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EUGENIO GARIN DAL RINASCIMENTO ALL’ILLUMINISMO Atti del Convegno Firenze, 6-8 marzo 2009 a cura di OLIVIA CATANORCHI e VALENTINA LEPRI Premessa di MICHELE CILIBERTO ROMA 2011 EDIZIONI DI STORIA E LETTERATURA STORIA E LETTERATURA RACCOLTA DI STUDI E TESTI 269
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Tra politica e storia. La riflessione di Garin su Machiavelli e Guicciardini

Jan 29, 2023

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Page 1: Tra politica e storia. La riflessione di Garin su Machiavelli e Guicciardini

EUGENIO GARINDAL RINASCIMENTO

ALL’ILLUMINISMO

Atti del ConvegnoFirenze, 6-8 marzo 2009

a cura di

OLIVIA CATANORCHI e VALENTINA LEPRI

Premessa di

MICHELE CILIBERTO

ROMA 2011

EDIZIONI DI STORIA E LETTERATURA

STORIA E LETTERATURAR A C C O L T A D I S T U D I E T E S T I

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principi Garin - convegno.qxp 19/09/2011 16.31 Pagina iii

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FRANCESCO BAUSI

TRA POLITICA E STORIA.MACHIAVELLI E GUICCIARDINI NELLA RIFLESSIONE DI GARIN

Né Machiavelli né tanto meno Guicciardini possono annoverarsi fragli autori più frequentati da Eugenio Garin. Se escludiamo pochi scrittidi minore rilievo (recensioni, rassegne, articoli di giornale), nella sua im-ponente bibliografia1 troviamo infatti appena tre saggi dedicati al Segre-tario fiorentino: Machiavelli pensatore, pubblicato nel 1969 (e ristampatol’anno seguente, col titolo Aspetti del pensiero di Machiavelli), e due con-tributi del 1990 (Polibio e Machiavelli e Le «Istorie fiorentine») raccoltitre anni dopo, con minime varianti, nel volumetto einaudiano Machiavellitra politica e storia. Lavori tardi (di un Garin sessantenne nel primo caso,addirittura ottantenne negli altri due), e lavori tutti d’occasione: Machia-velli pensatore è una conferenza tenuta a Palazzo Medici Riccardi l’8 no-vembre 1969 (nell’àmbito delle celebrazioni per il quinto centenario del-la nascita del Segretario), Polibio e Machiavelli è il testo della lezionetenuta presso l’Università di San Marino il 30 settembre 1989 per l’inau-gurazione dell’anno accademico, mentre il saggio sulle Istorie fu scrittocome introduzione alla ristampa anastatica di un’edizione ottocentescadell’opera machiavelliana (quella pubblicata nel 1857 a Firenze da FeliceLe Monnier). Quanto a Guicciardini, le uniche pagine espressamentededicategli da Garin si trovano nel volume del 1947 La filosofia, all’inter-no di un capitolo (il quinto del secondo tomo, intitolato Motivi politici ereligiosi) che comprende anche un importante paragrafo su Machiavelli.

Tuttavia, è indubbio che, pur non costituendo uno dei filoni più im-portanti della ricerca di Garin sul nostro Rinascimento, la riflessione suMachiavelli (e, in minor misura, su Guicciardini) accompagnò tutta lasua vita di studioso, come dimostrano gli accenni ai due autori – sparsi e

1 Bibliografia degli scritti di Eugenio Garin 1929-1999, Roma-Bari, Laterza, 1999.

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spesso rapidi, ma comunque frequenti e sempre significativi – contenutiin molti suoi lavori, e soprattutto nelle numerose opere generali sullaciviltà umanistica e rinascimentale. Proprio da un testo di questo genereconverrà prendere le mosse, ossia dall’antologia Il Rinascimento italiano,apparsa nel 1941 e ristampata senza modifiche nel 1980. Il volume siarticola in dieci capitoli, dedicati ad altrettanti aspetti della civiltà delRinascimento; ciascuno di essi, dopo un’essenziale premessa, ospita unnumero variabile di brani – talora molto brevi – estratti da un ampioventaglio di autori latini e volgari (da Petrarca a Campanella), a voltepreceduti da sintetici cappelli introduttivi. Si tratta di un’opera di note-vole rilievo, sia per la larghissima scelta di testi spesso allora poco noti (etalora attinti direttamente da codici e stampe antiche), sia per l’interpre-tazione del Rinascimento tratteggiata nell’Introduzione generale, che –pur fortemente debitrice nei confronti di Dilthey, di Cassirer e soprattut-to di Gentile – già contiene spunti personali ed elementi di novità suiquali Garin insisterà a lungo nei più maturi studi dei decenni successivi2.

Qui mi interessa però sottolineare in primo luogo un altro aspetto,vale a dire l’ottica implicitamente ‘attualizzante’ con cui non pochi degliautori presi in esame vengono avvicinati e presentati. È, questo, un ele-mento sul quale Garin ha insistito a lungo quando, in età più avanzata,ha avuto modo di ricordare i suoi lavori giovanili e, in generale, di rievo-care il clima culturale del ventennio fascista, parlando a tal proposito di‘dissimulazione onesta’: di quella forma, cioè, di singolare ‘nicodemismo’(come lo definì Delio Cantimori) cui allora fecero ricorso quegli intellet-tuali non fascisti che, di fronte all’impossibilità di esprimere liberamentele proprie idee e di battersi politicamente per difenderle, cercarono – hascritto Michele Ciliberto – di trasfigurarle «in miti storiografici e lettera-

2 Su quest’opera vd. quanto scrisse lo stesso autore presentandone nel 1980 la ri-stampa (Bologna, Cappelli, pp. 5-8; I ed. Milano, Istituto per gli studi di politica inter-nazionale, 1941). Per la decisiva influenza di Giovanni Gentile sull’interpretazionegariniana dell’Umanesimo vd. C. Cesa, Momenti della formazione di uno storico dellafilosofia (1929-1947), in Eugenio Garin. Il percorso storiografico di un maestro del Nove-cento. Giornata di studio, Prato, Biblioteca Roncioniana, 4 maggio 2002, a cura di F.Audisio – A. Savorelli, Firenze, Le Lettere, 2003, pp. 15-34: 23-29; G. Galasso, Sto-ricismo, filosofia e sapere storico, ibidem, pp. 35-52: 46-49; e anche S. Gentile, EugenioGarin (1909-2004) e Leon Battista Alberti, «Albertiana», IX (2006), pp. 3-27: 24-25. PerDilthey e Cassirer vd. quanto scrive lo stesso Garin nell’Avvertenza da lui premessaall’ed. 1986 dell’Umanesimo italiano, che cito dall’ed. 1994 (L’Umanesimo italiano. Filo-sofia e vita civile nel Rinascimento, Roma-Bari, Laterza, 1994 [I ed., in lingua tedesca,Bern, Francke, 1947; I ed. italiana Bari, Laterza, 1952]), p. 3.

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ri», riscoprendo un forte sapore di attualità in Tucidide come in Pico, inTacito come in Machiavelli, negli umanisti come negli illuministi3. Pro-prio nell’Avvertenza alla ristampa del 1980 del Rinascimento italianoGarin ha affermato al riguardo:

In realtà, mi sia concesso insisterci, steso nel ’40, all’inizio di quella guerra, ilvolumetto può essere inteso solo se riportato a quel clima e a quella situazione: lascelta, e la sottolineatura, di molti di quei testi non affonda le radici, o non leaffonda soltanto, in vedute storiografiche da documentare – l’accento batte, diproposito, su valori che sembravano correre un rischio mortale, e sui quali èfondata la nostra civiltà. Chi non tenga conto delle condizioni dell’Italia e del-l’Europa in quegli anni, non comprenderà il motivo di certe accentuazioni e dicerte enfasi, e neppure di certi «appassionamenti» nel lavoro storiografico. Ma sele passioni del presente pesarono allora forse troppo sulla visione del passato, èpur vero che giovarono anche a penetrarne elementi prima sfuggiti4.

3 M. Ciliberto, Appunti per una storia della fortuna di Machiavelli in Italia: F. Ercole eL. Russo, «Studi storici», X (1969), pp. 799-832: 816 e 823-824. Sulla delicata questione siè più volte espresso lo stesso Garin (vd. ad es. Intervista sull’intellettuale, a cura di M.Ajello, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 34-39: 37: «in Italia si faceva dell’antifascismo ripen-sando Socrate o Pico della Mirandola. [...] Chi non scelse l’esilio o la galera, ‘giuocò’ nellospazio che gli era concesso e ne sfruttò le possibilità»; e Colloqui con Eugenio Garin. Unintellettuale del Novecento, a cura di R. Cassigoli, Firenze, Le Lettere, 2000, pp. 24-25),che dichiarò fra l’altro di aver voluto fare nel 1945, con la sua Storia della filosofia, una«professione di fede antifascista» (ibidem, p. 47; nell’Avvertenza dell’opera spicca una cita-zione di Piero Martinetti, il filosofo che nel 1931 dovette abbandonare l’insegnamentouniversitario per aver rifiutato di prestare giuramento al regime). Ma vd. ora le equilibrateconsiderazioni di P. Rossi, Eredità occulte: intellettuali italiani nel dopoguerra, «Rivista difilosofia», C (2009), pp. 99-115: 100-103, dove si sottolinea fra l’altro che «Garin fu unodei principali sostenitori della tesi del nicodemismo degli intellettuali». Data la naturacomunque ambigua del fenomeno, ho preferito definire quegli intellettuali ‘non fascisti’piuttosto che ‘antifascisti’; del resto, il ‘nicodemismo’ culturale fu un’operazione quantomai ‘sofisticata’ ed ‘elitaria’ (e talora, anzi, del tutto ‘privata’), non percepibile al di fuoridella ristretta cerchia degli specialisti e dunque, di fatto, priva di conseguenze politiche (ilche spiega anche perché quegli studi non cadessero sotto la scure della censura).

4 Garin, Il Rinascimento italiano, pp. 7-8 (l’Introduzione è ora compresa in E. Garin,Interpretazioni del Rinascimento, a cura e con un saggio introduttivo di M. Ciliberto, 2voll., Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2009, vol. I, pp. 75-81). Alle pp. 5-6, unaricostruzione delle circostanze che portarono alla composizione dell’opera. E vd. anche,dello stesso Garin, Sessanta anni dopo (1989), in Id., La filosofia come sapere storico. Conun saggio autobiografico, Roma-Bari, Laterza, 1990, p. 140: «Il dramma del presente siriverberava sul passato: ci aiutava – pensavamo – a vedere il passato. [...] Non era pos-sibile capire quegli uomini [gli umanisti], quei tempi, quella cultura, a prescindere dallevicende politiche e morali» (corsivo dell’autore); nonché l’Avvertenza premessa all’ed.

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Ed ecco dunque, nell’antologia del 1941, i molti passi desunti daesponenti dell’Umanesimo che allora si definiva ‘civile’; ecco le pagine diPico sulla dignità dell’uomo, di Giovanni Pontano contro la schiavitù, diSavonarola sul ‘tiranno’, di Guicciardini in lode del suicidio di Bruto e diCatone per amore della libertà; ecco, allineati alla fine del capitolo VII(dedicato a La vita politica), i numerosi e ampi brani sulle congiure e suitirannicidi (Stefano Porcari, Girolamo Olgiate, Pietro Paolo Boscoli, Lo-renzino de’ Medici)5; ed ecco anche i passi di Machiavelli, che, se nonnumerosissimi (ad altri autori, come Alberti e Poggio, è infatti concessouno spazio ben più ampio nel volume), presentano nondimeno analoghecaratteristiche. Basti pensare a quel brano del capitolo 10 del libro I deiDiscorsi che Garin descrive, nel relativo cappello, come una «requisitoriafierissima contro il cesarismo» e «un singhiozzo sulla morta libertà italia-na»; o agli immediatamente successivi tre passi (due dalle Istorie fiorenti-ne, uno dai Discorsi) in cui – come si legge nel cappello – «la genesi dellaSignoria, quella di Cosimo, è dal Machiavelli chiaramente messa in luce,insieme con quella sua fiera avversione alla tirannide, che l’abito dell’ana-lisi non riesce a celare»6. È risaputo, d’altronde, che, se occuparsi diMachiavelli non è stato mai soltanto un mero esercizio di storiografia o dicritica accademica, ancor meno lo fu in quei decenni tra le due guerre;allora (scrisse Garin nel 1958) «impegnarsi su Machiavelli non era analiz-zare un momento qualsiasi della cultura italiana: significava prendereposizione su tutte le questioni fondamentali della storia e della politicaitaliana»7. Non per nulla, aprendo il suo saggio del 1990 su Polibio e

1986 dell’Umanesimo italiano, p. 2: «avevo respirato l’atmosfera fra le due guerre, quan-do la parola del passato si caricava di tutte le tensioni di un momento di crisi».

5 Eloquenti le parole che introducono un passo tratto dall’Apologia di quest’ultimo,definita «un monumento mirabile, non solo di logica ferrea, ma di pensiero politico:uccidere il despota, costi anche la vita, è il più doloroso, ma il più imperioso dovere delcittadino, ché il despota è, di tutti i nemici esterni ed interni, il più deleterio» (Garin, IlRinascimento italiano, p. 249).

6 Le citazioni, rispettivamente dalle pp. 223-224 e 225. Analogamente, a propositodella polemica di Poggio Bracciolini con Guarino Veronese intorno a Cesare e aScipione (1435), Garin afferma (p. 221): «Vi freme l’antitesi fra l’ideale di libertà repub-blicana e il cesarismo. Essa è la premessa delle vibranti osservazioni di Machiavelli, ap-punto su Cesare e Scipione».

7 E. Garin, Gramsci nella cultura italiana, in Studi gramsciani. Atti del I Convegnointernazionale di studi gramsciani, Roma, 11-13 gennaio 1958, Roma, Editori Riuniti,1958, pp. 395-418: 413 (poi in La filosofia come sapere storico [1959], e poi ancora in Lafilosofia come sapere storico. Con un saggio autobiografico, pp. 93-116: 111, donde si

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Machiavelli, Garin volle rievocare la forte impressione che suscitò in lui«la lettura nel 1942 di un libro su Machiavelli, uscito nella primavera diquell’anno a Parigi, opera di Augustin Renaudet». E così proseguiva:

Ricordo che nelle pagine di Renaudet mi colpì l’eco dei primi studi di HansBaron, le cui pagine negli anni Trenta mi era capitato di leggere più volte nellestesse riviste su cui pubblicavo i miei primi lavori. Non a caso. Stavamo scopren-do, tutti, un altro modo di leggere questi testi, un altro modo di intendere quel-l’appassionato rapporto con alcune grandi esperienze culturali dell’umanità. Era-no, senza dubbio, letture tendenziose, in un clima teso, dove la pagina di Tucidi-de o di Tacito si vestiva di colori singolari, dove tutto acquistava risonanze etichee politiche attuali. Erano attualizzazioni da correggere, ma senza le quali bendifficilmente avremmo colto il fondo di quei testi, e ritrovato il sapore di quelleesperienze. Così Renaudet proiettava sulla tragicità del suo Machiavelli l’ombradella tragedia europea, come Baron leggeva nella Firenze repubblicana del suoBruni un’utopia mai realizzata nei secoli moderni: una città di liberi e uguali.Tutti cercavamo alle radici i motivi del dramma che stavamo vivendo, il segretodi una sconfitta dell’Europa moderna e la possibilità di un riscatto8.

Il medesimo Renaudet, nella prefazione alla seconda edizione del suolibro (apparsa nel 1956), ricostruiva in termini analoghi la situazione e ilclima in cui, nel 1942, aveva visto originariamente la luce il suo volume:

Les Français n’avaient alors d’autre divertissement que la lecture. Machiavelétait devenu ce qu’il n’avait jamais été de son vivant, un prophète armé, l’un deceux dont une politique en possession de la force invoquait le nom. Ceux quen’avait pas favorisés la fortune des armes pouvaient consacrer un peu de leurstristes loisirs à l’étude objective d’une doctrine sévère qui, née de la détressed’une cité et d’un citoyen, avait, pour une oeuvre de salut publique, abaissé leslibertés sous le niveau de la raison d’État, sous la conduite d’un despotisme prin-

cita). A questo proposito cfr. in particolare Ciliberto, Appunti per una storia della fortu-na di Machiavelli, pp. 799-803; e C. Dionisotti, Machiavellerie di ieri e di oggi, in Delmodo di insegnar presiedendo senza campanello. Studi in ricordo di Giulia Gianella, a curadi F. Beltraminelli, Bellinzona, Edizioni Casagrande, 2006, pp. 118-130: 126-130.

8 E. Garin, Polibio e Machiavelli, «Quaderni di storia», XXXI (1990), pp. 5-22: 8(donde si cita; poi, leggermente rivisto, in E. Garin, Machiavelli tra politica e storia,Torino, Einaudi, 1993, pp. 3-28; e ora – ma col titolo Machiavelli e Polibio – in Id.,Interpretazioni del Rinascimento, vol. II, pp. 353-367). Due saggi di Baron (La rinascitadell’etica statale romana nell’Umanesimo fiorentino del ’400 e Lo sfondo storico del Rina-scimento fiorentino, apparsi rispettivamente nel 1935 e nel 1938) sono citati da Garinnell’antologia Il Rinascimento italiano, p. 133, a proposito della Vita civile di MatteoPalmieri.

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cier qui se fût prétendu génial ou d’une république dictatoriale et jacobine. Dansces textes impérieux, et ambigus, où revivent tant de colères, d’enthousiasmesdéçus, de calculs positifs et vains, on pouvait rechercher, à défaut de leçons pra-tiquement utilisables et de principes vrais d’action, quelques modèles d’uneanalyse politique attentive de préférence à l’étude des crises et des désastres, dela fondation et de la restauration des États9.

Ho indugiato su questo aspetto perché lo ritenevo necessario al fine diinquadrare storicamente in modo adeguato le pagine su Machiavelli eGuicciardini comprese, come detto, nel secondo tomo della Filosofia, lagrande storia del pensiero italiano medievale e moderno che uscì per laVallardi nella «Storia dei generi letterari italiani» e che costituiva il se-condo volume dell’impresa avviata nel 1905 da Giovanni Gentile, autoredell’incompiuto primo volume, pubblicato a fascicoli e interrottosi conLorenzo Valla nel 191510. Il libro di Garin, edito nel 1947, fu in realtàcomposto – per quanto riguarda il tomo che ci interessa, il secondo –durante la guerra, dietro invito dello stesso Gentile (salutato nell’Introdu-zione come «lo storico maggiore che il pensiero italiano abbia avuto nel900»)11; particolare importante, questo, per ciò che Gentile significava in

9 A. Renaudet, Machiavel, nouvelle édition revue et augmentée, Paris, Gallimard,1956 (1942), p. 9.

10 Sulla genesi di questo libro vd. quanto lo stesso autore scrisse in Sessanta annidopo, pp. 144-145 (e vd. anche Colloqui con Eugenio Garin, pp. 17-18).

11 E. Garin, La filosofia, vol. I, Dal Medio Evo all’Umanesimo, Milano, Vallardi,1947, p. 13. Nel 1947, la conservazione di questo giudizio (e di altri diffusi elogi che adesso seguono in quelle pagine proemiali, scritte probabilmente durante la guerra macerto aggiornate in seguito, giacché di Gentile vi si parla al passato) è documento dellagratitudine e dell’obiettività di Garin; del resto, nello stesso 1947 egli ripubblicò conalcune modifiche e aggiunte sul «Giornale critico della filosofia italiana» (XXVI, pp.117-128) un saggio su Giovanni Gentile interprete del Rinascimento (poi ristampato an-che l’anno seguente in Giovanni Gentile. La vita e il pensiero, Firenze, Sansoni, 1948,pp. 207-220) già apparso con lo stesso titolo nel 1944, all’indomani dell’assassinio delfilosofo («La Rinascita», VII, pp. 63-70): saggio in cui si ribadisce l’importanza di Gen-tile nella storia della cultura italiana, definendolo un «maestro» e sostenendo che «nonè lecito mai ignorarlo, poiché la sua voce non è spenta» (p. 128; anche se ora vienetagliata la frase che concludeva l’articolo nella versione del 1944, p. 70, dove si rendevasolenne omaggio al «magistero spirituale cui Egli ha diritto oltre ogni contrasto ed oltrela morte»). Anche in anni assai più tardi, Garin riconfermò i suoi debiti e la sua ammi-razione nei confronti di Gentile: vd. in particolare Intervista sull’intellettuale, pp. 22-60(soprattutto p. 51: «Al molto di cui sono debitore a Gentile filosofo e storico grande, alringraziamento per la sua fiducia nel mio lavoro, si unisce nel ricordo la gratitudine perla sua coraggiosa umanità»).

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quegli anni nella cultura italiana, vale a dire per la sua ben nota aperturaverso la migliore intellighenzia anche non fascista e per le sue doti noncomuni di talent scout, non diversamente da quel Gioacchino Volpe che,non a caso, aveva commissionato a Garin l’antologia sul Rinascimentoitaliano, e che Garin ringraziò in calce alla sua Introduzione (ringrazia-mento conservato – eccezion fatta per la soppressione del titolo di «SuaEccellenza» dovuto nel 1941 a un accademico d’Italia – anche nella ri-stampa del 1980). Questi due volumi – opera poderosa, per ampiezza didocumentazione, lucidità di analisi e capacità di sintesi, di un Garin pocopiù che trentenne – meriterebbero un lungo indugio12; ma anche se cilimitiamo, come in questa sede dobbiamo necessariamente fare, alle pagi-ne su Machiavelli e Guicciardini, possiamo riscontrarvi forti motivi diinteresse e rintracciarvi elementi utili alla ricostruzione tanto della perso-nalità intellettuale di Garin, quanto, in generale, della storia degli studimachiavelliani nella prima metà del ’900.

I paragrafi dedicati ai due grandi fiorentini rivelano, in effetti, profon-da conoscenza e sagace messa a fuoco del ricco dibattito critico coevo.Per Machiavelli13, la bibliografia citata da Garin annovera, oltre alle ope-re allora già ‘classiche’ di Villari e Tommasini, i nomi di Achille Norsa,Francesco Ercole, Friedrich Meinecke, Felice Alderisio, Allan H. Gil-bert, Luigi Malagoli, Rodolfo De Mattei e Ugo Spirito; ma queste pagine,ovviamente, intrattengono un fitto dialogo anche con Gentile, Croce eRusso. Del pensiero del Segretario, Garin sottolinea qui con forza da unaparte – sulla scorta del Meinecke, esplicitamente citato in apertura –«l’accettazione della suprema necessità» naturale e storica che condizio-na in ogni circostanza l’agire dell’uomo14, e dall’altra la tipicamente rina-scimentale «valorizzazione dell’umana potenza e dell’umano volere», os-

12 Vd. intanto le osservazioni di Cesa, Momenti della formazione di uno storico dellafilosofia, pp. 26-31.

13 Garin, La filosofia, vol. II, Dal Rinascimento al Risorgimento, pp. 176-187, dondesono ricavate le citazioni che seguono.

14 Ibidem, p. 176: «L’accento del Machiavelli – e l’ha bene notato il Meinecke – battesu questa bronzea necessità» (e subito prima aveva parlato di «intrinseca inderogabilenecessità»). Cfr. F. Meinecke, L’idea della ragion di stato nella storia moderna, trad. it. diD. Scolari, Firenze, Sansoni, 1970 (ed. orig. München-Berlin, Oldenbourg, 1924; nellabibliografia, Garin cita l’ed. italiana del 1942, Firenze, Vallecchi), p. 37: «Virtù, fortunae necessità sono tre parole che riecheggiano con suono di bronzo in tutti i suoi [diMachiavelli] scritti» (e in generale cfr. pp. 37-38). Meinecke è l’unico studioso esplicita-mente nominato in queste pagine da Garin.

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sia della virtù; ma non esita, subito dopo, a mettere in evidenza l’ambi-guità della sua nozione di fortuna, vista ora come «l’oggettività naturaleche l’uomo doma afferrandone l’immutabile e necessario ordine in cuiegli stesso è inserito», ora come «un’avversa potenza maligna». Di conse-guenza, la stessa virtù machiavellica risente a suo parere di tale ambiguostatuto, per cui, se «l’azione sembra talora giustificarsi nell’instaurazionedi un regno del bene comune o politico sull’immediato giuoco di forzenaturali, altre volte la politicità si frantuma negli espedienti onde unaforza può trionfare su un’altra forza».

Come appare evidente, Garin si distacca tanto da Ercole (rifiutandonel’interpretazione attivistico-volontaristica e nazionalistica di Machiavelli),quanto da Croce (respingendone l’idea della separazione della politicadalla morale: «neppure il problema dei rapporti fra politica e morale –scrive infatti – noi troviamo da lui posto con chiarezza, irretito com’èdall’ambiguità di certe tesi»), e propone una visione ben altrimenti disin-cantata e critica del pensiero machiavelliano, influenzata in particolaredalle analisi di Malagoli15 e di Spirito, nonché di Gentile e di Russo, main una prospettiva più fortemente etica, che è eloquente testimonianzadel sofferto «esistenzialismo religioso» (come è stato definito) proprio

15 Garin, pur senza mai nominarlo, dialoga a più riprese col recente volume di L.Malagoli, Il Machiavelli e la civiltà del Rinascimento, Milano, Istituto per gli studi dipolitica internazionale, 1941 (peraltro compreso nella bibliografia in calce al capitolo),dal quale – caso unico in queste pagine – ricava anche, sottoscrivendola, una citazioneletterale, a p. 181: «È stato detto con finezza: “la fortuna ha due sensi: è il potere chedall’alto governa le cose umane e in balìa della quale è la stessa virtù, ed è la fortuna chesi oppone alla virtù e che alla virtù sta a vincere e piegare ai suoi fini”. Oggettività, si èsoggiunto, nell’un caso e nell’altro» (parole leggibili alle pp. 46-47 del libro di Malagoli,che analogamente commenta: «Nell’un caso e nell’altro ha un valore nettamente og-gettivistico»). Chiari riferimenti a Malagoli anche a p. 177: «Il mutamento è una circola-zione per entro i confini di questa necessità, una vita, per così dire, interna, che, come èstato giustamente osservato, non incrina in nulla la compatta unità di questa realtànaturalisticamente intesa» (vd. Malagoli, ad es. pp. 16-18: «in lui [...] è una visioneampia e compatta della vita storica. Il sentimento dell’unità delle cose è uno strumentod’ineguagliabile concretezza»; «il mondo è uno e compatto ed è compreso staticamenteentro questa unità e compattezza»); e a p. 182: «Se è vero, come è stato affermato, chenella fortuna permane la trascendenza in forma laicizzata [...]» (vd. Malagoli, p. 42: «lafortuna machiavelliana è una trascendenza naturalizzata e vestita d’abiti laici»; ma vd.anche U. Spirito, Machiavelli e Guicciardini, Firenze, Sansoni, 1970 [I ed. Roma, Edizio-ni Leonardo, 1944], p. 44: «lo stesso senso della trascendenza è nel concetto di fortunadi Machiavelli»). Non meno rilevante, nel paragrafo gariniano su Guicciardini, apparel’influenza del libro di Malagoli dedicato allo storico (vd. qui più avanti, p. 136).

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del Garin giovane e della sua concezione drammatica dell’esistenza e del-la storia16: Machiavelli – egli scrive – «oppone singolo a singolo, forza aforza», teorizzando il «dominio sulla forza» non «mediante una ragioneche è anche forte, ma mediante una forza più forte». In tal modo, egliriduce «l’abilità del reggitore a mera astuzia che non muta in nulla lasituazione in cui si trova e sulla quale si appiattisce», cosicché la sua virtùspesso «non vince fortuna, non riplasma e trasforma l’oggetto, ma vi siadegua e vi si perde», diventando niente più che una «tecnica abile» e un«prudente accorgimento». Ne consegue che «la forza naturale (inganno)non è sottilmente spiritualizzata (rispetto della fede), ma è riconosciutacome tale e vinta con un altro inganno, ma perciò stesso non vinta e solosfruttata per un’apparente vittoria, che rimane il prevalere di un partico-lare su un altro particolare» (qualcosa di simile aveva scritto già LuigiRusso nei suoi Prolegomeni a Machiavelli [1931]: «cotesta virtù machia-vellica [...] nella sua aderenza alla realtà effettuale alla fine si rivela, nellasua assorbente autolatria, caduca, angusta e mediocremente egoistica»)17.

16 Cfr. M. Ciliberto, Una meditazione sulla condizione umana. Eugenio Garin inter-prete del Rinascimento, «Rivista di storia della filosofia», LXIII (2008), pp. 653-692 (poiripubblicato come introduzione a Garin, Interpretazioni del Rinascimento, vol. I, pp. VII-LIII): 675 e 678 (e in generale 667-681, con l’accurata ricostruzione degli orientamentifilosofico-morali e religiosi di Garin in questa prima fase della sua vita e della sua attivi-tà). Significativi, nell’ottica che qui ci interessa, certi passi (riportati ibidem, p. 668) disaggi gariniani quali La ‘dignitas hominis’ e la letteratura patristica, del 1938 («[la storiaumana] è storia di colpa e di eroismo che rende possibile la grandezza, come testimoniaappunto l’esperienza cristiana, che intreccia colpa e redenzione, umiliazione ed esalta-zione dell’uomo»), o Giovanni Gentile interprete del Rinascimento, nella versione del1944 («la vita è dramma, è colpa, è peccato. Il bene deve sempre discutere e lottare colmale; ciò che si afferma, che riesce, che si colloca nella realtà, è spesso fasciato d’ombrae di male. E Cristo, non a caso, gli uomini venerano inchiodato sulla Croce»). Ma sututto questo vd. anche Cesa, Momenti della formazione di uno storico della filosofia, pp.15-34.

17 L. Russo, Prolegomeni a Machiavelli, Firenze, Le Monnier, 1931, p. 34. Gli echi diRusso non sono rari in queste pagine gariniane. Il più evidente alle pp. 725-726 de Lafilosofia, vol. II, Dal Rinascimento al Risorgimento: «Fu detto, infatti, che la considera-zione machiavellica della religione non era che una conseguenza del capovolgimento dalui operato rispetto al Medioevo, avendo egli sostituito, alla subordinazione di tutti ivalori alla città celeste, la universale dipendenza di tutto dalla città terrena, vero assolutoin terra, rispetto a cui, quindi, la religione è puramente un mezzo» (cfr. Russo,Prolegomeni, p. 34: «Abbiamo in lui il capovolgimento completo del Medioevo: perl’uomo del Medioevo, anche la politica è soltanto e sempre religione [...]; per l’uomo delMachiavelli, contrariato da cotesta abiezione disarmata degli uomini, la stessa religionesi converte in mera politica»; p. 38: «La trascendenza medievale è violentemente negata,

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Un giudizio, questo, che con parole ancora più dure era stato formulatoanche nell’antologia del 1941 sul Rinascimento italiano, dove il Segretarioveniva accusato di «astratto immoralismo, secondo cui la politica legitti-merebbe ogni malvagità, ogni cattiva azione, anzi le richiederebbe di ne-cessità», e dove – rinviando esplicitamente a Dilthey e Gentile – Garinaffermava senza mezzi termini:

Machiavelli sentì l’astrattezza e la fragilità di quello stato vagheggiato dal Ri-nascimento e fece ricorso ai buoni costumi, alla buona educazione, alla religionestrumento di regno; ma, ancora, l’estrinsecità della sua visione naturalistica dellareligione stessa e i limiti della sua concezione politica lo facevano dibattere in untravaglio senza uscita, gli facevan vagheggiare la Roma degli Scipioni con le artidi Catilina. «Terribile contraddizione interna: coi mezzi di Cesare Borgia eglivoleva veder fondato un nuovo e stabile assetto sociale!»18.

Ecco dunque che per Garin (sulla scorta, in questo caso, soprattuttodi Malagoli e di Spirito) Machiavelli è il vero teorico del particolare, e inciò risiede il suo più grave limite di pensatore e di politico: «Il che vedrà

è vero, in cotesta concezione, che fa capo alla virtù dell’uomo, ma non è effettivamenteabbattuta; se Dio è diventato estraneo alle faccende di questo mondo, la teolatria si èsoltanto capovolta in antropolatria. Il principe del Machiavelli è un nume trascendenteanch’esso, che opera al di sopra della realtà storica»; e p. 43: «lo Stato machiavellico [...]portà in sé trasfigurata ma ancora incondita la trascendenza medievale»: parole ripreseda Garin anche nella Storia della filosofia, 2 voll., Firenze, Vallecchi, 1945, vol. I, p. 288,dove si afferma che in Machiavelli «al Dio dei cieli» si sostituisce «quel Dio terreno cheè lo stato»). In séguito, Garin definì i Prolegomeni e il saggio su Francesco De Sanctis e lacultura napoletana (del 1928) «due scritti centrali nell’attività di Russo, e fra le opere piùimportanti della produzione italiana di oltre mezzo secolo» (Luigi Russo e la culturaitaliana fra le due guerre [1961], in Id., La cultura italiana tra ’800 e ’900, Roma-Bari,Laterza, 1976 [1962], pp. 179-211: 201-202), e il Machiavelli dello stesso Russo (che,uscito nel 1945, include anche i Prolegomeni) il suo libro «forse più stimolante» (ibidem,p. 195).

18 Garin, Il Rinascimento italiano, p. 216 (il passo fa parte della premessa alla sezioneVII, La vita politica). La citazione finale, come l’autore stesso informa, è desunta da G.Dilthey, L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura dal Rinascimento al sec. XVIII, pref.e trad. it. di G. Sanna, 2 voll., Venezia, La Nuova Italia, 1927, vol. I, p. 42 (volume cit.anche nella Nota bibliografica, p. 21); ad essa segue un rinvio agli Studi sul Rinascimentodi Giovanni Gentile (nell’ed. del 1923, Firenze, Vallecchi, pp. 110 sgg., capitolo Religionee virtù in Machiavelli), dove leggiamo parole (come quelle sullo stato machiavelliano qua-le «forza astrattamente concepita» e quelle sul «modo tutto estrinseco e naturalistico diguardare la religione, proprio del Machiavelli») qui chiaramente riecheggiate da Garin. Ilquale ribadirà poi tale valutazione negativa di Machiavelli nel breve paragrafo a lui dedi-cato all’interno della Storia della filosofia, vol. I, pp. 287-288.

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benissimo Campanella quando rimprovererà a Machiavelli di non avermai compreso il tutto, il bene del tutto: di aver considerato sempre ilparticolare nella sua povertà estrema, onde la virtù machiavellica, chepareva doversi celebrare come vittoria della libertà umana, si trasformain scelleratezza». Riflessioni, queste ultime, fortemente debitrici nei con-fronti di Gentile19, così come da Gentile – e dal suo allievo Spirito –discendono sia la sottolineatura del ‘limite’ individualistico e soggettivi-stico della virtù machiavelliana, sia, contro Francesco Ercole, la negazio-ne che nel Segretario si trovi una salda dottrina dello Stato inteso comefine supremo.

Poste queste premesse, è naturale che l’obbligatorio confronto conGuicciardini20 dovesse risolversi, per Garin, a favore di quest’ultimo, nelsolco di quanti, in quegli stessi anni, andavano reagendo alla tradizionalesvalutazione desanctisiana (fatta propria dal Villari e poi ancora condivi-sa nella prima metà del XX secolo da Croce, Ercole, Plinio Carli e Russo,nonché da Gramsci), per contrapporre a un Machiavelli astratto, dogma-tico e utopista un Guicciardini ben altrimenti concreto ed empirista, in-teressato non alle «regole» e alle generalizzazioni, ma piuttosto alle og-gettive analisi storico-politiche21: «Machiavelli, nonostante il suo richia-

19 Gentile, Studi sul Rinascimento, p. 112, e Il pensiero italiano del Rinascimento,Firenze, Le Lettere, 2003 (1920), p. 372. Ma vd. anche Meinecke, L’idea della ragion distato, pp. 98 e 100-102 (in particolare p. 102, dove si parla della «grandiosa unilaterali-tà» di Machiavelli, «con cui i diversi campi della vita conquistarono a poco a pocoautonomia e libertà di movimento e crebbero a inaspettata produttività [...]; essa provo-cò però a un tempo una lotta tra i diversi campi della vita, che minacciò la vita socialenel suo insieme e diventò il problema dell’umanità moderna»).

20 Garin, La filosofia, vol. II, Dal Rinascimento al Risorgimento, pp. 187-192 (dondele citazioni che seguono).

21 Cfr. per questo G. Sasso, Per Francesco Guicciardini. Quattro studi, Roma, Istitutostorico italiano per il Medio Evo, 1984, p. IX: «Ci fu un tempo in cui varie passionicostrinsero a studiare il Guicciardini nei termini di un confronto con Machiavelli, quasifatalmente orientato a sottolineare la ‘inferiorità’ del primo rispetto al secondo; e quandoal verdetto di condanna si cercò di reagire, il risultato fu forse anche peggiore, perchéproprio non era il caso di indicare nell’autore del Dialogo una coscienza ‘speculativa’ piùricca e matura di quella che aveva dettato le analisi del Principe e dei Discorsi. Da AlfredoOriani a Ugo Spirito e oltre, questo filone interpretativo si è svolto sotterraneo ma tena-ce, costituendo una sorta di sottile controcanto e proponendo il tema di una paradossaleprovocazione, rivolta contro la communis opinio» (e anche pp. 1-3, dove il Garin dellaFilosofia e di Medioevo e Rinascimento viene incluso tra gli esponenti principali di questalinea storiografica). Sull’argomento vd. anche V. Luciani, Francesco Guicciardini e la for-tuna dell’opera sua, ed. italiana a cura di P. Guicciardini, Firenze, Olschki, 1949 (ed.

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mo alla “realtà effettuale”, aveva troppo amato la generalizzazione astrat-ta; Guicciardini è preoccupato di conservare l’umiltà di fronte ai fatti,che sono gli unici a noi cogniti e rappresentano per noi l’unico mezzo diorientamento». Tra i molti studiosi cui Garin si affianca nel sostenerequesta tesi, basti ricordare quelli da lui citati nella bibliografia, vale a direLuigi Malagoli, Paolo Treves22 e ancora Ugo Spirito (il cui Machiavelli eGuicciardini uscì nel 1944)23; ma, di nuovo, un ruolo importante giocano

originale New York, Karl Otto & Comp., 1936), pp. 358-368: La riabilitazione dell’uomoe del pensatore politico (il volume è cit. da Garin nella bibliografia); e ora E. Cutinelli-Rèndina, Guicciardini, Roma, Salerno, 2009, pp. 293-301.

22 L. Malagoli, Guicciardini, Firenze, La Nuova Italia, 1939, pp. 70-71 e 121-123 (maanche Id., Il Machiavelli e la civiltà del Rinascimento, ad es. p. 72: «Il teorizzatore prevalein lui; còlto un motivo della storia d’Italia, ne fa un’idea che serve a spiegarla intera; ilparticolare, le singole variazioni della storia gli sfuggono e l’idea serve a illuminare tuttauna storia: in questo veramente medievale è il Machiavelli rispetto al Guicciardini, perchéla storia in lui non è molteplice e viva»; e pp. 50-60, 66 e 183, dove ripetutamente si parla,a proposito di Machiavelli, di «idealismo», «utopia», «dogmatismo», «ideologismo» e ditendenza all’«astrazione» concettuale); P. Treves, Il realismo politico di FrancescoGuicciardini, Firenze, La Nuova Italia, 1931, in particolare pp. 14-21, 50, 57, 108-109,127-129 (contro il quale, non a caso, polemizzò Gramsci nei Quaderni: vd. A. Gramsci,Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo stato moderno, Torino, Einaudi, 1966, pp. 39,85-87). Fra quanti in vario modo e a vario titolo respinsero il giudizio desanctisiano suGuicciardini, lo stesso Malagoli (Guicciardini, pp. 136-138) ricorda anche AlessandroLuzio, Giuseppe Toffanin, Umberto Benassi e André Otetea, ai quali si possono aggiun-gere Alfredo Oriani (cfr. ora L. Curreri, Oriani lettore di Francesco Guicciardini, in Fran-cesco Guicciardini tra ragione e inquietudine. Atti del convegno internazionale di Liège, 17-18 febbraio 2004, a cura di P. Moreno – G. Palumbo, Liège, Bibliothèque de la Faculté dephilosophie et lettres de Université de Liège, 2005, pp. 195-206) ed Emilio Bodrero(Francesco Guicciardini, in Francesco Guicciardini nel IV centenario della morte [1540-1940], Firenze, Centro nazionale di studi sul Rinascimento, 1940, pp. 29-48).

23 Spirito, Machiavelli e Guicciardini, ad es. pp. 52, 101 («Si è visto come l’ideale diMachiavelli avesse fondamento nella sua anima di artista e come la nuova scienza dellapratica, da lui instaurata, si conciliasse leonardescamente con l’arte. Con Guicciardini ilconnubio non è più possibile e l’empirismo non può più superare l’immediatezza dellacostruzione sperimentale. Finisce l’artista, finisce l’umanista, e con lui svanisce l’ipostasidell’idea di patria che rivela i limiti machiavelliani di uno pseudouniversale. [...] Al suoposto resta una scienza più circoscritta e incapace di voli lirici verso presunti valori sogna-ti, ma anche un senso critico o una severità di giudizio che è garanzia di serietà spirituale.E Guicciardini, checché si pensi della sua opera, ha certamente il merito di un rigorosocriticismo, che anticipa, contro ogni abito retorico, il carattere più proprio del pensieromoderno») e 109. Anche Federico Chabod, che in un primo tempo aveva sposato piena-mente la svalutazione desanctisiana di Guicciardini rispetto a Machiavelli (cfr. Del «Princi-pe» di Niccolò Machiavelli [1925], in Id., Scritti su Machiavelli, Torino, Einaudi, 1980, pp.

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certe precise suggestioni di Gentile, che aveva parlato esplicitamente diun Machiavelli «idealista», anzi addirittura «ficiniano» e «platonizzante»,il cui «programma d’azione» non è altro che «una costruzione teorica»,contrapponendogli il «concetto più realistico del rapporto tra virtù e for-tuna» caratteristico del Guicciardini, e arrivando a dire – con parolechiaramente riecheggiate da Garin – che «il suo [di Machiavelli] realismopolitico, quella concezione dello spirito, della storia, dello Stato, fondatasulla visione della realtà effettuale e illuminata dalla lezione degli antichi,non è, come il positivismo guicciardiniano, un empirismo, ma una vera epropria speculazione»24 (non casualmente, nell’antologia Il Rinascimentoitaliano, Garin accostava Guicciardini non tanto a Machiavelli, quantosoprattutto al «concreto» Savonarola, come accadrà poi anche nel ‘ritrat-to’ del Frate scritto nel 195225; in ciò distaccandosi da Russo, il quale,com’è noto, aveva invece stretto fortemente il nesso Machiavelli-Savona-rola, descrivendoli come due riformatori opposti ma complementari nellaloro non dissimile e parimenti astratta unilateralità)26.

94-98 e 106-107), approdò, nella ‘voce’ su Guicciardini da lui redatta per l’Enciclopediaitaliana (vol. XVIII, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, 1933, pp. 244-248; poi in Id., Scritti sul Rinascimento, Torino, Einaudi, 1967, pp. 225-237), a una visionepiù articolata ed equilibrata, riconoscendo la «sicurezza di giudizio» e la «modernità» delgrande storico (cfr. al riguardo G. Sasso, Profilo di Federico Chabod, in Id., Il guardianodella storiografia. Profilo di Federico Chabod e altri saggi, Napoli, Guida, 1985, pp. 68-69).

24 Gentile, Il pensiero italiano del Rinascimento, pp. 89, 170, 188, 372. Ma già OresteTommasini aveva scritto che Machiavelli «à sempre bisogno d’un ideale che l’indirizzi egli valga di fondamento alla pratica» (La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli, 2 voll. in3 tomi, Roma-Torino-Firenze, Loescher, 1883-1911, vol. II.1, p. 199). Non casualmente,scrivendo il 12 luglio 1971 a Mario Martelli, Garin ne elogiò caldamente l’Introduzionealla sua ed. di Tutte le opere machiavelliane (Firenze, Sansoni, 1971, pp. XI-XLVII), la cuiidea di fondo – giudicata da Garin «non solo felice, ma funzionante» – è quella di unMachiavelli costantemente animato dalla tendenza a muovere «dall’universale al partico-lare», a «studiare i fenomeni ‘in vitro’ [...] estraendoli dal loro spazio vitale e concreto,e cercando in essi la conferma di una regola» (giacché in lui «l’esperienza concreta nonsuggerisce la regola, ma la presuppone», e «il mondo delle idee machiavelliane restaintatto e immutabile per tutto l’arco della vita»). La lettera di Garin – come tutto ilcarteggio martelliano – è attualmente in mio possesso, per gentile concessione della si-gnora Graziella Martelli.

25 L’aggettivo concreto, riferito a Savonarola, è nella premessa al cap. VII del Rinasci-mento italiano, p. 217. E vd. E. Garin, Ritratti di umanisti. Sette protagonisti del Rinasci-mento, Milano, Bompiani, 2001 (I ed. Firenze, Sansoni, 1967), pp. 167-168 (a p. 168: «idebiti del Guicciardini al Savonarola sono non pochi e molto significativi»).

26 Russo, Prolegomeni, pp. 11-14. Su questo aspetto dell’interpretazione machia-

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Garin, però, non si ferma qui, ma, recuperando l’idea crociana di un«anelito» – che sarebbe implicito in Machiavelli – «verso un’inattingibilesocietà di uomini buoni e puri»27 (Gennaro Sasso parlerà al riguardo di«nostalgia della moralità», così come Croce, seguìto in questo da Russo,aveva parlato di «austera e dolorosa coscienza morale»)28, insiste sul «dis-sidio» machiavelliano tra le dure leggi della pratica politica e «la nostal-gia di un bene di ordine diverso, di una virtù che non sia solo trionfoterreno» (Ugo Spirito, analogamente, attribuisce al Segretario un autenti-co «bisogno di assoluto»)29. Sta qui – scrive ancora Garin – «tutta lasuperiorità del Guicciardini sul Machiavelli, nell’assenza di ogni ricono-scimento di esigenze etiche che superino il potenziamento dell’uomo inquanto individuo». Dunque, un Guicciardini più ‘laico’ (Garin parla di«mondanizzazione degli ideali»), interamente risolto in un puro agirepolitico privo di aspirazioni superiori e mosso da un interesse proprio (il«particulare») in cui però l’onore e la gloria del singolo vengono tanto

velliana di Russo pose l’accento lo stesso Garin, Luigi Russo e la cultura italiana fra ledue guerre, pp. 202-203.

27 B. Croce, Machiavelli e Vico. La politica e l’etica, in Id., Etica e politica, Bari,Laterza, 1981 (1931), p. 205.

28 Cfr. G. Sasso, Problemi di critica machiavelliana (1963), in Id., Studi su Machiavel-li, Napoli, Morano, 1967, pp. 62-64, 69, 73, dove si sostiene che nella negazione ma-chiavelliana della morale vibra un doloroso rimpianto per il mondo perduto dell’etica,una «nostalgia della moralità», ossia una aspirazione ad essa, che pure è sentita come‘trascendente’ rispetto alla realtà della politica (cfr. anche, dello stesso G. Sasso, NiccolòMachiavelli. Storia del suo pensiero politico, Bologna, Il Mulino, 1980 [I ed. Napoli,Istituto italiano per gli studi storici, 1958], pp. 423 e 429). Quanto a Croce, vd. ancoraMachiavelli e Vico, p. 205 (e p. 208, dove si afferma che Machiavelli provava «ribrezzomorale» per l’inevitabile durezza della politica), oltre al più tardo La questione delMachiavelli (1949), in Id., Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, a cura di A.Savorelli, Napoli, Bibliopolis, 1998, p. 179: «Machiavelli non solo non negò la morale,ma fu egli stesso una delle più alte e dolorose anime morali, [...] e anelò e cercò semprel’attuazione della moralità nel mondo». Di Russo cfr. i Prolegomeni a Machiavelli, p. 40,dove si parla, a proposito del Segretario, di «senso tragico del male» e di «temperamen-to inquieto del moralista, che sente pungentissimo il tribolo del peccato e della virtù»(analogamente Malagoli, Il Machiavelli e la civiltà del Rinascimento, p. 109, riconosce inMachiavelli un «moralismo tacito e vivo»). Per Garin, nondimeno, questo non è untratto positivo di Machiavelli, e conferma anzi la sua astrattezza ‘idealistica’ rispetto aGuicciardini, cui un simile anelito è ignoto (come osserva anche il Croce, Machiavelli eVico, p. 206, che tuttavia trova in ciò una conferma della minore altezza dello storico edella sua esclusiva attenzione al vantaggio del proprio «particulare»).

29 Spirito, Machiavelli e Guicciardini, p. 44.

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naturalmente quanto raffinatamente a coincidere con il bene civile, al dilà di ogni ipocrisia come di ogni idealismo. In tal modo, il Guicciardinidi Garin oltrepassa «il contrasto machiavellico in un esaurimento pienodella moralità nella politicità», giacché nella sua visione politica «l’egoi-smo non si supera ma felicemente si compone con gli ‘altri’», in unapatria ormai senz’altro identificata con «la città terrena, ove non si lavoraper la lontana idea di un bene eterno e sovranaturale, ma si esaurisceogni sforzo per un ideale esclusivamente civile». Frasi, queste, nelle qualinon è difficile scorgere la lucida elaborazione (non priva di sfumaturepoliticamente ‘attuali’) di spunti affini reperibili, in particolare, nei giàpiù volte ricordati studi di Malagoli e Spirito. Se il primo, infatti, avevaaffermato tra l’altro che

il saggio Guicciardini, che vive nelle cose e sulle cose esercita attivamente il suoio, si ritrova in questo sentimento della limitatezza di ogni realtà, e ritrae da essoil senso della perseveranza nell’agire e la capacità di rifarsi continuamente ab ovodi fronte alle sconfitte e alle delusioni. Lo scetticismo guicciardiniano si trasfondein una morale attiva dell’operare; e dalla stessa fonte nasce quella lieve nota difatalismo che incombe sull’uomo e anima la sua concezione delle cose; ma non èpropriamente fatalismo, è saggio riconoscimento dei limiti che sono posti all’atti-vità umana e si trasforma in una seria e tranquilla convinzione della validità dellanostra vita entro questa cerchia ristretta;

e che

la moralità guicciardiniana è in questo interesse particolare che coincide conl’onore: qui è la sua concretezza e il suo segreto. Partendo da questo punto diriferimento l’anima si muove sul terreno concreto di questa coscienza dei suoiinteressi: l’interesse proprio alimenta il sentimento di sé e il sentimento di sé s’im-penna in una moralità alta e concreta, in cui tutto l’io, rinvigorito da questo sen-timento del particolare, si ritrova con una forza e una schiettezza singolari. [...]Entro l’ambito di questo sentimento la moralità si fonde col criterio utilitario30;

il secondo si era spinto ancora oltre:

La caratteristica fondamentale [...] dell’individualismo guicciardiniano è pro-prio questa: sentire, cioè, la propria realtà individuale superiore a tutto il restodel mondo, ma sentire al tempo stesso che la pienezza della propria vita è condi-zionata imprescindibilmente dall’accordo col mondo. L’individualismo, in altri

30 Cfr. Malagoli, Guicciardini, rispettivamente pp. 145 e 131 (ma vd. in generale pp.130-147; e anche Treves, Il realismo politico di Francesco Guicciardini, pp. 84, 94).

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termini, non significa rinunzia all’assoluto, ma la via che si crede più adatta alraggiungimento di esso. [...] Non che egli sostenga contro Machiavelli l’impor-tanza dell’essere contro il parere, ché anzi la sua preoccupazione è appunto quel-la del parere, ma la sua più fine sensibilità psicologica e la sua più ricca esperien-za di vita gli insegnano una tecnica dell’apparire che finisce col coincidere conl’essere. Ed è proprio per questa via che a Guicciardini è consentito di farsi pre-cursore dell’utilitarismo empiristico moderno, il quale presume di poter fare sca-turire dall’interesse particolare il bene comune o universale. Dal parere scaturiscel’essere e dall’economia la morale. Ma, perché il calcolo torni, occorre, natural-mente, intendere bene l’interesse proprio, non dimenticando che si tratta delbene di un individuo essenzialmente sociale e che della società ha bisogno per lapropria affermazione. [...] Di qui, naturalmente, la conseguenza della utilità difare il bene, anche se non se ne veda subito il guadagno. Il calcolo è raffinato emira lontano. [...] E allora si comprende come da questo calcolo ad ampio oriz-zonte possa scaturire una coincidenza pienamente consapevole di particolare euniversale31.

Una rielaborazione, quella di Garin, in cui non sarà arbitrario cogliereinoltre – nella piena valorizzazione di un Guicciardini attento non al gret-to particulare, ma piuttosto all’«io come individuo» – il riflesso del suointeresse, allora fortissimo, per quelle correnti del coevo spiritualismo edesistenzialismo (di matrice soprattutto francese) che ponevano il più forteaccento sul valore della persona umana concreta32; così come, analoga-

31 Spirito, Machiavelli e Guicciardini, pp. 112-115.32 Per questo aspetto e questa fase dell’evoluzione intellettuale e filosofica di Garin

cfr. ancora Ciliberto, Una meditazione sulla condizione umana, pp. 676-680, dove si insi-ste peraltro anche sull’importanza degli autori russi, in primis Dostoevskij e Tolstoi; einoltre Galasso, Storicismo, filosofia e sapere storico, pp. 36-38 e 45-50, dove si ricordache anche in anni recenti Garin ha sottolineato l’importanza dell’esistenzialismo nellasua formazione e nella maturazione della propria idea di Umanesimo (sotto questo pro-filo, rilevante è pure l’Avvertenza premessa da Garin alla ristampa del 1994 dell’U-manesimo italiano, pp. IX-XIX, a proposito dei suoi rapporti con Ernesto Grassi neglianni ’40; e anche, dello stesso E. Garin, Mezzo secolo dopo, «Belfagor», LIII [1998], pp.151-159). All’esistenzialismo e alla fenomenologia, del resto, egli volle dedicare l’ultimocapitolo della sua Storia della filosofia (1945), vol. II, pp. 269-287, scrivendo fra l’altroche «due sono i motivi salienti della filosofia d’oggi: il bisogno di oggettività e la riven-dicazione del valore della persona» (p. 269) e che «nella molteplicità varia dei suoi mo-tivi, l’esistenzialismo ha ricondotto la riflessione filosofica all’urgenza di problemi umaniche l’astrattezza intellettiva tendeva a mettere in ombra» (p. 286). Galasso, nel saggioora cit., riconduce almeno in parte alla matrice esistenzialistica del pensiero di Garinanche la sua costante predilezione per la filosofia e la storiografia gentiliane – in virtùdel loro richiamo alla «concretezza sia della vita vivente che del pensiero pensante» (p.

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mente, la diffidenza nei confronti di Machiavelli appare in lui alimentataanche dal «rifiuto del primato di un intero (stato, o partito, o chiesa)rispetto all’individuo»33, primato del quale è noto che molti dipingesseroin quegli anni proprio il Segretario fiorentino come uno dei massimi teo-rizzatori (basti pensare alle interpretazioni ‘nazionalistiche’ di Ercole e diNorsa, o a quelle ‘patriottiche’ di Cian e di Carli; e l’appropriazione di-storta di Machiavelli da parte di certo fascismo è senz’altro una delleragioni della scarsa attrazione esercitata allora su Garin – e non solo su dilui – dalla figura del Segretario). Parimenti – lo osserva ancora Cesa –, lavisione machiavelliana di un mondo dominato dall’aspro conflitto di for-ze intente alla reciproca sopraffazione non poteva riscuotere l’intima ade-sione di chi, come Garin, vedeva allora il senso profondo del movimentoumanistico, e della ricerca filosofica tout court, nell’aspirazione alla conci-liazione universale e al superamento delle lotte e dei contrasti, «nella ce-lebrazione concorde di ciò che nell’uomo è veramente degno». Così scri-veva nel 1942 Garin, non per nulla facendo di Pico (il Pico dell’Oratio,soprattutto) il filosofo più rappresentativo dell’Umanesimo:

all’intendimento pieno del pensiero quattrocentesco nulla ha nuociuto più dellapretesa di separare, di opporre, in un’età che volle, innanzitutto, armonizzare edunire. [...] l’Umanesimo svelava [nella pichiana Oratio de hominis dignitate] tuttoil suo carattere generosamente pratico, sognante una fratellanza degli uomini,una città terrena degna della città celeste. [...] Carmem de pace; il titolo che Picosognava era, forse, più profondo e aderente dell’altro, pur così alto, De hominisdignitate. Ché l’umanità è tale a pieno nell’accordo umano, nella celebrazioneconcorde di ciò che nell’uomo è veramente degno. Lotte e contrasti spengono lospirito, annullano la verità, bestemmiano Dio. L’uomo è uomo quando si senteumano, cioè legato e convivente con gli uomini34.

49) – rispetto a quelle crociane (cfr. infatti ancora la Storia della filosofia, vol. II, DalRinascimento al Risorgimento, pp. 264-266, ad es. a p. 266: «In questa ardente esaltazio-ne della concretezza dell’atto spirituale, in questo disciogliere le solidificazioni del-l’astratto nel crogiuolo vivo del concreto pensiero pensante, in questa sua coscienzaprofonda della vita spirituale, stanno il merito più grande e l’efficacia più profonda dellaspeculazione gentiliana»). E vd. anche quanto Garin scrive di Dilthey ne La filosofiacome sapere storico, p. 65, sottolineando con forza come per lui «le idee sono idee diuomini, che vivono in una situazione in cui le vengono via via elaborando».

33 Cesa, Momenti della formazione di uno storico della filosofia, p. 29 (e pp. 29-30 per ilgiudizio complessivamente negativo del primo Garin sulla figura e l’opera di Machiavelli).

34 E. Garin, Introduzione a Filosofi italiani del Quattrocento, Firenze, Le Monnier,1942, ora in Id., Interpretazioni del Rinascimento, vol. I, pp. 103-159 (donde si cita):108-111 (e pp. 110-112 e 147-151 per l’emblematica ‘centralità’ di Pico nell’Umanesi-

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I due tomi della Filosofia, ripeto, uscirono nel 1947; nello stesso annoGarin pubblicava in Svizzera, in lingua tedesca, il volume Der italienischeHumanismus (scritto nel ’46 e poi edito in Italia nel 1952 col titoloL’Umanesimo italiano), nel quale veniva ribadita senza variazioni sostan-ziali l’interpretazione di Machiavelli e di Guicciardini proposta nella Fi-losofia vallardiana:

La considerazione della storia convince Machiavelli della immutabilità so-stanziale dell’umana natura e delle umane vicende, ove il margine lasciato dallanecessità obbiettiva alla nostra virtù è ben poco [...]. Proprio di qui nasce taloraun’ambivalenza di scelleratezza e virtù, che se non potrà redimersi di fronte allacoscienza morale, si riscatta tuttavia in una fredda e razionale visione dell’essen-za delle cose. Nella quale tutto rientra, anche la religione intesa come fenomenoe avvenimento puramente umano, riassorbito in una visione che prescinde daquanto esorbiti dal necessario, eterno, uniforme accadere. Che era poi, in Ma-chiavelli, un trapassare su un piano metafisico, insinuando in quella che volevaesser mondana e concreta visione del mondo degli uomini la premessa di unaconcezione rigidamente naturalistica della realtà. Come colse sottilmente il Guic-ciardini, innamorato di una aderente fedeltà alla mobile e singolare esperienzaumana. [...] Che fu il segno più alto della sua sapienza civile, rifiuto preciso diogni astrazione filosofica d’intorno al civile mondo degli uomini, avvio consape-vole a una filosofia dell’umano, veramente fedele all’effettualità dei rapportiumani35.

mo). Vd. anche la Storia della filosofia (1945), vol. I, p. 273: «La tendenza del più matu-ro Rinascimento [...] a concepire il tutto come unità esce appunto da questo incentrarsidi ogni problema nel problema dello spirito umano. [...] quest’uomo che in sé avvince epacifica i poli opposti del reale è un uomo in cui vive il divino e che dal divino prendesenso e valore». Importante sotto questo aspetto è inoltre l’Avvertenza che precede lamedesima opera, vol. I, p. 8, dove una frase di Piero Martinetti relativa all’importanza,nello studio delle «particolarità» dei diversi filosofi, di «stabilire chiaramente l’accordosegreto sui punti fondamentali che stanno sotto le loro divergenze» è così commentatada Garin: «Questa profonda armonia che, oltre i tempi, le vicende e i dissidi, pacifica gliuomini di buona volontà che vogliono conoscere se stessi e vivere secondo la raggiuntasaggezza; questa filosofica pace, che è il simbolo dell’unità del vero e dello spirito che locerca, vorrebbe essere la premessa e la conclusione di questo modesto lavoro».

35 Garin, L’Umanesimo italiano, pp. 209-210. Un giudizio analogo su Machiavelli silegge anche nel volume Medioevo e Rinascimento, del 1954 (cito dall’ed. Roma-Bari,Laterza, 1987, p. 181), dove Garin insiste sul «rigorosissimo naturalismo» e sul «deter-minismo inesorabile» di Machiavelli, che testimoniano come alla sua passione politicasia sottesa una «robusta concezione del fondamento ultimo del reale» (e dunque unatendenza, ignota invece a Guicciardini, all’astrazione filosofica).

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A questo volume, Garin assegnò in séguito un valore di spartiacque,vedendolo come la conclusione di una fase ben precisa del suo lavoro36;e in effetti, a partire dagli anni ’50, la prospettiva storiografica di Garin,com’è noto, si modificherà sensibilmente. Per quanto riguarda Machia-velli, in particolare, due furono per lui le letture determinanti: quella deiQuaderni gramsciani e quella degli studi di Gennaro Sasso, a cominciaredalla sua grande monografia Niccolò Machiavelli. Storia del suo pensieropolitico, apparsa in prima edizione nel 1958. Tale mutamento appare giàin atto nel volume La cultura del Rinascimento (uscito dapprima in linguatedesca nel 1964 e quindi in italiano nel 1967) e poi nella ristampa rivistae aggiornata della Filosofia (pubblicata da Einaudi nel 1966 in tre volu-mi, col titolo di Storia della filosofia italiana). Il libro del 1964, in specialmodo, risulta chiaramente influenzato dall’interpretazione gramsciana diMachiavelli, e offre un’immagine del Segretario non più offuscata né dalconfronto con Guicciardini, né da valutazioni limitative (eccezion fattaper il riaffacciarsi fugace della vecchia osservazione in merito alla confu-sione tra virtus e scelus che sembra talora emergere dagli scritti machia-velliani)37: attraverso Gramsci, Garin torna ora a De Sanctis e al giovaneCroce38, recuperando una visione più rigorosamente ‘realistica’ del pen-

36 Vd. la lettera di Garin a Saveria Chemotti del 16 febbraio 1978 (cit. da Ciliberto,Una meditazione sulla condizione umana, p. 656): «In qualche modo, il saggio del ’47 fupoi per me una conclusione – anche la conclusione di un modo di affrontare problemistorici»; e così anche in Garin, Mezzo secolo dopo, p. 151.

37 E. Garin, La cultura del Rinascimento, Milano, Il Saggiatore, 2000 (I ed. Frankfurta.M.-Berlin, Ullstein, 1964; I ed. italiana Bari, Laterza, 1967), p. 88: «il Principe, piutto-sto che incarnazione e simbolo di uno stato espresso dalla volontà comune dei liberi‘cives’, appare col volto dei violenti e sfrenati Signori dei principati italiani» (vd. per unaimmagine analoga il passo del Rinascimento italiano qui sopra cit. a p. 134); e p. 89: «difatto, il significato di ‘scelus’ e di ‘virtus’ in lui, a volte, sembra confondersi».

38 Sull’importanza di Machiavelli (e di Marx) nella formazione culturale del giovaneCroce, Garin ha insistito a più riprese: vd. La cultura italiana tra ’800 e ’900, pp. 130-131, e Cronache di filosofia italiana 1900-1943, 2 voll., Roma-Bari, Laterza, 1975 (1955),vol. I, p. 189 (ibidem, p. 16, anche l’esplicito apprezzamento riservato da Garin – sullascorta di Gramsci, Note sul Machiavelli, pp. 85-86 – a «certe ben note e singolarmentevalide interpretazioni di Machiavelli» del De Sanctis, la cui «finezza profonda di critico»era già stata oggetto di un lusinghiero giudizio nella Filosofia, vol. II, p. 638, contro leparziali riserve del Croce). Lo stesso Garin, Sessanta anni dopo, pp. 143-144, sottolineòil ruolo decisivo svolto nel secondo dopoguerra dagli scritti di Gramsci (la cui influenzasi andò in lui affiancando e progressivamente sostituendo a quella, dominante nei decen-ni precedenti, di Croce e Gentile) sull’evoluzione del suo modo di vedere la storia cul-turale italiana.

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siero politico machiavelliano e liberandosi, così, tanto di ogni residuaipoteca gentiliana, quanto di ogni pregiudiziale etico-religiosa. Machia-velli diventa dunque ora, agli occhi di Garin, un ‘filosofo della prassi’ cheopera una totale umanizzazione e laicizzazione della vita e della politica,guardando ai nuovi ‘tiranni’ come a una «necessità della storia» e facen-do del moderno ‘principe’ il Dio dei tempi nuovi:

c’è nella costruzione del Machiavelli uno sforzo singolare verso una veduta razio-nale della politica e della storia, su cui impiantare tecniche precise di condottaattraverso le quali possa affermarsi la libera iniziativa dell’uomo. C’è di più: alleleggi naturali che regolano i gruppi politici, alle loro esigenze, alle loro vicende,devono essere subordinate tutte le altre norme di condotta. [...] Più che conflittotra morale e politica, fra religione e politica, c’è in Machiavelli la tesi che fonda-mento e fine della condotta dell’uomo associato è il mantenimento e la prosperitàdella ‘res publica’. [...] Con ferrea coerenza Machiavelli trae alle ultime conse-guenze la valorizzazione del mondano e dell’umano, che aveva caratterizzato lanascita della nuova civiltà rinascimentale. Dentro questo orizzonte si collocanotutti i valori; dai cieli essi scendono in terra, commisurati al metro del ‘benecomune’. Egli si rende conto della caduta dell’ordine medievale, della morte deisuoi fondamenti ideali, dei suoi valori – morali e religiosi – che respinge comevuoti di senso. I nuovi, egli li cerca nella natura dell’uomo, nella storia anticaunita a un’esperienza quotidiana, di fronte a cui la sua stessa coscienza pare inor-ridire [...]. Machiavelli, al di là dell’imitazione umanistica delle antiche repubbli-che, guarda ai nuovi ‘tiranni’, coglie l’aspetto positivo della loro attività, e li pre-senta come una necessità della storia39;

39 Garin, La cultura del Rinascimento, pp. 87-90. Pagine da raffrontare con quelle, cele-bri, dei Quaderni gramsciani: vd. Note sul Machiavelli, pp. 3-94 e 117-122, in particolare p.90: «Machiavelli ha scritto dei libri di ‘azione politica immediata’ [...] e ha espresso unaconcezione del mondo originale, che si potrebbe anch’essa chiamare ‘filosofia della prassi’o ‘neo-umanesimo’ in quanto non riconosce elementi trascendenti o immanenti (in sensometafisico), ma si basa tutta sull’azione concreta dell’uomo che per le sue necessità storicheopera e trasforma la realtà», e p. 118: «La conclusione del Principe giustifica tutto il libroanche verso le masse popolari che realmente dimenticano i mezzi impiegati per raggiungereun fine se questo fine è storicamente progressivo, cioè risolve i problemi essenziali dell’epo-ca e stabilisce un ordine in cui sia possibile muoversi, operare, lavorare tranquillamente» (evd. qui anche più avanti, pp. 146-147 e nota 46, per una citazione letterale di Gramsci inun saggio machiavelliano di Garin). Sull’interpretazione gramsciana di Machiavelli cfr.Garin, Gramsci nella cultura italiana, pp. 111-116 (dove fra l’altro si afferma che Gramsci«su Machiavelli [...] è veramente originale e suggestivo»); F. Sanguineti, Gramsci eMachiavelli, Roma-Bari, Laterza, 1982; e da ultimo M. Ciliberto, Rinascimento e Riformanei «Quaderni» di Gramsci (1991), in Id., Figure in chiaroscuro. Filosofia e storiografia nelNovecento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2001, pp. 91-121: 108-113.

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mentre, a fronte del pessimismo e del disincantato realismo del Segreta-rio e del Guicciardini (finalmente non più contrapposti l’uno all’altro)40,Tommaso Moro ed Erasmo gli appaiono eredi di quel tradizionale pen-siero utopistico di matrice platonica tanto caro all’Umanesimo quattro-centesco, ma ormai sostanzialmente antistorico nella lacerata Europa delXVI secolo41.

Se Gramsci (e, tramite lui, De Sanctis) riconducono ora Garin al Ma-chiavelli teorico di una politica realisticamente intesa come affermazionedella libera operosità e dell’impegno ‘civile’ dell’uomo, Gennaro Sasso lospinge d’altro canto a rivalutare appieno il Machiavelli filosofo e pensato-re. Sotto quest’ultimo aspetto basta leggere le prime pagine del saggio(eloquente fin dal titolo) Machiavelli pensatore, del 196942, che si aprecon una chiara dichiarazione programmatica («Conviene dir subito che èprecisa intenzione di queste pagine parlare di Machiavelli filosofo»)43,prende le distanze da quanti continuano a negare al Segretario tale qua-lifica (o cercano di limitarla alla sola scienza politica) e coglie nelle sue

40 «L’uomo, nel gioco delle forze naturali, entro la necessità e le leggi della vitapolitica, nella dinamica delle passioni, nella cruda realtà della sua condizione terrena; glistati nelle loro vicende; la storia nella sua mutevolezza e nelle sue costanti: tutto è ana-lizzato e ritratto con la freddezza dello scienziato e, insieme, con la passione del morali-sta e il cinismo dello spettatore disincantato. Questo è Machiavelli; ma non troppo lon-tano da lui Guicciardini, col suo senso del ‘particulare’ concreto» (Garin, La cultura delRinascimento, pp. 146-147).

41 Ibidem, pp. 91-95.42 «Il veltro», XIII (1969), pp. 729-748; poi – col titolo Aspetti del pensiero di

Machiavelli – in E. Garin, Dal Rinascimento all’Illuminismo. Studi e ricerche, Pisa,Nistri-Lischi, 1970, pp. 43-77 (donde si cita). Sempre nel 1970, il saggio fu nuovamenteedito – col titolo originario – a cura dell’Amministrazione Provinciale di Firenze, informa di volumetto autonomo.

43 Così, solo due anni prima, aveva scritto anche Sasso nella Prefazione ai suoi Studisu Machiavelli, p. 9. Ma in precedenza, e per lungo tempo, Garin non aveva consideratoMachiavelli un vero e proprio ‘filosofo’: nella Storia della filosofia, ad es., ne esaurì latrattazione in un brevissimo paragrafo (vol. I, pp. 287-288), mentre nella Filosofia, comevedremo, sottolineò a più riprese i suoi limiti teorici (senza mai citarlo nell’Introduzionefra i maggiori filosofi italiani e neppure fra i grandi pensatori dell’età sua); e, ripeto,bisogna attendere il 1969 per trovare nella bibliografia gariniana uno studio a lui riserva-to. Del resto, anche Gentile – non diversamente da Croce – scrisse ben poco sul Segre-tario, e nel Pensiero italiano del Rinascimento, a fronte delle molte pagine dedicate aLeonardo, Campanella, Telesio, Bruno e Galileo, spicca l’assenza di un capitolo suMachiavelli, di cui si tocca soltanto per sparsi e fugaci accenni. Per questo vd. qui anchepiù avanti, p. 148.

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grandi opere la presenza di «una concezione dell’uomo e della storia cri-ticamente elaborata attraverso l’uso consapevole di precisi strumenti ra-zionali», ritenendo possibile, per certi aspetti, l’accostamento del pensie-ro machiavelliano a quello di Pietro Pomponazzi44. Sasso («a cui – scriveGarin – tutti siamo debitori di non poche analisi sottili e feconde») èmenzionato fin dalle prime righe, con rinvio alla sua citata monografiadel 1958, all’edizione da lui commentata del Principe (1963) e ai recentiStudi su Machiavelli (1967); e a una delle linee privilegiate degli studimachiavelliani di Sasso si ricollega direttamente e esplicitamente il pro-posito gariniano di indagare le ‘letture’ e la ‘cultura’ del Segretario45, in-sistendo, nel caso specifico, non solo e non tanto sulle fonti e sulle ascen-denze classiche e letterarie, quanto soprattutto su quelle medievali, uma-nistiche e filosofiche, fra le quali un posto di rilievo viene assegnato aldibattito astrologico, all’averroismo e a Leon Battista Alberti (temi, comesi sa, centrali negli studi di Garin). Ed è significativo che il saggio sichiuda nel nome di Gramsci, ribadendo un’interpretazione complessivadi Machiavelli che ricalca quella proposta solo cinque anni prima nell’ap-pena ricordato volume La cultura del Rinascimento:

Di fronte all’interpretazione crociana fondata sulla tesi dell’autonomia dellapolitica, Gramsci, riferendosi al «moderno Principe», ma non a caso ponendolosotto il segno di Machiavelli, dirà che «il Principe prende il posto della divinità odell’imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno e di una com-pleta laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume». Diventa inrealtà il drammatico punto di rottura nei confronti di ogni concezione della vitache non sia disincantata visione terrena, deserta di appelli al trascendente, consa-pevole dei limiti stretti e invalicabili della condizione umana, aspramente polemi-ca contro tutte le retoriche moralistiche, anche se traversata da un’eroica fedeltàal gruppo umano di cui fa parte, alla città, alla ‘patria’. Non, dunque, conflitto odistinzione di politica e morale, di privato e di esterno, ma riconoscimento che,entrate in crisi le antiche fedi e spacciati tutti gli dei, la regola unica della vita non

44 Per quest’ultimo spunto vd. già Gentile, Il pensiero italiano del Rinascimento, p. 188.45 «Per comprendere a fondo una prospettiva del genere non basta ripercorrere l’at-

tività politica del Machiavelli; è necessario avere a un tempo cognizione precisa delle sue‘letture’», in modo da poter condurre «l’esame della cultura di Machiavelli, dei tramitiattraverso cui certe idee gli giunsero, dello sfondo di certi concetti, dei rapporti del suopensiero con quello di contemporanei vicini o avversi, della genesi storica delle nozionichiave»; «una conoscenza più sicura degli interlocutori, ideali o reali, del Segretariofiorentino, nelle sue letture come nei suoi colloqui solitari e no, è premessa indispensa-bile a cogliere il senso della sua meditazione» (Machiavelli pensatore, pp. 49, 50 e 53).

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46 Ibidem, pp. 75-76. Per la citazione gramsciana (già proposta da Garin nel saggioGramsci nella cultura italiana, p. 113) vd. Note sul Machiavelli, p. 8 (e qui sopra, nota 39).

47 Sasso, Niccolò Machiavelli, p. 558. Nella monografia, Garin è citato quindici volte, edi volta in volta Sasso elogia i suoi studi sull’Umanesimo fiorentino, i suoi saggi albertianie la sua interpretazione del Rinascimento come «età splendida, ma infelice» (p. 586, conrinvio alle «fini osservazioni» del volume Medioevo e Rinascimento, del 1954).

48 Sasso, Studi su Machiavelli, p. 164.49 Ibidem, pp. 161-222 (cap. IV, La teoria dell’‘anacyclosis’) e 223-280 (cap. V, Polibio

e Machiavelli: costituzione, potenza, conquista); Sasso, Niccolò Machiavelli, pp. 441-445.Come si vede, il saggio gariniano del 1990 riprende, limitatamente alla sua prima parte,il titolo del cap. V dei sassiani Studi su Machiavelli.

50 Sasso, Studi su Machiavelli, p. 7.

può non scaturire dalla dura esigenza delle città terrene nella loro storica deter-minatezza46.

Per le sue «notevoli osservazioni» sul capitolo secondo del secondolibro dei Discorsi (in relazione a tematiche come l’eternità del mondo e ildestino delle religioni), questo saggio verrà citato ed elogiato da Sassonella seconda edizione della sua monografia (1980)47; d’altronde, lo stes-so Sasso (nei suoi appena menzionati Studi su Machiavelli) aveva additatoi lavori di Garin e di Baron sulla cultura fiorentina del primo ’400 comemodelli da seguire per condurre analoghe e non più rinviabili indaginiintorno alla cultura machiavelliana48. Tutto sotto il segno di Sasso (defini-to «uno dei conoscitori oggi più sottili di Machiavelli») si colloca anche ilsaggio del 1990 su Polibio e Machiavelli, che è fortemente debitore delleriflessioni sassiane in merito alla teoria dell’anakyklosis (recuperata sì dalSegretario, ma, a parere di entrambi, rifiutandone la rigida impostazionemetafisico-naturalistica, in modo da assicurare comunque uno spazio al-l’intervento della virtù umana)49 e che, su questo tema fondamentale, ri-prende e approfondisce spunti già presenti nel Machiavelli pensatore del’69; mentre l’introduzione alle Istorie fiorentine, anch’essa del 1990, eanch’essa inaugurata da ampie citazioni e larghi elogi di Gennaro Sasso,si segnala per l’acuta rivalutazione di quest’opera, condotta – sulla scortadel Renaudet, del Dionisotti delle Machiavellerie (1980) e degli studi delmedesimo Sasso, che l’aveva definita «opera di pensiero»50 – attraversol’insistenza sulla fecondità del nesso vivo di politica e storia, che permet-te a Garin di assegnare valenza positiva a quello che da sempre vieneinvece considerato il lato debole del Machiavelli storico, ossia il prevaleredella passione e della teoria politica sul rigoroso vaglio della documenta-zione e sull’oggettiva ricostruzione storiografica (cosicché le Istorie pos-

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51 E. Garin, Le «Istorie fiorentine», prefazione a N. Machiavelli, Istorie fiorentine,Firenze, Le Monnier, 1990, ripr. anast. dell’ed. Firenze, Le Monnier, 1857, pp. I-XXX; poiin Garin, Machiavelli fra politica e storia, pp. 29-58 (donde si cita): 50.

sono addirittura apparire a Garin, viceversa, «un’opera che si colloca aldi là delle altre per maturità e consapevolezza teorica»)51.

Rispetto al capitolo su Machiavelli e Guicciardini della Filosofia val-lardiana, i tre saggi machiavelliani in questione (usciti, ripeto ancora, fra1969 e 1990) denotano ovviamente una più larga e matura conoscenzadella civiltà rinascimentale, e beneficiano al tempo stesso dei cospicuiprogressi degli studi sul Segretario nel secondo dopoguerra (Garin, oltreai lavori di Sasso, mette ora a frutto e cita in particolare – per ricordaresolo i maggiori – quelli di Felix Gilbert, Roberto Ridolfi, Fredi Chiappel-li, Sergio Bertelli e Carlo Dionisotti). Tuttavia, risulta senza dubbioistruttivo il confronto fra questi saggi e le pagine del 1947, tanto piùacerbe ma al tempo stesso, per certi aspetti, anche più stimolanti; istrut-tivo perché riflette due stagioni molto diverse della critica machiavellianain Italia, quella della prima e quella della seconda metà del XX secolo.Ripercorrendo il panorama degli studi su Machiavelli fino alla secondaguerra mondiale, infatti, se ne ricava l’impressione di una grande vitalità,evidente nella libera convivenza di orientamenti molteplici e talora anti-tetici, in un proliferare (anche disordinato e incontrollato) di interpreta-zioni magari, a volte, superficiali o semplicistiche, ma comunque sempreindicative di un dibattito vivacissimo e spregiudicato; un dibattito nelquale, sulla scia di indagini ‘positivistiche’ come quelle del Tommasini,era possibile senza scandalo parlare degli errori, delle aporie e delle nonvastissime letture di Machiavelli, o – ribaltando senza soggezione il DeSanctis – anteporre ad esso il Guicciardini come più ‘moderno’ e ‘con-creto’, o ancora negargli lo status di vero e proprio filosofo (come, invario modo, facevano ad esempio Tommasini e Gentile, Luigi Malagoli eUgo Spirito, e come – si è visto – aveva fatto in quegli anni lo stessoGarin).

Un quadro quanto mai mosso e aperto, insomma, dove neppure laposizione crociana acquista mai un’autentica egemonia; mentre, nel se-condo dopoguerra, assistiamo a una progressiva ‘monumentalizzazione’di Machiavelli, trasformato in uno dei padri fondatori della Modernità edell’Occidente liberato, e pertanto vestito di tutto punto con gli impecca-bili abiti del grande filosofo, del coltissimo classicista e umanista, dell’in-tegerrimo repubblicano. E di pari passo col diffondersi e l’approfondirsi

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52 Merita un cenno anche la soppressione di una citazione carducciana (Garin, Lafilosofia, vol. II, p. 177: «in un ritmo che sempre si rinnova senza mai mutare, come nelcanto del poeta ove tutto trapassa e nulla muore»; nell’ed. del 1966 scompaiono le paroleda me stampate in corsivo, che parafrasano il v. 94 del Canto dell’amore, ultima poesiadei Giambi ed epodi: «Tutto trapassa e nulla può morir»), dettata verosimilmente dalprecipitare della fortuna del poeta versiliese nel secondo dopoguerra, a causa, com’ènoto, della sua ascrizione da parte della critica marxista a un vieto classicismopedantesco e a una cultura politicamente ‘reazionaria’. Per la conoscenza di Carducci daparte di Garin, si veda il saggio di quest’ultimo Giosue Carducci fra cultura e politica, inCarducci poeta. Atti del Convegno, Pietrasanta e Pisa, 26-28 ottobre 1985, a cura di U.Carpi, Pisa, Giardini, 1987, pp. IX-XXXV, dove egli ricorda (p. IX) di avere «a lungo letto,studiato, usato il Carducci – che in anni amari aveva consentito di dire a scuola, airagazzi di liceo, con le sue parole, quasi tutto quello che si aveva nel cuore»; aggiungen-do poi «che nei suoi versi si erano riconosciuti e ritrovati cultori di filosofia di tuttorispetto, e che proprio il mio indimenticabile maestro all’università di Firenze, LudovicoLimentani scolaro di Roberto Ardigò, aveva pubblicato nel 1902 sulla “Rivista di filoso-fia e scienze affini” un ampio studio sul valore sociale dell’opera poetica carducciana»(poi stampato come opuscolo, Bologna, Zanichelli, 1903).

53 A puro titolo di esempio vd. Russo, Prolegomeni a Machiavelli, pp. 61-62: «lemolte aporie e antinomie vanno risolte e giustificate soltanto col coglierle sul vivo delle

di sottilissime analisi teoriche, scemava lo spazio per il dissenso, cioè perimpostazioni e metodologie diverse: basti pensare alle dure reazioni conle quali alcuni dei machiavellisti allora più affermati, fra gli anni ’70 e ’80,accolsero i primi studi machiavelliani di Mario Martelli (che originalmen-te si riallacciavano alla linea filologico-erudita di Tommasini e Ridolfi,non senza guardare però anche allo storicismo post-crociano di Russo).Eloquente, al riguardo, è già la revisione cui Garin sottopose nel 1966 –prima, cioè, di comporre i suoi tre saggi su Machiavelli – le vecchie pagi-ne del 1947, in occasione della ristampa einaudiana della Filosofia. Al dilà di qualche ritocco stilistico52 e della ricerca di una maggiore precisioneterminologica, si nota infatti la chiara volontà di eliminare o attenuaretutto ciò che avrebbe potuto apparire eccessivamente critico o limitativonei confronti della grandezza speculativa del Segretario fiorentino; percitare solo alcuni tra i molti passi, scompaiono ad esempio frasi di questotenore: «Ma cade qui [cioè a proposito del rapporto fortuna-virtù] lamaggior difficoltà di intender Machiavelli, nell’esporre la quale convienetener conto che egli stesso venne proponendo spesso punti di vista nonorganicamente sistemati» (un’osservazione – questa relativa alla coesi-stenza non pacifica, nelle opere del Segretario, di tesi fra loro difformi etalora contrastanti – reperibile in termini pressoché identici nel Tomma-sini, e variamente ripresa poi da Gentile, Meinecke, Russo e Malagoli)53 ;

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situazioni particolari e degli esempi: dal che risulta l’assurdità di ogni tentativo che vo-glia codificare in un sistema ben squadrato quel pensiero»; e Malagoli, Il Machiavelli e laciviltà del Rinascimento, che parla di «intuizioni folgoranti [...] sparse su un tessutocaotico di ragionamenti e di fatti» (p. 33), di «intima frammentarietà» (p. 106) e – aproposito dei Discorsi – di «asistematicità costante [...] incapace di fermarsi su un con-cetto per svilupparlo sistematicamente» (pp. 114-115, sulla scorta di Meinecke, L’ideadella ragion di stato, p. 35: «egli si precipitava sulla momentanea meta tanto che dimen-ticava talvolta ciò che aveva pensato e detto egli stesso in altro tempo; traeva impavido,e talora quasi con fanatismo, le estreme e talvolta più terribili conseguenze dalle veritàtrovate, né si curava di esaminare poi sempre la loro ripercussione su altre sue convin-zioni»).

54 Garin, Le «Istorie fiorentine», rispettivamente pp. 53 e 34. Si tratta di un motivo chepercorre tuttavia l’intero saggio; vd. ad es. anche pp. 52-53: «In realtà, quello che piùimpressiona è il fondersi della meditazione più profonda con l’appassionamento più com-movente, proprio mentre i concetti della più smagata scienza politica trovano un mezzoespressivo adeguato magari nel discorso al popolo di un popolano ribelle» (allude al di-scorso dell’anonimo ciompo nelle Istorie, III, 13). Anche qui, evidente il debito nei con-fronti di Sasso, che a proposito dei Discorsi aveva scritto: «fra l’invettiva e la teoria, fra lapassione e la ragione non c’è contrasto, c’è accordo»; e «la passione polemica aveva datovita alla teoria, la teoria aveva alimentato la passione» (Niccolò Machiavelli, pp. 450 e 541).

oppure: «Del resto neppure il problema dei rapporti tra politica e moralenoi troviamo da lui posto con chiarezza, irretito com’è nell’ambiguità dicerte tesi». Mentre un periodo come il seguente: «L’anello che costante-mente gli sfuggì fu il passaggio dall’esperienza attuale a quella necessità,per cui venne oscillando fra termini, o equivoci, o giustapposti», vienetagliato nella seconda parte e riformulato nella prima, assumendo questaforma più essenziale e ‘neutra’: «L’anello difficile a cogliersi era il passag-gio dall’esperienza storica a quella necessità».

Ma gli ultimi studi machiavelliani di Garin conservano inoltre un im-portante valore storico e – direi – ‘documentario’, che risiede a mio avvi-so nella persistente fedeltà a un modo di leggere i testi del Rinascimentosempre attento a coglierne le implicazioni attuali e anche ‘personali’. Nelsaggio sulle Istorie fiorentine, ad esempio, quest’opera gli appare caratte-rizzata dalla capacità di Machiavelli di «rivivere nell’ansia e negli affannidel presente il dramma del passato», e viene definita «la conclusioneamara di un’esperienza e di una meditazione politica in cui l’intenderenon si disgiunge mai dalla passione, mentre la passione non solo nonostacola ma anzi aiuta la comprensione più profonda»54. Garin sta par-lando qui di Machiavelli, ma anche di se stesso, giacché, come abbiamovisto, considerazioni non diverse egli proponeva nel rievocare i suoi studigiovanili sull’Umanesimo e sul Rinascimento, scrivendo – ripeto ancora –

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55 Analogamente nell’Avvertenza con cui Garin apre nel 1994 la ristampa dell’Uma-nesimo italiano, p. XVII: «Può darsi che talora certe ipotesi ci prendessero la mano. Mac’era non poco di vero in molte tesi sull’umanesimo civile che fra gli anni Trenta eQuaranta cominciarono ad affacciarsi».

56 Tommasini, La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli, vol. II.1, p. XI.57 Cfr. Garin, Medioevo e Rinascimento, pp. 85-95.58 Cfr. S. Gentile, Eugenio Garin (1909-2004) e Leon Battista Alberti, pp. 12-19; Id.,

Eugenio Garin e Leon Battista Alberti, in questi stessi Atti, pp. 49-74 (e in generaleCiliberto, Una meditazione sulla condizione umana, pp. 688-692, per la visione pessimi-stica del Rinascimento maturata da Garin nell’ultimo periodo della sua attività). Sulrapporto fra i due autori Garin si era soffermato già nell’articolo del 1969 Machiavellipensatore (pp. 67-70), ma insistendo maggiormente, allora, sul più audace e pugnace‘volontarismo’ di Machiavelli, che «all’Alberti, sconsolato fino alla rassegnazione, oppo-ne un’estrema volontà di lotta» (p. 69). Analogamente, ad es., nel volume La cultura delRinascimento, del 1964, si sottolinea come il mondo rinascimentale sia «più spesso tragi-

che «se le passioni del presente pesarono allora forse troppo sulla visionedel passato, è pur vero che giovarono anche a penetrarne elementi primasfuggiti», o che quelle «erano attualizzazioni da correggere, ma senza lequali ben difficilmente avremmo colto il fondo di quei testi, e ritrovato ilsapore di quelle esperienze»55. L’impressione è che, almeno in parte e incerte circostanze, a questo approccio Garin sia rimasto fedele anche inséguito, e fino agli ultimi anni, cercando negli autori del passato – soprat-tutto in alcuni – risposte ai problemi del presente o, meglio, indicazioniutili ad affrontarli nel modo più consapevole; e che, sotto questo aspetto,egli si trovasse singolarmente in sintonia con un autore come Machiavelli,di cui il Tommasini ebbe a dire che «quando discorre di tempi antichi, èquasi sempre la preoccupazione del presente che lo agita, lo spinge e lodomina»56. I due saggi del 1990 sul Segretario, in particolare, si segnala-no per la forte sottolineatura del pessimismo machiavelliano, accostatoora a quello dell’Alberti, di un autore cioè la cui interpretazione, pari-menti, andò progressivamente valorizzando in Garin – come ha sottoline-ato Sebastiano Gentile – non tanto l’aspetto ‘civile’ dei libri della Fami-glia (da lui, come da molti altri, privilegiato in un primo momento),quanto piuttosto quello cupo e inquieto del Momus e delle Intercenales,dominato da una considerazione amaramente sconsolata dell’uomo e delmondo, e per questo ritenuto emblematico di un Umanesimo inteso (findagli anni ’50, per la verità57, ma ora col più netto prevalere delle ombresulle luci) non come una spensierata età dell’oro, ma anzi come un’epocaspesso tragica e crudele, percorsa da un profondo sentimento di preca-rietà e di insicurezza58. Anche l’interpretazione machiavelliana di Garin

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co che lieto, più spesso duro e crudele che pacificato, più spesso enigmatico ed inquietoche limpido ed armonioso» (p. 7), ma nondimeno si ribadisce la sua fondamentale«positività» e la sua efficacia storica nel lungo periodo, affermando che gli effetti delRinascimento «opereranno sempre più in profondità, con ripercussioni sempre più va-ste, ma gradualmente, col passare del tempo» e che gli ideali umanistici «dopo lunghis-sime lotte riusciranno a determinare risultati concreti nella società» (p. 9).

59 Vd. ancora l’Intervista sull’intellettuale, pp. 16 e 110-111.60 Garin, Le «Istorie fiorentine», p. 37.61 Ibidem, p. 33.62 Garin, Polibio e Machiavelli, p. 16.

sembra muoversi lungo un analogo itinerario, abbandonando alla finel’enfasi che nelle pagine degli anni ’50 e ’60 era stata posta sulla fiducianella pur sofferta, aspra e problematica affermazione della libera iniziati-va umana e sulla sua capacità di opporsi alla fortuna modificando il corsodegli eventi.

Questa visione pessimistica, talvolta quasi ‘nichilistica’ dell’uomo edella storia percorre anche gli scritti ‘militanti’ e autobiografici dell’ulti-mo Garin, a cominciare dall’importante Intervista sull’intellettuale(1997); e non dimentichiamo che gli articoli su Machiavelli del 1990 vide-ro la luce a ridosso della caduta del muro di Berlino e della fine del‘socialismo reale’, episodi che da una parte determinarono in Garin l’ac-centuarsi del pessimismo sul futuro delle forze progressiste, ma dall’altralo spinsero (di fronte al de profundis del marxismo da molti prontamenteintonato) a continuare a credere che dovere dell’uomo di cultura restassecomunque quello di lavorare e lottare per un mondo migliore59. Ed ecco,quindi, il tardo Machiavelli che nel Discursus Florentinarum rerum (scrit-to nel 1520-1521), pur dopo il crollo di ogni speranza di ‘rifondazione’,tanto repubblicana quanto principesca, di Firenze, ribadisce preliminar-mente – secondo quanto scrive Garin – «la dignità altissima della attività‘politica’ del cittadino»60; ecco le pagine intense dedicate alle Istorie fio-rentine, ossia all’opera in cui Machiavelli più compiutamente e chiara-mente «caricò» la sua lettura del passato «di tutto quello che aveva den-tro: conclusioni di una meditazione che veniva da lontano, passioni tra-boccanti, sogni, illusioni»61; ed ecco, soprattutto, la chiusa del saggioPolibio e Machiavelli, dove sembra chiara l’applicazione a Machiavelli –un Machiavelli segnato dalla «drammatica antinomia fra corso immutabi-le della storia ed esortazione a utilizzare la conoscenza delle antiche sto-rie per imprimere un andamento più ragionevole al governo delle repub-bliche»62 – della notissima formula gramsciana («pessimismo dell’intelli-

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genza» versus «ottimismo della volontà») che lo stesso Garin fa propriapiù volte al cadere del XX secolo:

Ciò [vale a dire la sostanziale immutabilità e immodificabilità della storiaumana] non toglie, sia ben chiaro, che Machiavelli, nell’orizzonte delle salite edelle discese, continui a sperare, a battersi, a sognare, a disegnare utopie, scriven-do con i Discorsi il Principe63. Solo che, tornando a leggere ancora una voltaquello splendido libro che sono i Discorsi, non sono riuscito a non pensare allepagine notturne di Leon Battista Alberti, a quelle pagine che una storiografia pergente a modo dimentica o falsifica – e alle riflessioni politiche del Momus. Così iDiscorsi, con le loro punte crudeli, con la loro tragica difesa della necessità poli-tica di ammazzare, con quel Mosè «forzato [...] ad ammazzare infiniti uomini»per ben governare, non riescono a nascondere una disperazione, a proposito del-l’uomo e del suo destino, che, forse, è proprio ciò che segna più chiaramente ladistanza di Machiavelli dai suoi modelli antichi64.

Né sembri forzata la connessione tra saggi come questo e la situazionestorica contemporanea, giacché proprio in apertura del contributo suPolibio e Machiavelli abbiamo visto Garin soffermarsi a lungo sulla ten-denza, maturata in lui e in altri studiosi negli anni ’30 e ’40, a creare un«appassionato rapporto» fra presente e passato, scoprendo in quest’ulti-mo «risonanze etiche e politiche attuali». Nella fedeltà a questo atteggia-mento – evidente, ad esempio, anche in certe pagine su Pico scritte neglianni ’80-’9065 – si rivela il mai interrotto legame di Garin sia con la tem-

63 Qui si avverte l’eco della tesi di Sasso, Studi su Machiavelli, p. 37, secondo cui «iDiscorsi nascono dalla meditazione della decadenza, il Principe nasce dalla volontà diriscattarla»; e forse anche di quella di Gramsci (Note sul Machiavelli, p. 37, cit. dallostesso Garin in Gramsci nella cultura italiana, p. 113): «nei termini di Rousseau il Prin-cipe diventa la volontà generale nel momento del contrasto e dell’autorità, mentre i Di-scorsi rappresentano il momento del consenso» (corsivo dell’autore).

64 Garin, Polibio e Machiavelli, pp. 19-20.65 Vd. ad es. Garin, Sessanta anni dopo, pp. 138-140; Id., Introduzione a G. Pico

della Mirandola, Oratio de hominis dignitate, Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1994, p.XXIII; Id., Prolusione, in Giovanni Pico della Mirandola. Convegno internazionale di studinel cinquecentesimo anniversario della morte (1494-1994), Mirandola, 4-8 ottobre 1994, acura di G. C. Garfagnini, 2 voll., Firenze, Olschki, 1997, vol. I, pp. XLV-LV: XLV e LI («Frail 1936 e il 1942 escono in Italia due edizioni complete e una parziale del testo latinodella Oratio sull’uomo, tutte con traduzione a fronte, due traduzioni inglesi e una tede-sca, per non dire delle edizioni e traduzioni che si affollano negli anni successivi. Equesto dopo un’assenza secolare. È difficile non ricordare che sono gli anni del trionfan-te razzismo nazista e fascista, della seconda guerra mondiale e delle sue conseguenze.Sarà stata un’illusione di spiriti ingenui, come dicono avvertiti critici d’oggi. Allora colpì

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perie storico-culturale fra le due guerre (l’epoca in cui egli si formò comeuomo e come intellettuale), sia con l’immediato secondo dopoguerra (lastagione probabilmente più felice dei suoi studi, quando l’entusiasmo delmondo nuovamente libero sembrò riflettersi nella sua visione del Rinasci-mento come crogiuolo tormentato ma vitale di una politica e di unascienza finalmente e pienamente ‘umane’)66. Come Garin scrisse nel1959, infatti, «è la vita d’oggi con i suoi problemi che alimenta e dà ner-bo all’indagine del passato quale ricerca delle radici più o meno lontanedella nostra condizione [...]: perché il processo di liberazione dalle con-dizioni del presente sia possibile, dobbiamo cogliere tutte le più segretestrutture del passato»67. Ciò può talora determinare in alcuni di noi, for-se, un qualche fastidio, dettato dalla legittima esigenza di un’integrale epiù rigorosa storicizzazione del passato, sottratta alle ingerenze ideologi-che, alle ‘simpatie’ personali, ai condizionamenti dell’attualità e dell’au-tobiografia; e questo anche perché ‘attualizzazioni’ come quelle di Garin,

quell’impetuosa difesa dell’uomo come punto di assoluta libertà, quella volontà di paceuniversale, quella fede nei valori della cultura, quella sdegnosa condanna di ognimistificazione retorica»). Ma si legga già la chiusa del saggio Le interpretazioni del pen-siero di Giovanni Pico, in L’opera e il pensiero di Giovanni Pico della Mirandola nellastoria dell’Umanesimo. Convegno internazionale, Mirandola, 15-18 settembre 1963, 2voll., Firenze, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, 1965, vol. I, pp. 3-31: 30-31;e il passo dell’Introduzione ai Filosofi italiani del Quattrocento qui cit. a p. 141. Sull’ar-gomento cfr. C. Vasoli, Gli studi su Giovanni Pico della Mirandola, in Eugenio Garin. Ilpercorso storiografico di un maestro del Novecento, pp. 65-92: 69 e 81.

66 Come ha scritto Ciliberto, Una meditazione sulla condizione umana, p. 691, Garin«era ben consapevole [...] che è solo la ‘simpatia’ a consentire di penetrare, e di capire,gli autori che si studiano; e che non è possibile riuscire ad attraversare il tempo senzastabilire un circolo vitale tra biografia e storiografia. Perciò ha costantemente sottoline-ato l’importanza della chiave autobiografica nei suoi lavori [...]. Ma proprio perché diquesto era consapevole, ed era perciò pronto a filtrarlo e contenerlo, tanto più colpisco-no, e vanno apprezzate, le assonanze con l’uno e con l’altro [Alberti e Pomponazzi]intorno al problema – quello della ‘condizione umana’ (per usare l’espressione diMontaigne) – su cui Garin si è costantemente interrogato dall’inizio alla fine della sualunga meditazione».

67 Garin, La filosofia come sapere storico, p. 79 (ma cfr. in generale pp. 78-81, inparticolare ancora a p. 79: «il dire che il fatto, il documento, la lettera muta del libro,rivivono nello storico, ossia nell’atto che li risuscita e li fa parlare, non significa se nonche i segni, i suoni umani, le opere, parlano agli uomini nella misura in cui una comuneumanità unisce l’umanità d’ogni tempo: ossia nella misura in cui l’uomo trova nella ‘me-moria’ degli uomini la traccia della lunga vicenda che l’ha fatto qual è oggi» [corsivodell’autore]).

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raffinate, implicite e sempre sobriamente mantenute tra le righe, possonorisultare oggi, talvolta, difficili da cogliere e dunque più insidiose (soprat-tutto per chi non ben conosca il contesto storico in cui i suoi lavori, divolta in volta, affondano le loro radici). Tuttavia, credo che a questo pro-posito dovremmo anche noi esercitare nei nostri studi, accanto al-l’«ottimismo della volontà», il «pessimismo dell’intelligenza», aspirandocioè da una parte al massimo della filologica oggettività, ma dall’altra noncoltivando l’illusione di poterci interamente sottrarre all’assedio del pre-sente e alle proiezioni del nostro io: sia perché – come diceva Garin – lepassioni dell’hic et nunc possono entro certi limiti aiutarci a comprenderemeglio la storia (ed «è la vita d’oggi con i suoi problemi che alimenta e dànerbo all’indagine del passato»)68, sia perché, non potendo mai lo storicoevitare del tutto di «sporcarsi le mani» (l’espressione è ancora garinia-na)69, è sempre meglio farlo con piena consapevolezza e con limpida one-stà intellettuale. D’altronde, e Garin lo sapeva benissimo, i suoi amatiumanisti non si comportavano diversamente, quando inseguivano – sonoancora parole sue – «le loro utopie e i loro sogni [...] nel ritrovato Plato-ne come in Tucidide e in Polibio», quando «un dotto si alzava dalla let-tura di Sallustio per andare a pugnalare un tiranno», e quando il cancel-liere Leonardo Bruni «andava ricercando i testi di Platone mentre l’urtodelle lotte cittadine sembrava scuotere le mura dei palazzi solenni»70.

68 Ibidem, p. 79.69 E. Garin, La cultura e la scuola nella società italiana (discorso letto al Teatro Valle

di Roma il 3 giugno 1960 e pubblicato a Torino da Einaudi nello stesso anno), cit. da U.Dotti, Eugenio Garin e la sua figura d’intellettuale, in Eugenio Garin. Il percorsostoriografico di un maestro del Novecento, pp. 53-64: 59 (e vd. anche il passo lì cit. a p.56: «fare cultura è sempre una battaglia morale e politica, una battaglia che non si puòcombattere, per riprendere l’immagine di Omero, dall’alto delle mura»; parole che tor-nano identiche nell’Intervista sull’intellettuale, p. 34). Vd. inoltre G. Oldrini, Garin e iproblemi della filosofia italiana dell’Ottocento, pp. 115-134: 115-116.

70 Le tre citazioni, nell’ordine, da Garin, Polibio e Machiavelli, p. 8; Il Rinascimentoitaliano, p. 44; La cultura del Rinascimento, p. 9.

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