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RASSEGNA EUROPEA DI LETTERATURA ITALIANA 39 2012 PISA · ROMA FABRIZIO SERRA EDITORE MMXIII
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Tre punti ti vista sulla follia

May 05, 2023

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R A S S E G NA E U RO P E AD I L E TT E R AT U R A

I TA L I A NA

392012

P I S A · RO M A

FA B R I Z I O S E R R A E D I TO R EM M X I I I

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SOMMARIO

Prospettive di filologia e critica. Incontro con Cesare Segre. Dialogo condotto da Roberto Antonelli (Zurigo, 10 ottobre 2008). Con interventi di Remo Cese-rani. Adattamento a cura di Tatiana Crivelli 9

saggi

Giacomo Gambale, Il ritratto di Platone in Dante e nei primi commenti alla Commedia 29

Francesco Ferretti, Torquato Tasso e il mito ovidiano di Cefalo e Procri 45Salvatore Puggioni, Note sulla ricodificazione settecentesca dell’epistola in ver-

si : le prove giovanili di Pindemonte 77Stefano Redaelli, Tre punti di vista sulla follia : Mario Tobino, Alda Merini,

Carmelo Samonà 89

note e dibattiti

Luca Degl’Innocenti, Verba manent. Precisazioni e supplementi d’indagine sulla trascrizione dell’oralità nei cantari dell’Altissimo 109

Sergio Corsi, Gli avvoltoi per Don Rodrigo 135

recensioni

La bibliothèque de Pétrarque. Livre et auteurs autour d’un humaniste, Actes du iie Congrès international sciences et arts, philologie et politique à la Re-naissance, Tours, 27-29 novembre 2003, études réunies et présentées par M. Brock, F. Furlan, F. La Brasca (Katia Senjic) 143

Gabriele Bucchi, « Meraviglioso diletto ». La traduzione poetica del Cinquecento e le « Metamorfosi d’Ovidio » di Giovanni Andrea dell’Anguillara (Uberto Mot-ta) 148

Cesare Pavese : un classico del xx secolo (1908-2008), a cura di Elisa Martínez Gar-rido e Salud Jarilla Bravo (Monica Lanzillotta) 152

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«rassegna europea di letteratura italiana» · 39 · 2012

TRE PUnTI DI VISTA SULLA FOLLIA : MARIO TOBInO, ALDA MERInI,

CARMELO SAMOnÀ

Stefano Redaelli

Circo-scrivere la follia

P er parlare di follia occorre porsi su un bordo e disporsi a un movimento. In questo studio cercheremo di ‘circo-scrivere’ la follia nel duplice significato della

parola : quello classico di restringimento del campo di ricerca e quello etimologico1 di ‘scrivere intorno’, ovvero guardarla da punti di vista diversi per provare a darne una rappresentazione a 360 gradi. Analizzeremo quale rappresentazione letteraria della follia ci hanno lasciato tre scrittori italiani del dopoguerra, Mario Tobino, Alda Merini e Carmelo Samonà, le cui opere sono state prodotte nei decenni tra il 1950 ed il 2010, in cui la psichiatria subiva le sue più grandi rivoluzioni : dall’invenzione ed utilizzo dell’elettroshock alla chiusura dei manicomi,2 attraverso la neurochirur-gia, la psicofarmacologia e la psicoterapia.

A diversi modi di trattare e curare la follia corrispondono diverse concezioni di essa e diversi modi di considerare e trattare il folle nella società. Di queste diverse concezioni – della loro immagine letteraria – ci occuperemo mettendo a confronto tre punti di vista complementari : Mario Tobino è stato per quarant’anni medico di manicomio ; Alda Merini ha sofferto il disagio psichico con lunghi internamenti manicomiali ; Carmelo Samonà ha dedicato la sua opera narrativa all’esperienza della follia in casa.

La scelta di tre punti di vista, tra loro complementari, è cruciale. Facendo una similitudine geometrica, sappiamo che per tre punti (non allineati) passa una ed una sola circonferenza. La circonferenza delimita un confine. Dentro c’è la follia. Fuori la ragione. La circonferenza è il luogo d’incontro. I tre autori presi in esame si pongono su questo confine, definiscono una circonferenza, sono dentro e fuori, portano la follia fuori, la ragione dentro. La scrittura è lo strumento che rende possibile la tangenza di questi due mondi, sul cui labile confine essi hanno vissuto e scritto. Le domande a cui cercheremo di rispondere sono tre : quale rappresenta-zione letteraria della ‘follia’ e del modo in cui la società l’ha gestita hanno lasciato, con la loro opera, Mario Tobino, Alda Merini e Carmelo Samonà ? Quale significato (psicologico, terapeutico, sociale) ha avuto per loro (medico, paziente, parente del

Stefano Redaelli, Faculty of “Artes Liberales”, University of Warsaw, ul. nowy Świat 69, 00-046 Warszawa, [email protected]

1 « Lat. circumscribere, da circum attorno e scribere segnare, tracciare (v. Scrivere) » (Ottorino Piani-giani, Vocabolario Etimologico, edizione digitale su www.etimo.it).

2 Due primati antipodici nella psichiatria, ascritti a due italiani : Ugo Cerletti, inventore dell’elettroschock, e Franco Basaglia, promotore della legge 180 che porta, nel 1978 in Italia, alla chiusura dei manicomi.

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paziente) la ‘scrittura’ nell’esperienza della follia ? Quale visione complessiva della ‘follia’ scaturisce dalla triangolazione di questi tre punti di vista letterari ?

nomi e sinonimi della follia

Per studiare le immagini letterarie della follia bisogna definire l’oggetto di ricerca. Erasmo da Rotterdam, nell’incipit dell’Elogio della follia, ci mette subito in guardia : « perché una definizione, che sarebbe quasi un’ombra e un’immagine, quando po-tete vedermi con i vostri occhi ? ». E altrettanto fa Cesare Segre, per il quale : « molto bisogno di libertà si realizza attraverso la pazzia. E tale libertà comprende anche la fuga dalle definizioni ».1

Piuttosto, dunque, che cercare di rispondere alla domanda : che cos’è la follia ? vediamo quali nomi, sinonimi e significati essa assume nelle scienze che se ne sono occupate, mettendo a confronto alcune definizioni tratte da tre dizionari : di etimo-logia, di filosofia e di psicologia.

Partiamo dall’origine etimologica della parola ‘folle’, focalizzando su un termine concreto e sul soggetto che esperisce – produce o sopporta – la ‘follia’, che la incar-na, più che sul termine astratto di ‘follia’. La definizione che di essa dà lo storico Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana di Ottorino Pianigiani è la seguente :

folle dal b.lat follus, che i più traggono da lat. follis mantice, soffietto, pallone pieno di vento per giuocare (onde follere muoversi qua e là), […] si usò metaforicamente per designare un uomo di testa vuota di senno, presa la similit. dalla vacuità, leggerezza e mobilità di cotale corpo rotondo.2

A differenza del ‘folle’ il ‘pazzo’ è privo di leggerezza, porta il peso della sofferen-za :

pazzo dal lat. patior soffro, che cfr. col gr. pathos infermità di corpo e d’anima, non senza osservare che il gr. patheia (pronunzia pathia) si addirebbe molto al sostantivo pazzia (v. patire). [… ] Pazzo differisce da folle, che è leggiero d’ingegno e si perde in vani pensieri e discorsi ed atti.3

Alla voce ‘follia’ il Dizionario di filosofia di Abbagnano rimanda a ‘pazzia’, consideran-dole sinonimi con un doppio significato. Il primo è positivo, di origine platonica :

I. Quella che Platone chiamava la Pazzia buona, cioè la P. che non è malattia o perdizione, è stata intesa in due modi diversi e cioè : 1° come ispirazione o dono divino ; 2° come amore della vita e tendenza a viverla nella sua semplicità.4

nella seconda definizione Abbagnano considera invece l’aspetto patologico, ma abbandona la filosofia per rimandarci alla psichiatria e alla psicologia : « lo stesso che psicosi ». Questo termine fu introdotto dalla medicina nel 1845 con il significato generale di ’malattia mentale’. nel Dizionario di psicologia di Umberto Galimberti ne leggiamo le caratteristiche :

1 C. Segre, Fuori del mondo, Torino, Einaudi, 1990, p. 100. 2 O. Pianigiani, Vocabolario Etimologico della lingua Italiana, cit. 3 Ibidem.4 n. Abbagnano, Dizionario di filosofia, Torino, Utet, 1971, p. 652.

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una perdita più o meno totale della capacità di comprendere il significato della realtà in cui si vive e di mantenere tra sé e la realtà un rapporto di sintonia sufficiente a consentire un comportamento autonomo e responsabile nell’ambito culturale in cui si vive.1

Tra le ‘psicosi’, una classe – tra le più gravi – è definita ‘schizofrenia’ :

Introducendo il termine schizofrenia (dal greco scivzw, scindo e frhvu, mente) Bleuler inten-de mettere l’accento sul tratto considerato tipico della schizofrenia che è la dissociazione (Spaltung) in parti reciprocamente indipendenti della vita psichica.2

Da ‘follia’, ‘pazzia’, siamo arrivati a ‘psicosi’ e ‘schizofrenia’, definizioni psichiatri-che che però non l’esauriscono. Leggiamo nel Dizionario di Galimberti :

nel nostro secolo K. Jaspers […] ha stabilito che la follia in sé è « incomprensibile », e ciò che ci è noto è solo il giudizio di follia che si rifà a una teoria meta-individuale in riferimento alla quale si stabilisce che cos’è norma e che cosa devianza.3

Su questa idea si basano l’Antipsichiatria e la Psichiatria Democratica. Secondo Giovanni Jervis i « giudizi di follia » vengono trasformati « con un procedimento che metodologicamente è scorretto, in entità morbose, cioè in surrogati di ‘malattie’ di tipo fisico ».4

Rifuggendo ogni spiegazione, la follia tende, dunque, a sconfinare, estendendo i suoi significati, da un campo all’altro. Possibili sono solo definizioni aperte, come quella dello psichiatra Eugenio Borgna : « La schizofrenia non si esaurisce, così, in una semplice (improblematica) aggregazione di sintomi ma si costituisce come una forma di vita […] nella quale si recuperano strutture di significato che si collocano al di là di una schematica e rigida delimitazione fra normalità e a-normalità, fra malattia e non-malattia ».5

Mario Tobino :il punto di vista dello psichiatra

Mentre l’etimologia, la filosofia, la psichiatria hanno cercato di dare un nome, un senso, una diagnosi alla follia, la letteratura ha cercato, invece, di darle un volto ed una voce : di farla parlare. Il primo punto di vista è quello di Mario Tobino. « Dentro una stanza del manicomio studio gli uomini e li amo ».6 Questa citazione, tratta dal romanzo Le libere donne di Magliano, è un buon punto di partenza per analizzare le opere di Mario Tobino dedicate alla follia ; attraverso di essa lo scrittore enuncia il suo punto di vista percettivo ed il senso del suo narrare. Tobino scrive ‘dal’ manico-mio ;7 la scrittura è un atto di studio e amore verso gli uomini che lì vivono.

1 U. Galimberti, Dizionario di psicologia, Torino, Utet, 2006, pp. 773-774. 2 Ivi, p. 835. 3 Ivi, p. 409.4 G. Jervis, Manuale critico di psichiatria, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 72.5 E. Borgna, La schizofrenia come forma poetica e come forma clinica, in Nevrosi e follia nella letteratura moderna.

Atti di Seminario, a cura di A. Dolfi, Roma, Bulzoni, 1993, pp. 41-42.6 M. Tobino, Le libere donne di Magliano, Milano, Oscar Mondadori, 2009, p. 76.7 Più che ‘sul’, come sostiene Vittorino Andreoli : « Il vero protagonista del testo di Tobino non è il mat-

to, ma l’ambiente in cui il matto si trova costretto a vivere » (Il matto di carta. La follia nella letteratura, Milano, Rizzoli-Bur, 2008, p. 182).

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Se consideriamo, oltre al punto di vista percettivo, anche quello cognitivo, la cita-zione acquista uno spessore maggiore. Mario Tobino è uno psichiatria, appartiene dunque a quella categoria di medici scrittori (Cechov, Bulgakov, Carlo Levi, …) per i quali la conoscenza e frequentazione della sofferenza umana ha marchiato pro-fondamente la scrittura e quest’ultima, a sua volta, ha fornito uno strumento capa-ce di modificare l’approccio clinico, la distanza ‘scientifica’ tra medico e paziente, a favore dell’empatia e dell’immedesimazione.

Lo spazio-tempo fisico dal quale Tobino racconta la follia è l’Ospedale psichia-trico di Maggiano in provincia di Lucca, in un lasso di tempo che va dal 9 luglio 1941 al 1° febbraio 1980. Quarant’anni di esperienza professionale narrata in quattro romanzi, tratti dai suoi diari : Le libere donne di Magliano (1952), Per le antiche scale (1972), Gli ultimi giorni di Magliano (1982) e Il manicomio di Pechino (1990). Quattro libri che costituiscono un importante documento sulle rivoluzioni psichiatriche di quei decenni in cui l’Italia primeggia.

Perché Tobino sente il bisogno di raccontare la follia ? Che rapporto c’è tra rac-conto e cura ? È possibile sviluppare un parallelismo, nelle sue opere, tra concezio-ne e prassi psichiatrica da una parte, estetica ed etica della scrittura dall’altra, con punti di contatto, nodi in cui s’intrecciano quarant’anni di convivenza con la fol-lia.1 Mimma Bresciani Califano individua in un « atteggiamento di caritas continua »2 l’unità di fondo della scrittura di Tobino. Ci sembra questa la chiave di lettura per entrare nei suoi libri ed analizzare le varie declinazioni di questo atteggiamento in rapporto alle categorie della psichiatria di matrice fenomenologica.3

nella prefazione a Le libere donne di Magliano, dieci anni dopo la prima edizione, Tobino dichiara :

Scrissi questo libro per dimostrare che i matti sono creature degne di amore, il mio scopo fu ottenere che i malati fossero trattati meglio, meglio nutriti, meglio vestiti, si avesse mag-giore sollecitudine per la loro vita spirituale, per la loro libertà. […] tentai di richiamare l’attenzione dei sani su coloro che erano stati colpiti dalla follia.4

Sono subito chiari l’intento e l’impegno di Tobino. Per uno scrittore ‘di-mostrare’ vuol dire mostrare ; si ‘richiama l’attenzione’ mostrando, aprendo un punto di vista a chi, fuori dalle mura del manicomio, non vede, non sa. Al tempo stesso Tobino ci rivela la sua visione di una psichiatria fondata sulla relazione. Secondo Borgna quello di Tobino è un « drastico invito ad avvicinarsi alle pazienti e ai pazienti con quella categoria dell’amore che solo nei grandi testi di Ludwig Binswanger si osava indicare come necessaria premessa alla cura ».5

In questa prospettiva la scrittura è per Tobino terapeutica in tre sensi. Innanzitut-to in quanto autoterapia dello scrivente, tipica della scrittura diaristica, in secondo luogo come strumento, accanto a quelli medici, nella cura dei malati di cui scrive,

1 Cfr. S. Redaelli, Umanamente dire la follia : pietas e psichiatria nell’opera di Mario Tobino in Italianistica ieri e oggi, a cura di H. Serkowska, Varsavia, Semper, 2012, pp. 134-139.

2 M. Bresciani Califano, M. Tobino : il recupero della follia a dignità dell’esistenza in Sapere & Narrare. Figure della follia, a cura di M. Bresciani Califano, Firenze, Olschki, 2005, pp. 75-95.

3 Della quale Karl Jaspers, Ludwig Binswanger ed Eugène Mińkowski sono i principali esponenti.4 M. Tobino, Le libere donne di Magliano, cit., p. 3.5 E. Borgna, A tu per tu con la follia, in Mario Tobino, Opere scelte, Milano, Mondadori, 2007, p. xii.

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ed infine come terapia di sensibilizzazione della società alla follia. In tutti e tre i casi la scrittura è un’operazione di attribuzione di senso : alla propria vita di medico psichiatra e a quella dei malati nella società.

Soffermiamoci sul valore della scrittura come strumento nella cura della follia. Ci sembra calzi bene, a questo riguardo, la definizione, apparsa di recente nel

mondo medico, di « cartella clinica parallela », introdotta da Rita Charon. La cartella clinica, diventata ormai uno strumento tecnico-burocratico, ha perso il suo signi-ficato originario di scritto che permette una riflessione sulla storia del paziente e sulle cure svolte. Per questo è necessario affiancare ad essa una ‘cartella parallela’, dove il medico possa scrivere la storia del paziente in forma narrata, riportando pensieri, sentimenti, comportamenti del malato e propri. Secondo Rita Charon la « medicina narrativa […] comprende le abilità testuali ed interpretative nella pratica della medicina […] i medici possono imparare ad assistere i loro pazienti proprio sulla base di quanto i pazienti dicono loro (nelle parole, nei silenzi, nei gesti) ».1 La cartella clinica ordinaria è un documento medico che ha lo scopo di raccogliere i dati attinenti al decorso della malattia. In quanto tale è scritto con un linguaggio scientifico caratterizzato da tecnicismi e abbreviazioni, un punto di vista distanzia-to, oggettivo, con prevalenza di forme impersonali e passive, periodi nominali. nel-la cartella clinica parallela il medico cambia innanzitutto punto di vista, passa dalla terza persona oggettiva alla prima soggettiva. Il linguaggio propende verso descri-zioni più spontanee e meno scientifiche. La scrittura, dal tono diaristico, suscita (e richiede) un grado di empatia maggiore con il paziente, la cui storia acquista senso anche grazie alla sua narrazione, che permette un certo transfert dal paziente al medico e a quanti, condividendola con lui, partecipano alla cura.

Torniamo ora a Tobino e leggiamo un brano di Per le antiche scale :

« Mi dà la cartella clinica della Sercambi ? » Anselmo in fretta sfoglia. nella inquietudine di risolvere il caso si dimentica della modestia : « Cerchiamo quel che ne ho scritto io ».

18-9-1949. È più che incantata, è impietrita. È catatonica. Sono parole di venti anni fa. Ansel-mo continua.

Come colpita dalla folgore, il viso verso l’alto, Giovanna d’Arco insensibile alle sevizie. 19-9-1949. Si mette ai piedi del letto, il camerone già addormentato. Rimane impalata, rapita

verso un punto. L’infermiera la invita, la costringe a coricarsi. Essa automaticamente ubbidisce, ma appena l’infermiera si allontana, si rialza, si rimette nella stessa posizione, statua coperta da una camicia.

Anselmo sorride alla sua ingenuità di parlare della follia senza termini ufficiali.2

Tobino, medico-scrittore, dissimula nel sorriso di Anselmo, nella « sua ingenuità », il bisogno di una lingua « non ufficiale » quale strumento di rappresentazione della follia, alternativo al linguaggio tecnico della nosografia psichiatrica che, proprio nella prima metà del novecento, con l’imponente lavoro di Kraepelin,3 vedeva la sua sistematizzazione clinica.

1 Cfr. R. Charon, Narrative Medicine : A Model for Empathy, Reflection, Profession, and Trust, « jama », new York, Columbia University, 2001, vol. 286, 15, pp. 1897-1902.

2 M. Tobino, Per le antiche scale, Milano, Oscar Mondadori, 1972, p. 106.3 L’ottava ed ultima edizione dell’autorevole Trattato di psichiatria di Emil Kraepelin, edita negli anni 1909-

1913, contava 2500 pagine di classificazione di entità nosografiche.

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nella prospettiva di un incontro terapeutico profondo col malato mentale lo sguar-do sensibile e l’ascolto attento dello psichiatra costituiscono requisiti fondamentali. Borgna evidenzia lo « sguardo rabdomantico » di Tobino e « le sue straordinarie at-titudini all’ascolto e alla percezione dell’indicibile, dell’invisibile, della sofferenza, e alla loro trascrizione in un linguaggio intensamente mimetico e pieno di luce erme-neutica ».1 In Tobino, medico-scrittore, sguardo sensibile e ascolto attento diventano, naturalmente, cifre estetiche e sinestetiche. Come scrive la narratrice nordamerica-na Flannery O’Connor : « La caratteristica principale e più evidente della narrativa è quella di affrontare la realtà tramite ciò che si può vedere, sentire, odorare, gustare e toccare […]. È questa una cosa che non si può imparare solo con la testa ; va appresa come un’abitudine, come un modo abituale di guardare le cose ».2

Lo sguardo « abituale » di Tobino alla follia dà vita a ritratti plastici di malati, densi di fisicità e colmi di mistero ; le parole s’incarnano in volti, in corpi trasformati dalla malattia, che parlano « un linguaggio radicalmente diverso »,3 a volte non verbale, fatto di umori, odori, pose statuarie. Come per la Pitti, « raggomitolata nel letto », che comunica attraverso « un’acquolina, diversa dalla saliva », con la quale « bagna lenzuoli e lenzuoli » e « tiene, oltre l’infinito resto, stretto il pugno », che il medico in fine disserra, restando investito dall’« odore di madido » della « pelle affogata in un siero di latte », inizio del « disfacimento ».4

Per quanto riguarda il linguaggio verbale della follia, nei libri di Tobino trovia-mo numerose descrizioni di deliri, che costituiscono una dimensione essenziale dell’esperienza schizofrenica. Lo scrittore pratica un ascolto attento delle voci, le ri-produce con precisione scientifica e sapienza letteraria, si lascia interrogare. Esem-plare è la descrizione del delirio di negazione e d’immortalità del « Federale », un rappresentante del Duce, il cui delirio si manifesta durante un’adunanza fascista, definita « stupido gioco. Commedia di illusioni », perché ha capito che « non esisteva il mondo, e figuriamoci il Duce, capo di tutti i burattini. La nullità più aerea della più vacua nullità ».5 Il medico protagonista di Per le antiche scale, lo va a trovare, si intrattiene a parlare con lui, prova ad intessere, attraverso le parole, una trama di esistenza e dialogo nel monologo delirante di inesistenza di lui, caratterizzato da una forza centripeta6 che finisce per risucchiare anche il medico :

Quello che è veramente vero, di cui sono sicuro, è che niente esiste, ne sono sicuro più che una religione, non c’è la terra, non ci sono gli oggetti, non c’è la materia, non ci sono le co-se. Si muovono parvenze. Lei in questo momento è qui, lo riconosco. Ma tra poco quando se ne sarà andato, calerà nel nulla, si tramuterà in vuoto. E a tutto questo vuoto, lei rispon-de con una idea ugualmente immensa, l’immortalità. Sono stato obbligato ad arrivarci. Io

1 E. Borgna, A tu per tu con la follia, cit., p. xiv.2 F. O’Connor, Nel territorio del diavolo. Sul mistero di scrivere, Roma, Minum Fax, 2002, pp. 65-66.3 E. Borgna, A tu per tu con la follia, cit., p. xvii.4 M. Tobino, Le libere donne di Magliano, cit., pp. 97-98.5 M. Tobino, Per le antiche scale, cit., p. 135.6 Riguardo alla tendenza del delirio a fagocitare il suo interlocutore, Salomon Resnik osserva : « La conce-

zione egocentrica del mondo configurante la spazialità del delirio è la negazione del dia-, cioè dello ‘spazio tra…’ che dà vita, respiro, al Logos nel dia-logo. La concezione delirante tende quindi ad inghiottire l’oggetti-vità e la soggettività dell’altro formando una sorta di ‘sistema planetario’ dove il soggetto delirante appare al centro come sole » (L’esperienza psicotica, Torino, Boringhieri, 1986, p. 118).

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vedo, parlo, sono qui, sento che nulla esiste. Lo sento, quindi ci sono. Io ci sono e intorno a me il nulla. Anch’io non esisto, sono come morto, ma c’è questa stranezza, questa assurdi-tà, questa condanna : di assistere a questo. E chi mi può togliere da questo stato se nessuno esiste ? Se non ci sono gli avvenimenti ? Se tutto è soltanto un maledetto cinematografo privo di realtà, di corpi, di sostanza, di oggetti ?1

Soffermiamoci, brevemente, sulla sintassi del delirio del « Federale ». Qui Tobino utilizza, per rappresentare il delirio, uno stile prevalentemente paratattico : periodi brevi, spesso assertivi e interrogativi, a volte nominali ; frasi giustapposte che pro-cedono senza i nessi logici tipici della ipotassi, nella quale la coesione del discorso prevale sull’autonomia delle sue singole parti. In questo caso sono le singole parti a prevalere, caricandosi di emozione, acquistando una vita propria che rispecchia la frammentazione tipica del discorso psicotico. In uno studio sull’eloquio schizo-frenico Rochester e Martin hanno preso in considerazione i nessi tra le frasi che si presentano nel discorso, denominati ‘stringhe coesive’. Il loro studio ha mostrato che « gli schizofrenici ne usano un numero minore, e dei cinque tipi che ne sono stati descritti essi usano meno quello di riferimento (connessione attraverso il significato) e in maggior quantità quello lessicale (connessione di parole) ».2 È interessante notare, nel discorso del « Federale », la ripetizione ossessiva e coesiva delle parole chiave del delirio di negazione : « nullità », « vacua nullità », « niente », « nulla », « vuoto », « nulla ».

A 34 anni dall’approvazione della legge 180, possiamo chiederci quale sia l’at-tualità delle opere di Tobino. nell’alternarsi e fondersi di attitudine ermeneutica e narrativa, di studio e rappresentazione letteraria, Tobino si arma della sua « penna cechoviana ».3 Protagonisti dei suoi libri sono i malati, non il manicomio (questo sì, anacronistico), con i quali vive giorno e notte, per quarant’anni, a contatto sensibi-le con la loro malattia, in ascolto dei loro deliri. Li racconta con intuizioni letterarie e mediche che anticipano la Medicina narrativa e gli studi sull’eloquio schizofreni-co. Viste da questa prospettiva narrativa e psichiatrica, le opere di Tobino sono ne-cessarie. La scrittura diventa, nella sua dimensione estetica ed etica, uno strumento al servizio del medico, del malato, della società. Attraverso la rappresentazione letteraria del vissuto psicotico, in una narrazione a mo’ di ‘cartella clinica parallela’, il medico può entrare in un rapporto empatico con il malato. Quest’ultimo non è più oggetto di osservazione distanziata, di catalogazione nosografica di sintomi disincarnati dalla sua storia umana. La società stessa può sensibilizzarsi ad esso, alla sua richiesta di accettazione e di aiuto.

Alda Merini :il punto di vista della « pazza della porta accanto »

Alda Merini e Mario Tobino hanno attraversato in parallelo il secondo novecento psichiatrico (e letterario) italiano e lo hanno raccontato, in prosa e versi, da due

1 M. Tobino, Per le antiche scale, cit., p. 145-146.2 F. Oyebode, Introduzione alla psicopatologia generale, Milano, Cortina, 2009, p. 201.3 In realtà, questa è una definizione di Basaglia che, pur apprezzando Tobino per le sue qualità di scrittore,

lo criticava per le posizioni retrograde nei confronti della riforma e lo accusava di utilizzare la sua « penna cechoviana » per disinformare (L. Castelli, Tobino : le false donne, « Paese Sera », 4 maggio 1978).

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punti di vista speculari, senza mai incontrarsi.1 Tobino, psichiatra di manicomio ; Merini, paziente psichiatrica manicomiale. Sarebbe stato un incontro emblematico, perché questi due scrittori hanno affrontato una medesima narrazione : l’esperien-za della follia, con l’intento di riscattarla, attraverso la scrittura, a dignità dell’esi-stenza. E sono state due tra le voci letterarie italiane più autorevoli a farlo.

nel caso della Merini – morta il 1° novembre 2009, che ha vissuto la riforma ba-sagliana tanto nel suo attuarsi all’interno dei manicomi, quanto nella conseguente chiusura di essi e introduzione dell’assistenza psichiatrica nel settore – abbiamo, inoltre, una testimonianza dell’esperienza della follia fuori dalle mura del manico-mio, in particolare del rapporto della società con il matto.

Alda Merini ha mostrato un’altra follia, quella della famiglia, della società, di amori negati, e un altro manicomio : inferno ‘dantesco’ tra le mura, ‘calviniano’ fuori. « Un inferno, due canti – dentro e fuori –/ e tanti gironi, quanti i negati amo-ri ».2 Si potrebbe strutturare così l’inferno meriniano, con un distico a rima baciata.

Dal punto di vista della Merini, la follia, come malattia, non esiste. Essa è piutto-sto uno stato indotto dalla famiglia e dalla società – secondo il pensiero dell’Antip-sichiatria anglosassone3 e della Psichiatria Democratica italiana – le quali, negando la libertà e l’amore, costringono a una vita altra, emarginata, scissa. La follia è una scelta coatta di diversità ed emarginazione, paragonabile al barbonaggio : « Se Ti-tano aveva scelto il barbonaggio, io avevo scelto la follia ».4 La follia è il prezzo da pagare per essere donna e poeta :

Sì, perché la donna viene educata al delirio. La istruiscono fin da bambina al feticismo : deve amare le pentole, venerare gli oggetti della casa, tenerli puliti, accudirli. Il focolare diventa il simbolo della matriarcalità. neppure il femminismo è riuscito a sradicare queste simbo-logie. Infine ci si sente impazzire tra i feticci. I panni addosso si fanno pesanti. Ecco perché, in preda ad una crisi, la prima cosa che fa un folle è di strapparsi i vestiti.5

La pazzia è anche la ‘diagnosi’ che la società opera ai danni di chi, come lei, vorreb-be realizzare le proprie aspirazioni, passioni, di donna e poeta, ed è, di conseguen-za, dichiarata « la pazza della porta accanto ». La Merini mostra un punto di vista speculare : « chi è poi la pazza della porta accanto ? Per me è la mia vicina. Per lei la matta sono io, come per tutti gli abitanti del naviglio, della mia casa ».6 La poetessa non nega il suo disagio mentale, ma non lo considera una malattia, piuttosto la manifestazione di un più ampio disagio umano.

Chiamata alla poesia con « vocazione prepuberale » – riconosciuta dai principali rappresentanti della letteratura italiana di quegli anni (Pier Paolo Pasolini, Giorgio Manganelli, Salvatore Quasimodo, David Maria Turoldo, Maria Corti, Giacinto

1 A Tobino la Merini fa un unico accenno : « Io credo che Tobino abbia visto giusto nel volere ‘miracolate’ le proprie pazienti con amori terreni non tenuti a guinzaglio da modelli complicati e marcatamente siciliani di rivalsa » (A. Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, Milano, Rizzoli, 1997, p. 143).

2 S. Redaelli, Amare all’inferno. Le passioni di Alda Merini in Le Passioni : giornate internazionali Francesca da Rimini, a cura di F. Farina, Rimini, Editrice Romagna Arte e Storia, 2010, p. 92.

3 Di cui David Cooper e Ronald D. Laing sono stati esponenti (Cfr. D. G. Cooper, Psichiatria e antipsichia-tria, Roma, Armando, 1969).

4 A. Merini, La pazza della porta accanto, Milano, Bompiani, 2007, p. 36.5 Ivi, pp. 145-146. 6 Ivi, p. 135.

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Spagnoletti), mossa da passioni amorose e poetiche, viene osteggiata, in particolare dalla madre, e quasi obbligata a sposarsi con un uomo di ben altri ambienti e inte-ressi. « Un matrimonio cercato per sfuggire alla bramosia dell’esistenza che voleva la mia carne »,1 lo definisce la Merini, che non « riuscì bene », ma che trattava « come un grande impegno sociale ».2

La follia della poetessa è una follia d’amore, è « un grande, inconfessabile languo-re amoroso. Un languore talmente doloroso e spastico da somigliare alle doglie do-loranti del parto ».3 nel Diario di una diversa la follia è definita « spazio d’amore e di ricerca »,4 ma una ricerca che somiglia a un esilio, uno spazio che coincide con una perdita : « perché anche l’amore è una terra straniera, anche l’amore è il paradiso perduto, anche l’amore è la cacciata dal paradiso terrestre ».5

Dal punto di vista psichiatrico – della psichiatria degli anni ’60-’70 – i problemi della Merini sono ricondotti ad una diagnosi di schizofrenia, cui fa seguito un lungo internamento di cui la poetessa ci lascia una straziante e luminosa testimonianza, in particolare nel Diario.

Il manicomio qui raccontato è ben altro da quello dei romanzi di Tobino. Accan-to alle definizioni di « lager », « labirinto », « sepoltura », la più frequente è quella di « inferno » :

Ci si aggirava per quelle stanze come abbrutiti da un nostro pensiero interiore che ci dava la caccia, e noi eravamo preda di noi stessi ; noi eravamo braccati, avulsi dal nostro stesso amore. Eravamo praticamente le ombre dei gironi danteschi, condannati ad una espiazio-ne ignominiosa che però a differenza dei peccatori di Dante, non aveva dietro di sé colpa alcuna.6

La Merini scrive « il diario di una colpa non commessa »,7 scontata nel manicomio, che è « rivelazione di una cattiveria inenarrabile »,8 e rivendica la propria immaco-latezza, la santità estatica del martirio ; il manicomio è definito Terra Santa, luogo in cui non « si commetteva peccato alcuno » e « il martirio diventava tanto alto da rasentare l’estasi ».9 Leggiamo i seguenti versi :

Laggiù dove morivano i dannatinell’inferno decadente e folle nel manicomio infinito, dove le membra intorpidite si avvoltolavano nei lini come in un sudario semita, laggiù dove le ombre del trapasso ti lambivano i piedi nudi usciti di sotto le lenzuola,

1 A. Merini, Reato di vita. Autobiografia e poesia, Roma, Melusine, 1994, p. 27.2 A. Merini, La pazza della porta accanto, cit., p. 85.3 A. Merini, Delirio amoroso, Genova, Il melangolo, 1990, p. 95.4 A. Merini, L’altra verità, cit., p. 7.5 A. Merini, Il tormento delle figure, Genova, Il melangolo, 1990, p. 38. 6 Ivi, p. 100.7 A. Merini, Delirio amoroso, cit., p. 25.8 A. Merini, Nera novella, Milano, Rizzoli, 2007, pp. 87-88.9 A. Merini, L’altra verità, cit., p. 106.

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e le fascette torride ti solcavano i polsi e anche le mani, e odoravi di feci, laggiù nel manicomio facile era traslare toccare il paradiso.1

Osserviamo l’accostamento ossimorico – tipico della poetica della Merini – di in-ferno e paradiso, raggiunto, quest’ultimo, per traslazione, e l’uso del verbo « tra-slare », che esprime un movimento laterale, come se il paradiso non fosse ‘sopra’, e dunque raggiungibile risalendo, quanto piuttosto ‘accanto’. Altro significato del verbo traslare è quello di ‘trasportare le salme’, che potrebbe essere un’immagine del destino dei pazienti manicomiali, sepolti vivi ma innocenti e dunque destinati al paradiso dopo morti. Il traslato, infine, è anche una metafora, una figura, in questo caso, di beatitudine contigua alla dannazione, una santità dei maledetti ; e l’attribu-to « santa », accanto al sostantivo « terra » dà il titolo alla raccolta : Terra Santa.

Una delle forme più cruente di martirio era l’elettroshock, di cui la poetessa porta una testimonianza atroce, in prima persona. « Orrori », « supplizio », « fatture » sono le espressioni usate per raccontarlo. È un martirio d’amore, punizione per la colpa più grave che un pazzo possa commettere : amare. I versi di Terra Santa sono folgoranti :

E dopo, quando amavamoci facevano gli elettrochocperché, dicevano, un pazzonon può amare nessuno.2

Ed è atroce la descrizione dell’elettroshock riportata nel Diario :

Ci facevano una premorfina, e poi ci davano il curaro, perché gli arti non prendessero ad agitarsi in modo sproporzionato durante la scarica elettrica. L’attesa era angosciosa. Molte piangevano. Qualcuna orinava per terra. Una volta arrivai a prendere la caposala per la gola, a nome di tutte le mie compagne. Il risultato fu che fui sottoposta all’elettroshock per prima, e senza anestesia preliminare, di modo che sentii ogni cosa. E ancora ne conservo l’atroce ricordo.3

Altro martirio è quello degli psicofarmaci. Come Tobino4 anche la Merini descrive il carrello degli psicofarmaci : « ogni giorno quel passaggio, quella tortura da pur-gatorio, anzi da gironi dell’inferno »,5 il cui effetto era di trasformare i pazienti in « marionette traballanti che cercavano disperatamente di sdraiarsi, e non lo poteva-no fare ».6

Il quadro complessivo del manicomio è quello di « una istituzione falsa, una di quelle istituzioni che, create sotto l’egida della fratellanza e della comprensione umana, altro non servono che a scaricare gli istinti sadici dell’uomo ».7

nelle sue degenze manicomiali la Merini non ha incontrato né Tobino, né il suo

1 A. Merini, Fiore di poesia, Torino, Einaudi, 1998, p. 91. 2 A. Merini, Fiore di poesia, cit., p. 96. 3 A. Merini, L’altra verità, cit., pp. 86-87.4 Mario Tobino lo definiva : « Carrellino delle torture » (Gli ultimi giorni di Magliano, cit., p. 27).5 A. Merini, L’altra verità, cit., p. 62.6 Ivi, p. 99. 7 Ivi, pp. 42-43.

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umanissimo e umanistico approccio medico al paziente. neppure ha incontrato « la caritas continua » degli infermieri di cui lo psichiatra tesse le lodi nei suoi romanzi. La Merini ha attraversato gironi infernali, ma non quelli della sua malattia, piutto-sto le pene cui erano sottoposti i malati. Paradossalmente, la Merini e Tobino, pur mostrando due facce opposte della stessa esperienza, scrivono con il medesimo intento di contribuire, attraverso le proprie opere letterarie, ad umanizzare la psi-chiatria. nel Post scriptum 2 al Diario la Merini dichiara di mettere « a disposizione degli altri le sue esperienze, per un proficuo esito della psicanalisi e per un’emanci-pazione umanistica della psichiatria ».1

Fuori dal manicomio la Merini ha trovato un altro inferno, ‘calviniano’ : « Il ma-nicomio che ho vissuto fuori e che sto vivendo non è paragonabile a quell’altro supplizio che però lasciava la speranza della parola. Il vero inferno è fuori, qui a contatto degli altri, che ti giudicano, ti criticano e non ti amano ».2

Il rifiuto della società riguarda non solo « la pazza », ma anche la « poetessa » : « La gente al mio ritorno mi ha riconosciuta, soppesata, dileggiata, offesa, respinta e riaccettata. Dovevo chiedere scusa ad ogni donna di malaffare, ad ogni lavandaia, ad ogni oste di essere una poetessa ».3

Complementare – e non meno duro – è dunque il giudizio della Merini sul-la società che stigmatizza il folle (dichiarandolo ‘pazzo’ : ‘malato’), il diverso, il reduce dall’esperienza manicomiale, rendendogli impossibile il reinserimento, costringendolo ad una metamorfosi kaf kiana, come la definisce la poetessa nel Diario : « e fuori nessuno ti riconosce più e tu diventi il protagonista delle meta-morfosi kaf kiane ».4 D’accordo con Basaglia sulla chiusura dei manicomi, mette in luce, al tempo stesso, i « problemi non ancora risolti » 5 della riforma, in parti-colare l’impreparazione della società ad accogliere l’ex-paziente, la sua ostilità, che li fa sentire « sterchi sociali ».6 nelle opere della Merini c’è una critica doppia : all’istituzione manicomiale e all’incuranza di quanti pensavano che, chiudendo i manicomi, il problema della follia si sarebbe risolto e il folle avrebbe ritrovato un suo posto nella società.

La resistenza e il riscatto della Merini dall’inferno ‘dantesco’ del manicomio e da quello ‘calviniano’ della società è stato possibile grazie a quella che Manganelli de-finisce « la vocazione salvifica della parola ».7 In questo critica letteraria e psichiatria concordano.

Scrive Maria Corti : « Dapprima lei vive all’interno di una realtà tragica in modo allucinato e sembra vinta ; poi la stessa realtà irrompe nell’universo memoriale e da lì è proiettata nell’immaginario e diviene una visione poetica dove ormai è lei a vincere, a dominare, non più la realtà ».8 Ambrogio Borsani parla di « rivincita » :

Chi conosce e frequenta Alda Merini sa che ogni momento della vita viene da lei vissuto due volte. Prima nella realtà, poi nella sua proiezione fantastica. Ed è qui, in questa cellu-

1 Ivi, p. 145. 2 Ivi, p. 137.3 A. Merini, Delirio amoroso, cit., p. 58. 4 A. Merini, L’altra verità, cit., p. 105.5 Ivi, pp. 42-43. 6 A. Merini, La pazza della porta accanto, cit., p. 155.7 A. Merini, L’altra verità, cit., p. 11.8 M. Corti, Introduzione in A. Merini, Fiore di poesia, cit., p. v.

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loide cerebrale, incisa, sviluppata e proiettata sullo schermo magico della pagina che final-mente l’autore si prende la rivincita sulla vita.1

E Francesca Parmeggiani parla di scrittura come « razionalizzazione » :

Razionalizzare significa ricordare e creare una storia, sia pure non lineare, dai frammenti dell’esperienza, significa materializzare stati psichici e il vissuto personale in parola, render-li oggetto così che divengano condivisibili, usufruibili da altri ; è, infine, costruire un senso per sé e dei significati per il lettore.2

Il dottor Enzo Gabrici – unica figura medica positiva nell’esperienza manicomiale della Merini, che la « rieducò alla letteratura, l’unica fonte di vita »,3 mettendole a disposizione una macchina da scrivere – definisce la « creazione attraverso l’arte poetica » un « balsamo »4 per la Merini, attribuisce alla « sua forza di artista » la sua vit-toria sulle « violenze di false culture scientifiche »5 e « alla sua meritoria realizzazione nel sociale attraverso l’espressione poetica »6 la sua guarigione.

Così, a dispetto di ogni « tranello », « cattiveria », « colpa sociale » della follia, la Me-rini ha realizzato la sua vocazione letteraria, attribuendo senso ad esperienze atroci e lasciandoci pagine sublimi di poesia. La poesia, per lei, è stata davvero salvezza, nel duplice significato di resistenza e redenzione, come Manganelli afferma nella prefazione al Diario : « grazie alla parola chi ha scritto queste pagine non è mai stata sopraffatta ».7 E come la Merini stessa scrive : « La poesia veramente salva la vita con la potenza dell’intelletto, con la forza del linguaggio e con l’amore. Tutte le perso-ne hanno bisogno di amore e la poesia è amore, ma non amore personale, amore per tutti, amore sociale ».8

Carmelo Samonà : il punto di vista del ‘fratello’

L’opera narrativa di Carmelo Samonà consta di tre romanzi : Fratelli (1978), Il cu-stode (1983), Casa Landau (1990, inconcluso), di un racconto: L’esitazione (1990), e di due testi brevi: Ultimo seminario (1987), Cinque sogni (1990). Fatta eccezione per le ultime due, le sue opere sono tutte dedicate al tema della malattia mentale fuori dal manicomio.

La malattia non viene mai nominata. Il fratello sano di Fratelli dice : « non le darò un nome. La malattia rappresenta, nel nostro peregrinare, l’incognita permanente : una specie di oggetto invisibile prima ancora che una forza ostile ».9 Il professor Landau afferma laconicamente della figlia : « è ammalata, non può vivere sempre con me, e non può vivere neanche senza di me ».10 Quando il ragazzo, che prende da

1 A. Borsani, Note in A. Merini, Delirio amoroso, cit., p. 109.2 F. Parmeggiani, La folle poesia di Alda Merini, « Quaderni d’Italianistica », vol. xxiii, 1, 2002, p. 183.3 A. Merini, Diario di una diversa, cit., p. 150.4 A. Merini, Lettere al dottor G., Milano, Frassinelli, 2008, p. 7.5 Ivi, p. 11. 6 Ivi, pp. 2-3.7 A. Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, cit., p. 11.8 A. Merini, Reato di vita. Autobiografia e poesia, cit., p. 104.9 C. Samonà, Fratelli, Palermo, Sellerio, 2008, p. 15.10 C. Samonà, Casa Landau, in Fratelli e tutta l’opera narrativa, Milano, Mondadori, 2002, p. 283.

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lui ripetizioni e diventa compagno di giochi della figlia, chiede il nome della malat-tia, il professore risponde :

Quel nome, il nome di quel male… […] Perché vuole dare un nome alla malattia ? Cosa mi chiede, una parola da ripetere facilmente ? E allora le dirò, non so neanche come si chiami con esattezza, la malattia di mia figlia, e neppure tutti i medici sono concordi. Cosa vuole, un certificato con la diagnosi ? O preferisce che le descriva i sintomi, il modo in cui si ma-nifesta… ?1

nell’opera di Samonà la follia, più che nominata, viene descritta nel suo manife-starsi, comunicarsi, abitare il focolare domestico. La follia è in casa, occorre pren-dersene cura, conviverci, conoscerla, difendersene, difenderla. Le storie sono scritte negli anni immediatamente successivi alla riforma Basagliana con la conseguente chiusura dei manicomi ; anni in cui le strutture psichiatriche sul settore non sono in grado di far fronte alla nuova situazione e ancor meno lo è la famiglia abbandonata a se stessa.

nell’incipit di Fratelli c’è in potenza tutta la storia con i suoi protagonisti, il punto di vista, la voce narrante, il cronotopo, l’atmosfera di coatta convivenza, il tema : « Vivo, ormai sono anni, in un vecchio appartamento nel cuore della città, con un fratello ammalato ».2

La rappresentazione letteraria della follia è innanzitutto descrizione dei suoi lin-guaggi ‘altri’. La follia per Samonà è una « malattia linguistica ».3 La prima ad am-malarsi è la parola.

nei suoi discorsi si passa per continui tranelli : se comincia a negare una cosa, può darsi che voglia affermarla, se mi interroga ansiosamente forse mi sta dando delle risposte ; spesso mi indica un fiore o un oggetto per rivelarmi uno stato d’animo, un luogo, un nome, un episodio del passato per esprimere qualche necessità del momento. Lo strano è che in quel che dice non c’è, volta per volta, nulla di inconcludente : ogni frase è compiuta e carica di senso ; ogni parola sospinta da un’incoercibile determinazione interiore. Si direbbero lucidi frammenti di un discorso che ha perduto la sua compattezza in seguito ad una lontana, terrificante esplosione ; nel moto centrifugo i nessi si sono spezzati, i sensi rovesciati e stra-volti, ma schegge luminose di quell’antico tesoro linguistico emergono ancora alle labbra, volteggiando nell’aria, sfiorate quasi sempre da un’impalpabile grazia.4

Questo brano è un esempio di come la prosa letteraria di Samonà illustri con ele-ganza ed esattezza concetti scientifici, caratteristiche del discorso psicotico, senza mai ricorrere al lessico specifico della nosografia. Senza darle un nome Samonà rappresenta – e a suo modo studia – l’esperienza di frammentazione interiore e verbale. Lo psichiatra Antonino Bucca così commenta questa pagina : « il discorso psicotico fluttua in balia di artifici e giochi di parole ricchi di neologismi e paralogi-smi, oppure di formule linguistiche in cui bisogna negare per affermare, interroga-re per rispondere, evocare il passato per dire il presente ».5

1 Ivi, p. 287. 2 C. Samonà, Fratelli, cit., p. 9.3 G. Manganelli, Fratelli di Carmelo Samonà, « La Stampa », 3 luglio 1978.4 C. Samonà, Fratelli, cit., pp. 31-32.5 A. Bucca, Il linguaggio del corpo e l’esperienza psicotica nell’opera narrativa « Fratelli » di Carmelo Samonà, in

Origine e sviluppo del linguaggio, fra teoria e storia, a cura di D. Gambarara, A. Givigliano, Roma, Aracne, 2009, pp. 387-393, p. 387.

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Esploso il discorso, frammentata, flebile, quasi muta la parola, altri linguaggi primari diventano essenziali e sostitutivi : quello del corpo, del gioco, del dono.

Il linguaggio del corpo è primario. Se da una parte il ritorno ad esso rappresenta una regressione, dall’altra è il tentativo di recuperare la forza di coesione che il linguaggio verbale ha perso. Al moto centrifugo delle parole esplose, dei loro sensi dispersi, il corpo reagisce con la forza centripeta – fisica e coesiva – dei gesti (che precedono l’attività linguistica) e dei sensi (che precedono le facoltà cognitive supe-riori). Bucca parla del corpo come « ultimo baluardo » che permette di « organizzare la ‘resistenza’ del malato alla disgregazione schizofrenica ».1 Attraverso il corpo si instaura un nuovo dialogo tra i fratelli : « Comincia, allora, fra noi, un dialogo senza parole : sguardi obliqui e affilati, piccoli approcci delle mani a tentare di toccarsi e di stringersi, guizzi delle teste a schermirsi, a ripararsi dai contatti dell’altro. Gio-chiamo, quasi ».2

nel linguaggio del corpo, c’è un gesto che supera e racchiude gli altri : l’abbrac-cio. non a caso in Fratelli l’abbraccio arriva in un punto importante della narra-zione, quando appare « la donna col cane zoppo », terza nel rapporto (fino a quel momento a due), tra i fratelli. Si carica, dunque, questo gesto di ulteriori significati : è la donna – incontrata per strada, che regala una mela al fratello malato (avviando un ulteriore livello di comunicazione, quello del dono) – a introdurre l’abbraccio e a ricongiungerli :

coprendo abissi di distanze con improvvise modulazioni di canto, spazi di silenzio con in-venzioni mimiche al cui disegno ridevamo insieme ; […] e quando sembrava esaurita ogni scorta di segni figurativi o vocali (inesauribili per lo più) ricorrendo infine all’abbraccio. L’abbraccio era il segno infimo e anche supremo di questa lingua, ed era ricco di sinonimi e sottospecie e varianti : toccamenti, carezze, contatti fra i corpi, sfioramenti, strette, scambi e condivisioni di bluse, cappotti e mantelle, con interventi impliciti delle mani sulle spalle, sui dorsi ; una gerarchia tattile al cui vertice si poneva, appunto, l’assedio intero delle due braccia intorno al collo, la pressione di tutto un corpo sull’altro, con un corteo mobile e spesso di fiati, calori e odori che s’incrociavano.3

nell’abbraccio la coppia dei fratelli esiste in un risanato equilibrio ; le definizioni di ‘sano’ e ‘malato’ scompaiono, e con esse i ruoli di accudito e accudente. L’abbrac-cio è icona del ricongiungimento tra i fratelli, possibile solo attraverso un terzo che li comprenda : una donna ; ed è espressione di un linguaggio più ampio che unifica – con la coesione dell’affettività – la dimensione emotiva e cognitiva, i linguaggi della normalità e dell’alterità, oltre l’ansia della malattia e della sua possibile cura.4

Oltre a parlare linguaggi diversi, la follia si muove su traiettorie diverse che si avvolgono su se stesse, sembrano girare a vuoto in infinite ripetizioni aperiodiche, perché irregolari, proprio come in un moto caotico.5 Il caos è la « capacità (propria

1 Ibidem. 2 C. Samonà, Fratelli, cit., p. 35. 3 Ivi, p. 98.4 Scrive a riguardo Giancarlo Pandini : « Il linguaggio qui diventa dell’amore, là dove nel fratello sano era

solo e soltanto di pietà e di voglia di conoscenza. […] Il linguaggio unico, che lei usa per entrambi, non solo unisce nell’amore la normalità e la follia, ma fa scorrere nel rapporto dei due fratelli una corrente di entusia-smo, di voglia di cercarsi, di unirsi, di stare insieme e di prendere ognuno il proprio carico di lacerazione e di sconfitte » (Il senso dell’altro in « Fratelli » di Carmelo Samonà, « Forum Italicum », vol. 13 / 4, Winter 1979, p. 520).

5 Cfr. S. Redaelli, Chaotyczne trajektorie szaleństwa w powieści Fratelli Carmelo Samonà, in Efekt motyla ii.

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anche di equazioni più semplici) di generare un moto così complesso, così sensibi-le alle misurazioni, da apparire casuale »1 o, semplicemente, un « comportamento senza legge governato per intero dalla legge ».2 Questa definizione si addice perfet-tamente al moto del fratello malato del romanzo Fratelli :

In apparenza non c’è regola in questo moto : mio fratello sembra la vittima occasionale di una presenza estranea di cui subisce pazientemente, e al tempo stesso interpreta col proprio corpo, i capricci. Guardandolo meglio, però, intravedo nei suoi gesti un misterioso anello produttivo ; ho il sospetto che le infinite ripetizioni, i salti, gli avvitamenti del corpo, le rare parole traccino nell’aria un disegno animato di cui lui stesso, e non altri, è il regista : forse è lui che possiede il controllo della malattia, la piega ai suoi voleri […].3

Il fratello inventa uno strumento per seguire i moti caotici, la « Tabella del tem-po » :

Il suo principio fondamentale era il rapporto fra spazio e tempo nella casa deserta ; il me-todo, quello della semplice osservazione dei fatti : annotare gesti, schedare e definire abi-tudini, mettere in rapporto tra loro anche i più minimi dettagli. Per qualche mese scrutai tutti i nostri movimenti e comportamenti, registrai con cura i minuti che impiegavamo per andare da un punto all’altro, tenni conto dei percorsi principali e dei secondari, delle zone di riposo e di sosta, dei tempi destinati al pranzo, alla cena, alla passeggiata in città. Quindi cominciai a prendere nota degli imprevisti : […] studiai, infine, tutte le combinazioni possi-bili fra tutte le possibili traiettorie su una pianta della casa che avevo strappato all’oblio di un vecchio cassetto.4

La « Tabella del tempo » ha l’ambizione di catalogare le irregolarità, riportarle in un registro che le contenga tutte, rappresentarle in traiettorie, per ricondurle ad un modello governato da precise leggi, e dunque prevedibile. Ma i tentativi del fratello si rivelano inefficaci. Il registro dovrebbe essere infinito per catalogare tutte le variazioni, gli scarti dalla regolarità. I calcoli non tornano. In particolare, ad ogni tentativo di regolarizzare l’irregolare, il fratello risponde con una mossa impreve-dibile, che nega e annulla quelle registrate, previste dalla «Tabella». Il fratello sano si arrende, perché pensa di aver fallito la sua impresa, mentre invece ha portato a termine il lavoro : ha disegnato la mappa del caos ; l’instabilità, l’imprevedibilità, la dipendenza sensibile ad ogni perturbazione sono le sue caratteristiche principali. Così David Ruelle definisce il caos : « il caos è semplicemente il fatto che piccole cause possono avere grandi effetti ».5 E seppure fosse possibile, dallo studio di un comportamento caotico, risalire alle sue leggi, non sarebbe possibile, comunque, cambiarle. Perché una mappa del caos, anche la più esatta dal punto di vista mate-matico, può aiutare a capire, descrivere, nel migliore dei casi riprodurre (imitare) il caos, ma non può trasformarlo in ordine.

In tutto il romanzo le parole ‘caos’ e ‘follia’ non vengono mai nominate, mentre le loro proprietà, i loro sintomi sono descritti con straordinaria esattezza. È qui la

Humaniści wobec metaforyki teorii chaosu, a cura di D. Heck, K. Bakuła, Wrocław, Księgarnia Akademicka, 2011, pp. 165-172.

1 I. Stewart, Dio gioca a dadi ?, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, p. 21. 2 Ivi, p. 22.3 C. Samonà, Fratelli, cit., pp. 18-19. 4 Ivi, pp. 54-55.5 D. Ruelle, Caso e caos, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, p. 77.

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bellezza di Fratelli ed è questo il potere della letteratura : non dire una parola – che nominata resterebbe astratta, disincarnata –, ma farla sentire, incarnarla. non dire ‘follia’, ma farci abitare nel suo mondo caotico. non dire ‘caos’, ma farci muovere, incessantemente, sulle sue traiettorie.

Lo strumento di cui Samonà si serve per rappresentare il caos della follia non è né psichiatrico né matematico, è letterario : è la scrittura. La follia viene descritta nei suoi linguaggi e moti disordinati attraverso una sintassi regolare, perfettamente go-vernata, ed un controllo meticoloso del lessico. Samonà fa sua la lezione calviniana di esattezza fino alla nevrosi, che è malattia anch’essa. Vittorio Coletti, definisce il fratello ‘sano’, « quello in cui la malattia si manifesta come patologico eccesso di or-dine, di simmetrie », e la sua nevrosi « una difesa dal disordine del mondo ; appunto come molte, grandi espressioni letterarie ».1

Ma la scrittura fallisce : il cassetto con la « Tabella del tempo » viene scaraventato a terra dal fratello malato, i fogli si spargono sul pavimento, mandando all’aria il lun-go e meticoloso lavoro. Ed è questo, forse, il messaggio più disarmante dell’opera narrativa di Samonà : uno strumento così potente come la scrittura, padroneggiato alla perfezione, risulta inadeguato, forse proprio per la sua potenza e il desiderio di padroneggiare. Occorre deporre la scrittura come arma, mezzo di controllo, tenta-tivo di normalizzazione. Per parlare con la follia, la lingua deve progressivamente arrendersi, spegnersi in « suoni flebili e opachi »,2 tendere ad un silenzio che è atteg-giamento ermeneutico di ascolto e spazio per accogliere l’alterità. Ed è rinuncia alla volontà di razionalizzazione. non si può parlare della sragione con un linguaggio che è strumento della ragione, « rottura stessa con la follia », « efficace gesto di pro-tezione ed imprigionamento ».3 Sono necessari altri linguaggi : non verbali, affettivi. Occorre trasformare la parola in corpo – gesto di abbraccio la cui fusione fisica supplisce i nessi coesivi assenti nell’eloquio psicotico –, gioco – per accedere a stati d’animo ed emozioni cui « la parola non riesce a giungere »4 –, dono, « linguaggio dell’amore ».5

È necessario, inoltre, porsi su una soglia – quella della stanza del fratello sano, sulla quale il malato appare, scandisce tre colpi e poi scompare – per trovarsi « vi-cino a uno spiraglio di verità » per « cogliere una trasparenza simile a un significato intero […] come sul punto di abbattere una cortina alla cui base mi sto scavando, a forza di unghie, un passaggio ».6

Conclusioni

L’immagine della soglia ci riporta all’idea iniziale di questo studio : ‘circo-scrivere la follia’, tracciando, attraverso tre punti di vista complementari, una circonferenza, una linea che delimita il confine tra normalità e follia, malattia e sanità, ragione e

1 V. Coletti, La sintassi della follia nella narrativa italiana del Novecento, in Nevrosi e follia nella letteratura moderna, cit., p. 279.

2 F. Orlando, Suoni flebili e opachi, in Fratelli, cit., p. 159.3 J. Derrida, Cogito e la storia della follia, in La scrittura e la differenza, Torino, Einaudi, 1990, pp. 68-69.4 E. Borgna, Presentazione, in A. Malinconico, M. Peciccia, Al di là della parola. Vie nuove per la terapia

analitica delle psicosi, Roma, Edizione Magi, 2006, p. 15.5 J. Godbout, Il linguaggio del dono, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, p. 30. 6 Ivi, p. 140.

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tre punti di vista sulla follia: tobino, merini, samonà 105

sragione. In tutti e tre i punti di vista narrativi presi in esame è presente – con ac-centi diversi : dalla patologia grave al disagio – la dimensione della malattia mentale e l’esigenza di un approccio adeguato, scevro di ogni volontà coatta di imprigiona-mento, che consideri la malattia – psicologicamente e fenomenologicamente, in una prospettiva jasperiana – « una enigmatica forma di esistenza che sfugge ad ogni valutazione fredda e naturalistica », che non può essere ridotta ad « una semplice (improblematica) aggregazione di sintomi ».1

La malattia mentale, d’altro canto, è solo un aspetto, una manifestazione, un volto della follia. Come sosteneva Foucault, seppure un giorno :

i progressi della medicina potranno far scomparire completamente la malattia mentale, come già con la lebbra e la tubercolosi ; […] una cosa sopravviverà, e cioè il rapporto tra l’uomo e i suoi fantasmi, il suo impossibile, il suo dolore senza corpo, la sua carcassa du-rante la notte ; […] la memoria senza età di un male cancellato nella sua forma di malattia, ma irriducibile come dolore.2

L’altro volto della follia, ugualmente presente nelle opere dei tre autori studiati, è quello della diversità e della paura della diversità. Essi hanno voluto, scrivendo, restituire al folle (diverso) la dignità di esistenza umana, e condannare la follia della società che lo rigetta, esclude, abbandona, vuole ‘guarirlo’. La follia come diversità non si può considerare malattia, non si può da essa guarire, né cercare di guarirla. Occorre rischiare di disporsi ad accoglierla. In questa prospettiva della follia come malattia (patologia) e diversità (‘altra’ normalità), l’opera letteraria di Tobino, Sa-monà e della Merini, svolge un duplice, importante ruolo. Da una parte ci consente di avvicinarci al mistero e all’essenza della pato-logia « che non è da cercare nella malattia ma in quel patire (pathos) che si fa parola (loghia) ».3 Dall’altra ci aiuta a superare la paura della diversità, rinunciando alla pretesa di guarirla, mirando piut-tosto a guarire dalla paura di essa, a sanare il rapporto con l’altro.

Fino a quando continueremo a sapere poco della follia, poco sapremo dell’uomo, e sarà necessario studiarla scientificamente e sarà indispensabile letterariamente scriverne – farla parlare : darle un volto e una voce – se vogliamo rispondere all’in-vito poetico di Hölderlin : « Su vieni ! Guardiamo nell’Aperto, cerchiamo qualcosa di proprio, sebbene sia ancora lontano ».

1 E. Borgna, La schizofrenia come forma poetica e come forma clinica, cit., p. 42.2 M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Milano, bur, 1969, p. 476.3 U. Galimberti, Prefazione a K. Jaspers, Genio e follia, Milano, Cortina, 2001, pp. xv-xvi.

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composto in car attere dante monotype dalla

fabriz io serr a editore, p i sa · roma.

stampato e r ilegato nella

tipogr afia di agnano, agnano p i sano (p i sa) .

*Gennaio 2013

(cz 2 · fg 13)

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