non potevano essere cambiati.Non volevo quella vita. Non potevo ascoltare all’infinito le voci che desideravanoche non fossi mai esistita, prima di desiderarlo anch’io.

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Non saresti mai dovuta nascere.Feci un passo avanti e cominciai a camminare verso l’orizzonte grigio che si

fondeva senza soluzione di continuità con le acque scure. Il mento mi tremavamentre le lacrime mi scorrevano sul viso. Le onde turbolente mi tiravano indietroverso la spiaggia, ma io andavo avanti. Mi tuffai nelle onde, lasciando che l’acquafredda mi entrasse nella pelle tremante, fino a stordirmi.Non capisci quanto mi hai ferito?Nuotai oltre il punto di rottura fin dove l’acqua ondeggiava, riportandomi in

superficie. Galleggiai sulla schiena, in equilibrio sul mare agitato con le braccialarghe. Tutto diventò immobile, e l’unica cosa che riuscivo a sentire era il miorespiro. Lasciai che il silenzio mi schiacciasse. Il dolore mi sfumò tra le dita e finìin acqua, portando con sé le voci fino a lasciarmi vuota, e finché tutto ciò cherimaneva… ero io. Accettando il destino che mi aveva finalmente raggiunto, feciun ultimo respiro, e poi sparii.Raggomitolata su me stessa, mi lasciai andare sotto la superficie. Chiusi gli occhi

mentre l’acqua mi riempiva le orecchie, amplificando il silenzio.Tutto ciò che dovevo fare era arrendermi.Arrendermi.Le parole mi riecheggiavano in testa, supplicandomi.Respira, Emma. Arrenditi, e… respira.I polmoni bramavano l’aria a portata di mano in superficie. Il mio cuore lottava

per ogni battito. Mi rifiutai di arrendermi alla calma che avevo cercato sott’acqua.

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I battiti disperati martellavano sul petto. Nel silenzio, le sue parole erano chiarecome se me le stesse sussurrando all’orecchio.Aggrappati a questa vita, Emma. Sei molto più forte di quanto pensi.E lo sapevo. Sapevo che non sarei riuscita ad arrendermi.La pace mi attendeva a distanza di un unico respiro. Ma non potevo arrendermi.

Non ero fatta così. Questa poteva non essere la vita a cui ero destinata. Forsenon sarei mai dovuta nascere. Ma dal momento che esistevo, avrei lottato conogni respiro per rimanere viva.Mi scossi e scalciai per risalire, tornando in superficie con un urlo straziante.

L’acqua mi lambiva il collo e mi schizzava in faccia mentre urlavo di dolore, con ilpetto che collassava a ogni respiro.Mi sforzai di andare verso la spiaggia, sbattendo le braccia sulla superficie,

spingendo l’acqua verso di me, scalciando con tutte le mie forze. Alla fine posai ipiedi sulla sabbia.Sguazzai nell’acqua bassa, muovendo le gambe più velocemente fino a

raggiungere la spiaggia. E poi mi misi a correre, lasciando che pezzi di mecadessero strada facendo. Cambiando pelle a quella ragazza che ogni sera avevapaura che sua madre sarebbe tornata a casa di cattivo umore. Strappando vial’idea che se fossi stata perfetta, amare sarebbe stato più facile. Calpestando idubbi che mi facevano interrogare sul mio valore, e mi facevano sentire di nonessere mai abbastanza. E rompendo il senso di colpa che mi aveva convinta cheavrei ferito tutti quelli a cui tenevo, lasciandomi incapace di essere amata.

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Le gambe mi fecero allontanare da quella ragazza, nell’estremo tentativo dilasciarmela alle spalle. Accelerai il passo, mentre le lacrime scorrevano conl’acqua e il sudore. Piangevo per la bambina che aveva perso il padre ma nonaveva mai avuto una madre. Piangevo per la ragazza che voleva solo essereaccettata, ma non era mai abbastanza. Piangevo per la ragazza che avevasofferto pene indicibili a causa dell’odio. Piangevo per la ragazza che meritava diessere amata ma non sapeva come.Alla fine, le gambe mi condussero lungo la riva, il mio respiro si stabilizzò e il

dolore sparì. La stretta nel mio petto si allentò, e paura e tristezza svanirono.A ogni passo lasciavo una parte di me, non sapendo cosa sarebbe rimasto

quando avrei smesso di correre. Perciò continuai ad andare, per paura discoprirlo, anche se i muscoli mi supplicavano di fermarmi. Dopo distese dispiaggia e scogli, i polmoni mi bruciavano e la vista vacillò. Avevo la boccaimpastata, e non riuscivo a sollevare i piedi.Dovevo fermarmi. Alzai lo sguardo sul punto dove i surfisti scendevano in acqua,

seduti sulle tavole. Tracciai una linea. È lì che avrei finito, e avrei smesso dicorrere – e sarei tornata a esistere.Barcollai per gli ultimi passi oltre la linea e caddi in ginocchio. Sentivo tremare

tutto il corpo, e un’ondata di calore si irradiava dalla pelle. Mi misi a sedere, mafinii per cadere sulla schiena, fissando il cielo blu. Un viso mi osservò. Strizzai gliocchi, non riuscendo a mettere a fuoco.«Emma?», sentii dire dalla ragazza.

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Strizzai ancora di più gli occhi, e i capelli biondi e grandi occhi blu apparverodavanti a me. «Nika?»«Che ci fai qui? Da dove sei sbucata?», chiese lei, dandomi la mano per tirarmi

su.La fissai, incapace di muovermi.«Ero da Cole», mormorai, stordita.«Ha detto da Cole?», chiese una voce. «Dev’essere fuori di sé, perché la casa di

Cole è dannatamente lontana da qui».«Bevi questo», disse un’altra ragazza, inginocchiandosi accanto a me e

mettendomi una bottiglia fredda in mano.L’acqua fredda mi bagnò la lingua, e quasi sospirai di sollievo. Mi tremava la

mano quando la sollevai, incapace di prendere più di un sorso alla volta.«Possiamo riaccompagnarti da Cole?», propose Nika.Scossi la testa, senza riuscire a trovare le parole.«Dove possiamo lasciarti?», chiese la brunetta accanto a me.«Da Nate», dissi, cercando ancora di orientarmi mentre tutto mi girava attorno.Bussai alla por ta, e non rispose nessuno. Vidi se era chiusa, e quando la por ta si aprì,

entrai. C’era qualcosa di strano, e lo sapevo. Non ero riuscito a togliermi di dosso quellasensazione dalla sera prima. E il fatto che Nate mi avesse detto che non aveva rispostonessuno quando era passato…Avrei voluto che fosse entrato a controllare.Corsi da una stanza all’altra, ma non c’era nessuno. Quando entrai nella camera da letto,

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esitai. La roba di Cole non c’era più. C’erano solo le cose di Emma. Lui se n’era andato.«Merda», mormorai, tornando in soggiorno. La por ta a vetri era aper ta. Uscii in terrazza

e vidi le coper te e gli asciugamani sparsi sulla spiaggia. Stavo per scendere i gradiniquando mi vibrò il telefono.«Evan, sei tornato?»«Sì, Nate. Sono da Cole, sto cercando Emma». Proseguii per cercarli in spiaggia.«È qui, con noi», mi disse. «Ma, ehm… è un po’ disidratata».Le parole che scelse mi fecero esitare. «Che intendi con “un po’ disidratata”? Dove sei?

E perché è disidratata?»«Siamo a casa. Nika l’ha trovata su una spiaggia nei dintorni e l’ha por tata qui», spiegò.

«Accendi l’aria condizionata, e non farla stendere», disse a qualcuno nella stanza.«Cos’ha che non va, Nate?», chiesi, in ansia. Uscii e cominciai a correre verso casa di

Nate, con il telefono all’orecchio.«Non sta vomitando», mi disse, confondendomi ancora di più. «Evan, è disidratata e ha

la febbre».«Mi stai spaventando», dissi ad alta voce. «Sta bene? Deve andare in ospedale?».«Merda, hai visto i piedi?», urlò TJ da qualche parte.«Cosa?!», urlai. «Che cazzo, Nate?! Deve andare in ospedale?!».«Vuole sapere se dobbiamo por tarla in ospedale», disse Nate allontanandosi dal

telefono.«Niente ospedale!», sentii urlare Emma.«Non vuole andare in ospedale», ripeté Nate.

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«L’ho sentito», dissi con un sospiro, per niente sorpreso. «Arrivo».Quando entrai in casa, spalancai la por ta e trovai Emma seduta sul divano. Aveva la pelle

rossa e lucida, e i capelli erano fradici di sudore. Era stesa sui cuscini come se avesseconsumato ogni goccia di energia.«Ehi», salutai gentilmente, sedendomi accanto a lei.Lei aprì gli occhi. «Evan?»«Sì, sono qui», la rassicurai.«Te ne sei andato». Sollevò la testa lentamente e provò a concentrarsi su di me.«Sì».«Te ne sei andato», ripeté con un sospiro addolorato.«Ma sono tornato», la rassicurai, turbato dalla sua reazione. «E ho il tuo telefono».«Oh. Sei tornato per darmi il telefono».«No», risposi subito. «Per te… voglio dire…». Serrai i denti con una smor fia per quella

sincerità involontaria. Sperando che fosse troppo stanca per capire, proseguii: «Sonoandato via solo per un paio di giorni, e ora sono tornato. Ok?»«Ok», rispose con un sospiro esausto, e ripeté con l’ombra di un sorriso. «Non te ne sei

andato».Sollevai un angolo della bocca vedendo il sollievo sul suo viso. «No, non me ne sono

andato». Le passai una mano sulla guancia; il sale lasciò la sua pelle per finire sulle miedita.«C’è un po’ di quella bevanda energizzante in frigo», disse Nate a TJ, che andò a

prenderla.

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TJ le offrì la bottiglia d’acqua, e le sue mani tremanti non riuscirono ad aprirla.Gliela presi di mano, svitai il tappo e gliela restituii. Lei schiacciò il viso sul divano di

pelle e lentamente prese dei piccoli sorsi.Mi alzai per parlare con Nate, che era in piedi dietro il divano. «Pensi davvero che starà

bene?», mormorai, guardandola. Prima che potesse rispondere, esclamai: «Chediamine?!».Sotto i piedi aveva la pelle rossa e scor ticata, e c’era sangue sui polpacci per una ferita al

tallone.«Ho chiamato un’amica per chiedere consiglio», disse Nate. «Una delle ragazze con cui

vado a correre, è all’ultimo anno della scuola per infermiere. Ho mandato Ren a prenderedei ghiaccioli e altre bevande energetiche. So che sei preoccupato, ma penso che staràbene. Voglio dire, domani starà di merda, ma ho visto di peggio nelle maratone a cui hopartecipato».«Non sono sicuro che questo mi faccia stare meglio, Nate», risposi, tagliando corto.Emma era seduta su una sedia a mangiare un ghiacciolo. Si era fatta una doccia e si era

messa i vestiti dei ragazzi – una T-shir t di Nate, i miei pantaloni e la felpa con il cappucciodi TJ. Lo sguardo vitreo era sparito dai suoi occhi, e sembrava più in sé.«Fammi vedere i piedi», chiesi, con l’asciugamano sulle ginocchia e il kit di medicazione

sul tavolo accanto a me.Emma tirò fuori i piedi dal secchio d’acqua in cui erano a mollo e me li mise

delicatamente sulle ginocchia.«Che gusto è?», chiese TJ a Emma dall’altra par te del tavolo, succhiando un ghiacciolo

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giallo.«Mora», disse lei. «E il tuo?»«Ananas. Vuoi dare una leccata?»«TJ», lo rimproverai.«Ehi, volevo solo offrirle il ghiacciolo», si difese, facendo ridere Emma. Il suono

perfetto. Quello che avrei voluto sentire più spesso.Prima che cominciassi a pulire e fasciare i tagli che aveva sui piedi, il mio cellulare vibrò.

Feci una smor fia quando vidi il nome di Sara, sentendomi in colpa per non averlachiamata prima.«Ehi, Sara», risposi esitante.«Ti senti abbastanza in colpa, Evan? Grazie per aver chiamato», sibilò, facendomi stare

peggio. «Hai visto Emma?»«Sì», risposi. «È qui. Puoi parlarle».Passai a Emma il telefono e misi il disinfettante sulla garza.«Ciao», risposi. «Merda! Evan, fa male!», gli tolsi il piede di mano.«Emma? Che diamine sta facendo?», chiese Sara all’altro capo del telefono.«Devo pulirla, Emma», replicò Evan, afferrandomi la caviglia. «Faccio piano».Cominciò a tamponare i tagli aperti, e io urlai di dolore, tirando via il piede.

«Sembra che stai usando acido e carta vetrata».«Emma!», urlò Sara, lottando per avere la mia attenzione.«Che ti aspetti se vai a correre una maratona a piedi nudi?», replicò Evan.

«Dammi il piede».

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«Almeno aspetta mentre sono al telefono», supplicai, rimettendolosull’asciugamano.«Va bene», disse, posando i suoi attrezzi da tortura sul tavolo.«Scusa. Eccomi», disse al telefono.«Mi vuoi dire cosa sta succedendo?», chiese Sara, frustrata.Mi guardai le gambe e infilai la mano nella manica della felpa. «Te ne sei

andata. Evan se n’è andato. Cole se n’è andato. Così… sono andata a correre. Hocorso tanto, e adesso ne sto pagando le conseguenze», spiegai semplicemente.Con la coda dell’occhio vidi Evan voltarsi verso di me.«Cole se n’è andato?», ripeté Sara. «Oh, wow. E non sapevi che Evan era andato

a San Francisco per un paio di giorni?»«No», mormorai. incapace di sollevare gli occhi dalle mie gambe mentre Evan

sedeva di fronte a me, aspettando pazientemente di riprendere a torturarmi.«Mi spiace tanto, Emma. Avrei dovuto portarti con me. So che volevi venire, ma

ho pensato che l’ultima cosa che volessi fare fosse andare a un funerale. Ifunerali sono una cosa orribile. Ma vorrei davvero che fossi qui. La mia famiglia èdavvero squilibrata», si lamentò Sara, facendomi ridere. «Stai bene, davvero?Perché da quello che sento, è stata una corsa folle».«Una corsa risolutrice».«Um… ok», rispose Sara, confusa. «Allora, dobbiamo trovare un altro posto dove

stare il prossimo mese, eh?»«Sarebbe meglio», accettai. «Nate conosce un’agente immobiliare. La

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incontreremo domani per vedere un paio di posti».«Fantastico. Dimmi cosa trovi. Evan viene con te, vero?»«L’idea è quella», dissi.«Andrebbe bene se rimanesse a casa con te finché non torno? Mi farebbe stare

più tranquilla sapere che non sei da sola».Sorrisi con affetto sentendola così protettiva. «Va bene, ma devi chiederlo anche

a lui». Gli occhi di Evan si allontanarono dalla conversazione a cui stavapartecipando con i ragazzi. Sapevo che stava ascoltando.«Fammi parlare con lui. Ci vediamo giovedì. E carica quel tuo stupido telefono!».«Ok», risi, passando il telefono a Evan.Emma continuò a guardarmi quando mi portai il telefono all’orecchio. «Sì?»«Puoi assicurar ti che non stia più da sola fin quando non torno?», chiese Sara. Alzai gli

occhi per incontrare quelli di Emma.«Ce la posso fare», risposi, notando il leggero cambiamento di colore sul suo viso

bruciato dal sole.«Evan, non ho idea di cosa sia successo, ma non penso sia una bella cosa», proseguì

Sara.«Sono d’accordo», risposi, reggendo ancora lo sguardo di Emma. «Però non

preoccupar ti. Troveremo un bel posto domani, e non andrò da nessuna par te finché nonmi cacci».«Stanze separate!», avvertì Sara, facendomi ridere.«Ci vediamo giovedì, Sara», dissi prima di riagganciare. Misi il telefono in tasca. Emma

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mi stava ancora guardando. «Pronta?».La sua espressione si mutò in panico.«Forza, Emma, posso tenerti la mano», si offrì Brent, porgendole la mano.Lei avvolse la sua piccola mano in quella grande e grossa di lui, che sorrise.«Oppure potresti prenderlo a pugni se ti fa troppo male», brontolai, e Brent mi lanciò

uno sguardo corrucciato. Emma fece una risatina.Andai avanti a togliere la sabbia rappresa rimasta sulle ferite.«Aaah», si lamentò Brent, quando Emma serrò i denti e gli strinse la mano. Io ridacchiai.«Emma, stai qui stasera, vero?», chiese TJ, mordicchiando i ghiaccioli che avevano

preso per lei.Emma mi guardò. «Se a voi va bene…».Prima che potessi rispondere, Brent sbottò. «Certo».«Dormiamo sulla spiaggia», intervenne Ren. «Facciamo un falò, io porto la chitarra».Prima che potessi aprire bocca per obiettare, preoccupato di come lei potesse arrivare fin

lì in sicurezza e tenere i piedi puliti, Emma rispose con un sorriso smagliante: «Non homai dormito sulla spiaggia prima d’ora».Mi fermai. Non le avrei tolto quel sorriso. E poi… non potevo rinunciare all’oppor tunità

di partecipare a una nuova esperienza di Emma.

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«S

28Trovare una ragione

e la fai cadere ti uccido», minacciò Evan quando Brent mi prese sullaschiena per farmi scendere le scale. Risi al suo avvertimento. I loro

battibecchi a proposito di me erano piuttosto divertenti.Brent era innocuo, ed Evan lo sapeva. Eppure era comunque seccato dal fatto

che Brent flirtasse scherzosamente con me – e che io trovassi la cosa divertente.Avevo i piedi avvolti in un chilometro di garza, protetta da un paio di calzini

lunghi di Brent. Ero ridicola, ma non mi importava. Quello era stato il giorno piùemotivamente stancante e fisicamente impegnativo della mia vita. Mi si chiudevalo stomaco al pensiero di quanto ero andata vicina a non esistere.Avevo affrontato i miei demoni e mi ero allontanata – di corsa – da una vita che

preferivo non vedere. Avevo paura che alla fine mi raggiungesse. Ma adesso, ero

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ancora qui.«Emma, stai bene?», chiese Evan, risvegliandomi dai miei pensieri. I suoi

tempestosi occhi azzurri cercarono per un attimo i miei mentre camminavaaccanto a me sulla sabbia.«Uh, sì», dissi, cercando di tenere la voce neutrale. «Sono solo stanca».Brent teneva le mani sotto le mie ginocchia mentre mi portava verso la spiaggia.

Lì i ragazzi avevano scelto un punto lungo il fianco della collina al riparo dalvento. Evan lasciò cadere il fascio di legname e due sacchi a pelo sulla sabbia.Nate mise giù il frigobar per aiutare Ren e TJ ad aprire i loro sacchi a pelo emetterli attorno al fuoco che Evan aveva cominciato a preparare.Brent si chinò e gentilmente mi fece accomodare sul sacco a pelo nero. Ci infilai

dentro le gambe, mentre il mio corpo rabbrividiva per le bruciature che mi eroprocurata durante il mio tour lungo la costa della California quel pomeriggio.Ren prese la chitarra mentre Evan accendeva il fuoco. TJ distribuì le birre,

offrendomi una bottiglia di limonata, che accettai allegramente. Per quel giornone avevo abbastanza di acqua.TJ agitò una fiaschetta verso di me. «Posso correggere quella limonata, Emma,

se vuoi».Risi all’offerta. «Grazie, TJ – ma sono a posto. Ho deciso di rinunciare per

sempre alla vodka».«Io l’ho fatto con il whisky», disse TJ rabbrividendo. «Wow, che nottataccia

quella».

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Brent rise al ricordo, sistemando il suo sacco a pelo ai miei piedi. «Ti seisvegliato a faccia in giù sulla sabbia, nudo».«Già», ricordò TJ. «Non ho idea di cosa sia successo».«Io sì», intervenne Ren. «Stavamo parlando del tizio a cui piaceva fare surf

nudo, e tu hai deciso di imitarlo. Ma non ti è andata molto bene».«Sono caduto?», chiese TJ, stranamente ignaro della sua stessa storia.«Non sei neppure arrivato in acqua!», lo prese in giro Ren. «Sei caduto a faccia

in giù togliendoti i pantaloni e sei svenuto lì».TJ scoppiò in una risata sonora, e io non potei fare a meno di ridere con lui.

«Non ci posso credere. Fantastico!».Guardai verso Evan, che sorrideva e scuoteva la testa. Si accorse del mio

sguardo e non distolse gli occhi. Il suo volto si aprì in un sorriso. Quello che mifaceva scorrere il sangue nelle vene a una velocità incredibile.Distolsi lo sguardo, concentrandomi sul fuoco. Mi strofinai le guance con il dorso

della mano, sentendomi come se le fiamme le avessero accese.«Quel surfista nudo era strano», rifletté Ren.«Eh sì», ammise Nate.«Emma, fai surf?», chiese TJ.Stavo per dire che avremmo dovuto insegnarglielo, quando lei rispose. «Sì. So che non

sono neanche lontanamente brava come voi, ma sì. Non ho ancora una tavola, però».La fissai sorpreso. «Fai surf?».Lei sorrise timidamente e scrollò le spalle.

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«Penso che tu abbia appena reso Evan il ragazzo più felice del pianeta», disse Ren,facendola sorridere ancora di più.«Nessuna delle nostre ragazze ha mai fatto sur f», spiegò Brent. Le parole che aveva

scelto attirarono la mia attenzione. Lui se ne accorse e annaspò. «Ehi, sai cosa vogliodire».«Perché le ragazze a cui sei sempre interessato hanno troppo petto e poco cervello»,

replicò Nate.Risi. «Quando è stata l’ultima volta che siete usciti con una ragazza? Spalmare a

qualcuna la crema solare non conta».«Io… ci esco», si difese Brent debolmente.«No, amico», rise TJ. «Pensi di essere così esper to, ma poi non arrivi mai al punto.

Mettiamola così, con chi sei uscito dopo la festa in piscina dello scorso fine settimana?».Lanciai uno sguardo a Emma, che stava osservando il battibecco con un adorabile

sorriso, e con gli occhi seguiva la conversazione. Sembrava stare molto meglio di quandol’avevo trovata, e avrei dato qualsiasi cosa per mantenere quel sorriso.Mi stesi sul cuscino e mi tirai il sacco a pelo fino al mento, continuando ad

ascoltare le storie dei ragazzi. Finiva sempre con qualcuno che si difendeva.Capivo perché Evan non aveva mai voluto rinunciare a loro. Mi ricordavano le mieamiche.Il chiacchiericcio sfumò, e Ren iniziò a suonare la chitarra cantando una

rilassante canzone reggae. Era una scelta perfetta con il rumore delle onde insottofondo.

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«Evan, avresti dovuto portare la macchina fotografica», notò TJ. «Amico, non tiho più visto usarla da quando sei andato alla Ivy League. Prima non stavi maisenza».«Io, uh…», balbettò Evan. Voltai la testa sul cuscino per guardarlo. «Non so

bene dove sia. Ultimamente non ho avuto molte ragioni per fare foto».Sentii una stretta al cuore.«Forse dovresti trovare una nuova ragione», mormorai, fissando il fuoco.Sapevo che nessun altro l’aveva sentita a par te me, ed ero abbastanza sicuro che non

volesse farsi sentire. Un piccolo sorriso si allargò sulle mie labbra mentre lei sirannicchiava nel sacco a pelo, fissando il fuoco, facendomi ricordare la prima foto che leavevo fatto. Forse avevo trovato una ragione.La guardai addormentarsi mentre Ren cantava e TJ si univa a lui. Davanti al fuoco, Nate

sollevò le sopracciglia, come se mi avesse letto nel pensiero.«Stai attento», disse piano. «Ok?».Nate mi stava tenendo d’occhio. Lo sapevo. Era l’unico che sapeva davvero quanto ero

stato male quando Emma se n’era andata. Gli credevo quando diceva che avrebbe messo arischio la nostra amicizia per assicurarsi che non succedesse più. Ma speravo non sidovesse arrivare a tanto.Il fuoco si spense, le ceneri brillavano sulla sabbia. Tutti cominciarono ad appisolarsi. Io

spostai il mio sacco a pelo in modo da guardare Emma dormire finché non mi arresianch’io al sonno.Mi svegliai terrorizzato, poi mi fermai e mi guardai attorno confuso, senza ricordare

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dove fossi. I ragazzi dormivano profondamente, o nel caso di Ren non proprioprofondamente – sparsi sulla sabbia nei loro sacchi a pelo, infilati dentro per ripararsidall’aria fredda. Mi ci volle un istante, ma mi scossi di dosso il panico per il sogno che misvegliava la maggior par te delle mattine. Poi mi accorsi che Emma era sparita. Il panicotornò, e saltai fuori dal sacco a pelo per scrutare la spiaggia.Le spalle si rilassarono quando la vidi seduta vicino all’acqua, avvolta in un sacco a pelo.

«Devo smetterla di spaventarmi», mormorai.Andai verso di lei, vagando tra le nuvole basse finché non le arrivai accanto, guardando

dallo stesso punto il mare del mattino.«Continuo a non essere convinto che non ti piacciano le mattine», dissi, facendola

sobbalzare. «Scusa». Sorrisi alla familiarità della sua reazione. Mi sembrava di prenderlasempre alla sprovvista, che fosse sempre persa nei suoi pensieri.«Adori arrivare di nascosto», mi accusò, «è evidente dal tuo stupido sorriso».Sorrisi ancora di più, sedendomi sulla sabbia accanto a lei e incrociando gli avambracci

sulle ginocchia.L’aria fredda mi s ferzava, e rabbrividii. Lei se ne accorse e allungò un braccio,

offrendomi una par te del suo sacco a pelo. «Grazie», dissi, avvolgendo il bordo sulla miaspalla, cercando di non pensare al calore che emanava il suo corpo.Ci sedemmo a guardare l’oceano per un istante, ma non potei trattenermi dal farle una

delle infinite domande senza risposta che avevo per lei. «Che è successo ieri?».Sentivo che ci pensava mentre era seduto accanto a me. Ero pronta a sentire la

sua domanda, ma speravo che non mi chiedesse proprio quello.

Page 371: Una Ragione Per Vivere

«Dovevo schiarirmi le idee», spiegai, evasiva.«Da che cosa stavi scappando, Emma?», chiese, leggendo correttamente la mia

risposta.«Da me stessa», risposi sinceramente, evitando il suo sguardo. Attese che

continuassi. Feci un respiro e dissi. «Non voglio più che sia il passato a definirmi.Non voglio che quello che mi è successo, o tutte le decisioni sbagliate che hopreso, mi impediscano di diventare una persona migliore. Voglio esseremigliore».Evan non disse una parola, ma il mio cuore batté forte nel petto quando sentii il

calore della sua mano scivolare sulla mia nella fredda sabbia. Quel semplicegesto mi riempì gli occhi di lacrime, e mi appoggiai al suo braccio.«E te lo sei lasciato alle spalle, Emma? Hai corso abbastanza?», chiese piano.«Non lo so», mi fermai un istante. «Ma non voglio voltarmi per scoprirlo.

Preferisco andare verso il futuro, ed essere grata di averne uno».La sua mano strinse la mia.«Amico!», sentii urlare Nate a qualcuno, e tutti e due voltammo la testa. «Ti

vedo! Quando vai a pisciare, mettiti abbastanza lontano da non farmi vedere iltuo culo».Vedendo quello che non avrei dovuto, spalancai la bocca, incredula e divertita, e

mi voltai di nuovo di scatto.«Scusa», disse Evan scuotendo la testa.«Non fa niente», lo rassicurai, ridendo piano. «In realtà è piuttosto divertente».

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«Evan!», urlò Brent dietro di noi. «Sto morendo di fame».Mi alzai con cautela sui piedi sbucciati, avevo i muscoli rigidi e indolenziti. Evan

mi prese il sacco a pelo e lo ripiegò alla rinfusa sul braccio.«Ma certo!», urlò di rimando. Mi guardò e chiese: «Hai fame?». Annuii. «Riesci a

camminare o ti serve aiuto?».Scossi la testa facendo dei piccoli passi verso il campeggio improvvisato. Guardai

le scale mentre ci avvicinavamo, non sapendo come le avrei affrontate. Evan misorprese mentre studiavo la salita e stava per dire qualcosa quando Brent disse:«Wow, Emma, sei meravigliosa di mattina».«Sul serio, Brent?», lo sfidò Evan.Brent rise, sapendo esattamente cosa stava facendo. Evan gli sfilò da sotto il

sacco a pelo, gettandolo sulla sabbia. Nate ridacchiò con la voce rotta del mattinomentre Brent saltava su velocemente, allargando le gambe pronto all’attacco,con le braccia in fuori. Mi aspettavo che placcasse Evan e lo buttasse a terra.Evan aggrottò la fronte. «Sei sicuro di volerlo fare? Tu fallo, e non mangerai

niente di quello che cucino». Brent rimase nella sua posizione accucciata per unistante, assorto, prima di rialzarsi e arrendersi.«Va bene, ma posso fare questo», rispose con un sorriso malefico e corse dietro

di me, sollevandomi da terra. Urlai di sorpresa ritrovandomi tra le sue braccia.Brent praticamente corse verso le scale, guardandosi alle spalle in attesa dellavendetta di Evan. Evan alzò gli occhi al cielo e continuò a raccogliere con calma isacchi a pelo.

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Quando cominciammo a salire le scale, Brent mi guardò con un sorrisosmagliante: «Buongiorno, Emma».Risi e risposi: «Buongiorno, Brent. Vuoi davvero portarmi in braccio fino a casa?»«Fino a quando saprò che la cosa fa incazzare Evan, sì», rispose con un

sorrisetto malevolo. «E poi, è il massimo che posso fare per toccarti».«Vuole solo farti incazzare», disse Nate, arrotolando un sacco a pelo.«Lo so», risposi in modo burbero, guardando Brent che portava Emma in braccio.Ren si lamentò nel sonno e si rotolò su se stesso, completamente ignaro del trambusto.

TJ prese il frigobar e si incamminò sulle scale, mezzo addormentato.«Fai i waffle, Evan?», borbottò mentre lo seguivo.Sorrisi alla sua richiesta. «Sì, TJ, faccio i waffle».Vidi Emma ridere per qualcosa che aveva detto Brent, che poteva essere qualsiasi cosa

gli uscisse di bocca. Riflettei sul suo breve momento di sincerità mentre eravamo da soliin spiaggia. Anche se aveva detto più di quanto avrebbe fatto se glielo avessi chiesto dueanni fa, la sua risposta criptica era comunque sconcer tante. Però ci stava provando, esembrava tutto a posto.«Non avrebbe una casa sulla spiaggia con almeno tre camere da letto?», chiese Emma

dopo aver visto la seconda piccola casa sulla lista dell’agente immobiliare. Emmacontinuava a guardare insoddis fatta il minuscolo cottage su una strada laterale, a unchilometro e mezzo dalla spiaggia.L’agente guardò con perplessità i calzini spessi e i sandali ai piedi di Emma. Ma a Emma

non sembrava importare il suo aspetto e attendeva la risposta.

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«Be’, sì…», l’agente si lisciò il lino impeccabile del suo vestito blu senza maniche erispose lentamente, «ma temo che sia un po’ più di quanto si possa permettere».«Davvero?», rispose Emma, diver tita. «Mi piacerebbe vederla». Ero sorpresa dalla sua

tenacia.«Va bene, allora», sospirò l’agente, chiudendo la car tellina e facendo strada fuori dalla

casa.«Che succede?», chiesi, quando entrammo nel furgoncino di Nate.«Che intendi?», chiese Emma, anche se sapeva esattamente di cosa stessi parlando.

«Voglio un posto vicino al mare». Feci una risatina mentre seguivamo in strada laMercedes dorata.Entrammo nel vialetto di una grande casa bianca. Spalancai gli occhi a quella vista. Mi

voltai verso Emma, e lei sorrise.Sapevo che questa signora ci aveva portato in questa enorme casa solo per

dimostrarmi che non era alla mia portata. Ma a dire il vero, non mi interessavaquanto fosse grande. Lei avanzò impettita davanti a noi nel suo vestito attillato,battendo i tacchi sul vialetto di pietra. Aprì la porta con un risolino e fece unpasso per farci entrare.La vetrata che dava sull’oceano fu la prima cosa che vidi, e fu tutto quello che

cercavo. «La prendiamo».«Ma non siete neanche entrati», sbottò.«Quante camere da letto ci sono?», chiesi.«Tre», rispose, guardandomi in modo strano.

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«Perfetto», risposi, facendomi avanti senza togliere gli occhi dal panorama. «Ciserve per un mese. Le darò la carta di credito come caparra così possiamotrasferirci oggi e poi farò in modo che il resto dei soldi le arrivino domani. Lacontatterà un signore chiamato Charles Stanley. Si assicurerà che sia tutto aposto».Alla fine distolsi lo sguardo dall’oceano e mi voltai per guardare Evan e l’agente

che mi fissavano come se avessi appena recitato una poesia in gaelico.«Che c’è?», chiesi, con gli occhi che passavano da un viso sorpreso all’altro.«Va bene», disse lei, prendendo la carta che le stavo dando. «Le preparerò i

documenti da firmare oggi pomeriggio dopo aver parlato con questo… CharlesStanley. Ci sentiamo».«Grazie». Sorrisi e zoppicai verso il furgone.«Charles Stanley?», chiese Evan, ancora confuso per quella conversazione. «E

non sai neanche quanto costa o com’è il posto. Emma, che è successo?»«Mi piace il panorama», risposi con semplicità, allacciandomi la cintura di

sicurezza.«Emma», dissi severamente, facendo vacillare il sorriso. Riluttante, si voltò a guardarmi.

«Cos’altro c’è che non so?».Emma giocò con le dita nervosamente prima di deglutire e ammettere: «Ho un fondo».Strabuzzai gli occhi, sorpreso.«Un fondo piuttosto consistente», proseguì, con voce tranquilla. «Mio padre l’ha aper to

quando ero piccola, e Charles è venuto a trovarmi prima che compissi diciotto anni per

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farmi sapere che esisteva. Mi aiuta con tutte le questioni finanziarie, che si tratti delcollege, della macchina o altro». Tenne gli occhi bassi finché non ebbe finito. Poicautamente alzò lo sguardo, in attesa della mia reazione.«O-kay», dissi, cercando di capire. «Immagino che abbiamo una casa». Non sapevo

cos’altro dire. Forse perché ero ancora scioccato dalla sua rivelazione, o forse perché nonimpor tava davvero. I soldi ovviamente non avevano cambiato Emma, o me ne sareiaccor to. Cer to, era incazzata con l’agente immobiliare, che con la sua supponenza se l’erapraticamente cercata. E a Emma non impor tava quanto fosse grande la casa, era evidente.L’unica cosa che aveva visto prima di prendere la sua decisione era il panoramadell’oceano. «Prendiamo la nostra roba». Avviai il furgone, e in cinque minuti arrivammoa casa di Nate.Mi aspettavo che fosse arrabbiato con me per non avergli detto del fondo e della

visita di Charles Stanley. Ma aveva a malapena reagito. Se l’era presa di più per ilfatto che avevo preso una decisione affrettata senza sapere nulla del posto.Evan non reagiva mai come pensavo, ma questa era una cosa che mi aveva

sempre attratto di lui. E non era cambiata.

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P

29Non sapere

assai la mano sulla superficie liscia di marmo e sollevai la testa verso il soleche entrava dalla piccola finestra sopra la vasca idromassaggio.

«Bel posto», disse Evan dalla porta, facendomi voltare.«Ti rendi conto di quanto è grande questo bagno?», risposi, sentendo l’eco della

mia voce nella stanza. Sembrava più una spa di lusso. C’era anche un televisoreincassato nello specchio sopra il doppio lavandino.«Ti meravigli del bagno? Hai visto questa camera da letto? C’è un caminetto, e

anche una veranda privata».«Davvero?», seguii Evan nella camera da letto principale, accanto al letto king

size coperto da una montagna di cuscini, e uscimmo dalla porta a vetri coperta dauna tenda velata.

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«Non ci credo», spalancai gli occhi vedendo l’ambiente raccolto, con fiori rosabrillanti che ornavano e circondavano la recinzione. Due sedie di teak e un tavoloerano sistemate accanto a un piccolo focolare, e c’era addirittura una docciaall’aperto. «Per quale motivo uno dovrebbe farsi una doccia in veranda?»«Per togliersi la sabbia di dosso», spiegò Evan, aprendo una parte dell’alta

recinzione per mostrare la terrazza principale e una rampa di scale che portavaalla spiaggia.«È pazzesco», dissi, scuotendo la testa.«L’hai scelta tu», sorrise Evan.«Mi piaceva il panorama».«E hai avuto molto di più», rise Evan, tornando in casa. Lo seguii dentro l’ampio

soggiorno. «Penso che andrò al supermercato, se per te va bene. Potresti starefuori e far prendere un po’ d’aria ai piedi. Penso di aver visto un’amaca daqualche parte».«Sembra perfetto».«Vuoi qualcosa in particolare?», chiese Evan, prendendo le chiavi del furgone di

Nate dal tavolo dietro il morbido divano blu scuro.«Gelato?»«Ce la posso fare», sorrise.Lo guardai uscire. Stavo cercando di non pensare al fatto che saremmo stati da

soli in quella casa per le successive ventiquattr’ore finché non fosse tornata Sara.Il solo pensiero mi provocò un attacco di panico, a dispetto del battito agitato che

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sentivo nel petto. Scacciai quel pensiero dilagante e decisi di distrarmi con unlibro.Passai in rassegna la grande libreria incassata, piena zeppa di libri di ogni

genere, tascabili o in brossura. Poi mi ricordai del libro che avevo nella mia borsa,che non avevo toccato da prima di partire per Weslyn. Era ridicolo aver pensatodi poter leggere sull’aeroplano diretto a Weslyn.Tirai fuori la borsa dall’armadio a muro dell’enorme camera principale, e frugai

dentro. Presi il libro, e qualche busta cadde sul pavimento. Le raccolsi.Una era l’offerta per l’abbonamento a una rivista. La posai sul letto per buttarla

via in seguito. L’altra mi fece torcere lo stomaco. Sulla busta bianca c’era il mionome di battesimo, scritto con una grafia severa. L’indirizzo del mittente era“Boca Raton, Florida”. Gettai la busta sul letto come se scottasse. Non era lascrittura di George. Inspirai profondamente per tenere a bada la nausea. Dovevaessere di mia nonna. Non volevo sentire le sue brutali accuse di come avessirovinato la vita dei suoi figli e dei suoi nipoti. Non avrei permesso che qualcunaltro mi accusasse di cose di cui non avevo colpa.Presi il libro e uscii dalla stanza, ritirandomi sulla grande terrazza, dove mi

attendeva un’amaca blu di tela. Aprii con cautela la garza che mi proteggeva ipiedi e mi stesi sulla superficie ondeggiante.Ci volle un po’ di tempo perché il mio cuore si calmasse mentre guardavo i

gabbiani muoversi sulla superficie dell’acqua. Mi concentrai sulla tranquillità dellaspiaggia e sul ritmo cadenzato delle onde, tentando di mettere a tacere la lettera

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che sembrava urlarmi contro dall’interno della casa. Alla fine aprii il libro.Quando girai le pagine, qualcosa cadde e volò sul bordo della terrazza. Mi chinai

con cautela, per paura di cadere, e lo raccolsi. Tornando a dondolarmi sull’amaca,mi rigirai la foglia di quercia tra le dita e risi forte pensando a quando l’avevoraccolta mentre ero sull’altalena nel giardino di Evan – la notte che ero statacostretta a rimanere lì. Non mi ricordavo di averla conservata.Brillava al sole quando la sollevai per ammirarla. Sentii che lo stesso calore che

avevo provato il giorno che Evan mi aveva mostrato l’altalena mi catturava ilcuore. Voleva aiutarmi a ricordare mio padre… e farmi sapere che allo stessotempo che potevo aggrapparmi a lui.Gli occhi mi si riempirono di lacrime. Non mi ero aggrappata.«Che cosa hai fatto?», sospirai, ricacciando indietro l’emozione.Infilai la foglia in fondo al libro e girai la prima pagina.«Emma, ho comprato…», mi fermai sulla terrazza quando mi accorsi che si era

addormentata sull’amaca, con un libro in grembo. Non riuscivo a distogliere lo sguardomentre il vento le soffiava dolcemente tra i capelli – che a ciocche le danzavano sul viso.Il sole illuminava il suo volto mentre sospiri profondi le uscivano dalle labbraleggermente aperte.«Dove mettiamo la spesa?», chiese Nate alle mie spalle. Mi girai verso di lui, che,

guardandoci, esitò.«Arrivo subito», gli dissi.Nate sapeva cosa stava succedendo. Non aveva smesso di parlarne sul furgone, quando

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ero andato a prenderlo dopo aver fatto la spesa. Mi aveva detto chiaramente che secondolui tras ferirsi da lei per un mese era una cattiva idea. Sembrava che non gli impor tasse cheSara sarebbe stata con noi… a par tire da domani. E Sara era dieci volte più protettiva neiconfronti di Emma di quanto Nate lo fosse con me.Quando sollevai piano il libro per posarlo sul tavolino vicino all’amaca, ne scivolò fuori

qualcosa. Mi chinai per raccogliere la foglia secca di quercia e sorrisi, guardando prima lafoglia e poi Emma. Era come se stessimo continuando a girare intorno a quell’albero… eall’altalena. Infilai la foglia tra le pagine come segnalibro e lo misi sul tavolo.Quando rientrai in casa, tirai fuori il cellulare e mandai un messaggio a mia madre:Puoi prendere tutti i miei risparmi, e ti cederò il fondo. ti prego, vendimi la casa.Nate stava sistemando la spesa a caso sugli scaffali. Lo lasciai fare, sapendo che più tardi

avrei finito per riorganizzare tutto.«Vuoi restare per cena?»«No, grazie, ma prendo una birra», rispose.«Cer to». Tirai fuori una birra dal frigo, cercando di nascondere il mio sguardo

soddisfatto.«Tu non mi vuoi proprio qui», brontolò Nate, leggendomi fin troppo facilmente nel

pensiero. «Ma, Evan, sei sicuro di quello che fai? Voglio dire, è ovvio che lei ne stapassando tante questa estate. Forse stai per spingerla a fare qualcosa di cui vi pentireteentrambi».«Troveremo il modo», lo rassicurai. «Non peggiorerò le cose. Credimi, non può andare

peggio di così».Nate annuì, pensieroso.

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«Ma devo lasciare che qualsiasi cosa stia succedendo tra di noi, succeda. Forse possiamolasciarci alle spalle tutto quello che abbiamo passato. Devo scoprirlo. Finalmente stacominciando a parlarmi. E non è mai stata davvero capace di farlo, prima d’ora. Noncosì».Nate scrollò le spalle, rassegnato, prendendo un lungo sorso di birra.«Mia madre e sua sorella por teranno i miei cugini a Disneyland per il fine settimana, e si

fermeranno qui domani. Mia madre vuole invitarti a cena. Puoi portare Emma, se vuoi».«Glielo chiederò».«Ti avver to, i miei cugini sono figli del Diavolo», arricciò le labbra, disgustato. «Ma non

ti salverai da questa cena, a nessun costo. Non puoi lasciarmi da solo con quei bambini».«Ci saranno i ragazzi», risi.«Sono inutili», disse Nate con enfasi. «Te lo dico, meglio se vieni armato, specialmente

se porti Emma».Risi di nuovo. «Sara tornerà domani, quindi forse Emma preferirà rimanere qui con lei».«Jared non torna con lei?»«Perché Jared dovrebbe tornare con Sara?», chiese Emma dal soggiorno. Feci capolino

dal riquadro che separava le due stanze.«Ciao», dissi con un sorriso. «Come hai dormito?». Vidi che era scalza. «Non dovresti

fare attenzione ai piedi?»«Li fascerò tra un minuto, ma non mi fanno tanto male. E tu non hai risposto alla mia

domanda».Lanciai un’occhiataccia a Nate, che aggrottò la fronte con un silenzioso “buona for tuna”

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finendo la birra in una lunga sorsata. «Be’, immagino che ci vedremo domani», disse,dandomi una pacca sulla spalla mentre mi passava accanto.Lo seguii in soggiorno. «Emma, la casa è davvero pazzesca», ammirò. «Poco più giù su

questa strada vive Mick Slater. È un grande agente immobiliare della zona e per il 4 lugliodi solito fa dei fuochi d’ar tificio assurdi. Dovresti dare una festa. Io e i ragazzi tipossiamo dare una mano se vuoi».Emma annuì in silenzio, sorpresa. Risi al pensiero di lei che dava una festa. «Possiamo

parlarne, Em».«Ok», disse, a disagio.«Ciao, Emma», disse Nate, uscendo.«Ciao, Nate», risposi prima che chiudesse la porta. Avevo notato che mi aveva

quasi evitata negli ultimi giorni, e non era stato capace di guardarmi negli occhi.Mi chiedevo se avevo per caso fatto qualcosa che l’aveva turbato.«Non dobbiamo per forza dare una festa», mi rassicurò Evan, fraintendendo il

mio sguardo preoccupato. «I ragazzi però sono specializzati nell’organizzare festesenza fare danni. Penso di aver visto i fuochi d’artificio di cui parlava, e quel tizioè esagerato. Non so da dove li spari, ma sembra che piovano sulla spiaggia. Estando così vicini…».«Evan», lo fermai con un’occhiata severa. «La mia domanda. Perché Jared torna

con Sara?».Evan si massaggiò la fronte, tenendo lo sguardo sul pavimento. «È andato al

funerale», mormorò.

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«Che cosa?!», domandai. «Perché diavolo avrebbe fatto una cosa del genere? Ècosì…», incrociai il suo guardo, «tipico dei Mathews. Wow, ve ne fregate propriose non siete i benvenuti, eh?»«Ahi», disse Evan, scioccato.«Scusa, scusa», balbettai. «Mi dispiace. Non avrei dovuto dirlo».«Be’, immagino sia vero», disse Evan, riprendendosi. «Tu non mi volevi al

funerale di tua madre. E sono sicuro che Sara non volesse Jared al funerale di suononno».Mi misi a sedere sul divano, con i piedi gonfi e i muscoli indolenziti per essere

stata in piedi troppo tempo. Sollevai i piedi e mi appoggiai sul cuscino perguardare Evan. «Perché ci è voluto andare, Evan?». Mi tornò in mente l’immaginedi lui e quella ragazza sul giornale. «Non è fidanzato? Deve lasciare in paceSara».«Fidanzato?», Evan sembrava non avere idea di cosa stessi parlando. Poi aprì la

bocca. «Oh! Merda. L’avete visto?»«Ehm, sì. Non hai idea del male che quella foto ci… le ha fatto. Del male che ha

fatto a Sara. Era davvero molto, molto incazzata». Serrai i denti per il mio lapsus,sperando che lui non se ne fosse accorto.«Lo immagino», commentò Evan, sedendosi in poltrona, davanti a me. «Wow.

Non posso credere che tu l’abbia vista». Evan si passò le dita tra i capelli. «Jaredha provato a parlargliene, ma lei non gliel’ha permesso».«Parlarle di cosa?! Del fatto che stava progettando di passare il resto della sua

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vita con qualcun altro? Avrebbe dovuto dirle che stava uscendo con qualcuno,figuriamoci che doveva sposarsi».«Ehi!», reagì Evan. «È stata Sara a lasciarlo prima di partire per la Francia.

Prima continua a dirgli che vuole stare con lui, poi rompe con lui ogni volta chesono a più di duecento chilometri di distanza. Lui aveva tutto il diritto di andareavanti».«Ma ora si è fidanzato!», replicai, frustrata. «C’è una bella differenza».«Non è vero!».Rimasi immobile a fissarlo.«Che cosa?», ero confusa. Il mio cuore martellava a velocità folle. Tutto quello

che riuscivo a vedere era l’immagine di Evan… con Catherine.«Jared non è fidanzato, Emma. Non lo è mai stato. Non c’è mai stata nessuna

per lui a parte Sara. Credimi… ci ha provato. Non ha funzionato».«Ma la fo…».«È stato mio padre», spiegò Evan con un sospiro affranto. «Trina Macalroy era la

figlia di un potenziale cliente. Mio padre ha organizzato le cose per farla uscirecon Jared. Sono usciti insieme per un po’, ma non è mai stata una cosa così seria.A lei sarebbe piaciuto fidanzarsi con lui, e il piano di mio padre per poco non haspinto Jared a farlo. Mio fratello non è mai stato molto bravo a contrastare nostropadre. Però poi mia madre è intervenuta, e, be’… il fidanzamento non c’è maistato. E i miei genitori sono sul punto di divorziare per questo».«Dici sul serio?», chiesi, con la testa che mi girava.

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«Sì, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso», risposi, appoggiando i gomiti sulleginocchia. «È stato difficile per mia madre. Lui non si arrende facilmente».«Mi dispiace».Incrociai il suo sguardo comprensivo. «Andrà tutto bene», dissi, senza convinzione,

pensando alla casa e a come avere due proprietà non sarebbe stato un problema se nonfosse stato per il divorzio. Sapevo quello che mia madre non mi diceva. Era mio padreche la stava costringendo a venderla. Emma affondò nel divano, assorta nei pensieri.«Hai fame?», chiesi, alzandomi e dirigendomi in cucina, nel tentativo di cambiare

argomento. «Ho preso delle bistecche per quella favolosa griglia che c’è lì fuori».«Certo», rispose meccanicamente, ancora persa nei suoi pensieri.Esitai, notando il tono spento della sua voce. «A che cosa stai pensando, Emma?». Non

ero sicuro che mi avrebbe risposto, ma valeva la pena provare.«Perché non gli piacevo? A tuo padre. Perché non mi approvava? Non mi conosceva

neppure».Digrignai i denti sentendola ferita, invaso dalla rabbia per tutte le cose egoiste che aveva

fatto quell’uomo. Come potevo spiegare le elucubrazioni interiori di Stuar t Mathews auna ragazza che pensava di non essere mai abbastanza all’altezza e che credeva che tuttoin lei fosse sbagliato? Lui aveva giocato con le sue debolezze, e l’aveva ferita, nonostantetutti i miei sforzi di tenerla lontana da lui.Tornai verso il divano, e lei spostò i piedi per farmi sedere. Mi voltai a guardarla. «Hai

ragione. Non ti conosceva. E non meritavi di essere trattata così. Non lo perdonerò maiper quello». Lei sollevò lo sguardo, sorpresa. «Per lui l’immagine e la reputazione erano

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più impor tanti delle persone, della sua stessa famiglia. Non era lui quello ricco – era miamadre. Sentiva sempre di dover provare qualcosa alla famiglia di lei, di doversiguadagnare mia madre. Ma nonostante tutte le volte che lei lo aveva rassicurato che lasua famiglia lo amava perché lei lo amava, lui non riusciva ad accettarlo. Una voltaassaporato il gusto del successo, ne voleva di più, calpestando tutti quelli che lointralciavano.«Tu non hai mai fatto nulla di male. Sfor tunatamente, non corrispondevi all’immagine

della ragazza che voleva per me».«E Catherine sì?», mormorò sottovoce.Mi irrigidii a sentire il suo nome. Serrai le labbra, ricordando di nuovo che Emma aveva

visto la foto sul giornale. Osservai i suoi occhi castani tormentati e risposi con calma.«Sì».Lei trasalì.«Non è…».«Non voglio sapere», sbottò. «Non posso…». Emma rannicchiò le gambe, come a

volersi allontanare il più possibile da me. Sapeva che dietro quella foto non c’era solo lamia volontà di obbedire a mio padre. Chinai la testa e dissi: «Non sono mai uscito conlei».«Davvero non voglio saperlo, Evan», supplicò, con un sussurro.Non volevo parlare di lei. Non in quel momento. Mai. Volevo dimenticarmi tutto

quello che era successo dopo che me ne ero andata. Desideravo che potessimoricominciare da capo, e lasciar perdere tutto. Ma sapevo che era impossibile.

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Sapevo di dover affrontare i miei demoni, prima o poi – non potevo continuare ascappare.

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M

30Scelte

i adagiai sulla poltrona con i piedi appoggiati al bracciolo, senza guardaredavvero il film che scorreva sullo schermo gigante sospeso sopra il caminetto.

Guardai Evan, addormentato sul divano.Stavo cercando con tutte le mie forze di stare bene. Non volevo essere quella

ragazza, in balia dell’acqua, persa e sola, che desiderava che le onde laspingessero al largo. Stavo lottando per andare avanti, per essere migliore. Manon sapevo come fare.Evan si mosse, e io distolsi lo sguardo, fingendo di guardare il film.«Ehi», disse con voce roca e assonnata. «Sei ancora sveglia?».Voltai la testa verso di lui. «Sì. Ma tu ti sei addormentato».«Già», ammise intontito. «Quindi i film non ti fanno più dormire?»

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«Mi fanno ancora dormire», dissi, sorridendo appena. «Però non lo stavoguardando davvero».«Cos’è che ti tiene sveglia?».Mi girai per guardarlo.«Sono state le due settimane e mezzo più intense di sempre…», confessai. «E

considerando la mia vita, è tutto dire».Mi allungai a spegnere la televisione.Emma proseguì: «Immagino di essere… confusa e… spaventata».«Spaventata?».Emma abbassò lo sguardo e cominciò a tor turarsi le dita. Volevo dirle di sedersi sul

divano con me, per starle più vicino. Sembrava troppo distante sulla poltrona. Ma eraancora più lontana con la mente, e volevo sapere dove fosse e come riportarla indietro.«C’è una lettera, sul mio letto», spiegò, con voce incer ta. «Sono quasi sicura che sia di

mia nonna, e non voglio aprirla». Chiuse gli occhi per nascondere le emozioni, e ioscivolai giù dal divano per sedermi di fronte a lei. Quando aprì gli occhi di nuovo, eranopieni di inquietudine. Lottai contro l’istinto di prenderle la mano.«Tua nonna?», chiesi, ignaro che avesse una famiglia a parte George e i bambini.«La madre di mio padre», spiegò debolmente. «L’ha diseredato quando sono nato,

perché lui e Rachel non si erano mai sposati».Cercai di mantenere un’espressione tranquilla mentre mi rivelava un’altra delle cose che

mi aveva tenuto nascoste.«Evan, non sono abbastanza for te per leggerla, e sentirmi incolpare per quello che ho

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fatto ai suoi figli. Non posso soppor tare un’altra persona che mi dice che non dovrei maiessere nata, o che non sono degna di essere amata. Io… non ce la faccio».Feci un respiro, cercando di apparirle calmo. Si era nutrita per anni di quelle insicurezze,

radicate in lei da due donne che disprezzavo più di chiunque altro. Erano i suoi segreti piùoscuri, e finalmente me li stava mostrando. Non avrei permesso che qualcun altro laferisse.«La leggerò io», le dissi. «Se è qualcosa di brutto, non la vedrai mai. E se invece penserò

che tu possa sopportarla, te la darò».«Ok», replicò con un breve sospiro, cercando di scacciare l’ansia. Continuò a tor turarsi

le mani quando mi alzai. Andai verso la camera da letto e mi voltai, scoprendo che mistava seguendo.Mi tremavano le mani, e non sapevo come fermarle. Stavo per lasciare che

andasse in camera per leggerla da solo, ma poi cambiai idea. Dovevo essere lì,osservare la sua reazione, anche se mi avrebbe detto che non potevo leggerla.Evan accese la luce, e io mi stesi sul letto. Lui si sedette sul bordo, tenendo tra

le mani la pesante busta di carta, e sollevò gli occhi per incontrare i miei. Mimorsi il labbro e annuii, incoraggiandolo ad aprirla.Passò un dito sotto il sigillo e tirò fuori la lettera. La carta era spessa e piegata

precisamente a metà. Riuscivo a vedere che era scritta a mano. Mentre gli occhidi Evan si spostavano su ogni riga, su ogni pagina, il mio cuore batteva forte,impaziente.«Non è quello che pensi», disse. «Ma potrebbe comunque turbarti. Vuoi che te la

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legga io, o preferisci farlo da sola?».Esitai prima di rispondere. «La leggo io». Tesi la mano. «Ma resta, ti va?». Evan

si precipitò accanto a me, sfiorandomi la spalla.Presi fiato e aprii la lettera.Cara Emily,Spero tu stia bene. Mi dispiace che il nostro primo incontro sia così impersonale, ma ho pensato che sarebbe

stato meglio, viste le circostanze. Il mio nome è Laura Thomas. Sono la tua nonna paterna.Dopo quello che è accaduto a Weslyn, George ha pensato che fosse meglio trasferirsi qui per vivere con me in

Florida. Ero contenta, visto che non avevo passato molto tempo con i miei nipoti prima. Le circostanze del lorotrasferimento erano sgradevoli, ma ero determinata a farli sentire amati e benvenuti in ogni caso.In questo periodo, i bambini hanno parlato spesso di te. Mi hanno chiesto se stavi bene e quando ti avrebbero

rivista. Come puoi immaginare, è un argomento sensibile, e qualcosa a cui non possiamo rispondere. George haevitato di rispondere a qualsiasi domanda su di te e io, sfortunatamente, non ti conosco abbastanza bene perfarlo.Jack, con il tempo, ha smesso di fare domande. Ma non Leyla, che fa continuamente disegni per te, e ha

anche cominciato a raccontare storie su di te ai suoi insegnanti e ai suoi compagni. Entrambi i bambini sono statiin cura da una fantastica terapeuta che li ha aiutati ad abituarsi a una vita senza la loro madre, e la terapeuta èpreoccupata.Le ho chiesto se sarebbe stato un bene entrare in contatto con te e il suggerimento è stato caldamente

incoraggiato. George non sa di questa lettera, e non sarebbe d’accordo con l’idea. Ma Leyla è molto importanteper me, e tu, Emily, sei molto importante per lei.Perciò, ti chiedo gentilmente se vuoi prendere in considerazione l’idea di riavvicinarti ai tuoi cugini. Potremmo

cominciare con una corrispondenza, per lettera o per e-mail. Poi forse potremmo provare con qualchetelefonata, e poi, se ti andrà, con le visite.Comprenderò qualsiasi riserva tu possa avere riguardo questa richiesta. Mando questa lettera per il bene di

Leyla. Puoi rispondere all’indirizzo e-mail o a quello postale stampati in calce a questa lettera.Cordialmente,Laura ThomasPiegai la pagina a metà e la posai sul tavolo accanto al letto, con le mani che

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ancora mi tremavano. Mi piegai sul cuscino e assorbii le sterili parole di mianonna. Non mi stava contattando perché voleva incontrarmi, o perché ledispiaceva essersi persa così tanto della mia vita. Quando il dolore diminuì, ilvero messaggio nascosto in quelle righe mi straziò il cuore.Vedevo che Emma stava cercando di combatterle, di scacciare le emozioni che le

facevano tremare il mento.«Va tutto bene», la consolai. «Sfogati, Emma».Lei si stese, avvicinandosi a me, e lasciai che posasse la testa sul mio petto. Non

singhiozzò come mi aspettavo, ma aveva le guance bagnate di lacrime.«Mi mancano», mormorò alla fine, con voce rotta. «Mi mancano tanto. Tutto quello che

volevo era che fossero felici».«Lo so. E tu manchi a loro. Em, vuol dire solo che ti vogliono bene quanto tu vuoi bene

a loro».La strinsi mentre piangeva per loro. Quando riprese fiato, si scansò, asciugandosi le

guance rosse.«Non voglio più piangere», disse, scacciando le lacrime. «Sembra che non faccio altro

che andare in pezzi e piangere».«Non puoi tenere tutto dentro, Emma. Piangi. Urla se vuoi, ma non lasciar ti distruggere.

Vorrei che non sottovalutassi la tua forza». Sollevai la mano sulla sua guancia bagnata ela accarezzai con il pollice.«Grazie» disse, cercando di sorridere – incrociando il mio sguardo e soffermandovisi

finché non sentii la pulsione del nostro legame in ogni par te del mio corpo. Lasciai cadere

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la mano, dovevo distogliere lo sguardo da lei prima di fare quello che volevo fare. Emmasi girò e spinse a terra i cuscini in più, aggiustandosene un altro e stendendosi sul fiancoper guardarmi.Evan seguì il mio esempio e buttò a terra i piccoli cuscini che aveva di fianco,

prima di stendersi accanto a me.«Ti senti meglio?», chiese, con gli occhi azzurri incollati sui miei, cercando di

guardarmi dentro. Non spostai lo sguardo per nascondere le mie emozionicontrastanti. Lo lasciai entrare.«Non so cosa fare», dissi, infilando le mani sotto il cuscino. «Li voglio vedere. Ma

ho paura di peggiorare le cose. Devo pensarci».«Ok», disse piano. Sapevo che voleva dirmi molte altre cose.«Vuoi dirmi di accettare, vero?», lo stuzzicai. «Che vedere Leyla e Jack è la cosa

giusta da fare, e che li ferirei di più se ignorassi questa lettera e restassi fuoridalle loro vite».Un sorriso spuntò sulle labbra di Evan. «Non dovevo dirtelo, eh?», rise quando

sorrisi a malincuore. «O sei davvero brava a leggermi nel pensiero, o sapevi giàcosa volevi fare».«Okay, adesso puoi smettere di parlare», lo ammonii, cercando come meglio

potevo di dissimulare un sorriso. «Ma davvero non voglio più piangere. È cosìstancante».Evan rise. «Capisco. Ma sono qui se hai bisogno».«Grazie», sorrisi gentilmente. «E se tu avessi mai bisogno di piangere…».

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Evan scoppiò a ridere. Evidentemente il pensiero di me che lo consolavo eracomico.«Cosa?! Tu non piangi mai?», replicai, dandogli una spallata.«Mi hai mai visto piangere?», chiese con un sorriso esagerato.«Una volta», risposi senza riflettere. Il suo sorriso si bloccò e ci guardammo,

persi nei ricordi di quella notte. La notte nel prato sotto le stelle. La notte in cui cieravamo chiesti perdono a vicenda. La notte in cui gli avevo dato tutto.Trattenni il respiro, incapace di distogliere lo sguardo dall’intensità dei suoi

occhi.«Già, una volta», mormorai, continuando a fissarla, rifiutandomi di distogliere lo

sguardo. I miei occhi si spostarono sulle sue labbra e il mio cuore aumentò il ritmo.Aveva gli occhi spalancati e incerti.Stavo per chinarmi su di lei quando chiese: «Vuoi fare qualcosa con me domani?».La sua voce mi colse di sorpresa, e mi tirai indietro, cercando di rallentare il battito del

mio cuore. «Quello che vuoi».«Mi aiuti a scegliere una tavola da surf e una muta?».Non avrei potuto sorridere di più. «Sarebbe fantastico».Continuammo a parlare di sur f finché le sue palpebre non si fecero pesanti, fino a

chiudersi. Chinandomi su di lei, spensi la luce. Stavo per scendere dal letto quando la suamano mi afferrò il braccio. Non disse niente, si limitò e girarsi sul fianco nel sonno e simise il mio braccio sulla pancia – e non lo lasciò. Mi raggomitolai dietro di lei e la tennistretta, respirando il suo odore finché non mi addormentai.

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Rabbrividii e allungai una mano in cerca della coperta, ma non c’era. Aprii gliocchi e mi abituai al buio. Sentivo la pressione del corpo di Evan sulla miaschiena e il suo respiro alle mie spalle. Avevamo le mani intrecciate. Mi liberailentamente le dita e scesi dal letto per andare in bagno e prendere un bicchiered’acqua.Mi diressi con cautela in direzione di dove pensavo fosse il bagno, andando a

tentoni lungo la parete. Alla fine aprii la porta, e me la chiusi alle spalle prima diaccendere la luce.Mentre mi lavavo i denti, mi fermai a riflettere se avrei dovuto dormire sul lato

opposto del grande letto, in modo che non fossimo così vicini.Aveva tentato di baciarmi due volte quella notte, e io glielo avevo quasi lasciato

fare. Ma mi ero spaventata e l’avevo fermato. C’era ancora così tanto dolore tradi noi. Era facile dimenticarsene in quei momenti vulnerabili, quando ciscoprivamo attratti l’uno dall’altra.“E allora come mai è nel tuo letto, Emma?”, mi guardai allo specchio, sospirai e

mi riempii un bicchiere d’acqua prima di tornare in camera.Quando aprii la porta del bagno, Evan scattò all’improvviso: «Emma?». Mi mancò

il respiro a quel movimento brusco.«Evan? Stai bene?». Quando lo vidi, in quella postura così rigida, il cuore prese a

battermi all’impazzata.Lui sembrava confuso. «Em?».«Sono qui», gli dissi, stringendo forte il bicchiere mentre rimanevo sulla porta.

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Aveva avuto un incubo. Era strano vedere quella scena dal di fuori: il panicoseguito dalla confusione e dal respiro pesante. Poi, quando si rese conto didov’era, le sue spalle si rilassarono per il sollievo.«Scusa», disse, e io rimasi immobile, con una mano sull’interruttore della luce.«È tutto a posto», lo rassicurai. «Ti dispiace accendere la luce accanto al letto

così posso spegnere quella del bagno?». La lampada si accese, e notai che la suamano tremava quando la allontanò dall’interruttore.Spensi la luce del bagno e tornai a letto. Lui si spostò stendendosi supino, con

un braccio appoggiato alla fronte. Continuai a guardarlo. Il suo petto si alzava esi abbassava mentre lottava per riprendersi.«Che è successo?», chiesi, sapendo che era una domanda a cui io non avevo mai

risposto.«Tu», sussurrò.Mi scappò di bocca, e appena lo dissi, volevo rimangiarmelo. Voltai la testa verso di lei,

che rimase per fettamente immobile. Adesso avrei dovuto spiegare. «È un po’ diversoogni volta. Ma in qualche modo, te ne vai sempre, ogni notte. E io mi sveglioterrorizzato».Sembrava che le avessi tolto l’aria. «Non farlo, Em. Non darti la colpa anche di questo».«Ma… come faccio?», mormorò. «Ti svegli da un incubo ogni notte per quello che ti ho

fatto. Come posso pensare che non sia colpa mia?».I suoi occhi si abbassarono, pieni di dolore. A ffondò nel letto mentre il senso di colpa si

faceva largo in lei. Avrei voluto avere la forza di eliminarlo.

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«Hai indossato il senso di colpa come una maschera di ferro, ben salda, perché seiconvinta che tutto ciò che succede agli altri sia colpa tua. Ti mar tirizzi per cose di cui nonsei responsabile. E finisci per fare del male alle persone a cui tieni perché le allontani,pensando di proteggerle». Emma rimase in silenzio. «Non puoi continuare a por tar tiaddosso questa colpa. Non puoi allontanare tutti. Questa non è vita, Emma».«Lo so», sussurrò, asciugandosi le lacrime.«Vivere rimuginando sugli errori del passato non farà altro che distruggere il tuo

futuro».La verità delle sue parole mi scosse, e mi ci aggrappai a pugni stretti, lasciando

che le lacrime bagnassero il cuscino.Pensavo di aver nascosto bene l’oscurità, eppure lui era riuscito a vedere

attraverso quella facciata – i miei sorrisi forzati e le risposte evasive. Miconosceva.Avrei voluto che non fosse così.Mi concentrai sui suoi occhi. «Mi dispiace, Evan. Mi dispiace tanto di averti

lasciato sul pavimento di quella casa. Di non averti detto nulla quando sonoandata in California. È stata la scelta peggiore che abbia mai fatto».«Non mi hai dato la possibilità di scegliere».Aggrottai leggermente la fronte, non capivo.«Non mi hai mai dato scelta, Emma. Penso che sia per questo che è così difficile

perdonarti. Hai scelto tu per me. Proprio come ha fatto mio padre per la maggiorparte della mia vita – finché non sono stato finalmente in grado di resistergli. Ma

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con te è stato diverso. Per te avrei fatto qualsiasi cosa».Il peso che sentivo sul petto si fece più gravoso man mano che parlava, finché

non sentii che mi avrebbe infranto le ossa. Essere paragonata a suo padre mifaceva desiderare di sparire nel materasso.Non gli avevo mai permesso di decidere se ero degna di essere amata. Glielo

avevo impedito – perché temevo quale sarebbe potuta essere la sua decisione.«Allora devi avercela con me, Evan», lo supplicai alla fine. «Ti prego. Urla.

Arrabbiati. Fa’ qualcosa. Smettila di accettare tutti i miei sbagli. Smetti di esserecosì comprensivo. Se ogni tanto ti fossi incazzato, e non ti fossi limitato aevitarmi o ad andartene, allora mi sarei sentita in dovere di darti unaspiegazione. Pensavo di fare la cosa giusta, proteggendoti, per quanto ora sembriassurdo. Ho una vita talmente incasinata; non volevo che tu conoscessi… nonvolevo che tu vedessi quella parte di me».«Quale parte?»«La par te che odio», disse, con voce stanca. Aveva raggiunto il limite, e si girò sul

fianco, incapace di continuare a guardarmi. Ero senza parole; la sua onestà e la suavulnerabilità mi premevano sul petto come un mar tello pneumatico. Colpito da un’ondatadi stupore e stanchezza in egual misura, spensi la lampada.Mi spostai più vicino a lei e le dissi piano: «Mi arrabbierò con te, promesso. Ma non

stanotte. Sono troppo stanco». Lei lasciò andare una risatina commossa. «Ora però tiabbraccio, perché ne hai bisogno, e anche io. Ok?»«Lasci che sia io a scegliere?», chiese, con una punta di sarcasmo che erompeva dalle

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lacrime.Risi. «Sì, Emma, lascio che sia tu a scegliere».«Ok», rispose, avvicinandosi un po’ fino a toccarmi. La avvolsi tra le braccia, e lei passò

le dita tra le mie. Premetti il viso nei suoi capelli. Mi sussurrò: «Non ti toglierò mai più lapossibilità di scegliere. Promesso».

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L

31Tregua

e tende avorio alle porte a vetri facevano ben poco per nascondere la luceintensa del mattino. Mi girai e mi misi il cuscino sulla testa: non ero ancora

pronta a svegliarmi.«Ehi, Em», mi chiamò Evan. Borbottai sotto il cuscino. «È bello vedere che odi

ancora le mattine. Vuoi fare colazione?».Sollevai il cuscino, e stavo per dirgli che avrei potuto prepararmela da sola,

quando le parole mi mancarono completamente. Evan era sulla porta mezzaaperta, madido di sudore, con addosso solo un paio di pantaloncini da corsa. Misforzai di tenere gli occhi incollati al soffitto invece che sul suo corpo scolpito. Cheaveva fatto in quei due anni?Il cuore mi batteva così forte che sentii arrossire tutto il corpo.

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«Emma?»«Io, ehm… come vuoi», dissi senza guardarlo.«C’è qualcosa che non va?»«Evan, mettiti una maglietta», sbottai, con le guance in fiamme.Lui sorrise. «Davvero?»«Piantala», mi misi il cuscino sulla testa.«Mi ascolteresti se ti chiedessi di coprirti le gambe?», chiese, cogliendomi di

sorpresa.«Cosa?», replicai, mettendomi a sedere. Sentivo di avere i capelli tutti

attorcigliati sulla testa e schiacciati dietro le orecchie.Lui sorrise e si allontanò. Io borbottai e spinsi via le coperte, barcollando verso il

bagno.Quando Emma finalmente uscì dalla stanza, il cucchiaio mancò completamente il

bersaglio, e mi rovesciai il latte sul mento.«Che diamine?», esclamai. «Quelli li definirei a stento biancheria intima». Emma girava

per la stanza con il paio di jeans più cor ti che avessi mai visto. Le sue gambe abbronzate,definite da linee di muscoli sottili, si incrociarono di fronte a me mentre sedevo suldivano.«Che intendi?», disse, facendo la finta tonta. «Sono shorts, è estate».«Li hai tagliati tu? Perché lo so che non compreresti mai un paio di shor ts così cor ti.

Davvero sono… succinti». Appena lo dissi, lei li tirò giù leggermente, con le guance chearrossivano. Sorrisi, sperando che si cambiasse.

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Gli lanciai un’occhiataccia. Era seduto sul divano, con i capelli bagnati dalladoccia. E ancora senza maglietta. Lo stava facendo per provocarmi. Così avevodeciso di stare al gioco, solo che ora ero preoccupata di aver tagliato i jeanstroppo corti. Sentivo il tessuto salire. Volevo tirarlo giù, ma sapevo che lui nonaspettava altro. Così andai fuori.«Emma!», urlò Evan, praticamente saltando giù dal divano. «Ok. Metterò una

maglietta. Adesso ti prego entra in casa e mettiti un paio di shorts che copranoquello che gli shorts dovrebbero coprire.Sorrisi orgogliosa e gli passai accanto mentre si infilava la T-shirt. «Tregua?»«Tregua», mormorò, abbassando la maglietta sugli addominali scolpiti. «Vuoi

ancora andare al negozio da surf?»«Sì», urlai, chiudendomi la porta della camera da letto alle spalle.Quando uscii di casa, fui sorpresa di trovare un furgone rosso e squadrato, con

una capote di tela nera. Voltai lo sguardo verso Evan, incuriosita.«Di chi è?», chiesi, mentre mi avvicinavo e prendevo posto sul sedile del

passeggero. Una zaffata di pelle consumata riempì l’abitacolo. Esaminai lacarrozzeria rossa metallizzata e gli interni in pelle nera, con i piccoli strumentitondi e sedili anatomici.«Mio», rispose Evan, chiudendo lo sportello dal mio lato.«Da dove viene?», chiesi quando entrò dall’altra parte. Nonostante l’evidente

età del veicolo, era in ottime condizioni e sembrava appena riverniciato.«L’hanno consegnato stamattina dalla rimessa», spiegò Evan, avviando il

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motore. «Dovevano convertirlo in biodiesel, quindi ho dovuto aspettare un po’».Fece per uscire dal vialetto. «Evan, fermati», gli chiesi. Lui si fermò e mise in

folle. «Spiega. Adesso. Tutto».«Spiegare cosa? Il biodiesel?», disse con un sorrisetto maligno.«Evan!», lo rimproverai. Il sorriso svanì dal suo volto.I suoi occhi gli tremolavano mentre pensava. «Parla», insistei.«Avevo bisogno di una macchina perché mi sono trasferito a Stanford, e

comincio le lezioni il prossimo trimestre. E sono andato a San Francisco all’iniziodella settimana per incontrare mia madre perché voleva vedere il posto che hoscelto prima di prenderlo in affitto».Sbattei le palpebre. Non potevo fare altro. Il resto di me era paralizzato. Alla

fine chiesi: «Perché Stanford?»«Era la mia prima scelta», risposi. Proseguì fuori dal vialetto, lasciandomi a

fissarlo dal sedile del passeggero.«Ok», sospirai. «Ok. Era la tua prima scelta, Ok».Mi aspettavo che si mettesse a urlare, o almeno desse qualche segno di fastidio. Invece

se ne stava lì seduta a ripetere “Ok”, come se le riuscisse difficile accettarlo.«Quale corso?», chiese Emma dopo cinque minuti che guidavo.«Ho un doppio corso in economia e pedagogia», le dissi. «Non ho ancora deciso».«Oh», annuì, pensierosa. «Pedagogia, eh? Il fidanzato di Serena fa pedagogia. Penso che

venga domani. Puoi parlare con lui».Rilassai le spalle. Un piccolo sorriso si allargò sul mio volto mentre entravamo in città.

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Cercai di restare calma. Non sapevo se ci stavo riuscendo, ma forse faredomande mi avrebbe impedito di impazzire.«Quindi hai preso un posto fuori dal campus?»«Sì», rispose. «Un monolocale. È piccolo, ma non avrò coinquilini. È di un

ragazzo che ha trasformato lo spazio sopra il suo garage per affittarlo».«Carino», risposi, con un cenno noncurante che speravo nascondesse i miei

pensieri turbolenti. Aveva giurato di non essere tornato per riavermi. E sapevoche la scadenza per i trasferimenti era mesi fa, quindi questa doveva essere unacosa che aveva programmato molto prima di rivedermi.Fu allora che tutti i pezzi tornarono al loro posto. Stanford era la sua prima

scelta, e quando me n’ero andata avevo incasinato tutto. Quando avevo dato aVivian quella lettera… E questa era un’altra delle decisioni che gli avevo impeditodi prendere.«Penso che ti piacerà», sorrisi piano, asciugandomi i palmi bagnati sugli shorts

militari.«Penso anch’io».Parcheggiammo fuori dal negozio da surf. «Pronta?».Lei rise. «Sei su di giri?»«Non sai quanto», sorrisi come uno scemo, saltando giù dal furgone.Feci il giro per andare da lei, ma aveva già aper to lo spor tello. Quando uscì, vidi che

aveva i piedi fasciati.«Niente calzini oggi», notai.

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«Stanno migliorando», spiegò. «Non sono più così sensibili, così ho pensato che lebende potessero bastare».Le tenni aperta la porta del negozio, e ci dirigemmo al bancone.Il viso di Evan era raggiante mentre passavamo in rassegna le rastrelliere con le

tavole da surf. Sorrisi per il suo entusiasmo.Sulle prime, scegliere tra tutti quegli articoli sembrava impossibile, ma quando

scovai il modello di una tavola fatta da un artista locale decisi che dovevo averla.Con grande disappunto di Evan, l’unica tavola di quel tipo era nel negozio diCardiff. Dovevamo aspettare un paio di giorni perché arrivasse.Dopo aver trovato una muta che mi andava e aver scelto un paio di rash guard,

Evan e il ragazzo dietro il bancone stavano ancora parlando di surf, quindi decisidi andare a vedere tra i costumi da bagno, cercandone uno più adatto a fare surf.Ne scelsi un paio che mi sembrava non sarebbero scomparsi se – quando – fossi

caduta, e poi mi trovai davanti ai costumi tipo filo interdentale. Ne presi uno rosashocking, cercando di capire che cosa dovessero coprire quei cordoncini.«Non fai sul serio», disse Evan dietro di me. Sorrisi prima di girarmi verso di lui.Feci finta di provarmelo. «Che ne dici?»«Non puoi mettertelo per fare surf», disse Evan scuotendo la testa.«Certo che no», risi. «È per le feste in piscina».Spalancò la bocca. «No, Emma. Non è proprio una buona idea».Sorrisi ancora di più, continuando a prenderlo in giro. «Penso che me lo proverò.

Vuoi che faccia da modella?»

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«No», rispose, con il collo che diventava rosso. «Non devi fare da modella perme o per nessun altro. In realtà, se volessi lasciarlo lì appeso, andrebbe bene lostesso».Risi di nuovo e me ne andai, cercando i camerini con il costume ancora in mano.Chiusi la tenda e appesi i costumi, cercando quelli che mi piacevano davvero e

facendo una selezione. Poi scelsi quello che era a un passo dal nudismo. Vederela sua reazione al pensiero di me che lo indossavo era più che divertente.Appesi i costumi che non volevo – compreso quello rosa shocking – e andai a

pagare. «Poi ho la tavola, i rash guard e una muta», ricordai al ragazzo.Mi guardai attorno. Evan era all’altro lato del negozio, a provarsi degli occhiali

da sole.«La tavola è già pagata», mi informò il ragazzo. «Siamo chiusi di domenica,

quindi potrai ritirarla lunedì mattina. Apriamo alle sette».«Oh… grazie», risposi.Quando finii alla cassa, presi le mie buste e mi diressi alla porta.«Evan…», mi rimproverò Emma mentre uscivamo. «Perché l’hai fatto?»«Perché mi andava», risposi. «Diciamo solo che è per festeggiare il fatto che fai sur f».

Non le dissi che era un regalo per il giorno che non aveva mai festeggiato. Sarebbearrivato due giorni in anticipo, così ufficialmente, glielo stavo dando prima del suocompleanno.Quando tornammo a casa, lei appese la muta nell’armadio all’ingresso prima di andare in

camera da letto. Io la seguii, bussando alla por ta per attirare la sua attenzione. «Vuoi

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venire con me a cena da Nate quando arrivano Sara e Jared?». Stava ripiegando uncostume nero. «Be’? Non hai comprato quello rosa?».Sul suo viso si allargò un sorrisetto beffardo. «Ti piacerebbe. Però avrei tanto voluto

farti una foto quando te l’ho fatto vedere». Lei rise, e… non si fermò.L’avrei lasciata ridere di me tutto il giorno solo per sentire quel suono.«A proposito», disse Emma quando alla fine si fermò. «Hai qui la macchina

fotografica?».Esitai – ancora non sapevo se sarei stato pronto a riprenderla in mano. «Da qualche

parte».«Be’, se decidi che ce l’hai, i tramonti qui sono meravigliosi. Stavo pensando di

dipingere questo pomeriggio, sperando di catturare i colori quando il sole comincia acalare».Sollevai gli angoli della bocca. «Sarebbe una cosa da fotografare».«Il tramonto?»«No», risposi, aspettando la sua reazione, mentre esitavo per un secondo. «Tu che

dipingi». Un leggerissimo alone rosso le coprì le guance. Non ne avevo mai abbastanza,nemmeno di quello.Se ne andò, lasciandomi a fissarlo con le guance rosse.Evan salì le scale mentre io prendevo uno sgabello dal bancone del bar e lo

trascinavo fuori in terrazza, e sistemavo il cavalletto. Mi misi a sedere sullosgabello respirando l’aria salmastra. Era una giornata perfetta.E quando Evan uscì con la macchina fotografica, armeggiando con gli obiettivi,

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ero convinta che non potesse andare meglio. Scese a passeggiare sulla spiaggiacon la macchina fotografica mentre io visualizzavo la scena che volevo creare ecominciavo a spargere una base di colore sulla tela.Completamente concentrata su quello che stavo facendo, non mi accorsi che

Evan era tornato. In realtà non notai praticamente nulla finché non sentiichiudersi la porta di casa, e mi girai sullo sgabello.«Ciao?», chiamò Sara dalla casa. «Emma?».«Siamo qui», rispose Evan, steso sull’amaca, a leggere il libro che avevo lasciato

sul tavolo. Il mio cuore mancò un battito quando notai la foglia di quercia sul suopetto. Mi morsi un labbro, abbandonandomi a un breve sorriso. Quando sollevaigli occhi dalla foglia, lui mi stava osservando con uno sguardo d’intesa.C’era sempre stato un legame tra noi, fin dal primo giorno che lo avevo visto –

un delicato filo di energia che ci teneva uniti. Eppure c’era qualcosa di diverso.Con ogni scarica di sincerità, lo lasciavo entrare più in profondità, mostrandogli laparte più vulnerabile di me. Sentivo che si stava avvicinando con ogni tocco, conogni sguardo e con ogni sottile sorriso.La zanzariera si aprì e scivolai giù dallo sgabello, voltandomi velocemente per

guardare Sara. Lei uscì in terrazza, raggiante in un vestito estivo a fiori verdi egialli, con un sorriso vivido sul volto. Si sarebbe detto che fosse tornata da unavacanza, non da un funerale – e poi vidi che la sua mano stringeva quella diJared.Sara lo lasciò per abbracciarmi, ma ci ripensò quando vide che avevo le mani

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sporche di pittura e mi diede invece un rapido bacio sulle guance. «Ciao! Sonocosì felice di essere tornata. Questa casa è perfetta, Em! Non posso credere cheresteremo qui per un mese. Manca solo una piscina».«È sul tetto», disse Evan prima che potessi rispondere. «Davvero?», urlò Sara,

eccitata.«No», rise Evan, prendendola in giro.Sara gli lanciò un’occhiataccia. «Sei un coglione, Evan». Questo fece ridere

Jared. Sara si avvicinò allo sgabello per guardare il mio quadro. «Wow. Èpotente».«Non è ancora finito», dissi subito, agitandomi mentre i suoi occhi osservavano il

caos apparente di quelle vorticose pennellate.«Ma mi piace», disse lei con un sorriso.«Lo so che siete appena arrivati, ma noi andiamo da Nate. Sua madre ci ha

invitati a cena, se volete unirvi a noi», annunciò Evan.«Ci ha invitati?», chiesi. Lui strinse i denti in segno di scuse, accorgendosi che

non ne avevamo mai davvero parlato.«Andiamo», disse Sara allegramente. «Forza, Em. Ti scelgo qualcosa da mettere

mentre tu ti ripulisci… tutta».Abbassai lo sguardo e mi accorsi che la pittura macchiava ogni punto della mia

pelle tra le spalle e le ginocchia. Evan rise alla mia reazione sorpresa. «Seiprobabilmente la pittrice più concentrata che abbia mai visto. Ripulisco le tuecose così puoi prepararti».

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«Grazie», dissi, e seguii Sara in casa, cercando di non toccare niente.«Ohmiodio!», esclamò, dopo essere entrata nella mia camera da letto. «Potrei

vivere in questa stanza per sempre».«Carina, eh?», concordai, aprendo la porta del bagno con un colpo di anca.

«Parlami del New Hampshire», le urlai mentre mi toglievo i vestiti per farmi ladoccia.«Ne parliamo quando esci», urlò da qualche parte dentro l’armadio. «Hai

bisogno di vestiti!».«No, tu hai bisogno che io abbia bisogno di vestiti!».Quando tornai nella stanza da letto, avvolta in un asciugamano con la pelle

arrossata per aver strofinato via la pittura, trovai Sara seduta in poltrona con legambe incrociate, a scrivere messaggi. Mise giù il telefono quando mi vide. Ioosservai gli shorts di lino bianchi e la canotta azzurra che aveva sistemato sulletto, abbinati a un paio di zeppe.«Vorrei tanto che facessi shopping con me».«Sara, ti prego», la supplicai. Non volevo fare quel discorso.«Non mi arrendo con te, Em», inarcò le sopracciglia mentre increspava

leggermente le labbra lucide.«È bello riaverti qui, Sara», dissi, mettendomi i vestiti che aveva scelto per me.

«Adesso parla».Sara si sedette sul bordo del letto, guardandomi con gli occhi che brillavano. «È

venuto al funerale». Aveva un sorriso scintillante.

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«Lo so», dissi impaziente, «ma che è successo? Che ti ha detto?»«Non abbiamo davvero parlato fino a ieri, perché mio padre l’ha praticamente

buttato fuori dalla chiesa quando l’ha visto. Quindi di base mi ha perseguitata conun milione di messaggi, supplicandomi di parlargli finché finalmente non hoaccettato di incontrarlo in una libreria. Penso che mi abbia voluta incontrare lìcosì non avrei potuto urlargli contro. Comunque, mi ha detto di suo padre, chemette sempre gli affari prima di tutto. Lo sapevo già. Voglio dire, guarda cosa hafatto a te». Cambiai espressione. «Scusa, era una cosa brutta da dire…».«Vai avanti», la incoraggiai, non volendo dilungarmi sul fatto di non piacere a

Stuart Mathews.«Usciva con questa ragazza, cosa che mi ha fatto venire la nausea. Ma poi

avresti dovuto vedere la sua faccia quando gli ho detto di Jean-Luc. Quindiimmagino che siamo stati tutti e due piuttosto stupidi. Suo padre continuava ainsinuare che Jared e quella ragazza avrebbero avuto un grande futuro insieme.Jared continuava a fregarsene. Ma era quello che voleva Stuart, e anche quellastronza nella foto. Avrei dovuto immaginare che era una subdola troietta quandoho visto che era amica di Catherine Jacobs, che è la più zoccola di tutte».Sara si accorse che ero diventata bianca.«Non sono stati insieme, Emma», mi rassicurò subito Sara. «Ok?». Annuii, con la

pelle che ancora mi si accapponava all’immagine di loro due in qualsiasi tipo diintimità.«Lei voleva sistemarsi, e Stuart era d’accordo, e ha fatto un accordo molto

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carino con suo padre, già che c’era. Alla festa lei ha pensato bene di metterel’anello della nonna alla mano sinistra, e Stuart ha organizzato tutto con ilgiornalista. La notizia del “fidanzamento” è trapelata vedendo l’anello, e Vivian ciha messo una settimana per smentire tutto – ma quando ormai era sui giornali,grazie all’influenza di Stuart. È proprio uno stronzo». Sara serrò i denti per ildisgusto.«Sono così contenta che Vivian lo abbia costretto a mollare la presa. E poi,

Emma, era così arrabbiata per quello che ti ha fatto. Mia madre mi ha detto chelei e Vivian sono state a pranzo insieme la scorsa estate, e sono finite a parlare dite. Vivian si è sempre chiesta se ha fatto la cosa giusta a tenere Evan vicino acasa, e lontano da te. Ma ha sempre accusato Stuart di essere colpevole della tuapartenza».Lottai per mantenere un’espressione neutra mentre parlava, ma il mio respiro

era irregolare. «E adesso?»«Be’… stiamo insieme. Ed è fantastico!». Sara praticamente rimbalzò sul letto.

«Em, sono stata così paranoica a pensare che non saremmo stati in grado disopportare le distanze. Voglio dire… è lui. È l’unico ragazzo che mi fa sentirecome se potessi fare qualsiasi cosa, e che sono la persona più importante delmondo. Non mi sono mai innamorata prima di incontrare lui. E non ho mai amatopiù nessuno dopo di lui».Emanava felicità, ed era bellissimo.«È la storia più bella che abbia mai raccontato». Saltò su dal letto e mi

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abbracciò, prendendomi di sorpresa. Ricambiai l’abbraccio, stringendola forteanch’io.«Adesso, dimmi di te», insisté Sara, cercando di essere seria, anche se la gioia

la permeava come luce. «Che è successo con Cole? Che ha detto?»«Niente», scrollai le spalle. «Ha lasciato un biglietto». Mi voltai e andai verso il

bagno. «Devo asciugarmi i capelli. Penso che i ragazzi ci stiano aspettando».«Emma», mi rimproverò Sara, seguendomi in bagno. «Ti asciugo io i capelli. Tu

parla».Sospirai, sedendomi al tavolino da toeletta mentre Sara prendeva la spazzola

tonda e il phon. «Non c’è molto da dire. Erano solo due frasi. Sai che gli avevochiesto di andarsene prima di ferirlo, ed è quello che ha fatto. Non ha voluto chelo ferissi».«Merda», rispose. «Lo sapeva, Em. Appena Evan è sceso da quell’aeroplano Cole

ha capito che era finita».«Evan?», chiesi, sorpresa. «Sono io il motivo per cui se n’è andato».«Come dici tu», rispose, eludendo la questione. «Non hai sempre un’idea chiara

delle cose, Em. In ogni caso, lui se n’è andato, e tu come stai?».Distolsi lo sguardo. «Bene».«Cosa?», chiese. «Sei arrabbiata perché se n’è andato?»«Detesto come è andata a finire», ammisi. «Era un bravo ragazzo. Davvero».«Lo so», ammise Sara. «Mi piaceva».Annuii. «Sapevo che sarebbe successo. Sapevo che sarebbe finita, prima o poi.

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Solo non volevo che diventasse… complicato».«Sì, certo», sbuffò Sara. «Se non vuoi le cose complicate, allora stai lontana dai

ragazzi».Feci una smorfia al suo consiglio.«E adesso, con Evan?», continuò. «Come sta andando? È stato strano stare da

sola con lui la scorsa notte?».Scossi la testa, cercando di impedire alla mia temperatura corporea di salire. Ma

il calore mi arrivò comunque alle guance.Sara spense il phon. «Che è successo?». Sollevai lo sguardo, con lei che mi

fissava a occhi spalancati. «Hai fatto sesso con lui?»«Cosa?! Ohmiodio, no!», risposi subito, con l’intero viso ormai paonazzo.

«Abbiamo parlato, ecco tutto. E… be’…».«Emma», disse Sara nel suo tono familiare da maestrina. «Che avete fatto?»«È stato con me, qui, la scorsa notte», spiegai a bassa voce. «Abbiamo parlato

finché non ci siamo addormentati».«E non avete dormito proprio ai lati opposti di quell’enorme letto, vero?». Capì la

risposta quando incrociò il mio sguardo. «Che cosa sta succedendo tra voi due?»«Ancora non lo so», risposi, sinceramente. «Stiamo davvero solo parlando. Ed è

un bene, immagino. Siamo sinceri, comunque. E io piango davvero troppo. È unpo’ patetico».«Non è affatto patetico», mi confortò Sara. «Probabilmente non hai pianto

abbastanza nella tua vita, e adesso stai recuperando».

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«Grandioso …», brontolai.«Siete pronte?», urlò Evan nella stanza.«Arriviamo subito», rispose Sara, riaccendendo il phon per finirmi la piega.

«Questa conversazione non è finita». Mi lanciò un’occhiata severa, e io annuiidocilmente.Sara uscì dalla stanza da letto prima di Emma con un sorriso che non sarebbe scomparso

facilmente. Lanciai un’occhiata a Jared, che la fissava con l’espressione di chi avevaappena presto una mar tellata in testa. La loro riconciliazione rendeva le cose un po’imbarazzanti tra noi, specialmente per il fatto che Emma e io non ci toccavamoneanche… a parte quando andavamo a dormire.«Dobbiamo parlare», disse Sara tra i denti, ancora sorridendo.«Che ho fatto adesso?», chiesi. Lei guardò dietro di me, e io vidi Emma con le gambe

curve mentre usava la parete come sostegno per infilarsi un paio di zeppe – con i piediancora pieni di cerotti. Gli shor ts bianchi erano abbastanza cor ti da mostrare le gambe eda togliermi il respiro. Capii che la stavo fissando quando diventò rossa, e mi sorriseimbarazzata.«Uh, pronta?», chiesi, notando che Jared e Sara erano già alla por ta. Allungai la mano

per prendere la sua, ma poi ci ripensai e la passai invece sui miei pantaloni color kaki,sperando che lei non l’avesse notato. Forse invitarla non era stata una grande idea.Sembrava un appuntamento, e nonostante il legame che sentivamo, non eravamo prontiper una cosa del genere. Mi diressi verso la por ta mentre lei prendeva un maglionedall’armadio.

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«Stai bene», disse, girandomi attorno. «Mi piace quella camicia».«Grazie», risposi, preso completamente alla sprovvista. «Tu sei… meravigliosa».Lei sorrise timidamente e disse: «Grazie», mentre usciva con me.«Bello Scouti», ammirò Jared, salendo dietro il sedile del guidatore. «Di che anno è?»«’69», risposi, aspettando che Emma salisse in modo da chiuderle la por tiera. Notai gli

occhi di Sara socchiudersi leggermente, come se stesse cercando di capire che cosa stavasuccedendo, come aveva fatto Emma prima. Decisi di lasciare che fosse Emma a dirle delmio tras ferimento, non sapendo quale sarebbe stata la sua reazione. Sara voleva cheEmma fosse felice, ma sapevo che era ancora preoccupata per lei. Non capivo se eraancora preoccupata per i miei obiettivi, o solo per la turbolenza emotiva che avevasconvolto la vita di Emma quell’estate. In ogni caso, sapevo di farne parte.Se avessi dato ascolto ai consigli di Nate riguardo i suoi diabolici cuginetti, non avrei

mai por tato Sara ed Emma. Non so come, ma in qualche modo sopravvivemmo alla cenasenza che nessuno venisse infilzato negli occhi o spinto a faccia in giù in piscina, anche sedallo sguardo minaccioso di Jared sapevo che ci stava pensando. Fuggimmo appena ce nefu la possibilità, con la scusa di un film. Nate e i ragazzi sparirono a una festa per salvarsi.«Penso di avere della salsa barbecue sulla schiena», disse Emma mentre tornavamo a

casa. Stava cercando di togliersela dalla scapola, ma non ci arrivava. «Non credevo chequalcuno potesse essere così fastidioso».«Ragazzi, non voglio avere bambini», dichiarò Jared. Io lanciai un’occhiata nello

specchietto retrovisore e vidi che Sara lo fissava. Lui aggiunse immediatamente. «Comequelli. Quei due erano figli dei gremlins, giuro».

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Allungai la mano e passai le dita sulla striscia marrone sulla schiena di Emma.«Grazie», disse, voltando la testa per guardare fuori dal finestrino aperto.«A che ora arrivano Serena e Meg domani?», chiese Sara. Emma si voltò verso di lei, e

io sorrisi al rossore che il mio tocco aveva scatenato.«Arrivano stasera tardi. Quindi non le vedremo fino a domattina. Dovrebbe venire anche

James», le disse Emma. Poi sembrò allarmata quando notò la mia espressione. «Chec’è?».Scrollai le spalle, con fare innocente, ma non potei fare a meno di sorridere mentre

entravamo nel vialetto. Questo la fece diventare ancora più rossa. Mi lasciai scappare unarisatina.«Dimmi», chiese, «quel moccioso mi ha scritto le sue iniziali sulla schiena o qualcosa del

genere?»«No», scossi la testa.«Ma cercava di guardar ti sotto gli shor ts ogni volta che faceva cadere per finta la

forchetta sotto il tavolo», rivelò Jared.Lei guardò Sara in cerca di conferma. «Davvero?»«Ci ha provato», affermò Sara, «finché non gli ho infilzato la mano con un tacco. Penso

di averlo sfregiato a vita».«Ben fatto», disse Jared, orgoglioso. La tirò a sé e la baciò sulla fronte. Distolsi lo

sguardo dallo specchietto. Il loro status di coppia era decisamente sgradevole daosservare.«Sara, sei crudele», accusò Emma, scherzando.

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«Sì, è vero», gongolò Sara, facendo ridere Jared.Quando entrammo in casa, Sara annunciò: «Andiamo a letto», praticamente

trascinandosi dietro Jared su per le scale.Emma e io ci scambiammo uno sguardo, ben sapendo che non sarebbero andati a

dormire. E tanto per renderlo più chiaro, Sara si sporse sulla ringhiera in cima alle scale edisse: «Vi conviene mettere della musica, o accendere la televisione, e alzare il volume».Spalancai gli occhi mentre Jared rideva, seguendola.«Wow», dissi, «è stato…».«Imbarazzante», concluse Evan per me. «Uh, parecchio…».«Vuoi andare a fare una passeggiata?», suggerii. Guardammo entrambi la

fasciatura ai piedi.«E se invece accendo un fuoco in veranda?», suggerì Evan.Guardai l’orologio – era più tardi di quanto pensassi. E a dire il vero, non volevo

parlare, e sapevo che sarebbe successo se ci fossimo seduti in veranda.«Sai cosa, penso che andrò a letto», dichiarai. «Leggerò fino ad

addormentarmi».«Oh», rispose Evan, deluso. «Ok. Be’…».La risata esuberante di Sara arrivò da sopra le scale. Evan guardò il secondo

piano, terrorizzato.«Puoi stare in camera mia… se vuoi», proposi.«Sei sicura?», chiese cautamente. «Non voglio che ti senta come se fossimo…».«Lo so», risposi. Sapevo bene cosa non eravamo, e non avevo bisogno di

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sentirlo da lui.«Arrivo subito», mi disse. «Devo prendere la valigia».Evan corse su per le scale − probabilmente non voleva essere nelle loro

vicinanze più dello stretto indispensabile. Andai in camera a preparare il letto.Evan bussò leggermente alla porta del bagno mentre mi lavavo i denti. «Micambio qui fuori, dammi un minuto prima di uscire».«Ok», risposi, con la voce camuffata dal dentifricio in bocca. E ovviamente,

l’unica cosa a cui potevo pensare era Evan che si cambiava.Mi sciacquai la bocca e mi lavai il viso, asciugandolo proprio mentre lui bussava

di nuovo.«Puoi uscire», disse. Evan aprì la porta, con addosso un paio di boxer e una T-

shirt consumata che lasciava ben poco all’immaginazione su quello che eranascosto sotto. Feci un sospiro esasperato passandogli accanto.«Che c’è?», chiese Evan, ovviamente leggendomi nel pensiero.Andai a letto senza rispondere e accesi la lampada sul comodino. Sentivo l’acqua

che scorreva mentre Evan si lavava i denti. Osservando la sua valigia sullapoltrona, mi chiesi quante notti avesse programmato di passare in questa stanza.Aprii il libro quando Evan uscì dal bagno, e sistemai la foglia di quercia sul

cuscino accanto a me. Lui si infilò sotto le coperte al lato opposto del letto.«Fino al punto in cui sono arrivato è un buon libro», notò. «Lo stavo leggendo

prima».«Vuoi leggere con me?», proposi, senza pensarci.

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«Lo hai mai fatto prima», chiese, «leggere un libro assieme a qualcun altro?»«No. E tu?»«No», rise leggermente.«Vieni qui», mi invitò, sollevando gentilmente la foglia e spostandosi verso il

cuscino centrale. Lo guardai sospettoso. «Non preoccuparti. Vieni qui».Mi spostai, e lui spalancò le braccia e sfiorandomi la spalla. «Stenditi qui, lo

tengo io».Esitai, riflettendo.«Emma, stenditi qui».Sospirai e appoggiai la testa sul suo petto, adattandomi perfettamente alla

curva della sua spalla. Lui mi passò la foglia, prendendo il libro. Sentivo il suocuore battere sotto il mio orecchio. Non sapevo dove mettere il braccio, così loappoggiai sul suo petto, ascoltando il suo cuore aumentare di ritmo al mio tocco,e sapendo che il mio stava facendo lo stesso. Feci un lento respiro e provai aconcentrarmi sulle parole mentre lui reggeva il libro sopra le nostre teste.«Sono indietro di un paio di pagine», mi disse. «Ti dispiace se mi metto in pari?

Farò presto».«Fai pure», dissi, stringendo lo stelo della foglia che avevo ancora in mano, e

accarezzandogli gentilmente il petto.Rimasi stesa in silenzio mentre leggeva. Sentivo il calore del suo corpo sulla

pelle. Sentivo il battito accelerato del suo cuore. Mi stava stringendo a sé, ed erasempre più difficile resistere. Stavo per spostarmi, quando Evan disse: «Mi

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mancherà quella casa». Il suo sguardo era concentrato sulla foglia con cui stavogiocando nervosamente.Si appoggiò il libro aperto sulla pancia e mi accarezzò il braccio. Io mi sollevai

sul gomito per poterlo guardare, più vicina di quanto avrei dovuto.«Che intendi?»«Mia madre vuole venderla», mi disse, con voce pesante e calma.«Non può farlo», dissi appassionatamente, con il cuore che si disperava al

pensiero che appartenesse a qualcun altro.«Ci sto lavorando», mi rassicurò con un sospiro depresso. «Ma le cose non vanno

bene».Abbassai la testa sul suo petto, riflettendo.«Amo quell’albero», dissi a mezza voce, «e l’altalena». Fissai la foglia per non

far emergere l’emozione.«Anch’io», mormorò piano. «E il granaio. Era un posto fantastico in cui

scappare».«Già». Girai la foglia sul suo petto. «Se quei muri potessero parlare, eh?».Evan rise. «Li ascolterei». Sorrisi con affetto al pensiero di cosa avrebbero

potuto dire.«Quei boschi mi terrorizzavano, però», ricordai. «O forse era perché guidavi tu».«Ehi», protestò, difendendosi. «Pensavo di essere bravo sulla moto. Non ti fidavi

di me?»«Solo quando avevo gli occhi chiusi», scherzai.

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«Adoro quella cucina», sottolineò Evan. «L’avevo sistemata esattamente comevolevo».«La cucina, sul serio?», risi. «Certo che ami la cucina».«Se mi ricordo bene, anche tu amavi quella cucina».«Più il cibo che la cucina», lo corressi. Feci una pausa, immaginando di

camminare tra i corridoi di quella casa, inspirandone l’odore di legno e lucido.«Non hai mai suonato il pianoforte per me».«No», disse rapidamente. «È una cosa che non è successa e non succederà mai.

I miei genitori mi hanno costretto a fare delle lezioni, ma queste ditadecisamente non sono adatte a suonare il piano». Stese le dita di fronte a sé, eio sorrisi, appoggiandomi di nuovo alla sua spalla per guardarle.«Già, hai ragione; non meritano un pianoforte», scherzai.«Avrei voluto nuotare in quella piscina almeno una volta».«Io continuo a credere che non ci fosse nessuna piscina. Penso fosse solo un

buco, altrimenti perché non è mai stato coperto?»«Immagino che non lo scopriremo mai», sospirò, con voce pesante. «Non riesco

a credere che voglia davvero venderla. Ho vissuto i migliori momenti della miavita in quella casa».«Anch’io», sussurrai, persa nel ricordo di tutti i momenti epocali che avevo

vissuto protetta dai confini di quella casa. Evan rimase in silenzio. Capiiimprovvisamente cosa stavamo davvero dicendo.«Hai finito?», chiesi, schiarendomi la gola.

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Evan riprese il libro. «Già».Cominciammo a leggere. Facevo un cenno quando avevo finito la pagina, visto

che ero la più lenta a leggere – o forse lui non stava davvero leggendo.A un certo punto girò pagina, e io sentii il suo respiro sulla guancia. Non riuscii

più a concentrarmi. Il mio cuore prese a battere all’impazzata, e sentii il corporiempirsi di calore.Chiusi gli occhi, scacciando via il desiderio di voltare la testa verso di lui. Sapevo

che era proprio lì; lo sentivo. Serrai le labbra e inspirai. Quando aprii gli occhi, illibro non c’era più, ed Evan aveva tolto con cura la foglia dalla mia mano.«Lo so che è difficile», disse Evan con un sospiro, girandosi sul fianco con il

braccio sotto il mio collo. Continuai a tenere gli occhi sul soffitto, cercando direspirare. Sapevo che avrei dovuto spostarmi, ma non potevo. «Lo sento ancheio. Ed è difficile anche per me resistere, Emma. Perché non voglio fare niente percui non siamo pronti».Chiusi gli occhi, con il petto che mi si stringeva, sapendo che io non ero pronta.

Ma la solidità del suo corpo appoggiato al mio fianco e il suo profumo mitenevano prigioniera, impedendomi di muovere un singolo muscolo. Avevo pauradi perderlo – il suo tocco, il suo calore. Mi sfiorò la pancia con la mano e iotrattenni il fiato.«Oh, Emma», mi sussurrò all’orecchio, facendomi mordere il labbro. Le sue dita

si chiusero a pugno sulla mia pancia, e il suo braccio si tese, trattenendosi.«Forse dovrei andare di sopra».

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Non appena si girò di schiena, dissi: «Non andare». Lui si immobilizzò di colpo.«Hai ragione. Non siamo pronti. E non so cosa stia succedendo tra di noi. Ma… sepuoi, perché non ti stendi qui con me? Se non puoi, io…».«Ce la posso fare».Sospirò profondamente. Capii che aveva bisogno di una certa distanza, perciò mi

girai sul mio lato e spensi la luce. Qualche minuto dopo, Evan scivolò alle miespalle, trovai la sua mano e la strinsi forte davanti a me.«Buonanotte, Emma», mi sussurrò all’orecchio prima di baciarmi sulla fronte. Il

mio respiro vacillò. Gli tenni stretta la mano e, per quanto possa sembrareimpossibile, mi addormentai.

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M

32Implacabili

i parve di sentire delle voci. Provai a ignorarle, ma erano… delle risatinestridule. Mi mossi ed Evan mormorò qualcosa dietro di me, il suo braccio che

ancora mi avvolgeva. «Evan?». Ancora intorpidito dal sonno, non rispose.Tornai in ascolto e sentii: «Sono contenta che siate qui. Passeremo un fine

settimana pazzesco». Mi misi a sedere di scatto, costringendo Evan a girarsi.«Evan, svegliati», gli dissi, terrorizzata.«Sì, Emma è ancora a letto», disse Sara a una delle ragazze. «La sua stanza è

proprio qui, se la vuoi svegliare».«Merda, Evan», gli diedi una spinta. Aprì gli occhi. «Sono arrivate le ragazze.

Scendi dal mio letto».«Cosa?», mormorò, strofinandosi gli occhi.

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«Vattene, adesso», lo spinsi per le spalle. «Stanno per entrare nella miastanza».Finalmente lui capì, proprio mentre bussarono alla porta. Evan scivolò giù dal

letto e praticamente cadde a terra, inciampando sulle lenzuola, ancora mezzoaddormentato. Sparì dietro la porta del bagno quando Serena fece capolino.«Emma?». Quando vide che ero sveglia, sorrise allegra. «Ciao».«Ciao», dissi, ricambiando il sorriso e cercando di calmarmi. Lanciai uno sguardo

al bagno con la coda dell’occhio, e mi sforzai di continuare a sorridere quandonotai che la porta era socchiusa. Avrei voluto tirargli qualcosa, ma riuscii aspostare lo sguardo su Serena prima di essere scoperta.«Buongiorno!», disse Meg entrando nella stanza. «Hai dormito fino a tardi!».«Che ore sono?», chiesi, respingendo l’istinto di guardare di nuovo in bagno.«Le dieci e mezza». Meg si sedette sul bordo del letto.«Com’è andato il viaggio?», chiesi, con il cuore che batteva così forte che lo

sentivo nelle orecchie. Dovevo trovare il modo di farle uscire dalla stanza senzache capissero il motivo.«Non male», disse Serena, sedendosi sul letto nel posto che Evan aveva appena

lasciato. «Questa casa è pazzesca, comunque. Bella trovata».«Grazie», risposi, rovesciando le lenzuola sotto le coperte. «Stavo proprio

per…».«Finalmente!», ci interruppe Sara, entrando nella stanza e chiudendosi la porta

alle spalle. Ecco, adesso sarebbe stato impossibile farle uscire. «Pensavo che non

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ti saresti più svegliata. Adesso che le ragazze sono qui, possiamo finire quellaconversazione che abbiamo cominciato ieri sera». Aprii la bocca per replicare, malei mi fermò. «Non ci provare. È una cosa grossa».«Cosa?», chiese Meg, guardando da Sara a me.«Che succede tra te ed Evan?». Sara cominciò l’interrogatorio.Mi preparai per l’attacco di cuore che stavo per avere. In realtà speravo che

arrivasse sul serio, così avrei potuto evitare quella conversazione.Serena incalzò. «Perché? Che è successo?».Involontariamente lanciai un’occhiata alla porta. Anche se non potevo vederlo,

sapevo che era in ascolto.«Ehm… in realtà non lo so», risposi evasivamente, cercando di tenere la voce

bassa. «Stiamo… parlando».«State facendo molto di più che parlare», disse Sara. «Voglio dire, vi ho visti ieri

sera a cena».Deglutii. “Ti prego, fammi sparire adesso. Ti prego!”.«Ti ha baciata?», chiese Serena.«No», risposi subito, cercando di non pensare al bacio sulla fronte che mi aveva

dato la sera prima. Le guance mi tradirono arrossendo.«Stai mentendo?», mi accusò Sara. «L’hai baciato e non me l’hai detto?»«Lo giuro, non l’ho baciato», risposi imperterrita.«E allora, come ti senti?», chiese Meg. Le ragazze fecero silenzio, avvicinandosi

nell’attesa. E io giurai di aver sentito la porta aprirsi di più.

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«Non so come rispondere», dissi con sincerità, rassegnandomi a quellaconversazione… con Evan in ascolto. «È stato intenso. Sono successe un sacco dicose, e sto cercando di capire. Non sarebbe corretto da parte di nessuno dei duecominciare qualcosa senza prima sistemare quello che è andato male».«E cosa è successo esattamente?», chiese Meg.«Io», risposi piano, incapace di guardarle. «Non si fida di me. E devo

riguadagnarmi la sua fiducia se voglio riprovarci».«E tu vuoi… riprovarci?», chiese Serena, su di giri.Non volevo rispondere a quella domanda, così dissi: «Non mi sento ancora

pronta». Era l’unica cosa che sapevo per certo. «Ok. Che facciamo oggi?». Fecidel mio meglio per sembrare allegra mentre cambiavo argomento. «Devobuttarvi fuori un attimo, ragazze, perché devo proprio andare in bagno. Ma qualisono i programmi, così so cosa mettermi?»«Andiamo a fare shopping», annunciò Sara. «E guai a te se provi a mettere il

broncio. Hai bisogno di vestiti».«Non sono d’accordo, ma… come ti pare».Meg si alzò in piedi. «Sbrigatevi a prepararvi. Andiamo a fare un brunch prima

dello shopping».Serena saltò giù dal letto e seguì le ragazze. Si voltò verso di me prima di

andarsene e disse: «Mi piace, Emma… parecchio. E penso che tu sappiaesattamente cosa provi per lui. Smetti di respingerlo».Si chiuse la porta alle spalle, lasciandomi lì imbambolata.

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La porta del bagno si aprì, Evan entrò nella stanza e io gli tirai un cuscino.«Ehi!», lo afferrò con una risata. «Che ho fatto?»«Non dovevi ascoltare, Evan!», sibilai, cercando di non alzare la voce.Lui ridacchiò. «Stavate parlando di me. Certo che dovevo ascoltare».Aveva il viso rosso fin sul collo.«Sono implacabili, eh?», commentai, scuotendo la testa. «Sono così contento di non

essere una ragazza».Emma sistemò le coper te e scese dal letto. «Non posso credere che tu che abbia davvero

ascoltato».Era difficile non ridere di fronte alla sua reazione melodrammatica. «Sapevi che stavo

ascoltando, Emma. Ed è bello sapere che non mi odiano».«Perché dovrebbero odiarti?», chiese. «Non hai fatto niente di male».Scrollai le spalle. «Lo so, ma sono protettive nei tuoi confronti, e se non gli piacessi

sarebbe un problema».Lei fece un sorrisetto. «Perché ti interessa la loro approvazione?».Avevo parlato troppo. «Nessun motivo in particolare».«Bugiardo».«Passo per la veranda e faccio una passeggiata sulla spiaggia», annunciai all’improvviso.

«Non possiamo correre il rischio che mi vedano sbucare di nascosto fuori dalla suastanza, giusto? Potrebbero pensare che ci siamo baciati o qualcosa del genere». Mi lanciòun altro cuscino.«Sta’ zitto, Evan». Aveva le guance paonazze.

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Risi, raccogliendo la macchina fotografica dal comò.«Diver titi a fare shopping». Lei mi fece la linguaccia proprio mentre scattavo una foto.

Sorrisi quando si chiuse con forza la por ta del bagno alle spalle � adoravo quel suo latopermaloso che avevo la tendenza di portare alla luce.Ero sorpreso che le ragazze non avessero visto la mia macchina fotografica sul comò o

la mia valigia sulla poltrona. Probabilmente erano troppo intente a torchiare Emma peraccorgersene.Aprendo il cancelletto, sbirciai dietro l’angolo della terrazza per accer tarmi che non ci

fosse nessuno. Attraversai di corsa i gradini e raggiunsi la spiaggia, quando sentii la por tascorrevole aprirsi.«Ehi!», urlò Sara, facendomi fermare.Controvoglia, mi voltai, sapendo che ero stato colto sul fatto.«Vieni dalla stanza di Emma, vero?», mi accusò, con le mani sui fianchi. Scrollai le

spalle, con aria colpevole. «Evan, possiamo parlare?»«Certo», dissi con un sospiro pesante.Sara saltò giù dai gradini, e io cominciai a camminarle accanto, preparandomi.«È successo qualcosa tra te ed Emma mentre ero via che dovrei sapere?»«No», risposi. «Niente che tu debba sapere».«Evan…», mi rimproverò, «sai che voglio solo che stia bene».«Lo so, Sara. Lo so. Ho sentito tutto».«Perché eri nella sua stanza? Non capisco che cosa sta succedendo tra voi».«Neanch’io», risposi. «E ti dirò la stessa cosa che ti ha detto Emma – stiamo solo

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parlando. Tutto qui. E non ho idea di cosa stia succedendo, ma per favore, noncostringerla a capire cosa prova per me. Non voglio che si allontani di nuovo,specialmente adesso che sto riuscendo a conoscerla davvero, per la prima volta».Sara aggrottò la fronte. «Che significa?».Pensai a come spiegarglielo. «Emma non è la stessa di un paio di settimane fa. I suoi

occhi non sono più vuoti. Non ha l’aspetto di chi rischia di andare a pezzi da un momentoall’altro. Non so dirti cosa sia successo, ma finalmente si sta aprendo e…»«E sta tornando la Emma che conoscevamo?»«No», scossi la testa. «Non è nemmeno quella. Non credo che tornerà mai così. Ma

penso stia cercando di guarire, di migliorare. Mi sta permettendo di avvicinarmi a lei, enon l’aveva mai fatto prima. Si fida davvero di me, e non voglio perderla solo perché èintimorita da ciò che potrebbe accadere tra di noi. Lo so che ci tieni a lei, e anche io. Ma tisto chiedendo solo di farti un po’ da parte. Lasciaci capire».«Tu ti fidi di lei?», chiese Sara.Fissai l’oceano mentre continuavamo a camminare. «Voglio fidarmi», risposi. «Lo

voglio davvero».«Ma non ti fidi», concluse Sara, cogliendo l’esitazione nella mia voce. «Non è giusto,

Evan. Devi fidar ti abbastanza di lei da dirle che cosa hai passato quando se n’è andata. Senon glielo dici, allora stai facendo la stessa cosa che lei ha fatto con te. Deve sapere».«Sta già crollando sotto il peso del senso di colpa che le è stato inflitto per tutta la sua

vita», ribattei. «Sa già che ho degli incubi. È sufficiente».Sara socchiuse gli occhi leggermente. Speravo che non chiedesse…

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«Ma non puoi aspettar ti che si apra e ti confidi sentimenti e pensieri che probabilmentenon ha mai espresso prima, quando tu non sei pronto a fare lo stesso».Detestavo quando Sara aveva ragione.Fui presa dal panico quando vidi Evan e Sara tornare insieme. Lei sapeva che

era stato nella mia stanza. Lo capii quando scosse la testa rivolta a me mentresaliva i gradini fino alla terrazza. Affondai nella poltrona, distogliendo lo sguardo.Non ebbi occasione di chiedere a Evan di cosa avessero parlato perché lui, Jamese Jared andarono da Nate per aiutarlo a organizzare un’altra delle sue famigeratefeste.Quando tornai dallo shopping con le ragazze, passammo la giornata in spiaggia.

Per la festa mi misi un paio di jeans e una canotta, e le Converse nere. Sara miscrutò dalla testa ai piedi.«Oggi abbiamo comprato dei vestiti meravigliosi, e tu ti vesti così? Che devo

fare con te?», sospirò.«Amami per come sono», risposi con un sorrisetto.«A me piaci così», intervenne Serena.«Serena, non incoraggiarla», disse Sara. «E poi, il tuo guardaroba è fatto di

nero… e nero».Intervenni: «Penso che Serena sia molto alla moda».«Anch’io», aggiunse Serena, sulla difensiva.«Ok, le mie scuse, Serena. Sai di certo come abbinare i tuoi neri. Ma mi dispiace,

Em, tu invece hai bisogno di aiuto».

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«James ha preso la tua auto, Serena, o sono andati con la Scout?», chiese Meg,mettendo fine agli attacchi al mio gusto in fatto di vestiti.«Di chi è quella macchina, comunque?», chiese Serena. «È così carina».Esitai, non volevo rispondere. Gli occhi di Sara si socchiusero quando si accorse

che impiegavo troppo tempo ad allacciarmi le scarpe.«Emma Thomas, parla», chiese, impaziente.«È di Evan», mormorai, alzandomi lentamente.«Me lo stavo chiedendo quando siamo andati a cena ieri sera», disse. «Ma

perché Evan avrebbe bisogno di un’auto in California?».Il fatto che trattenessi il respiro disse tutto. «Non ci credo».«Che c’è?», chiese Meg, completamente confusa.«Sì!». Serena praticamente fece un salto. «Resta qui!».«Che cosa?», chiese Meg, fissandomi a bocca aperta.«Evan si è trasferito a Stanford», dichiarò Sara, fissandomi. Annuii incerta,

aspettando che esplodesse. «Certo, si è trasferito a Stanford».«Perché dici così?», domandai.«Perché così si spiegano molte cose», disse, annuendo lentamente. «La scorsa

estate Vivian, parlando con mia madre, le ha detto che avrebbe acconsentito alasciarlo andare a Stanford se avesse voluto. Ha aggiunto che non lo avrebbeostacolato questa volta, come se si stesse già trasferendo. Ma era l’anno scorso,quindi quando in autunno non ha cambiato scuola, non ci ho più pensato».«Quindi è da un po’ che aveva in mente di trasferirsi?», concluse Meg.

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«Era la sua prima scelta», spiegai.«Anche tu», disse Sara, e io smisi di respirare. «Non guardarmi così, Emma.

Penso che sarebbe venuto qui prima se i suoi genitori non lo avesseropraticamente recluso».«Di che stai parlando?», chiesi.«Non gli hanno permesso di accedere ai suoi soldi», spiegò Sara. «Non aveva la

macchina al campus. Praticamente lo hanno messo agli arresti».«Non lo hanno fatto viaggiare?», chiesi scioccata, sapendo quanto questo lo

avrebbe fatto uscire di sé. Evan adorava viaggiare. Lo faceva sempre, quando neaveva l’occasione. Essere confinato in Connecticut doveva essere stato comevivere in una prigione.«Per un po’ no, a quanto pare. Non fino alla scorsa estate, da quello che mi ha

detto mia madre».“Wow”, mimai con le labbra. Avevo interferito nella sua vita molto più di quanto

pensassi.«Emma, non è stata colpa tua», mi consolò. «È stata una decisione dei suoi

genitori, ok? Tu non c’entri, quindi smetti di pensarci».Annuii, cercando di allontanare la colpa strisciante.«Ma deve essere lui a dirti tutto questo», sospirò Sara, «non io. Dovrebbe farlo,

anche se lo sai già. Se decidi che vuoi ricominciare da capo con lui, anche luideve essere sincero con te».Abbassai le spalle. «Hai ragione».

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Come sempre.

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T

33La cosa in piscina

rovammo molte macchine parcheggiate quando andammo a casa di Nate quelpomeriggio. Mentre parlavamo di Evan si era fatto tardi.

«Già mi piace», disse Serena, sgomitando tra la folla in casa per individuare lachitarra che stava suonando.«Ehi, Emma!», urlò Ren dal bar in fondo.«Ehi, Ren!», agitai la mano senza fermarmi, cercando di restare al passo con

Serena.Uscimmo in terrazza e scoprimmo ragazze vestite o svestite in vari modi intorno

alla piscina.«Wow, certe ragazze non hanno proprio pudore», diagnosticò Meg, osservando

le pelli oliate che brillavano al sole.

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«Penso siano solo sicure di sé», ribatté Serena. «Perché vergognarsi?»«Detto da una ragazza con la pelle di alabastro immacolato», la prese in giro

Meg.«Che non ha paura di andare in giro nuda per casa», ricordai a Meg.«Lo fa solo per far incazzare Peyton!», rise Meg.«Emma!», urlò TJ dalla veranda sulla terrazza di sotto con un sorriso ridicolo in

faccia. «Sei qui!».«Sì», urlai di rimando, ridendo.«Uno degli amici di Evan?», chiese Sara.Annuii.«Finalmente, un party con della musica decente», esclamò Serena ammirata,

agitando la testa al suono della band in veranda. «Forza. Cerchiamo i ragazzi». Miafferrò la mano e mi portò giù per le scale.«Volete da bere?», chiese Meg quando raggiungemmo la veranda.«Sì», rispose Sara per tutte, dirigendosi verso il bar.«Ehi, ragazzi», dissi a Nate e Brent quando finalmente arrivò il nostro turno.«Ci stavamo chiedendo quando saresti arrivata», disse Nate; poi vide le ragazze

accanto a me. «Ciao, io sono Nate. E lui è Brent».Brent mostrò il suo sorriso da flirt e tese la mano quando ricambiai le

presentazioni.«Emma, sei stupenda», si complimentò Brent.«Grazie», risposi, sorridendo. Le ragazze mi guardarono incuriosite.

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«Cosa posso dare da bere a queste incantevoli ragazze?», si offrì Brent,strofinandosi le mani.«Sorprendici», disse Serena.«Evan è con James e Jared. Sono da qualche parte in giro», ci informò Nate

dopo che Brent ebbe allineato i nostri drink sul bancone.«Grazie!», rispose Serena. Mi afferrò per un braccio con una mano mentre

reggeva un drink dalle tonalità blu nell’altra.La ricerca non fu troppo lunga. Erano i ragazzi che tutte le ragazze sembravano

fissare. Aiutava il fatto che fossero più alti praticamente di chiunque altro.«Ehi», dissi, avvicinandomi a Evan.Il suo sorriso mozzafiato comparve appena disse: «Ciao. Sono contento che tu

sia qui».«Oh , dobbiamo assolutamente ballare questa canzone», esclamò Serena,

togliendomi il drink di mano e dandolo a Evan prima di trascinarmi tra la follaverso il piccolo palco. Gli lanciai uno sguardo di scuse. Evan sorrise e scrollò lespalle. In pochi secondi la folla rockeggiante ci aveva ingoiato.Serena scelse un punto davanti alla band e cominciò a saltare al ritmo della

cover di una celebre canzone rock.Non sapendo quanto potessi resistere con i miei tagli ancora freschi, cominciai a

saltare incerta sui talloni.«Andiamo, Emma!».Accorgendomi che ce la potevo fare, mi spinsi con più forza, saltando con Serena

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mentre alzavamo le mani in aria. Sara si fece largo saltellando verso di noi, con icapelli rossi che le svolazzavano attorno. Meg, che preferiva tenere i piedi perterra, rise alla nostra esuberanza mentre ondeggiava i fianchi.«Non sono sicuro che le rivedremo», disse Jared, guardando Sara che pogava, agitando

la testa da una parte all’altra.«La band farà una pausa prima o poi», lo rassicurai.«Che stanno bevendo?», chiese James, sollevando il drink blu che gli aveva lasciato

Serena.«È un drink da ragazze», spiegai. «I ragazzi inventano un drink apposta per le ragazze a

ogni festa. Di solito è dolcissimo e pieno di alcol».James bevve un sorso e fece una smorfia. «Già, resto fedele alla birra».Risi.«Come vanno le cose con Emma?», chiese Jared, senza togliere gli occhi da Sara.«È complicato», risposi, prendendo un sorso di birra.«È sempre così con lei», disse Jared, facendo sorridere James.«Non sei sorpreso?», chiesi a James.«Lei è… diversa», rispose, scegliendo con cura le parole. «Ma mi piace. Non è per

niente prevedibile».«Proprio no».«È per questo che piace a Evan», commentò Jared con un mezzo sorriso. Io feci una

risatina, riconoscendo che era vero. «Be’, qualunque cosa stiate facendo, sembrafunzionare, perché non sembra più così incasinata. Sembra stare piuttosto bene, in

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effetti».«Uh, simpatico, Jared», dissi scuotendo la testa. Ma aveva ragione. Guardai Emma, con

le guance arrossate, che rideva mentre Serena saltellava accanto a lei. Non potevo negareche era bellissima, anche solo con jeans e canotta. Ma d’altronde, avevo pensato la stessacosa la mattina che si era svegliata con i capelli appiccicati alla testa e i segni del cuscinosul viso.«Ehi, Evan», mi chiamò TJ dall’altra par te della piscina, distogliendo la mia attenzione da

Emma. «Ren ha bisogno di te di sopra».«Arrivo subito», urlai. «Ci vediamo dopo, ragazzi». Guardai il drink che avevo in mano.

«Potete darlo voi a Emma?». Lo passai a James, che tenne in equilibrio i due bicchieri sulpalmo della mano.Li lasciai ed entrai in casa, dove le richieste per la festa mi tennero occupato per un po’.

Si era presentata più gente per questa festa che per qualsiasi altra prima d’ora. In qualchemodo, mi ero ritrovato a dover dare una mano anche se non ero stato coinvoltonell’organizzazione. In effetti, non stavo nemmeno più in quella casa.Emma venne a farmi un saluto, ma non riuscii a parlarle perché ero troppo impegnato.

Provai a filarmela diverse volte, ma non ci riuscii. Passai in rassegna la stanza in cerca diuno dei ragazzi, arrabbiandomi sempre di più ogni minuto che passava.«Ciao». Una bionda slanciata mi salutò dall’altro lato del bar.«Ciao», dissi, senza guardarla mentre continuavo a cercare qualcuno che mi desse il

cambio. «Cosa posso darti?»«Una birra», chiese. Mentre allungavo una mano verso la vasca del ghiaccio, lei

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proseguì: «Sei Evan, vero?»«Sì», confermai, stappando la bottiglia e passandogliela.«Sono Nika», prese la bottiglia. «Abbiamo fatto surf insieme».Alla fine mi concentrai su di lei, e riconobbi vagamente i suoi occhi scuri e i capelli

schiariti dal sole. Ero abbastanza sicuro che fosse una delle ragazze di cui Brentcontinuava a cercare il numero di telefono. «Giusto. Sono contento che sei venuta».«Anch’io», sorrise. «Magari ci vediamo dopo».«Certo», risposi, dando uno sguardo al ragazzo dietro di lei con il cappellino da baseball.«Bravo, Evan» esclamò Ren dandomi una gomitata e riempiendo la vasca di ghiaccio.«Di che stai parlando, e dove diamine sei stato? Devo andarmene da qui».«Andiamo», disse con una risatina. «Quella ragazza è cotta di te».«Se lo dici tu! Mi dai il cambio?»«Devo andare a prendere altro ghiaccio, e poi torno», promise.Quando finalmente fui sostituito al bar, mi aprii un varco nella stanza affollata in

direzione della terrazza. Osservai i volti finché non localizzai Emma e Meg sul latoopposto della piscina, che parlavano e ridevano di qualcosa. Mi feci largo sulle scaleverso di loro.Nika comparve all’improvviso davanti a me quando arrivai in veranda. «Mi stavo

chiedendo se saresti mai uscito da dietro quel bar».«Oh, ehi, è bello rivederti», le dissi, cercando Emma tra la fitta folla intorno alla piscina.«Abiti qui con gli altri?», chiese, determinata a fare conversazione.«Sto a circa cinque minuti da qui».

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«È carino come qui?»«Eh, è un posto fantastico, proprio sulla spiaggia», spiegai, cercando di guardarla quel

tanto che bastava in modo da non farla sentire insultata, mentre scandagliavo il bordodella piscina in cerca di una canotta viola e dei corti capelli marroni.«Mi piacerebbe vederlo», disse Nika.Era una ragazza molto attraente, e se fossi stato Brent sarei stato entusiasta

dell’attenzione che mi dava – ma non ero Brent, e lei era la ragazza sbagliata.«Magari daremo una festa prima o poi», le dissi. «Conosci Emma Thomas… fa surf?»«Uh, sì. In realtà l’ho portata qui qualche giorno fa. L’abbiamo trovata sulla spiaggia».«Be’, sono contento che l’abbiate aiutata».«Sta con Cole, giusto?»«No», risposi. Serrai leggermente la mascella al solo pensiero di loro due insieme. «Sta

nella stessa casa in cui sono io. Ha il tuo numero?»«Penso di sì», rispose, con una nota di disapprovazione. «E tu…».«Evan!», chiamò Serena dietro Nika. Gli occhi di Serena passarono tra noi due, in

silenziosa riflessione. «Ti stavamo cercando».«Scusate, mi hanno bloccato di sopra», le dissi.«Ciao, sono Serena», disse a Nika, raggiungendomi e prendendomi a braccetto. Senza

aspettare che Nika si presentasse, proseguì. «Ora ti ruberò Evan».Prima che potesse trascinarmi via, sentii un urletto, seguito da un tuffo in piscina.«Oh, no», si lamentò Serena, tirandomi con sé.«Non posso credere di non essermene accorta», annaspai mentre Meg tornò in

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superficie accanto a me.«Penso che tu fossi un po’ distratta», scherzò Meg. «E adesso siamo due a uno».«Non so di cosa stai parlando», mi difesi, con il volto paonazzo dopo essere

stata beccata a guardare Evan che parlava con Nika.Uno spruzzo d’acqua ci interruppe quando qualcun altro saltò in piscina. TJ

affiorò, con il suo sorriso carismatico.«Volevate compagnia?», chiese, nuotando davanti a noi.E all’improvviso, tutti cominciarono a tuffarsi in acqua con urla e grida di

protesta. I ragazzi lottavano tra loro per andare in piscina, atterrando su ragazzeurlanti. Io scesi sotto il pelo dell’acqua, cercando di raggiungere la scaletta etogliermi dal caos.Raggiunsi il gradino della scaletta proprio quando qualcuno mi afferrò per la

caviglia e mi tirò sott’acqua. Scalciai per tornare in superficie, e quando mi giraiper vedere chi era stato, notai Brent che si allontanava. Mi voltai di nuovo versola scaletta e mi ritrovai faccia a faccia con Evan. Sembrava sorpreso quanto me.«Ciao», sorrise, facendomi incespicare il cuore mentre l’acqua gli colava dai

capelli arruffati al mento cesellato.«Ciao», dissi con un sorriso, arrossendo.«Ho sentito dire che sei stata tu», disse, indicando il caos in piscina.«Stavolta è stata Meg!», mi difesi. Due ragazzi che lottavano l’uno con l’altro per

mandarsi a fondo mi spinsero verso Evan. Lui si fece in un angolo e io nuotaidietro di lui.

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«Meg non sembra il tipo che fa queste cose». Si spostò per farmi spazio sulbordo.«Oh, e io sì?», dissi, cercando di fare l’offesa.Evan sorrise. «Sì, hai una certa reputazione. E questa non è la prima volta. Sono

già finito in piscina vestito per colpa tua».«Vero», risposi, le guance che diventavano rosse. Non riuscivo a distogliere lo

sguardo dai suoi occhi blu mentre si avvicinava. Si fermò davanti a me,osservandomi come se stesse aspettando una risposta… o il permesso. Le miepulsazioni aumentarono quando mi mise una mano sul fianco. Mi aggrappai albordo della piscina per mantenermi a galla. Non riuscivo a respirare mentre lui siavvicinava – e poi non c’era più. Mi girai per cercarlo.«Ehi, Emma», sorrise Brent, nel punto in cui prima c’era Evan. E poi anche lui fu

trascinato sotto. Colsi l’occasione per uscire dalla piscina, avevo bisogno di unacerta distanza dopo un altro momento con Evan.«Come mai non vi hanno buttate in piscina?», chiesi a Serena e Sara, che erano

sedute attorno a un tavolo, osservando quella bolgia.Gli occhi di Sara brillarono. «Sanno che è meglio di no».«Ma guarda in che condizioni sei!», rise Serena, indicando i jeans che mi

pendevano dai fianchi, il peso dell’acqua che li spingeva verso le scarpe. Provai atirarmeli su, ma era inutile.«È ora di andare?», chiese Meg dietro di me.«Penso che tu abbia dato il tuo contributo alla festa», dichiarò Serena, passando

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le chiavi a Meg. «Ma io rimango ancora un po’».«Anch’io», aggiunse Sara.«Be’… divertitevi», dissi. Meg e io lasciammo le ragazze e ci incamminammo

verso l’uscita.«Ve ne andate?», ci chiamò Evan correndo per raggiungerci.Indicai i miei jeans e dissi: «Non posso stare così. Torniamo a casa. Ci vediamo

lì».«Torno con te. Anzi, ci vediamo fuori. Do le mie chiavi a Sara così lei e Serena

possono tornare dopo con i ragazzi».«Ok», rispose Emma, proseguendo verso l’ingresso.Trovai Sara e Serena sedute in terrazza, che ridevano allo spettacolo.«Sara, prendi il mio furgone quando vuoi andartene», le dissi, dandole le chiavi.«E tu come ci vai?», chiese, incuriosita.«Ci vado adesso, con Meg ed Emma».Serena sorrise. Potevo solo immaginare cosa stesse pensando.«Ok. Immagino che ci vedremo tra un po’», replicò Sara. Uscii per andare incontro a

Meg ed Emma, ma mi fermai quando raggiunsi il vialetto. Le ragazze si stavanotogliendo i jeans e li mettevano in un bustone nero.«Ehi, Evan», disse Meg. «Niente pantaloni bagnati in auto – è la nostra regola».«Eh?», risposi, riuscendo a malapena a togliere lo sguardo dalle gambe scoper te di

Emma. Sbattei le palpebre e mi concentrai sul viso di Meg.«Devi toglierti i jeans se vuoi entrare in auto», spiegò.

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Aggrottai le sopracciglia.«Oppure puoi non venire con noi», disse Emma. Doveva sapere esattamente cosa

provavo a vederla lì con addosso solo una maglietta e gli slip. Quel tragitto in auto miavrebbe ucciso.«No, va… bene», mi arresi, riluttante. Feci un sospiro e mi tolsi i jeans, lanciandoli nella

busta che Meg teneva aper ta; poi misi le scarpe nel bagagliaio assieme alle scarpette e aipalloni da calcio. Con gli occhi fissi su Emma dissi: «Sai una cosa, potete prendervi anchequesta maglietta bagnata».Emma mi fissò con gli occhi spalancati. Meg ci guardò entrambi, scuotendo la testa.

«Come vuoi».«Sei perfido», mormorò Emma.«Ehi, hai rotto tu la tregua», sorrisi, togliendomi la maglietta. Risi quando Emma mi

voltò la schiena, nascondendomi le guance rosse.«Guida tu», disse Meg, passandomi la chiave prima di buttare la busta nel bagagliaio.Emma si sedette dal lato del passeggero, in attesa. Lanciai un’occhiata alle sue gambe

sottili e muscolose che finivano con il tessuto nero del suo intimo. Meg salì sul retromentre io spingevo avanti il sedile. Non feci attenzione alla sua pelle scoper ta mentre mipassava accanto, troppo preso dal corpo mezzo nudo sul sedile davanti.«Perché guidi tu?», chiese Emma nel panico quando entrai in auto.Scrollai le spalle. «Me l’ha chiesto Meg».«Meg!», si lamentò Emma.«Che ho fatto?», chiese Meg, completamente confusa. «Che vi prende? Non è che siete

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nudi. Smettetela! E tu guida, Evan».Emma distolse l’attenzione da me.La radio si accese quando avviai il motore. Emma si girò di scatto e urlò all’unisono con

Meg: «David Bowie!», ma poi Emma aggiunse subito: «Young Americans».«Mi hai battuta», replicò Meg. «Non sono riuscita a dirlo abbastanza velocemente».Non avevo idea di cosa fosse successo. Sapevo solo che la coscia di Emma era

all’improvviso a pochi centimetri dalla mia mano sulla leva del cambio – e io non riuscivoa respirare. Costrinsi i miei occhi a rimanere fissi sulla strada. Qualsiasi distrazione con ilmio attuale vestiario non sarebbe stata un bene. «Che è successo?»«È una cosa che facciamo quando par te la radio o qualcuno cambia stazione; vediamo

chi dice prima il nome dell’ar tista e della canzone», spiegò Meg. «È una cosa tra Emma eme».«Come la cosa in piscina?»«Esattamente», rise Emma. «Come la cosa in piscina».La sua risata mi fece guardare verso di lei – cattiva idea. Tutto ciò che vedevo era pelle.

Serrai la presa sul volante, cercando di controllarmi. Che diamine avrei fatto quandol’avrei vista in costume da bagno?Quando arrivammo nel vialetto, feci uscire l’aria dai polmoni. Lasciai che Emma e Meg

andassero avanti, offrendomi di prendere la busta di vestiti dal bagagliaio per darmi iltempo di riprendermi. Le ragazze erano in soggiorno quando tornai con addosso deivestiti puliti.«Evan, vuoi guardare un film mentre aspettiamo gli altri?», chiese Meg.

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«Certo», risposi. «Avete fame?»«Cosa cucini?», chiese Emma, entusiasta.«Niente», risposi con una risatina. «Pensavo di ordinare della pizza. O magari puoi

cucinare tu».«Pizza!», esclamò Meg. «Emma darebbe fuoco alla casa».«Ehi!», replicò Emma. «Ho imparato a fare il formaggio alla griglia».«Sai che s forzo!», la presi in giro. Emma prese un cuscino e me lo lanciò. Lo presi al

volo, ridendo.Ripensai alla battaglia a cuscinate che io ed Emma avevamo fatto anni fa. Ero tentato di

vendicarmi perché accadesse di nuovo.«Allora, Evan, ho sentito che ti sei tras ferito a Stanford», disse Meg, dirottando la mia

attenzione.Evan si voltò verso Meg, sfoderando il suo sorrisetto sarcastico. Avevo la

sensazione di sapere cosa stesse pensando, quando aveva afferrato quel cuscino.«Già, pare di sì».Tutti gli altri arrivarono dopo la pizza. E per fortuna ne avevamo ordinata tanta.

Jared e James praticamente si mangiarono una pizza intera a testa.Mi misi a sedere sul tappeto davanti al divano dopo aver finito di mangiare,

mentre Evan era davanti al televisore, a scorrere i titoli dei film sullo schermo.«Forza, Meg», la chiamò Serena, buttandosi sulle ginocchia di James in poltrona,

stendendo le lunghe gambe sull’altro lato del bracciolo.Sara ridacchiò per qualcosa che Jared le aveva sussurrato all’orecchio –

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esattamente il motivo per cui avevo scelto il pavimento. Meg si mise a sedereaccanto a loro con in mano un’enorme scodella di pop corn mentre Eva sceglievail film.«Siediti in poltrona», mi incoraggiò quando si voltò a guardarmi sul tappeto.«Sto comoda», lo rassicurai, stringendomi il cuscino al petto. Evan esitò; poi si

sedette sulla poltrona e spense la luce.Le immagini dal televisore inondarono la stanza con luci movimentate. Ci fu

un’altra risatina dietro di me, e mi avvicinai alla poltrona di Evan, appoggiandomiallo spazio accanto alle sue gambe.Mentre il film andava avanti, la stanchezza prese piede. Mi addormentai con il

viso appoggiato alla gamba di Evan.Quando mi svegliai, la stanza era buia, e mi ritrovai stesa sul letto. Sentii il

respiro di Evan sul collo, e con le labbra leggermente socchiuse, tornai a dormiretra le sue braccia.

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«N

34Non pensarci

on penso che dovrei dormire qui di nuovo», annunciò Evan appena uscii dalbagno.

Lo fissai confusa. «Non vuoi più dormire con me?».Evan fece una risatina imbarazzata. «Ecco il problema».«Che intendi?».Evan lisciò le coperte sulle sue ginocchia, appoggiando la testa all’indietro per

guardare il soffitto, cercando il modo di spiegarmelo.«Dimmelo», mi sedetti sul bordo del letto accanto ai suoi piedi.«È… difficile», mormorò. «Stiamo ancora cercando di capire bene… le cose tra

noi. Ma se l’unico momento in cui posso sfiorarti è in questo letto, ascoltando iltuo respiro, sentendo l’odore dei tuoi capelli, il tuo… è… non è facile».

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«Oh», dissi, colpita da quelle parole. Il mio cuore tornò alla vita al solo pensierodel suo corpo caldo premuto sulla mia schiena. «Sì, lo so».«Quindi, forse sarebbe meglio se dormissi di sopra d’ora in poi», ripeté.«Uhm, ok», dissi, esitando. «Se la pensi così».«Tu no?», chiese, sorpreso. «Sono l’unico che si sente torturato, qui?».Scossi la testa, sentendo il calore che mi invadeva il viso.«È già abbastanza difficile non baciarti…», cominciò Evan.«Ok, capisco», dissi di fretta. Non volevo che continuasse, non volevo che mi

sfiorasse l’idea di baciarlo. Chiusi gli occhi – troppo tardi.«Perciò porto la mia roba di sopra», disse, con decisione, anche se c’era nel suo

tono un accenno di domanda che mi fece alzare lo sguardo.«Sì», risposi imbarazzata. Evan prese la sua borsa dalla poltrona e la macchina

fotografica dal comò.Esitò sulla porta, mi fece un sorriso forzato, e la chiuse.Crollai sul letto, dando ai miei polmoni l’aria di cui erano stati privati durante

quella conversazione. Che cosa era successo? Di base avevamo ammesso divolerci, senza dire di volerci. Era stato il momento più imbarazzante… della miavita.Sara entrò senza bussare e si chiuse la porta alle spalle. Si sedette accanto al

mio corpo steso.«Ho visto Evan uscire con la valigia», disse. «Avete litigato o qualcosa del

genere?»

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«No», sospirai.«E allora che succede?».Rimasi immobile un istante. «Ti ricordi al liceo quando mi hai chiesto se pensavo

di fare sesso con Evan, quando abbiamo cominciato a uscire insieme la primavolta? Dopo che me l’hai chiesto, non riuscivo a pensare ad altro, perché tu mi ciavevi fatto pensare».Sara scoppiò a ridere. «Sì, da scompisciarsi. Per almeno una settimana non sei

riuscita a fare nulla quando c’era lui accanto, e io ero convinta che saresti rimastarossa per sempre».«Già», brontolai. «Comunque…».«Aspetta, hai fatto sesso con Evan?»«No», replicai ad alta voce.«Ma vuoi farlo?», chiese di nuovo, senza darmi il tempo di spiegare.Seppellii la faccia nella coperta e urlai per la frustrazione.«Ohmiodio, sì», concluse Sara. «Wow, non pensavo che voi due foste già lì».«Non siamo da nessuna parte… per ora», ribattei. «È solo che… be’, non dormirà

più qui».Sara fece un grande sorriso. «Capisco».«Sara, smettila di guardarmi in quel modo».«Siete ridicoli. Cercate di risolvere le cose, così potrete andare finalmente avanti

con la vostra vita insieme, sarebbe ora». Mi lanciò un’occhiata stranamentecomprensiva, poi si alzò dal letto. «Le ragazze arriveranno tra poco. Abbiamo

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pensato di passare la giornata in spiaggia».Annuii debolmente, ancora sorpresa di quanto capisse le mie intenzioni prima

ancora che potessi farlo io.E di colpo… ci ritrovammo alle superiori. Non riuscivo a guardare Evan, o a stare

a meno di un metro da lui, senza che il mio corpo non reagisse in manieraincontrollata. Non riuscivo a smettere di pensare a lui, anche quando era di frontea me. E, di base, la mia mente combattuta non era in grado di farci niente.«Emma?», la chiamai di nuovo mentre fissava in lontananza. Lei sbatté le palpebre,

tornando in sé.«Eh?». Mi guardò con gli occhi marroni spalancati e le guance rosse.«Le ragazze ti stavano cercando», le dissi. «Sono in cucina a pranzare insieme».«Ok, grazie», disse rapidamente, distogliendo lo sguardo dal mio prima di scendere

dall’amaca. Si passò le dita tra i capelli per ravvivarli, ancora incapace di guardarmi. Laosservai incuriosito mentre entrava in casa.«Emma», disse Sara, impaziente, «vai a farti una doccia e vieni a darci una mano».«Vado», sentii che rispondeva Emma.Mentre entravo in casa, sentii il suono delle dispense che si chiudevano in cucina.«Riusciranno a stare bene, vero?», chiese Serena.Con la musica che risuonava in soggiorno, ovviamente non mi avevano sentito rientrare.

Non sapendo cosa fare, mi voltai e mi diressi verso le scale.«Prima o poi capiranno che non possono vivere l’una senza l’altro», concluse Sara. Non

sapevano che le loro voci uscivano dalla cucina e riecheggiavano tra gli alti soffitti. Non

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avevano idea di quanto le sentissi bene da lì.«Davvero? Pensi che finiranno per dimenticare e perdonare?», chiese Meg, scettica.

«Penso che continueranno solo a farsi del male se non riescono a essere sinceri. Emma èsull’orlo del precipizio: deve aprirsi un po’ e lasciare che qualcuno la aiuti».Afferrai la ringhiera inciampando su un gradino.«Non è vero. Sta migliorando. Lo vedo», disse Serena appassionatamente. «E poi, è

ovvio che si amano. Voglio dire, guardali. Quando erano lontani, lei era solo l’ombra diuna persona. Ora è diversa».«E che succede se lui non la perdona? E finisce per andarsene?», la sfidò Meg.«Amico, che stai facendo?», chiese Jared in cima alle scale. Alzai lo sguardo e serrai i

denti, supplicandolo in silenzio di tenere la bocca chiusa. Poi entrambi sentimmo Sara chediceva: «Vorrei che potessimo costringerli a essere completamente sinceri l’uno conl’altra».Jared rise. «Stai origliando mentre parlano di te. Carino».Corsi su per le scale, convinto che lo avessero sentito. «Sta’ zitto, Jared. Non l’ho fatto

apposta».«Già, cer to», mi sgridò. «Stavi origliando. Ma non ti biasimo. Voglio dire, se stessero

parlando di me, le ascolterei senz’altro. Aspetta. Stavano parlando di me?»«No», dissi, scuotendo la testa. «Evidentemente non sei incasinato come me ed Emma. E

poi, non rimarrei certo in giro a sentire Sara che dice di continuo quanto sei incredibile».«Dice così?», sorrise, orgoglioso.«No», sbottai.

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«Se hai finito di origliare, ti ho por tato quell’enorme sacca con le attrezzature spor tiveche mi avevi chiesto. Vuoi giocare o no? James è già in spiaggia».«Cer to, ma fammi controllare se le ragazze sono a posto, prima», scesi le scale

rumorosamente, così stavolta si accorsero di me.Le ragazze erano stranamente silenziose quando feci capolino in cucina. «Avete bisogno

di aiuto?».Meg e Sara mantennero un’espressione neutrale, ma gli occhi di Serena brillavano

maliziosi. La guardai, incer to. Un sorriso si fece largo tra le sue labbra, e Meg le diedesubito una gomitata. «Ahi! Perché?».«Siamo a posto per adesso», mi disse Sara. «Tra poco potete por tare tutto fuori, se vi

va».«Siamo in spiaggia», dissi, lasciandole a riflettere sul nostro destino.Guardai il vestito che Sara aveva appeso dietro la porta del bagno. Mi piaceva

fare incursioni nell’armadio di Sara e lasciare che decidesse il mio stile – perquanto alle volte fosse terrificante. Ma adesso non era più lo stesso. Io non ero lastessa. Non avevo indossato un abito da sera da quella sera – a parte il funeraledi mia madre. E considerando che mi reggevo a malapena in piedi, non avevoproprio scelta.Sapevo che stava cercando di entrare in contatto con me, di farmi stare meglio.

«Oh, Sara», sospirai, togliendolo dalla gruccia. «Indosserò questo vestito».Dopo essermi asciugata i capelli e aver abbassato ancora una volta la gonna

troppo corta, trovai le ragazze in cucina.

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Gli occhi di Sara si illuminarono quando mi vide – e per quello sguardo valeva lapena provare un po’ di disagio.«Allora, che devo fare?»«Porta questi sul tavolo fuori», ordinò Meg, dandomi una brocca e dei bicchieri.«Ehi», disse Jared dalla porta della veranda. «Sara, ho ricevuto il tuo messaggio.

Di che avete bisogno?»«È tutto quasi pronto. Tu e i ragazzi potreste portare qualcosa al tavolo? E puoi

aprire l’ombrellone?»«Nessun problema».Salii le scale dopo che Jared ci disse che il pranzo era pronto. Per poco non inciampai

quando vidi Emma in punta di piedi, che aiutava Jared a tenere aper to l’ombrellone perbloccarlo. Indossava un vestito senza spalline bianco a fiori gialli. Passai lo sguardo sullesue braccia snelle, tese sopra la testa, e sugli angoli morbidi delle sue spalle. Il tessutoaderiva alle sue curve fino ad aprirsi per mostrare la lunghezza delle sue gambe tornite.Finalmente riuscii a dire: «Avete bisogno di una mano?». Ma avevano già finito. Emma

si voltò verso di me; aveva le guance rosse e sorrideva leggermente. Sorrisi e finiiintrappolato nei suoi occhi prima di sentire Jared dire impaziente: «Evan? Pronto? Vaidentro a prendere da mangiare».«Va bene», dissi. «Mi piace il tuo vestito», le sussurrai mentre le passavo accanto. Lei si

passò una mano sulla gonna, cercando di aggiungere un centimetro all’orlo rivelatore.«Evan, prendi il vassoio con i sandwich», ordinò Sara. Tutte le ragazze mi misero

qualcosa in mano. Quando tornai con il vassoio, c’era rimasto solo un posto a sedere – e

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non mi sarei dovuto sorprendere che fosse quello accanto a Emma.Se questo era il loro modo di farsi da par te, le ragazze avevano bisogno di qualche

lezione di tatto.Emma si scostò quando mi misi a sedere. La fissavo con la coda dell’occhio, e

continuava ad agitarsi, come se fosse nervosa a starmi accanto. Mi ricordò quella voltaalle superiori…Cominciai a ridere.«Che c’è di così divertente?», chiese Serena.Scossi la testa. «Niente. Mi passate la brocca?».Stavamo sparecchiando dopo pranzo quando il suo petto mi sfiorò la schiena

mentre si chinava per raccogliere un piatto di patatine.«Scusami», mi disse all’orecchio, facendomi sentire un brivido. Lo guardai, e fece

quel sorrisetto divertito che mi provocò una scarica di adrenalina dritta al cuore.Mi allontanai, avevo bisogno di prendere le distanze da lui prima che micedessero le ginocchia. Lui sorrise ancora di più.«Mi vuoi dire che c’è di così divertente?», chiesi.«Tu», rispose, e si allontanò.Misi il broncio e lo guardai allontanarsi. Non mi era piaciuta quella risposta.«Che c’è che non va?», chiese Meg, seguendo il mio sguardo. Lasciai cadere la

domanda e le diedi una pila di piatti.Quando le ragazze tornarono, Sara teneva tra le mani una piccola scatola di

metallo. Evan uscì con James e Jared un attimo dopo, con un pallone in mano.

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«Volete giocare a calcio?», propose Evan.Aprii la bocca per accettare, ma Sara mi anticipò dicendo: «No, voi andate

avanti. Noi abbiamo bisogno di stare tra ragazze».«Tra ragazze?», chiesi, preoccupata.«Sì», rispose Meg. «Pedicure. Di che colore vuoi lo smalto, Emma?».Guardai con invidia i ragazzi che andavano in spiaggia, con Jared che correva

per raccogliere un passaggio.«Che dici del rosa?», suggerì Sara.«Niente più rosa», sbottai subito. E Sara lo sapeva.«Forse è ora che ci riprovi», disse, guardandomi dritta negli occhi.«Penso che staresti bene in rosa», commentò dolcemente Serena.«Penso che anche tu staresti bene con qualche colore», disse Sara, spostando la

sua attenzione su Serena. «Perché non ti lasci truccare una volta da me?»«No, grazie, Sara», rispose Serena. «Sono affezionata alla mia individualità

monocromatica».Sara sospirò. «Ti lascerai almeno mettere lo smalto rosso sulle unghie dei

piedi?»«Sì, quello sì», sorrise Serena.«E a me viola», suggerì Meg, che stava passando in rassegna la valigetta di

smalti di Sara. «Sara, soltanto a te poteva venire in mente di portare in vacanzauna scatola di smalto per unghie!».«Che facciamo stasera?», chiese Meg.

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«Sentiamo se i ragazzi vogliono stare con noi», disse Sara. «Potremmo giocare acarte o qualcosa del genere».«Oppure giocare a obbligo o verità!», suggerì Serena.«Perché, siamo in dodici?», rispose Meg, riportandola con i piedi per terra.«Perché non a poker?», proposi, stendendomi sulla sdraio perché Meg potesse

farmi la pedicure.«Oh, Meg, ti faccio io le unghie. Emma non è in grado», disse Sara.Aveva ragione. Non riuscivo proprio a mettermi lo smalto senza fare una strage

tutto intorno e macchiarmi le dita, per quanto mi concentrassi. Potevo dipingere ipiù piccoli dettagli di un albero su una tela, ma non ero padrona dei miei piedi –per quanto fosse patetico.«Che ne dite di uno strip poker?», cinguettò Serena.«Che vi salta in mente con queste idee?», protestò Meg. «Serena, tu hai un

fidanzato. Perché mai vorresti spogliarti di fronte ad altri ragazzi, o vederli nudi?»«Veramente pensavo più alla parte in cui bisogna confessare la verità», disse

Serena, calma.Sara all’improvviso si interruppe. «Vieni con me, Serena», ordinò. «Em, tu stai

qui e finisci le unghie. Torniamo subito».«Arrivo subito. Vado a chiamare James», rispose Serena.«Che diavolo sta succedendo?», chiesi, completamente disorientata e un po’

seccata.«Ci siamo dimenticate che dovevamo preparare il dolce, e visto che sei

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tremenda a cucinare, meglio se resti qui», disse Meg, che era una bugiardaterribile.Avevano in mente qualcosa. Era fin troppo ovvio. Avevo solo paura di scoprire

cosa fosse.Correndo sulle scale per andare a prendere l’acqua, trovai Emma con le ginocchia

piegate e il vestito cor to stretto tra le gambe, concentrata a farsi le unghie. Fece unasmorfia di frustrazione e si pulì un dito con un fazzoletto umido.«Stupide unghie. A chi impor ta se sono colorate?», sbuffò sottovoce. Arricciai gli

angoli della bocca.«Dove sono le ragazze?»«Non lo so», si lamentò. «Probabilmente stanno architettando qualcosa».«Hai bisogno di aiuto?», chiesi, indicando le unghie.«Vuoi davvero mettermi lo smalto?»«Probabilmente sarei più bravo di te», scherzai, e lei strizzò gli occhi.«Fai pure», disse, lanciandomi lo smalto viola.Mi sedetti in fondo alla sdraio. «Viola, eh?», notai. «Non rosa?».Il suo viso diventò rosso. «Non ho…», distolse lo sguardo. «Il rosa è la mia cioccolata»,

sussurrò.Sollevai lo sguardo per incrociare il suo. Il dolore che si rifletteva nei suoi occhi era

difficile da guardare. Annuii e tornai a guardarle i piedi, non sapendo cosa dire.Posai gentilmente il suo piede sulla mia gamba e strofinai il pennello sul bordo della

boccetta. «Tieni», le dissi, passandole la boccetta, in modo da poterle tenere il dito. Mi

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chinai concentrandomi sui suoi piedi, facendo del mio meglio per non guardare la gamba.Quando alzai lo sguardo per prendere altro smalto, Emma mi guardava, attenta e

per fettamente immobile. Sorrisi e le sue guance diventarono rosse. Nonostante tutto, ilcolore era sempre fantastico su di lei.«Puoi respirare, Emma», scherzai. «Smettila di immaginarmi nudo e respira».«Evan!», urlò, tirando via il piede. Scoppiai a ridere. Sapevo che se avesse avuto

qualcosa da tirarmi addosso, lo avrebbe fatto. Poi vidi la boccetta di smalto tra le suemani e saltai in piedi.«Non tirarmela», la supplicai. «Stavo solo scherzando. È da stamattina che ti vedo così

tesa. Volevo solo farti rilassare un po’».«Non è così che si fa», mi rinfacciò, incrociando le braccia, irritata. Io ridacchiai.«Smettila di pensarci», le dissi, cercando di mantenere un tono scherzoso. «Peggiorerai

solo le cose. Pensa a tutti i motivi per cui non ti bacio».Abbassò lo sguardo. «Giusto», sussurrò, curvando le spalle.Feci una smor fia. Avevo detto la cosa sbagliata. «Non intendevo quello. Intendevo solo

che…».«Va bene», disse, alzando lo sguardo verso di me. Sorrisi a mo’ di scuse. «Finisci di

farmi le unghie, per favore?»«Cer to. Ne mancano solo un paio», tornai a sedermi e mi sistemai il piede di Emma sulla

coscia.«Che cavolo stai facendo, Evan?».Sollevai lo sguardo e vidi Sara, che mi fissava come se stessi violando qualche legge

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femminile o simili. «Finisco quello che hai cominciato», le dissi, mettendo lo smaltosull’ultima unghia. Spostai il piede di Emma sulla sdraio, prima di rimettere il pennellonella boccetta. «Ecco qui. Tutta… viola».Emma sorrise dolcemente, incrociando il mio sguardo. «Grazie», disse sinceramente.

Annuii ed entrai in casa.«Ehi, Evan», mi disse Meg mentre passavo accanto a lei e Serena sul divano. «Pensi che

ai ragazzi andrà di giocare a carte stasera?»«Posso chiederglielo».Si scambiarono occhiate maliziose. Emma aveva ragione: avevano in mente qualcosa.

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«T

35Brutale sincerità

J, non sentiremo questa robaccia tutta la sera», minacciò Jared, por tando in verandaun altoparlante dalla sala giochi.

«Lasciamo decidere alle ragazze», disse TJ. «A proposito, dove sono? Pensavo chesarebbero venute insieme a te».«Stanno arrivando. E sarai in minoranza, TJ», gli dissi. «Meg è l’unica che starà dalla tua

parte».«Sara…».«Ha una parete piena di chitarre elettriche», concluse per lui Jared.«Come vi pare. Metteremo la vostra musica appena arrivano», si arrese TJ, riluttante.«Benvenute, ragazze», sentii dire da Brent in cucina, che salutava le ragazze con il suo

inutile tono seduttivo. «Spero che siate pronte per i margarita e il poker».

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«Cioè adesso», sorrise Jared a TJ, e la musica cambiò all’istante.La por ta sulla terrazza si aprì, e Brent scor tò le ragazze in veranda, con due brocche in

mano. Io stavo sistemando le sedie attorno al tavolo da poker quando vidi Emma. Sapevoche mi sarei dovuto tenere a distanza. Ma era praticamente impossibile. Ero attratto da lei,dovevo stare accanto a lei, che fosse giusto o no.«Ciao», dissi con un sorriso quando arrivò in fondo alle scale.«Ciao», sorrise lei.«Penso ancora che dovremmo giocare a strip poker», disse Brent, mettendo una brocca

di margarita su ogni tavolo.«Mi piace!», disse Serena. Emma li guardò come se fossero pazzi. «Che c’è, Em?! Il

poker normale è noioso se non sai giocare. Così è tutto più interessante».«Ti ho detto quanto ti amo, vero?», disse Brent a Serena, mettendogli un braccio attorno

alle spalle. Poi si accorse di James che lo fissava, e si spostò. «Scusa, amico».«Volete davvero giocare a strip poker?», chiesi, aspettando che James reagisse. Non lo

fece.«Serena non ha remore ad andare in giro nuda», disse Meg a mo’ di spiegazione.«Strip poker?», chiese Jared, neanche lui particolarmente entusiasta dell’idea.«Con una modifica», aggiunse Serena improvvisamente.«Si danno cinque carte. Si possono sostituire tutte le carte tranne una, poi tutti

le scoprono, e chi vince sceglie due persone. Queste persone possono sceglierese togliersi un indumento oppure se rispondere a una domanda difficile», spiegòsubito James.

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«Sei d’accordo con loro?», sbottai.«L’ha proposto Serena, e io ho suggerito un paio di cambiamenti alle regole in

modo da non doversi spogliare per forza», disse con noncuranza. «Non sonoproprio contentissimo di vedere la mia ragazza che si spoglia di fronte a tutti,nonostante sia a proprio agio con il suo corpo. E un’altra regola: se tocchi unaragazza, ti spacco la faccia». Fissò Brent, il cui sorriso impaziente sparì.«Cer to, perché no». Emma e Jared non sembravano molto contenti che Sara fosse

d’accordo. «Non preoccupar ti. Sono brava a poker, ricordi?», disse Sara a Jared perrassicurarlo.«Farai meglio a preparar ti a essere molto sincera, stasera», disse Jared. Sara lo baciò

sulla guancia e sorrise.«Te l’avevo detto che avevano in mente qualcosa», mormorò Emma sottovoce.«Non siamo costretti a giocare», proposi.«Va bene così», mi rassicurò. «Sembra che tutti vogliano farlo, e allora perché no?

Posso rispondere alle domande, immagino».Probabilmente per Emma rispondere a delle domande sarebbe stato più difficile che

togliersi i vestiti.«Sei sicura?»«Sì, andrà tutto bene», rispose, senza convinzione.«TJ!», urlarono due ragazze in cima alle scale.«Ehi!», le chiamò TJ. «Tempismo per fetto. Stiamo per cominciare un nuovo gioco. È

una variante di strip poker, con un po’ di “obbligo o verità” in mezzo».

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«Spogliarello o verità», propose Nate.«Ooh, sembra divertente», esclamò fin troppo eccitata la ragazza con la coda di cavallo.«Vedi, vendono shorts così corti», mormorò Emma accanto a me.«Su di te stanno meglio», dissi automaticamente. Mi diede uno buffetto sul braccio e se

ne andò.«Chi sono queste ragazze?», chiese Sara a Meg mentre mi avvicinavo a loro al

tavolo da poker.«Non lo so. Amiche di TJ, immagino», disse Meg. «Siamo ancora sicuri di voler

giocare?»«Se questo è il vostro modo di aiutarci a migliorare le cose, allora è pessimo»,

intervenni.«È solo un gioco», disse Sara, cercando di convincermi. «Nessuno verrà torturato

finché non confesserà i propri peccati, promesso».La gente cominciò a prendere posto mentre TJ faceva le presentazioni. «Loro sono

Darcy e Kim. Darcy e Kim, loro sono… tutti».«Ciao», salutarono all’unisono, affiancando TJ.«Va bene se spegniamo le luci?», chiese Emma.Nate spense le luci della veranda e della piscina, facendoci piombare nel buio delle

colline finché non accese un paio di candele. Ora ci vedevamo tutti in faccia, mostrandosolo un accenno dei nostri corpi.«Va meglio?», chiese Sara. «Allora giochi?».Mi morsi il labbro e annuii. Eppure non ero sicura di cosa sarebbe stato più

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difficile: vedere Evan a petto nudo, o dover essere totalmente sincera suimomenti umilianti della mia vita.«Sei sicuro di riuscire a rispondere alle domande che riguardano me?», chiesi a

Evan, che era seduto accanto a me.Lui sorrise. «Sì, ce la posso fare».Stavo cercando di controbattere al tentativo non proprio sottile delle ragazze di

interferire con quello che stava succedendo tra Evan e me. Per quanto fosserassicurante che le ragazze tenessero a me e mi volessero felice, non avevanoidea di quanto fossero complicate le cose.«C’è un limite di cinque capi di vestiario, e dobbiamo sederci a posti alterni: un ragazzo

e una ragazza e così via», spiegò Serena.«Ma io ho solo un capo di vestiario», si imbronciò la bionda con il vestito giallo.Sara aprì la bocca per dire qualcosa, e dallo sguardo nei suoi occhi non sembrava che

volesse offrirle altri vestiti. TJ interruppe il suo assalto con: «Puoi contare anche le scarpee gli orecchini, Kim».«Oh, buona idea. Grazie, TJ!».Emma si coprì la bocca, cercando di nascondere una risata.Nate mischiò due mazzi, e notai che Emma dondolava le gambe per l’ansia, e si mordeva

il labbro.«Tieni, questo ti aiuterà». Brent le diede un margarita, spostando la sedia in modo che

quasi toccasse quella di lei. Emma esitò, poi bevve un lungo sorso.Lanciai a Brent un’occhiata di avver timento, e lui spostò di nuovo la sedia di qualche

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centimetro verso Kim.Le “amiche” di TJ sembravano più interessate a togliersi i vestiti che a

rispondere alle domande, così in pochissimo tempo erano nude e in piscina, conTJ e Brent al seguito. Fino a quel momento le domande non erano stateterribilmente invasive, ma d’altronde, non me ne era ancora stata fatta nessuna.Poi, quando Serena vinse per la prima volta, chiese: «Emma ed Evan, nudi o

verità?».Mi preparai. «Verità».«Verità», ripeté Evan.«Qual è il vostro più bel ricordo delle superiori?», chiese Serena, fissandoci.Mi stava davvero costringendo a farlo, vero?«Non è una domanda molto indiscreta», si lamentò Darcy.«Ehi! Niente lamentele dai perdenti nudi in piscina!», urlò Sara.Sapevo cosa stava facendo: stava cercando di farmi ricordare un momento con

Evan, ma non le avrei dato quella soddisfazione. «La sera della mia prima partitadi calcio. Sono rimasta a dormire da Sara, e lei si è esibita in una delle suefamigerate sessioni di trucco. E mi ha anche tagliato i capelli».«Sei stata tu?», disse Evan a Sara.«Sì», rispose Sara, orgogliosa.«Bello», annuì Evan, con gli occhi persi nel ricordo. «La sera che il rosa è

diventato il mio colore preferito».Rimasi seduta immobile, cercando di non reagire. Sara sorrise, con gli occhi che

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le brillavano. «Colpa mia».Evan rise.Dovetti raffreddarmi le guance con il drink ghiacciato. Evan stava approfittando

del loro gioco. «Che stai facendo?», lo supplicai. I suoi occhi tremolavano,confusi.«Evan?», intervenne Serena, interrompendolo mentre cercava di interpretare la

mia espressione. «Tocca a te».«Il mio ricordo più bello non è proprio delle superiori. È stata la sera degli esami di

ammissione». Prima che potessi continuare, Emma cominciò a tossire rumorosamente.Quando si alzò dal tavolo, la seguii.Quando mi avvicinai abbastanza, smise di tossire.«Evan, sul serio, che stai facendo?»«Cosa? Sei stata tu a chiedermi di rispondere alle domande».«Ma non devi essere così sincero», disse in un sussurro urlato.«Emma, loro non sanno di cosa parlo. E poi, credo che la sincerità possa farci solo bene

in questo momento», sottolineai. «Che abbiamo da perdere?».Mi guardò scioccata, incapace di credere che lo avessi detto. Mi stavo chiedendo anch’io

come mi fosse venuto fuori.«Vuoi la sincerità?», mi s fidò. Tornò al tavolo, afferrò lo schienale della sedia e

annunciò: «Voglio ritirare la mia risposta».«Lo sapevo che quello non era il tuo ricordo più bello», sorrise Sara.«Ero nell’aula di arte, ed Evan era appena tornato da San Francisco e…».

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«È tutto quello che hanno bisogno di sapere», la interruppi, comprendendoimmediatamente la sua avversione alla troppa sincerità.«Ho capito», sussurrai, tornando a sedermi.«Lo sapevo», mi prese in giro.«Ok, allora», intervenne Jared. «Chi deve dare le carte?»«Io», dissi.Meg vinse la mano successiva e scelse Jared ed Evan. Jared si tolse la maglietta,

ed Evan scelse di rispondere a una domanda. Viste le domande, avrei preferitoche si togliesse la maglietta.«Se dovessi scegliere tra Jared ed Emma, chi sceglieresti?».Evan la fissò a bocca aperta, incredulo. «Che razza di domanda è?»«Una difficile – questo è il punto».Evan rimase immobile, spostando lo sguardo da me a Jared. Ogni volta che

apriva la bocca, non veniva fuori niente.«Meg, è una domanda impossibile», accusò Sara, cercando di alleggerire la

tensione.Jared rimase sconvolto come me nel vedere Evan così indeciso, e ci fissammo

meravigliati.«È tuo fratello, no?», dissi a bassa voce. «È giusto così, Evan».Ma lui continuò a lottare con la risposta.«Be’, è un bene che non siamo intrappolati in un incendio», rise Jared.

«Saremmo morti entrambi, se Evan fosse fuori a decidere chi salvare».

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«Lascia perdere, Evan», disse Meg, sorridendo con gli occhi. «Non vogliamo cheti venga un aneurisma nel dubbio. Che ne dici di questa – quale è stata la tuaprima impressione di Emma?».«Meg!», urlai. Lei sorrise.Serena si avvicinò, in attesa della risposta. Io rovesciai la carta che era sul

tavolo davanti a me, incapace di guardare negli occhi nessuno.«Un altro margarita?», offrì Nate, allungandomi una brocca fresca per riempirmi

il bicchiere.«Grazie», accettai, cominciando a sentire gli effetti dei primi due bicchieri, ma

non abbastanza da allentare l’ansia nello stomaco.«La prima volta che mi ha parlato, mi ha sgridato», disse Evan.«Non ti ho sgridato», mi difesi.«Sì, invece», disse Sara, seguita dalle risate degli spettatori. «Era la prima volta

che ti abbiamo mai sentito litigare con qualcuno in classe. È stato pazzesco».Guardò Evan e disse. «Scusa. Vai avanti».«Mi aveva preso di mira fin dall’inizio. La sua tenacità mi intrigava, e volevo

sapere tutto di lei», disse Evan. «E lo voglio ancora», aggiunse sottovoce così chesolo io potessi sentirlo. Presi un sorso dal mio bicchiere.Meg vinse anche la mano successiva, ed era ancora tutta vestita.«Dimmi qualcosa che sai di Sara e che non sa nessun altro», chiese a Jared, che era

rimasto in pantaloncini.«Ha una voglia nell’interno coscia», disse Jared senza esitare. Sara scrollò le spalle.

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«Sara, qual è una cosa di Emma che nessun altro sa?».Sara esaminò Emma, pensando a tutti i segreti che conosceva, mentre le guance di

Emma diventavano rosse nell’attesa.«In seconda media, subito dopo essersi tras ferita a Weslyn, diede fuoco accidentalmente

al maglione della signora Flynn durante il laboratorio di biologia che facevamo dopo lascuola per avere dei crediti ex tra». Emma affondò nella sedia, coprendosi gli occhi perl’imbarazzo. «Riuscì a spegnere il fuoco prima che la signora Flynn tornasse in classe. Lapar te migliore è che lo appese allo schienale della sedia come se non fosse successoniente, e il giorno dopo la signora Flynn lo indossò in classe senza accorgersi del bucosulla schiena».Jared rise. «Come diavolo hai fatto a dare fuoco al maglione?»«Stava cercando di mostrarmi come bruciare i pelucchi della lana, e all’inizio era

piuttosto figo; poi ha cominciato a bruciare», ridacchiò Sara.«Sì, è vero», ammise Emma, guardandomi con la coda dell’occhio.«Mi ha fatto morire dalle risate», ricordò Sara. «Sapevo che saremmo diventate amiche

per forza dopo questa cosa».«Wow», dissi con un sorrisetto. Emma si morse il labbro.Continuammo a giocare, e io vinsi la mano successiva e scelsi Meg e Sara, che si tolsero

con nonchalance gli shor ts. Come vendetta, Jared scelse Emma e Serena quando vinse lamano successiva. Quando Serena si tolse gli shor ts, mostrando la lunghezza delle suegambe d’avorio, James le mise protettivamente una mano sulle cosce bianchissime.«Verità», scelsi, sollevata che fosse Jared a fare le domande.

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«Se potessi farla franca a fare una cosa illegale, quale sarebbe?», chiese,scherzando.In un lampo, non riuscii a vedere altro che sangue, un viso sfigurato e una

sagoma immobile sul pavimento. Mi sentii impallidire. Meg mi guardò sorpresa.Mi strofinai le mani sudate sulla gonna.Un sudore freddo mi attraversò la schiena. Mi alzai dal tavolo di scatto e me ne

andai senza dire una parola.«Emma!», mi chiamò Sara.Non mi voltai. Dovevo scacciare quelle immagini. Jonathan che picchiava

ripetutamente quell’uomo. Il sangue che macchiava il pavimento nel punto in cuilo aveva sollevato. Le mie mani che stringevano il volante mentre Jonathanripuliva l’auto dalle impronte. Era l’unico segreto che ero stata capace dimantenere, chiuso nelle viscere più profonde – per poi essere liberato da unadomanda innocua.«Emma!», urlò di nuovo Sara, correndo per raggiungermi mentre raggiungevo il

marciapiedi. «Che significa? Che succede?».Non potevo. Scossi la testa e continuai a camminare, allontanando tutti.«Emma, fermati», chiese disperata. «Ti prego, ti prego. Dimmi cos’è successo».

Mi prese per il braccio, e io mi girai. Sara trasalì vedendo lo sguardo indurito sulmio viso. «Ti prego, dimmi cosa è successo».Vidi Evan che ci guardava dal marciapiede.«Torno a casa», dissi d’un fiato, girandomi. «Non gioco più».

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«Ok», rispose lei. «Posso venire con te?»«Se vuoi. Ma non ne voglio parlare», le dissi con decisione.«Va bene», accettò Sara. Urlò a Evan: «Emma e io torniamo a casa».Annuì ma rimase sul marciapiede, seguendoci con lo sguardo. Continuai a

camminare, e Sara mi accompagnò in silenzio.Proprio quando pensavo ci fosse un modo per proteggermi da tutte le mie orribili

scelte, mi era stata ricordata con dolore l’unica da cui non sarei mai potutascappare.

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S

36Sempre tu

ara uscì ore dopo dalla stanza di Emma e mi disse che sarebbe andato tutto bene. Tuttoqui. Poi se ne andò di sopra con Jared.

Non c’era niente che poteva andare bene in quello sguardo inorridito negli occhi diEmma quando Jared le aveva fatto quella domanda. Si era scusato un milione di volte, maancora non riuscivo a parlargli. Di tutte le domande che avrebbe potuto fare, dovevascegliere proprio quella a una ragazza che era sopravvissuta allo strangolamento. Laragazza che per anni era stata tormentata per mano di una sadica.Non potevo arrabbiarmi con lui. Non pensava al passato di Emma, ma solo alle risposte

diver tenti che qualsiasi altra persona avrebbe dato. Non aveva idea che avrebbe reagito inquel modo. Quando si era alzata dalla sedia, tremava da capo a piedi. Sara l’avevaraggiunta prima di me, e perciò doveva essere lei a consolarla. Io rimasi indietro, e glielo

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lasciai fare.Ora però non riuscivo a dormire. Volevo sapere come stava. Stendermi accanto a lei e

stringerla. Sapevo di poterla far sentire al sicuro, se solo me l’avesse permesso. Maqualcosa mi costrinse a rimanere sull’amaca, a fissare le stelle, invece di bussare alla suaporta. C’erano ancora troppe cose che non ci eravamo detti.Mi diedi la spinta, facendo ondeggiare gentilmente l’amaca mentre scrutavo il cielo

scuro, con le stelle che si muovevano sotto il rapido velo di nubi. Non ero ansioso diraccontarle cosa mi era successo quando se n’era andata. Sapevo che doveva saperlo, maquesto non mi facilitava le cose. Forse però, se mi fossi aper to, lei avrebbe fatto lo stesso– e mi avrebbe detto quello che continuava a nascondermi.Il messaggio di Jonathan mi faceva rivoltare lo stomaco. Da quando l’avevo letto, non

riuscivo a togliermi dalla mente quelle parole.Ti perdono. Mi manchi. Darei qualsiasi cosa per sentire la tua voce adesso.Non mi era mai piaciuto… e non mi ero mai fidato di lui. A quanto pare, avevo una

buona ragione. Lei si era confidata con lui. Si era fidata di lui come non aveva mai fattocon me. Ma c’era dell’altro…Ti prego, dimmi che mi perdoni.Era successo qualcosa, e prima che potessimo andare avanti, prima che potessimo

perdonarci completamente, lei doveva dirmi cos’era. Adesso lui non era qui con lei. E, aquanto sembrava, non aveva intenzione di tornare nella sua vita. Ma qualsiasi cosa avessefatto, l’aveva cambiata.Non riuscivo a dormire. Fissai il buio, pensando a Jonathan. Il cuore mi

martellava forte nel petto, continuavo a sentirmi addosso la violenza persistente

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a cui avevo assistito. L’avevo scacciata per due anni, rifiutando di pensare a ciòche avevamo fatto. Volevo credere che proteggerlo fosse la scelta migliore.Avevo tenuto nascosti i segreti di Jonathan come i miei, come avevo promesso –convincendomi che il mio silenzio fosse giustificato. Tremavo al ricordo dei restibruciati della casa dove era morta la sua famiglia, arsa viva. Vedevo ancora ildolore nei suoi occhi quando mi aveva confessato l’incendio. Non c’era nessunapunizione che potesse distruggerlo di più del suo senso di colpa e del suo dolore.Sapevo che cosa poteva fare quell’odio a una persona. Quel veleno micontaminava ancora le vene.Avevo bisogno di aria fresca. Presi una coperta dal letto e andai in veranda. Mi

avvolsi nella trapunta, ma fece ben poco per tenere alla larga i brividi. Miconcentrai sul cielo nuvoloso, chiedendomi dove fosse ora Jonathan, e se le lorourla infestassero ancora i suoi sogni. C’era una parte ansiosa di me che nonriusciva a lasciarlo andare. Una parte di me che aveva ancora bisogno di trovarlo,anche se non avevo idea da dove cominciare.Le mie orecchie colsero un cigolio. Ascoltai attentamente e lo sentii di nuovo.

Aprendo il cancello, camminai in silenzio verso la terrazza principale. Evan erasteso sull’amaca, si dondolava lentamente.«Ciao», dissi, spaventandolo. Lui sobbalzò e praticamente rovesciò l’amaca. Io

feci una smorfia. «Scusa».«Niente», mi rassicurò, facendo finta di niente. «Adesso so come ci si sente

quando succede».

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«Simpatico», commentai con una smorfia. «Non riesci a dormire?».«No. Stavo pensando», spiegai. «E tu?».«Lo stesso», rispose, avvicinandosi, con una leggera coper ta verde avvolta attorno alle

spalle.«Vuoi parlare di quello che è successo stasera?», proposi quando si avvicinò, rimanendo

in piedi vicino all’amaca.I suoi occhi in penombra tremarono mentre rifletteva. «Non sono sicura di riuscirci».«Puoi sederti all’altro capo, se vuoi», mi feci da un lato sull’amaca.Emma si sistemò sul bordo, spostandosi verso il centro per non farci ribaltare. Si

appoggiò all’indietro e piegò le ginocchia, con i piedi sul mio lato.«Ti va di dirmi una cosa che ho sempre voluto sapere?», chiesi, avendoci pensato

tantissime volte nel corso degli anni.«Cosa?». La sua voce era attenta e tranquilla. Sentivo quanto era tesa. Si strinse ancora

di più nella coperta come per proteggersi.«Come sono i tuoi incubi?», chiesi, riflettendo sulle notti che ero stato al suo fianco

quando si era svegliata terrorizzata e urlante. Il suo strazio mi aveva sempre perseguitato.Non potevo proteggerla da ciò che la aspettava nel sonno.Emma fece un sospiro, espirando dalle labbra socchiuse.Era passato più di un anno da quando avevo avuto un incubo. Ma da quando

avevo smesso, era aumentato il senso di vuoto. Non potevo essere tormentatadalle immagini della mia morte se non avevo più paura di morire.«Sognavo di morire», spiegai, cercando di mantenere la voce calma. «Venivo

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uccisa in qualche modo, ogni volta, e mi svegliavo appena prima del mio ultimorespiro. Ma era così reale: la paura e l’impotenza, non riuscire a scappare dalei…».«Lei?», ripeté Evan, con una punta di veleno nella voce. «Erano su Carol?».Rabbrividii, il suo nome mi trafiggeva come una lama affilata. «Di solito sì».«Detesto quella donna», disse con voce agitata. «Non sai quanto sono stato

vicino a farle del male, quella notte».Mi spinsi sui gomiti, dondolandoci leggermente.«George lo sapeva. Me l’aveva letto negli occhi e si mise tra di noi, per paura

che non riuscissi a controllarmi. Mi concentrai su di te per mantenere la calma.Ma se tu non avessi ripreso a respirare. Se tu fossi…», deglutì. Sentii il suo corpoirrigidirsi sull’amaca.«Ehi», lo richiamai. «Ora sono qui». Gli misi una mano sulla gamba.«Perché ti odiava così tanto? Perché voleva farti del male?».Riempii i polmoni di aria fresca e umida. «Non lo so».«Non vuoi scoprirlo? Non vuoi capire cosa l’ha resa una tale stronza

psicopatica?». Le parole di Evan erano colme di rabbia repressa.«No», risposi, con voce bassa. «Non c’è una scusa o una spiegazione al mondo

che possa avere senso, che mi possa aiutare a capire perché mi ha fatto delmale. Non ho bisogno di perdonarla. Devo capire come continuare a vivere –altrimenti avrebbe dovuto uccidermi».Sollevai la testa. «Cosa? Perché dici una cosa del genere? Non penserai che meritavi di

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morire? Vero, Emma?», chiesi, con il petto che martellava.«Non direi proprio così», rispose, con voce monotona e distante, come se parlasse di

qualcun altro. «Non sono sicura di cosa merito. Ma so che vivendo non sto facendoproprio un buon lavoro».Ero disturbato dal suo tono sconfitto, ma prima che potessi dire niente, aggiunse: «Ho

un tatuaggio che me lo ricorda. L’ho disegnato quando avevo ancora degli incubi.Dovrebbe impedirmi di perdermi. Aiutarmi a tenere duro».«Posso vederlo?».Emma si mise a sedere, e io mi misi a cavalcioni sull’amaca, tenendo i piedi sul

pavimento perché restasse ferma. Lei si mise tra le mie gambe con il fianco sinistrorivolto verso di me, tirandosi su la T-shir t per mostrare l’inchiostro inciso sotto le suecostole. Tirai fuori il telefono dalla tasca per fare abbastanza luce da vedere i dettagliintricati della luna calante con un profilo maschile che dormiva. Tutto il contorno eraformato dalle stesse parole ripetute di continuo: «È solo un sogno». La scrittura eradelicata e scorreva in una ripetizione ciclica, fino al punto più basso. Un blocco di paroleinterrompeva la perfezione. «Apri gli occhi e vivi».Allungai le dita e s fiorai l’altalena che pendeva da quelle parole, piccole e delicate. La sua

pelle esplose in un brivido al mio tocco.«Forse dovrei farne uno che dica “Non smettere di respirare”», mormorai, mentre si

abbassava la maglietta. Si voltò verso di me con un movimento improvviso.«Quando hai detto che nei tuoi incubi me n’ero andata, intendi dire che ero morta?».Preferii non riflettere sulle troppe notti in cui ero arrivato troppo tardi, trovandola pallida

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e immobile. «Non sempre», ammisi con riluttanza. «A volte non riesco proprio a trovar ti,per quanto ti cerchi ovunque. Mi sveglio terrorizzato. Altre volte… quando non arrivo intempo… sento come se qualcuno mi stesse strappando il cuore».Non riuscivo a respirare mentre i suoi occhi frugavano in quelle notti di

disperazione. Potevo solo immaginare cosa volesse dire essere svegliati da unincubo, per poi scoprire che era vero. Passai la mano sulla sua guancia, e i suoiocchi si concentrarono sui miei, sorpreso dal mio tocco.«Non voglio che mi odi. Voglio che mi perdoni», sospirai. «Voglio che mi ami di

nuovo». I suoi occhi si accesero. «Ma non so come fare, se non riesco aperdonarmi io». Mi fermai, con le labbra che tremavano. «Si torna sempre alperdono, vero?»«Sì», sospirò, prendendomi le mani e stringendole contro la pelle calda. «Non ho

mai smesso di amarti, Emma. Solo, non so come amarti abbastanza».Una lacrima mi spuntò sulla guancia. «Perché dici una cosa del genere?»«Se l’avessi fatto, ti saresti fidata di me».Chinai la testa, tirando via la mano. «Ho paura. Ho tanta paura che se vedessi

chi sono davvero, mi odieresti. E non posso lasciare che accada. Esisto solo graziea te, Evan. Mi hai salvato più volte di quante credi. Ho tanta paura di nonmeritare quel respiro che mi hai dato. Voglio essere una ragazza migliore diquella che hai davanti. Voglio meritarti, per lasciarmi amare. Solo, non so come».«Non devi lasciarti amare, Emma. Io ti amo già. Devi solo ricambiarmi. Con tutto

quello che hai. E tutto ciò di cui ho bisogno. Ho bisogno di te. Tutta».

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La cruda intensità delle nostre parole finalmente libere era estenuante. Ero terrorizzatoed euforico allo stesso tempo. Finalmente si stava aprendo, si stava mostrando a me, enon le avrei potuto chiedere di essere più sincera. Allo stesso tempo, però, ero turbato daquello che diceva. E avevo paura di quello che avrei potuto scoprire.C’era una tristezza straziante nei suoi occhi. Emma scivolò via da me e giù dall’amaca.

La guardai incamminarsi verso le scale, quando si voltò ad aspettarmi. La seguii inspiaggia, accompagnato dal suono delle onde che si infrangevano sulla spiaggia.Camminammo per un po’, fissandoci i piedi.«Devo essere sincero con te», la mia voce finalmente bucò il silenzio. «Se avremo la

possibilità di andare avanti, allora devo dir ti tutto quello che è successo dopo che te ne seiandata. Non sarà facile sentirlo, ma ho bisogno che ascolti… tutto».«Ok», rispose piano, con la voce quasi spazzata via nella brezza dell’oceano.Mi misi a sedere sulla sabbia, e lei si mise accanto a me. Sentendo la pressione del suo

corpo rannicchiato sul mio braccio, fissai le onde che scorrevano.«Quando mi hai lasciato in quel modo, in quella casa. Quella casa orribile. Ero così

arrabbiato. Non riuscivo a capire come avessi potuto sparire dalla mia vita senza unaparola. Quella rabbia ha sopraffatto ogni altro sentimento che provavo per te. Volevodimenticarti. Ero convinto che avessi scelto lui».«Jonathan?»«Già», risposi, cercando di rilassare le spalle. «Non sapevo cosa pensare. Ma dopo

quello che aveva detto quella sera, su come ti eri confidata con lui, sui segreti di cui nonmi avevi mai parlato… l’ho dato per scontato».

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«Non era così», insisté.«E allora com’era, Emma? Che è successo tra voi due?», la supplicai. «Lo amavi?»«No, non lo amavo». I suoi occhi erano scintille che tremavano nel buio.«Ma lui amava te», dissi in un sussurro.«Pensava di amarmi». Distolse lo sguardo. «E ci tengo a lui».«Ancora adesso?», chiesi. Lei non rispose. Strinsi i punti sulle ginocchia, con l’sms che

mi compariva davanti agli occhi.«Perché lui è riuscito a perdonar ti, e tu non vuoi essere perdonata da me?», chiesi, con

l’irritazione che cominciava a riemergere nella mia voce. Emma si voltò verso di me, congli occhi spalancati per lo shock. Volevo che me lo dicesse. Ne avevo bisogno. «Mi diciche è successo?».Gli occhi di Emma si riempirono di lacrime. Lei scosse leggermente la testa e tornò a

guardare l’acqua.Chiusi gli occhi per riprendermi e le feci un’altra domanda che mi stava tormentando.

«Che cosa diceva quella lettera, Emma?».La rabbia era ancora evidente nella voce di Evan.«Sai della lettera?». Mi si chiuse lo stomaco. Evan sapeva molto di più del

previsto… praticamente su tutto.«Ho trovato la busta, e ho messo a soqquadro lo studio di mia madre per

cercare il resto. Non ne abbiamo mai parlato, e lei non me l’ha mai detto. Almenofino alla scorsa settimana, quando ha ammesso che esisteva. Quella lettera hacambiato la mia vita. Penso di meritare di sapere cosa diceva».

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Appoggiai la fronte alle gambe. «Non importa più».«Non voglio essere arrabbiato, Em. Voglio perdonarti. Ma prima dobbiamo

essere sinceri… su tutto. Non capisco ancora come hai potuto pensare chelasciarmi non mi avrebbe distrutto. Perché invece l’ha fatto. Non mi avresti potutofare più male».Soffocai un singhiozzo e strinsi più forte le ginocchia.«Lo so che è difficile. Ma ho bisogno che continui ad ascoltarmi, d’accordo?»«Sto ascoltando», mormorai, con un filo di voce.«Dopo che te ne sei andata, i professori hanno inventato qualche bugia sul fatto

che avevi scelto di andare a Stanford prima, e per questo non avresti partecipatoalla consegna dei diplomi. Ma lo sapevano tutti. Erano tutti alla festa a cui nonsiamo mai arrivati. Hanno visto la mia faccia quando sono tornato da Cornellqualche giorno dopo. Alla consegna dei diplomi le mie ferite erano a malapenaguarite. Nessuno conosceva i dettagli, ma hanno immaginato che qualsiasi cosami fosse accaduta avesse a che fare con la tua partenza. E poi… ho dovuto farequel fottuto discorso, il discorso di commiato che avresti dovuto fare tu».«E Ben? Doveva fare lui il discorso di benvenuto», chiesi, sentendomi sempre

peggio man mano che parlava.«Si è rifiutato», scrollò le spalle Evan. «Non so bene i dettagli, ma ho finito per

fare un discorso che avrebbe dovuto incoraggiare tutti a inseguire i propri sogni.Come potevo convincerli a inseguire il futuro quando io non riuscivo a vedere adue passi di distanza? È stato un disastro. E poi sono andato a Yale. Non volevo

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avere niente a che fare con te, quindi sulle prime non ho protestato. Non nevaleva più la pena. La settimana frequentavo i corsi, e i fine settimana li passavoa casa… con Analise».«Analise?», mi si spezzò la voce.Alzai gli occhi verso il cielo e raccolsi le idee. Sapere quanto le stessi facendo male mi

uccideva, ed era il motivo per cui non volevo rivelarle quelle cose. Ma ero convinto chefosse l’unico modo per riuscire finalmente a guarire.«È sempre stata una buona amica. Ci teneva a me. E così abbiamo passato del tempo

insieme, e lei ha provato a farmi dimenticare di te. E io l’ho lasciata fare. A Natale lamaggior par te della mia rabbia era sparita. Ma a quel punto volevo delle risposte. Avevobisogno di veder ti, di chieder ti perché. Ho provato a venire qui durante le vacanze, ma imiei genitori non mi hanno permesso di toccare i miei risparmi, e alla fine mio padre,quando ha capito quanto ero determinato, mi ha tolto la macchina. Non potevoraggiunger ti. I McKinley erano evasivi come tutti gli altri, e Sara non mi rispondevaneppure al telefono. Sono stato così crudele con lei dopo che te ne sei andata:praticamente mi sono vendicato su di lei, costringendola a evitarmi completamente –anche quando lei e Jared stavano ancora insieme. Non ero in me, e stavo trascinando tuttigli altri con me nel mio dolore».Mi fermai per guardarla. Emma si stava stringendo le ginocchia al petto, tremava.«Stai bene?», le chiesi per rassicurarla. Ma non riuscii a toccarla… non ancora.«Vai avanti», mormorò, con voce rotta.La stavo tor turando. Il senso di colpa era il suo veleno, e io glielo stavo versando in

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gola. Continuai con la sincerità, sperando che alla fine lei potesse dimenticare tutto.«Analise ha provato a razionalizzare, a convincermi che era una tua scelta e che dovevo

rispettarla e lasciar ti in pace. Ma lei non ti conosceva – non come me. È stato difficile perlei starmi vicina in quei momenti. Penso sia stato proprio all’inizio dell’anno, dopo cheabbiamo cominciato a uscire insieme. Lei stava finendo l’ultimo anno, e io… non facevogranché. Se non ci fosse stata lei lì a costringermi, certi giorni non sarei neppure sceso dalletto. Non posso neanche immaginare cosa sia stato per lei. Non ho idea del perchévolesse avere a che fare con me».Il pensiero di lei che lo confortava, convincendolo a lasciarmi stare, mi fece

desiderare che mi scoppiasse il cuore. Mi strinsi le gambe ancora più forte pernon cadere a pezzi.«Ci ha provato», proseguì, per quanto volessi che smettesse. «Ma non era come

te. E finché avessi saputo che tu eri da qualche parte là fuori… non avrei potutolasciarti andare prima di avere le risposte di cui avevo bisogno. O almeno miconvinsi di questo. Quando ha visto la mia richiesta di trasferimento a Stanford,era distrutta. Ha pensato che volessi andarmene per te. E in qualche modo,immagino fosse così. Aveva tutto il diritto di odiarmi. Ma poi, inspiegabilmente,mi ha perdonato. Qualcosa è andato storto con il trasferimento. Avrei dovutosospettare qualcosa, ma non lo feci. Alla fine lei mi ha confessato di aver ritiratola richiesta perché voleva impedirmi di essere ferito di nuovo. Ero furioso: eradiventata un’altra persona che prendeva decisioni al posto mio. Così ho smesso diparlarle, e non ci siamo più visti… be’, almeno fino a quando non è venuta a casa

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mia il giorno del funerale di Rachel».«È venuta da te?», chiesi, scioccata. «Perché?»«Sapeva che eri a Weslyn per il funerale. Forse voleva starmi accanto, in caso

io… Ma… io volevo stare accanto a te».«Tu la… la amavi? No, lascia stare. Non…», mi bloccai, serrando i denti. «Non

voglio pensare a te con lei».«Mi dispiace», disse in tono rassicurante. «So che inconsciamente è il motivo per

cui l’ho fatto. Per ferirti. Ed è una cosa folle. Ma è stata una buona amica, Em, perquanto non ti piacesse».«Lo so», mormorai.«Perciò, vedi, non sono perfetto. Ho fatto cose piuttosto orribili alle persone a

cui tenevo. Ho rovinato una buona amicizia con Analise. Sono andato a letto conCatherine, anche se non mi è mai importato nulla di lei, e non mi è neanche maipiaciuta. È stata solo un’altra voce nella lista delle scelte catastrofiche. Tuttoperché volevo disperatamente dimenticare te. Ma sono stato io a fare quellescelte. La tua scelta è stata di andartene. Le altre le ho fatte io».Il mio corpo tremava quando mi chinai in avanti per piangere tra le mie braccia.Non volevo più farle del male. C’è un limite alla sincerità che una persona può

soppor tare, e lei aveva raggiunto quel limite. Ma non avevo finito. Sapevo che se nonfossi andato fino in fondo, lei non avrebbe capito, e avrei rischiato di perderla per sempre.«Gli incubi sono cominciati la scorsa estate, quando ho capito che non sarei andato a

Stanford in autunno. Avevo rotto con Analise, ed ero convinto che tu non saresti mai

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tornata. Volevo andare avanti, provare a vivere una vita senza di te, ma non stavovivendo. Emma…». Lei sollevò il viso coper to di lacrime. «Non posso vivere senza di te.E tu non puoi vivere senza di me. Siamo insieme in questa vita. Senza l’altro, è come senon vivessimo».«Perché mi dici tutto questo?», chiesi con voce rotta. «Perché sappi che fa male

pensare a te con… loro, e sapere cosa ti ho fatto. È come se mi stessi stritolandoil cuore a mani nude. So che me lo merito. Ma perché me lo stai dicendo?»«Perché dobbiamo sempre essere sinceri, anche quando è difficile. E tu devi

sapere che neanch’io sono perfetto. Ho fatto un sacco di casini, e mi dispiace. Maadesso basta. E qualsiasi cosa ti faccia credere che ti odierò, voglio che tu me ladica; voglio che tu sappia che anche se mi farà male, non me ne andrò danessuna parte».«Non puoi dirlo con certezza», ribattei. «Evan, e se avessi fatto la cosa più

orribile che puoi immaginare? Non so se potresti ancora amarmi».«Ma io ti conosco, Emma. Ti conosco. Il tuo cuore non ti lascerà fare niente che

possa farmi smettere di amarti. E ho visto il tuo lato cattivo. Ero lì quando haiaffrontato Rachel. Ho visto quanto sai essere spietata. È un lato che non mipiace, ma non piace neanche a te. Perciò non ho paura che tu sia davvero così.Perché non è vero. È la conseguenza del dolore e delle ferite, volere che qualcunaltro provi quello che hai provato tu in tutti questi anni. Non è bello, Em. Ma nonè una cosa fondamentale».Il mio cuore batteva in modo irregolare. Mi stava offrendo un posto sicuro dove

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aprirci e dirci quello che sapevamo ci avrebbe ferito; dove avremmo ammesso lenostre colpe con la prospettiva di lasciarcele alle spalle e andare avanti. Unoscambio dei nostri errori più orribili. Ma io ero aggrappata a qualcosa di molto piùoscuro di quello che poteva immaginare, e che avrebbe cambiato il modo in cuimi guardava. Non potevo confessarglielo. Sapevo che se l’avessi fatto, l’avreiperso per sempre, e quello sarebbe stato peggio di tutto.«Non sono pronta», sussurrai. «Mi dispiace».Sapevo che stava lottando con la decisione di dirmi cos’era che la teneva ancora

prigioniera, lontana da me. Sentivo in ogni muscolo del mio corpo che aveva a che farecon Jonathan. Qualcosa era accaduto tra loro. Ma doveva essere lei a dirmelo. E con quelsegreto che incombeva ancora tra noi, non ero capace di perdonarla del tutto. Ma sapevoanche di non riuscire a respirare senza di lei.«Ti darò del tempo. Ma non potremo mai andare avanti se non mi dici tutto». I suoi

occhi si abbassarono, colmi di dolore. «Vieni qui». Spalancai le braccia, e lei si spostò trale mie gambe, appoggiando la schiena su di me in modo che potessi avvolgerla nel mioabbraccio. Appoggiò la testa sul mio braccio, e io la baciai sulla fronte. «Ce la faremo. Iocredo in noi».Emma avvolse le sue braccia sulle mie e strinse. «Voglio crederci anch’io».«Guardami».Si voltò per guardarmi. I suoi occhi erano rossi per il troppo pianto, e tremava a ogni

respiro. Passai le dita sulle sue guance umide. «Ti amo».Guardai nei suoi intensi occhi azzurri. Mettevano a nudo tutto quello che c’era di

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puro e vulnerabile in lui. La parte che voleva solo proteggermi, incoraggiarmi amigliorare, farmi felice. Lo mostrava così chiaramente, che il petto mi si gonfiò diun calore vorticoso. Se potevo essere sicura di una cosa, era il suo amore.«E tu ami me», dichiarò, ed era la verità.«Sì. Il mio amore per te è l’unica certezza della mia vita. Non smetterò mai di

amarti. Ma è stato proprio perché ti amavo tanto che ti ho ferito. Volevo solo chefossi felice, e libero dalla mia vita distruttiva. E sei così bello e perfetto – anchecon i tuoi difetti. Non avrei potuto distruggere anche te».Evan appoggiò la mano sulla mia guancia. «Smetti di provare a proteggermi

dalla tua vita. Sapevo esattamente in cosa mi stavo cacciando. Non ho maidubitato che mi amassi, mai. Tutto quello che voglio è che tu ti fidi di me, Emma,ti prego».«La fiducia non mi salverà», gli dissi, schiacciando la fronte sul suo petto mentre

mi stringeva forte.«Torniamo in casa», disse Evan, appoggiando il petto tra i miei capelli.La aiutai ad alzarsi dalla sabbia e lei si appoggiò a me mentre tornavamo verso casa. La

sincerità era estenuante. Mi faceva male dappertutto.«Vuoi restare con me stanotte?», chiese in un sussurro, appoggiandosi a me. Sentivo

l’energia che filtrava da lei.«Non riuscirei a dormire se non lo facessi», dissi, ottenendo un accenno di sorriso sul

suo volto esausto. La por tai in camera, e lei praticamente crollò sul letto, togliendosi lescarpe con le punte delle dita. La coprii con le lenzuola e dopo essermi tolto le scarpe e i

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pantaloni, la raggiunsi, tirandola a me così da sentire il suo cuore battermi contro il petto.«Emma?»«Umm», mormorò, già mezza addormentata.«Quando posso baciarti?».Ero troppo stanca per muovermi, ma quella domanda liberò un’ondata di

emozione inaspettata, e improvvisamente fui molto sveglia. Mi girai perguardarlo, e lui mi sorrise. «Ciao».«Ciao», sorrisi piano, passandogli la mano tra i capelli. «Puoi baciarmi adesso».Il cuore mi batteva all’impazzata mentre le sue labbra si avvicinavano alle mie.

Così familiari, eppure diverse allo stesso tempo. La nostra passione aumentavamentre mi mordeva le labbra e ci infilava dentro la lingua.Il calore mi attraversava mentre le sue labbra giocavano con le mie, la sua lingua mi

accarezzava a un ritmo lento e sensuale. La strinsi più for te. Avevo desiderato, avevoavuto bisogno di assaporarla per così tanto tempo. Le pulsazioni aumentarono mentre mispostavo su di lei, facendole scivolare la mano lungo la schiena. Lei sussultò quando lapressione dei nostri corpi aumentò. Aprii la bocca e stuzzicai il punto sotto il suoorecchio con la lingua. Il mio respiro accelerò quando trovai di nuovo le sue labbra, e lepremetti sulle mie con desiderio.Sapevo che dovevamo fermarci, ma più lei ansimava, più il mio corpo reagiva, e non

voleva tirarsi indietro. Lei mi affondò le dita tra i capelli, ed ero divorato dalla morbidezzadelle sue labbra dal tocco della sua lingua – ubriaco del suo sottile profumo floreale.Emma avvolse le gambe attorno a me e sollevò la testa per mostrarmi la gola,

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invitandomi a prenderla. Io ci passai sopra la bocca, assaporando il sale sulla sua pelle.Lei mi toccò i boxer, e fu allora che mi accorsi che non era il momento. Eravamo feriti e

bruciati, e questo non ci avrebbe guarito. Spostai gentilmente la mano e le sussurraiall’orecchio: «Ti voglio così tanto, ma dobbiamo fermarci».Affondai nel letto. «Lo so», sospirai, cercando di riprendermi. Ero così sorpresa

dal desiderio, dal bisogno di lui, che non riuscivo fermarmi neanche quando sentiirisuonare la voce che diceva: «Non ancora».Mi sporsi per vedere il suo viso, per passare le mie mani sulla sua guancia e

accarezzargli le labbra con il pollice. Fissai l’abisso dei suoi occhi, e tutto il miomondo si rasserenò mentre mi stendevo tra le sue braccia – esattamente nelposto in cui dovevo stare.

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«C

37Tutto su domani

he vuoi fare domani?», chiese Sara dall’amaca.«Evan è andato a ritirare la mia tavola, perciò mi piacerebbe andare a fare

surf», risposi, appoggiandomi allo sgabello per esaminare il dipinto di fronte ame. Presi il pennello a punta fine e lo intinsi nella pittura blu scura.«Non l’hai comprata la scorsa settimana?»«Sì, ma dovevano farla arrivare da un altro negozio. Dovevamo andare a ritirarla

ieri, ma c’è stato qualche problema con la consegna. Evan era davvero delusoquando non l’ha trovata». Sorrisi, ripensando allo sguardo abbattuto sul suo visoquando il tizio del negozio gli aveva detto che sarebbe dovuto tornare oggipomeriggio. Sembrava gli avessero appena detto che Babbo Natale non esiste.«Mi piacerebbe tanto vederti fare surf», disse Sara, il viso nascosto dietro una

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rivista.«Certo».«Poi ti va di andare a cena fuori? Solo noi quattro?».«Va bene», accettai, anche se non volevo pensarci davvero fino a domani. Non

era un giorno a cui mi andava di pensare.«Ce l’ho!», urlò Evan dalla casa, con voce piena di euforia.Venne fuori a trovarci, con gli occhi illuminati da un sorriso meraviglioso. «Hai

ufficialmente la tua prima tavola da surf».«Fantastico», risi. «Andiamo domani».«Domani?». Affondò le spalle, deluso.Sorrisi ancora di più: adoravo la sua fissa di vedermi su una tavola da surf.

«Oggi è già tardi. Andiamo domattina presto. Promesso».«Domani», ripeté Evan, sconfitto, raggiungendomi da dietro e mettendomi le

mani sui fianchi, facendomi solleticare la pelle. Si chinò e mi baciò sulle spallenude prima di appoggiarci sopra il mento per esaminare il mio dipinto. Miappoggiai a lui mentre mi circondava con le sue braccia.«Non ho ancora finito», mi affrettai a spiegargli, con le guance rosse come le

tonalità sulla tela. Sentivo che stava cercando di capire ogni pennellata.«È intenso».Era un’opera potente, ma inquietante allo stesso tempo. Non glielo avrei detto, ma ero

cer to che lo sapesse. Era impossibile non notare la disperazione che liberava con ilpennello. Un turbinio di colori e trame, immagini astratte di mani che emergono da mari

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turbolenti, e che si fondono con il movimento delle onde. Avvaloravano quellasensazione inquietante che in lei ci fosse un desiderio profondo di rinunciare alla vita. Nonera la prima volta che avevo quella paura.«Volevo parlar ti di una cosa», le mormorai sul collo prima di premere le mie labbra sul

suo polso caldo.«Cosa?», chiese con una voce affannata che mi fece desiderare di spingerla contro la

ringhiera della terrazza e farle arrossire tutto il corpo come faceva quando si eccitava. Poinotai Sara che leggeva sull’amaca e mi scansai, cercando di allontanare il pensiero.«Quando hai finito, andiamo a fare una passeggiata», dissi.«Che ne dici di una corsa? Gli allenamenti di calcio cominciano tra poche settimane, e

devo prepararmi».«Va bene», accettai. «Ma devi correre con me se vogliamo parlare».Lei rise. «Rallenterò per te».Ero inginocchiata ad allacciarmi le scarpe quando Evan uscì in pantaloncini e

scarpe da ginnastica.«Evan!», lo rimproverai. Quella vista mi faceva agitare il cuore. «Devi metterti

una maglietta».«Siamo ancora a questo punto?», ribatté. «Davvero?»«Cadrò a faccia in giù se mi fai correre accanto a te, conciato così».«Non sono diverso da tanti altri ragazzi in spiaggia», cercò di persuadermi.«Sei tu», sottolineai. «Qualsiasi altro ragazzo avrebbe lo stesso aspetto a petto

nudo, ma è vedere te a torso nudo che mi fa diventare stupida».

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Rise.«Che c’è? Sono solo sincera», replicai, mentre quella confessione mi faceva

arrossire.Mi alzai, ed Evan mi tirò a sé prendendomi per i fianchi. «Allora, se siamo

sinceri», le sue parole mi facevano il solletico alle labbra, «preferirei…».«Non avevo proprio bisogno di vedere questa cosa», disse Jared uscendo dalla

cucina.«Andiamo», disse Evan, prendendo una maglietta che aveva appoggiato sullo

schienale del divano.Ci mettemmo a correre lungo la costa. Aspettai di prendere un ritmo tranquillo prima di

cominciare a parlare: volevo essere sicuro di poter fare conversazione e stare al passocon lei allo stesso tempo.«Allora, stavo pensando di rivolgermi a qualcuno per risolvere il problema dei miei

incubi». Osservai con la coda dell’occhio la sua reazione. «Speravo potessimo farloinsieme».Da quando avevo fatto quella telefonata, il giorno prima, non facevo altro che pensare a

come dirglielo, sapendo bene quanto detestasse parlare dei suoi sentimenti, specialmentea degli estranei. Era già abbastanza difficile per lei aprirsi con me e Sara.«Terapia di coppia?», scherzò.«Uh, no, anche se non sarebbe una cattiva idea per noi», ridacchiai. Lei mi diede uno

spintone. «È un terapeuta che si occupa di persone che hanno subito dei traumi. Pensavoche potrebbe essere più facile se lo facessimo insieme per qualche sessione».

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Lei rimase in silenzio, tenendo lo sguardo sulla sabbia.Il solo pensiero di un terapeuta mi provocò un nodo allo stomaco. Ne avevo

incontrati un paio nella mia vita e non mi avevano aiutato affatto. Certo, la primavolta ero piccola ed era stato subito dopo la morte di mio padre, ma parlarne nonlo aveva riportato in vita. Così dissi alla donna con gli incisivi sporgenti cheprofumava di ciliegie esattamente quello che voleva sentirsi dire, finché lei nondisse a mia madre che ero guarita.Ripensandoci, era strano che mia madre mi ci avesse mandato. Non riuscivo a

immaginarla interessarsi di sentimenti che non fossero i suoi. Forse c’erano statidei brevi istanti nella mia vita in cui era stata davvero una madre, o forse glieloaveva raccomandato lo psicologo della scuola. Era più probabile.Il secondo terapeuta l’avevo visitato dopo essere stata dimessa dall’ospedale, al

terzo anno, quando il mio mondo si era capovolto. Non ero riuscita a dirle niente.Era come se la mia mente si fosse chiusa senza permettermi di divulgare alcunaemozione o ricordare un singolo momento traumatico – a parte i miei incubi. Ciandavo meccanicamente, per adempiere alle visite disposte dal tribunale, euscivo dal suo studio nelle stesse condizioni in cui ci ero entrata.«Ti va di pensarci?», chiese Evan dopo un lungo silenzio. «Aiuteresti anche me».Lo guardai, mentre l’ansia aumentava. Ma non potevo ignorare la sua richiesta

dopo una frase del genere. «Ci penserò».«Grazie».«Era di questo che mi volevi parlare?», chiesi con un sorrisetto.

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«Sì».«Allora adesso posso correre più veloce», gli dissi. «Prova a prendermi».

Premetti sulla sabbia e mi spinsi in avanti, per il bisogno di essere invasa daquell’adrenalina che mi calmava e rendeva tutto più chiaro.«Grazie per aver corso con me!», urlai mentre aumentava la distanza tra di noi. La sua

risposta “ci penserò” era meglio di quanto mi aspettassi. La guardai allontanarsi lungo laspiaggia, sapendo che la nostra conversazione aveva probabilmente alimentato il suodesiderio di correre veloce.Mi attese impaziente davanti a casa, con le mani sui fianchi. Scossi la testa con una

risata.«Sono troppo lento per te, Emma?»«Non è colpa tua se non riesci a starmi dietro», mi prese in giro.«Posso non essere capace di stare al passo, ma riesco ancora a prender ti», dissi, senza

rallentare mentre abbassavo le spalle e la sollevavo da terra.«Evan, mettimi giù», urlò, con la voce rotta dalle risate.La afferrai per le cosce, che erano madide di sudore. Barcollai mentre correvo in acqua,

e non riuscii a fare molti passi prima che un’onda ci facesse cadere.Emma riemerse con la bocca aper ta, asciugandosi l’acqua dal viso. «Non posso crederci,

l’hai fatto davvero!». Mi schizzò, incapace di nascondere il sorriso.Feci per prenderla mentre cercava di scappare verso la spiaggia con una risata stridula.

L’acqua fino al ginocchio la rallentava.«Non sei più così veloce adesso», dissi mentre le stringevo le mani attorno alla vita. Il

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suo slancio ci scaraventò sulla sabbia del bagnasciuga.La feci rotolare, con i capelli sparsi sulla sabbia. I suoi occhi brillavano mentre mi

sorrideva.«Hai un po’ di sabbia…». Le s fiorai con la mano la guancia e sentii il suo respiro

fermarsi. A fferrandola per la vita, la strinsi a me. Lei chiuse gli occhi mentre io michinavo per assaporare l’acqua salata sulle sue labbra. Avrei potuto passare il resto dellamia vita a baciarla e non mi sarebbe bastato. Il calore del suo respiro si fece largo nellamia bocca, e le accarezzai le labbra con la lingua, tirandola a me.Evan mi strinse a sé e io avvolsi la gamba attorno alla sua, con l’acqua che ci

scorreva sotto mentre eravamo stesi sulla sabbia bagnata. La sua mano scivolòdietro la mia coscia. Feci un piccolo gemito, tirando indietro la testa – eguardando dritto in un paio di grandi occhi marroni. Spinsi via Evan, e lui sollevòla testa, lasciandomi subito andare mentre un ragazzino con un secchiello giallocontinuava a fissarci a un metro di distanza.Mi misi a sedere, sistemandomi i capelli, con il viso che andava a fuoco.«Siamo, ehm, piuttosto insabbiati». Evan guardò la sabbia attaccata ai vestiti

bagnati e alla pelle. «Forse dovremmo tornare in acqua».Con il battito ancora accelerato per il suo bacio, mi girai verso di lui. «Una doccia

all’aperto?».Le sue labbra si allargarono per mostrare un grande sorriso. Mi rimisi in piedi per

correre verso casa. Lui mi afferrò per una caviglia, facendomi crollare sullasabbia. Evan fece una risatina mentre mi superava di corsa.

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«Ehi!», urlai, rimettendomi in piedi e correndogli dietro.Sentivo che stava per raggiungermi, e accelerai con una risata. Sui percorsi lunghi mi

poteva battere, ma io la superavo negli scatti. Saltai sui gradini verso il cancello dellaveranda. Mi restò tempo a sufficienza per togliermi scarpe e calzini prima che Emmaspalancasse il cancello.Si fermò alla recinzione, con l’affanno. Un sorriso sexy comparve sul suo volto. Aprii

l’acqua per farla scaldare mentre lei si toglieva con lentezza le scarpe e i calzini senza unaparola. La guardai muoversi verso di me, ancora con quel sorriso seducente sul viso,sfilandosi dalla testa la maglietta insabbiata e bagnata.Fece per slacciarsi la cinta e si fermò – guardandomi, dubbiosa. Scossi la testa, sapendo

che se si fosse tolta gli shor ts, le mie remore sarebbero sparite con loro. Emma rimasedavanti a me, senza distogliere gli occhi dai miei mentre faceva scivolare la mano sotto lamia maglietta, e il tocco delle sue dita sulla pelle mi fece tendere i muscoli della pancia.Mi s filai la maglietta, lasciandola cadere sulle tavole di legno. Lei si mise sulla punta dei

piedi mentre io mi chinavo a baciarla, con le mani sui suoi fianchi. La sua pelle era caldacontro la mia pancia mentre premeva contro di me. Indietreggiai lentamente, por tandolaalla doccia – sperando che il calore non interrompesse il nostro legame.L’acqua che mi raggiunse la schiena era calda, perciò la guidai verso di me. L’acqua

cadeva su di noi mentre le nostre labbra si aprivano, e ci scambiavamo l’aria. Passando lelabbra sul suo collo, assaporai la sua pelle salmastra. Lei tirò indietro la testa con ungemito. La mia schiena si tese mentre il mio corpo reagiva.Emma mi passò la bocca sul petto, e io affondai le dita tra i suoi capelli, piegandole la

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testa e baciandole le labbra bagnate con talmente tanto desiderio che era difficilemantenere il controllo. Sentii il bordo della panca di pietra contro il polpaccio e le sollevaila gamba destra, appoggiando il suo piede sul ripiano.Inspirai al suo tocco mentre la sua mano mi sollevava la coscia, sotto gli shorts.

Un’ondata di calore mi corse nel petto. Chiusi gli occhi, sopraffatta dalleemozioni. Il mio respiro si trasformò in soffi irregolari mentre affondavo il viso nelsuo collo, stuzzicandogli la pelle con la lingua e accarezzando con le labbra la suamascella fino a trovare la bocca, e gemendo nelle sue labbra aperte mentre il suotocco mi faceva cadere. Gli afferrai la schiena e mi irrigidii attorno a lui, persanella scarica vorticosa che mi attraversava il corpo. Crollai su di lui con unsospiro.«Posso sempre correre più veloce», mormorai, con le labbra premute sulla sua

pelle liscia.Evan rise piano all’orecchio e sussurrò: «Ma non mi perderai mai».Un cuscino mi atterrò in testa. Brontolai, non volevo aprire gli occhi.«Alzati, Evan», insisté Emma.Socchiusi le palpebre. Era ancora buio. «Che ore sono?»«Tecnicamente è mattina», disse, con tono fin troppo sveglio perché fosse vero.«Perché non dormi?», mormorai, tirandomi le coperte fino al mento.«Perché non ci riuscivo, quindi ho deciso di andare a fare surf».Spalancai gli occhi. «Cosa?»«Ho pensato che potremmo essere i primi in acqua. Solo tu e io», spiegò, già vestita in

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felpa e shorts.Mi ci volle un istante per capire cosa stava dicendo. Poi, quando capii, mi tolsi le

coperte. «Sono sveglio. Dammi cinque minuti».«Lo sapevo», gongolò.Chiusi la por ta del bagno, intontito ma esultante per il suo entusiasmo, comprendendo

che era una cosa persino più importante di quanto pensasse, soprattutto oggi.Ero nervosa, volevo uscire di casa. Quando Evan finalmente uscì dalla stanza, gli

lanciai una barretta ai cereali che afferrò per un pelo e lasciai che mi seguisse.«Wow, hai davvero un rapporto schizofrenico con le mattine», commentò Evan,

chiudendo la porta dietro di sé. «Hai già caricato tutto?»«Non riuscivo a dormire», spiegai di nuovo. Quel giorno prendere sonno sarebbe

stato impossibile.«Mi vuoi dire perché?», chiese, come sapevo che avrebbe fatto.«Sono ansiosa per oggi», risposi. «Deve essere una bella giornata».Annuì, senza chiedermi altro, e disse: «Lo sarà». Evan spalancò le braccia e io

mi avvicinai, stringendolo. Mi sollevò il mento e mi baciò gentilmente.«Buongiorno, Emma».«Buongiorno», sorrisi, perché lo era davvero.Diedi a Evan le chiavi e lui guidò fino al lontanissimo posto per il surf che

avevano trovato i ragazzi. Portammo tavole e mute sulla testa lungo un sentieroalberato finché non ci trovammo su una spiaggia rocciosa. Il frangiflutti era ciòche rendeva questo posto eccellente per il surf.

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Il cielo era ancora grigio mentre la foschia mattutina si posava sull’acqua scura.C’era ancora troppa nebbia per fare surf, perciò appoggiai la tavola a una pietra,assieme alla muta. Passai le dita sul disegno accattivante della figura femminileche emergeva dal surf con un movimento ad arco. Non appena l’avevo visto,avevo sentito il cuore sobbalzare. Non volevo un’altra tavola, nonostante gli sforzidi Evan di convincermi altrimenti.Aprii la felpa e me la tolsi, mostrando il costume che avevo sotto. «Che stai

facendo?», chiese Evan.«Vado a nuotare», disse semplicemente, come se fosse una cosa ovvia.«L’acqua è ghiacciata, ricordi?», ribattei mentre lei si toglieva gli shor ts. Poi non riuscii

a dire altro.«Smettila di fissarmi ed entra in acqua con me», disse, dandomi una pacca sulla pancia.

«Servirà a svegliarti».Corse senza esitare e si tuffò fra le onde.«Merda», mi lamentai, sapendo che sarebbe stato terribile – e così fu. Lasciai che l’acqua

mi scorresse sulle tibie, senza riuscire ad andare avanti. Le dita dei piedi erano giàinsensibili.La cercai. Il buio e la foschia rendevano difficile vedere qualsiasi cosa. Ma la trovai che

galleggiava sulla schiena, cavalcando l’oceano impetuoso.Presi fiato ed entrai, tuffandomi sott’acqua. Lottando per respirare mentre riemergevo

nell’acqua gelida, raggiunsi Emma e ammirai la sua posa pacifica. Galleggiava sullasuper ficie con le braccia spalancate. Aveva gli occhi chiusi, e respirava con calma dalle

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labbra aper te, come se fosse persa in un sogno. Doveva essersi accor ta della mia presenzaperché sollevò la testa, con il corpo che affondava.«Ciao», disse, con il viso raggiante nonostante l’assenza del sole. «Mi chiedevo se

saresti venuto».«Quest’acqua è gelida, Em», dissi. «Riscaldami». La tirai a me, con la pelle della sua

pancia che scivolava sulla mia. «Le tue labbra stanno già diventando viola».«Davvero?», chiese, cercando i miei occhi. «Allora, dobbiamo uscire?». Mi gettò le

braccia al collo, passando le dita tra i miei capelli bagnati.«Forse adesso mi sto scaldando», le dissi, con il petto che mar tellava mentre lei premeva

il suo corpo contro il mio per raggiungere le mie labbra.Schiacciai le mie labbra tremanti sulle sue, e lui inspirò scioccato. «Hai le labbra

ghiacciate».«Riscaldale», chiesi, sfiorandogli la mascella. Evan voltò la testa per

intercettarmi, ma prima che potesse baciarmi, disse: «Trattieni il respiro». Sentiiun muro d’acqua arrivarci addosso. Inspirai velocemente, e fui portata viadall’onda. Quando tornai a galla, vidi Evan lontano dalla spiaggia. I muscoli mifacevano male per il freddo, perciò cavalcai l’onda fino alla spiaggia.Quando uscii, sentii: «Com’è l’acqua?». Alcuni altri surfisti avevano deciso di

essere i primi in acqua, interferendo con i miei programmi di scaldarmi sullaspiaggia con Evan.«Ghiacciata», dissi, mentre Evan usciva dalle onde. Li salutò e mi guardò. Lo

sguardo deluso sul suo volto mi disse che stavamo pensando la stessa cosa. «Mi

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sa che è ora di mettersi la muta».«Mi sa di sì».Il cielo rimase grigio per un altro paio di ore, ma le onde erano fantastiche. All’inizio

non riuscivo a stare in piedi sulla tavola, troppo distratto dalla vista di Emma sulla sua, inattesa dell’onda. E poi, quando saltò sulla prima, non riuscii a toglierle gli occhi di dosso.Era splendida in quella posizione, a cavalcare l’onda come se non avesse mai fatto altro.«Te ne starai lì seduto tutto il giorno?», scherzò, quando tornò a bracciate verso di me.«Stavo solo ammirando le tue doti», le dissi. «Devo ammettere che sono un po’ deluso,

perché avrei voluto insegnartelo io».«Meglio così», mi rassicurò con un sorriso imbarazzato, visto che stavamo

inavver titamente parlando di Cole. «Così possiamo fare sur f e basta. Mi ci è voluto unpo’ per capire come stare in piedi, per non parlare di cavalcare l’onda. Quindi megliocosì».Annuii, apprezzando la sua risposta. Così era per fetto, solo lei e io – e, be’, altri tizi che

non conoscevamo. Era un’esperienza che non avrei potuto programmare neanche se ciavessi provato. E per quello dovevo essere un po’ riconoscente a Cole per averglieloinsegnato. Ma non per essere stato con lei.Emma doveva aver capito cosa stavo pensando perché mi raggiunse e mi afferrò la

gamba. «Mi dispiace per lui – che tu ci abbia visto insieme. Mi fa male anche solo saperedi te e… Be’, non posso immaginare di vederlo».«Non ti mentirò. Non è stato facile con lui, anche se mi è simpatico. Ma sapevo che non

sarebbe durato», le dissi con un sorrisetto, dimenticando ciò che avevo provato al

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pensiero di lui che la baciava.«Che cosa?», chiese sorpresa. «Non uscivamo insieme, Evan».«Come ti pare: stavate insieme. Non impor ta come lo chiami», dissi in tono sprezzante.

«Ma tu devi stare con me, quindi qualsiasi altro ragazzo è destinato al fallimento».Mi chinai su di lei e la baciai. Quando mi ritrassi, lei disse: «Ti amo». Quelle due parole

che le uscirono dalla bocca mi fecero sentire come se potessi conquistare tutto. Le sorrisie dissi: «Tu e io, Em – a ogni costo». Rimasi intrappolato dalla luce che si rifletteva neisuoi occhi – quegli occhi che erano stati talmente vuoti da farmi avere paura di perderla.Si mise a sedere sulla tavola con un sorriso fantastico e si sistemò preparandosi a unanuova onda.Continuammo a fare surf finché le braccia non mi fecero male come se

dovessero cadere da un momento all’altro, e le gambe non tremarono. I ragazzi,assieme a Jared e Sara, ci vennero incontro a metà mattinata quando il solestava emergendo dal grigio. Avevano portato un frigobar con il pranzo,permettendoci di passare la giornata sulla spiaggia. Non importava altro. Vivevominuto per minuto, senza rivangare il passato, o temere per il futuro. Lasciai cheil giorno si presentasse come voleva, e non avrebbe potuto essere meglio.Sara mi prese la mano e mi appoggiò la testa sulle spalle mentre lasciavamo il

pittoresco ristorante nascosto in un boschetto. Avevamo cenato, solo noi quattro,come desiderava lei. Avevamo mandato Evan e Jared avanti per poter andare inbagno, e di base per parlare di loro.«Sono così contenta per te», disse, tirando indietro la testa e sorridendo. «Che

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finalmente hai lui». Li guardò con affetto mentre chiacchieravano accanto allamacchina. «Così è come avrebbe dovuto essere sempre… Wow, siamo state cosìstupide».«Lo so», dissi con un sorriso.Lei mi strinse la mano e aggiunse. «Più di tutto, mi piace vederti così. È l’unico

che ti rende raggiante. Mi mancava quell’espressione ridicola che hai in faccia».Scacciai le emozioni con una risata. «Grazie, Sara. E grazie per avermi

sopportata. Lo so che gli ultimi due anni non sono stati granché neanche per te».«È quello che fanno le sorelle», disse, colpendomi la spalla con la sua.La sua risata mi fece voltare. Emma mi sorprese a guardarla e io andai verso di lei.

Lasciò la mano di Sara e prese quella che le porgevo. La baciai sulla fronte.«Allora, com’è andato il tuo compleanno, Emma?», chiesi, cogliendo l’occasione per

parlarne.Si bloccò. Mi voltai per guardarla, temendo la sua reazione. Emma si mise in punta di

piedi e mi baciò sulla guancia, facendomi sorridere. Mi gettò le braccia al collo e mi dissepiano all’orecchio: «È il miglior compleanno degli ultimi tredici anni. Grazie».

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U

38La promessa

n brivido mi danzò sulla schiena al suo tocco sul collo.«Le ragazze stanno per arrivare qui a saltare sul letto», mi disse Evan a

bassa voce all’orecchio. «Faresti meglio ad alzarti».Quando le sue labbra calde toccarono la mia spalla, le mie si piegarono in un

sorriso riluttante. Mi avvicinai per sentire il suo corpo sul mio, rifiutando ancora diaprire gli occhi.«Emma!» urlò Sara bussando alla porta. «Alzati! Devi darci una mano a

preparare!».Evan rise mentre io imprecavo nel cuscino.«Te l’avevo detto».«Perché pensavo che questa festa fosse una buona idea?».

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Inspirai velocemente quando la sua mano scivolò sotto la mia maglietta, lungola pancia.«Nessuno ti ha obbligata», mormorò Evan, stuzzicandomi il collo con la lingua.

«Eri tutta contenta la scorsa settimana, al tuo compleanno, ricordi?»«Quella è stata… una giornata strana. Voglio dire… una bella giornata», sospirai,

incapace di concentrarmi sulla conversazione. «Il 4 luglio… non dovrebbecominciare… finché non fa buio». Afferrai la mano di Evan, stringendola quando ilcalore della sua bocca mi mandò brividi attraverso il corpo.«Emma!», urlò di nuovo Sara. Evan rise allontanandosi.«Sono sveglia», risposi; poi mormorai: «Purtroppo». Evan scese dal letto mentre

io mettevo a posto le coperte. Era già vestito con un paio di pantaloncini e una T-shirt.«Mi sono offerto volontario per andare a prendere il ghiaccio». Mi misi a sedere

sul bordo del letto e appoggiai la testa alla sua pancia. «Torno tra poco, ok?»,disse, passandomi una mano tra i capelli.Annuii. Mi tirò giù dal letto con un abbraccio. Trascinai i piedi fino in bagno

quando uscì.«Ti prego, dimmi che è sveglia», disse Sara appena uscii dalla stanza.«Sì», risi. «È sveglia».«Ciao, Evan», intervenne Serena con un sorriso smagliante. «Hai un iPod? Sara mi ha

dato il compito di scegliere la musica».Guardai in direzione di Sara, che scrollò le spalle. «Sì, ce l’ho nel bagagliaio. Te lo por to

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quando vado a prendere Nate».«Puoi comprare anche qualche limone?», chiese Meg dalla cucina.«Certo», risposi mentre uscivo.«Come va in casa?», chiese Nate mentre guidavo.«Sara si sta occupando di… tutto», dissi. «Serena sceglie la musica. Meg prepara da

mangiare. E James e Jared stanno sistemando i tavoli e una rete da pallavolo all’aperto». Ecosì a me e ai ragazzi non restava che occuparci dei drink.«Ed Emma?»«Ehm…», ridacchiai. «Vorrebbe che fosse già domani».«Infatti mi chiedevo perché ha deciso di dare la festa. Ho visto che faccia ha fatto

quando gliel’ho buttata lì».«L’abbiamo presa in una giornata buona quando gliel’abbiamo proposto la scorsa

settimana», spiegai.Nate mi guardò incuriosito.«Era il suo compleanno».«Oh», annuì. «Non lo sapevo. Come mai non…», si bloccò, ricordandosi all’improvviso

perché nessuno sapesse che era il suo compleanno e perché non lo festeggiasse. Perchéera anche il giorno in cui il padre era morto in un incidente stradale, tredici anni prima.«Lascia stare».«Come va tra di voi? Le cose stanno diventando più serie. Le hai già detto… tutto?»«Già», risposi, non del tutto pronto a questa conversazione.«E lei è stata completamente sincera con te?». Quella domanda era precisamente il

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motivo per cui non volevo parlarne.«Non del tutto», dissi evasivamente.«Amico! Dici sul serio?! E allora che stai facendo?»«Le sto dando ancora tempo», gli dissi.«Ha avuto due anni, cazzo», si scaldò.Ci fermammo nel parcheggio, e io scesi non appena spensi il furgone, mettendo fine alla

conversazione… per il momento. Nate non era convinto che Emma avesse smesso didistruggermi. E io non lo avrei mai ammesso davanti a lui, ma… non ero convintoneanche io.«Che vuoi che faccia?», chiesi.«Tagli le angurie?», chiese Meg mentre Sara usciva sul balcone, dando ordini ai

ragazzi su dove mettere tutto.«Emma, dov’è il tuo iPod?», chiese Serena, davanti allo stereo.«In camera mia», le dissi. «Da qualche parte nella borsa dentro l’armadio».Serena sparì nella stanza mentre io mi preparavo ad affettare l’anguria. Non

l’avevo mai fatto, ma quanto poteva essere difficile? Infilai il lungo coltello nellabuccia e… non riuscii più a muoverlo – lasciando la lama spuntare fuori dalla pelleverde con una strana angolazione. Spinsi di nuovo e riuscii ad abbassarlo dimezzo millimetro.Mi guardai alle spalle, e Meg mi fissava incredula.«Davvero, Emma?», disse sorpresa e divertita per la mia incapacità. «Pensavo

che almeno questo riuscissi a farlo».

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«Ce la posso fare», ribattei, facendo un inutile tentativo di spostare la lama.«Non affondarla così tanto, e muovila come se fosse una sega», spiegò Meg.«Emma!», chiamò Serena dalla mia stanza. «Puoi venire un secondo?».«Ci penso io», mi rassicurò Meg mentre io riflettevo sul dilemma, incerta se

abbandonare l’anguria con il coltello infilzato. Meg prese il mio posto, e prima chefossi uscita dalla cucina, l’anguria era già tagliata a metà.«Te l’ho preparata io», le dissi scherzosamente mentre passavo nell’altra stanza.«Sì, è per quello», annuì, scuotendo la testa.Quando entrai nella mia stanza, Serena mi aspettava a braccia incrociate.«Ehi», la salutai preoccupata. «Che succede?».«Cos’è questa?», reagì, tirando fuori “La Lettera”. Aprii la bocca per parlare, ma

non venne fuori niente. «Hai in mente di chiudere con Evan? Che sta succedendo,Em? Voglio dire, pensavo che finalmente voi due steste di nuovo insieme».Sembrava come se avessi tradito lei.Feci un respiro lento.«L’ho scritta due anni fa, prima di lasciarlo. Sua madre me l’ha rimandata

indietro poco più di un anno fa. Disse che ci sarebbe stato un giorno in cui luiavrebbe voluto sapere cosa c’era scritto, e stava a me decidere se farglielosapere o no».«L’hai lasciato con una lettera?», chiese, scioccata. «Non hai detto niente?»«Non proprio», sospirai, distogliendo lo sguardo. «E sì. Ho sbagliato a lasciarlo

così. Ma pensavo che fosse la cosa migliore per lui».

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«Non avresti mai dovuto lasciarlo, Em», disse Serena con aria triste. Chinai latesta, accettando la verità. «Gliela farai vedere?»«Non lo so», dissi piano. «Perché dovrebbe desiderare di vederla adesso? Voglio

dire, stiamo cercando di andare avanti».«Perché deve saperlo. Hai promesso di essere sincera, no? E poi, hai scritto

semplicemente quello provavi in quel momento».«Lo so», sussurrai.Quando io e Nate finimmo di sistemare le buste di ghiaccio nel freezer del garage, entrai

in cucina. «Dov’è Emma?»«Sara l’ha mandata a farsi una doccia e a prepararsi», spiegò Meg. «Probabilmente

dovresti fare la stessa cosa. Gli invitati arriveranno tra un’ora o giù di lì».«L’iPod?», chiese Serena, tendendo la mano. Lo tirai fuori dalla tasca e glielo diedi.

«Grazie».Entrai in camera e trovai Emma seduta sul letto, con addosso un vestito blu e bianco e un

paio di sandali rossi con le fibbie. Sentendomi entrare, alzò la testa e le mie labbra sicurvarono istintivamente in un sorriso. Quando notai la sua risposta esitante, la scrutai afondo e mi accorsi del turbamento nei suoi occhi.«Ciao», la salutai con cautela. «Va tutto bene?».Non disse niente, si limitò ad annuire leggermente. Si alzò dal letto e si lisciò la gonna,

distogliendo lo sguardo. Le alzai il mento con un dito per guardarla negli occhi.«Puoi dirmelo, lo sai», le dissi dolcemente.«Lo so», mormorò. «Lo farò. Dopo, ok? Quando se ne andranno tutti». Socchiusi gli

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occhi: non mi piaceva come l’aveva detto.«Ok», risposi, chinandomi per baciarla. Lei accettò teneramente il bacio, passandomi le

mani tra i capelli, e tirandomi di più tra le sue labbra, ma poi indietreggiò leggermente, gliocchi che tremavano per l’emozione.Rifiutai quello che avevo visto per un istante, finché lei non mi tirò sul letto, baciandomi

come se il suo respiro dipendesse da quello. Il mio corpo rispose al suo tocco mentre mipassava le mani sulla schiena, sotto la maglietta. Mi spinsi su di lei, baciando la sua pellemorbida, e giù per il collo e sulle spalle, abbassando le spalline.«Emma, sei pronta?!», urlò Sara da dietro la por ta. Con il respiro pesante, rimanemmo

fermi per un momento. «Emma?».Mi guardò con aria di scuse. «Arrivo!».Le diedi la mano per aiutarla a rimettersi in piedi. «Dopo?», chiesi, riprendendomi a

fatica.Le labbra di Emma si curvarono in modo sexy mentre annuiva. «A dopo». C’era ancora

un pizzico di tristezza nei suoi occhi, ma il suo sorriso sembrava sincero.«Emma!», urlò TJ con i suoi modi fin troppo entusiasti, gettando il ghiaccio nel

bidone del bar.«Ehi, TJ», risposi con un sorriso. James e Brent stavano sistemando la rete da

pallavolo, stringendo le corde. Ren e Nate arrivarono pochi minuti dopo con lecasse del negozio di liquori, e con un’enorme brocca di un drink rosso che si eranoinventati quel giorno.Quando gli ospiti cominciarono ad arrivare, capii subito che non avrei mai

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organizzato un’altra festa. Ero così occupata a rifornire di cibo, a dire alla gentedov’era il bagno, e a portare ai ragazzi al bar le buste del ghiaccio, che non mistavo divertendo per niente. Il fatto che Evan avesse ricevuto l’incarico dioccuparsi della griglia, poi, non aiutava: anzi, ci impediva di stare insieme per piùdi un secondo.Notai Evan alla griglia con Nate e Jared quando portai un’altra insalata da

mettere sul lungo tavolo. Il sole si rifletteva sulle ciocche castano chiaro dei suoicapelli tagliati con cura, che con il progredire dell’estate diventavano sempre piùdorati. La camicia a righe a maniche corte metteva in risalto la sfumatura azzurradei occhi. Rise a una battuta di Jared, mostrando il suo sorriso mozzafiato.«Em?», mi chiamò Serena, sorprendendomi a fissarlo. Sorrise quando vide chi

aveva attirato la mia attenzione. «Non starà alla griglia per tutto il pomeriggio».«Emma, puoi prendere la busta di pane dalla cucina?», chiese Meg.Sospirai, e Serena rise vedendomi andare in casa. Evan entrava mentre io uscivo

con le mani piene di panini.«E noi quando ci vediamo?».«Ti trovo io», promise, fermandomi con una mano in vita. Prima che potesse

chinarsi per baciarmi, la porta si aprì ed entrarono altre persone. Mi diede unbacio veloce e proseguì con la sua missione.«Evan, vieni a giocare a pallavolo con noi», urlò Jared dalla spiaggia. Avevo appena

spento la griglia e stavo per andare a cercare Emma, di cui ormai avevo perso le tracce.Ero abbastanza sicuro che avessimo invitato una quarantina di persone, un numero che

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era stato superato già un’ora dopo l’inizio della festa. «Evan, vieni, ci manca ungiocatore!».«Arrivo subito», gli dissi, guardandomi intorno ancora una volta in cerca di Emma.Scesi fino alla rete da pallavolo, raggiungendo Jared, qualche altro ragazzo e una

ragazza. Mi sbottonai la camicia e la lanciai sulla sabbia, pronto a giocare.«Ehi, Evan», disse la ragazza. Mi ci volle un istante per riconoscerla, e proprio quando

mi ricordai il suo nome, lei si presentò di nuovo. «Nika. Ci siamo incontrati da Nate.Quindi tu stai qui, eh?»«Oh, ciao», risposi. «Sì. È questa la casa di cui ti parlavo».«È proprio carina», disse.Jared chiese a tutti di prendere posto e si preparò a servire. Nika si posizionò accanto a

me. Brent era dall’altra par te della rete, e non riusciva a toglierle gli occhi di dosso. Erotentato di scambiarmi di posto con lui, ma con Jared a servire non potevo muovermi.«Stai qui solo con Emma?», chiese lei.«No», risposi, osservando TJ che correva per prendere la palla che era stata respinta sei

metri oltre la linea. «C’è anche un’altra coppia».«Oh, state insieme?».Annuii, osservando la sua espressione sorpresa prima di prepararmi al servizio.Notai con la coda dell’occhio il vestito blu sulla terrazza. Emma mi stava guardando

appoggiata alla ringhiera, e accanto a lei c’era un ragazzo… un po’ troppo vicino.«Evan!», urlò Jared, mentre la palla mi passava accanto. «Concentrati!».«Cosa studi a Stanford?», chiese Paul, un po’ troppo vicino, nonostante la mia

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palese mancanza di interesse.«Corso propedeutico di medicina», gli dissi, tenendo gli occhi sulla partita e sulle

file di muscoli che si fletterono lungo la schiena di Evan quando alzò la pallaperché Jared la schiacciasse oltre la rete. Si batterono i pugni quando Brent lamancò, facendola atterrare sulla sabbia. Nika sollevò la mano per dare il cinque aEvan. Gli stava parlando… un po’ troppo.«Piuttosto impegnativo», commentò lui, che si era già dilungato sul fatto di

conoscere molte celebrità visto che era assistente di un’agenzia di spettacolo aLos Angeles.«Ehi, Emma», mi girai e vidi Nate dietro di me.«Nate! Come va?», lo salutai con un entusiasmo degno di TJ. Mi guardò

stranamente, poi notò Paul che si faceva ancora più vicino.Gli occhi di Nate si spalancarono quando capì. «In realtà speravo di fare due

chiacchiere», disse, ricoprendo alla perfezione il suo ruolo di salvatore.«Certo», risposi con quasi troppa impazienza. «È stato un piacere parlare con

te». Seguii Nate senza voltarmi.«Grazie», sottolineai. «Era da un po’ che provavo a scaricarlo, ma ha fatto finta

di niente».«Sono contento di esserti stato d’aiuto. Ma davvero volevo parlarti».«Umm, ok», dissi, sorpresa dalla sua richiesta. Ci allontanammo dalla folla

dirigendoci verso la spiaggia, mentre io ero un fascio di nervi. Voleva parlarmi diEvan.

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«Ren, hai visto Emma?», mi sembrava di aver fatto quella domanda per tutto il giorno.«Penso di averla vista scendere in spiaggia con Nate». Ren era steso sull’amaca con un

braccio steso sul fianco, e in mano una birra.«Nate?», chiesi, confuso. Poi capii. Voleva dirle qualcosa. Emma non avrebbe preso

molto bene il fatto di essere interrogata dal mio migliore amico. La settimana passata conlei era stata fantastica. Ma non potevamo sistemare tutto all’istante, e non avevo bisognoche Nate la costringesse a rivelare niente prima che fosse pronta. Lui non era pazientecome me.«Dove sono andati?».Ren me lo indicò, e io corsi in quella direzione.Camminai accanto a Nate, aspettando con ansia che dicesse qualcosa. Il mio

telefono suonò mentre passeggiavamo. Lo tirai fuori dalla tasca e vidi unmessaggio di Evan:Dove sei?Guardai Nate. «Scusa. Evan mi sta cercando». Gli risposi. Dopo aver premuto

“invia”, tornai alla lista dei messaggi, e quasi inciampai quando vidi:Emma?«Emma, stai bene?», chiese Nate, distraendomi prima che potessi aprire il

messaggio.«Sì», sussurrai, con la gola improvvisamente secca. «Di cosa volevi parlarmi,

Nate?»«Non dovrei dire niente, ma… ma non posso permettere che succeda di nuovo».Nate guardò un punto al di sopra della mia testa, fissando il cielo buio, e

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calcolando ogni parola. Non riuscivo a calmare il battito nel petto, cominciavo asentirmi la testa leggera – temevo che le gambe mi cedessero.«Evan programma tutto. Quello che voglio dire è che cerca sempre di

programmare la prossima mossa, come in una partita a scacchi. C’è una ragionedietro tutto ciò che fa. Pensa sempre a tutto, a volte tre passi prima di arrivarci.Tranne quando si parla di te». Si fermò, guardandomi per un attimo. Rimasiimmobile, trattenendo il respiro… in attesa.«Tu sei come… una partita a scacchi in velocità. Non sa mai cosa farai. Anche se

ha già in mente la prossima mossa, potrebbe essere costretto a tirarne fuori unanuova in un lampo. Tu fai sempre qualcosa di inaspettato. Lo sfidi, e questa èsicuramente una delle ragioni per cui è attratto da te». Prese fiato, a disagiofinché non incontrò finalmente il mio sguardo nervoso.«Non è andata bene quel primo anno. Non l’avevo mai visto così, e non voglio

più rivederlo in quelle condizioni. Ha accettato di stare a Yale, e ha detto a tuttiche stava andando avanti con la sua vita senza di te. Ma quando ha cominciato afare le pratiche per trasferirsi a Stanford, sapevo che era a causa tua. Per quantoprovasse a convincere tutti, non avrebbe mai potuto dimenticarti».Nate fece una pausa, pensieroso, prima di continuare. «Il motivo per cui ti sto

dicendo tutto questo è perché più tempo passate insieme, più lui torna a sperare.Ma, Emma, non farlo se non hai intenzione di essere completamente sincera conlui. Si merita almeno quello. Non so cosa non gli hai ancora detto, ma ha bisognodi saperlo. Se questo lo porterà a non volerti più vedere, allora è un rischio che

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devi correre. Non ti permetterò di distruggerlo come hai fatto due anni fa».Incrociai lo sguardo determinato di Nate e annuii debolmente. «Sarò sincera con

lui. Lo prometto». E sapevo esattamente cosa voleva dire quella promessa. Sentiile ginocchia che cedevano.«Grazie», disse sinceramente. «Ehi, dovremmo cominciare a rientrare. I fuochi

d’artificio cominceranno presto».«Arrivo subito», dissi con voce roca, sapendo che se mi fossi mossa sarei

crollata. Tirai fuori il telefono dalla tasca e fissai le parole di Jonathan illuminarsisul display. Il mio cuore si fermò.«Eccovi qui», dissi appena girata la curva. «Stavo…». Nate mi passò accanto

velocemente senza guardarmi. Dietro di lui, Emma stava fissando il telefono.«Emma?». Crollò sulle ginocchia. Era troppo tardi.

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T

39Basta segreti

enni la mano tremante di Emma mentre la ripor tavo in casa. Nate aveva aumentatol’andatura, perciò era già sommerso dalla folla. Sapeva che ero incazzato, ma non

volevo affrontarlo davanti a Emma. Per lei era già abbastanza difficile guardarmi.Incespicava a ogni passo mentre mi aprivo un varco tra la folla per entrare in casa.

Chiusi a chiave la porta della camera mentre Emma proseguiva verso la veranda. La trovaiseduta sul bordo della sdraio di teak, con lo sguardo fisso a terra e le mani attorno allavita.«Che ti ha detto?», chiesi a bassa voce. «Qualsiasi cosa ti abbia detto…».I suoi occhi scuri struggenti mi fissavano, coperti di lacrime.«Voleva solo che fossi sincera con te. Ecco tutto. Non ha detto niente di

sbagliato. Non arrabbiarti con lui. Ha solo fatto quello che fa un amico. E non ha

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chiesto niente che tu non meritassi».Mi strinsi nelle spalle e feci un sospiro tremante. «Ho paura», buttai giù il nodo

che avevo in gola. «Ti perderò, Evan».«Ehi», mi rassicurò, inginocchiandosi di fronte a me. «No. Non vado da nessuna

parte. Promesso».«Non puoi promettermi una cosa del genere. Non hai idea…», la mia voce

sfumò.«Allora dimmelo, Em. Ti prego, spiegami cosa è successo e smettila di

torturarti», mi implorò appassionatamente. «Lo capirò, di qualsiasi cosa si tratti».Sollevai lo sguardo per aprirmi a lui. Non lo avrei più respinto.I suoi occhi scavarono dentro di me con un’intensità che non avevo mai visto prima.

Erano fermi, pieni di convinzione. «Voglio che tu mi veda per come sono. Come haisempre voluto. Ma non ti piacerà. C’è una par te di me che è oscura e… piena di rabbia. Enon so se riuscirò mai a liberarmene».Fece una pausa, come se stesse cercando di prepararmi. Ma non era ciò che mi

aspettavo.«Assomiglio a mia madre più di quanto abbia mai ammesso. Sono piena di odio come

lei. Sono autodistruttiva come lei. E c’è del marcio in me, proprio come in lei. Avevaragione quando ha detto che non sarei mai dovuta nascere».«Emma, non dire così».«Adesso devi ascoltarmi, Evan», disse con calma, la voce distante e coper ta di ghiaccio.

«La odiavo. Odiavo mia madre, e sono contenta che sia mor ta». Sussultai a quelle parole,

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ma non dissi niente. «Può marcire all’inferno, è quello il suo posto. Non me ne frega uncazzo».Feci un passo indietro, sconvolto dall’odio nei suoi occhi induriti.Non reagii quando si allontanò da me. Voleva sapere, quindi non avevo

intenzione di trattenermi. Scosse la testa, come per negare che fossi davvero io.«Jonathan lo capiva. Sapeva cosa significa essere torturati dall’odio finché

diventa parte di te. Il nostro dolore ci legava – e ci consentiva di essere sinceril’uno con l’altra. Non mi giudicava quando gli dicevo che la odiavo. Non miguardava come stai facendo tu adesso. Come se fossi detestabile. E lo sono. Sodi esserlo. È per questo che tu dovresti odiarmi, Evan». L’emozione spezzò la miasicurezza. «Dovresti odiarmi quanto mi odio io».Il dolore si fece largo, distruggendo il suo tono glaciale e dissolvendo l’odio nei suoi

occhi. Feci un passo verso di lei, pronto a consolarla, a convincerla che non la odiavo, eche non avrei mai potuto farlo. Mi distruggeva sapere che era convinta di meritare tuttol’odio che le era stato scatenato addosso.«Mi sono quasi arresa».Mi bloccai. «Cosa?»«Il giorno… della mia corsa. Mi sono quasi arresa». Il mio battito accelerò. «Mi sono

tuffata nell’oceano, e ho continuato a nuotare. Volevo che mi prendesse con sé. Volevoannegare il senso di colpa. Non volevo più fare del male. Non volevo più essere odiata.Non volevo continuare a respirare».Le sue parole mi strapparono l’aria dai polmoni. «Emma». Lei si accasciò in ginocchio.

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La afferrai, abbracciandola. «Non provare ad abbandonarmi. Perché se lo fai, mi por teraicon te. E non puoi fare una cosa del genere a noi».Le lacrime mi spuntavano dagli occhi mentre lei crollava su di me. «Non posso…». Le si

spezzò la voce. «Non ce la faccio più».«Allora lo farò io per te», dissi con voce roca, la gola chiusa. «Lasciati amare. Voglio

amar ti abbastanza per entrambi, finché non accetti di meritarlo. Perché lo meriti, Emma.Non so come convincer ti. Ma passerò il resto della mia vita a provarci. Non puoilasciarmi adesso. Non te lo permetterò».Non riuscivo a riprendere fiato. Affondai il viso nella sua camicia. Lui era la

ragione per cui ero viva. Erano state le sue parole a riportarmi in superficie. Il suorespiro mi aveva salvato. E adesso, erano le sue braccia a tenermi in quella vita,e a non farmi arrendere. Lui era la mia forza, e l’amore che non avevo per me. Enon potevo vivere senza di lui.Allontanai il viso dal suo petto, e lui allentò la stretta. Misi la mano sulla sua

guancia bagnata mentre si chinava verso di me, catturando il mio respiro nel suo.L’improvvisa pressione delle sue labbra decise mi provocò un’ondata irresistibiledi affetto, che riempì ogni poro del mio corpo. Mi baciò come se il suo toccopotesse guarirmi. E in quel momento, mi convinsi che era così.Lasciai che le mie labbra si soffermassero sulle sue, volevo che sentisse quanto fossero

vere le mie parole. Non potevo lasciarla andare, né ora né mai. Lei sussultò all’intensitàdelle mie labbra che continuavano a scivolare sulle sue. Mi accarezzò i capelli. Il miocuore sobbalzò al tocco della sua lingua calda sulle mie labbra, che stuzzicava la mia

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lingua.Non mi bastava più, avevo bisogno di spingermi nella sua pelle e sentire il suo cuore

battere nel mio petto. Il mio cuore mar tellava al punto da convincermi che dovevo farlo.Che condividevamo le stesse pulsazioni. Le sue dita tremavano mentre armeggiavano coni bottoni della mia camicia. Le abbassai le spalline e le s filai il vestito dalla pelle liscia.Lasciai che mi togliesse la camicia, passandomi le mani sul petto. Lo sguardo nei suoiocchi, pieno di amore e paura, mi catturò.«Ti amo, Emma Thomas», sussurrai. «Non ci sarà mai un secondo della tua vita in cui

non lo saprai».Una lacrima silenziosa le scivolò dagli occhi e scese tra i capelli mentre si stendeva sul

cuscino blu scuro. Le passai il pollice sulla pelle, asciugandola.Un’esplosione improvvisa ci spaventò, attirando la nostra attenzione sui fuochi

d’ar tificio che si diffondevano nel cielo. Tenni gli occhi fissi sui suoi, guardando i coloriche si riflettevano in loro. Lei inspirò al mio tocco gentile mentre le passavo la punta delledita sulla pancia.Scesi fino alle sue gambe nude, slacciai la cinghietta intorno ai talloni, e lasciando cadere

a terra i sandali. Il suo respiro si fece più profondo mentre baciavo ogni centimetro di lei.Mi sbottonai i pantaloni mentre tornavo verso le sue labbra morbide. Le mancò il fiatoquando le slacciai il reggiseno, spogliandola all’aria fredda.Mi afferrò le spalle mentre mi muovevo sul suo corpo, assaporando la sua pelle.

Togliendole gli ultimi vestiti, mi feci indietro per ammirare le sue curve, sentendo il caloreche emanava mentre le s fioravo l’interno coscia, e le sue gambe che si spostarono

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leggermente con un sussulto.Le mie pulsazioni accelerarono mentre guardavo le sue labbra aprirsi, con gli occhi

chiusi, al mio tocco. Anche alla fioca luce, vedevo il rossore che si diffondeva dal pettoalle sue guance. Mi chinai per baciare quel colore. Lei voltò la testa verso di me, e sentii ilcontatto con la sua bocca mentre sospirava contro le mie labbra. Tremò sotto di me,inarcando leggermente la schiena . I suoi occhi si spalancarono, mentre increspava lesplendide labbra.Senza toglierle gli occhi di dosso, mi misi su di lei. Lei avvolse le gambe attorno alle

mie, guidandomi gentilmente dentro di lei. Mi irrigidii al contatto: mi circondava, e nonsentivo altro che lei. A ffondai il viso nel suo collo, baciandolo mentre lei buttava indietrola testa per il piacere.Sospirò, premendo le labbra contro le mie spalle con una mano dietro il collo e l’altra

che seguiva il movimento della mia schiena. Strinsi la presa sui suoi fianchi, assorbendoogni suo movimento, ogni suo odore e ogni sua sensazione. Non avevo mai avuto piùbisogno di lei che in quel momento – e lei non si era mai concessa più di così.Quando il calore aumentò, e con esso il desiderio, inspirò con decisione e inclinò i

fianchi verso di me. Le sue gambe tremarono mentre lottava per respirare. Costretto achiudere gli occhi, sopraffatto dalle onde di piacere che si infrangevano su di me, trattenniil respiro e mi persi in quell’ondata, premendo il viso sulle sue spalle, inspirando il suoprofumo dolce finché non riuscii più a trattenermi.Mi abbassai su di lei e la strinsi, premendo le labbra sui suoi capelli. Quando mi tirai

indietro per guardarla, le brillavano gli occhi.

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Si stese accanto a me quando mi raggomitolai su di lui, incapace di parlare. Erosopraffatta da tutte le sensazioni possibili – era un momento a cui mi sareiaggrappata per il resto della vita.Rimanemmo nel nostro abbraccio silenzioso guardando le scintille accese che

illuminavano il cielo notturno. Tremai, ed Evan si allontanò quando bastava perprendere una coperta.«Stai bene?», chiese, stringendomi.Voltai la testa verso di lui e gli passai il pollice sul labbro inferiore, e dissi: «Ogni

mio respiro è merito tuo». I suoi occhi tremarono, fissando ancora i miei. «Anchequando non c’eri a salvarmi, eri la ragione per cui respiravo. E per questo tiamerò sempre. Sempre».«Emma?», mi chiamò Evan dalla stanza buia. Chiusi la porta della camera da

letto, con il cuore distrutto e il corpo privo di forze.Accese la lampada sul comodino. Il suo volto fu colto dalla confusione quando mi

vide vestita ai piedi del letto.«Che ore sono?», chiesi.«È presto», gli dissi con un sospiro tremante.«Emma, che succede?», mi chiese, con il volto carico di apprensione. «Che

significa?»«Questa è la parte in cui ti spezzo il cuore», sussurrai. «E in cui finalmente

capirai perché dovresti odiarmi».Corsi su per le scale, con ogni muscolo teso. Bussai alla porta.

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«Sara!».Un istante dopo, Jared aprì la por ta, strofinandosi gli occhi. Sara era seduta sul letto

dietro di lui, ancora intontita e mezza addormentata.«Evan? Che succede?».Superai Jared ed entrai nella stanza. «Devi chiamare tuo padre. Emma se n’è andata».«Che cosa?!», si tolse le lenzuola di dosso. «Che significa che se n’è andata?!».«Mi ha detto qualcosa…», dovetti fare una pausa, con lo stomaco pieno di bile al solo

pensiero. «Mi ha confessato una cosa, e non so se crederci. Devo sapere se è vero. E tuopadre è l’unico che può dircelo».«Di che stai parlando?», chiese, con la fronte aggrottata. «Dov’è andata Emma?»«A New York», le dissi. «A cercare Jonathan». Feci un respiro profondo e raccontai per

filo e per segno quello che Emma si era finalmente decisa a confessare.«Emma, quello che dici non ha senso», mi tolsi le lenzuola di dosso. «Cos’è che non mi

hai detto?». Poi notai il telefono che teneva stretto in mano. «Il messaggio».«Lo sapevi?», chiese, con gli occhi che tremarono per un attimo. «Come? Voglio dire…

perché non me l’hai detto?»«Ho pensato che l’avresti visto quando ti avrei restituito il telefono», spiegai. «Non

riuscivo a dir ti nulla. Non sapevo cosa era successo tra te e Jonathan, e perché dovevateperdonarvi a vicenda, ma…». Mi fermai e mi passai una mano sul viso. «Lo detesto, Em.Sinceramente vorrei che non lo avessi mai incontrato».Lei chinò la testa con gli occhi chiusi.«Riguarda lui, vero?»

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Annuì.«Perché deve perdonarti?»«Perché gli ho fatto del male… proprio come ho fatto con te. Ho approfittato della sua

fiducia e l’ho usata contro di lui, sapendo che l’avrei ferito. Ed è quello che ho fatto».«Mio padre sta telefonando a qualcuno per saperne di più», mi disse Sara,

interrompendomi mentre facevo le valigie. «Sono sicura che c’è dell’altro».«Quindi lei non te ne ha mai parlato?». Sara scosse la testa. «Lo ha tenuto per sé per più

di due anni?». Serrai la mascella e ripresi a fare la valigia.«Evan, prima cerchiamo di capire cosa è successo, d’accordo?»«La sera che quel tizio è entrato in casa mia», cominciò, con la testa ancora china in

avanti, «Jonathan ha lottato per difendermi. Ma lo ha picchiato talmente tanto, che quelloha smesso di muoversi. E quando finalmente sono riuscita a fermare Jonathan, il tizio nonaveva più un aspetto umano. C’era sangue… dapper tutto». Le si spezzò la voce e letremarono le mani. Rimasi sul letto accanto a lei, cercando di mantenere il respiroregolare.«L’ho aiutato a sbarazzarsi del corpo, dopo, e abbiamo mentito alla polizia».«Era morto?», chiesi. Lei annuì.«Jonathan non l’ha ucciso», annunciò Sara, riagganciando il telefono più di un’ora dopo,

esausta e tremante. «L’ha picchiato a sangue, ma lo spacciatore è stato trovato mor to nelparcheggio con un proiettile in testa. Sei mesi dopo hanno ritracciato la pistola in un’altrasparatoria. Immagino che nel bar ci fosse un altro delinquente, e questo spacciatore nonaveva una reputazione delle migliori. Così il delinquente ne ha approfittato per sparargli e

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andarsene con un sacco di soldi e di droga».«Lei pensa di averlo aiutato a ucciderlo. Pensa di essere stata complice di un omicidio».«È per questo che ti ha chiesto di perdonarlo, perché ha ucciso questo tizio?», chiesi,

rigido per la rabbia.«No», rispose, con voce così bassa che la sentii a malapena.«Lui ha ucciso la sua famiglia», mi disse Sara, e io serrai i denti per la repulsione. «Ha

confessato di aver appiccato l’incendio in cui sono mor ti sua madre, suo padre e suofratello nel sonno. Il processo è stato rapido, e tre giorni fa è stato condannato. Miopadre dice che è stato maltrattato dal padre per gran par te della sua vita e ha subìto deidanni psicologici. Il suo psichiatra ha testimoniato in suo favore, e lui è stato condannatoa vent’anni per omicidio di primo grado, con obbligo di detenzione per dieci. È in uncarcere di New York».«Lo sapevi, e non hai fatto niente?!», alzai la voce. «Gli avresti permesso di farla

franca?!».«Avevo giurato. E so che lui avrebbe fatto lo stesso per me».Dopo un momento di assordante silenzio, si alzò dal letto.«Dove vai?»«Devo trovarlo. So che gli è successo qualcosa di brutto, e non potrei vivere se non

andassi a cercarlo. Mi dispiace, ma devo andare».Emma aveva tenuto per sé il segreto di Jonathan come aveva promesso – fino a quella

sera. Prima pensavo di odiarlo. Ora pensavo che la rabbia che provavo mi avrebbeincenerito.

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Mi misi a sedere sul pavimento, appoggiato al muro, tenendomi la testa tra le mani. «Leilo sapeva», mormorai. «Lo sapeva e ha scelto di proteggerlo, di tenere nascosto il suosegreto. Lui ha ucciso la sua famiglia, e lei non ha detto una parola».«Evan», implorò Sara. Rifiutai di alzare lo sguardo.«Che razza di persona fa una cosa del genere?».«Non sono la ragazza di cui ti sei innamorato. Lei non esiste più. Devi decidere se puoi

ancora amarmi. Ora la scelta è tua».E poi se ne è andata.«Sara, dovresti chiamarla, dirle dello spacciatore. E anche dov’è Jonathan».«Non vuoi chiamarla tu?», chiese.«Non riesco a parlarle». Uscii dalla stanza, sbattendo la porta.

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M

40Quello che è tuo

i strattonai i jeans sedendomi al tavolo, aspettando che entrasse. Il mio cuore battevacosì forte che mi girava la testa.

Quando si aprirono le por te, l’intera stanza si mosse nell’attesa. Passai in rassegna i voltidegli uomini con le tute verdi. Uomini con cui non mi sarei mai voluto trovare da solonella stessa stanza. Quando vidi il volto di Jonathan mi fermai, e i suoi occhi siilluminarono quando mi riconobbe.«Ciao, Jonathan», dissi in imbarazzo, non sapendo bene cosa dovessi fare.«Non posso credere che sei davvero qui», dissi, con un’espressione di sollievo.

«Pensavo che mi odiassi».Una rapida fitta mi strinse il petto alle sue parole. «No. Penso sia ora di cominciare a

perdonare».

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L’incontro con Jonathan era stato un sollievo per certi versi, ma vederlo in quellaprigione opprimente era ancora una cosa che non riuscivo a togliermi dallamente. Il mio telefono squillò, distogliendomi dai miei pensieri. Lo presi e trovaiuna chiamata persa da parte di Evan. Alla vista del suo nome, mi invaseun’ondata di angoscia. Non l’avevo più sentito da quando me n’ero andata daSanta Barbara cinque giorni prima. Sapendo cosa significava quella telefonata,afferrai il volante più stretto. Aveva fatto la sua scelta.Accostai in un’area di sosta e parcheggiai l’auto a noleggio. Poi feci un respiro

profondo e ascoltai il messaggio.«Ciao, Em. Ti prego, chiamami». La sua voce era calma e triste.Chiusi gli occhi. Il veloce battito del mio cuore mi riempì le orecchie. Provai a

calmarlo, a rilassarmi. Ma mi sembrava impossibile. Stavo per ascoltare l’unicapersona che avevo mai amato dirmi che non poteva stare con me. Non c’eraguarigione possibile da una cosa del genere.Non c’erano più segreti. Sapeva tutto. Ero nuda. Aprirmi completamente nei

confronti di Evan era stata la cosa più difficile che avessi mai dovuto fare. Miaveva lasciata completamente vulnerabile al suo giudizio e al suo rifiuto. Tantovaleva aprirmi le costole e consegnargli il mio cuore. Non ne avevo più bisogno senon potevo stare con lui.Fissai il telefono, in preda al panico. Mi ero preparata a quella telefonata dal

momento in cui me n’ero andata da lui… di nuovo. Sentii il telefono squillare,concentrandomi su ogni respiro.

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«Ciao».«Ciao», risposi debolmente.«Sono contento che hai chiamato. Avevo paura che non l’avresti fatto».«Ho immaginato che avessi preso la tua decisione», balbettai, con il cuore che

continuava a martellare implacabile.«Infatti. Dovevo… pensare. Ero così arrabbiato. Non riuscivo a capire perché

avessi mantenuto un segreto così orribile. Non l’ho ancora superato».Mi si strinse il cuore. Chiusi gli occhi e aspettai.«Emma, non ho mai avuto dubbi. Sceglierò sempre te. Sempre».Per un istante, non riuscii a pronunciare nemmeno una parola. «Cosa?»«Non sono d’accordo con quello che hai fatto», spiegò. «E sono incazzato perché

non ne hai parlato con nessuno. Hai sbagliato, Em. Ma lo sapevi. Ed è per questoche ti sei torturata. E smetterò di essere arrabbiato. Ma non potrei mai smetteredi amarti. Se siamo sinceri, se mi dici tutto, possiamo superare qualsiasi cosa. Miprometti che non ci saranno più segreti? Anche se pensi che faranno male, midirai tutto?».Non era quello che avrebbe dovuto dire.«Emma?»«Non capisco. Tu… mi ami ancora?».Si lasciò scappare una leggera risatina. «Sì. E lo so che non sei più la stessa

ragazza. Ma io sono innamorato di te, Emma. Mi sono innamorato di te di nuovoquesta estate. Le persone cambiano. Lo so. E continueremo a cambiare. E questo

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significa che continuerò a innamorarmi di te. Perché qualsiasi cosa accadrà nellenostre vite, quello che provo per te sopravvivrà a tutto».Avevo così paura di perderlo, di perdere il suo amore, che non mi era mai

passato per la mente che potesse perdonarmi. Che potesse amarmi quanto loamavo io. Non era possibile che mi stesse dicendo quelle cose. Non era possibileche mi perdonasse. Eppure era così.Crollai sul volante e presi a singhiozzare, mentre il telefono mi scivolava dalle

mani.«Emma?», sentii che mi chiamava, e annaspai per rispondere. «Emma?».Tra i sospiri rotti, risposi: «Sono qui».«Devi avere più fiducia in me», disse piano.«Mi dispiace. Io…»«Lo so», mi interruppe. «Ma non dubitare più di me».«Mai più», dissi, calmandomi con un sospiro. «E basta segreti».«Basta segreti. Dove sei?»«In un’area di sosta, da qualche parte in Oklahoma», risposi, guardandomi

intorno nell’area affollata.«Oklahoma? E perché?»«Avevo solo voglia di salire in macchina e guidare».«E per quanto avevi intenzione di continuare?»«Finché non avessi trovato qualcosa per cui valesse la pena fermarmi», risposi,

asciugandomi il viso bagnato e rimettendomi a sedere dritta.

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«E adesso ti sei fermata, vero?».Sorrisi. «Sì».«Vuol dire che ne valeva la pena», scherzò, facendomi sorridere di più. «Hai in

mente di tornare qui in macchina?»«Ci stavo pensando», risposi. «Immagino che potrei arrivare per il fine

settimana».«Questo fine settimana torno in Connecticut», mi informò Evan. «Devo andare a

prendere le mie cose. Mia madre ha venduto la casa, e bisogna portare via tuttoentro domenica».«Davvero?»«Già», mormorò. «Ma ormai non importa. Ho te». Poi fece una pausa. «Vero?».Risi, asciugandomi gli occhi. «Sì. Hai me».«Bene. Chiamami quando ti fermi stasera, va bene?»«Lo farò», promisi. «Ciao, Evan».«Ciao, Emma», lasciai andare un lungo sospiro, felice che mi avesse chiamato. Presi la

lettera che mi aveva lasciato sul comodino, e passai le dita sull’inchiostro con un sorriso.La lettera che ancora una volta aveva cambiato la mia vita.Lo amo più di quanto potrà mai sapere. E per questo, scelgo la sua felicità.Queste due frasi erano tutto ciò che aveva scritto. E c’era voluta una telefonata a mia

madre per capire che cosa significassero. Lei mi aveva ripetuto il giuramento di Emma.«Lo amo, ma mi farei da par te piuttosto che mettere in pericolo la sua felicità». Miamadre aveva spiegato che quella lettera l’aveva costretta a prendere una delle decisionipiù difficili della sua vita.

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Entrai in soggiorno, dove Sara era seduta sul divano con il telefono in mano, a mandareun messaggio. Mi osservò incuriosita; poi disse, raggiante: «Hai appena parlato conEmma». Annuii, incapace di trattenere il sorriso. «Bene».«Grazie per avermi convinto. Non so se sarei stato capace di fare un passo indietro e

capire quello che aveva passato se tu non mi avessi aiutato».«Eri arrabbiato, ed è comprensibile», spiegò semplicemente. «È difficile vedere con

chiarezza tra tanta rabbia. Credimi, sono amica di Emma da tanto tempo. Sono una speciedi esperta, ormai».Entrai nel vialetto e osservai la grande casa colonica bianca con un peso sul cuore.Usai la mia chiave per aprire la por ta, la chiave che avrei dovuto lasciare sul tavolo della

cucina prima di andarmene. I miei passi riecheggiarono nella cucina spoglia. La stanzasembrava ancora più grande ora che era stata svuotata.Passai la mano sul tavolo di marmo, ricordando tutte le conversazioni e i pasti che si

erano svolti lì – non solo con Emma, ma anche con la mia famiglia. Proseguii nelsoggiorno vuoto, con solo il piccolo lampadario di cristallo appeso al centro della stanza.Le ombre del tramonto si allungavano sul pavimento attraverso la grande finestrapanoramica.Non mi presi la briga di accendere la luce mentre percorrevo il corridoio, perché

l’oscurità rispecchiava il mio umore tetro. Il pianofor te era fermo al solito posto, aprendersi gioco di me – era l’ultimo oggetto lasciato lì, a par te quello che era rimastonella mia stanza. Sarebbero venuti a prenderlo non prima del giorno dopo. Salii la scala achiocciola, la scala su cui avevo por tato Emma quando si era fatta male il ginocchio.

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Sorrisi debolmente, ricordando la sua irritazione quando l’avevo presa in braccio atradimento.Rimasi fuori dalla por ta della mia stanza ed esitai. Era la prima casa in cui avevo

svuotato tutte le mie scatole, perché volevo restare. Tutto a causa di una ragazza con uncarattere orgoglioso e una tendenza ad arrossire che mi faceva sapere esattamente cosapensava di me. Era tutto quello che ci voleva, ed era lei. E adesso dovevo lasciare l’unicoposto che avessi mai considerato casa.Aprii la por ta e accesi le luci nella stanza buia e cavernosa, ma mi fermai sulla soglia,

guardandomi intorno incuriosito. Era esattamente come l’avevo lasciata. Con tutti glioggetti a posto.Mi avvicinai allo smoking steso sul letto, con sopra un bigliettino.Indossami e torna giù.Sorrisi.Quando finalmente uscì, ero seduta sull’altalena con piccole luci scintillanti che

brillavano su di me, come un migliaio di lucciole stese lungo i rami forti. Eraincantevole. Proprio come volevo.Sorrisi guardando il ragazzo perfetto con addosso lo smoking su misura. I suoi

capelli castano chiari erano pettinati ordinatamente da un lato, e aveva unsorriso che accese tutto il mio corpo in maniera incontrollata.«Ciao», disse, con le luci che si riflettevano nei suoi occhi. «Sono contento di

vederti. Mi sei mancata».«Ciao», risposi, dondolandomi gentilmente sull’altalena. «Mi sei mancato anche

tu».

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Non c’era modo di continuare a respirare quando la vidi seduta sull’altalena con il vestitorosa senza spalline che le svolazzava attorno. I capelli castani cor ti le incorniciavano ilviso stupendo, e le luci sugli alberi illuminavano la sua pelle. Ero incantato dalla ragazzache avevo davanti.«Un tipo un giorno mi ha detto che una ragazza ha bisogno di tempo per prepararsi a

qualcosa del genere», disse. «Penso che abbiamo aspettato abbastanza. Evan Mathews,vuoi venire al ballo con me?».Risi, e le mie orecchie riconobbero subito la musica che proveniva dalla piscina. «Sì,

Emma, non vedo l’ora di venire al ballo con te». Saltò giù dall’altalena e prese la manoche avevo teso per lei. La strinsi con decisione tra le mie mani, il naso immerso tra i suoicapelli. Dopo tutto quello che era successo quell’estate, avevo solo bisogno di stringerla.E lei aveva bisogno di sapere che era mia, e che io ero ancora suo. Rimanemmoabbracciati finché le sue spalle non si rilassarono e si lasciò andare.Mi spostai, guardando il suo volto raggiante. «L’hai fatto tu?», chiesi, indicando

l’albero.«No», disse con una risatina. «Ho chiamato qualcuno per farlo. Io mi sarei spezzata il

collo. Ma è stata una mia idea. Sei sorpreso?»«Molto», risi, e stavo per baciarla quando aprì il cancelletto. Il fuoco che si rifletteva

nell’acqua attirò la mia attenzione, e io mi voltai.Emma gongolò. «Vedi? È davvero una piscina».Le candele galleggiavano sulla super ficie, e tutta la veranda era illuminata con lanterne di

car ta colorata, a ricordarmi di quelle che suo padre una volta aveva appeso per lei in

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giardino il giorno del suo compleanno.“Wow”, mimai con la bocca. «È fantastico, Emma».«Lo so. Sono piuttosto sorpresa da me stessa».Evan rise, passandomi il braccio attorno alla vita e spingendomi verso di sé. Si

chinò e mi baciò con dolcezza, come un sussurro sulle labbra. Tenne gli occhichiusi quando si allontanò.«Respira, Emma». La sua voce fluttuò nella brezza. Aprii gli occhi e sospirai. Non

mi lasciò andare, e cominciammo a ondeggiare al suono ipnotico di voci femminiliche vorticavano nell’aria.«Grazie per aver fatto tutto questo», disse, baciandomi sulla fronte. «Significa

molto per me che tu sia qui, a passare con me l’ultima sera in questa casa».«L’ultima sera?», sottolineò, sollevando la testa. «Perché dovrebbe essere l’ultima

sera?».Osservai il suo viso mentre i suoi occhi brillavano alla fioca luce. «Cos’è che non mi stai

dicendo, Emma?». Lei scoprì il sorriso più smagliante. «Dimmelo».«Be’… diciamo che ho fatto un investimento per il futuro».«Hai comprato questa casa». Non ci stavamo più muovendo al suono etereo della

musica.«Tecnicamente, una par te è tua», spiegò. «Tua madre ha accettato una par te dei tuoi

risparmi come gli avevi offer to, e Charles si è occupato di pagare il resto. Quindi di basetu possiedi la tua stanza da letto». Rise. La abbracciai facendola ondeggiare, e urlare conuna gioiosa risata.

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La baciai sul collo. «Abbiamo una casa».«Hai una stanza», mi prese in giro. «Io ho una casa. Ehm… il pianoforte rimane».«Non lo suonerò», disse subito, facendomi sorridere.«Immagino che dovrò imparare io», dissi, appoggiandogli la testa sul petto

mentre ricominciavamo a ondeggiare.Sprizzava gioia da tutti i pori, come se stesse per esplodere, e io sorridevo tanto

da far male. Ero grata che Vivian non avesse accettato altre offerte prima diincontrarmi lo scorso fine settimana – anche se in quel momento non sapevo chesarei stata io a vivere lì con lui. Avevamo riflettuto insieme sulle scelte esull’amore.L’amore era facile. Tutto ciò che dovevo fare era guardarlo negli occhi e

rendermene conto.Nell’equilibrio instabile della mia vita, avevo conosciuto amore e dolore. Il dolore

mi aveva reso più forte, ma era l’amore che mi aveva sostenuto quando erodebole. Ero una sopravvissuta. E adesso volevo concentrarmi a vivere la mia vita.Quello era solo l’inizio della nostra guarigione. Del nostro perdono. Sapevo che

alle volte avrei dovuto lottare, e avrei dovuto lottare per ogni singolo respiro.Dovevo solo ricordarmi che c’era sempre una scelta. E io avevo scelto di vivere.Avevo scelto di amare. Avevo scelto di respirare.

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M

Epilogo

i torturavo le mani in grembo. Sembrava che il cuore mi stesse uscendo dalpetto.

«Ferma!», urlai, praticamente senza fiato. «Non ce la posso fare. Non posso».Silenzio. Niente discorsi di incoraggiamento. Niente tentativi di convincermi.Chiusi gli occhi e presi fiato. Se il mio cuore avesse continuato a battere in quel

modo, mi avrebbero vista tutta sudata. E non volevo presentarmi così. Feci unaltro respiro.“Posso farcela. Posso farcela. Devo solo camminare. E sorridere. E forse parlare.

Ce la posso fare”.Riaprii gli occhi e dissi: «Ok, sono pronta».Evan mi lanciò un’occhiata. «Sei sicura stavolta?»«Sta’ zitto e cammina», lo pregai, facendolo ridere. Le mie spalle si rilassarono

quando rallentammo.

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Davanti a me c’era una grande casa color corallo. Il mio sospiro si fece regolare,e il panico diminuì. Prima che potessi uscire dall’auto, la porta della casa si aprì euna bambina con un vestito rosa infiocchettato uscì fuori di corsa. «Emma!».Venne a sbattere su di me, con le braccia attorno alla mia pancia. «Ciao, Leyla»,

dissi, con gli occhi che si inumidivano mentre la stringevo. «Sei bellissima».«Sapevo che ti saresti vestita di rosa», esclamò gioiosa. «È il nostro colore

preferito».«Anche il mio», intervenne Evan, facendola ridere.«Jack, perché non aiuti Evan a portare dentro le loro borse?», disse con

gentilezza la donna con i capelli grigi ben pettinati.Il ragazzino con gli occhialetti tondi si avvicinò a Evan, esitando.«Ehi, Jack», disse Evan, tendendo la mano. «Sono Evan». Jack la afferrò, e un

piccolo sorriso spuntò quando la strinse. «Puoi portare dentro questa scatola,visto che è tua». Gli occhi di Jack si illuminarono quando accettò il regaloimpacchettato con una festosa carta da regalo natalizia. «E l’ho dovutoimpacchettare io perché Emma non riuscirebbe a piegare un angolo neanche sefosse questione di vita o di morte».Jack rise«È vero», sospirai.«Ciao, Emily…», mia nonna esitò. «Emma. È bello incontrarti finalmente di

persona». Sollevai la testa per guardare la donna di fronte a me, a cuiassomigliavo. La donna che mi aveva restituito la mia famiglia.

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Mia nonna fece per darmi la mano, indecisa su come salutarmi. Mi liberaidall’abbraccio di Leyla.«Grazie», dissi, prendendola tra le braccia. Lei avvolse le sue braccia decise e

sottili attorno a me e strinse forte.

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Q

Ringraziamenti

uasi quattro anni fa, fui ispirata da una storia che voleva essere raccontata.Nel corso degli anni, mi sono aperta e ho lasciato che parte della mia anima si

riversasse nelle pagine. Ne sono uscita vulnerabile ed esposta, dopo aver datotutto ciò che avevo per permettere alla storia di essere esattamente comedoveva essere. E sono orgogliosa della parte di me che ho lasciato sulle pagine.Così facendo ho imparato molte cose su chi sono – e la più importante è che sonomolto più forte di quanto pensassi.Non ho fatto, né mai avrei potuto fare, tutto da sola. Nella mia vita ci sono

molte persone a cui devo essere grata. Per avermi amato, per aver creduto inme, ed essere esattamente ciò di cui ho bisogno, ogni volta. Li amo tutti, e lorosanno chi sono.E poi c’è un piccolo gruppo di persone che hanno donato il loro tempo, la loro

pazienza e il loro affetto alla storia in modo da rendere strepitosi gli ultimi

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capitoli di questa serie…Prima di tutto, devo ringraziare Emily per aver creduto così tanto in me da aver

cambiato la sua vita per far parte della mia. Non c’è un’amica più vera, o unessere umano più dolce.Elizabeth, la mia compagna, il mio legame con la normalità, e la voce senza cui

non potrei mai vivere. Grazie! Sono così fortunata ad avere una persona cosìbella nella mia vita, nonché una devota compagna di scrittura, piena di talento intutto ciò che fa.Faith, che non ha mai lasciato che questa storia perdesse sincerità e verità e,

così facendo, mi ha reso una scrittrice migliore.Courtney, per aver fatto sì che ogni emozione fosse genuina e ogni parola

potente come doveva essere.Nicole, che mi ha dato molto più di quanto pensasse – la sua amicizia e l’amore

sopra ogni cosa.Amy, la mia formidabile guru, per aver condiviso con me la bellissima arte della

scrittura e avermi permesso di guardarla da un’angolazione diversa.Jenn, destinata a essere mia amica, con cui condivido la passione per la

narrazione, e che mi ha aiutata a trovare la voce di Emma quando ce n’erabisogno.Sarah, senza cui non avrei mai ritrovato la forza di cominciare questa storia che

è molto più di una semplice “storia”.Tracey, Colleen e Tammara, le mie splendide amiche e fonti d’ispirazione, per

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aver letto le mie parole e condiviso le loro in cambio. Hanno tutte toccato la miavita più di quanto potrò mai spiegare!L’appassionata squadra di Trident Media Group, e specialmente la mia agente

Erica, che è stata al mio fianco a ogni passo; anche quando mi sentivo sull’orlodel baratro, lei ha continuato a resistere. Alex, per la sua pazienza, perseveranza,e per esserci sempre stato quando ne avevo bisogno. E Meredith per i suoimeravigliosi sforzi nel condividere le mie parole con il mondo.Lindsey, Wendy e tutti gli altri di Penguin UK per aver permesso a questa storia

di attraversare l’oceano, per condividerla con i vostri lettori. È importantissimo, evi sono grata per questo.Ho avuto il privilegio di incontrare e diventare amica di molti favolosi autori di

talento negli scorsi anni, e di molti vivaci blogger. Sono una persona miglioregrazie a loro. Viviamo in un mondo in cui creiamo storie, e invitiamo i lettori acondividere la nostra vivida immaginazione. Siamo molto fortunati a potersfiorare qualcuno che non abbiamo mai incontrato, a evocare immagini con leparole e suscitare emozioni pagina dopo pagina. Sono onorata di essere tra loro.Ed eccoci al motivo per tutto quello che faccio: i miei lettori. Se non ci fossero

loro a condividere il mio mondo, non esisterebbe davvero. Sono felice che sianoparte della mia vita – che non sarà mai la stessa.Infine, devo esprimere la mia ammirazione per la forza e la perseveranza di tutti

coloro che sono sopravvissuti a un abuso. C’è speranza. C’è amore. C’è aiuto. Nonsiete soli.

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Indice

PrologoIl vaso di PandoraNiente ripensamentiAnno nuovo, vita nuovaSalto nel vuotoPer niente noiosoMille paroleScontro tra mondiFermare il silenzioRicominciare a sentirePrevedibileDi cosa hai paura?Oltre il bordo

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Troppo tardiProprio come tua madreDiversaPassatoNon è più la stessaAncora lìDammi un motivoIl viaggio della colpaDodici giorniAssieme a leiDolore silenziosoIn attesaUn po’ di sinceritàLasciar andareSparitoTrovare una ragioneNon sapereScelteTreguaImplacabiliLa cosa in piscinaNon pensarci

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Brutale sinceritàSempre tuTutto su domaniLa promessaBasta segretiQuello che è tuoEpilogoRingraziamenti