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30 MADDALENA GRAZZINI 31 13. Cristo della domenica, Pievo di San Pietro, San Pietro di Feletto (Tv). Da N. PEREGO, I peccati della do- menica. La profanazione del riposo festivo nell’iconografia del Cristo della domenica, «Notiziario: Uno sguardo al passato», 2006, 101, p. 152. UNA GALLERIA RITROVATA E ALCUNE CONSIDERAZIONI SU SIGISMONDO BETTI* di Marco Betti Sigismondo Betti, pittore fiorentino settecentesco, è ancora oggi praticamente scono- sciuto; nonostante il momento favorevole agli studi sulle arti a Firenze nel Settecento, nei pochissimi testi dove viene citato, quasi di sfuggita, questo artista viene indicato perlopiù come collaboratore di un quadraturista o come un mediocre seguace del Sagre- stani. Il ritardo degli studi sul Betti, rispetto ad altri protagonisti della pittura del Set- tecento fiorentino (Giovan Camillo Sagrestani, Antonio Puglieschi, Matteo Bonechi, Francesco Conti, Ranieri Del Pace e Giovan Domenico Ferretti), si spiega in parte con la stroncatura fatta prima da Giuseppe Bencivenni Pelli 1 , poi dall’abate Luigi Lanzi 2 , dell’opera di questo artista, con una sua conseguente e ingiusta caduta nell’oblio. Nono- stante sia stato così a lungo sottovalutato, Sigismondo Betti ha goduto, in vita, dell’ap- prezzamento delle più importanti e influenti famiglie italiane, come i Medici, i Brignole Sale, i Riccardi e i Del Rosso, nonché delle maggiori compagnie religiose. Nato il 25 gennaio 1700 3 (1699 ab incarnatione) da Giovan Francesco Betti e Ger- trude Del Lungo, Sigismondo fu battezzato il giorno successivo nella parrocchia di San Simone a Firenze; entrato dapprima nella bottega dello scultore Giovacchino Fortini, passò poi – dopo una breve parentesi presso il pittore classicista Antonio Puglieschi che, come ci dice Francesco Maria Niccolò Gabburri 4 , annoiò il giovane Sigismondo * Desidero ringraziare le mie maestre, Mara Visonà e Novella Barbolani di Montauto, per i loro insegnamenti e per il loro incoraggiamento. A loro, e alla mia famiglia, desidero dedicare questo lavoro a cui tanto hanno contribuito. Un ringraziamento va anche a Giampaolo Fioretto, a Maria Gaia Riario Sforza e a Vincenzo Russo. 1 Il Pelli, dopo aver incontrato Sigismondo Betti il 5 dicembre 1777, lo definisce nel suo diario “un uomo che ha lavorato mediocremente, e che nondimeno ha venduto bene la sua mercanzia” (G. BENCIVENNI PELLI, Efemeridi, BNCF ms., serie II, vol. V, cc. 877-878). 2 Nel carteggio col pesciatino Innocenzo Ansaldi, Luigi Lanzi si sofferma due volte sul Betti: la prima definisce le opere liguri del pittore “… vere miserie massime”, poi, dopo aver visto gli affreschi del Nostro in Piemonte, lo dice “pittore non finito, di colorito debole nel fare, nella composizione vero e senza gusto nelle figure” (E. PELLEGRINI, Settecento di carta, Pisa, ETS, 2008, pp. 372 e 404). 3 La pubblicazione della data di nascita del pittore si deve a Sandro Bellesi (in Il Settecento a Prato, a cura di R. Fantappiè, Prato, Cariprato, 1999, p. 109). 4 Il cavalier Gabburri, oltre ad essere il più attendibile biografo del Nostro, fu anche, come vedremo, suo discreto estimatore e collezionista. La biografia del Betti si trova in F. M. N.GABBURRI, Vite di pittori, BNCF ms. Palatino E.B.9.5., vol. IV, c. 2299.
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Una galleria ritrovata e alcune considerazioni su Sigismondo Betti

May 13, 2023

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Page 1: Una galleria ritrovata e alcune considerazioni su Sigismondo Betti

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MADDALENA GRAZZINI

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13. Cristo della domenica, Pievo di San Pietro, San Pietro di Feletto (Tv). Da N. PEREGO, I peccati della do-menica. La profanazione del riposo festivo nell’ iconografia del Cristo della domenica, «Notiziario: Uno sguardo al passato», 2006, 101, p. 152.

UNA GALLERIA RITROVATA E ALCUNE CONSIDERAZIONI SU SIGISMONDO BETTI*

di Marco Betti

Sigismondo Betti, pittore fiorentino settecentesco, è ancora oggi praticamente scono-sciuto; nonostante il momento favorevole agli studi sulle arti a Firenze nel Settecento, nei pochissimi testi dove viene citato, quasi di sfuggita, questo artista viene indicato perlopiù come collaboratore di un quadraturista o come un mediocre seguace del Sagre-stani. Il ritardo degli studi sul Betti, rispetto ad altri protagonisti della pittura del Set-tecento fiorentino (Giovan Camillo Sagrestani, Antonio Puglieschi, Matteo Bonechi, Francesco Conti, Ranieri Del Pace e Giovan Domenico Ferretti), si spiega in parte con la stroncatura fatta prima da Giuseppe Bencivenni Pelli1, poi dall’abate Luigi Lanzi2, dell’opera di questo artista, con una sua conseguente e ingiusta caduta nell’oblio. Nono-stante sia stato così a lungo sottovalutato, Sigismondo Betti ha goduto, in vita, dell’ap-prezzamento delle più importanti e influenti famiglie italiane, come i Medici, i Brignole Sale, i Riccardi e i Del Rosso, nonché delle maggiori compagnie religiose. Nato il 25 gennaio 17003 (1699 ab incarnatione) da Giovan Francesco Betti e Ger-trude Del Lungo, Sigismondo fu battezzato il giorno successivo nella parrocchia di San Simone a Firenze; entrato dapprima nella bottega dello scultore Giovacchino Fortini, passò poi – dopo una breve parentesi presso il pittore classicista Antonio Puglieschi che, come ci dice Francesco Maria Niccolò Gabburri4, annoiò il giovane Sigismondo

* Desidero ringraziare le mie maestre, Mara Visonà e Novella Barbolani di Montauto, per i loro insegnamenti e per il loro incoraggiamento. A loro, e alla mia famiglia, desidero dedicare questo lavoro a cui tanto hanno contribuito. Un ringraziamento va anche a Giampaolo Fioretto, a Maria Gaia Riario Sforza e a Vincenzo Russo.

1 Il Pelli, dopo aver incontrato Sigismondo Betti il 5 dicembre 1777, lo definisce nel suo diario “un uomo che ha lavorato mediocremente, e che nondimeno ha venduto bene la sua mercanzia” (G. BENCIVENNI PELLI, Efemeridi, BNCF ms., serie II, vol. V, cc. 877-878).

2 Nel carteggio col pesciatino Innocenzo Ansaldi, Luigi Lanzi si sofferma due volte sul Betti: la prima definisce le opere liguri del pittore “… vere miserie massime”, poi, dopo aver visto gli affreschi del Nostro in Piemonte, lo dice “pittore non finito, di colorito debole nel fare, nella composizione vero e senza gusto nelle figure” (E. PELLEGRINI, Settecento di carta, Pisa, ETS, 2008, pp. 372 e 404).

3 La pubblicazione della data di nascita del pittore si deve a Sandro Bellesi (in Il Settecento a Prato, a cura di R. Fantappiè, Prato, Cariprato, 1999, p. 109).

4 Il cavalier Gabburri, oltre ad essere il più attendibile biografo del Nostro, fu anche, come vedremo, suo discreto estimatore e collezionista. La biografia del Betti si trova in F. M. N.GABBURRI, Vite di pittori, BNCF ms. Palatino E.B.9.5., vol. IV, c. 2299.

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– a quella di Matteo Bonechi, col quale esercitò specialmente l’arte dell’affresco: seb-bene non venga specificato il nome del giovane apprendista fiorentino che assisteva il Bonechi alla realizzazione degli affreschi della cupola di Santa Verdiana a Castelfioren-tino, considerando che gli anni di decorazione della cupola vanno dal 1715 al 1719, la tentazione di identificare quel giovane con Sigismondo Betti è fortissima5. Una volta lasciata la bottega del maestro, il Betti giunse alla formulazione di uno stile originale e personalissimo che a mio avviso superò, in qualità, sia quello del Bone-chi che, soprattutto, quello del Puglieschi. Infatti, pur essendo completamente inse-ribile, sia per stile pittorico che per indole, in quella banda di artisti stravaganti e biz-zarri che costituirono l’alternativa al filone classicista capeggiato da Anton Domenico Gabbiani, Sigismondo Betti, anche entro al brioso gruppo dei sagrestaneschi, riuscì a distinguersi notevolmente: insieme a una pittura piacevole e leggera, di gusto rococò, e a una straordinaria vivacità cromatica, il Betti si caratterizzò anche per un sapiente uso del disegno (cosa apprezzata anche dal Gabburri, fautore della linea classicista e avverso alle giocose libertà pittoriche usate dagli antiaccademici) e per essere un artista capace di operare in qualsiasi campo pittorico: non fu solo ottimo frescante, ma anche apprezzato pastellista6, oltre ad essere stato pittore su tela, su tavola, su stoffa e ad aver colorito delle sculture in terracotta. Dopo le prime due prove ad affresco, che presen-tano ancora echi bonechiani, vale a dire la volta dell’ex chiesa di San Carlo dei Barna-biti a Firenze, datata 1721, e la volta della chiesa dei Santi Cosma e Damiano a Incisa Valdarno7, del 1723, il Betti, oltre a un affresco perduto, realizzato nel 1730 per la cappella Marmi in Santa Maria del Carmine a Firenze e andato distrutto con l’incen-dio del 1771, e a una numerosa serie di dipinti su tela (dei quali oggi ne conosciamo solo due, il San Nicola da Tolentino che resuscita le pernici arrosto, del 1726, attualmente conservato in Palazzo Banci Buonamici a Prato, e il San Matteo, commissionatogli nel

1729 dall’Elettrice Palatina per il coro alto del Conservatorio delle Montalve di Villa la Quiete a Firenze, dove tuttora si trova in pessimo stato conservativo8), realizzò alcuni pastelli, tutti al momento irreperibili tranne uno, il bellissimo Satiro (fig. 1) di colle-zione Gabburri9 – eseguito nel 1727 e presentato dal cavaliere all’esposizione d’arte alla Santissima Annunziata nel 1729 – una superba prova della perizia del pittore nel-l’arte del pastello, tecnica molto diffusa nella Firenze settecentesca. È dunque un artista pienamente affermato e apprezzato (come abbiamo visto, anche dalla famiglia granducale) quello che nel 1735 realizzò forse il suo capolavoro, l’opera che è oggetto principale di questo studio, vale a dire la galleria di palazzo Mancini a Firenze (fig. 2).Il palazzo, fatto costruire da Benedetto degli Alberti e terminato nel 1378, appartenne, prima che ai nobili Mancini, alla famiglia Alberti del Giudice, ai conti Rossi di San Secondo e ai marchesi Barbolani di Montauto10 (quest’ultimi si imparentarono con i Mancini; a testimonianza dell’unione delle due famiglie si trova, sulla volta di androne di accesso al cortile, un affresco raffigurante lo stemma con le armi congiunte dei Barbolani di Montauto e dei Mancini); l’attuale aspetto del palazzo, pur mantenendo una severa aria medievale, oggi si presenta molto cambiato rispetto all’assetto origina-rio, cambiamento frutto di numerosi interventi succedutisi tra la fine del Settecento e la prima metà del secolo scorso; l’unica testimonianza superstite della prima, glo-riosa famiglia che abitò il palazzo sono gli scudi, ormai quasi illeggibili, degli Alberti (azzurri, con quattro catene d’argento che partono dalle estremità dello scudo e che si uniscono al centro dello scudo stesso), due sulla facciata e uno, scalpellinato, sul

5 Ritorna spesso, nei registri di pagamento, accanto al nome di Matteo Bonechi, la menzione di un “gio-vane” che il maestro si era portato con sé da Firenze e che lo aiutava nei lavori di rifinitura degli affreschi. I documenti d’archivio della chiesa sono pubblicati in M.C. IMPROTA, La chiesa di Santa Verdiana a Castelfio-rentino, Pisa, Pacini, 1986, p. 132.

6 In una lettera di Madame Charlotte Sophie de Bentinck inviata il 24 maggio 1758 al celebre filosofo Vol-taire leggiamo di un pastel d’un nommé Betti, demeurant chez M. Schimdt à St. Apostole, audessus de la Rosalba en fait de dessin, et égal à elle-ci pour le coloris; lettera pubblicata in E. BÈNÈZIT, Una femme des Lumières: ècrits et lettres de la comtesse de Bentinck, 1715- 1800, Parigi, 1996, p. 88.

7 L’affresco, raffigurante la Vergine in gloria circondata da angeli e con i Santi Francesco, Antonio da Padova, Chiara da Assisi e Giovanni Evangelista, è stato erroneamente assegnato al Bonechi da Silvia Meloni Trkulja (in La pittura in Italia. Il Settecento, a cura di Giuliano Briganti, II, Milano, Electa, 1990, p. 629) e da Sandro Bellesi (in S. BELLESI, Catalogo dei pittori fiorentini del ’600 e ’700, I, Firenze, Polistampa, 2009, p. 89), ma è da restituire a Sigismondo Betti non solo per le evidenti affinità stilistiche col precedente affresco fioren-tino nell’oratorio di San Carlo dei Barnabiti, ma proprio per il documento che ne attesta la paternità del Betti pubblicato in A.M. AMONACI, Conventi dell’Osservanza francescana, Milano, Amilcare Pizzi editore, 1997, p. 192. Degli stessi anni è pure la tenda d’organo conservata nella chiesa di San Giuliano a Pescia, raffigurante il Sacro cuore adorato dagli angeli, e, del 1733, l’aggiunta di Putti e farfalle nelle due tavole, un tempo sportelli di una carrozza del Gran Principe Ferdinando, decorate da Mario dei Fiori e conservate nel Museo Stibbert (nonché le due tavole, attribuite al Betti da Mina Gregori, raffiguranti L’oracolo comunica ad Agamennone l’ira di Artemide e Il sacrificio di Ifigenia, vendute da Christie’s nel 1995).

8 Anna Maria Luisa de’Medici commissionò al Betti almeno altre tre opere: una pittura murale, oggi per-duta, raffigurante un Noli me tangere, dipinta nel 1725 su una fontana situata nel giardino di Villa la Quiete (cit. da Stefano Casciu in Villa la Quiete. Il patrimonio artistico del conservatorio delle Montalve, a cura di C. DE BENEDICTIS, Firenze, Le Lettere, 1997, p. 47), una tela raffigurante l’Estasi di San Francesco, dipinta nel 1733 e destinata a una cappella del Convento delle cappuccine di Sant’Onofrio di Firenze, al momento non rintrac-ciata (ASF, Depositeria generale parte antica 465) e un ritratto postumo a penna di Gian Gastone de’ Medici, nel 1737, destinato a un libro manoscritto andato perduto (ASF, Depositeria generale parte antica 470).

9 Nel verso del foglio, conservato al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, oltre a un rapido disegno raffi-gurante una figura in moto, probabilmente nell’atto di suonare i cembali, troviamo un’iscrizione che recita: “Di mano di Sigismondo Betti pittor fiorentino fatto da esso l’anno 1727 per il cav.re”, iscrizione accompagnata dallo stemma della famiglia Gabburri e dal numero 1302, che, come mi ha spiegato Novella Barbolani di Montauto, corrisponde alla numerazione inventariale della collezione di disegni dell’erudito fiorentino. Il Gabburri, oltre a questo pastello, aveva nella sua collezione altre tre opere del Betti: due autoritratti, uno a disegno e l’altro a pastello, presentati rispettivamente alle Esposizioni della Santissima Annunziata nel 1729 e del 1737, e un Trionfo di Camillo (copia dell’affresco di Cecchino Salviati), presentato anch’esso alla Santissima Annunziata nel 1729. Apparteneva al cavaliere forse anche il disegno raffigurante la Sacra famiglia con San Giovannino e angeli, oggi al Louvre (Dipartimento di Arti Grafiche, n. 12705), dato che presenta un’iscrizione, di mano proprio del Gabburri, che dice: “Due disegni di Sigismondo Botti (sic) pittor fiorentino”; l’autografia della scritta mi è stata confermata dalla Barbolani di Montauto. Sempre del Betti sono i due disegni (nel Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, n. 11395 S e n. 11396 S), datati 1728 e raffiguranti rispettivamente Il miracolo della manna e Mosè fa sgorgare l’acqua dalla roccia, nonché il foglio con le tre Figure maschili, a mio avviso degli anni ’40, passato di recente a un’asta (Piasa 2004, Lot. 26) e che presenta, in basso a sinistra, la scritta Del Betti.

10 C. PAOLINI, Lungo le mura del secondo cerchio. Case e palazzi di via de’ Benci, Firenze, Polistampa, 2008, pp. 51- 54.

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capitello di un pilastro nel cortile. Nonostante, come abbiamo detto, l’aspetto austero, quasi freddo – dovuto anche a interventi fatti nel 1939, in occasione della visita di Hitler a Firenze, e finalizzati ad adeguare la facciata del palazzo all’immagine severa e antica che si voleva dare di Firenze al Führer – con cui si presenta, il palazzo Mancini racchiude in sé, nascosti a occhi indiscreti, veri e propri capolavori artistici (come, del resto, una gran quantità di dimore fiorentine); il fiore all’occhiello del palazzo è senza dubbio la galleria affrescata dal Betti e “ritrovata” in tempi recentissimi da chi scrive.Il cavalier Gabburri tramanda che Sigismondo Betti dipinse a fresco “nell’anno 1735 […] una galleria ben grande nel palazzo dei signori Mancini in Firenze”. La famiglia Mancini, di origini nobili e molto antiche, è documentata a Firenze dalla metà del Trecento11, proprio nel quartiere di Santa Croce, ma ipotizziamo che il trasferimento nel palazzo di via de’ Benci non sia collocabile prima della metà del Seicento. Non è stato ancora possibile identificare con esattezza il committente degli affreschi, ma, grazie all’indicazione temporale offerta dal Gabburri, l’incertezza è tra due persone soltanto: Pietro di Lorenzo Mancini (1667- 1743) – cavaliere dell’ordine di Santo Ste-fano, che sposò nel 1700 Ottavia di Manfredi Cigni, dama d’onore della Gran Prin-cipessa Violante Beatrice di Baviera; poi, rimasto vedovo, si unì in seconde nozze, nel 1712, a Maria Maddalena del cavalier Francesco Maria Grifoni – oppure suo figlio, Lorenzo Mancini (1713- 1754), coppiere di corte e gentiluomo di camera dei grandu-chi Cosimo III e Gian Gastone, marito (1744) di Eleonora del marchese Giulio Bar-bolani di Montauto, dama d’onore della principessa Anna Maria Luisa de’Medici12. La galleria, chiaramente ispirata a quella dipinta da Luca Giordano in Palazzo Medici Riccardi, fu molto apprezzata dal Gabburri, che così la descrisse: “nella quale opera (Sigismondo Betti), avendo posto tutto lo studio per farsi onore, ha fatto vedere cor-rezione nel disegno, invenzione, colorito, disposizione e franchezza, onde ha meritato perciò una lode totalmente distinta”; è in effetti difficile, per chi ha la fortuna di poter ammirare la galleria, non concordare con l’entusiastico giudizio dato dall’erudito fio-rentino: entrando da una piccola porta ci si trova immediatamente proiettati in una vivace e arcadica campagna, dove satiri e menadi ubriachi danzano allegramente (fig. 3), intervallati da allegorie dei vizi, delle virtù e delle arti, nonché da episodi violenti di difficile interpretazione (fig. 4). La grande quantità di personaggi è sapientemente disposta da Sigismondo Betti nello spazio della volta, quasi una sinfonia musicale, dove si alternano note alte e note basse, ognuna affascinante a modo suo e armoniose tutte riunite. Quando poi osserviamo più attentamente l’affresco, notiamo, oltre alla

qualità della pittura – e a un buono stato di conservazione dell’opera – delle vere e proprie citazioni artistiche, soprattutto dalla statuaria antica: infatti un nudo addor-mentato e minacciato da alcuni ceffi (fig. 5) è incredibilmente simile, nella posa, al celebre Fauno Barberini (fig. 6), ma anche a un soggetto dipinto da Anton Domenico Gabbiani, alcuni decenni prima, a Pitti (fig. 7). Ma la passione del Betti per la scul-tura – forse un ricordo del suo apprendistato presso Giovacchino Fortini – la vediamo anche in un busto spezzato /tavola 8/, simile al Torso del Belvedere (fig. 9) o al Torso Gaddi e, soprattutto, in un bellissimo omaggio al Bacco di Michelangelo (fig. 10), raf-figurato sulla parete di destra; la decorazione della galleria non si limita, infatti, alla volta, ma prosegue lungo le pareti, dove troviamo, oltre al Bacco appena citato, un’altra scultura, probabilmente una Cerere, e quattro riquadri dipinti a monocromo raffigu-ranti Ercole e Onfale (fig. 11), Atalanta e Ippomene, La punizione di Amore e Giove e Io; è stato recentemente sottolineato13 come proprio nella Firenze settecentesca l’interesse verso la cultura antica e rinascimentale fu particolarmente sviluppato, e specialmente la scultura classica ebbe una nuova e intensa rivalutazione. Sappiamo che molti pittori si avvalevano di incisioni di sculture come repertorio di decorazione al quale ispirarsi, soprattutto per i cicli di pittura murale, e probabilmente Sigismondo Betti fu uno di questi14, trovandosi a operare in un momento, come abbiamo visto, di notevole inte-resse per la scultura: nei primi anni Trenta del secolo si era dato alle stampe il terzo volume del Museum Florentinum, quello dedicato alla statuaria, e sempre in quegli anni il Gabburri e Pierre Jean Mariette discutevano sulla supposta antichità di una celebre scultura delle collezioni granducali, vale a dire il Bacco di Michelangelo, lo stesso raffigurato dal Nostro nella parete orientale della galleria. Da un punto di vista iconologico, volendo cercare un discorso unitario, che sia coe-rente anche con quello della volta, le quattro scene a monocromo potrebbero signifi-care quattro esempi di amori negativi o che, comunque, sono accomunati da episodi di violenza o inganno. Tutta la decorazione della galleria è infatti molto probabilmente – nonostante l’interpretazione della volta sia piuttosto difficile – un monito, un esem-pio del giusto modello di vita da seguire: un vita retta, infatti, è difficile da vivere, poi-ché, come vediamo nella volta, le tentazioni e le insidie sono tante, oltretutto mesco-late ai modelli positivi, e quindi spesso difficilmente distinguibili dalle Virtù. Vediamo quindi accanto alla Temperanza uno spaventoso Inganno (fig. 12), un gruppo di perso-naggi felici e spensierati (fig. 13) affiancati dalla Vanità e dall’Ignoranza (fig. 14); alla fine, però, il messaggio sembra essere ottimista, poiché al centro della volta spiccano la Giustizia e il Castigo15. Come già accennato, la decorazione presenta chiari elementi di giordanismo, non solo nei temi affrontati, ma anche per la ripartizione libera e ariosa dei personaggi nella volta

11 In una cappella situata in San Firenze si legge: “A.D. 1335. Haec cappella aedificata est per Duccium Guidi de Mancinii”; il ramo dei Mancini delle Ruote, stabilitosi nel quartiere di Santa Croce a Firenze, è detto secon-do rispetto al ramo dei Mancini del Lion Rosso, anch’essi fiorentini, ma del popolo di Santa Maria Novella (ASF, Raccolta Sebregondi, fascicolo 3231 A). Inoltre è da notare come in Borgo dei Greci, murata a uno dei lati della chiesa di San Firenze, si trovi una targa marmorea, decorata con due stemmi, proprio quelli d’oro con tre fasce nere che sono presenti nel nostro palazzo, datata 1643 e che ricorda una donazione fatta dai Mancini e dai Magalotti, famiglie che in seguito si unirono.

12 Le informazioni biografiche su questi due membri della famiglia Mancini (e delle rispettive mogli) sono state trovate da Ludovica Sebregondi (vedi in ASF, Raccolta Sebregondi, fascicolo 3231 A).

13 R. BALLERI, Il Settecento e la cultura antiquaria tra Firenze e Roma: il “Museum Florentinum”, «Proporzio-ni», VI, 2005, pp. 97-141;

14 Si pensi alle decorazioni di Vincenzo Meucci, Lorenzo Del Moro e Tommaso Gherardini, tanto per citarne alcuni.

15 Per l’identificazione delle figure allegoriche la fonte è Cesare Ripa, Iconologia, Padova, per Pietro Paolo Tozzi, nella Stampa del Pasquati 1618, edizione a cura di Piero Buscaroli, Milano, Tea 1992.

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e nell’uso dei colori accesi e nei visi giocosi, quasi caricaturali, dei putti; è inevitabile anche un pensiero alla volta affrescata da Alessandro Gherardini in Palazzo Giugni, seb-bene quest’ultima sia più affollata e disordinata, e, come nella maggior parte dei soffitti fiorentini del Settecento, alle aperture di gran respiro portate a Firenze dal veneto Seba-stiano Ricci e ai vertiginosi sfondati di Andrea Pozzo; la cultura artistica di Sigismondo Betti, che va annoverato tra i pittori che “dipinsero viaggiando e viaggiarono dipin-gendo”, non è dunque solamente toscana – e non solo la pittura a lui contemporanea, ma anche quella dei due secoli precedenti16 – poiché mostra forti analogie con la coeva pittura emiliana, come, per esempio, Felice Torelli, Donato Creti e alcuni risultati di Vittorio Maria Bigari, ma anche con alcuni pittori francesi della prima metà del Sette-cento, soprattutto con Donatien Nonnotte, Charles de la Fosse e Françoise Lemoyne, premier peintre du Roi, morto suicida nel 1737. Vicina a questo affresco, sia stilistica-mente che per tema, è la piccola tela, qui attribuita a Sigismondo Betti, recentemente passata a un’asta e oggi in collezione privata (fig. 15); in questo Baccanale – forse un d’apres – troviamo infatti notevoli affinità con i personaggi della galleria Mancini (si veda, per esempio il gruppo danzante sulla destra, oppure il bambino che mangia l’uva, simili, quasi delle citazioni, ai bambini che mangiano l’uva e ai satiri danzanti nella volta della galleria), tanto che si è spinti a datarla proprio alla metà degli anni Trenta.Sebbene l’affresco costituisca, fin dalla sua formazione artistica, la parte principale della sua produzione pittorica (da buon fiorentino), il Betti fu anche ottimo pittore su tela e, specialmente, pastellista e disegnatore. Giunto in Liguria, dopo aver affre-scato le testate del transetto della chiesa di Santa Maria Maddalena a Genova17, Sigi-smondo dipinse alcuni pastelli per la famiglia Brignole Sale: due di questi, il ritratto di Ridolfo II (fig. 16) e quello di sua moglie Pellina Lomellini, attualmente conservati nel deposito del Museo di Palazzo Rosso a Genova, sono documentati come autografi suoi e datati 173818; sempre a Genova troviamo un suo affresco, in una sala al piano

nobile di Palazzo Doria De Fornari, raffigurante un’Allegoria del Tempo e della Musica19 (tra i personaggi raffigurati vediamo un nudo di spalle molto somigliante al Satiro a pastello).Tornato in patria, dopo aver affrescato completamente la chiesa di Sant’Ignazio a Savona (ora Sant’Andrea) nel 1741, Sigismondo Betti realizzò a Firenze una serie di affreschi20 (è da menzionare una piccola parentesi nel 1755 a Sarzana, per lavori ad affresco nella Cappella delle Reliquie della Cattedrale, per i quali fu pagato 700 lire), e, verosimilmente, stando anche a quello che riporta il Pelli nel suo già citato diario, continuò a dipingere su tela e a pastello21.Fino a poco tempo fa si pensava che le ultime opere di questo artista si trovassero in Piemonte22, dove il Betti soggiornò per alcuni anni, ma recentemente è stato trovato il pagamento di 57 scudi per un ritratto (ancora non rintracciato), in data 15 Settembre 1771, della marchesa Penelope Capponi, moglie di Bettino Ricasoli23, il che, oltre a porre un nuovo estremo temporale che allunga la carriera artistica di Sigismondo Betti a cinquant’anni precisi, ritengo sia l’ennesima prova della notorietà di cui godette, in vita, questo artista. Alla luce di tutto questo ci sembrava quindi doveroso rivalutare questo uomo dimenticato, dal carattere vivace e polemico (numerosissime sono, nel-l’Archivio di Stato di Firenze, le cause giudiziarie intentate da lui e, soprattutto, contro di lui), un pittore fecondissimo e versatile; vorremmo concludere questo saggio ricor-dando anche alcuni allievi del Betti: tre dei numerosi figli che ebbe dalla moglie, Cate-rina Angiola Gaspera Buonenuove (figlia di Dario Giuseppe Buonenuove, capitano

16 Sono riscontrabili nella tela raffigurante il Miracolo delle pernici di Prato chiari rimandi alla pittura di Andrea del Sarto; nel San Matteo di Villa la Quiete, invece, oltre all’impianto del dipinto, quasi rinascimentale nella sua leggibilità immediata e nella disposizione simmetrica degli spazi, l’angioletto che assiste il santo direi che presenta degli echi della pittura di Simone Pignoni (è da ricordare che Matteo Bonechi fu allievo di Fran-cesco Botti, creato proprio dal Pignoni). Per questo ritorno della pittura fiorentina settecentesca agli esempi dei maestri del passato si veda F. BERTI, Il recupero della tradizione fiorentina nella pittura di Francesco Conti, in «Paragone», 19 (579), pp. 30-42.

17 I padri Somaschi genovesi chiamarono il Betti nel 1737 poiché, non essendosi riusciti ad accordare sul prezzo per la decorazione delle due testate col pittore fiorentino Sebastiano Galeotti (che aveva già affrescato la cupola, la volta della navata centrale, il presbiterio e l’abside), lo avevano licenziato nel 1734. Vedi R. DUGONI, Sebastiano Galeotti, Torino, Allemandi, 2001, p. 170.

18 I due ritratti furono pagati 1801 lire (cfr. L. TAGLIAFERRO, La magnificenza privata, Genova, Marietti 1995, p. 160). Esistono altri tre pastelli, sempre nel deposito di Palazzo Rosso, a mio avviso di scuola fiorentina del Settecento: due, un Ritratto maschile e un Ritratto femminile, sono quasi certamente del Betti, il terzo (anch’esso un Ritratto muliebre), date le pessime condizioni conservative e i pesanti rimaneggiamenti subìti, è difficilmente attribuibile. Il Betti dipinse anche tre quadri per la famiglia Durazzo (una per la signora Manin Pallavicini Du-razzo, uno per Gian Luca Durazzo e uno per Giacomo Filippo Durazzo), nonché un ritratto di Matteo Franzoni in veste di doge (vedi D. SANGUINETI, Gio Enrico Veymer, Genova, Sagep, 1999, pp. 72 e 145). Per la disponibi-lità e i preziosi consigli sull’attività ligure del Betti, desidero ringraziare la dottoressa Margherita Priarone.

19 Affresco citato in F. ALIZERI, Guida turistica per la città di Genova, Genova, presso Giovanni Grondona, 1846, p. 432.

20 In ordine affrescò la cupola e peducci (quest’ultimi andati perduti) dell’ex chiesa di San Pancrazio nel 1753; sempre del ’53 è il tabernacolo in via Filippina raffigurante l’Apparizione della Vergine con Gesù a San Filippo Neri. Nel 1754- 55 realizzò uno dei suoi capolavori, l’abside e la navata della chiesa di San Giuseppe dei Minimi e, verosimilmente nel 1757, in occasione delle nozze di Giovanni Battista Guadagni con Teresa Torrigiani, affrescò il soffitto, dipingendo una Primavera, di una sala al pianterreno del palazzo Sacrati Strozzi (si veda M. BETTI, Ancora sul Settecento fiorentino. La pittura di Sigismondo Betti in Toscana, Università degli Studi di Firenze, a.a. 2008-2009, relatore prof. Mara Visonà).

21 Ritengo che l’inedita incisione a bulino di Giovanni Battista Betti da un quadro, al momento perduto, di Sigismondo – Cristo incoronato di spine – (incisione conservata nel Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, n. 1885) sia ad oggi l’unica testimonianza della pittura su tela del nostro dopo il soggiorno ligure. È sempre di Giovanni Battista, e non di Sigismondo (come invece è scritto in S. Bellesi, Vincenzo Dandini e la pittura a Firenze alla metà del Seicento, Firenze, Felici, 2003, p. 2), un’incisione col ritratto di Vincenzo Dandini.

22 Oltre alla decorazione ad affresco, nel 1765, della XXIV cappella del Sacro Monte di Varallo e alla colo-ritura di diciannove statue in essa contenute, il Betti dipinse, nel 1766, una tela raffigurante Carlo Borromeo di fronte a Cristo nell’orto, posta tuttora sopra l’altare della cappella dedicata al Santo nella cattedrale dell’Assunta, sempre a Varallo, poi un “sottofornello” in una dimora dei conti Viarana nel 1767 (non è ancora chiaro se nella residenza di Torino o se in quella di San Maurizio Canavese). Verosimilmente è sempre della metà degli anni Sessanta la decorazione di una sala del Palazzo Morozzo della Rocca a Torino (distrutto da una bomba nel 1942) e, infine, sono da segnalare le due enormi tele – una Crocifissione e una Sacra famiglia – del 1768 nella chiesa di Santa Maria Maggiore a Vercelli, per le quali fu pagato duecentosessanta lire di Piemonte (M. BETTI, Ancora sul Settecento fiorentino, cit.). Desidero ringraziare la dott.ssa Elena De Filippis per il generoso aiuto.

23 G. BIAGIOLI, Il modello del proprietario imprenditore nella Toscana dell’Ottocento: Bettino Ricasoli. Il patri-monio, le fattorie, Firenze, Leo S. Olschki, 2000, p. 438.

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di Orsanmichele nel 1724)24, vale a dire il famoso incisore Giovanni Battista, nato il 24 giugno 173425, Luigi, disegnatore, e Maria Maddalena, pittrice per la famiglia del granduca Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena26, nonché il cugino, Pietro Betti27 che, dopo un breve apprendistato presso Sigismondo, passò alla scuola di Giuseppe Gri-soni.Le notizie su Sigismondo Betti si fermano all’estate del 1783, quando, per l’ultima volta, viene citato tra i Consiglieri dell’Accademia del Disegno di Firenze; suppo-niamo, data l’assenza di menzioni successive a questa data, e vista anche l’età avanzata dell’artista, che la sua morte si possa collocare nella prima metà degli anni Ottanta del secolo.

24 ASF, Raccolta Sebregondi, fascicolo 883.25 AODF, Registro dei Battezzati Maschi. 1732- 1734, 1734, lettera G.26 L’unica opera al momento nota di Maria Maddalena Betti è il ritratto della granduchessa Maria Luisa di

Borbone Spagna, datato 1771 e conservato nella collezione Corsi del Museo Bardini di Firenze (cfr. Gazzetta toscana, BNCF, ms. Palatino, E.B.9.5., vol. IV c. 2136, anno 1771).

27 Questo pittore si è voluto spesso identificare con quel Pietro Betio che nel 1725 restaurò un affresco in una casa nei pressi di Cortina d’Ampezzo, ma oggi possiamo definitivamente scartare questa ipotesi: infatti, con la scoperta, da parte dello scrivente, del suo atto di battesimo, sappiamo che Pietro Betti nacque il 29 giu-gno 1719 (AODF, Registro dei Battezzati Maschi. 1718- 1719. 1719, lettera P), quindi, alla data del restauro dell’affresco veneto, aveva soltanto sei anni. Sembra che abbia affrescato il coro di Santa Maria del Ponterosso, a Figline Valdarno, con le Storie della Vergine e dell’Infanzia di Cristo, tra il 1750 e il 1753, e che abbia dipinto, nel 1773, una Nascita della Vergine, conservata nella chiesa di Santa Maria a Sant’Ellero (M. BETTI, Ancora sul Settecento fiorentino, cit.).

1. Sigismondo Betti, Satiro, Firenze, Gabinetto dei Disegni e Stampe degli Uffizi, recto.

2. Sigismondo Betti, Allegoria dei Vizi e delle Virtù, Firenze, Palazzo Mancini.

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4. Sigismondo Betti, Allegoria dei Vizi e delle Virtù, part., Firenze, Palazzo Mancini.

3. Sigismondo Betti, Allegoria dei Vizi e delle Virtù, part., Firenze, Palazzo Mancini.

5. Sigismondo Betti, Allegoria dei Vizi e delle Virtù, part., Firenze, Palazzo Mancini.

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6. Fauno Barberini, Monaco di Baviera, Gliptoteca.7. Anton Domenico Gabbiani, Il tempo esalta le Scienze e calpesta l’Ignoranza, part., Firenze, Palazzo Pitti, sala della Meridiana.

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8. Sigismondo Betti, Allegoria dei Vizi e delle Virtù, part., Firenze, Palazzo Mancini.

9. Apollonio, Torso del Belvedere, Città del Vaticano, Museo Pio Clementino.

10. Sigismondo Betti, Allegoria dei Vizi e delle Virtù, part., Firenze, Palazzo Mancini.

11. Sigismondo Betti, Allegoria dei Vizi e delle Virtù, part., Firenze, Palazzo Mancini.

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12. Sigismondo Betti, Allegoria dei Vizi e delle Virtù, part., Firenze, Palazzo Mancini.

13. Sigismondo Betti, Allegoria dei Vizi e delle Virtù, part., Firenze, Palazzo Mancini. 15. Sigismondo Betti, Baccanale, Prato, collezione privata.

14. Sigismondo Betti, Allegoria dei Vizi e delle Virtù, part., Firenze, Palazzo Mancini.

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16. Sigismondo Betti, Ridolfo II Brignole Sale, Genova, Musei di Strada Nuova – Palazzo Rosso (depositi).

DALLA TEORIA ALLA CRITICA MILITANTE: LA CONCEZIONE ESTETICA DI GIORGIO CASTELFRANCO

di Francesca Guarducci

1.1 Giorgio Castelfranco.

Nel panorama della storia e della critica d’arte del Novecento emerge la figura di Giorgio Castelfranco, che rivela fin da giovane acute doti di critico d’arte, consolidate da un’estesa cultura umanistica e ampiamente dimostrate sia quando, nel 1924, da poco laureato in Lettere presso l’Università di Firenze, promuove e redige «La Rivista di Firenze»1, sia quando, nel 1926, entra in qualità di funzionario storico dell’arte nell’organico dell’Amministrazione delle Antichità e Belle Arti, afferente al Ministero della Pubblica Istruzione (figg. 1, 2)2. È proprio in tale veste che Castelfranco intra-prende una brillante carriera, con promozioni ed incarichi di crescente responsabilità assolti con serietà e competenza, che lo vedono anche impegnato nell’organizzazione di mostre di arte italiana contemporanea in collaborazione con istituzioni culturali del calibro della Quadriennale di Roma e della Biennale di Venezia. L’operato di Castel-franco è infatti contrassegnato da riconoscimenti ufficiali in cui viene apprezzata la sua

Avvertenza – Il Fondo Castelfranco fa oggi parte dell’Archivio Bernard Berenson, The Harvard University Center for Italian Renaissance Studies, Villa I Tatti-Firenze; per agevolare la lettura, il Fondo è individuato nel testo con la seguente sigla: A. B, Fondo G. Castelfranco. Ringrazio il Professor Alessandro Nigro per il prezioso aiuto.

1 «La Rivista di Firenze» esce dal febbraio 1924 al maggio 1925; la sede della redazione si trovava presso l’abitazione dello stesso Castelfranco, in Lungarno Serristori, oggi sede del Museo Casa Rodolfo Siviero.

2 Giorgio Castelfranco nasce a Venezia nel 1896 da una famiglia benestante di origine ebraica, che nel 1914 si trasferisce a Firenze. Negli anni immediatamente precedenti lo scoppio della seconda Guerra Mon-diale, Castelfranco è oggetto delle persecuzioni razziali che lo costringono a lasciare l’Italia e a far riparare la sua famiglia negli Stati Uniti, dove si sono poi definitivamente stabiliti i due figli Giovanna e Paolo. Giorgio Castelfranco torna tuttavia a svolgere un ruolo di primo piano nell’ambito della cultura artistica italiana già alla fine del 1943, quando, a seguito dello sbarco delle truppe alleate, decide di offrire al nuovo governo il proprio contributo alla ricostruzione culturale del paese. Si avvia così per Castelfranco una nuova stagione, che lo vede attivo e partecipe protagonista delle diverse iniziative promosse dal Ministero della Pubblica Istruzione. Al termine di un’autorevole e riconosciuta carriera, Giorgio Castelfranco si spegne a Roma nel novembre del 1978.