Un delicato equilibrio: motivazioni intrinseche e politiche retributive nelle imprese sociali. Benedetto Gui e Vittorio Pelligra 1. Introduzione * Le imprese sociali sono imprese speciali 7 . Questo è vero per almeno tre ragioni differenti. Innanzitutto, le imprese sociali sono imprese private che perseguono per statuto un interesse collettivo. E ciò non solo per via indiretta, attraverso la produzione di ricchezza che concorre ad alimentare il gettito fiscale da ridistribuire tra i cittadini, come fanno tutte le imprese, ma, più peculiarmente, anche per via diretta, attraverso cioè la produzione di beni e servizi di utilità sociale e/o con esternalità sociali. Tali beni e servizi, tra l’altro, vengono spesso erogati a gruppi di cittadini le cui esigenze non otterrebbero adeguata risposta né da parte dello Stato, quand’anche disposto ad accollarsene il costo, né attraverso la logica del mercato, per l’incapacità degli utenti o di esprimere una domanda pagante, o di ottenere una qualità appropriata. In questo senso le imprese sociali tendono a mitigare gli effetti negativi legati ai cosiddetti fallimenti sia dello Stato (Weisbrod, 1983), sia del mercato (Hansmann, 1980 e 1996). Una seconda caratteristica tipica delle imprese sociali è che attraverso la loro attività economica esse concorrono in modo determinante a favorire l’inclusione sociale di * Gli autori ringraziano Luigino Bruni, Ottorino Chillemi, Robert Dur, Alessandra Smerilli e Joel Sobel per le discussioni e i commenti sui temi oggetto del presente saggio. Un ringraziamento va anche ai partecipanti alle conferenze/workshop “Capitale sociale, motivazioni intrinseche e organizzazioni non profit: problemi e prospettive”, Università di Bologna (Forlì), “Forms of Social Entrepreneurship and Welfare Policies”, Università di Bergamo e “Reciprocity: Theories and Facts”, Università di Milano- Bicocca e Università di Cagliari. Il saggio riporta e sintetizza alcuni dei risultati derivanti da ricerche svolte nell’ambito del PRIN “Analisi degli effetti economici delle interazioni personalizzate”, Università di Padova e finanziate dal MIUR 7 Cfr. Borzaga (2002) e Nyssen (2006) per un inquadramento definitorio.
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Un delicato equilibrio: motivazioni intrinseche e …...Un delicato equilibrio: motivazioni intrinseche e politiche retributive nelle imprese sociali. Benedetto Gui e Vittorio Pelligra
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Un delicato equilibrio: motivazioni intrinseche e politiche retributive nelle imprese sociali.
Benedetto Gui e Vittorio Pelligra
1. Introduzione*
Le imprese sociali sono imprese speciali7. Questo è vero per almeno tre ragioni
differenti. Innanzitutto, le imprese sociali sono imprese private che perseguono per
statuto un interesse collettivo. E ciò non solo per via indiretta, attraverso la produzione
di ricchezza che concorre ad alimentare il gettito fiscale da ridistribuire tra i cittadini,
come fanno tutte le imprese, ma, più peculiarmente, anche per via diretta, attraverso
cioè la produzione di beni e servizi di utilità sociale e/o con esternalità sociali. Tali beni
e servizi, tra l’altro, vengono spesso erogati a gruppi di cittadini le cui esigenze non
otterrebbero adeguata risposta né da parte dello Stato, quand’anche disposto ad
accollarsene il costo, né attraverso la logica del mercato, per l’incapacità degli utenti o
di esprimere una domanda pagante, o di ottenere una qualità appropriata. In questo
senso le imprese sociali tendono a mitigare gli effetti negativi legati ai cosiddetti
fallimenti sia dello Stato (Weisbrod, 1983), sia del mercato (Hansmann, 1980 e 1996).
Una seconda caratteristica tipica delle imprese sociali è che attraverso la loro attività
economica esse concorrono in modo determinante a favorire l’inclusione sociale di
* Gli autori ringraziano Luigino Bruni, Ottorino Chillemi, Robert Dur, Alessandra Smerilli e Joel Sobel
per le discussioni e i commenti sui temi oggetto del presente saggio. Un ringraziamento va anche ai
partecipanti alle conferenze/workshop “Capitale sociale, motivazioni intrinseche e organizzazioni non
profit: problemi e prospettive”, Università di Bologna (Forlì), “Forms of Social Entrepreneurship and
Welfare Policies”, Università di Bergamo e “Reciprocity: Theories and Facts”, Università di Milano-
Bicocca e Università di Cagliari. Il saggio riporta e sintetizza alcuni dei risultati derivanti da ricerche
svolte nell’ambito del PRIN “Analisi degli effetti economici delle interazioni personalizzate”, Università di
Padova e finanziate dal MIUR
7 Cfr. Borzaga (2002) e Nyssen (2006) per un inquadramento definitorio.
soggetti vulnerabili, a stabilire reti di relazioni fiduciarie e a diffondere norme
comportamentali di natura cooperativa. L’operare di qualsiasi impresa, soprattutto se
improntato a correttezza, è in grado di dare qualche contributo da questo punto di
vista. Le imprese sociali, tuttavia, riescono spesso ad andare oltre questo effetto, che si
potrebbe dire naturale, della rete di rapporti economici di collaborazione che
caratterizza la vita di ogni impresa, e ciò grazie al fatto che le loro peculiarità (l’assenza
della finalità di lucro, la presenza di volontari,…) facilitano il coinvolgimento di
categorie svantaggiate in percorsi condivisi di risposta alle loro necessità. Per questa
ragione alcuni autori iniziano ad evidenziare ed analizzare il ruolo delle imprese sociali
quali agenzie di incubazione e rigenerazione del capitale sociale (Sacco e Zarri, 2006).
Un terzo elemento che rende le imprese sociali affatto speciali, che verrà più
diffusamente discusso in questo contributo, attiene alla capacità di tali organizzazioni
di far leva su motivazioni intrinseche congruenti con la mission sociale
dell’organizzazione stessa, che altrimenti resterebbero inespresse.8
Infatti, benché in genere si consideri il salario quale esclusivo o, quantomeno, principale
elemento motivante dell’agire di un lavoratore, non possiamo non riconoscere che molte
altre e più complesse siano le finalità e i significati che ogni lavoratore persegue sul posto
di lavoro, come ad esempio il desiderio di poter contribuire con il proprio lavoro al
raggiungimento di un risultato che giudicano meritorio (si pensi ad un insegnante che
trae soddisfazione dalla consapevolezza di poter contribuire alla formazione delle nuove
generazioni, e lo stesso si può dire di un tutor nei confronti del reinserimento sociale di
un ex-detenuto). Ma il lavoro è anche fonte di identità. Si pensi per esempio ad un
soggetto che cerchi di operare coerentemente con un’identità di tipo pro-sociale: la
partecipazione ad un progetto di cooperazione internazionale, ovvero alle attività di
un’organizzazione impegnata nella tutela ambientale, possono allora fornirgli elementi
utili alla creazione di una immagine del sé coerente con l’identità ricercata.
8 Tra le motivazioni intrinseche ve ne sono alcune, ad esempio quelle collegate al senso di sfida che un
compito impegnativo comporta, che, almeno in prima analisi, non risentono delle finalità
dell’organizzazione. Di queste nel seguito non ci occuperemo, in quanto non particolarmente rilevanti ai
fini della nostra riflessione sulle imprese sociali.
Poiché caratterizzate dagli elementi che abbiamo brevemente descritto più sopra, le
imprese sociali possiedono una particolare capacità di attirare lavoratori spinti da forti
motivazioni - ideali, “vocazionali”, deontologiche,… - che preferiscono, a parità di
condizioni, lavorare presso un’organizzazione la cui attività ha evidenti ricadute positive
sulla società (Young, 1983; Mirvis e Hackett, 1983). Tali lavoratori, in quanto inclini ad
impegnarsi e non per denaro, possono dare un contributo importante – in fatto non solo
di apporto produttivo, ma anche di idee e di atteggiamenti - alle imprese sociali, per le
quali diventa allora cruciale riuscire ad assicurarsene una significativa presenza.
Nel dir questo non intendiamo sorvolare sul fatto che la presenza di lavoratori con forti
motivazioni intrinseche può presentare dei problemi peculiari, Uno di questi, a cui
vogliamo in questa sede almeno accennare, è la fragilità delle motivazioni stesse. Qui
giocano, da un lato, il fenomeno dello “spiazzamento motivazionale” provocato dal
ricorso ad incentivi di tipo monetario, del quale diremo più avanti, e, dall’altro, la
necessità, affinché tali motivazioni possano perdurare, che l’impresa sociale “se lo
meriti”9. Come a dire che non basta attirare i “lavoratori giusti”: l’impresa deve anche
“investire” in coerenza e socialità per poter attivare la componente intrinseca della loro
struttura di motivazioni.
In questo breve saggio ci occuperemo del doppio problema, di incentivazione e di
selezione, che si pone in presenza di lavoratori intrinsecamente motivati, con
particolare attenzione al secondo. Ci chiederemo, specificatamente, cosa accada in un
mercato del lavoro dove imprese tradizionali e imprese sociali (o socialmente orientate)
competono fianco a fianco per attrarre lavoratori che differiscono tra loro non solo per
abilità ma anche in relazione alla loro struttura motivazionale.
9 Sulla necessità di una corrispondenza tra atteggiamento del lavoratore, da un lato, e atteggiamento dei
promotori o dirigenti, dall'altro, si veda Sacconi e Faillo (2005).
2. Complessità motivazionale, impegno e scelta tra posti di lavoro.
Nonostante non sia difficile riconoscere, anche semplicemente per via
introspettiva, la natura complessa delle motivazioni umane, i modelli economici, fatta
salva qualche rara eccezione, si sono concentrati quasi esclusivamente sulle ricompense
di natura monetaria per spiegare le scelte degli agenti economici; per dirla con Sobel
(2005), l’analisi ivi svolta si basa troppo spesso: “sull’assunzione congiunta di razionalità
e avidità personale” (p. 392). Per questa ragione l’approccio economico viene fortemente
criticato, per esempio, dagli psicologi, i quali fanno giustamente notare che la struttura
motivazione dei soggetti reali è complessa e caratterizzata da una molteplicità di
elementi i quali, interagendo tra loro in modo sistematico, determinano gli esiti
comportamentali osservati. In anni recenti, però, anche la letteratura economica ha
iniziato a sviluppare un interesse sempre più marcato verso gli aspetti non acquisitivi
della motivazione ad agire. Ciò ha portato alla elaborazione di un certo numero di
modelli basati sulla descrizione di un agente economico più complesso e realistico
rispetto al tradizionale homo economicus. Alcuni di questi cercano di costruire una teoria
economica dell’identità (Akerlof e Kranton, 2000; 2005); altri indagano il ruolo di
fattori quali la self-confidence (Bénabou e Tirole, 2003) e l’autostima (Baguelin, 2005;
Junichiro, 2006); altri ancora assegnano un ruolo alle motivazioni intrinseche nel
processo di presa di decisioni, in ambito sia individuale che interattivo (Kreps, 1997;
Frey, 1997; Delgaauw e Dur, 2003; Bénabou e Tirole, 2003, 2005).
Il riconoscimento del fatto che i lavoratori possano avere strutture motivazionali
complesse ha per la teoria del principale-agente, e più in particolare, per le politiche
retributive, due importanti e immediate conseguenze. La prima riguarda il cosiddetto
“problema degli incentivi”, la seconda il “problema della selezione”.
3. Il problema degli incentivi
Le motivazioni intrinseche si collocano in una potenziale situazione di conflitto con
i tradizionali incentivi economici. Se tale conflitto diventi o no effettivo dipende dal
modo in cui il ruolo degli incentivi monetari viene percepito nel contesto della relazione
tra principale e agente. Quando infatti gli individui leggono dietro l’utilizzo di
particolari forme di incentivazione monetaria, o di monitoraggio dell’attività lavorativa,
degli strumenti di controllo piuttosto, che di valutazione e riconoscimento del lavoro
svolto, non di rado l’azione delle motivazioni intrinseche viene bloccata, o “spiazzata”
(Deci e Ryan, 1985, Frey, 1997; Frey e Jegen, 2001). Pagare un soggetto motivato per
un compito che sarebbe disposto a svolgere anche gratuitamente può indurre una
riduzione proprio di quel comportamento che si voleva favorire. L’uso di incentivi
espliciti si associa in questi casi ad un “costo nascosto”, the hidden cost of reward (Lepper
e Greene, 1975;, Frey e Götte, 1999; Frey e Jegen, 2001; Gneezy e Rustichini, 2000a e
2000b; Fehr e List, 2004). Il crowding-out motivazionale naturalmente è un possibile
effetto dell’uso di incentivi espliciti. Questi infatti possono anche agire efficacemente nel
rinforzare le motivazioni intrinseche, parliamo in questo caso di crowding-in.
L’elemento discriminante che porta ad uno spiazzamento o ad un potenziamento delle
motivazioni intrinseche è il modo in cui i soggetti percepiscono l’intervento esterno; nel
caso in cui questo assuma soggettivamente la forma di un controllo o di una limitazione
della libertà allora sarà probabile un effetto controproducente, mentre se l’incentivo
veicola un segnale di apprezzamento e di riconoscimento, allora con maggiore
probabilità si avrà un effetto di crowding-in.
Oltre a ciò gli incentivi monetari tendono a ridurre gli effetti motivanti di fattori
quali l’autostima e il senso di responsabilità (Frey, 1997; Frey e Oberholzer-Gee, 1997);
un altro ordine di ragioni che può spiegare effetti controproducenti ha a che fare con la
possibilità che tali incentivi veicolino verso gli agenti informazioni aggiuntive relative
alla natura e al costo delle prestazioni ad essi connesse, come suggeriscono sia Gneezy e
Rustichini (2000a) che Bénabou e Tirole (2003); in qualche modo incentivi espliciti
possono anche essere percepiti come offensivi da parte degli agenti (Gneezy e
Rustichini, 2000b) o possono operare in violazione di norme di equità, cooperazione e
fiducia (Fehr e Gachter, 2002; Fehr e List, 2004). Recentemente Sliwka (2006) ha
proposto un modello nel quale differenti mix di incentivi vengono percepiti come
segnali circa la distribuzione, osservabile solo in maniera imperfetta da parte dell’agente,
ma nota al principale, delle tipologie di lavoratori (più o meno motivati) presenti
nell’impresa. Assumendo che gli agenti siano influenzati dal comportamento dei
colleghi, l’utilizzo di incentivi monetari, venendo letto come un sintomo del fatto che i
lavoratori motivati rappresentano una minoranza tra tutti i membri dell’organizzazione,
avrebbe conseguenze negative circa la disponibilità ad esercitare spontaneamente un
livello elevato di sforzo. Per contro, la scelta di una forma di compensazione fissa e
l’attribuzione di un’ampia autonomia sarebbe visto come un segnale nella direzione
opposta, il quale, proprio in virtù della tendenza ad allinearsi agli atteggiamenti dei
compagni di lavoro, favorirebbe una performance elevata da parte degli stessi.
I risultati di vari esperimenti riportano dati coerenti con questo genere di
meccanismi. Barkema (1995), per esempio, mostra come l’utilizzo di sistemi di
monitoraggio stringenti, pur aumentando il costo atteso di un comportamento
opportunistico da parte del lavoratore, porta ad una riduzione della performance
produttiva piuttosto che, come ci si sarebbe potuti aspettare, ad un suo incremento. Falk
e Kosfeld (2004) trovano una relazione non monotòna tra la performance degli agenti e la
forza degli incentivi utilizzati. Tale relazione trae origine dal fatto che, se assumiamo
l’esistenza sia di lavoratori non-motivati che di lavoratori motivati, l’utilizzo di incentivi
economici deboli riduce la motivazione dei lavoratori motivati senza far aumentare in
maniera sostanziale quella dei lavoratori non-motivati. In questo caso risultati superiori
potrebbero ottenersi attraverso la sostituzione di relazioni strettamente contrattuali con
altre di natura fiduciaria. Solo quando è possibile utilizzare forme di incentivo
economico sufficientemente forti l’effetto positivo sui lavoratori non-motivati può
dominare l’effetto spiazzamento sui lavoratori motivati. Anche Fehr e Gächter (2002) e
Irlenbusch e Sliwka (2003) hanno messo in luce come la possibilità di utilizzare
incentivi monetari condizionali alla performance possa ridurre il livello di cooperazione
tra principale-agente, rispetto ad una compensazione fissa.10
Da questi studi emergono importanti implicazioni relative alle politiche retributive.
Ma, come dicevamo più sopra, queste ultime hanno anche un’altra conseguenza per la
teoria dell’agenzia, quella di influire sulla selezione dei lavoratori, un tema che pure ha
interessanti risvolti quando si tiene conto della complessità motivazionale dei soggetti.
4. Il problema della selezione
Essere motivati rispetto al proprio lavoro significa non solo essere disposti ad
accettare un salario più basso a parità di mansione, ma anche avere un “atteggiamento
positivo” (good work morale) verso il lavoro stesso. Secondo Bewley (2002), tale
“atteggiamento positivo” ha tre principali componenti: “una è l’identificazione con
l’impresa e l’internalizzazione dei suoi obbiettivi. Un’altra è la fiducia nei confronti di un
accordo implicito che sussiste tra l’impresa e i dipendenti: i dipendenti sanno che l’aiuto
dato all’impresa o ai colleghi verrà in caso di necessità certamente corrisposto. La terza
componente è un’attitudine che favorisce il buon lavoro. Questo atteggiamento positivo
ha a che fare con una disponibilità a fare volontariamente sacrifici sia per l’impresa che
per i colleghi” (p. 6). In sintesi possiamo dire che la maggiore produttività (e/o il minor
costo) dei lavoratori motivati dipende da un maggiore coinvolgimento rispetto agli
obbiettivi dell’impresa e dalla creazione di un clima di fiducia e reciprocità tra lavoratori
e impresa. Borzaga e Tortia (2006), studiando empiricamente l’effetto delle motivazioni
rispetto sia all’atteggiamento dei lavoratori che alla loro lealtà verso l’organizzazione,
trovano che il livello di soddisfazione e la fedeltà nei confronti dell’organizzazione sono
influenzati in maniera rilevante dalla “dotazione motivazionale” dei soggetti, ma anche
dal mix di incentivi offerti dalle diverse tipologie di organizzazioni (private for-profit,
private non-profit e pubbliche). Per quanto riguarda la soddisfazione, i fattori intrinseci
10 Analogamente, l’analisi dei dati della Swiss Labor Force Survey condotta da Frey e Götte (1999) mostra
l’esistenza di una relazione negativa tra il tempo dedicato al volontariato e l’esistenza di qualche forma di
compensazione monetaria ad esso associato.
sono tra quelli che esercitano l’influenza maggiore.11 Quanto ai livelli retributivi, essi
trovano, in linea con la letteratura internazionale, che nelle organizzazioni nonprofit
questi sono in media inferiori rispetto a quelli del settore for-profit, e ciò soprattutto
per i profili professionali o gerarchici più elevati (si veda anche Mosca et al., 2007, e la
letteratura ivi citata). Si nota che, contemporaneamente, i lavoratori delle non-profit
sono più soddisfatti e quindi hanno una maggiore fedeltà verso le loro organizzazioni