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Caro Lucio, la tua rivista è stata così importante nel provocare un dibattito in Italia sugli interessi nazionali che sembra difficile prescinderne, volendo affrontare lo stesso tema con questo numero di Aspenia. Un dubbio l’ho a volte avuto, per essere onesta: che Limes ponesse le domande giuste ma che le risposte non fossero, o non fossero sempre, del tutto convincenti. Per cui ti chiedo di riprendere da capo il filo del tuo ragiona- mento, e questa volta per i lettori di Aspenia. Ti chiedo, insomma, di tornare a spiega- re quali siano, secondo te, gli interessi nazionali del paese. Non pretendo certo che questo numero di Aspenia dia, a un interrogativo del genere, ri- sposte esaustive. Vorrei solo che contribuisse alla nostra discussione, insistendo, prima che sulla “geopolitica”, sui vincoli interni del sistema italico. La mia convinzione, di- fatti, è che il primo interesse nazionale dell’Italia sia ancora quello “di mettere la ca- sa in ordine”: per riprendere le parole di Angela Merkel sul caso tedesco, senza soddi- sfare l’imperativo (“creativo”) della ripresa economica, nessun paese è in grado di con- tare sul piano internazionale e quindi di difendere con efficacia i suoi interessi nel mondo. Nessun altro, del resto, sarà ancora disposto a difendere gli interessi italiani al posto nostro. Il crollo del Muro di Berlino, per l’Italia, ha significato essenzialmen- te questo: la fine delle rendite di posizione. Ma è come se dal 1989 non ci fossimo mai ripresi. Per promuovere gli interessi italia- ni in un sistema internazionale che ha conosciuto nel frattempo un’altra frattura sto- rica – quella dell’11 settembre – e che ha già largamente vissuto miti e fasti della glo- balizzazione, dobbiamo avere alle spalle un paese solido; o almeno un’idea del paese e del suo futuro. Non è che sia poi così facile. Come dimostrano i saggi pubblicati in que- sto numero, non sono facili le scelte che riguardano il tema del “patriottismo econo- mico”: cosa e quanto deve restare nelle mani nazionali in materia economica e finan- ziaria? E cosa e quanto può invece finire in grandi fusioni internazionali o essere ac- quisito dall’estero? Non sono semplici le decisioni che riguardano il modello di socie- tà e di cittadinanza, in un paese che vive tassi senza precedenti di immigrazione e che soffre gli intrecci perversi fra clandestinità, criminalità e terrorismo. E restano da com- un editoriale atipico da Marta Dassù a Lucio Caracciolo
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un editoriale atipico - aspeninstitute.it · do non alla demonizzazione della nazione in sé (non solo del nazionalismo hitleriano, che peraltro era un razzismo contro il quale si

Feb 18, 2019

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Caro Lucio, la tua rivista è stata così importante nel provocare un dibattito in Italia

sugli interessi nazionali che sembra difficile prescinderne, volendo affrontare lo stesso

tema con questo numero di Aspenia. Un dubbio l’ho a volte avuto, per essere onesta: che

Limes ponesse le domande giuste ma che le risposte non fossero, o non fossero sempre,

del tutto convincenti. Per cui ti chiedo di riprendere da capo il filo del tuo ragiona-

mento, e questa volta per i lettori di Aspenia. Ti chiedo, insomma, di tornare a spiega-

re quali siano, secondo te, gli interessi nazionali del paese.

Non pretendo certo che questo numero di Aspenia dia, a un interrogativo del genere, ri-

sposte esaustive. Vorrei solo che contribuisse alla nostra discussione, insistendo, prima

che sulla “geopolitica”, sui vincoli interni del sistema italico. La mia convinzione, di-

fatti, è che il primo interesse nazionale dell’Italia sia ancora quello “di mettere la ca-

sa in ordine”: per riprendere le parole di Angela Merkel sul caso tedesco, senza soddi-

sfare l’imperativo (“creativo”) della ripresa economica, nessun paese è in grado di con-

tare sul piano internazionale e quindi di difendere con efficacia i suoi interessi nel

mondo. Nessun altro, del resto, sarà ancora disposto a difendere gli interessi italiani

al posto nostro. Il crollo del Muro di Berlino, per l’Italia, ha significato essenzialmen-

te questo: la fine delle rendite di posizione.

Ma è come se dal 1989 non ci fossimo mai ripresi. Per promuovere gli interessi italia-

ni in un sistema internazionale che ha conosciuto nel frattempo un’altra frattura sto-

rica – quella dell’11 settembre – e che ha già largamente vissuto miti e fasti della glo-

balizzazione, dobbiamo avere alle spalle un paese solido; o almeno un’idea del paese e

del suo futuro. Non è che sia poi così facile. Come dimostrano i saggi pubblicati in que-

sto numero, non sono facili le scelte che riguardano il tema del “patriottismo econo-

mico”: cosa e quanto deve restare nelle mani nazionali in materia economica e finan-

ziaria? E cosa e quanto può invece finire in grandi fusioni internazionali o essere ac-

quisito dall’estero? Non sono semplici le decisioni che riguardano il modello di socie-

tà e di cittadinanza, in un paese che vive tassi senza precedenti di immigrazione e che

soffre gli intrecci perversi fra clandestinità, criminalità e terrorismo. E restano da com-

un editoriale atipicoda Marta Dassù a Lucio Caracciolo

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piere scelte cruciali in materia energetica: ridurre la dipendenza dal gas comincia ad

assomigliare a una vera e propria questione di sicurezza nazionale.

La convinzione di molti degli autori del numero – a cominciare da Giuliano Amato

e Giulio Tremonti – è che la politica dovrebbe aiutare, aumentando nelle materie di

interesse nazionale il tasso di “bipartisanship”. Ma sarà effettivamente così? Il dub-

bio è se il sistema politico, o meglio le sue élite, siano davvero disposte a discutere di

questo – invece che di altro. Marta Dassù

Cara Marta, mi chiedi che cosa sia, secondo me, l’interesse nazionale. Rispondo mol-

to volentieri, ricordando – come tu ricorderai – il levar di scudi che suscitò l’uso di

questo termine nel primo editoriale della nostra rivista italiana di geopolitica Limes.

Fra i benpensanti, soprattutto di sinistra, fummo additati quasi come fascisti, per il

solo fatto di richiamare termini “diabolici” come appunto “geopolitica” e “interesse

nazionale”.

Era il 1993 e sembra trascorso un secolo. Oggi di interesse nazionale o sinonimi si di-

scetta fin troppo, tanto da rendere più che legittima l’interrogazione intorno al signifi-

cato di un’espressione inflazionata.

Ma allora non eravamo ancora usciti mentalmente e culturalmente dal ben struttura-

to universo della guerra fredda. E non ci eravamo resi conto di quanto caotica e im-

prevedibile fosse la nuova fase dei conflitti di potere nel mondo, quanto fossero desti-

nati a pesare fattori che si ritenevano espunti dal nostro modo di pensare e di agire, co-

me la geopolitica (fattore territoriale) e, strettamente connessa, l’enfasi sull’identità –

nazionale, subnazionale, imperiale (fattore culturale).

A ben vedere, più che di benpensantismo si trattava di provincialismo. Il dibattito

intorno all’interesse nazionale era infatti da tempo moneta corrente nell’ambito dei

politici – per tacere dei politologi – anglosassoni e non solo, compresi molti di co-

loro che si considerano progressisti. Negli Stati Uniti, in Gran Bretagna o in Fran-

cia il termine era del tutto ovvio, ferme restando le differenze politiche sul modo di

interpretarlo. In Italia no, era tabù. Idem in Germania. Le potenze sconfitte nella

seconda guerra mondiale non erano abilitate/abituate a ragionare, almeno pubbli-

camente, sui rispettivi interessi nazionali. Giacché al tempo della guerra fredda vi

si era più o meno spontaneamente radicata una pedagogia civile che negava l’idea

stessa di nazione.

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In Germania (occidentale), il richiamo di prammatica all’unità nazionale si era subi-

to ridotto a vuota retorica. La riunificazione tedesca non sembrava all’orizzonte delle

scelte politiche. Di qui il ricorso a surrogati come il Verfassungspatriotismus (“patriot-

tismo costituzionale”) – come se una costituzione potesse surrogare una patria – quan-

do non alla demonizzazione della nazione in sé (non solo del nazionalismo hitleriano,

che peraltro era un razzismo contro il quale si batterono diversi nazionalisti tedeschi).

Un’idea originariamente di sinistra e democratica, quella di nazione, era stata seque-

strata e disastrosamente manipolata dal fascismo in nome delle sue avventure belliche

– invero più “imperiali” che “nazionali”. Sicché risultava inservibile nella repubblica

antifascista nata dalla Resistenza. In un paese nel quale coesistevano almeno quattro

lealtà civili e geopolitiche – agli USA/NATO, al Vaticano, all’URSS e “last and least” al-

la Repubblica italiana – non si poteva dare nazione, tantomeno interesse nazionale. Al

massimo, in Italia come nella Repubblica federale di Germania si assumeva come

ideale un indefinito “interesse europeo” con il quale si sarebbero automaticamente

identificati i nostri interessi: il che implicava ammettere, senza dirlo, che le nostre po-

litiche fossero eterodeterminate.

Dopo l’89 non è cambiato solo il mondo, ma anche, più lentamente, il modo di inter-

pretarlo. Soprattutto in Europa. Dalle sovranità limitate determinate dalla bipartizio-

ne del continente, con le relative organizzazioni internazionali (NATO e CEE vs. Patto di

Varsavia e Comecon), si è bruscamente passati a una straordinaria moltiplicazione e

sovrapposizione delle sovranità e quindi all’accentuazione – qualcuno potrebbe chia-

marla ipertrofia – degli ego nazionali, compresi quelli di coloro che si considerano na-

zioni all’interno di Stati nazionali altrui (baschi, catalani, scozzesi, per tacere degli ex

jugoslavi e diversi altri, inclusi i fantomatici “padani”). In questo bailamme geopoli-

tico non passa quasi anno senza che in Europa non nasca qualche altro staterello più

o meno nazionale. E la stessa Unione Europea si configura come un ring dalle regole

a geometria molto variabile, in cui i diversi soggetti nazionali (o subnazionali) si con-

tendono sempre più scarse risorse in nome dei rispettivi interessi. Anche la semantica è

cambiata. Nessuno sembra più temere di ostentare quelli che considera i propri “inte-

ressi nazionali”.

Ecco che la tua domanda, caro direttore, si rivela non mero esercizio retorico (nel sen-

so alto del termine), ma questione estremamente cogente e di immediato rilievo prati-

co. Dopo questo breve excursus storico, mi proverò dunque a rispondere. Avendo cura di

premettere che non ci muoviamo qui nel campo della descrizione, ma in quello moral-

mente molto più impegnativo della prescrizione.

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Due mondi – così ci insegnano – mossi da regole diverse e incomunicabili. Non esiste

insomma un interesse nazionale “obiettivo”; esistono diverse interpretazioni soggettive,

tutte legittime, di che cosa debba essere l’interesse nazionale.

L’interesse nazionale non è dunque una formula magica, un algoritmo eterno e immu-

tabile che serva da orientamento alla nostra politica nel mondo. È un metodo. È la ri-

cerca della sintesi politica fra i diversi interessi particolari che agiscono in Italia, la

loro riduzione a fattor comune. Una ricerca costante e interminabile, caso per caso, che

presuppone il dibattito pubblico, la trasparenza degli interessi più o meno legittimi e

della loro rappresentanza (lobby incluse), l’esplicitazione dei valori di riferimento en-

tro cui calcolare costi e benefici: in una parola, la democrazia. Essa coinvolge inevita-

bilmente l’opinione pubblica(ta) e le istituzioni. Un paese che non sia democratico non

può per definizione agire secondo i suoi interessi nazionali, ma secondo quelli partico-

lari di chi detiene il potere in nome di tutti.

La mancanza di un aperto dibattito sugli interessi nazionali non è dunque solo una

questione di efficacia della nostra politica estera, è soprattutto un vulnus al carattere

democratico dello Stato. Se, come spesso accade, a decidere dei nostri interessi nazio-

nali o presunti tali sono ristrette e invisibili élite burocratiche o politiche, è la qualità

stessa della nostra democrazia a scapitarne. Di più: l’Italia risulta agli occhi altrui un

paese imprevedibile e opaco. Inaffidabile. Visto da fuori, chi non espone né difende i

propri interessi o ne ha di segreti o non ne ha affatto: o è infido o è trascurabile. Se poi

pretende di rappresentare interessi più vasti – ad esempio, il cosiddetto “interesse euro-

peo” – allora siamo di fronte a un caso di arroganza o d’insipienza.

Specie nel contesto geopolitico attuale, il dibattito sull’interesse nazionale ha poi – o

dovrebbe avere – la funzione di raffreddare i problemi, di riportarli per quanto possibi-

le (non moltissimo) a una dimensione razionale, calcolabile. Se a muovere le nazioni

sulla scena mondiale fossero solo le autopercezioni intorno alla propria identità, ai “di-

ritti storici”, alla scala dei valori ideologici – e insieme gli obiettivi specifici di questo

o quel gruppo di potere, di questa o quella lobby – i rischi di conflitto ne risulterebbe-

ro moltiplicati.

La definizione dell’interesse nazionale come metodo di dibattito pubblico permanente

implica inevitabilmente la visibilità e la concretezza della posta in gioco e degli attori

che incarnano i diversi interessi in competizione, la capacità di mettere in gerarchia i

propri interessi, sempre declinandoli in rapporto alle proprie risorse materiali e imma-

teriali, tra le quali in democrazia dirimente è il consenso.

Naturalmente, anche l’interesse nazionale ha una dimensione tecnica. Implica cono-

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scenze specifiche approfondite. Suppone e suscita una cultura dell’interesse nazionale.

Che non può essere fondata in un giorno. È anzi il frutto di una lunga sperimentazio-

ne. Le grandi democrazie occidentali, dalla Francia agli Stati Uniti o alla Gran Bre-

tagna, hanno raffinato questo strumento nel corso del tempo. Non senza incidenti, de-

viazioni o nostalgie autoritarie. In Italia siamo indietro. Qui non esiste una radicata,

diffusa cultura dell’interesse nazionale. La nostra potenza – dunque il nostro benesse-

re, la nostra sicurezza, la nostra qualità della vita (“way of life”, direbbero gli ameri-

cani) – ne risulta gravemente compromessa.

Perché? Non certo perché manchino gli interessi, ma perché latita la coscienza di es-

sere nazione. Con tutte le responsabilità connesse. Nel secolo e mezzo di storia unitaria,

siamo passati dalla cultura patriottica delle élite risorgimentali all’ipernazionalismo

fascista e al “dispatrio” prodotto dal collasso dell’idea stessa di nazione in seguito al-

la catastrofica sconfitta nella seconda guerra mondiale. Di qui i quarant’anni di se-

miprotettorato americano, fino allo shock dell’89 e al quasi contemporaneo crollo del-

la prima repubblica. Solo da qualche anno siamo riaffidati soprattutto a noi stessi, pur

se la retorica corrente – trasversale ai partiti – continua a rappresentarci come parte di

più vasti insiemi – l’Occidente, l’Europa – sulla cui consistenza e sul cui interesse per

noi è lecito dubitare.

Una pedagogia pubblica dell’interesse nazionale scommette quindi sulla capacità di ri-

costruire gradualmente, e con un grano di sano scetticismo, la coscienza di noi stessi

in quanto nazione. Ossia come soggetto che deve articolare la sua azione senza affi-

darsi a protettori o “vincoli esterni” spesso immaginari. Ma sapendo che senza relazio-

narsi con le altre nazioni il soggetto Italia sarà trattato come (in)utile idiota in un’a-

rena mondiale in rapido movimento, dove si stanno brutalmente ridefinendo rango e

potenza di ciascun attore.

Sarà, nella migliore delle ipotesi, una battaglia culturale e politica di lunga lena. Dal-

la quale e nella quale dovrebbe nascere la nuova classe dirigente italiana. Certo, ab-

biamo rotto il tabù semantico – ed è già molto – ma più in senso retorico che pratico.

Prendiamo un solo caso, ma decisivo. Da tempo – e soprattutto nell’ultimo quindicen-

nio, in conseguenza delle guerre jugoslave – l’Italia si sta specializzando nel peacekee-

ping. I nostri soldati si sono distinti nel mondo in questo genere di missioni. Eppure,

di fronte ai notevoli costi in termini finanziari e di vite umane, che cosa ha ottenuto l’I-

talia dalle sue innumerevoli missioni di pace? Sicuramente molto meno di quanto

avrebbe potuto se tali missioni fossero state guidate da una chiara determinazione dei

nostri interessi nel tempo e nello spazio, e se non ci fossimo limitati a un dibattito

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astrattamente ideologico (pacifisti contro interventisti) o di politique politicienne. Del

peacekeeping abbiamo fatto un succedaneo della politica estera, invece che un suo

strumento.

Fra l’altro, stante l’attuale bilancio della Difesa è molto improbabile che si possa con-

tinuare a fare indefinitamente uso delle missioni di pace. Se il dibattito intorno all’in-

vio o meno di nostre truppe all’estero fosse ricondotto ai suoi termini propri – a che sco-

po, con quali mezzi, per quanto tempo – e inquadrato in una strategia nazionale, con

le sue priorità e le sue flessibilità, daremmo finalmente un senso allo strumento mili-

tare. E renderemmo misurabile la performance delle nostre missioni e identificabile la

responsabilità del potere politico. Efficienza e democrazia, ancora una volta, si raffor-

zerebbero reciprocamente.

Ma forse è proprio per questo che molti non amano l’idea stessa di interesse nazionale.

Sperando di sbagliarmi, con i migliori auguri di buon lavoro, Lucio Caracciolo

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