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Nuova Rivista di Letteratura Italiana diretta da Pietro G. Beltrami, Umberto Carpi, Luca Curti, Piero Floriani, Claudio Giunta, Marco Santagata, Mirko Tavoni EDIZIONI ETS XV, 1-2 2012
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Una profezia del 1313 su Siena di fronte a Enrico VII e la questione della “frottola”

Jan 30, 2023

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NuovaRivista

diLetteratura Italiana

diretta daPietro G. Beltrami, Umberto Carpi,

Luca Curti, Piero Floriani, Claudio Giunta,Marco Santagata, Mirko Tavoni

EDIZIONI ETS

XV, 1-22012

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Nuova Rivista di Letteratura Italiana • XV, 1-2 2012

MARCO GRIMALDI, Politica e storia nel canto XXdel Purgatorio • MARIA CLOTILDE CAMBONI, Unaprofezia del 1313 su Siena di fronte a Enrico VII ela questione della ‘frottola’ • ANGELO EUGENIO

MECCA, L’«amico del Boccaccio» e l’allestimento te-stuale dell’Officina Vaticana • VERONICA

COPELLO, L’elaborazione delle similitudini nell’Or-lando furioso: i canti XXXVII e XLVI • CHIARA

TOGNARELLI, Le Nuove poesie di Carducci • UM-BERTO CARPI, Gallian e le riviste romane d’avan-guardia negli anni Venti

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Nuova Rivista di Letteratura Italiana

DirezionePietro G. Beltrami, Umberto Carpi, Luca Curti, Piero Floriani,

Claudio Giunta, Marco Santagata, Mirko Tavoni

Comitato scientifico internazionaleSimone Albonico (Université de Lausanne), Theodore J. Cachey, Jr

(University of Notre Dame), Jean-Louis Fournel (Université Paris VIII), Klaus W. Hempfer (Freie Universität Berlin), María Hernández Esteban

(Universidad Complutense de Madrid), Manfred Hinz (Universität Passau),Kazuaki Ura (Università di Tokyo), Dilwyn Knox (University College London),

Rita Marnoto (Universidade de Coimbra), Domenico Pietropaolo (St Michael’s College at the University of Toronto), Matteo Residori

(Université Sorbonne Nouvelle - Paris III), David Robey (University of Oxford),Piotr Salwa (Uniwersytet Warszawski), Dirk Vanden Berghe

(Vrije Universiteit Brussel), Jean-Claude Zancarini (École Normale Superieure de Lyon)

RedazioneAnnalisa Andreoni, Luca D’Onghia, Vinicio Pacca, Marina Riccucci, Chiara Tognarelli, Antonio Zollino

Direttore responsabilePietro G. Beltrami

La «Nuova Rivista di Letteratura Italiana» si avvale della consulenza di revisori anonimi per la valutazione degli articoli proposti

per la pubblicazione.

«Nuova Rivista di Letteratura Italiana» is a peer reviewed journal.

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periodico semestraleAutorizzazione del Tribunale di Pisa n. 15 del 1998

abbonamento:Italia € 47,00, estero € 60

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diLetteratura Italiana

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Edizioni ETS

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INDICE

MARCO GRIMALDI, Politica e storia nel canto XX del Purgatorio

MARIA CLOTILDE CAMBONI, Una profezia del 1313 su Siena di fronte a Enrico VII e la questione della ‘frottola’

ANGELO EUGENIO MECCA, L’«amico del Boccaccio»e l’allestimento testuale dell’Officina Vaticana

VERONICA COPELLO, L’elaborazione delle similitudininell’Orlando furioso: i canti XXXVII e XLVI

CHIARA TOGNARELLI, Le Nuove poesie di Carducci

UMBERTO CARPI, Gallian e le riviste romane d’avanguardianegli anni Venti

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1. Per un’introduzione alla questione, si possono vedere MARJORIE REEVES, The Influence of Prophecyin the Later Middle Ages. A Study in Joachimism, Oxford, Oxford University Press 1969; BERNARD MC-GINN, Visions of the End. Apocalyptic Traditions in the Middle Ages, New York, Columbia UniversityPress 1979; ROBERTO RUSCONI, L’attesa della fine: crisi della società, profezia ed Apocalisse in Italia al tem-po del grande scisma d’Occidente (1378-1417), Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo 1979 (inparticolare il capitolo quarto, pp. 133-84, per la tradizione dei testi profetici con scopi di più o meno im-mediata propaganda politica, e al suo interno le pp. 143-63 per i testi profetici in versi redatti in Italianella seconda metà del XIV secolo); RUSCONI, Profezia e profeti alla fine del Medioevo, Roma, Viella1999.

MARIA CLOTILDE CAMBONI

UNA PROFEZIA DEL 1313 SU SIENA DI FRONTE A ENRICO VIIE LA QUESTIONE DELLA ‘FROTTOLA’

1. La tradizione dei testi profetici tra Medioevo e prima età moderna è tal-mente ampia e variegata che darne in poche righe un quadro d’insieme appareimpossibile1. A comporla concorrono testi molto diversi dal punto di vista for-male, in prosa o in versi, in latino o in lingua volgare. Talvolta l’autore è noto, mamolto più spesso si tratta di testi adespoti o tradizionalmente attribuiti a figurecarismatiche atte a svolgere il ruolo di auctoritates (da Merlino a Santa Brigida). Iloro scopi sono anch’essi svariati: ai moltissimi testi dove si manifestano atteseescatologiche-apocalittiche se ne affiancano per esempio alcuni dove il linguag-gio della profezia viene utilizzato per fini più o meno assimilabili alla propagandapolitica, la quale può ovviamente essere indirizzata in direzioni assai diverse. Laloro circolazione si è svolta seguendo binari differenti: alcuni hanno avuto unanotevole fortuna e sono stati letti e copiati per secoli attraversando l’intero conti-nente europeo, altri ne hanno avuto una molto più limitata, o quasi nulla. Tra itestimoni più interessanti di tale tradizione vi sono vari manoscritti (soprattuttoquattrocenteschi) e libri a stampa integralmente dedicati a raccogliere testi profe-tici, ma se ne trovano trascritti in fonti appartenenti a varie altre tipologie. I testivolgari possono essere traduzioni di testi latini precedenti, che talvolta vengonoritradotti in latino, o creazioni originali; ma va detto che una delle caratteristicheprecipue dei testi appartenenti al ‘genere profetico’ (ammesso che si possa parla-re di genere, e non di più generi o semplicemente di un insieme variegato di testiuniti dal comune ricorso a determinate modalità retorico-discorsive) è l’essereaperti a continui aggiornamenti e riscritture. Le ‘profezie’ vengono infatti spessomodificate, per adeguarle a nuovi scopi o più semplicemente al momento in cuierano destinate ad essere lette, sostituendo i riferimenti storici con altri a fatti piùrecenti, o comunque correggendo il testo in modo tale da adattarlo alle mutatecircostanze di fruizione. Chiaramente, ciò pone delicati problemi riguardo alla le-

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2. Descrizione, tavola e uno studio del manoscritto sono contenuti in MARIA CLOTILDE CAMBONI, Unmanoscritto miscellaneo di rime e prose volgari: Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Conventi soppres-si 122, Università di Pisa, Tesi di dottorato in Studi Italianistici 2004.3. «Anche a Lucca, a San Miniato, a Prato gli ambasciatori di Enrico erano stati almeno formalmenteben accolti, sia pur non con l’entusiasmo dei fieri ghibellini pisani. Buone le accoglienze d’Arezzo e quel-le nella stessa Siena, ch’era pur alleata di Firenze, ma dove gli spiriti ghibellini non si erano del tutto so-piti»: FRANCO CARDINI, La Rohmfahrt di Enrico VII, in Il viaggio di Enrico VII in Italia, a c. di MAURO

TOSTI CROCE, Città di Castello, Edimont 1993, pp. 1-11: 3.4. Così racconta la venuta dei delegati imperiali a Siena una delle più antiche cronache senesi, anonima:«E nel tenpo detto venne inbasciadori dello inperadore a Siena e fu lo’ fatto grande onore e fu lo’ donatodal comuno CCC fiorini d’oro. E la chagione della sua venuta fu questa, che veneno a notifichare come lo’nperadore voleva venire a Roma per la corona, e notificharlo al papa et altre signorie; e per questo eranovenuti» (Cronaca senese dall’anno 1202 al 1362, in Cronache senesi, a c. di ALESSANDRO LISINI e FABIO

IACOMETTI, Rerum Italicarum Scriptores, vol. XV, parte 6, Bologna, Zanichelli 19392, pp. 39-172: 89).5. DINO COMPAGNI, Cronica, ed. crit. a c. di DAVIDE CAPPI (Fonti per la storia dell’Italia medievale.Rerum italicarum scriptores, 1), Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo 2000, p. 138.

zione dei testi e la loro datazione: almeno in questo senso, la situazione di moltitesti profetici sembra potersi accostare a quella della letteratura cosidetta ‘popo-lare’.

La riscrittura non è però stata il destino di una ‘profezia’ adespota copiata nelmanoscritto Laurenziano Conventi soppressi 122, c. 7r-v. Per quanto la trascrizio-ne di questo codice miscellaneo di rime e prose volgari risalga alla prima metà delXV secolo, il suo anonimo copista-possessore non ha sentito l’esigenza di adattareil testo al momento storico in cui viveva. Essendo assai probabilmente senese e co-munque sicuramente molto interessato a testi senesi2, si è limitato a copiare conspirito quasi archeologico una «profezia [...] per la città di Siena» (così la rubrica)composta circa un secolo prima. La genesi e le finalità del testo, d’altra parte, ap-paiono talmente radicate in un preciso contesto e momento storico da renderepressoché impossibile riutilizzarlo adattandolo ad altri scopi. Il contesto è, appun-to, il comune di Siena e il momento storico è una precisa fase delle lotte tra l’im-peratore Enrico VII e la lega guelfa, di cui tale comune faceva parte.

È noto che l’alleanza fra città toscane in funzione antimperiale non era deltutto esente da attriti e discordie. L’accoglienza riservata nel 1310 agli ambascia-tori imperiali era stata tutto sommato buona anche in alcuni dei centri che poicombatteranno contro Enrico3, tra cui la stessa Siena4, e l’atteggiamento tenutodal suo comune durante i mesi di scontri tra le truppe della lega guelfa e quelledell’imperatore e dei suoi alleati viene così riassunto da Dino Compagni: «Sienaputtaneggiava: ché in tutta questa guerra non tenne il passo a’ nimici, né dalla vo-lontà de’ Fiorentini in tutto si partì»5.

All’interno delle mura cittadine si trovavano d’altra parte più fazioni tra lorocontrapposte, e il susseguirsi di messe al bando dei ghibellini e successive amni-stie e riammissioni degli stessi in città testimonia dei contrasti in seno alla classedirigente senese, o almeno del fatto che non era ben chiaro se fosse meglio man-dare in esilio i propri concittadini per ritrovarseli come nemici al fianco dell’im-

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6. ROBERT DAVIDSOHN, Storia di Firenze, vol. III, Le ultime lotte contro l’impero, Firenze, Sansoni1977, p. 618; vedi anche WILLIAM M. BOWSKY, Un comune italiano nel Medioevo. Siena sotto il regimedei Nove, 1287-1355, Bologna, Il Mulino 1986, pp. 191-92.7. DAVIDSOHN, Storia..., vol. III, p. 636; per l’agosto 1313, cfr. WILLIAM M. BOWSKY, Henry 7. in Italy.The conflict of empire and city-state, 1310-1313, Lincoln, University of Nebraska Press 1960, pp. 203-4(fonti citate in nota).8. DAVIDSOHN, Storia..., vol. III, pp. 707-8.9. DAVIDSOHN, Storia..., vol. III, p. 720.

peratore, oppure lasciarli liberi di abitare nel centro urbano correndo così il ri-schio che vi venissero organizzate delle congiure. Come in effetti avvenne: giànell’ottobre del 1311 fu scoperta «una vasta cospirazione, a cui partecipavanonumerosi magnati e popolani»; e, a dimostrazione del fatto che a Siena le posi-zioni filoimperiali erano tutt’altro che minoritarie, in quell’occasione «il podestàvoleva promuovere una rigorosa inchiesta, come il suo dovere e il suo giuramen-to gl’imponevano; ma i Nove del governo si opposero e proposero nel Consigliogenerale la sospensione del procedimento, perché, se si fosse agito con severità,‘potevano nascere, Dio guardi, scandalo e gravissima discordia’»6. Insomma, co-me riassume Davidsohn, il «contegno esitante di Siena in quel tempo appare giu-stificato dalle condizioni di poca sicurezza in cui si trovava il partito dominante»,che aveva «abbastanza da fare per difendersi contro moti ghibellini nella stessapopolazione e contro il tentativo di provocare un rivolgimento interno» orche-strato dai contatti del fuoriuscito senese Niccolò de’ Buonsignori, uno dei più fi-dati consiglieri di Enrico VII, che tentò con accanimento di far passare la suacittà della parte imperiale, da ultimo poco prima della morte di Enrico nell’ago-sto 13137.

Al di là dei complotti, più volte nel corso della guerra vennero avviate trattati-ve tese a staccare Siena dalla lega guelfa. Dopo che l’imperatore, accampato nel-l’appena fondata fortezza di Poggibonsi, il 25 gennaio 1313 si era spinto fino aFonte Becci, a pochissima distanza dalle mura di Siena, i senesi inviarono in se-greto al campo imperiale a Poggibonsi alcuni monaci come ambasciatori, «pre-gando Enrico di mandare a Siena il vescovo Niccolò di Butrinto con pieni poteridi trattare; volevano solo che questi si presentasse di nascosto, perché temevanodi distaccarsi apertamente dalla Lega prima di essere sicuri di un accordo»8. Unmomento di forte crisi dell’alleanza si verificò poi a seguito della sconfitta subitadai lucchesi a Vicopisano il 23 aprile 1313: il fatto che i fiorentini non avesseromandato alcun aiuto alla loro alleata causò un certo malcontento, e a seguito diciò partirono trattative con l’imperatore da Lucca e anche da Siena, dove «per-durava un forte movimento contro l’alleanza con Firenze e per un ravvicinamen-to all’Impero». Il governo della città inviò quindi «un’altra ambasceria segreta al-l’Imperatore, perché mandasse a Casole, occupata da truppe imperiali, per nuovetrattative il vescovo di Butrinto»9. A quanto pare l’invito non fu raccolto in nes-suno dei due casi, e l’alleanza tra Siena e Firenze bene o male finì col proseguire.

L’altalenare tra diverse posizioni pure ai livelli più alti della dirigenza cittadina

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10. Cfr. Cronache senesi..., p. XXV; la segnatura del manoscritto è Siena, Biblioteca Comunale degliIntronati, A.VII.44.11. Cronaca senese conosciuta sotto il nome di Paolo di Tommaso Montauri, in Cronache senesi...,pp. 173-252: 245.12. Cronaca Montauri..., p. 243.13. Cronaca Montauri..., p. 241.

trova riscontro anche nei racconti delle cronache: esponendo gli avvenimenti del-l’agosto 1313, quando poco prima di morire Enrico si spinse con le sue truppequasi sotto le mura di Siena per poi vagare nel suo territorio, la cronaca seneseche va sotto il nome di Paolo di Tommaso Montauri (il proprietario dell’anti-grafo del codice quattrocentesco da cui ci è nota10) arriva a qualificare i membridi un consiglio dei Nove come «imperiali»:

A dì XXI d’agosto e’ Luchesi mandarono a’ Sanesi in loro aiuto CC cavalieri per amore esostinimento di parte guelfa, non per dovuto a’ Sanesi, perciochè quando e’ Luchesi per-dero Pietra Santa e Serazana e tutta Lunigiana e’ Sanesi non vi mandarono aiuto niuno,perciochè l’ordine de’ VIIII che alora governavano erano inperiali11.

Ed è da notare che il riferimento è a fatti svoltisi solo un paio di mesi primadell’invio dei cavalieri da Lucca a Siena, così narrati nella stessa cronaca:

a dì XXX di magio 1313 el maniscalco dello inperadore con quantità di cavalieri e pedo-ni si partirno da Pisa e andorne a Pietrasanta e poi a Serazana, entrorvi drento per tradi-mento, ed eberlo, de’ quali di quei luoghi pigliaro tuti e’ richi guelfi e menarnoli pregionia Pisa. E’ Tedeschi e Toscani ghibellini e ribelli robaro le due terre, che non vi lasaro niu-na buona roba e fero molto dano a’ Fiorentini; e gli a[l]tri Toscani, traseno a’ l’aiuto de’Luchesi; e’ Sanesi non vi mandaro, perchè alquanti mali omini stropiaro12.

A dimostrazione delle divisioni tra settori diversi della popolazione si può ci-tare un altro passo della medesima cronaca, relativo ad una scorreria delle truppesenesi avvenuta nel gennaio dello stesso 1313, appoggiata dai Nove ma probabil-mente osteggiata da parte della cittadinanza:

A dì XI di genaio e’ cavalieri Sanesi, ch’erano a Cole, andaro a Radi di Montagna ch’erarebello del comuno di Siena, e ine poseno oste contra a volontà de’ buoni Sanesi; [e’] si-gnori VIIII mandovi di molta vettovaglia e salmoria a tuto el popolo di contado da que-sta mano13.

Il rischio che le spaccature all’interno della città sfociassero in un rivolgimen-to politico violento era percepito addirittura come impellente. La stessa cronacanarra infatti che nel giugno del 1313 il governo cittadino fece collocare delle ca-tene attraverso le strade, allo scopo di ostacolare un eventuale passaggio di uomi-ni armati a cavallo:

Sabato a dì VIIII di giugnio furo poste a tutte le boche del Canpo di Siena grosse catene,co’ le serrature a duo chiavi per guardie e stato de l’ufizio de’ VIIII e per gelosia di cierti

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14. Cronaca Montauri..., p. 243.15. ROBERTA MUCCIARELLI, Il governo dei mercanti, in Storia di Siena, vol. I, Dalle origini alla fine dellaRepubblica, a c. di ROBERTO BARZANTI, GIULIANO CATONI, MARIO DE GREGORIO, Siena, Alsaba 1995,pp. 95-106, cit. a p. 97.

tratati che si diceva che molte genti facievano per rendare Siena a lo ’nperadore per tradi-mento. E così furo ’nposte per tutta la città di Siena a le boche maestre delle strade, vie echia[s]si per tutto el mese di giugno e di luglio, per sicurtà e pacie de lo stato della città.Questo fu l’an[n]o 131314.

Insomma: l’atteggiamento ondivago del comune di Siena con tutta probabilitàrifletteva le alterne vicende di una lotta tra fazioni all’interno di una cittadinanzatutt’altro che monolitica.

2. Il testo della profezia conservata dal Laurenziano si apre con un riferimen-to proprio a questa situazione: la città può far «di lagrime fonte» perché in essavi sono (o meglio, nella finzione profetica saranno) «molti baratti», ovvero moltiscontri e inganni, e nello stesso «concestoro» («concistoro» è il nome attribuito aSiena all’insieme dei magistrati che vi costituiva «una sorta di riunione plenariacon diritto deliberativo su innumerevoli questioni di politica interna ed estera»15)si troveranno assieme i «più savi e più matti». Quale sia il momento storico preci-so in cui si è verificata questa spaccatura all’interno della città è ricostruibile dapiù riferimenti: il primo di questi è alla figura di Enrico VII, identificato permezzo del suo stemma, «un uccel grande con soave penne» in «campo d’oro».Come è noto, lo stemma imperiale è appunto un’aquila in campo d’oro.

Tra le varie fazioni cittadine in lotta, l’ignoto autore del testo appare evidente-mente schierato con la fazione dominante o comunque contro coloro che appog-giano l’imperatore, da lui rappresentato nell’atto di «per vita dar morte a chi ver’lui sarà stato cortese». Non sono in grado di specificare se qui vi sia un riferimentopreciso, e nel caso se vittima di Enrico sia la città di Siena (che, come detto sopra,aveva accolto abbastanza bene i suoi ambasciatori) o piuttosto uno dei tanti centrio gruppi cittadini che nel susseguirsi di ribellioni e lotte tra fazioni occorse duran-te la spedizione di Enrico in Italia finirono con l’avere la peggio: sono noti a que-sto proposito i casi di Brescia e Cremona. Secondo l’autore della profezia, comun-que, molti tra i suoi concittadini «ne fien contenti»: s’intende, delle nefandezze dicui l’imperatore viene considerato in qualche modo responsabile. In seguito peròcostoro, dopo essere stati «esaltati», saranno «atterrati» e quindi «dolenti» «primache l’uccel [ovvero l’imperatore] torni». Credo che in questo caso il riferimento siaal fatto che a partire dalla fine di dicembre del 1312 i ghibellini senesi furono nuo-vamente mandati al confino, apparentemente poco prima che l’imperatore arrivas-se per la prima volta davvero vicino a Siena. Lo svolgersi degli avvenimenti dall’ar-rivo di Enrico a Pisa fino all’espulsione da Siena degli esponenti della fazione fi-loimperiale viene così raccontato da una delle più antiche cronache senesi:

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Come lo ’nperadore Arigho venne a Pisa e venne da Porto Venere, a dì VI di marzo d’annodetto.E al tenpo di misere Tebaldo da Monte Lupponi, potestà di Siena, venne una lettera nellesue mani come era intrato in Pisa lo ’nperadore Arigho d’Astinbergho, ed era venuto conmolta giente ed era montato in mare a Porto Venere. E di questa sua venuta ogniuno del-le parti di Thoscana n’aveva grande paura, perché lui veniva per acquistare tutte questeparti e sottometterle allo suo inperio per chastigare parte ghuelfa; perché per lui tutta To-schana teneva in tribulazione. E questa venuta faceva el detto imperadore per comanda-mento del papa per levar via le parti di Toschana.

Come Siena ribandì tutti gli sbanditi. Anni detti di sopra.E nel detto tenpo per metare pace e unione nella città di Siena, e’ signori Nove ordinoroche tutti e’ ribelli e sbanditi tornaseno, e masime quegli i quali non erano stati trovati inalchuno delitto, ma era lo’ stato aposto; e anco queli e’ quali non erano stati principalid’alchuno male ed imicidio e d’altro, e paghasse per detta ribandigione lire V cento e po-tesse tornare come è di suo piacere, fra quali fu ribandito miser Nastocc[i]o Saracini eGuiducc[i]o e Iacomo di miser Robba de’ Rinaldini e altri isbanditi asai. E questo fu fat-to per la sospezione dal’avenimento dello imperadore, perché e’ detti isbanditi non anda-seno a lui e ghuidasselo a Siena colla loro parte, e fusero chagione di tanto male, volserorimetare ogni ingiuria e far pace con tutti: e in questo modo tornoro gli sbanditi.

Come nel detto tenpo si colse el magiore dazio, che mai si cogliesse per nisuno tenpo.E veduto e’ signori Nove come lo ’nperadore era in Pisa, avevano sospetto di lui e co-minc[i]oro a porre dazi alla città e al contado; e qualunche era alirato C lire paghava vintilire, che ne tochava XX lire per centinaio di lire. E così pagava el ricco, come el povero.E fu tanto el denaio che si colse, che più di CLXXX migliaia di duchati si dise, s’era fattoel conto che s’era colto. E questi denari si miseno in amunizione se bisognio fusse di sol-dar giente per difensione della città di Siena; chè quando bisognio fusse, non s’avesse an-dare a cerchiare e’ denari. E per questo modo fu proveduto per sospetto dello imperado-re Arigo d’Astinbergho.

Come e’ ghibelini furo mandati a confino per sospetto dello imperadore. Anno DominiMCCCXIII.E veduto come lo ’nperadore aveva con seco tutta la parte ghibellina e molti di Toschanae preghavano che dovesse disfare e anulare parte ghuelfa, e per questa sospezione e’ ghi-belini di Siena erano malvoluti ed erano tenuti a sospetto. E una notte e’ ghuelfi ordinoroche si dovesse levare el romore per cogliare chagione a’ ghibelini; e uno sabato a notte, ladomenica a matina inazi dì, fu una boce, la quale era a una bocha del chanpo ecominc[i]ò a gridare: arma, arma. E in questo per amore del sospetto incontanente sonòla chanpana ad arme, e inmediate e’ ghibelini furo mossi armata mano e giunsero in Piaz-za, e non vedendo nè anco sapendo alchuna cosa, le fu fatto comandamento, che dovese-no tornare a chasa, e parte ghuelfa andoro a’ signori Nove e diseno come erano stati que-gli che havevano levato el romore. E per tutte le chagioni che potesseno intervenire, che ighibelini per amore della venuta dello imperadore si[e]no mandati fuore a confino, e le-varasi ogni sospezione. Imperoché lo inperadore non à con seco se non ghibelini; e lorosono quegli che l’ànno condotto in queste parti; e dà loro a ogni sosidio e aiutorio. Equando e’ Nove ebeno inteso el modo dello conseglio di parte ghuelfa, di subito lo’ pia-

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16. Cronaca senese..., pp. 92-93.17. L’imperatore arrivò effettivamente a Pisa la prima volta via mare da Genova il 6 marzo 1312; ma, perquanto le espulsioni datino alla fine di dicembre del 1312 (cfr. BOWSKY, Un comune..., p. 245 e n. 28, dovetra i provvedimenti approvati contro i ghibellini si cita una deliberazione del Consiglio Generale di Sienadel 22 dicembre 1312), e quindi gli eventi narrati nell’ultimo paragrafo qui riportato possano essersi svoltiall’inizio del 1313 (magari non a marzo-aprile, dopo l’inizio dell’anno secondo lo stile dell’incarnazione),Enrico in quel momento non si trovava più a Pisa (l’aveva lasciata il 23 aprile 1312 per andare a farsi inco-ronare a Roma) e non vi sarebbe ritornato fino al 10 marzo dell’anno successivo (cfr. BOWSKY, Henry 7...,pp. 153, 157, 178). Appare quindi difficile che potesse ricevervi gli sbanditi, e ancor più che le preoccupa-zioni dei Nove narrate nel paragrafo immediatamente precedente fossero dovute alla sua presenza a Pisa.18. Cfr. SERGIO RAVEGGI, La vittoria di Montaperti, in Storia di Siena..., pp. 79-94: 89-90. L’episodio vie-ne narrato in più cronache e storie senesi; un’allusione ad esso è già nella già citata Cronaca senese..., p.61: «E per questo e ghibelini ebeno gran vitoria della sconfitta di Monteaperto. E perché inazi ò detto

que, e ordinoro di mandargli a confino; e ogni dì ne mandavano quando dieci e quandovinti. E sempre mandavano in prima tutti e’ magiori chapi; e in pochi dì tutta parte ghi-belina era ita a confino, e rimase la città al ghoverno di parte ghuelfa. E questa fu unadelle cagioni che ghuastò questa città, che molti non oservaro e’ confini, anco se n’andaroa Pisa in chanpo dello inperadore e racomandandosi a lui e dicevano come parte ghuelfadi Siena gli aveva chac[i]ati di Siena per lo suo amore per la sospizione. E lo ’nperadoredisse come ne gli increscieva, ma col tenpo in mano gli farebbe ritornare in chasa loro16.

Per quanto il resoconto degli eventi appaia un po’ romanzato (e sicuramentenon del tutto affidabile)17, il testo della cronaca testimonia delle reazioni che lapresenza dell’imperatore suscitava in alcune città toscane. La stessa cosa – e amaggior ragione, trattandosi d’un testo contemporaneo – può essere detta dellaprofezia Ora volgo le rime, il cui autore, dopo l’allusione ai provvedimenti diespulsione, invita i suoi concittadini a destarsi, affermando che a motivo delle lo-ro divisioni saranno essi stessi causa del loro male, e continuando quindi a depre-care il clima sopra descritto. La profezia prosegue dicendo che (dopo la cacciatadei ghibellini) i cittadini saranno «consolati» (‘tranquilli’, ‘contenti’), sì, ma perpoco tempo: «però ch’assai per tempo l’acqua del becco berrà il duro capo». Ilriferimento, solo apparentemente criptico, è a Fonte Becci (o Fontebecci), loca-lità posta a un paio di chilometri da Siena, sulla strada verso Firenze.

Il nome «Fonte Becci», infatti, viene collegato a ciò che accadde dopo la bat-taglia di Montaperti, per quanto sia la fontana sia il nome con cui viene indicatasiano ben più antichi del 1260. Tra i vari episodi quasi leggendari (tanto che siparla di «mito di Montaperti») legati a questa battaglia, in cui i senesi inflissero aifiorentini una delle peggiori sconfitte della loro storia, vi è l’umiliazione inflitta ainumerosissimi prigionieri fiorentini (la rotta fu tale che pare si legassero da soliper aver salva la vita, tanto che una modesta venditrice di verdura sarebbe riusci-ta a catturarne trentasei), che per essere liberati dovevano consegnare, oltre al ri-scatto in denaro, appunto un becco. Gli animali vennero poi scannati accanto al-la Fonte Becci, che anzi secondo alcuni fu riparata impastando i materiali da co-struzione col sangue degli animali uccisi. Da qui il collegamento ‘paretimologico’tra il nome della fonte e questo episodio18.

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della edificazione di Fontebecci e di Martinella, la quale chanpana dicono s’aquistò in questa rotta, e cosìde’ prigioni che oltre a la taglia che lo’ fu posta, pagavano un becho»; cfr. poi Cronaca Montauri...,p. 217.19. Cfr. DAVIDSOHN, Storia..., vol. III, pp. 707-8.20. Cronaca Montauri..., p. 241 (le parole tra parentesi quadre sono mie). L’evento è narrato anche inCronaca senese attribuita ad Agnolo di Tura del Grasso, detta la Cronaca maggiore, in Cronache senesi...,pp. 253-564: 328.21. Cronaca senese..., p. 117.22. Cfr. Cronaca maggiore..., p. 329 «Misser Ranieri di misser Porina da Casole avea uno bello palazolongo a la porta a Camullia. Fu disfatto per lo comuno di Siena di marzo»; per la perdita di Casole daparte dei senesi, cfr. DAVIDSOHN, Storia..., vol. III, pp. 697-98 (e volendo anche Cronaca senese..., p. 98;Cronaca Montauri..., p. 240; Cronaca maggiore..., p. 326).

L’espressione «bere l’acqua del becco», quindi, contiene in sé un’allusione aquesti eventi del 1260; non intende però riferirsi a uno spargimento di sangue, oalmeno non solo. È infatti un modo per introdurre in maniera criptica una profe-zia post eventum di ciò che accadde il 25 gennaio 1313. In questa data infatti, co-me già detto, Enrico si diresse verso Siena, arrivando appunto fino a FonteBecci19. Vale la pena riportare il passo riferito a questo episodio della già citatacronaca del Montauri:

A dì XXV di detto [gennaio 1313] VI cento cavalieri dello inperadore e una quantità dipedoni si partiro da Pogibonzi e cavalcoro infino a Fontebeci, pigliaro da XII omini diSiena della Massa; quanti n’ucisero de’ buoni e di grande voluntà! Uscirno fuore, uscinodi Siena el popolo e’ cavalieri; andono verso loro, non avevano buono capitano; sichè lagente dello inperadore si rimase con poco dano20.

Forse l’imperatore e i suoi consiglieri speravano che i cittadini a loro favore-voli insorgessero e rovesciassero la fazione dominante: ma ciò non accadde. D’al-tra parte, come detto, gli oppositori interni erano appena stati spediti al confino.In base alla ‘narrazione profetica’ del testo anonimo del Laurenziano sembrereb-be anzi che a seguito della scorreria degli imperiali la situazione di parte della cit-tadinanza (dobbiamo supporre, quella schierata con l’imperatore) all’interno del-le mura di Siena sia precipitata: si parla di villanie ricevute dai magnati, di portebarricate, di sciagure (che però, si specifica, non toccano a tutti: c’è anzi chi se neavvantaggia), di case disfatte. In questo caso, tuttavia, non è chiaro se i riferimen-ti siano davvero precisi, se insomma si tratti di autentiche profezie post eventum enon di generici auguri o comunque facili previsioni. Era infatti usanza dell’epocadistruggere le case di coloro che erano stati banditi dalle città, «per tor lo’ viaogni speranza del tornare»21. Secondo la Cronaca senese pervenutaci sotto il no-me di Agnolo di Tura detto il Grasso, nel marzo 1313 fu distrutto il palazzo citta-dino di Ranieri del Porrina, che poco prima, il 13 dicembre 1312, aveva di fattoconsegnato Casole di Val d’Elsa alle truppe imperiali, sottraendolo al dominio diSiena22. È quindi possibile che il testo alluda a questo evento in particolare, o adaltre demolizioni, ma il riferimento è troppo vago per poter determinare con si-

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23. GIULIANO CATONI, Bonsignori (Buonsignori), Niccolò, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 12,Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana 1971, pp. 410-12: 410.24. Cfr. DAVIDSOHN, Storia..., vol. III, pp. 568-69; vol. II, Guelfi e ghibellini, parte II, L’egemonia guelfae la vittoria del popolo, Firenze, Sansoni 1977, pp. 272-73; UMBERTO CARPI, La nobiltà di Dante, Firenze,Polistampa 2004, vol. I, pp. 390-91.25. Cfr. DAVIDSOHN, Storia..., vol. III, pp. 568-69.26. DAVIDSOHN, Storia..., vol. III, p. 706.

curezza se si parli di una rappresaglia in particolare, ed eventualmente di quale.Non è insomma il caso di appoggiarsi alla notizia della demolizione per fare delmarzo 1313 la data post quem della profezia: e vale lo stesso per altre allusioninon decrittabili con certezza.

Dopo alcune generiche ‘previsioni’, il testo prosegue infatti con dei riferimen-ti che per un contemporaneo erano probabilmente ben comprensibili, ma cheper noi vengono resi piuttosto opachi dalle modalità retorico-discorsive adottatedall’autore, il quale, per creare un pronostico credibile come tale, deve ovvia-mente evitare rinvii troppo precisi ai dati di realtà e mascherare quelli che inseri-sce con l’uso di un linguaggio vagamente sibillino e di perifrasi enigmatiche. Nonè quindi possibile determinare se il tale che «monterà in altura che mai non sep-pe che si fosse stato» sia da identificare con un personaggio preciso, se sia lo stes-so «ch’à la testa tosta come sasso», che come lui andrà incontro alla disfatta, o sesi tratti di due personaggi diversi, e nel caso di chi. Certo nel seguito di Enrico ipersonaggi collegabili a Siena non mancano: oltre che a lui stesso (almeno per laseconda allusione) si potrebbe quindi pensare ai già citati Ranieri del Porrina eNiccolò de’ Buonsignori.

Quest’ultimo in particolare potrebbe forse essere un buon candidato per ilruolo di colui che «monterà in altura». «Figlio del banchiere senese Bonifazio ebanchiere egli stesso»23, di famiglia guelfa, passò infatti ai ghibellini con alcunialtri membri della sua famiglia, probabilmente a seguito del suo matrimonio conla contessa Margherita degli Aldobrandeschi di Santa Fiora24, per diventare do-po decenni di lotte accanite (che tra l’altro contribuirono a provocare il fallimen-to della banca di famiglia)25 uno degli uomini più fidati dell’imperatore, al puntoche, dopo averlo nominato vicario imperiale a Milano in segno di apprezzamentoper la sua fedeltà, Enrico decise di chiamare una delle quattro porte della fortez-za da lui fondata a Poggibonsi nel gennaio 1313 «Porta Nicolaia» (e si trattavadella porta rivolta verso Siena)26. Resta comunque misterioso il successivo riferi-mento a «rigattieri», anche ammesso che sia da collegare al personaggio di cui sipronostica la sconfitta: cosa nient’affatto scontata, posto che per via delle moda-lità retoriche adottate il testo certo non brilla per la sua coerenza sintattica o ar-gomentativa.

Destinato a rimanere indeterminato è anche il «forestieri [...] che qui porrà lapresta» (presta può essere un prestito o un tributo). Anche in questo caso si pos-sono però avanzare ipotesi. Il 14 febbraio 1313 trecento cavalieri imperiali cad-

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27. Cfr. DAVIDSOHN, Storia..., vol. III, pp. 709-10. Il nome di battesimo del conte è soggetto a una varia-bilità estrema: da Davidsohn viene chiamato Aymo de Blamont (nella traduzione italiana Aimone; nellecronache antiche, invece, Adamo: v. la n. successiva), altrove è detto Eyme o Emmery o Emich (tuttequeste forme possono essere trovate in Il viaggio di Enrico..., p. 167, dove viene indicato come «Figliominore di Enrico I, conte di Blâmont, e di Ermengarda di Leiningen»).28. V. per esempio la Cronaca Montauri..., p. 242: «A dì detto [14 febbraio 1313] misser GuglielmoIscaliere catelano, conestabile della gente erano al soldo de’ re Ruberto, erano al servitio di parte guelfain Toscana, con sua gente si rincontrò co’ le genti dello inperadore prèso a le porti di Cole di Valdelsa,atestar[on]si insieme. E misser Guglielmo li sconfisse e fuvi morti più di LXX cavalieri gentili omini e fupreso misser Adamo de Belmonte dello regno, parente istretto dello inperadore: più di XXX altri buonicavalieri e cavali e ronzini, e detto misser Adamo fu riconprato più di III mila fiorini d’oro»; e la Cronacamaggiore..., p. 329: «Misser Guglielmo Scagliere Catalano, conestabile de le genti ch’erano al soldo de’ reRuberto e al servitio di parte guelfa di Toscana, con sua gente, ch’erano in Colle, s’incontrò a dì 14 di fe-raio con la gente de lo ’nperadore che tornavano da Casole; unde furo sconfitti quelli de lo ’nperadore, efune morti più di 70 cavalieri gentilomini, e fu preso misser Adamo di Belmonte de lo regno, parentestretto de lo ’nperadore. El detto misser Adamo fu riconprato da lo ’nperadore 3 mila fiorini d’oro».29. Cfr. DAVIDSOHN, Storia..., vol. III, pp. 710-11.

dero in un’imboscata presso la Badia di Spugna, e tra gli altri fu preso prigionie-ro il conte di Blamont, che fu riscattato qualche tempo dopo da Enrico dietropagamento di tremila fiorini d’oro27. La notizia della sconfitta e della cattura delconte, ricordata dalla cronache28, a quanto pare venne divulgata quasi a fini pro-pagandistici: pare infatti che a Firenze non venisse creduta, e per convincere lacittadinanza del fatto che non si trattava di una menzogna artatamente diffusaper rendere più sopportabile lo stato di guerra si trattò con chi deteneva i prigio-nieri perché li consegnasse alle magistrature cittadine, di modo che queste potes-sero mostrarli come prove al popolo29. Potrebbe quindi darsi che «la presta» fac-cia riferimento al riscatto del conte, magari prima ancora che questo venisse sta-bilito e pagato. D’altra parte, tremila fiorini d’oro, per quanto fossero all’epocauna somma certamente considerevole, appaiono una cifra insignificante rispettoa quelle versate dai fiorentini o dai pisani per lo svolgimento della guerra. Èquindi ben possibile che si intenda semplicemente dire che i costi di questa nonricadranno tanto sulle spalle dei cittadini senesi, ma su quelli di altre città tosca-ne. Per ulteriori interpretazioni rimando al commento al testo: qui basti dire chela data post quem della profezia resta comunque il 25 gennaio 1313, perché an-che in questo caso i riferimenti sono eccessivamente oscuri per posticiparla al 14febbraio dello stesso anno.

D’altronde, come è usuale per testi di questo tipo, da un certo punto in avantisi abbandonano i pronostici post eventum e si passa ai vaticini veri e propri. Co-me osserva Roberto Rusconi a proposito della tradizione dei testi profetici in lin-gua volgare:

Queste rime profetiche sono dunque autentici pamphlets in versi, in cui la maggior partedelle asserite predizioni è chiaramente post eventum, anche se – è ovvio – coperta dallafinzione del vaticinio sul futuro più o meno prossimo. Infatti, basta scorrere le «profezie»redatte in origine nella seconda metà del secolo XIV per cogliere con facilità la loro so-

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30. RUSCONI, L’attesa..., pp. 144-45.31. Secondo Rusconi, la tradizione delle «profezie politiche» in volgare risalirebbe alla seconda metàdel XIV secolo: la prima da lui citata è databile al 1355.32. «co· tanto animo si misse sopra i Pisani che·lli ruppe e·ffé volgere, i quali per la gran calca no· pos-sendo entrare per la porta molti se ne missono per l’Arno, de’ quali assai n’anegarono. Molti presi ne fu-rono, e tanti e tali che i soldati più tosto vollono i prigioni, che paga doppia e mese compiuto, e assai vene furono morti di quelli del baldanzoso e scondito popolo. Ciò fatto il capitano a Rignone e allo Speda-luzzo fé battere muneta d’oro, e d’argento, e di quattrini: in quella de l’argento sotto i piè di sa· Giovannista una volpe a rovescio» (MATTEO VILLANI, Cronica. Con la continuazione di Filippo Villani, a c. di GIU-SEPPE PORTA, vol. II, Parma, Fondazione Pietro Bembo/Guanda Editore 1995, libro XI, cap. 54, pp.656-57).33. Va notato che stando alle ipotesi correnti sulla composizione e diffusione delle prime due cantichedella Commedia quello della nostra profezia potrebbe essere il più antico passo noto in cui tale identifica-zione ricorre.34. Cfr. DAVIDSOHN, Storia..., vol. III, p. 719.

stanziale suddivisione in due parti, non necessariamente di eguale estensione. Nella pri-ma, in genere più ampia, in un linguaggio oscuro ed involuto, carico di simboli e di evo-cazioni – ma certo molto più chiaro ai contemporanei di quanto a volte non si ritenga –,ci si dilunga nel profetare post eventum gli avvenimenti politici italiani dei decenni prece-denti. Queste ‘previsioni’ arrivano fino al tempo dell’evento che si vuole riprovare o cele-brare, anch’esso inserito nella finzione del vaticinio. A questo punto inizia la secondaparte, la «profezia» vera e propria, che scade con una certa facilità nel generico oppuredeve recuperare tematiche escatologiche ed apocalittiche tipiche della letteratura profeti-ca dei secoli precedenti, allo scopo di proiettare nel futuro aspettative, speranze, timori30.

Per quanto le altre ‘profezie’ in volgare finora fatte oggetto di studio siano piùtarde31, anche nel testo del Laurenziano è evidente che ad un certo punto l’auto-re inizia a ‘prevedere il futuro’. Purtroppo, non è possibile separare nettamentele parti in cui azzarda previsioni da quelle in cui si limita ad alludere ad eventi giàverificatisi: un esempio di ambiguità è il già visto passaggio dedicato alla «presta»data dal «forestieri». Sembrano però vere previsioni, o meglio auspici, tutti i rife-rimenti alla futura sconfitta e disfatta dei personaggi citati, anche se questi nonpossono essere identificati con certezza, ed è senza dubbio ante eventum il pro-nostico della cattura «senza colpa o laccio» di una «volpe» che riceverà quindi lagiusta punizione per tutti i suoi misfatti.

La volpe è ovviamente la ghibellina Pisa: l’identificazione è tradizionale. Sipuò a questo proposito citare la moneta che secondo Matteo Villani i fiorentininel 1363 batterono sulle porte di Pisa, dove la volpe (ovvero la città di Pisa) ècollocata sotto i piedi di San Giovanni (qui simbolo di Firenze)32. Ma l’associa-zione di Pisa o dei pisani con questo animale è presente in vari altri autori medie-vali, e prima di tutto nella Commedia di Dante e nei suoi commenti, per via delnoto passo del quattordicesimo canto del Purgatorio («le volpi» di Pisa al v. 53)33.

Le previsioni sulla sorte della città rivale dimostrano d’essere tali perché si ri-velano sbagliate. La fine di Pisa era davvero di là da venire: il 23 aprile 1313 ci fula sopra citata sconfitta di Vicopisano34, e poche settimane dopo le truppe impe-

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35. Cfr. DAVIDSOHN, Storia..., vol. III, pp. 721-24; si tratta dell’evento bellico a cui si allude nel secondopasso sopra citato della Cronaca Montauri, quello che riguarda il 30 maggio 1313.36. Cfr. DAVIDSOHN, Storia..., vol. III, pp. 746-48.37. Cfr. DAVIDSOHN, Storia..., vol. III, pp. 761-808.

riali conquistarono Pietrasanta e i marchesi Malaspina (il ramo fedele all’impera-tore) Sarzana35, aprendo così la via del litorale verso Genova. Il primo agosto1313 Enrico VII partì da Pisa, arrivando nuovamente nel contado senese, avvici-nandosi ben più che a gennaio alle mura della città e scorrendone gli immediatidintorni per più giorni, finché non se ne allontanò per finire col morire non mol-to distante, a Buonconvento, il 24 agosto36. Dopo la sua morte i cittadini di Pisapotevano forse sentirsi in pericolo, ma non erano affatto sconfitti: dopo cheUguccione della Faggiola assunse il governo della città, e anche grazie al fattoche una parte dei cavalieri del seguito dell’imperatore vi si erano fermati percombattere sotto il suo comando, Pisa continuò ad accumulare successi, fino allabattaglia di Montecatini del 29 agosto 1315, splendida vittoria per i pisani e peg-gior sconfitta dei fiorentini dai tempi di Montaperti37. Da questo punto del testoin avanti, sembra insomma pressoché inutile cercare di capire a quali eventi pos-sano corrispondere gli auspici di cui si compone.

Alcuni fra gli eventi sopra citati possono d’altra parte fungere da termine antequem per la datazione del testo: più ancora delle varie battaglie campali (comequella di Vicopisano), che non riguardarono direttamente Siena, possono sicura-mente servire allo scopo le ultime gesta di Enrico VII. Nel testo infatti non solonon si fa cenno della sua morte, ma soprattutto non si trova traccia alcuna dellescorrerie dell’agosto 1313, che pure ebbero una rilevanza oggettivamente mag-giore dell’episodio di gennaio, dal momento che le truppe imperiali arrivaronoben più vicine, stettero praticamente sotto le mura di Siena per più giorni, e fece-ro molti più danni. Insomma, non è credibile che un testo scritto dopo questi fat-ti non faccia riferimento ad essi, piuttosto che a un episodio al confronto quasiirrilevante. La profezia quindi è stata sicuramente scritta tra il 25 gennaio e gliinizi di agosto del 1313, e più probabilmente in una data vicina all’inizio di taleintervallo cronologico che verso la sua fine.

3. La profezia per Siena del Conventi soppressi 122 è un testo volgare checontiene al suo interno delle rime, ed esibisce questa sua caratteristica sin dall’in-cipit: «Ora volgo le rime alla città del monte, che ben può fare di lagrime fonte».Il problema a questo punto è se sia o no da considerare un testo in versi.

Consideriamo il passaggio appena citato: ammesso che la rima -onte determinidue versi, è legittimo chiedersi a quale misura versale corrisponda la prima se-quenza di parole. L’unica possibilità è che si tratti di un alessandrino. Tutto con-siderato, però, se il testo fosse in versi sarebbero più probabili due settenari, equindi la profezia si aprirebbe con un verso irrelato.

Analizziamo ora uno dei passi più sibillini: «Della casa pregiata ciascuno lan-

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38. Riporto di seguito l’elenco delle rime imperfette secondo il loro ordine di apparizione nel testo: pen-ne : affende; torni : dormi; capo : mercato; drappi : bistratti; imbocca : torta; crede : fredde; convegna : tigna;fido : nidio. Ovviamente, alcune di queste rime possono essere normalizzate adottando forme diverse (inparticolare le ultime), ed è noto che la rima imperfetta per assonanza era in qualche misura tollerata (suquesto argomento, cfr. PAOLO TROVATO, Sulla rima imperfetta per assonanza nella lirica delle origini (conun’ipotesi per Cino, «Degno son io»), «Medioevo romanzo», XII, 1987, pp. 337-52, e DAVIDE CAPPI, Larima imperfetta ne «L’Intelligenza» e nell’uso romanzo, «Stilistica e metrica italiana», 5, 2005, pp. 3-66),ma il dato resta notevole.

gue; una pietra d’oro diventerà di sangue». Qui la rima -angue determina un en-decasillabo (ovviamente a patto di non considerare l’atona finale del pronome in-definito; è da notare anche che c’è una rima interna, per cui potrebbe trattarsinon di uno ma di due versi) e una sequenza di parole che non può essere verosi-milmente ridotta ad un verso, se non (con pesanti emendamenti) un irriconosci-bile ‘endecasillabo’ o un ancor più inverosimile doppio senario. Spezzando la se-quenza per farne due versi, uno di essi resterebbe irrelato.

Non è il caso di svolgere un’analisi sillaba per sillaba. In sintesi: il testo dellaprofezia Ora volgo le rime è costituito da una serie di sequenze di parole dallalunghezza variabile, delimitate e al tempo stesso collegate da 46 rime baciate, ot-to delle quali (quasi una su cinque) imperfette per assonanza38, più almeno un’ir-relata finale irriducibile (almeno a breve distanza, dal momento che il testo sichiude con il verbo all’infinito contentare). Le più lunghe sono quelle viste sopra:le più brevi sono di quattro sillabe, ma potrebbero tutte essere unite ad altre, di-ventando emistichi di versi più lunghi, tipicamente endecasillabi; le sequenze piùbrevi che dovrebbero per forza essere versi singoli, ammesso che di versi si parli,sono di cinque sillabe. Sono presenti sequenze di ogni lunghezza compresa traquesti estremi, più scarse le parisillabe (e molte – ma non tutte – abbastanza fa-cilmente riconducibili ad altre misure), molto frequenti settenari ed endecasillabi(anche non ricomposti).

La determinazione della forma di Ora volgo le rime, però, non può essere fattasolo sulla base degli elementi metrici appena riassunti. Oggi questo testo potreb-be essere sia in prosa sia in versi, e a distinguere le due forme sarebbe solo l’im-paginazione. Ciò che determina l’appartenenza di un testo ad uno dei due polisopra richiamati non è tanto la sua struttura astratta, quanto il modo in cui que-sta viene considerata all’interno del sistema culturale in cui è stato scritto. Il pro-blema posto, quindi, non può essere risolto facendo appello solo alla metrica insenso stretto: è un problema di storia letteraria, e per venirne a capo è necessariostudiare il sistema dei generi dell’epoca (o, per meglio dire, la sua evoluzione).

A questo scopo, è inevitabile riconsiderare in particolare la frottola, l’unicogenere in versi a cui la profezia Ora volgo le rime potrebbe essere ricondotta.Qualsiasi valutazione in questo senso è però resa difficoltosa dal fatto che le ca-ratteristiche propriamente formali del genere sembrano variare a seconda di qua-le studioso se ne occupa, mentre in una parte rilevante della bibliografia sull’ar-gomento la definizione della frottola sembra essere meno l’oggetto dello studio

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39. ALESSANDRO PANCHERI, «Col suon chioccio». Per una frottola dispersa attribuibile a Francesco Petrar-ca, Padova, Antenore 1993 (cfr. in particolare le pp. 30-55).40. TROVATO, Sull’attribuzione di «Di ridere ò gran voglia» (Disperse CCXIII). Con una nuova edizionedel testo, «Atti e Memorie dell’Accademia Patavina di Scienze, Lettere ed Arti. Parte III. Memorie dellaClasse di Scienze Morali, Lettere ed Arti», CX (1997-98), pp. 371-423.41. LUCIA BATTAGLIA RICCI, Autografi «antichi» e edizioni moderne. Il caso Sacchetti, «Filologia e criti-ca», XX (1995), pp. 386-457 (in particolare le pp. 448-51).42. MARCO BERISSO, Che cos’è e come si dovrebbe pubblicare una frottola?, «Studi di filologia italiana»,LVII (1999), pp. 203-33: 227.

che uno dei suoi presupposti. Può essere utile ripercorrere la discussione su unpunto particolare, ovvero come pubblicare questi testi, se con i versi in colonna oa mo’ di prosa.

L’antefatto di tale discussione è l’analisi condotta da Alessandro Pancheri nelvolume da lui dedicato a Di ridere ho gran voglia. Sforzandosi di ottenere un’im-magine più precisa e storicamente determinata della frottola, Pancheri studia in-fatti da un lato la trattatistica metrica e dall’altro i testi, arrivando alla conclusio-ne che il motus confectus trattato nella Summa di Antonio da Tempo è una solacosa con la frottola. L’ipotesi viene verificata tramite il confronto tra le caratteri-stiche del motus confectus elencate nel trattato e quelle di alcuni testi trecenteschiche si autodefiniscono «frottole», e la conclusione è che il motus confectus po-trebbe essere semmai una versione leggermente ‘regolarizzata’ della frottola, contutta probabilità invenzione estemporanea del trattatista presentata al fine di dif-ferenziare i suoi testi dal resto della produzione frottolistica coeva. Resterebbequindi in gran parte valido l’elenco di caratteristiche del genere presentate nellaSumma e ivi esemplificate da Dio voglia che ben vada, la più antica frottola nota;e a tale elenco è possibile appoggiarsi (almeno nelle intenzioni di Pancheri) perseparare i testi che appartengono al genere da altri che vi sono stati erroneamen-te ricondotti, dalle rubriche dei copisti o da altri39. Non sembra però che questaparte del lavoro di Pancheri sia stata tenuta presente da tutti i successivi studisulla frottola: da qui la succitata almeno apparente variabilità delle caratteristicheformali del genere nei lavori dedicati all’impaginazione da dare ai testi.

Il primo è un articolo del 1999, Che cos’è e come si dovrebbe pubblicare unafrottola? di Marco Berisso. Dopo aver ricostruito lo stato della questione in quelmomento (appoggiandosi in particolare al volume di Pancheri e alla reazione diPaolo Trovato)40 Berisso riprende alcune annotazioni di Lucia Battaglia Ricci ri-guardo alle frottole autografe di Sacchetti41 per concludere che, posto lo «statutoper così dire ‘ibrido’ della frottola, sequenza ininterrotta avvicinabile alla prosa[...], non si può non concordare circa l’opportunità di pubblicare le frottole co-me si trattasse di una pagina in prosa»42. La possibilità di pubblicare tutte le frot-tole in questo modo, e solo in questo modo, è stata però in seguito respinta daAlfredo Stussi, nei preliminari alla sua edizione di A l’omo savio et insenato. Af-ferma infatti Stussi:

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43. ALFREDO STUSSI, Una frottola tra carte d’archivio padovane del trecento, in Antichi testi veneti, a c. diANTONIO DANIELE, Padova, Esedra 2002, pp. 41-61: 46.44. CLAUDIO GIUNTA, Sul rapporto fra prosa e poesia nel Medio Evo e sulla frottola, in Storia della linguae filologia per Alfredo Stussi nel suo sessantacinquesimo compleanno, a c. di MICHELANGELO ZACCARELLO

e LORENZO TOMASIN, Firenze, Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini 2004, pp. 35-72: 50.45. D’altra parte, davanti ad un elenco di tratti caratterizzanti presentati come in parte inventati da untrattatista e non rispondenti all’uso, la perplessità è legittima.46. Su questo punto, cfr. GIUNTA, Sul rapporto..., pp. 46-48; la discussione che comprende GIUNTA, Sul

Editare un testo antico, specie se poetico, comporta sempre una ‘traduzione’ con perditadi dati culturalmente interessanti […]. L’editore, adottando convenzioni moderne comequella relativa alla divisione in versi, da un lato viene incontro alla attese degli utenti, dal-l’altro è costretto a esplicitare il suo punto di vista in merito all’articolazione metrica[…]. Preso dunque quale ipotesi di lavoro funzionale a una strategia comunicativa, il mo-do tradizionale di editare le frottole mi pare ancora utile, tanto più se corredato, comequi, di una trascrizione interpretativa ripettosa del testo disposto ‘come prosa’43.

Non molto tempo dopo, ha invece adottato una posizione almeno apparente-mente differente Claudio Giunta. Dopo aver ripreso le già citate considerazionidi Battaglia Ricci e Berisso, lo studioso finisce col concludere che:

una regola sicura per tutte le frottole non può dunque essere trovata. Ciò detto, restanoperò alcuni casi in cui la scrittura ‘in versi’ della frottola appare non solo onerosa ma ar-bitraria. Quando (1) nel codice o nei codici che la trasmettono la frottola è scritta a mo’di prosa, con o senza segni metrici interpuntivi; quando (2) non è ricostruibile alcuna gri-glia metrica dotata di un minimo di coerenza e simmetria; quando (3) manca anche lachiusa metrica, la coppia di endecasillabi a rima baciata – date queste tre condizioni [...]l’editore potrà decidere di stampare il testo come prosa rimata44.

Una sintesi sbrigativa di questa discussione potrebbe essere: non sappiamo sela frottola sia effettivamente un genere metrico in versi, o se sia prosa rimata, ma-gari con dei versi più o meno regolari al suo interno. In realtà, ciò che non sappia-mo è se le ‘frottole’ siano da considerare testi in prosa o in versi, perché a quantopare, malgrado gli sforzi di Pancheri, non è ben chiaro quale sia il confine tra lafrottola e ciò che frottola non è, in particolare la prosa rimata45. Quindi: se assu-miamo che la frottola sia quel genere in versi più o meno descritto da Antonio daTempo, ciò che spesso non riusciamo a determinare è se un determinato testo siauna frottola o no. D’altra parte, se cosa esattamente sia una frottola resta un pre-supposto non ben precisato, interpretato da studiosi differenti in maniera diversa,determinare cosa un testo sia e quindi come vada pubblicato resta impossibile.

Ponendo il problema in questione per Ora volgo le rime, e adottando i criteridi Giunta, potremmo infatti forse decidere di stampare il testo come prosa rima-ta. Ma: quanto al criterio (1), se i segni metrici interpuntivi adottati dai copistinon sono affidabili (perché presenti anche nella prosa: ed è sicuramente il casodel Conventi soppressi 122)46, non è ben chiaro perché dovrebbe esserlo l’impa-

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‘mottetto’ di Guido Cavalcanti, «Studi di filologia italiana», LVIII (2000), pp. 5-28 (poi ristampato inGIUNTA, Codici, Saggi sulla poesia del Medioevo, Bologna, Il Mulino 2005, pp. 207-37); la recensione diALVARO BARBIERI, «Stilistica e metrica italiana», II (2002), pp. 296-300; la risposta a questa di GIUNTA,Ancora sul ‘mottetto’ di Guido Cavalcanti, «Stilistica e metrica italiana», 5 (2005), pp. 311-27; e infine,sull’uso dei segni interpuntivi da parte del copista del Conventi soppressi 122, MARIA CLOTILDE CAMBO-NI, Le rime di Antonio di Cecco da Siena, «Nuova rivista di letteratura italiana», VIII, 1-2 (2005), pp. 19-73 (in particolare le pp. 37-39).47. Il testo della profezia Ora volgo le rime nel Laurenziano Conventi soppressi 122 è trascritto a mo’ diprosa, dotato di segni interpuntivi molto spesso, ma non sempre, in corrispondenza delle rime, e suddivi-so in una sorta di paragrafi da degli a capo.48. L’elenco è in PANCHERI, «Col suon chioccio»..., pp. 41-42.49. Cfr. PANCHERI, «Col suon chioccio»..., p. 35.50. È da notare che ciò non accade in nessuno dei testi che si autodefiniscono ‘frottole’ usati da Pan-cheri per avvalorare l’ipotesi che il motus confectus di cui parla Antonio non sia se non una versione leg-germente ‘regolarizzata’ della frottola: in essi infatti la lunghezza di ogni serie di rime è abbastanza varia-bile (cfr. PANCHERI, «Col suon chioccio»..., pp. 45-48).51. Cfr. PANCHERI, «Col suon chioccio»..., pp. 46-47.52. Cfr. PANCHERI, «Col suon chioccio»..., p. 47.

ginazione – a maggior ragione nel caso di un unico testimone che tramanda un te-sto composto circa un secolo prima, come nel caso della nostra profezia47. Quantoal criterio (2), è difficile determinare cosa si intenda per «griglia metrica dotata diun minimo di coerenza e simmetria»: se si intende la presenza di una qualche for-ma di regolarità prosodica, abbiamo già visto che manca, ma d’altra parte secondoAntonio da Tempo la frottola regulata in questo senso è da censurare (e v. ancheinfra); se si intende invece la presenza di serie di rime della stessa lunghezza, e chenon lasciano lunghe sequenze irrelate, pur con molte rime imperfette la abbiamo.Infine, il criterio (3) lascia perplessi. Non è infatti ricavabile dalla Summa di Anto-nio da Tempo, si può dire l’unico testo teorico a cui è possibile appoggiarsi perdeterminare le caratteristiche della frottola (pur con i limiti già visti); e un disticofinale a rima baciata non è nemmeno presente in quella da lui scritta e allegata co-me esempio all’interno del trattato, la già citata Dio voglia che ben vada.

Confrontando invece Ora volgo le rime con le caratteristiche formali dellafrottola che è possibile estrapolare dal trattato di Antonio da Tempo48, si può no-tare che le rispecchia piuttosto bene. Nella profezia infatti la rima delimita se-quenze di quasi ogni misura versale, proprio come prescrive l’autore della Sum-ma (i cui esperimenti più regulati hanno avuto a quanto pare scarso successo)49, eancora seguendo le sue prescrizioni ogni rima si ripete sempre due volte50. Certo,in Ora volgo le rime c’è almeno un’irrelata irriducibile (non ammessa da Anto-nio), ma ciò potrebbe essere dovuto a lacune o errori; d’altra parte simili irrelateirriducibili sono presenti anche in uno dei testi del «corpus di controllo» di Pan-cheri, Si forte me dole di Antonio da Ferrara, dove potrebbero avere analoga ori-gine51. Quanto alle rime imperfette, sono anch’esse presenti in uno dei testi di ta-le corpus e in altre ‘frottole’ del suo autore, ovvero Franco Sacchetti (anche seforse non in questa misura)52; e per ciò che riguarda il fatto che, contrariamente

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53. Almeno -oro, -ura, -ato, -are.54. Cfr. PANCHERI, «Col suon chioccio»..., pp. 36-40.55. Cfr. al proposito, oltre a ciò che dice Pancheri riguardo al motus confectus, il caso del rotundellustrattato s.v. nel Glossario di ANTONIO DA TEMPO, Summa Artis Rithimici Vulgaris Dictaminis, a c. di RI-CHARD ANDREWS, Bologna, Commissione per i testi di lingua 1977 e ripreso da BERISSO, Che cos’è..., p.202, n. 7, le osservazioni di GUGLIELMO GORNI, Metrica e analisi letteraria, Bologna, Il Mulino 1993, p.74, e per un caso di fraintendimento CAMBONI, Che cos’è un sonetto? Annotazioni attorno alle “glosse me-triche” di Francesco da Barberino (in parte anticipato in EAD., Il sonetto delle origini e le “glosse metriche”di Francesco da Barberino, «Studi di filologia italiana», LXVI, 2008, pp. 13-34), in EAD., Contesti. Interte-stualità e interdiscorsività nella letteratura italiana del Medioevo, Pisa, ETS 2011, pp. 82-87.

a quanto prescritto da Antonio da Tempo, nella profezia per Siena alcune rimeritornano più volte all’interno del testo53, ciò accade anche nelle ‘frottole’ indivi-duate da Pancheri, a volte molto spesso.

Infine, considerando che in Ora volgo le rime c’è l’usuale sfasatura tra le serierimiche da un lato e la sintassi/senso dall’altro, per cui la rima tende a collocarsi acavallo tra due periodi, e che in più di un caso sembrerebbe che la rima al mezzodell’endecasillabo marchi in qualche modo il cambio di rima (come prescrivereb-bero le ulteriori norme estrapolabili dalle integrazioni trecentesche alla Summa54),leggendo il testo alla luce dei risultati dello studio di Pancheri parrebbe proprio dipoter dire: habemus frotulam. Ben due decenni prima della più antica finora nota;e a Siena, non nel Nord Italia. Certo, per poterlo dire veramente dovremmo po-stulare che la profezia ci sia pervenuta con almeno un paio di lacune più o menoestese ed errori più o meno gravi, ma in fondo il manoscritto è unico e di circa unsecolo più tardo del testo. Più che altro, però, dovremmo venir meno al presup-posto sopra espresso: la determinazione della forma di un testo non può esserecompiuta esclusivamente per mezzo di criteri formali, perché dipende strettamen-te dal sistema culturale in cui esso è stato concepito e a cui era destinato. È quindinecessario svolgere un’analisi d’altro tipo, più storico che puramente metrico.

4. La prima constatazione al riguardo è che la Summa di Antonio da Temponon è il testo migliore a cui appoggiarsi per capire quale fosse il sistema dei gene-ri metrici su cui si modellavano le competenze di un autore attivo a Siena nel1313: è stata scritta quasi vent’anni dopo e in un’area geografica ben differente.Inoltre, è chiaro e anche noto il fatto che Antonio da Tempo tende a inventareforme (il motus confectus non è che un esempio) e a fraintendere quelle che ere-dita da altri ambiti55. Di conseguenza, per quanto sia utile avere un elenco ditratti caratterizzanti che permettono più o meno di capire cosa fosse una frottolaper Antonio da Tempo e nel suo ambiente, e quindi di escludere dall’insieme itesti volgari che non corrispondono alle attese, ciò di per sé non aiuta a capirecome i componimenti ‘esclusi’ venissero considerati all’interno del sistema cultu-rale a cui erano destinati. Manca infatti una valutazione critica di questi testi ‘ec-centrici’, e probabilmente per una sorta di perverso circolo vizioso sembranomancare anche i testi su cui esercitarla: e non solo perché, come sempre, ciò che

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56. Cfr. GIUNTA, Sul ‘mottetto’...57. Per cui cfr. CAMBONI, Le rime..., pp. 30-42 (analisi dell’etichetta di genere attribuita dalla rubrica del-l’unico testimone, di altri testi a cui questa viene attribuita, del testo di Antonio etc.) e 63-65 (testo e note).58. GUITTONE D’AREZZO, Lettere, a c. di CLAUDE MARGUERON, Bologna, Commissione per i testi di lin-gua 1990, p. 181.

ci è pervenuto è solo una parte di ciò che esisteva, ma anche perché diversi pezzisembrano essere ancora inediti. Insomma, al polo di aggregazione dato dallaSumma non ne corrisponde nessuno analogo: vi sono solo dei testi sparsi, la fra-zione edita di ciò che ci è pervenuto.

In questa situazione, è molto difficile capire dove vada collocato un esemplarecome Ora volgo le rime. Alcuni dei ‘testi sparsi’ finora noti ed editi potrebberoperò essergli apparentati.

Il più vicino cronologicamente è il cosidetto ‘mottetto’ di Guido Cavalcanti,che è stato plausibilmente dimostrato essere un esempio di prosa rimata56. Sem-bra essere abbastanza isolato, ma è possibile trovarne altri affini. Uno di questiviene dallo stesso ambito di Ora volgo le rime, almeno dal punto di vista geografi-co, ed è anch’esso tramandato solo dal Laurenziano Conventi soppressi 122: sitratta infatti di O buono Adobbo di Antonio di Cecco da Siena, purtroppo nonprecisamente databile ma assai probabilmente del quattordicesimo secolo57. I te-sti di Cavalcanti e Antonio di Cecco sono abbastanza simili: missive dal tono leg-gero e scherzoso, costellate di rime baciate, con al loro interno sequenze di silla-be abbastanza lunghe (più di un endecasillabo, insomma) dove non è possibilerintracciare rime. La somiglianza formale con Ora volgo le rime è evidente, noncosì quella retorico-contenutistica: abbiamo infatti una lettera pressoché privata(Cavalcanti), una missiva rivolta ad un gruppo di persone a nome di un altrogruppo di persone (O buono Adobbo), e una profezia rivolta si può dire all’interacittadinanza, che al di là del fatto di rivolgersi comunque a dei destinatari, certonon condivide i toni delle altre due.

Tra le lettere di Guittone, vi sono poi un altro paio di missive, in questo casopiuttosto serie, che dall’editore sono state considerate (e stampate come) letterein versi, ma che potrebbero in realtà non essere tali, come la lettera VII a CorsoDonati e la lettera XV a Simone. Entrambe presentano una struttura parecchio‘irregolare’, con rime imperfette e irrelate, versi differenti da endecasillabo e set-tenario (normalizzati nell’edizione), assenza di simmetrie che possano giustificaresia suddivisioni metriche sia l’appartenenza dei testi a una qualunque forma nota,lunghe serie di rime desinenziali, non si capisce fino a che punto volute e fino ache punto no (lo stesso editore si chiede se una «quintupla ripetizione della rimain -are è fortuita o consapevole»); insomma, malgrado gli sforzi ecdotici di Mar-gueron, questi testi continuano a suscitare problemi, anche perché, come ammet-te lui stesso, «il testo non manifesta alcuna alterazione quanto al significato là do-ve si rivelano delle irregolarità metriche»58. Per maggiore chiarezza, riproducoqui sotto l’inizio di entrambi i testi (sulla destra i miei commenti).

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59. GUITTONE D’AREZZO, Lettere..., p. 99.60. GUITTONE D’AREZZO, Lettere..., p. 181.61. GUITTONE D’AREZZO, Lettere..., p. 97.62. Cfr. I canzonieri della lirica italiana delle Origini. II. Il canzoniere Laurenziano, a c. di LINO LEONAR-DI, Firenze, SISMEL – Edizioni del Galluzzo 2000 (il testo si trova alle cc. 18v-19r, la parte qui presa inesame alla c. 18v).63. Quindi prima della e finale del nome del destinatario, da lui ripristinata (identica situazione – atonafinale ripristinata per ricreare una rima e assenza del segno di punteggiatura immediatamente successivoche dovrebbe indicare la fine verso – tra i suoi vv. 13 e 14). Da notare che l’inizio della lettera nell’unicoaltro testimone è quasi completamente illeggibile.64. Cfr. Il canzoniere Laurenziano..., c. 10r.

1 Messer Corso Donati,s’i’ ben veggio, in potenza,non poco è·vi valenza;solo seguirla voi promente agradi, [rima imperfetta col Donati del v. 1]

5 ché d’amici e d’avereè giusto in voi podere...59

1 Non te posso, Simone, [e finale di Simone ripristinata dall’editore]pregiar se non ti veggio;ma pregiar posso e deggio,e voglio adessa al tuo caro bon priso, [nei mss. pregio, corretto per rimare col successivo aviso]

5 che tanto e tal te pone.Non da pregiar poc’ èeNostro Signore in tee,e tu en Esso già, siccome aviso;ché, se ’l corpo tuo veste [rima irrelata, o al limite interna identica col veste successivo]

10 abito seculare, [rima irrelata]religïoso el cor veste vertute60.

Margueron informa che nella lettera a Corso il copista «ha separato i versicon dei punti, eccetto verso la fine della lettera»61, e si chiede se ciò sia dovuto aperplessità o distrazione. Nulla dice sui segni interpuntivi della lettera a Simone:dall’edizione fotografica del Laurenziano Redi 962, si vede però che nel passoqui riprodotto manca un punto già dopo quello che Margueron considera il pri-mo verso63 e un altro tra i suoi vv. 9 e 10 (tra veste e abito, per intenderci). Sem-bra d’altra parte che nel Laurenziano Redi 9 manchi anche il punto dopo il pri-mo verso della lettera a Corso64, mentre ne compaiono all’interno di diverse let-tere in prosa, dove (come già notato da altri studiosi) non mancano gli omote-leuti. Onestamente non pare il caso di basare le analisi metriche sulla punteggia-tura del manoscritti: con tutta probabilità i copisti spesso copiavano senza pre-stare attenzione alla struttura del testo (ammesso che fossero in grado di capir-la), e se mentre trascrivevano a scriptio continua notavano delle rime non si face-vano scrupolo di inserire dei segni interpuntivi dopo di esse, senza peraltro sfor-zarsi più di tanto di essere accurati, dato che la mancanza di più separatori traversi o la loro presenza dove non dovrebbero esserci appare un evento non così

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65. Con ciò non si vuol dire che i dati paratestuali offerti dai manoscritti siano del tutto irrilevanti, emeno ancora che lo siano quelli presenti nel Laurenziano Redi 9, che anzi sul piano della resa grafica del-le strutture e dell’attribuzione di genere metrico in rubrica appare un testimone piuttosto affidabile, an-che perché molto vicino all’ambiente di produzione di buona parte dei componimenti di cui è latore.Semplicemente, si constata che per determinare la struttura formale dei testi non è il caso di affidarsi cie-camente alla presenza o meno di segni di interpunzione (che sono cosa diversa dall’impaginazione o dallerubriche, per quanto in più di un caso anche queste si dimostrino del tutto inaffidabili), soprattutto vistoche nella sezione delle lettere di Guittone del Laurenziano Redi 9 capita che manchino separatori anchetra i versi di testi metricamente regolari (come la canzone).66. Una trattazione estensiva sulla prosa rimata latina è quella di KARL POLHEIM, Die lateinische Reim-prosa, Berlin, Weidmann 1925 (per la tradizione del genere in Italia dal secolo XI al XIII si vedano le pp.420-22); per una breve introduzione si può consultare la voce Reimprosa in Lexikon des Mittelalters, vol.VII, München, Deutscher Taschenbuch Verlag 2002, col. 657.67. Cfr. al proposito EDUARD NORDEN, La prosa d’arte antica: dal 6. secolo a. C. all’età della Rinascenza,edizione italiana a c. di BENEDETTA HEINEMANN CAMPANA, con una nota di aggiornamento di GUALTIE-RO CALBOLI e una premessa di SCEVOLA MARIOTTI, vol. II, Roma, Salerno 1986, pp. 764-66, 872-73. SIL-VIA RIZZO, Petrarca, il latino e il volgare, «Quaderni petrarcheschi» VII (1990), pp. 7-40, poi ripropostoin forma rielaborata in EAD., Ricerche sul latino umanistico, I, Roma, Edizioni di storia e letteratura,2002, pp. 15-73 (da cui si cita), nota d’altra parte che la prosa rimata «presentava caratteri in qualchemodo simili a quelli della poesia ritmica, perché, come quella, era caratterizzata essenzialmente dall’arti-colarsi in caratteri paralleli e isosillabici (o tendenzialmente isosillabici: nel non rigoroso isosillabismo staproprio la differenza fondamentale rispetto alla poesia ritmica) e dalla rima» (p. 48). Che la prosa rimatasia caratterizzata dal fatto che «l’isosillabismo dei membri non è perfetto, altrimenti sarebbe poesia ritmi-ca rimata» si ricava anche dalla trattatazione della Poetria di Giovanni di Garlandia, che mostra inoltreche «la prosa rimata era un genere sentito come a sé stante e con sue proprie leggi» (p. 50).

raro anche in componimenti che dal punto di vista metrico non presentano dif-ficoltà o irregolarità65. Insomma: quale sia la forma di un testo medievale – inquesto caso, le lettere di Guittone – lo deve determinare chi lo studia, senza as-solutizzare i dati offerti dai testimoni. Se un testo con delle rime non è ricondu-cibile a nessuna forma metrica a noi nota e plausibilmente utilizzabile (o addirit-tura concepibile) all’interno del suo ambito di origine, non presenta nessunaforma di ripetizione di moduli metrici (dal distico in su), e contiene al suo inter-no sequenze prive di omoteleuti talmente lunghe da costringere a postulare lapresenza di versi irrelati, forse, anziché tentarne la regolarizzazione per mezzodi correzioni anche assai onerose, si potrebbe prendere in considerazione l’ipo-tesi che non si tratti di versi.

Analizzando più testi analoghi a quelli qui presentati, sarebbe certamente pos-sibile inquadrarli meglio, e forse arrivare a tratteggiare una storia della prosa ri-mata volgare: cosa che in questa sede non è possibile fare, nemmeno limitandosialla sola Toscana tra la seconda metà del Duecento ed il Trecento. Oltretutto, èben possibile che non si tratti di una vera e propria tradizione, ma di alcuni espe-rimenti isolati: volendo abbellire della prosa in volgare sul modello di certi esem-pi di prosa d’arte latina, l’inserimento al suo interno di rime e/o versi era sicura-mente uno dei primi artifici a disposizione. Un elemento da prendere in conside-razione in ogni caso dovrebbe essere proprio l’esistenza di una tradizione medie-vale di prosa rimata in latino66, a volte a tal punto articolata in membri paralleliregolarmente chiusi dalla rima da essere scambiata per veri e propri versi67, che

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68. Per quel che riguarda la vicinanza metrica di Francesco da Barberino ai poeti stilnovisti, cfr. CAM-BONI, Contesti..., pp. 14-16 e 75-82; per la volontà di completezza e sistematicità delle sue glosse, cfr.CAMBONI, Contesti..., pp. 60-61.69. Per essi, cfr. CAMBONI, Contesti..., pp. 71-74.70. Per questi due, ci si può chiedere fino a che punto si pensi a modelli italiani (come per la gobulala stanza isolata di canzone o canzone monostrofica) e non invece piuttosto ai provenzali sirventés e co-bla esparsa: in ogni caso, il serventese è una forma variabile ma comunque dotata di una sua regolaritàmetrica, mentre per la gobula come ‘unità metrica’ o singolo breve componimento si può vedere MA-RIA CRISTINA PANZERA, I Documenti d’Amore di Francesco da Barberino, Tesi di perfezionamento inFilologia romanza, Pisa, Scuola Normale Superiore 1997 (avverto che le citazioni dei Documentid’Amore nel seguito dell’articolo sono prese dall’edizione contenuta in questo lavoro) e CAMBONI,Contesti..., p. 74.71. Per questi (e in parte anche per l’influsso della tradizione provenzale su Francesco da Barberino)cfr. CLAUDIO GIUNTA, Due saggi sulla tenzone, Padova, Antenore 2002, pp. 7-9.

potrebbe aver agito da modello per gli eventuali omologhi volgari. Volendo giu-dicare la verosimiglianza storica di ognuna delle due ipotesi che fin qui aleggianosulla forma della profezia per Siena (e in parte su quella degli altri testi citati), en-trano tuttavia in gioco altri elementi.

5. Oltre a quello di Antonio da Tempo esistono altri trattati di metrica, anchepiù antichi della Summa. Ai nostri scopi è soprattutto utile riconsiderare i duepassi dell’autocommento ai Documenti d’Amore di Francesco da Barberino chevanno sotto il nome di «glosse metriche». È infatti chiaro che il loro autore siproponeva di dare un quadro completo e sistematico dei generi (formali o tema-tici) in uso nella sua epoca, e ripercorrendoli si può provare a capire in quale diessi avrebbe collocato almeno alcuni dei testi qui citati, da lui non lontani dalpunto di vista cronologico e geografico, e in qualche caso scritti da autori la cuicoscienza metrica appare ben vicina alla sua, come Cavalcanti68.

Francesco da Barberino elenca in totale sedici inveniendi modi: undici in usoin quel momento, tra ‘antichi’ e ‘moderni’, tre appena entrati nell’uso, due ora-mai desueti. Questi ultimi sono in realtà casi in cui non è sparito il genere in séma ne è diventata obsoleta la denominazione: nel caso della lamentatio (dolorisconcinium, o ‘canto doloroso’) un testo che anticamente sarebbe stato così desi-gnato a quanto pare ha iniziato a venire indicato col nome del genere metrico;nel caso del consonium (ovvero il testo destinato ad una melodia) ogni conso-nium è passato ad essere chiamato in base al nome della melodia a cui il testo siaccompagna. Fra i tre generi entrati in uso di recente, due sono forme di sonet-to69, la terza (ovvero la collatio) sembra essere invece una forma musicale a piùvoci. Per quel che riguarda gli undici generi restanti, per ovvi motivi possonoessere scartati la canzone, la ballata e il sonetto; dopo breve riflessione, è possi-bile eliminare anche il serventese e la gobula70; ovviamente nulla a che vederecon i testi da noi presi in considerazione hanno i tre ‘generi dialogici’, vale a direil discordium, il concordium e la contentio71. Restano quindi gli ultimi tre genericitati: il libraticum, il prosaicum e il volontarium.

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72. Va notato che i Documenti d’Amore sono divisi in parti composte da strofette dallo schema diversoche però si ripete in maniera tendenzialmente costante all’interno di ogni singola parte; la forma di que-st’opera di Francesco da Barberino dovrebbe quindi appartenere al libraticum, di cui sarebbe anzi unarealizzazione assai esemplificativa.73. PANCHERI, «Col suon chioccio»..., p. 29.74. ELENA ABRAMOV-VAN RIJK, Parlar cantando. The practice of reciting verses in Italy from 1300 to 1600,Bern, Peter Lang 2009, p. 108.75. L’etichetta ‘frottola’ è infatti utilizzata con un significato diverso dai musicologi (cfr. al propositoPIETRO G. BELTRAMI, La metrica italiana, Bologna, Il Mulino 2011, p. 121, n. 112): da qui una certa con-fusione negli studi (per cui v. PANCHERI, «Col suon chioccio»..., p. 25). D’altra parte, nel tentativo di rico-struire una tradizione, l’evoluzione di un metro, le sue caratteristiche, o semplicemente il significato diun termine, pare proprio che a volte ci si sia affidati troppo alla ricorrenza di una stessa forma lessicale,senza preoccuparsi di verificare che corrispondesse sempre alla stessa entità, mettendo quindi insiemeoggetti che poco avevano a che vedere gli uni con gli altri (un ulteriore esempio potrebbe essere il casodel matricale citato nella nota che segue).

«Libraticum est per quod diversis modis liber componitur sub certis limitibusatque rimis»: ovvero, il libraticum copre tutte le diverse forme metriche che èpossibile adottare nella composizione di libri, vale a dire di opere narrative, dida-scaliche etc. Ipotizzerei che sotto tale nome possano essere compresi quasi tutti imetri non lirici: la terzina dantesca, per Francesco da Barberino, sarebbe quindirientrata in questa definizione72.

«Prosaicum est cursivum vulgare in vulgaribus licteris seu libris»: questa èsemplicemente la prosa, ovvero la forma in cui vengono correntemente scritte involgare le opere raccolte in libri (per cui è forma alternativa al libraticum) o lelettere.

«Voluntarium est rudium inordinatum concinium ut matricale et similia»: an-che questa definizione sembra comprendere più forme, tanto è vero che il passoviene citato da Pancheri come esempio delle «definizioni negativamente onni-comprensive [...] riservate ai modi illegittimi e irregolari dagli insegnamenti me-trici contenuti nei Documenti d’Amore di Francesco da Barberino»73. A questoproposito, Elena Abramov-van Rijk ha di recente sostenuto l’ipotesi che nel vo-luntarium rientri anche la frottola.

L’ipotesi della studiosa si fonda sul fatto che nella Summa Antonio da Tempo, per negarel’opportunità di chiamare frotolas i motos confectos (cosa che, pure dice, molti fanno), af-ferma che col termine frotolas vengono designati i verba rusticorum. Tali rusticorum posso-no certo essere assimilati ai rudium di Francesco da Barberino: ma questo non appare unelemento sufficiente per affermare (come fa Abramov-van Rijk)74 che la frottola sia unodei similia che per l’autore dei Documenti d’Amore rientrano sotto l’etichetta voluntarium.Al di là del fatto che l’esistenza del genere già all’epoca in cui scriveva Francesco da Bar-berino – e quindi la possibilità che rientrasse nell’orizzonte delle sue competenze metriche– è tutta da dimostrare, non risulta da nessuna fonte l’associazione della frottola con ilcanto: almeno, non della frottola di cui si sta discorrendo in questa sede75. L’esecuzionecantata sembra però essere un tratto costitutivo del voluntarium, che secondo la stessaAbramov-van Rijk dovrebbe essere l’etichetta sotto la quale vanno i canti non del tutto re-golari (e quindi non a pieno titolo letterari) degli incolti: le forme della poesia popolare

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76. Cfr. ABRAMOV-VAN RIJK, Parlar cantando..., pp. 103-4. La studiosa utilizza estensivamente le «glossemetriche» nel tentativo di stabilire quale fosse lo statuto del madrigale all’epoca di Francesco da Barberi-no e di confutare la tesi che lo scrittore ne parlasse come di una forma già polifonica. Alle pp. 99-101 vie-ne riportato tutto l’elenco degli undici inveniendi modi ‘in uso’, con traduzione; vengono invece tralascia-ti gli altri cinque modi, quelli desueti e quelli appena nati (e va anche detto che non tutte le interpretazio-ni delle oscure glosse di Francesco da Barberino offerte dalla studiosa appaiono convincenti). Interessan-te l’ipotesi (pp. 102-3) secondo la quale l’ordine di presentazione degli inveniendi modi andrebbe dai piùformalizzati (e letterari) ai meno formalizzati, per arrivare ad un genere, appunto il voluntarium, la cuiposizione dopo la prosa suggerirebbe quasi il suo ‘trovarsi fuori’ dai confini della letteratura in volgare.Viene però a questo punto da chiedersi fino a che punto sia credibile che il matricale citato da Francescoda Barberino sia effettivamente la forma metrica più tarda, fin dall’inizio pressoché inseparabile da un’e-secuzione musicale polifonica (e quindi abbastanza raffinata e non certo propria rudium, al di là del suoargomento). Se il voluntarium è infatti l’etichetta in cui l’autore dei Documenti d’Amore fa rientrare i di-versi canti degli illetterati, potrebbe ben darsi che per lui il termine matricale individui un genere temati-co, e non metrico: il ‘canto delle madri’, magari quello che serve a far addormentare i bambini.

cantata, insomma (e quindi non esattamente una definizione negativamente onnicompren-siva come gli «alios inlegitimos et inregulares modos» di De vulgari eloquentia II III 2)76.

Lasciando da parte la questione di un eventuale legame tra la frottola e il vo-luntarium, appare evidente che è molto difficile far rientrare in quest’ultimo il‘mottetto’ di Cavalcanti o le lettere di Guittone; e sinceramente sembra difficileanche pensare a un’esecuzione cantata della profezia senese o della missiva diAntonio di Cecco. Se assumiamo che davvero Francesco da Barberino abbiaelencato tutti i generi testuali a lui noti, e che tra questi il volontarium sia l’insie-me dei diversi tipi di canto degli illetterati, siamo costretti a dedurre che l’unicaetichetta pertinente per il piccolo gruppo di ‘testi sparsi’ qui presentati per l’au-tore dei Documenti d’Amore sarebbe stata la prosa: forse rimata, ma comunqueprosa. Certo, non è detto che Francesco da Barberino sia mai entrato in contattocon componimenti di questo tipo, ma il fatto che l’ambiente di produzione efruizione della profezia Ora volgo le rime appaia più vicino al contesto culturalein cui operava lui piuttosto che a quello di Antonio da Tempo porta a ritenerepiù economico considerarla un pezzo di prosa rimata piuttosto che un testo inversi che necessita di correzioni. D’altra parte, quest’ipotesi sulla probabile per-cezione metrica di un determinato tipo di testi in Toscana verso l’inizio del Tre-cento non si appoggia solo alle criptiche glosse di Francesco da Barberino, e ulte-riori elementi a suo favore possono venire dalla riconsiderazione di alcuni testiascritti al genere della frottola.

6. La più antica frottola databile nota (dato che Ora volgo le rime non vieneconsiderata tale) dopo Dio voglia che ben vada di Antonio da Tempo è O tu cheleggi di Fazio degli Uberti, missiva contro i fiorentini composta (e inviata) nelquadro degli attriti tra il loro comune e la città di Verona, dove il poeta vivevaesule, databile al 1336. Subito dopo la frottola di Fazio si colloca la risposta in-teramente per le rime scritta da Tommaso di Giunta nello stesso anno 1336,

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77. I due testi sono stati pubblicati da ultimo in TOMMASO DI GIUNTA, Il conciliato d’amore. Rime. Epi-stole, a c. di LINDA PAGNOTTA, Firenze, Edizioni del Galluzzo 2001, alle pp. 118-26 e 128-37, dove si tro-vano (a partire dalla p. 113) anche notizie sulle relative circostanze storiche.78. TOMMASO DI GIUNTA, Il conciliato d’amore..., p. 116.79. Donna pietosa ha schema ABC ABC CDdE eCDD, mentre la canzone di Cino ha schema ABC ABCCDdEeCFF.80. La tradizione duecentesca di cui tratta CLAUDIO GIUNTA, Corrispondenze in canzoni. Per il restaurodi Onesto da Bologna, «Se co lo vostro val mio dire e solo», «Studi mediolatini e volgari», XLI (1995),pp. 51-76 continua quindi anche nel secolo successivo; e va aggiunto che l’elenco di casi che seguono èsicuramente incompleto, dal momento che gli esempi rintracciati tramite ANDREA PELOSI, La canzone ita-liana del Trecento, «Metrica», V (1990), pp. 3-162 non sono stati nemmeno citati tutti, e chi scrive ha no-tizia di altre canzoni in corrispondenza probabilmente trecentesche tuttora inedite. Un breve elenco del-le ‘tenzoni in canzone’ del Trecento verrà prossimamente pubblicato in CRISTIANO LORENZI, Una canzo-ne su rime sdrucciole contro Ludovico il Bavaro («Di vento pasci chi teco si gloria»), «Studi linguistici italia-ni», in corso di stampa. Oltre a canzoni, ‘frottole’ e sonetti esistono inoltre testi che si rispondono per lerime in altri metri: alcuni vengono citati da GIUNTA, Due saggi..., p. 128, n. 6.81. Le due canzoni possono essere lette rispettivamente in GIANNOZZO SACCHETTI, Rime, a c. di TIZIANA

ARVIGO, Bologna, Commissione per i testi di lingua 2005, pp. 13-16, e FRANCO SACCHETTI, Il libro delle ri-me con le lettere. La battaglia delle belle donne, a c. di DAVIDE PUCCINI, Torino, UTET 2007, pp. 186-90.

Negl’ignoranti seggi77. Quest’ultima esibisce alcune particolarità che invitano allariflessione.

La prima di queste è che Tommaso di Giunta, pur riprendendo le rime del te-sto di Fazio, non si sente affatto in dovere di riprodurne la struttura prosodica:vale a dire, le sequenze delimitate dalla stessa rima (e che dovrebbero avere lastessa posizione) nei due testi non hanno affatto la medesima lunghezza, al puntoche l’editrice, Linda Pagnotta, parla di una «regolarizzazione messa in atto daTommaso nella replica attraverso un generalizzato ampliamento metrico»78. Lacosa è notevole perché normalmente un testo in versi che risponde ad un altroper le rime si cura di ricalcarne innanzitutto la struttura prosodica. La ripresadello schema sillabico da parte di un testo in stretta connessione con un altro èanzi prioritaria rispetto a quella delle rime e addirittura della disposizione reci-proca delle stesse al suo interno: basta pensare al caso di Avegna ched el m’aggiapiù per tempo di Cino da Pistoia, che riprende lo schema sillabico di Donna pieto-sa e di novella etate senza ripeterne le rime e modificandone leggermente lo sche-ma rimico79. Il perché è abbastanza chiaro, se si pensa ai fattori all’origine di talifenomeni di imitazione metrico-rimica.

Val qui la pena di osservare che la necessaria identità della struttura sillabica tra testi chesi rispondono per le rime sembra essere una costante per tutto il Trecento: ovviamente gliscambi tra sonetti non sono gli esempi migliori per verificarla, ma esistono un certo nu-mero di corrispondenze in canzoni del XIV secolo80. Un esempio è Il biasimar, che tantoaltero fai di Giannozzo Sacchetti, che risponde a Poca vertù, ma foggie ed atti assai diFranco Sacchetti riprendendone la struttura al punto da non avere solo le stesse rime e lostesso schema metrico, ma anche lo stesso numero di stanze e identico schema per quelche riguarda il congedo81. Un altro è Omo, che parli per sì gran contegni, la risposta inpersona di Amore di Tommaso da Faenza ad Amore, i’ prego ch’alquanto sostegni di Gio-

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82. Il testo delle due canzoni è in RODOLFO RENIER, Liriche edite ed inedite di Fazio degli Uberti, Firen-ze, Sansoni 1883, pp. 213-22.83. Le canzoni possono essere lette in RIGO MIGNANI, Un canzoniere italiano inedito del secolo XIV(Beinecke Phillipps 8826), Firenze, Licosa 1974, pp. 138-41, 142-45, 106-9, 110-13.84. Per cui cfr. GIUNTA, Corrispondenze..., pp. 64-66.85. TOMMASO DI GIUNTA, Il conciliato d’amore..., pp. 119 e 131.86. TOMMASO DI GIUNTA, Il conciliato d’amore..., p. 117.87. TOMMASO DI GIUNTA, Il conciliato d’amore..., pp. 126 e 137.

vanni dall’Orto (anche in questo caso schema metrico e rime sono identici, e così il nu-mero delle stanze, ma la canzone di Tommaso non ha il congedo, forse caduto, e quindi èpossibile che anche il numero delle stanze dei due testi originariamente non fosse il me-desimo)82. Un paio di corrispondenze in canzoni possono infine essere trovate nel codiceBeinecke Phillips 8826, nella sezione trascritta prima del 1369: una è quella compostadalle anonime La gran fama, signor, di vertù carca e Avegna, amico, che la nostra barca(stesso schema, rime e numero di stanze); l’altra comprende le due canzoni su rimesdrucciole Vienne la maiestate imperatoria, scritta al più un paio d’anni dopo O tu cheleggi e attribuita proprio a Fazio degli Uberti, e Di vento pasci chi teco si gloria(adespota)83; anche in quest’ultimo caso, stesso schema, stesse rime (pur con alcune irre-golarità dovute a rime sdrucciole ‘interpretate’ come piane), stesso numero di stanze,stesso schema del congedo (tranne per il fatto che a quest’ultimo nella risposta vengonoaggiunti quattro endecasillabi sdruccioli, ovvero il «rincaro quantitativo» tipico dei testiresponsivi84). Si tralasciano altri esempi perché superflui.

La seconda particolarità del testo di Tommaso di Giunta è che presenta alcu-ne rime irrelate. Visto che è una risposta per le rime, val la pena di capire da do-ve tali irrelate provengano. Cito affiancati i passi corrispondenti di Fazio (a sini-stra) e Tommaso (a destra: irrelate in grassetto)85.

più dolce compra che s’ombradi chi l’ha compra in maestrevole ombra,poco dài, sanza indugiarlo in crai;pur che possi far tuo prode e come scocca lode

Nel testo di Fazio l’irrelata potrebbe sparire unendo quel verso al successivo;ciò però non può accadere nella risposta di Tommaso «dove è settenario, non in-tegrabile al verso successivo, pure settenario» (si può anche notare che la ripresarimica immediatamente precedente è imperfetta per assonanza)86. Una situazioneanaloga si ritrova anche alla fine dei due testi87.

Certo i’ t’uso raro: ed in suo duol gli apparoma io pur so de’ tuoi dolenti modi, co’ maginar compieti et sodi.e però vo’ che m’odi, E questo vo’ che s’odi:ch’egl’è proverbio antico ed è comuno che·lle mie forze sparte raguno,che chi serve – a comuno – a neuno – serve. acciò che vachi sue genti proterve.Or ten va’: Farò che·ssi diràda’, – da’, ver’ me quel munerar

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88. TOMMASO DI GIUNTA, Il conciliato d’amore..., p. 126, n. al verso 121.89. TOMMASO DI GIUNTA, Il conciliato d’amore..., p. 127: «pressoché costante l’alleggerimento delle ri-me (interne?) del modello».90. Per apparenti eccezioni, v. supra.91. TOMMASO DI GIUNTA, Il conciliato d’amore..., p. 115, n. 6.

che no·ll’avesti. che ’n dir mi desti,D’un altro panno vo’ che·ttu ti vesti! svegliando te, che per dormir mi desti.

Anche in questo caso non è necessario che ci siano irrelate all’interno del te-sto di Fazio: basterebbe suddividere diversamente i versi, come hanno fatto glieditori precedenti, Corsi e Berisso, che hanno unito in uno solo il penultimo, ter-zultimo e quartultimo verso, e spezzato quello immediatamente precedente (ov-vero il quinto del passo qui riportato). Per questo, l’editrice afferma che l’accor-pamento è stato fatto sulla base del «riscontro con la frottola di Tommaso»88. Sipuò notare che in questa sono sparite le rime interne (ed accade anche altrovenel testo89), e che negli ultimi due versi ne vengono segnalate due non presentinel testo di Fazio, per quanto la rima desinenziale dir : dormir lasci perplessi (ecosì pure la rima tronca imperfetta dirà : munerar). Ma ciò che veramente colpi-sce è la presenza nel testo di Tommaso di due ineliminabili irrelate consecutivesu versi lunghi: «che·lle mie forze sparte raguno, / acciò che vachi sue genti pro-terve».

L’unica caratteristica formale del motus confectus data da Antonio da Tempoche non viene smentita dalle frottole coeve studiate da Pancheri è proprio l’as-senza di rime irrelate90. Ne dobbiamo dedurre che per Tommaso di Giunta lenorme sulla struttura formale della frottola fornite da Antonio da Tempo eranoancor meno valide che per Fazio degli Uberti e gli altri autori di frottole citati daPancheri. Forse però la presenza di irrelate, quella di un ‘verso ipermetro’ come«aver trovato un Tersito overo un Danao» (44 dell’edizione Pagnotta), e il fattoche Tommaso non si preoccupi di ricalcare la struttura sillabica di un testo di cuipure riprende le rime possono essere visti in una nuova luce.

Secondo Linda Pagnotta, O tu che leggi deve aver ottenuto a Firenze una cer-ta risonanza, a cui avrebbe contribuito, oltre «all’argomento di scottante attua-lità, la novità del metro, la cui diffusione pare muovere da un epicentro setten-trionale, e che resterà legato, almeno a Firenze, al nome di Fazio, come docu-menta Filippo Villani nella Vita a lui dedicata»91. Possiamo certamente ipotizzareche per Fazio si trattasse di una forma metrica più o meno nuova, visto l’incipitdel suo testo: «O tu che leggi, / e sai dicreto e leggi, / se di questi miei versi /chiosi ’l ver, sì – che no gli versi». La questione è se Tommaso e gli altri lettori delsuo ambiente fossero in grado di interpretarla come tale. Da quel che si è visto, èda escludere che potessero appoggiarsi ad Antonio da Tempo: l’ipotesi più pro-babile è che nella quasi totalità dei casi non avessero letto la Summa (forse per lo-ro non era nemmeno un testo interessante). È quindi possibile che Tommaso ab-

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bia frainteso la forma di O tu che leggi, magari riconducendola automaticamentea quella di altri testi a lui noti, più o meno simili a Ora volgo le rime; che abbiainsomma preso il testo per della prosa rimata, rispondendo con un pezzo di pro-sa con più o meno le stesse rime. Ciò spiegherebbe sia il fatto che non si siapreoccupato di ricalcare una struttura prosodica a cui era completamente insen-sibile, sia la caduta di molte rime interne come so : vo’, a cui nemmeno avrà fattocaso, sia la presenza di irrelate e versi ipermetri: ovviamente, se il testo per luinon era in versi, la lunghezza delle sequenze di sillabe comprese tra due omofo-nie poteva essere più lunga di un verso senza particolari problemi.

Per quanto l’accettare quest’ipotesi ci metterebbe di fronte a uno dei peggioriabbagli della storia della letteratura italiana, va ammesso che all’epoca l’assenzadi coesione all’interno di un contesto letterario in fondo marginale come quellovolgare (perdipiù in una situazione culturale che di per sé presentava delle diffi-coltà) era probabilmente tale da poter giustificare persino un fraintendimento diquesto tipo. Anzi, potrebbe persino essere possibile pensare che la frottola abbiala sua origine in un equivoco inverso e speculare: vale a dire, qualcuno nel NordItalia potrebbe aver preso per un testo in versi un pezzo di prosa rimata, dandopoi luogo tramite il tentativo di imitarne la forma alla nascita di un genere metri-co quasi ametrico come è appunto la frottola.

Al di là delle ipotesi sull’origine del genere, resta ad ogni modo il fatto cheper determinare se un testo possa appartenere ad esso, o se sia o meno un testoin versi, e di conseguenza come vada stampato, deve essere valutata innanzi tuttola sua appartenenza ad un contesto in cui è plausibile condividere un certo tipodi coscienza metrica. Per Ora volgo le rime, tale valutazione porta a sostenere l’i-potesi che si tratti di prosa rimata. È poi chiaro che per ciò che riguarda la lette-ratura italiana dei primi secoli, almeno relativamente alla questione del confinetra prosa e versi, il contesto letterario è in gran parte da ricostruire, a partire dal-la recensio dei testi e dalle loro edizioni: ed è solo successivamente a tale ricostru-zione che le ipotesi sopra espresse potranno trovare smentite o conferme.

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APPENDICE

Il testo è accompagnato da un’illustrazione che, come sempre, non ha uno spazio nelmanoscritto a lei specificamente dedicato e in questo caso particolare si divide tra i duemargini: su quello destro è rappresentata la città (un insieme di mura turrite) e sul sini-stro il poeta nell’atto di rivolgersi ad essa.

Nell’edizione del testo sono state sciolte le abbreviazioni, introdotte le maiuscole e idiacritici e separate le parole secondo l’uso corrente. Viene inoltre modernizzata la grafia(distinzione di u da v; sostituzione di tutte le j finali con altrettante i; normalizzazionedelle incoerenti grafie arcaiche per l’occlusiva velare sorda e sonora, per la n e la l palata-li, per l’affricata palatale e per i nessi di nasale con labiale; normalizzazione delle grafielatineggianti, delle doppie oscillanti, etc.).

La suddivisione in paragrafi è quella già presente nel manoscritto, che pare sufficien-temente congruente con la strutturazione retorico-argomentativa del testo. La punteggia-tura è dell’editore.

Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Conventi soppressi 122, c. 7r-v

Profezia fece ......... per la città di Siena1Ora volgo le rime alla città del monte, che ben può fare di lagrime fonte,

perché in essa saranno molti baratti e più savi e più matti saranno tutti in unconcestoro.

2Veggio nel campo d’oro un uccel grande con soave penne (che lor stato af-fende, sicché saranno le promisse corte) per vita dar morte a chi ver’ lui saràstato cortese: e molti del paese ne fien contenti. 3Poscia veggo dolenti quelliche seranno da lui esaltati, perché fieno atterrati prima che l’uccel torni. 4De-stati, tu che dormi! ch’i’ dico, pur per lor divisione, che molti fien cagione delpropio male.

5Veggio montar le scale; consolati saranno, ma poco tempo, però ch’assaiper tempo l’acqua del becco berrà il duro capo, ca farà tal mercato a chi conlui vorrà cavar la spada che di gente masnada potrà fare. 6Parmel vedere intra-re per luogo non usato: per l’orto dilicato farà via. 7Or molta villania riceveràciascun nobilitato: ogn’uscio fia serrato, a tal per forza e a tal per paura, maquesta sciagura non toccherà a chi sal ben la costa, ma serà buona posta perlor fatta. 8Ch’a cui fie la casa disfatta? Non toccherà a loro: ma dell’altrui teso-ro si faran de’ drappi. 9Veggio far tali bistratti che non serà nissuno che nonne senta: ora l’occhio apresenta al mio parlare.

10I’ veggo trasmutare e già rivolta tutta la natura: tal monterà in altura chemai non seppe che si fosse stato, ma serà atterrato, perché voto è il cucchiaioche lui imbocca; però che questa torta altri la mangerà che rigattieri; però cheforestieri sarà colui che qui porrà la presta. 11Ma colui ch’à la testa tosta comesasso, di lui sarà fracasso, e di suo gente tal ne rimane perdente che nol crede.12Or le castagne fredde avranno spaccio!

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13E sanza colpa o laccio sarà presa la volpe, e di tutte suo colpe sarà paga-ta. 14Della casa pregiata ciascuno langue; una pietra d’oro diventerà di sangue;e poi fien simiglianti a’ lor vicini. 15E’ picciolini pulcini saranno consenzienti aquesti errori, credendo esser maggiori (ma non seranno) per torre il ben comu-no. 16Colui ch’è solo uno col gran pastore faran grande convegna, e guarranquesta tigna con tale unguento, ch’ogni lor vicino grande e piccolino a tal cittàpotrà portare invidia. 17Ché di questa presidia ne nascerà si grande unioneche con consolazione tutti ritorneranno al primo nidio. 18Ma ben ti fido chechi è ben vestito non si spoglia: cadegli alcuna foglia, ma rimansi che si puòcontentare.

Note.1. città del monte: Siena. – di lagrime fonte: potrebbe esserci un’allusione al perenne problema dell’ap-provvigionamento idrico cittadino, che tra le altre cose fu all’origine della ricerca del fiume sotterraneoDiana di cui parla Dante in Purgatorio XIII 153. – baratti: ‘inganni’, ‘frodi’ o forse meglio ‘scontri’, ‘con-tese’. – concestoro: l’insieme dei magistrati senesi. 2. nel campo d’oro un uccel grande con soave penne: ilriferimento è a Enrico VII, il cui stemma (ovvero lo stemma imperiale) era un’aquila in campo oro. – chelor stato affende: non è ben chiaro a quali offese si faccia riferimento, probabilmente a richieste degli am-basciatori di Enrico giudicate lesive delle prerogative del comune di Siena. – promisse corte: con tuttaprobabilità da parte della dirigenza senese. Sembra che l’autore del testo intenda qui in qualche modogiustificare il fatto di lottare contro l’autorità imperiale. – per vita dar morte a chi ver’ lui sarà statocortese: non è chiaro se il riferimento sia a Siena o ad altre città (v. anche supra, § 2). – molti del paese: lafazione filoimperiale all’interno del comune. 3. dolenti [...] aterrati prima che l’uccel torni: probabile rife-rimento al fatto che i ghibellini senesi furono mandati al confino poco prima che Enrico si avvicinasse aSiena, con un provvedimento del dicembre 1312 (v. supra, § 2, in particolare la n. 17). 5. le scale: forsequelle che si sarebbero dovute preparare per assediare le mura di Siena. – consolati: ‘liberi da preoccupa-zioni e sofferenze’. – l’acqua del becco berrà il duro capo: riferimento all’episodio del 25 gennaio 1313 incui le truppe imperiali si spinsero fino a Fonte Becci, fontana poco distante da Siena il cui nome vienecollegato per paretimologia ai becchi consegnati assieme al riscatto dai prigionieri fiorentini dopo la bat-taglia di Montaperti, che furono sgozzati appunto accanto a Fonte Becci (v. anche supra, § 2). – farà talmercato: forse allude a non meglio specificate promesse fatte da Enrico a chi combatteva con lui, che glidovrebbero aver consentito di raccogliere un buon numero di armati (masnada). 6. luogo non usato [...]orto dilicato: se vi è un riferimento preciso, non è oggi possibile coglierlo. 7. nobilitato: appartenente allefamiglie magnatizie, probabilmente in un buon numero di casi ghibelline e quindi vicine all’imperatore ealla testa dell’opposizione al governo dei Nove (cfr. Cronaca senese..., p. 52, dove si discorre di lotte trafazioni che appoggiano due diversi podestà; è evidente che il populo è nella fazione opposta ai nobilitati:«A la perfine e’ XXIIII rimaseno vencitori e rimase potestà Aldobrandino Chacc[i]aconte; e presa la si-gnoria e’ XXIIII, tuti quegli e’ quali tenevano co’ Vintisette, la magior parte ne fugì, e furo fatti ribelli. Edi qui dirivò el disfacimento e le nimicizie de’ nobilitati di Siena. E in quello dì medesimo andoro el po-pulo, che tene co’ XXIIII e col potestà insieme, e arsero el palazzo de’ Talomei»). – chi sal ben la costa:probabile riferimento a una famiglia o a un gruppo di cittadini senesi, oggi purtroppo incomprensibile.8. la casa disfatta: era usanza dell’epoca distruggere le case dei fuoriusciti; per ipotesi sulla rappresagliaalla quale si potrebbe far riferimento, v. supra § 2. 9. bistratti: ‘soprusi’. 10. trasmutare [...] rivolta tutta lanatura: si fa evidentemente riferimento a un sovvertimento generale dell’ordine delle cose. – tal monteràin altura: potrebbe essere Niccolò de’ Buonsignori, ma non è certo (cfr. il § 2). – voto è il cucchiaio: forseallude a difficoltà economiche o di approvvigionamento di Enrico, o al recente fallimento (1308) dellabanca Buonsignori (per cui cfr. supra, § 2). – presta: può indicare un prestito o un tributo; per l’ipotesiche si tratti del riscatto del conte di Blamont, cfr. supra, § 2; un’altra ipotesi è che si continui ad alludereal fallimento della banca Buonsignori (quindi: colui che metterà fondi per la guerra non sarà certo il se-nese Niccolò de’ Buonsignori, dato che la banca della sua famiglia è fallita; dovrà di conseguenza farlo unforestieri); ma potrebbe anche trattarsi di un generico auspicio (i costi della guerra non ricadranno sui

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cittadini di Siena, insomma, ma su altri). 11. colui ch’à la testa tosta come sasso: il personaggio di cui siprofetizza la disfatta viene indicato in maniera eccessivamente criptica per poterlo identificare con cer-tezza; stessa cosa per il tal che ne riman perdente; per ipotesi alternative a Enrico (principalmente, Ranie-ri del Porrina) cfr. supra, § 2. 12. le castagne fredde avranno spaccio: ovvero la situazione (si suppone degliimperiali, ma visto l’andamento argomentativo del testo non è del tutto certo) diverrà drammatica, tantoche saranno ricercati anche cibi veramente di poco pregio come le castagne fredde. 13. sarà presa lavolpe: la volpe è la ghibellina Pisa, la più forte alleata di Enrico VII in Toscana. Questa della sua sconfittaè evidentemente una profezia vera, non post eventum, e infatti non si realizzerà (per ulteriori dettagli suciò cfr. supra, § 2). 15. picciolini pulcini: probabile riferimento ai popolani di Siena (opposti alle famigliemagnatizie, e nella simbologia anche all’aquila-uccel grande che rappresenta l’imperatore), i quali secon-do le previsioni dell’autore appoggeranno posizioni politiche dal suo punto di vista erronee e dannoseper l’insieme della cittadinanza. 16. colui ch’è solo uno col gran pastore: il gran pastore è quasi certamenteil papa dell’epoca, Clemente V, mentre colui ch’è solo uno è probabilmente Roberto d’Angiò, nominal-mente re di Sicilia ma in realtà re solo di Napoli, dal momento che con la pace di Caltabellotta (1302)suo padre Carlo II d’Angiò aveva dovuto cedere l’isola a Federico d’Aragona. – convegna: si profetizza(anche in questo caso erroneamente) che i due personaggi appena citati si incaricheranno dei negoziatiper arrivare alla pace. Va notato che sia papa Clemente V sia soprattutto Roberto d’Angiò (comunquecon l’appoggio del pontefice) si resero protagonisti di una serie di trattative e tentativi di conciliazione,per quanto nel caso del sovrano angioino si trattasse più che altro di espedienti diplomatici tesi a sfrutta-re la situazione tra la lega guelfa e l’imperatore al fine di accrescere il suo potere; le speranze degli appar-tenenti alla lega guelfa in Roberto d’Angiò erano ad ogni modo tali che Firenze ed altri comuni dellastessa lega (ma non quello di Siena) nella primavera del 1313 gli offrirono di fatto la signoria della città(cfr. DAVIDSOHN, Storia..., vol. III, pp. 730-32, e passim per le trattative). 17. presidia: probabilmente ‘aiu-to’, ‘soccorso’ (s’intende, dei mediatori di pace appena citati). L’autore prevede la fine delle lotte cittadi-ne e anzi l’instaurarsi di un clima di concordia tale che tutti i fuoriusciti torneranno con consolazione(‘gioia’, ‘soddisfazione’) nella loro città (il primo nidio). 18. ti fido: ‘ti assicuro’. Il testo si conclude asse-rendo che malgrado tutto chi ha una posizione privilegiata all’interno della società (è ben vestito) non laperderà di sicuro; forse riceverà qualche danno, ma rimarrà comunque in una situazione tale da poterse-ne appagare (rimansi che si può contentare).

56 MARIA CLOTILDE CAMBONI

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Edizioni ETSPiazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa

[email protected] - www.edizioniets.comFinito di stampare nel mese di luglio 2013

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